I. Passato e Presente

Indice
I Passato e Presente
[Esperienze civili e morali] (Q. 15)
Per compilare questa rubrica (Q. 3)
Per la compilazione esatta (Q. 3)
Un pensiero del Guicciardini (Q. 6) 5
[Critica del passato] (Q. 1)
Le grandi idee (Q. 8)
Perché gli uomini sono irrequieti? (Q. 14)
Del sognare ad occhi aperti e del fantasticare (Q. 9)
La tendenza a diminuire l'avversario (Q. 16)
Ottimismo e pessimismo (Q. 9)
[Caratteri nazionali] (Q. 14)
Caratteri italiani (Q. 6)
[Apoliticismo] (Q. 14)
Tra gli altri elementi (Q. 9)
[Popolarità politica di D'Annunzio] (Q. 9)
La politica di D'Annunzio (Q. 6)
[«Sovversivo»] (Q. 3)
[Borbonici] (Q. 7)
Etica e politica (Q. 6)
I morti di fame e la malavita professionale (Q. 3)
[Sciocchi e bricconi] (Q. 14)
[«Meriti» delle classi dirigenti] (Q. 15)
Eppure il fatto che lo Stato-governo (Q. 15)
Un giudizio su Paolo Boselli (Q. 8)
Franco Ciarlantini nel 1929 (Q. 6) 25
[La retorica e lo spirito di lotta] (Q. 17)
Parlamento italiano (Q. 8)
Chiarezza del mandato e mandato imperativo (Q. 7)
[«La morale dei re»] (Q. 14)
[Concezioni monarchiche] (Q. 17)
L'errore degli antiprotezionisti di sinistra (Q. 8)
[Potenza e livello di vita materiale del popolo] (Q. 6)
[Esercito nazionale e apoliticità] (Q. 6)
Giolitti (Q. 8)
Giolitti e Croce (Q. 6)
L'utopia crociana (Q. 6)
[«Il mondo va verso...»] (Q. 15)
[«Bellettristica storica»] (Q. 6)
Influsso popolare del romanticismo francese d'appendice (Q. 3)
L'influsso intellettuale della Francia (Q. 3)
Ci siamo veramente liberati (Q. 3)
Cultura storica italiana e francese (Q. 3)
Francia-Italia (Q. 8)
'Neil'Histoire d'un crime (Q. 5)
[«Ondata di materialismo» e «crisi di autorità»] (Q. 3)
La paura del kerenskismo (Q. 8)
Avvenimenti del giugno 1914 (Q. 8)
Millenovecentoquindici (Q. 8)
II patto di Londra (Q. 8)
Cadorna (Q. 2)
La politica di Luigi Cadorna (Q. 8)
Avvenimenti del 1917 (Q. 8)
[Giolittismo e nittismo] (Q. l)
G. B. Angioletti (Q. 4)
Epilogo primo (Q. 15)
[Interventisti e socialisti] (Q. 3)
Italo Toscani (Q. 3)
[Gli avvenimenti del 1919 a Milano] (Q. 15)
Spontaneità e direzione consapevole (Q. 3)
La favola del castoro (Q. 3)
Agitazione e propaganda (Q. 3)
Contro il bizantinismo (Q. 9)
Cavalieri azzurri (o principi azzurri), calabroni e scarafaggi stercoràri (Q. 16)
La debolezza teorica (Q. 3)
Centralismo organico e centralismo democratico.
Disciplina (Q. 14)
Continuità e tradizione (Q. 6)
Grande ambizione e piccole ambizioni (Q. 6)
Stato e partiti (Q. 7)
[Farmacia di provincia] (Q. 9)
La logica di Don Ferrante (Q. 14)
[Dirigere e organizzare] (Q. 14)
Élite e decimo sommerso (Q. 9)
[Manifestazioni di settarismo] (Q. 15)
Passaggio dalla guerra manovrata (e dall'attacco frontale)
alla guerra di posizione anche nel campo politico (Q. 6)
Una resistenza che si prolunga (Q. 6)
Politica e arte militare (Q. 6)
[Il transfuga] (Q. 14)
II proverbio: «fratelli, coltelli» (Q. 14)
Economismo, sindacalismo, svalutazione di ogni movimento culturale ecc. (Q. 9)
[Lingua cinese] (Q. 15)
Nel secondo volume delle sue Memorie (Q. 9)
Sindacato e corporazione (Q. 15)
[Il lavoratore collettivo] (Q. 9)
Società politica e civile (Q. 6)
[La «filosofia dell'epoca»] (Q. 7)
Un dialogo (Q. 9)
L'on. De Vecchi (Q. 7)
[La marcia su Roma] (Q. 6)
Storia dei 45 cavalieri ungheresi (Q. 15)
[La burocrazia] (Q. 9)
Lo Stato e i funzionari (Q. 6)
Millenovecentoventidue (Q. 1) no Otto Kahn (Q. 3)
Tendenze nell'organizzazione esterna dei fattori umani produttivi nel dopoguerra (Q. 7)
La crisi (Q. 15)
Elementi della crisi economica (Q. 14)
Osservazioni sulla crisi '29-'30? (Q. 6)
[Imposte e assicurazioni] (Q. 14)
Studi sulla struttura economica nazionale (Q. 15)
Nazionalizzazioni (Q. 8)
L'individuo e lo Stato (Q. 6)
[Roma capitale] (Q. 8)
II problema della capitale (Q. 3)
Industriali e agrari (Q. 6)
La borghesia rurale (Q. 7)
La quistione della terra (Q. 7)
Quistioni agrarie (Q. 15)
L'agricoltore è risparmiatore (Q. 8)
Contadini e vita della campagna (Q. 6)
Distribuzione territoriale della popolazione italiana (Q. 5)
II fordismo (Q. 6)
[Costruttori di soffitte] (Q. 8)
[Le ghiande e la quercia] (Q. 9)
[Vecchi e giovani] (Q. 15)
Inchieste sui giovani (Q. 5)
II problema dei giovani (Q. 3)
Nella «Civiltà Cattolica» del 20 maggio 1933 (Q. 15)
La storia maestra della vita, le lezioni dell'esperienza, ecc. (Q-9)
[Crisi della famiglia] (Q. 15)
La scuola (Q. 5)
La scuola professionale (Q. 6)
Governi e livelli culturali nazionali (Q. 6)
Gli intellettuali: la decadenza di Mario Missiroli (Q. 5)
La filosofia di Gentile (Q. 8)
[Gioberti] (Q. 7)
[Un congresso hegeliano] (Q. 17)
«I luoghi comuni a rovescio» (Q. 17)
[Intelligenza a quintali] (Q. 9)
[L'Accademia d'Italia] (Q. 5)
Nella «Nuova Antologia» del 1° novembre 1929 (Q. 5)
II rutto del pievano e altre strapaesanerie (Q. 8)
[Il «nuovo Masticabrodo»] (Q. 8)
Franz Weiss e i suoi proverbi (Q. 9)
Stella Nera (Q. 15)
[Polemiche] (Q. 8)
Quistioni e polemiche personali (Q. 8)
Santi Sparacio (Q. 9)
[Uno Stato federale mediterraneo] (Q. 6)
Arturo Calza (Q. 6)
[Carlo Lovera di Castiglione] (Q. 5)
[Riforma] (Q. 4)
II cattolicismo italiano (Q. 6)
[Irreligiosità] (Q. 6)
[La diffusione del cristianesimo] (Q. 8)
Apologhi. Spunti sulla religione (Q. 8)
I cattolici dopo il Concordato (Q. 6)
[Omaggi] (Q. 5)
I cattolici e lo Stato (Q. 5)
La religione nella scuola (Q. 7)
Gli industriali e le missioni cattoliche (Q. 7)
Cristianesimo primitivo e non primitivo (Q. 5)
Le encicliche papali (Q. 6)
Le prigioni dello Stato pontificio (Q. 9)
La neutralità della Svizzera nel 1934 (Q. 17)
Il governo inglese (Q. 6)
Debiti della Germania e pagamenti all'America (Q. 7)
Inghilterra e Germania (Q. 9)
La Corsica (Q. 6)
La lingua italiana a Malta (Q. 8)
Controllare se l'on. Enrico Mizzi (Q. 8)
Bilancio della guerra (Q. 8)
[La cultura degli ufficiali] (Q. 17)
Da Virgilio Brocchi, Il volo nuziale (Q. 9)
[Servizi di pubblica sicurezza] (Q. 9)
[Ombre] (Q. 3)
[«Chi è»] (Q. 9)
[C'è rivoluzione e rivoluzione] (Q. 5)
[La prigione] (Q. 9)
[Gli inchini del popolano] (Q. 4)
[Tragedia e farsa] (Q. 3)
«Sollecitare i testi» (Q. 6)
Aneddoto di Giustino Fortunato (Q. 9)
[«Bocche senza testa»] (Q. 9)
Phlipot (Q. 8)
[Fertilità] (Q. 9)
[Civiltà] (Q. 17)
[«Matto per decreto»] (Q. 15)
Manzoni dialettico (Q. 8)
Fratate (Q. 14)
La borghesia francese (Q. 8)
Un detto popolare (Q. 6)
[Bricconi ricchi e poveri] (Q. 3)
[Saggezza degli Zulù] (Q. 15)
Note autobiografiche (Q. 15)
Appunti sparsi e note bibliografiche
Alcuni intellettuali (Q. 5)
La riforma Gentile e la religione nelle scuole (Q. 6)
[L'enciclica sull'educazione] (Q. 6)
[La scuola e gli studi] (Q. 6)
II talento (Q. 1)
«Storia e antistoria» (Q. 4)
In mille circostanze (Q. 1)
Costumi italiani nel Settecento (Q. 5)
Una massima di Rivarol (Q. 23)
[Monarchici torinesi] (Q. 6)
[Sui Borboni] (Q. 2)
I primordi del movimento unitario a Trieste (Q. 2)
[«La Voce»] (Q. 5)
[I bollettini di guerra] (Q. 17)
[Vita industriale torinese] (Q. 6)
[Gioacchino Volpe e il fascismo] (Q. 8)
[Istituzioni del regime fascista] (Q. 7)
Michel Mitzakis, Les grands problèmes italiens (Q. 9)
[Storia del nazionalsocialismo] (Q. 15)
La burocrazia (Q. 9)
Provveditorato generale dello Stato (Q. 8)
Gli avvocati in Italia (Q. 8)
Italia meridionale (Q. 6)
II rispetto del patrimonio artistico nazionale (Q. 5)
Emigrazione (Q. 2)
Luigi Orsini, Casa paterna (Q. 9)
La Sardegna (Q. 8)
[Distribuzione dell'industria in Italia] (Q. 17)
L'alimentazione del popolo italiano (Q. 7)
II consumo del sale (Q. 2)
[Sulle condizioni dei contadini] (Q. 9)
[Leone XIII e l'Italia] (Q. 15)
Maggiorino Ferraris e la vita italiana dal 1882 al 1926 (Q. 5)
«Rendre la vie impossible» (Q. 3)
Alessandro Mariani

[Esperienze civili e morali.]

Estrarre da questa rubrica una serie di note che siano del tipo dei Ricordi politici e civili del Guicciardini (tutte le proporzioni rispettate). I «Ricordi» sono tali in quanto riassumono non tanto avvenimenti autobiografici in senso stretto (sebbene anche questi non manchino), quanto «esperienze» civili e morali (morali più nel senso etico-politico) strettamente connesse alla propria vita e ai suoi avvenimenti, considerate nel loro valore universale o nazionale. Per molti rispetti, una tal forma di scrittura può essere più utile che le autobiografie in senso stretto, specialmente se essa si riferisce a processi vitali che sono caratterizzati dal continuo tentativo di superare un modo di vivere e di pensare arretrato, come quello che era proprio di un sardo del principio del secolo per appropriarsi un modo di vivere e di pensare non più regionale e da «villaggio», ma nazionale, e tanto più nazionale (anzi nazionale appunto per ciò) in quanto cercava di inserirsi in modi di vivere e di pensare europei, o almeno il modo nazionale confrontava coi modi europei, le necessità culturali italiane confrontavano con le necessità culturali e le correnti europee (nel modo in cui ciò era possibile e fattibile nelle condizioni personali date, è vero, ma almeno secondo esigenze e bisogni fortemente sentiti in questo senso). Se è vero che una delle necessità più forti della cultura italiana era quella di sprovincializzarsi anche nei centri urbani più avanzati e moderni, tanto più evidente dovrebbe apparire il processo in quanto sperimentato da un «triplice o quadruplice provinciale» come certo era un giovane sardo del principio del secolo.

Per compilare questa rubrica rileggere prima i Ricordi politici e civili di Francesco Guicciardini. Sono ricchissimi di spunti morali sarcastici, ma appropriati. Es.: «Pregate Dio sempre di trovarvi dove si vince, perché vi è data laude di quelle cose ancora di che non avete parte alcuna, come per il contrario chi si trova dove si perde, è imputato di infinite cose delle quali è incurabilissimo».

Ricordare una affermazione di Arturo Labriola (ait latro...) come sia rivoltante moralmente sentire rimproverare le masse dai loro antichi capi che hanno mutato bandiera per aver fatto ciò che questi stessi capi avevano comandato di fare.

Per i Ricordi del Guicciardini vedere l'edizione della società editrice Rinascimento del libro, 1929, con prefazione di Pietro Pancrazi.

Per la compilazione esatta di questa rubrica, per avere degli spunti e per aiuto alla memoria, occorrerà esaminare accuratamente alcune collezioni di riviste: per esempio dell'«Italia che scrive» di Formiggini, che in determinate rubriche dà un quadro del movimento pratico della vita intellettuale — fondazione di nuove riviste, concorsi, associazioni culturali ecc. (Rubrica delle rubriche) —; della «Civiltà Cattolica» per coglierne certi atteggiamenti e per le iniziative e le affermazioni di enti religiosi (per esempio, nel 1920, l'episcopato lombardo si pronunziò sulle crisi economiche, affermando che i capitalisti e non gli operai devono essere i primi a subirne le conseguenze). La «Civiltà Cattolica» pubblica qualche articolo sul marxismo molto interessante e sintomatico.

Un pensiero del Guicciardini:

«Quanto s'ingannano coloro che ad ogni parola allegano e' Romani. Bisognerebbe avere una città condizionata come era la loro, e poi governarsi secondo quello esempio; il quale, a chi ha le qualità disproporzionate, è tanto disproporzionato quanto sarebbe volere che un asino facesse il corso di un cavallo». (È nei Ricordi}; cercare e controllare)1.

[Critica del passato.]

Come e perché il presente sia una critica del passato, oltre che un suo «superamento». Ma il passato è perciò da gettar via? È da gettar via ciò che il presente ha criticato «intrinsecamente» e quella parte di noi stessi che a ciò corrisponde. Cosa significa ciò? Che noi dobbiamo aver coscienza esatta di questa critica reale e darle un'espressione non solo teorica, ma politica. Cioè dobbiamo essere più aderenti al presente, che noi stessi abbiamo contribuito a creare, avendo coscienza del passato e del suo continuarsi (e rivivere).

Le grandi idee.

Le grandi idee e le formule vaghe. Le idee sono grandi in quanto sono attuabili, cioè in quanto rendono chiaro un rapporto reale che è immanente nella situazione e lo rendono chiaro in quanto mostrano concretamente il processo di atti attraverso cui una volontà collettiva organizzata porta alla luce quel rapporto (lo crea) o portatolo alla luce lo distrugge, sostituendolo. I grandi progettisti parolai sono tali appunto perché della «grande idea» lanciata non sanno vedere i vincoli con la realtà concreta, non sanno stabilire il processo reale di attuazione. Lo statista di classe intuisce simultaneamente l'idea e il processo reale di attuazione: compila il progetto e insieme il «regolamento» per l'esecuzione. Il progettista parolaio procede «provando e riprovando»; della sua attività si dice che «fare e disfare è tutto un lavorare». Cosa vuol dire in «idea» che al progetto deve essere connesso un regolamento? Che il progetto deve essere capito da ogni elemento attivo, in modo che egli vede quale deve essere il suo compito nella sua realizzazione e attuazione; che esso, suggerendo un atto, ne fa prevedere le conseguenze positive e negative, di adesione e di reazione, e contiene in sé le risposte a queste adesioni o reazioni, offre cioè un terreno di organizzazione. È questo un aspetto dell'unità di teoria e di pratica.

Corollario: ogni grande uomo politico non può non essere anche un grande amministratore, ogni grande stratega un grande tattico, ogni grande dottrinario un grande organizzatore. Questo anzi può essere un criterio di valutazione: si giudica il teorico, il facitor di piani, dalle sue qualità di amministratore, e amministrare significa prevedere gli atti e le operazioni fino a quelle «molecolari» (e le più complesse, si capisce) necessarie per realizzare il piano.

Naturalmente, è giusto anche il contrario: da un atto necessario si deve saper risalire al principio corrispondente. Criticamente questo processo è di somma importanza. Si giudica da ciò che si fa, non da quel che si dice. Costituzioni statali, leggi, regolamenti: sono i regolamenti e anzi la loro applicazione (fatta in virtù di circolari) che indicano la reale struttura politica e giuridica di un paese e di uno Stato.

Perché gli uomini sono irrequieti?

Da che viene l'irrequietezza? Perché l'azione è «cieca», perché si fa per fare. Intanto non è vero che irrequieti siano solo gli «attivi» ciecamente: avviene che l'irrequietezza porta all'immobilità: quando gli stimoli all'azione sono molti e contrastanti, l'irrequietezza appunto si fa «immobilità». Si può dire che l'irrequietezza è dovuta al fatto che non c'è identità tra teoria e pratica, ciò che ancora vuol dire che c'è una doppia ipocrisia: cioè si opera mentre nell'o-perare c'è una teoria o giustificazione implicita che non si vuole confessare, e si «confessa» ossia si afferma una teoria che non ha una corrispondenza nella pratica. Questo contrasto tra ciò che si fa e ciò che si dice produce irrequietezza, cioè scontentezza, insoddisfazione. Ma c'è una terza ipocrisia: all'irrequietezza si cerca una causa fittizia, che non giustificando e non spiegando, non permette di vedere quando l'irrequietezza stessa finirà. Ma la questione così posta è semplificata. Nella realtà le cose sono più complesse. Intanto occorre tener conto che nella realtà gli uomini d'azione non coincidono con gli intellettuali e inoltre che esistono i rapporti tra generazioni anziane e giovani. Le responsabilità maggiori in questa situazione sono degli intellettuali e degli intellettuali più anziani. L'ipocrisia maggiore è degli intellettuali e degli intellettuali anziani. Nella lotta dei giovani contro gli anziani, sia pure nelle forme caotiche del caso, c'è il riflesso di questo giudizio di condanna, che è ingiusto solo nella forma. In realtà gli anziani «dirigono» la vita, ma fingono di non dirigere, di lasciare ai giovani la direzione, ma anche la «finzione» ha importanza in queste cose. I giovani vedono che i risultati delle loro azioni sono contrari alle loro aspettative, credono di «dirigere» (o fingono di credere) e diventano tanto più irrequieti e scontenti. Ciò che aggrava la situazione è che si tratta di una crisi di cui si impedisce che gli elementi di risoluzione si sviluppino con la celerità necessaria; chi domina non può risolvere la crisi, ma ha il potere [di impedire] che altri la risolva, cioè ha solo il potere di prolungare la crisi stessa. Candido forse potrebbe dire che ciò è appunto necessario perché gli elementi reali della soluzione si preparino e si sviluppino, dato che la crisi è talmente grave e domanda mezzi così eccezionali, che solo chi ha visto l'inferno può decidersi a impiegarli senza tremare ed esitare.

Del sognare ad occhi aperti e del fantasticare.

Prova di mancanza di carattere e di passività. Si immagina che un fatto sia avvenuto e che il meccanismo della necessità sia stato capovolto. La propria iniziativa è divenuta libera. Tutto è facile. Si può ciò che si vuole, e si vuole tutta una serie di cose di cui presentemente si è privi. È, in fondo, il presente capovolto che si proietta nel futuro. Tutto ciò che è represso si scatena. Occorre invece violentemente attirare l'attenzione nel presente così com'è, se si vuole trasformarlo. Pessimismo dell'intelligenza, ottimismo della volontà.

La tendenza a diminuire l'avversario:

è di per se stessa un documento dell'inferiorità di chi ne è posseduto. Si tende infatti a diminuire rabbiosamente l'avversario per poter credere di esserne sicuramente vittoriosi. In questa tendenza è perciò insito oscuramente un giudizio sulla propria incapacità e debolezza (che si vuol far coraggio), e si potrebbe anche riconoscervi un inizio di autocritica (che si vergogna di se stessa, che ha paura di manifestarsi esplicitamente e con coerenza sistematica). Si crede nella «volontà di credere» come condizione della vittoria, ciò che non sarebbe sbagliato se non fosse concepito meccanicamente e non diventasse un autoinganno (quando contiene una indebita confusione tra massa e capi e abbassa la funzione del capo al livello del più arretrato e incondito gregario: al momento dell'azione il capo può cercare di infondere nei gregari la persuasione che l'avversario sarà certamente vinto, ma egli stesso deve farsi un giudizio esatto e calcolare tutte le possibilità, anche le più pessimistiche). Un elemento di questa tendenza è di natura oppiacea: è infatti proprio dei deboli abbandonarsi alla fantasticheria, sognare ad occhi aperti che i propri desideri sono la realtà, che tutto si svolge secondo i desideri. Perciò si vede da una parte l'incapacità, la stupidaggine, la barbarie, la vigliaccheria, ecc., dall'altra le più alte doti del carattere e dell'intelligenza: la lotta non può essere dubbia e già pare di tenere in pugno la vittoria. Ma la lotta rimane sognata e vinta in sogno. Un altro aspetto di questa tendenza è quello di vedere le cose oleograficamente, nei momenti culminanti di alta epicità. Nella realtà, da dovunque si cominci a operare, le difficoltà appaiono subito gravi perché non si era mai pensato concretamente a esse; e siccome occorre sempre cominciare da piccole cose (per lo più le grandi cose sono un insieme di piccole cose) la «piccola cosa» viene a sdegno; è meglio continuare a sognare e rimandare l'azione al momento della «grande cosa». La funzione di sentinella è gravosa, noiosa, defatigante; perché «sprecare» così la personalità umana e non conservarla per la grande ora dell'eroismo? e così via.

Non si riflette che se l'avversario ti domina e tu lo diminuisci, riconosci di essere dominato da uno che consideri inferiore; ma allora come sarà riuscito a dominarti? Come mai ti ha vinto ed è stato superiore a te proprio in quell'attimo decisivo che doveva dare la misura della tua superiorità e della sua inferiorità? Certo ci sarà stata di mezzo la «coda del diavolo». Ebbene, impara ad avere la coda del diavolo dalla tua parte.

Uno spunto letterario: nel capitolo XIV della seconda parte del Don Chisciotte il cavaliere degli Specchi sostiene di aver vinto don Chisciotte: «Y héchole confesar que es mas hermosa mi Casildea que su Dulcinea; y en solo este vencimiento hago cuenta que he vencido todos los caballeros del mundo, porque el tal Don Quijote que digo los ha vencido a todos; y habiéndole yo vencido a él, su gloria, su fama y su honra, se ha transferido y pasado a mi persona,

Y tanto el vencedor es mas honrado,

Cuanto mas el vencido es reputado;

asì, que ya corren por mi cuenta y son mias las innumerables hazanas del ya refendo Don Quijote».

Ottimismo e pessimismo.

È da osservare che l'ottimismo non è altro, molto spesso, che un modo di difendere la propria pigrizia, le proprie irresponsabilità, la volontà di non far nulla. E anche una forma di fatalismo e di meccanicismo. Si conta sui fattori estranei alla propria volontà e operosità, li si esalta, pare che si bruci di un sacro entusiasmo. E l'entusiasmo non è che esteriore adorazione di feticci. Reazione necessaria, che deve avere per punto di partenza l'intelligenza. Il solo entusiasmo giustificabile è quello che accompagna la volontà intelligente, l'operosità intelligente, la ricchezza inventiva in iniziative concrete che modificano la realtà esistente.

[Caratteri nazionali]

Quando si parla di «caratteri nazionali» occorre ben fissare e definire ciò che s'intende dire. Intanto occorre distinguere tra nazionale e «folcloristico». A quali criteri ricorrere per giungere a tale distinzione? Uno (e forse il più esatto) può esser questo: il folcloristico si avvicina al «provinciale» in tutti i sensi, cioè sia nel senso di «particolaristico», sia nel senso di anacronistico, sia nel senso di proprio a una classe priva di caratteri universali (almeno europei). C'è un folcloristico nella cultura, a cui non si suole badare: per esempio è folcloristico il linguaggio melodrammatico, così com'è tale il complesso di sentimenti e di «pose» snobistiche ispirate dai romanzi d'appendice.

Per esempio, Carolina Invernizio, che ha creato di Firenze un ambiente romanzesco copiato meccanicamente dai romanzi d'appendice francesi che hanno per ambiente Parigi, ha creato determinate tendenze di folclore. Ciò che è stato detto del rapporto Dumas-Nietzsche a proposito delle origini popolaresche del «superuomo»1 dà appunto luogo a motivi di folclore. Se Garibaldi rivivesse oggi, con le sue stravaganze esteriori, ecc., sarebbe più folcloristico che nazionale: perciò oggi a molti la figura di Garibaldi fa sorridere ironicamente, e a torto, perché nel suo tempo Garibaldi, in Italia, non era anacronistico e provinciale, perché tutta l'Italia era anacronistica e provinciale. Si può dunque dire che un carattere è «nazionale» quando è contemporaneo a un livello mondiale (o europeo) determinato di cultura e ha raggiunto (s'intende) questo livello. Era nazionale in questo senso Cavour nella politica liberale. De Sanctis nella critica letteraria (e anche Carducci, ma meno del De Sanctis), Mazzini nella politica democratica; avevano caratteri di folclore spiccato Garibaldi, Vittorio Emanuele II, i Borboni di Napoli, la massa dei rivoluzionari popolari ecc. Nel rapporto Nietzsche-superuomo, D'Annunzio ha caratteri folcloristici spiccati, così Gualino nel campo economico-pratico (più ancora Luca Cortese, che è la caricatura di D'Annunzio e Gualino), così Scarfoglio, sebbene meno di D'Annunzio. D'Annunzio tuttavia meno di altri, per la sua cultura superiore e non legata immediatamente alla mentalità del romanzo d'appendice. Molti individualisti-anarchici popolareschi sembrano proprio balzati fuori da romanzi d'appendice.

Questo provincialismo folcloristico ha altri caratteri in Italia; ad esso è legato ciò che agli stranieri appare essere un istrionismo italiano, una teatralità italiana, qualcosa di filodrammatico, quell'enfasi nel dire anche le cose più comuni, quella forma di chauvinismo culturale che Pascarella ritrae nella Scoperta dell'America, l'ammirazione per il linguaggio da libretto d'opera ecc. ecc.

Caratteri italiani.

Si osserva da alcuni con compiacimento, da altri con sfiducia e pessimismo, che il popolo italiano è «individualista»: alcuni dicono «dannosamente», altri «fortunatamente», ecc. Questo «individualismo», per essere valutato esattamente, dovrebbe essere analizzato, poiché esistono diverse forme di «individualismo», più progressive, meno progressive, corrispondenti a diversi tipi di civiltà e di vita culturale. Individualismo arretrato, corrispondente a una forma di «apoliticismo» che corrisponde oggi all'antico «anazionalismo»: si diceva una volta: «Venga Francia, venga Spagna, purché se magna», come oggi si è indifferenti alla vita statale, alla vita politica dei partiti, ecc.

Ma questo «individualismo» è proprio tale? Non partecipare attivamente alla vita collettiva, cioè alla vita statale (e ciò significa solo non partecipare a questa vita attraverso l'adesione ai partiti politici «regolari»), significa forse non essere «partigiani», non appartenere a nessun gruppo costituito? Significa lo «splendido isolamento» del singolo individuo, che conta solo su se stesso per creare la sua vita economica e morale? Niente affatto. Significa che al partito politico e al sindacato economico «moderni», come cioè sono stati elaborati dallo sviluppo delle forze produttive più progressive, si «preferiscono» forme organizzative di altro tipo, e precisamente del tipo «malavita», quindi, le cricche, le camorre, le mafie, sia popolari, sia legate alle classi alte. Ogni livello o tipo di civiltà ha un suo «individualismo», cioè ha una sua peculiare posizione e attività del singolo individuo nei suoi quadri generali. Questo «individualismo» italiano (che poi è più o meno accentuato e dominante secondo i settori economico-sociali del territorio) è proprio di una fase in cui i bisogni più immediati economici non possono trovare soddisfazione regolare permanentemente (disoccupazione endemica fra i lavoratori rurali e fra i ceti intellettuali piccoli e medi). La ragione di questo stato di cose ha origini storiche lontane, e del mantenersi di tale situazione è responsabile il gruppo dirigente nazionale.

Si pone il problema storico-politico: una tale situazione può essere superata coi metodi dell'accentramento statale (scuola, legislazione, tribunali, polizia) che tenda a livellare la vita secondo un tipo nazionale? cioè per un'azione che scenda dall'alto e che sia risoluta ed energica? Intanto si pone la qui-stione del come formare il gruppo dirigente che esplichi una tale azione: attraverso la concorrenza dei partiti e dei loro programmi economici e politici? attraverso l'azione di un gruppo che eserciti il potere monopolisticamente? Nell'un caso e nell'altro è difficile superare l'ambiente stesso, che si rifletterà nel personale dei partiti, o nella burocrazia al servizio del gruppo monopolistico, poiché se è pensabile la selezione secondo un tipo di pochi dirigenti, è impossibile una tale selezione «preventiva» delle grandi masse di individui che costituiscono tutto l'apparato organizzativo (statale ed egemonico) di un grande paese. Metodo della libertà, ma non inteso in senso «liberale»: la nuova costruzione non può che sorgere dal basso, in quanto tutto uno strato nazionale, il più basso economicamente e culturalmente, partecipi ad un fatto storico radicale che investa tutta la vita del popolo e ponga ognuno, brutalmente, dinanzi alle proprie responsabilità inderogabili.

Il torto storico della classe dirigente è stato quello di aver impedito sistematicamente che un tal fenomeno avvenisse nel periodo del Risorgimento e di aver fatto ragion d'essere della sua continuità storica il mantenimento di una tale situazione cristallizzata, dal Risorgimento in poi.

[Apoliticismo.]

Confrontare le osservazioni sparse su quel carattere del popolo italiano che si può chiamare «apoliticismo». Questo carattere, naturalmente, è delle masse popolari, cioè delle classi subalterne. Negli strati superiori e dominanti vi corrisponde un modo di pensare che si può dire «corporativo», economico, di categoria, e che del resto è stato registrato nella nomenclatura politica italiana col termine di «consorteria», una variazione italiana della «cricca» francese e della camarilla spagnuola, che indicano qualcosa di diverso, di particolaristico si, ma nel senso personale o di gruppo strettamente politico-settario (legato all'attività politica di gruppi militari o di cortigiani), mentre in Italia [il termine indica qualcosa di] più legato a interessi economici (specialmente agrari e regionali). Una varietà di questo «apoliticismo» popolare è il «pressappoco» della fisionomia dei partiti tradizionali, il pressappoco dei programmi e delle ideologie. Perciò anche in Italia c'è stato un «settarismo» particolare, non di tipo giacobino alla francese o alla russa (cioè fanatica intransigenza per principi generali e quindi il partito politico che diventa il centro di tutti gli interessi della vita individuale); il settarismo negli elementi popolari corrisponde allo spirito di consorteria nelle classi dominanti, non si basa su principi, ma su passioni anche basse e ignobili e finisce con l'avvicinarsi al «punto d'onore» della malavita e all'omertà della mafia e della camorra.

Questo apoliticismo, unito alle forme rappresentative (specialmente dei corpi elettivi locali), spiega la deteriorità dei partiti politici, che nacquero tutti sul terreno elettorale (al congresso di Genova la questione fondamentale fu quella elettorale); cioè i partiti non furono una frazione organica delle classi popolari (un'avanguardia, un'elite), ma un insieme di galoppini e maneggioni elettorali, un'accolita di piccoli intellettuali di provincia, che rappresentavano una selezione alla rovescia. Data la miseria generale del paese e la disoccupazione cronica di questi strati, le possibilità economiche che i partiti offrivano erano tutt'altro che disprezzabili. Si è saputo che in qualche posto, circa un decimo degli iscritti ai partiti di sinistra racimolavano una parte dei mezzi per vivere dalle questure, che davano pochi soldi agli informatori data l'abbondanza di essi o li pagavano con permessi per attività marginali da mezzi vagabondi o con l'impunità per guadagni equivoci.

In realtà, per essere di un partito bastavano poche idee vaghe, imprecise, indeterminate, sfumate: ogni selezione era impossibile, ogni meccanismo di selezione mancava e le masse dovevano seguire questi partiti perché altri non ne esistevano.

Tra gli altri elementi

che mostrano manifestamente questo apoliticismo sono da ricordare i tenaci residui di campanilismo e altre tendenze che di solito sono catalogate come manifestazioni di un così detto «spirito rissoso e fazioso» (lotte locali per impedire che le ragazze facciano all'amore con giovanotti «forestieri», cioè anche di paesi vicini, ecc.). Quando si dice che questo primitivismo è stato superato dai progressi della civiltà, occorrerebbe precisare che ciò è avvenuto per il diffondersi di una certa vita politica di partito che allargava gli interessi intellettuali e morali del popolo. Venuta a mancare questa vita, i campanilismi sono rinati, per esempio attraverso lo sport e le gare sportive, in forme spesso selvagge e sanguinose. Accanto al «tifo» sportivo, c'è il «tifo campanilistico» sportivo.

[Popolarità politica di D'Annunzio.]

Come si spiega la relativa popolarità «politica» di Gabriele D'Annunzio? È innegabile che in D'Annunzio sono sempre esistiti alcuni elementi di «popolarismo»: dai suoi discorsi come candidato al Parlamento, dal suo gesto nel Parlamento, nella tragedia La gloria, nel Fuoco (discorso su Venezia e l'artigianato), nel Canto di calendimaggio e giù giù fino alle manifestazioni (alcune almeno) politiche fiumane. Ma non mi pare che siano «concretamente» questi elementi di reale significato politico (vaghi, ma reali) a spiegare questa relativa popolarità. Altri elementi hanno concorso: 1°) l'apoliticità fondamentale del popolo italiano (specialmente della piccola borghesia e dei piccoli intellettuali), apoliticità irrequieta, riottosa, che permetteva ogni avventura, che dava a ogni avventuriero la possibilità di avere un seguito di qualche decina di migliaia di uomini, specialmente se la polizia lasciava fare o si opponeva solo debolmente e senza metodo; 2°) il fatto che non era incarnata nel popolo italiano nessuna tradizione di partito politico di massa, che non esistevano cioè «direttive» storico-politiche di massa orientatrici delle passioni popolari, tradizionalmente forti e dominanti; 3°) la situazione del dopoguerra, in cui tali elementi si presentavano moltiplicati, perché, dopo quattro anni di guerra, decine di migliaia di uomini erano diventati moralmente e socialmente «vagabondi», disancorati, avidi di sensazioni non più imposte dalla disciplina statale, ma liberamente, volontariamente scelte a se stessi; 4°) questioni sessuali, che dopo quattro anni di guerra si capisce essersi riscaldate enormemente: le donne di Fiume attiravano molti (e su questo elemento insiste stranamente anche Nino Daniele nel suo volumetto su D'Annunzio). Questi elementi sembrano inetti solo se non si pensa che i ventimila giovani raccoltisi a Fiume non rappresentavano una massa socialmente e territorialmente omogenea, ma erano «selezionati» da tutta Italia, ed erano delle origini più diverse e disparate; molti erano giovanissimi e non avevano fatto la guerra ma avevano letto la letteratura di guerra e i romanzi di avventura.

Tuttavia, al di sotto di queste motivazioni momentanee e d occasione pare si debba anche porre un motivo più profondo e permanente, legato a un carattere permanente del popolo italiano: l'ammirazione ingenua e fanatica per l'intelligenza come tale, per l'uomo intelligente come tale, che corrisponde al nazionalismo culturale degli italiani, forse unica forma di sciovinismo popolare in Italia. Per apprezzare questo nazionalismo bisogna pensare alla Scoperta dell'America di Pascarella: il Pascarella è P«aedo» di questo nazionalismo e il suo tono canzonatorio è il più degno di tale epopea. Questo sentimento è diversamente forte nelle varie parti d'Italia (è più forte in Sicilia e nel Mezzogiorno), ma è diffuso da per tutto in una certa dose, anche a Milano e a Torino (a Torino certo meno che a Milano e altrove): è più o meno ingenuo, più o meno fanatico, anche più o meno «nazionale» (si ha l'impressione, per esempio, che a Firenze sia più regionale che altrove, e così a Napoli, dove è anche di carattere più spontaneo e popolare in quanto i napoletani credono di essere più intelligenti di tutti come massa e singoli individui; a Torino poche «glorie» letterarie e più tradizione politico-nazionale, per la tradizione ininterrotta di indipendenza e libertà nazionale). D'Annunzio si presentava come la sintesi popolare di tali sentimenti: «apoliticità» fondamentale, nel senso che da lui ci si poteva aspettare tutti i fini immaginabili, dal più sinistro al più destro, e l'essere D'Annunzio ritenuto popolarmente l'uomo più intelligente di Italia.

La politica di D'Annunzio.

Sono interessanti alcune pagine del volume Per l'Italia degli italiani, «Bottega di poesia», Milano, 1923. In un punto, ricorda la sua tragedia La gloria e se ne richiama per la sua politica verso i contadini che devono «regnare» perché sono i «migliori». Concetti politici reali, neanche uno: frasi ed emozioni, ecc.

A proposito delle duemila lire date per gli affamati della carestia del 19211, cerca, in fondo, di farle dimenticare, presentando l'offerta come un tratto di politica «machiavellica»: avrebbe dato per ringraziare di aver liberato il mondo da un'illusione, ecc. Si potrebbe studiare la politica di D'Annunzio come uno dei tanti ripetuti tentativi di letterati (Pascoli, ma forse bisogna risalire a Garibaldi) per promuovere un nazionalsocialismo in Italia (cioè, per condurre le grandi masse all'idea» nazionale o nazionalista-imperialista).

[«Sovversivo».]

Il concetto prettamente italiano di «sovversivo» può essere spiegato così: una posizione negativa e non positiva di classe: il «popolo» sente che ha dei nemici e li individua solo empiricamente nei così detti signori (nel concetto di «signore» c'è molto della vecchia avversione della campagna per la città, e il vestito è un elemento fondamentale di distinzione: c'è anche l'avversione contro la burocrazia, in cui si vede unicamente lo Stato: il contadino — anche il medio proprietario — odia il «funzionario», non lo Stato, che non capisce, e per lui è questo il «signore» anche se economicamente il contadino gli è superiore, onde l'apparente contraddizione per cui per il contadino il signore è spesso un «morto di fame»). Quest'odio «generico» è ancora di tipo «semifeudale», non moderno, e non può essere portato come documento di coscienza di classe: ne è appena il primo barlume, è solo appunto la posizione negativa e polemica elementare: non solo non si ha coscienza esatta della propria personalità storica, ma non si ha neanche coscienza della personalità storica e dei limiti precisi del proprio avversario. (Le classi inferiori, essendo storicamente sulla difensiva, non possono acquistare coscienza di sé che per negazioni, attraverso la coscienza della personalità e dei limiti di classe dell'avversario: ma appunto questo processo e ancora crepuscolare, almeno su scala nazionale).

Un altro elemento per comprendere il concetto di «sovversivo» è quello dello strato noto con l'espressione tipica dei «morti di fame». I «morti di fame» non sono uno strato omogeneo, e si possono commettere gravi errori nella loro identificazione astratta. Nel villaggio e nei piccoli centri urbani di certe regioni agricole esistono due strati distinti di «morti di fame»: uno è quello dei «giornalieri agricoli», l'altro, quello dei piccoli intellettuali. Questi giornalieri non hanno come caratteristica fondamentale la loro situazione economica, ma la loro condizione intellettuale-morale: essi sono ubriaconi, incapaci di laboriosità continuata e senza spirito di risparmio e quindi spesso biologicamente tarati o per denutrizione cronica o per mezza idiozia e scimunitaggine. Il contadino tipico di queste regioni è il piccolo proprietario o il mezzadro primitivo (che paga l'affitto con la metà, il terzo o anche i due terzi del raccolto secondo la fertilità e la posizione del fondo), che possiede qualche strumento di lavoro, il giogo di buoi e la casetta che spesso si è fabbricato egli stesso nelle giornate non lavorative, e che si è procurato il capitale necessario o con qualche anno di emigrazione, o andando a lavorare in «miniera» o con qualche anno di servizio nei carabinieri, ecc., o facendo qualche anno il domestico di un grande proprietario, cioè «industriandosi» e risparmiando. Il «giornaliero», invece, non ha saputo o voluto industriarsi e non possiede nulla, è un «morto di fame», perché il lavoro a giornata è scarso e saltuario: è semimendicante, che vive di ripieghi e rasenta la malavita rurale. Il «morto di fame» piccolo-borghese è originato dalla borghesia rurale: la proprietà si spezzetta in famiglie numerose e finisce con l'essere liquidata, ma gli elementi della classe non vogliono lavorare manualmente: così si forma uno strato famelico di aspiranti a piccoli impieghi municipali, di scrivani, di commissionari, ecc. ecc. Questo strato è un elemento perturbatore nella vita delle campagne, sempre avido di cambiamenti (elezioni ecc.) e dà il «sovversivo» locale, e poiché è abbastanza diffuso, ha una certa importanza: esso si allea specialmente alla borghesia rurale contro i contadini, organizzando ai suoi servizi anche i «giornalieri morti di fame». In ogni regione esistono questi strati, che hanno propaggini anche nelle città, dove confluiscono con la malavita professionale e con la malavita fluttuante. Molti piccoli impiegati delle città derivano socialmente da questi strati e ne conservano la psicologia arrogante del nobile decaduto, del proprietario che è costretto a penare col lavoro. Il «sovversivismo» di questi strati ha due facce: verso sinistra e verso destra, ma il volto sinistro è un mezzo di ricatto: essi vanno sempre a destra nei momenti decisivi e il loro «coraggio» disperato preferisce sempre avere i carabinieri come alleati.

Un altro elemento da esaminare è il così detto «internazionalismo» del popolo italiano. Esso è correlativo al concetto di «sovversivismo». Si tratta in realtà di un vago «cosmopolitismo» legato a elementi storici ben precisabili: al cosmopolitismo e universalismo medioevale e cattolico, che aveva la sua sede in Italia e che si è conservato per l'assenza di una «storia politica e nazionale» italiana. Scarso spirito nazionale e statale in senso moderno. Altrove ho notato che è però esistito ed esiste un particolare sciovinismo italiano, più diffuso di quanto non pare. Le due osservazioni non son contraddittorie: in Italia l'unità politica, territoriale, nazionale ha una scarsa tradizione (o forse nessuna tradizione), perché prima del 1870 l'Italia non è mai stata un corpo unito e anche il nome Italia, che al tempo dei Romani indicava l'Italia meridionale e centrale fino alla Magra e al Rubicone, nel Medioevo perdette terreno di fronte al nome Longobardia (vedere lo studio di C. Cipolla sul nome «Italia», pubblicato negli «Atti dell'Accademia di Torino»). L'Italia ebbe e conservò però una tradizione culturale che non risale all'antichità classica, ma al periodo dal Trecento al Seicento e che fu ricollegata all'età classica dall'Umanesimo e dal Rinascimento. Questa unità culturale fu la base, molto debole invero, del Risorgimento e dell'unità per accentrare intorno alla borghesia gli strati più attivi e intelligenti della popolazione, ed è ancora il sostrato del nazionalismo popolare: per l'assenza in questo sentimento dell'elemento politico-militare e politico-economico, cioè degli elementi che sono alla base della psicologia nazionalista francese o tedesca o americana, avviene che molti così detti «sovversivi» e «internazionalisti» siano «sciovinisti» in questo senso, senza credere di essere in contraddizione.

Ciò che è da notarsi, per capire la virulenza che assume talvolta questo sciovinismo culturale, è questo: che in Italia una maggior fioritura scientifica, artistica, letteraria ha coinciso col periodo di decadenza politica, militare, statale (Cinquecento-Seicento). (Spiegare questo fenomeno: cultura aulica, cortigiana, cioè quando la borghesia dei Comuni [era] in decadenza, e la ricchezza da produttiva era diventata usurarla, con concentrazioni di «lusso», preludio alla completa decadenza economica.)

I concetti di rivoluzionario e di internazionalista, nel senso moderno della parola, sono correlativi al concetto preciso di Stato e di classe: scarsa comprensione dello Stato significa scarsa coscienza di classe (comprensione dello Stato esiste non solo quando lo si difende, ma anche quando lo si attacca per rovesciarlo), quindi, scarsa efficienza dei partiti, ecc. Bande zingaresche, nomadismo politico non sono fatti pericolosi e così non erano pericolosi il sovversivismo e l'internazionalismo italiano. Il «sovversivismo» popolare è correlativo al «sovversivismo» dall'alto, cioè al non essere mai esistito un «dominio della legge», ma solo una politica di arbitrii e di cricca personale o di gruppo.

Tutte queste osservazioni non possono essere, naturalmente, categoriche e assolute: esse servono a tentare di descrivere certi aspetti di una situazione, per valutare meglio l'attività svolta per modificarla (o la non attività, cioè la non comprensione dei propri compiù) e per dare maggior risalto ai gruppi che da questa situazione emergevano per averla capita e modificata nel loro ambito.

[Borbonici.]

Ricordare la pubblicazione di B. Croce sui rapporti tra Maria Sofia e Malatesta (e la precedente pubblicazione nell'«Unità» di Firenze del '14 o del '15). In un articolo di Alberto Consiglio: Giro per l'Aspromonte, nel «Corriere della Sera» del 24 dicembre 1931, è detto: «L'impresa di Fabrizio Ruffo, che aveva radunato questi montanari e li aveva condotti a "mangiare il cuore" dei giacobini napoletani, aveva creato nel reame una fama di lealismo borbonico che i calabresi dividevano equamente coi pescatori di Santa Lucia e coi lazzaroni dei borghi napoletani. Questo mito (!) produsse e alimentò molta parte del banditismo politico del primo decennio unitario, ed era ancor vivo, al principio del secolo, tra gli ultimi e sparuti borbonici. Infatti dicono che da Parigi, ove era in esilio, la regina Maria Sofia inviò a Musolino un po' di danaro perché il bandito tenesse desta nella Calabria la ribellione». (Un giornaletto borbonizzante usci a Napoli fino al 1907 o 1908: Eugenio Guarino pubblicò nel «Viandante» di Monicelli un articolo per la sua scomparsa.)

Etica e politica.

È da notare la virulenza di certe polemiche tra uomini politici per il loro carattere personalistico e moralistico. Se si vuole diminuire o annientare l'influsso politico di una personalità o di un partito, non si tenta di dimostrare che la loro politica è inetta o nociva, ma che determinate persone sono canaglie, ecc., che non c'è «buona fede», che determinate azioni sono «interessate» (in senso personale e privato), ecc. È una prova di elementarietà del senso politico, di livello ancor basso della vita nazionale; è dovuto al fatto che realmente esiste un vasto ceto che «vive» della politica in «malafede», cioè senza avere convinzioni; è legato alla miseria generale, per cui facilmente si crede che un atto politico è dovuto a cause pecuniarie, ecc. «Inetto, ma galantuomo», modi di dire curiosi in politica: si riconosce uno inetto, ma poiché lo si crede «galantuomo» ci si affida a lui; ma «inetto» in politica non corrisponde a «briccone» in morale? È vero che le conseguenze di queste campagne moralistiche lasciano di solito il tempo che trovano, se non sono uno strumento per determinare l'opinione pubblica popolare ad accettare una determinata «liquidazione» politica, o a domandarla, ecc.

I morti di fame e la malavita professionale.

Bohème, scapigliatura, leggera, ecc. Nel libro La scapigliatura milanese (Milano, «Famiglia Meneghina» editrice, 1930, 16°, pp. 267, L. 15,00) Pietro Madini tenta una ricostruzione dell'ambiente generale di questo movimento letterario (antecedenti e derivazioni), compresi i rappresentanti delle scapigliature popolari, come la «compagnia della teppa» (verso il 1817), ritenuta una propaggine un po' guasta della Carboneria, sciolta dall'Austria quando questa cominciò a temere l'azione patriottica del Bichinkommer. La teppa è diventata oggi sinonimo di malavita, anzi di una speciale malavita, ma questa derivazione non è senza significato per comprendere l'atteggiamento della vecchia «compagnia».

Ciò che Victor Hugo nell’Uomo che ride dice delle spavalderie che commettevano i giovani aristocratici inglesi, era una forma di «teppa»; essa ha una traccia da per tutto, in un certo periodo storico (moscardini, Santa Vehme, ecc.), ma si è conservata più a lungo in Italia. Ricordare l'episodio di Terlizzi riportato dal giornale di Rerum Scriptor nel '12 o'13. Anche le così dette «burle» che tanta materia danno ai novellieri del Trecento-Cinquecento rientrano in questo quadro: i giovani di una classe disoccupata economicamente e politicamente diventano «teppisti».

[Sciocchi e bricconi.]

È stato osservato che è preferibile il briccone allo sciocco, perché col briccone si può venire a patti e fargli fare il galantuomo per tornaconto, ma dallo sciocco... sequitur quodlibet. È anche vero che il briccone è preferibile al semibriccone. In realtà, nella vita, non si incontrano mai bricconi dichiarati, tutti d'un pezzo, di carattere, per così dire, ma solo semibricconi, ti vedo e non ti vedo, dalle azioni ambigue, che riuscirebbero sempre a giustificare facendosi applaudire. È da pensare che il briccone sia un'invenzione romantica, oppure sia tale solo quando si incontra con la stupidaggine (ma allora è poco pericoloso, perché si scopre da sé). È da osservare che il briccone vero è superiore al galantuomo; infatti: il briccone può anche essere «galantuomo» (cioè può «fare» il galantuomo), mentre il galantuomo non fa bricconerie in nessun caso e per questo appunto è «galantuomo». Stupido davvero chi si aspetta di aver [a] che fare con bricconi dichiarati, patenti, indiscutibili: invece si ha anche troppo spesso a che fare coi semibricconi, che pertanto sono essi i... veri e unici bricconi, quelli della realtà quotidiana. Per il rapporto «sciocco-briccone» è da ricordare il rapporto «sciocco-intelligente», nel senso che l'intelligente può fingersi sciocco e riuscire a farsi credere tale, ma lo sciocco non può fingersi intelligente e farsi credere tale, a meno che non trovi gente pili sciocca di lui, ciò che non è difficile.

[«Meriti» delle classi dirigenti]

E’ strano come, la identità «Stato-classe» non essendo di facile comprensione, avvenga che un governo (Stato) possa far rifluire sulla classe rappresentata come un merito e una ragione di prestigio l'aver finalmente fatto ciò che da più di cinquant'anni doveva essere fatto, e quindi dovrebbe essere un demerito e una ragione di infamia. Si lascia morire di fame un uomo fino a cinquant'anni; a cinquant'anni ci si accorge di lui. Nella vita individuale ciò sarebbe ragione di una scarica di pedate. Nella vita statale appare un «merito». Non solo, ma il «lavarsi» a cinquant'anni appare superiorità su altri uomini di cinquant'anni che si sono sempre lavati. (Ciò si dice per le bonifiche, i lavori pubblici, le strade, ecc., cioè l'attrezzatura civile generale di un paese: che un paese si dia questa attrezzatura, che altri si sono dati al loro tempo, e conclamato e strombazzato e si dice agli altri: fate altrettanto, se potete. Gli altri non possono, perché l'hanno già fatto al loro tempo e ciò viene presentato come una loro «impotenza»).

Eppure il fatto che lo Stato-governo,

concepito come una forza autonoma, faccia rifluire il suo prestigio sulla classe che ne è il fondamento, è dei più importanti praticamente e teoricamente e merita di essere analizzato in tutta la sua estensione se si vuole avere un concetto più realistico dello Stato stesso. D'altronde, non si tratta di cosa eccezionale o che sia propria di un solo tipo di Stato: pare si possa far rientrare nella funzione delle élites o avanguardie, quindi dei partiti, in confronto alla classe che rappresentano. Questa classe, spesso, come fatto economico (e tale è essenzialmente ogni classe) non godrebbe di nessun prestigio intellettuale e morale, cioè sarebbe incapace di esercitare un'egemonia, quindi di fondare uno Stato. Perciò la funzione delle monarchie anche nell'epoca moderna, e perciò specialmente il fatto, verificatosi specialmente in Inghilterra e in Germania, che il personale dirigente della classe borghese organizzata in Stato sia costituito di elementi delle vecchie classi feudali spossessate nel predominio economico tradizionale (Junker e Lords), ma che hanno trovato nell'industria e nella banca nuove forme di potenza economica, pur non volendosi fondere con la borghesia e rimanendo uniti al loro gruppo sociale tradizionale.

Un giudizio su Paolo Boselli.

Nella commemorazione di Paolo Boselli scritta in «Gerarchia» (marzo 1932) da Filippo Caparelli è contenuto questo spunto: «Sembra forse un po' strano che in quegli anni (del Risorgimento), così pieni di mirabili vicende, egli non pensasse ad attingere ad altre fonti che pur si presentavano copiose e degnissime, e cioè al diretto contatto con la vita, questi generosi entusiasmi. Invece, non bisogna allarmarsi (sic) perché questo era il suo temperamento (!) e la sua inclinazione (!) lo portava più a coltivare gli entusiastici accenti patriottici nelle tranquille contrade letterarie che sui campi sommamente (!) disagevoli dell'azione».

Franco Ciarlantini

nel 1929, (forse in «Augustea») ha domandato agli scrittori italiani se essi pensino che per far valere la cultura italiana nel mondo, convenga piuttosto l'apologia senza riserve o la critica sincera. Problema caratteristico.

[La retorica e lo spirito di lotta.]

Dall'Enciclopedia italiana (articolo «Guerra», p. 79): «Troppi scrittori del Secondo Impero sembrano convinti che la retorica, cui danno facile esca i grandi episodi guerrieri della Rivoluzione e del Primo Impero, basti a tener alto lo spirito militare e che l'alto spirito militare basti da solo a neutralizzare l'altrui eventuale superiorità tecnica».

Questa affermazione se è giusta nella critica militare, è ancora più perentoria nella critica dell'azione politica. Forse in un solo aspetto dell'azione politica, e cioè in quello elettoralistico nei regimi ultrademocratici liberali, può esser vero che la retorica e «l'alto spirito» di lotta (cartacea) possono sostituire la preordinazione tecnica minuziosa e organica e dare quindi «strepitose» vittorie. Questo giudizio può essere trasferito nella serie di note «Machiavelli» nella parte in cui si analizzano i diversi momenti di una situazione e specialmente nel momento più immediato in cui ogni situazione culmina e si risolve effettivamente, cioè diventa storia.

Parlamento italiano.

Vedere per quale preciso movimento politico si interpretò lo Statuto in modo da allargare la funzione e le attribuzioni del Parlamento. In realtà, la formazione di un governo che emanava dal Parlamento, si costituiva in gabinetto con un proprio presidente, ecc., è pratica che si inizia fin dai primi tempi dell'era costituzionale, è il modo «autentico» di interpretare lo Statuto. Solo più tardi, per dare una soddisfazione ai democratici, fu data a questa interpretazione una tendenziosità di sinistra (forse le discussioni politiche al tempo del proclama di Moncalieri possono servire per provare la giustezza di questa analisi). Per iniziativa della Destra si giunge a una contrapposizione della lettera dello Statuto a quella che ne era sempre stata la pratica normale e indiscussa (articolo di Sonnino, Torniamo allo Statuto nella «Nuova Antologia» del 1° gennaio 1897, e la data è da ritenere, perché prelude al conato reazionario del '98) e questa iniziativa segna una data perché rappresenta il manifesto della formazione consortesca che si va organizzando, che per circa venti anni non riesce mai a prendere e mantenere il potere stabilmente, ma che ha una parte fondamentale nel governo «reale» del paese. Si può dire che a mano a mano che illanguidisce la tendenza per domandare una costituente democratica, una revisione dello Statuto in senso radicale, si rafforza la tendenza «costituentesca» alla rovescia, che dando un'interpretazione restrittiva dello Statuto, minaccia un colpo di Stato reazionario.

Chiarezza del mandato e mandato imperativo.

Nelle elezioni italiane nessuna chiarezza nel mandato, perché non esistevano partiti definiti intorno a programmi definiti. Il governo [era] sempre di coalizione, e di coalizione sul terreno strettamente parlamentare, quindi spesso tra partiti lontani uno dall'altro: conservatori con radicali, mentre i liberali democratici [erano] fuori del governo, ecc. Le elezioni erano fatte su quistioni molto generiche, perché i deputati rappresentavano posizioni personali e locali, non posizioni di partiti nazionali.

Ogni elezione sembrava essere quella per una costituente e nello stesso tempo sembrava essere quella per un club di cacciatori. Lo strano è che tutto ciò pareva essere il massimo della democrazia.

[«La morale dei re».]

Ricordare il saggio pubblicato da Gino Doria (nella «Nuova Italia» del 1930) in cui si sostiene che la morale e i comportamenti dei re sono unicamente in rapporto agli interessi della dinastia, ed in funzione di questa debbono essere giudicati. Il Doria è napoletano ed è da notare come i teorici più ortodossi della monarchia siano sempre stati napoletani (De Meis, per esempio). Il Doria scrisse il saggio in occasione del così detto anno carlalbertino, quando si ridiscusse la figura di Carlo Alberto ecc., ma forse le sue intenzioni erano più estensive e comprensive. Ma cosa significa la formula del Doria? Non è poi essa una vacua generalità? E corrisponde alla propaganda che è stata fatta per rafforzare l'istituto monarchico e che ha creato l'«ortodossia»? La tesi del Doria è un riflesso della tesi del Maur-ras, che poi dipende dalla concezione dello «Stato patrimoniale».

[Concezioni monarchiche.]

Sarebbe interessante un confronto tra le concezioni monarchiche militanti proprie dell'Italia meridionale e di quella settentrionale. Per il Mezzogiorno si può risalire allo scritto di C. De Meis sul Sovrano, fino al saggio di Gino Doria pubblicato nella «Nuova Italia» qualche anno fa. Per il Settentrione le teoriche di Giuseppe Brunati, dei giornali «Il Sabaudo» e «La Monarchia». È certo che solo per l'Italia meridionale si può parlare di una ortodossia assoluta e conseguente. Nel Settentrione l'istituto della monarchia è sempre stato connesso a una ideologia generale di cui la monarchia dovrebbe essere lo strumento. In questo senso il monarchismo settentrionale può riallacciarsi al Gioberti.

L'errore degli antiprotezionisti di sinistra (scrittori della «Voce», «Unità», sindacalisti, ecc.).

Essi impostavano le quistioni come quistioni di principio (scientifico), come scelta di un indirizzo generale della politica statale e anzi nazionale dei governi. Dividevano gli industriali liberisti da quelli protezionisti, ecc., invitando a scegliere tra queste due categorie. Ma si essi attraverso le banche e tendevano sempre più a connettersi attraverso i gruppi finanziari e i cartelli industriali? Occorreva quindi, se si voleva creare una forza politica «liberista» efficiente, non proporsi fini irraggiungibili, quali questo di dividere il campo industriale e dare a una parte di esso l'egemonia sulle masse popolari (specialmente sui contadini), ma tendere a creare un blocco fra le classi popolari, con l'egemonia di quella più avanzata storicamente. (Libro di Rerum Scriptor su Tendenze vecchie e necessità nuove del movimento operaio italiano potrebbe essere recensito in tal senso). Infatti Rerum Scriptor e soci ottennero lo scopo meschino di deviare il rancore contadino contro gruppi sociali «innocenti» relativamente, ecc.

[Potenza e livello di vita materiale del popolo.]

Dovrebbe essere una massima di governo cercare di elevare il livello della vita materiale del popolo oltre un certo livello. In questo indirizzo non è da ricercare uno speciale motivo «umanitario» e neppure una tendenza «democratica»: anche il governo più oligarchico e reazionario dovrebbe riconoscere la validità «obbiettiva» di questa massima, cioè il suo valore essenzialmente politico (universale nella sfera della politica, nell'arte di conservare e accrescere la potenza dello Stato). Ogni governo non può prescindere dall'ipotesi di una crisi economica e specialmente non può prescindere dall'ipotesi di essere costretto a fare una guerra, cioè a dover superare la massima crisi cui può essere sottoposta una compagine statale e sociale. E poiché ogni crisi significa un arretramento del tenore di vita popolare, è evidente che occorre la preesistenza di una zona di arretramento sufficiente perché la resistenza «biologica», e quindi psicologica del popolo non crolli al primo urto con la nuova realtà. Il grado di potenza reale di uno Stato deve essere pertanto misurato anche alla stregua di questo elemento, che è poi coordinato agli altri elementi di giudizio sulla solidità strutturale di un paese. Se infatti le classi dominanti di una nazione non sono riuscite a superare la fase economica-corporativa che le porta a sfruttare le masse popolari fino all'estremo consentito dalle condizioni di forza, cioè a ridurle solo alla vegetatività biologica, è evidente che non si può parlare di potenza dello Stato, ma solo di mascheratura di potenza. Mi pare sia importante in questo esame di un punto essenziale di arte politica evitare sistematicamente ogni accenno extrapolitico (in senso tecnico, cioè fuori della sfera tecnicamente politica), cioè umanitario, o di una determinata ideologia politica (non perché l’«umanitarismo» non sia anch'esso una politica ecc.). Per questo paragrafo è indispensabile ricorrere all'articolo del prof. Mario Camis pubblicato nel fascicolo gennaio-febbraio della «Riforma Sociale» del 1926.

[Esercito nazionale e apoliticità.]

Aldo Valori nel «Corriere della Sera» del 17 novembre 1931, pubblica un articolo, (L'esercito di una volta) sul libro di Emilio De Bono Nell'esercito nostro prima della guerra (Mondadori, 1931) che dev'essere interessante, e riporta questo brano: «si leggeva poco, poco i giornali, poco i romanzi, poco il "Giornale Ufficiale" e le circolari di servizio... Nessuno si occupava di politica. Io, per esempio, mi ricordo di non aver mai badato alle crisi ministeriali, di aver saputo per puro caso il nome del presidente del Consiglio... Ci interessavano i periodi elettorali perché davano diritto a dodici giorni di licenza per andare a votare. L'ottanta per cento però si godeva la licenza e non guardava le urne neppure in fotografia». E il Valori osserva: «Può parere un'esagerazione, e invece non è. Astenersi dalla politica non voleva dire estraniarsi dalla vita della nazione, ma dagli aspetti più bassi della lotta fra partiti. Così comportandosi, l'esercito rimase immune dalla degenerazione di molti altri pubblici istituti e costituì la grande riserva delle forze dell'ordine; il che era il modo più sicuro per giovare, anche politicamente, alla nazione».

Questa situazione, per essere apprezzata, deve essere paragonata alle aspirazioni del Risorgimento per rispetto all'esercito, di cui si può vedere un'espressione nel libro di Giuseppe Cesare Abba dedicato ai soldati, libro divenuto ufficiale, premiato, ecc. L'Abba, con la sua corrente, pensava all'esercito come a un istituto che doveva inserire le forze popolari nella vita nazionale e statale, in quanto l'esercito rappresentava la nazione in armi, la forza materiale su cui poggiava il costituzionalismo e la rappresentanza parlamentare, la forza che doveva impedire i colpi di Stato e le avventure reazionarie: il soldato doveva diventare il soldato-cittadino, e l'obbligo militare non doveva essere concepito come un servizio, ma invece attivamente, come l'esercizio di un diritto, della libertà popolare armata. Utopie, evidentemente, perché, come appare dal libro del De Bono, si ricadde nell'apoliticismo, quindi l'esercito non fu che un nuovo tipo di esercito professionale e non di esercito nazionale, poiché questo e niente altro significa Papoliticismo. Per le «forze dell'ordine» questo stato di cose era l'ideale: quanto meno il popolo partecipava alla vita politica statale, tanto più queste forze erano forze. Ma come giudicare dei partiti che continuavano il Partito d'Azione! E ciò che si dice dell'esercito si può estendere a tutto il personale impiegato dall'apparato statale, burocrazia, magistratura, polizia, ecc. Un'educazione «costituzionale» del popolo non poteva essere fatta dalle forze dell'ordine: essa era compito del Partito d'Azione, che falli completamente ad esso; anzi fu un elemento per rincalzare l'atteggiamento delle forze dell'ordine.

Per ciò che riguarda il De Bono è da osservare che verso il '18-'19 le opinioni del De Bono a proposito dei rapporti tra politica ed esercito non erano precisamente le stesse di ora: le sue note militari nel «Mondo» e una sua pubblicazione di quel tempo, in cui era vivo il ricordo degli insegnamenti dati dalla rotta di Caporetto, sarebbero da rivedere.

Giolitti.

Nella commemorazione di Giolitti (morto il 17 luglio 1928) scritta per il «Journal des Débats», Maurice Pernot dice: «Egli prese come punto di partenza un'idea originale e forse giusta: nel momento in cui in Italia si delineavano due forze nuove, cioè una borghesia intraprendente e una classe operaia organizzata, bisognava sostituire ai vecchi governi di partito un governo di opinione pubblica e far partecipare queste due forze alla vita politica del paese». L'affermazione non è esatta né in generale né in alcuni particolari. Cosa vuol dire «sostituire ai governi di partito un governo di opinione pubblica»? Significa sostituire al governo di «certi» partiti, il governo di «altri» partiti. Nel caso concreto, in Italia, significava distruggere le vecchie consorterie e cricche particolaristiche, che vivevano parassitariamente sulla polizia statale che difendeva i loro privilegi e il loro parassitismo, e determinare una più larga partecipazione di «certe» masse alla vita statale attraverso il Parlamento. Bisognava, per Giolitti, che rappresentava il Nord e l'industria del Nord, spezzare la forza retriva e asfissiante dei proprietari terrieri, per dare alla nuova borghesia più largo spazio nello Stato, e anzi metterla alla direzione dello Stato. Giolitti ottenne questo colle leggi liberali sulla libertà di associazione e di sciopero, ed è da notare come nelle sue Memorie egli insista specialmente sulla miseria dei contadini e sulla grettezza dei proprietari. Ma Giolitti non creò nulla: egli «capì» che occorreva concedere a tempo per evitare guai peggiori e per controllare lo sviluppo politico del paese, e ci riusci. In realtà, Giolitti fu un grande conservatore e un abile reazionario, che impedì la formazione di un'Italia democratica, consolidò la monarchia con tutte le sue prerogative e legò la monarchia più strettamente alla borghesia attraverso il rafforzato potere esecutivo che permetteva di mettere al servizio degli industriali tutte le forze economiche del paese. È Giolitti che ha creato così la struttura contemporanea dello Stato italiano e tutti i suoi successori non hanno fatto altro che continuare l'opera sua, accentuando questo o quell'elemento subordinato.

Che Giolitti abbia screditato il parlamentarismo è vero, ma non proprio nel senso che sostengono molti critici: Giolitti fu antiparlamentarista, e sistematicamente cercò di evitare che il governo diventasse di fatto e di diritto un'espressione dell'assemblea nazionale (che in Italia poi era imbelle per l'esistenza del Senato così come è organizzato); così si spiega che Giolitti fosse l'uomo delle «crisi extraparlamentari». Che il contrasto tra il Parlamento come si pretendeva fosse e come era realmente, cioè poco meno di nulla, abbia screditato il parlamentarismo, era inevitabile avvenisse: ma è la lotta contro il parlamentarismo da parte di Giolitti, e non l'essere egli parlamentarista, che ha screditato il parlamentarismo. (Un gesto «parlamentarista» di Giolitti fu quello fatto col discorso di Cuneo sull'articolo 5 dello Statuto, ma si trattò di una manovra per sgominare gli avversari politici: infatti Giolitti non ne fece nulla quando andò al potere).

Giolitti e Croce.

Si può osservare, e bisognerà documentare cronologicamente, come Giolitti e Croce, uno nell'ordine della politica attuale, l'altro nell'ordine della politica culturale e intellettuale, abbiano commesso gli stessi e precisi errori. L'uno e l'altro non compresero dove andava la corrente storica, e praticamente aiutarono ciò che poi avrebbero voluto evitare e cercarono di combattere. In realtà, come Giolitti non comprese quale mutamento aveva portato nel meccanismo della vita politica italiana l'ingresso delle grandi masse popolari, così Croce non capi, praticamente, quale potente influsso culturale (nel senso di modificare i quadri direttivi intellettuali) avrebbero avuto le passioni immediate di queste masse. Da questo punto di vista è da vedere la collaborazione del Croce alla «Politica» di F. Coppola (anche il De Ruggiero vi collaborò nello stesso periodo): come mai il Croce, che aveva assunto un determinato atteggiamento verso Coppola e C. nel periodo 1914-'15 con gli articoli dell'«Italia Nostra» e della «Critica» (e il Coppola era specialmente preso di mira dalle noterelle di «Italia Nostra» scritte, mi pare, dal De Lollis) potè nel 1919-'20 dare a questo gruppo l'appoggio della sua collaborazione, proprio con articoli in cui il sistema liberale era criticato e limitato? ecc.

L'utopia crociana.

Cfr. la nota in cui si ricorda la collaborazione data dal Croce negli anni '19-'20-'21 (vedere) alla «Politica» del Coppola, in contraddizione con l'atteggiamento che verso Coppola, la sua ideologia e la sua particolare forma mentis, aveva assunto nel '15 l'«Italia Nostra». Da questo si può vedere e giudicare il carattere «utopistico» nel senso che le conseguenze che dipendono dall'atteggiamento del Croce sono contrarie alle sue «intenzioni» quali risultano dall'atteggiamento successivo verso queste conseguenze. Il Croce crede di fare della «scienza pura», della pura «storia», della pura «filosofia», ma in realtà fa dell'«ideologia», offre strumenti pratici di azione a determinati gruppi politici; poi si maraviglia che essi non siano stati «compresi» come «scienza pura», ma «distolti» dal loro fine proprio che era puramente «scientifico». Confrontare per esempio, nel volume Cultura e vita morale i due capitoli: «Fissazione filosofica» a p. 296 e il capitolo «Fatti politici e interpretazioni storiche» a p. 270. A p. 296 il Croce protesta contro il famoso discorso del Gentile tenuto a Palermo nel 1924: «Ma, se in un certo luogo del pianeta che si chiama Terra, i cittadini di uno Stato, che prima avevano l'uso di dibattere i loro affari mercé quei "modi di forza" che sono la critica e l'oratoria e l'associazione e la votazione e altri siffatti, hanno adottato l'altro uso di ricorrere al bastone o al pugnale, e c'è tra essi di coloro che rimpiangono il vecchio costume e si adoperano a far cessare il nuovo che qualificano come selvaggio, quale mai parte adempie il filosofo che, intervenendo nella contesa, sentenzia che ogni forza, e perciò anche quella del bastone e del pugnale, è forza spirituale?» ecc. (la continuazione è interessante e dev'essere citata, se del caso); ma egli stesso a p. 270 aveva scritto: «Fare poesia è un conto e fare a pugni è un altro, mi sembra; e chi non riesce nel primo mestiere, non è detto che non possa riuscire benissimo nel secondo, e nemmeno che la eventuale pioggia di pugni non sia, in certi casi, utilmente e opportunamente somministrata». Così scrisse il Croce nel 1924: è probabile che il Gentile nel '24 abbia proprio voluto filosofare quell"«utilmente e opportunamente», e ai pugni abbia aggiunto il bastone e magari il pugnale. Né il Croce arriverà solo fino ai «pugni» e non oltre (d'altronde, anche coi pugni si ammazza, e c'è anzi una misura di pubblica sicurezza contro i «pugni proibiti»). Il Gentile ha posto in linguaggio «attualistico» la proposizione crociana basata sulla distinzione di logica e di pratica; per il Croce ciò è grossolano, ma intanto così avviene sempre, ed è una bella pretesa quella di volere essere intesi alla perfezione e di giustificarsi per non essere stato compreso. Si può confrontare in altri capitoli ciò che il Croce ha scritto sull'intolleranza, sull'Inquisizione, ecc., e vedere i suoi diversi stati d'animo: dai punti esclamativi, che egli diceva essere anch'essi mezzi da Santa Inquisizione per premere sull'altrui volontà, è dovuto ritornare al bastone e al pugnale che si è visto riapparire dinanzi come mezzi di persuasione della verità.

[«Il mondo va verso...».]

Nella «Critica» del 20 marzo 1933 è contenuta una «Postilla» del Croce: Il mondo va verso... Pare però che il Croce non abbia accennato a tutti gli aspetti della formula che è essenzialmente una formula politica, di azione politica. Riuscire a convincere che il «mondo va verso...» una certa direzione significa niente altro che riuscire a convincere della ineluttabilità della propria azione e ottenere il consenso passivo per la sua esplicazione. Come questa convinzione si formi è certo un argomento interessante: che vi contribuisca la «viltade» e altre forme di bassezza morale è indubbio: ma anche il fatto che tanta «viltade» e tanta bassezza siano diffuse è un fatto politico che andrebbe analizzato e di cui bisognerebbe trovare le origini concrete. Da questa analisi forse scaturirebbe il risultato che lo stesso atteggiamento del Croce verso la vita è una delle origini di questa diffusione. Il non volersi impegnare a fondo, il distinguere tra ciò che deve fare un intellettuale e ciò che il politico (come se l'intellettuale non fosse anche un politico, e non solo un politico dell'... Intellettualità) e in fondo tutta la concezione storica crociana è all'origine di questa diffusione. Si vede che essere partigiano della libertà in astratto non conta nulla, è semplicemente una posizione da uomo di tavolino che studia i fatti del passato, ma non da uomo attuale partecipe della lotta del suo tempo.

Questa formula del «mondo che va» a sinistra o a destra o verso un compromesso, ecc., ha incominciato a diffondersi in Italia nel 1921, ed era un segno evidente della demoralizzazione che conquistava vasti strati della popolazione. Si potrebbe ricostruire questo movimento intellettuale quasi con una data certa. Che la formula in sé non significhi nulla, è vero. Intanto è comoda l'espressione del «mondo» corpulento che va in qualche parte. Si tratta di una «previsione», che non è altro che un giudizio sul presente, interpretato nel modo più facilonesco, per rafforzare un determinato programma d'azione con la suggestione degli imbecilli e dei pavidi. Ma se il compito dell'intellettuale è visto come quello di mediatore tra due estremismi e questo compito di mediazione non è affidato allo sviluppo storico stesso, cosa fa l'intellettuale se non collaborare con l'attore del dramma storico che ha meno scrupoli e meno senso di responsabilità? Questo pare sia stato l'atteggiamento del Croce. Non sarebbe stato più onesto intellettualmente di apparire sulla scena nel vero compito di alleato «con riserve» di una delle due parti, invece che voler apparire come superiore alle miserie passionali delle parti stesse e come incarnazione della «storia»? Come si è notato altre volte, questa «parte» di arbitraria mediazione dialettica ha una lunga e sfortunata storia: Proudhon in Francia, per il quale Napoleone III non nascose le sue simpatie (il libro di Sainte-Beuve)1, Gioberti in Italia, che giustamente può essere assunto a simbolo del disordine intellettuale e politico del 1848, ecc.

Su questo nesso di problemi è da vedere l'articolo di Ugo Spirito nell'«Italia Letteraria» del 13 novembre 1932 (Storicismo rivoluzionario e storicismo antistorico). È notevole il fatto che anche lo Spirito collega l'attuale polemica sullo «storicismo» con la polemica svoltasi nel secolo scorso intorno alla formula che «natura non facit saltus». Ma lo Spirito non sa andare oltre la superficie dei fatti e delle idee e se afferma come l’Anti-Proudhon, che è necessario che i termini dialettici si volgano in tutta la loro potenza e come «estremismi» contrapposti, non sa vedere che la sua posizione stessa è una mediazione o superamento arbitrario, in quanto si basa su ciò che l'antitesi è violentemente soppressa e si pone come antitesi appunto un tentativo di mediazione tutto intellettualistico che è vivo solo nel cervello di pochi intellettuali di non grande statura. Anche lo Spirito è da porre tra i teorici (più o meno inconsci, poiché nei suoi scritti, specialmente in «Critica Fascista», appare la sua preoccupazione di «dare qualcosa perché non si perda tutto»; è da vedere in proposito specialmente un articolo scritto dopo il convegno corporativo di Ferrara e l'esposizione della tesi della «corporazione proprietaria») della «rivoluzione passiva o rivoluzione-restaurazione», e non già, come egli pretenderebbe, fra gli «estremisti» di una qualsiasi dialettica ideale o reale. Se il torto del Croce è di voler apparire diverso da quello che è realmente, lo stesso torto è dello Spirito e del suo gruppo; e in fondo i due torti praticamente si identificano: si tratta di due fratelli siamesi che contendono perché troppo uniti.

[«Bellettristica storica».]

Nella «Critica» del 20 novembre 1930, in una recensione dei Feinde Bismarcks di Otto West-phal, Benedetto Croce scrive che «il motivo del favore che incontrano i volumi» del Ludwig «e i molti altri simili ai suoi, nasce da... un certo indebolimento e infrivolimento mentale, che la guerra ha prodotto nel mondo». Cosa può significare questa affermazione? Ad analizzarla, essa non significa nulla, proprio nulla. Mi pare che il fenomeno possa essere spiegato in modo più realistico: nel dopoguerra è affiorato al mondo della cultura e dell'interesse per la storia uno strato sociale abbastanza importante, del quale gli scrittori tipo Ludwig sono l'espressione letteraria. Il fenomeno Ludwig significa progresso o regresso intellettuale? Mi pare che indichi progresso, purché il giudizio sia inteso esattamente: i lettori attuali della «bellettristica storica» (secondo l'espressione del Croce) corrispondono a quegli elementi sociali che nel passato leggevano i romanzi storici, apprendevano la storia nei romanzi del Dumas, dell'Hugo, ecc. Perciò mi pare che ci sia stato «progresso». Perché si possa parlare di indebolimento mentale e di infrivolimento bisognerebbe che fosse sparita la storia degli storici, ma ciò non è: forse avviene il contrario, che, cioè, anche la storia seria sia oggi più letta, come dimostra, in Italia almeno, il moltiplicarsi delle collezioni storiche (cfr. la collezione Vallecchi e della «Nuova Italia», per esempio). Anche i libri storici del Croce sono oggi più letti di quello che sarebbero stati prima della guerra: c'è oggi più interesse intellettuale per la politica e quindi per la storia negli strati piccolo-borghesi, che immediatamente soddisfano le loro esigenze con la «bellettristica storica». Un fatto però è certo: che cioè nell'organizzazione della cultura, la statura relativa degli «storici seri» è diminuita per l'entrata in campo dei Ludwig e C: il Croce esprime il rammarico per questo fatto, che rappresenta una «crisi d'autorità» nella sfera della scienza e dell'alta cultura. La funzione dei grandi intellettuali, se permane intatta, trova però un ambiente molto più difficile per affermarsi e svilupparsi: il grande intellettuale deve anch'egli tuffarsi nella vita pratica, diventare un organizzatore degli aspetti pratici della cultura, se vuole continuare a dirigere; deve democratizzarsi, essere più attuale: l'uomo del Rinascimento non è più possibile nel mondo moderno, quando alla storia partecipano, attivamente e direttamente, masse umane sempre più ingenti.

In realtà, il fenomeno Ludwig e la «bellettristica storica» non sono novità del dopoguerra: questi fenomeni sono contenuti in nuce nel giornalismo, nel grande giornale popolare: precursori di Ludwig e C. sono gli articolisti di terza pagina, gli scrittori di bozzetti storici, ecc. Il fenomeno è dunque essenzialmente politico, pratico; appartiene a quella serie di movimenti pratici che il Croce abbraccia sotto la rubrica generale di «antistoricismo», che, analizzata da questo punto di vista, si potrebbe definire: — critica dei movimenti pratici che tendono a diventare storia, che non hanno ancora avuto il crisma del successo, che sono ancora episodi staccati e quindi «astratti», irrazionali, del movimento storico, dello sviluppo generale della storia mondiale. Si dimentica spesso (e quando il critico della storia in fieri dimentica questo, significa che egli non è storico, ma uomo politico in atto) che in ogni attimo della storia in fieri c'è lotta tra razionale e irrazionale, inteso per irrazionale ciò che non trionferà in ultima analisi, non diventerà mai storia effettuale, ma che in realtà è razionale anch'esso perché è necessariamente legato al razionale, ne è un momento imprescindibile; che nella storia, se trionfa sempre il generale, anche il «particulare» lotta per imporsi e, in ultima analisi, si impone anch'esso in quanto determina un certo sviluppo del generale e non un altro. Ma nella storia moderna, «particulare» non ha più lo stesso significato che aveva nel Machiavelli e nel Guicciardini, non indica più il mero interesse individuale, perché nella storia moderna l'«individuo» storico-politico non è l'individuo «biologico» ma il gruppo sociale. Solo la lotta, col suo esito, e neanche col suo esito immediato, ma con quello che si manifesta in una permanente vittoria, dirà ciò che è razionale o irrazionale, ciò che è «degno» di vincere perché continua, a suo modo, e supera il passato.

L'atteggiamento pratico del Croce è un elemento per l'analisi e la critica del suo atteggiamento filosofico: ne è anzi l'elemento fondamentale: nel Croce filosofia e «ideologia» finalmente si identificano, anche la filosofia si mostra niente altro che uno «strumento pratico» di organizzazione e di azione: di organizzazione di un partito, anzi di una internazionale di partiti, e di una linea di azione pratica. Il discorso di Croce al congresso di filosofia di Oxford è in realtà un manifesto politico, di una unione internazionale dei grandi intellettuali di ogni nazione, specialmente dell'Europa; e non si può negare che questo possa diventare un partito importante e che può avere una funzione non piccola. Si potrebbe già dire, così all'ingrosso, che già oggi si verifica nel mondo moderno un fenomeno simile a quello del distacco tra «spirituale» e «temporale» nel Medioevo: fenomeno molto più complesso di quello d'allora, di quanto è diventata più complessa la vita moderna. I raggruppamenti sociali regressivi e conservativi si riducono sempre più alla loro fase iniziale economica-corporativa, mentre i raggruppamenti progressivi e innovatori si trovano ancora nella fase iniziale appunto economica-corporativa; gli intellettuali tradizionali, staccandosi dal raggruppamento sociale al quale avevano dato finora la forma più alta e comprensiva e quindi la coscienza più vasta e perfetta dello Stato moderno, in realtà compiono un atto di incalcolabile portata storica: segnano e sanzionano la crisi statale nella sua forma decisiva. Ma questi intellettuali non hanno né l'organizzazione chiesastica, né qualcosa che le rassomigli, e in ciò la crisi moderna è aggravata in confronto alla crisi medioevale che si svolse per parecchi secoli, fino alla Rivoluzione francese, quando il raggruppamento sociale che dopo il Mille fu la forza motrice economica dell'Europa, potè presentarsi come «Stato» integrale con tutte le forze intellettuali e morali necessarie e sufficienti per organizzare una società completa e perfetta. Oggi lo «spirituale» che si stacca dal «temporale» e se ne distingue come a sé stante, è un qualcosa di disorganico, di discentrato, un pulviscolo instabile di grandi personalità culturali «senza papa» e senza territorio. Questo processo di disintegrazione dello Stato moderno è pertanto molto più catastrofico del processo storico medioevale, che era disintegrativo e integrativo nello stesso tempo, dato lo speciale raggruppamento che era il motore del processo storico stesso e dato il tipo di Stato esistito dopo il Mille in Europa, che non conosceva la centralizzazione moderna e si potrebbe chiamare pili «federativo di classi dominanti» che Stato di una sola classe dominante.

È da vedere in quanto «l'attualismo» di Gentile corrisponde alla fase statale positiva, a cui invece fa opposizione il Croce. L'«unità nell'atto» dà la possibilità al Gentile di riconoscere come «storia» ciò che per il Croce è antistoria. Per il Gentile la storia è tutta storia dello Stato; per il Croce è invece «etico-politica», cioè il Croce vuole mantenere una distinzione tra società civile e società politica, tra egemonia e dittatura; i grandi intellettuali esercitano l'egemonia, che presuppone una certa collaborazione, cioè un consenso attivo e volontario (libero), cioè un regime liberale - democratico. Il Gentile pone la fase corporativo-economica come fase etica nell'atto storico: egemonia e dittatura sono indistinguibili, la forza è consenso senz'altro: non si può distinguere la società politica dalla società civile: esiste solo lo Stato e naturalmente lo Stato-governo, ecc.

La stessa posizione contrastante che, nella sfera filosofica, si verifica tra Croce e Gentile, si verifica nel campo dell'economia politica tra Einaudi e i discepoli di Gentile (cfr. la polemica Einaudi-Benini-Spirito in «Nuovi Studi» del 1930); il concetto di cittadino-funzionario dello Stato, proprio dello Spirito, discende direttamente dalla mancata divisione tra società politica e società civile, tra egemonia politica e governo politico-statale, in realtà quindi dalla antistoricità o astoricità della concezione dello Stato che è implicita nella concezione dello Spirito, nonostante le sue affermazioni perentorie e i suoi sbranamenti polemici. Lo Spirito non vuole riconoscere che per il fatto che ogni forma di proprietà è legata allo Stato, anche per gli economisti classici lo Stato interviene in ogni momento nella vita economica, che è un tessuto continuo di passaggi di proprietà. La concezione dello Spirito, concretamente, rappresenta un ritorno alla pura economicità, che egli rimprovera ai suoi contraddittori.

E interessante notare che in questa concezione è contenuto l'«americanismo», poiché l'America non ha ancora superato la fase economica-corporativa, attraversata dagli Europei nel Medioevo, cioè non ha ancora creato una concezione del mondo e un gruppo di grandi intellettuali che dirigano il popolo nell'ambito della società civile: in questo senso è vero che l'America è sotto l'influsso europeo, della storia europea. (Questa quistione della forma-fase statale degli Stati Uniti è molto complessa, ma il nocciolo della quistione mi pare proprio questo).

Influsso popolare del romanticismo francese d'appendice.

Tante volte mi sono riferito a questa «fonte di cultura» per spiegare certe manifestazioni intellettuali subalterne (ricordare l'uomo dei cessi inglesi e carielli meccanici). La tesi potrebbe essere svolta con una certa compiutezza e con riferimenti più larghi. Le «proposizioni» economico-sociali di Eugenio Sue sono legate a certe tendenze del sansimonismo, cui si collegano anche le teorie sullo Stato organico e il positivismo filosofico. Il sansimonismo ha avuto una sua diffusione popolare anche in Italia, direttamente (esistono pubblicazioni in proposito che dovranno essere consultate) e indirettamente attraverso i romanzi popolari che raccoglievano opinioni più o meno legate al sansimonismo, attraverso Louis Blanc, ecc., come i romanzi di Eugenio Sue.

Ciò serve anche a mostrare come la situazione politica e intellettuale del paese era così arretrata che si ponevano gli stessi problemi che nella Francia del '48 e che i rappresentanti di questi problemi erano elementi sociali molto somiglianti a quelli francesi d'allora: bohème, piccoli intellettuali venuti dalla provincia, ecc. (cfr. sempre la Sacra Famiglia nei capitoli Révélation des mystères d'economie politiquè). Il principe Rodolfo è nuovamente assunto a regolatore della società, ma è un principe Rodolfo venuto dal popolo, quindi ancor più romantico (d'altronde non si sa se nel tempo dei tempi non ci sia una casa principesca nel suo pedigree).

L'influsso intellettuale della Francia.

La fortuna incredibile del superficialissimo libro di Leon Daudet su Lo stupido secolo XIX: la formula dello «stupido secolo» è diventata una vera giaculatoria che si ripete a casaccio, senza capirne la portata. Nel sistema ideologico dei monarchici francesi questa formula è comprensibile e giustificata: essi creano o vogliono creare il mito àeìYancien regime (sol nel passato è il vero, sol nel passato è il bello) e programmaticamente deprezzano tutta la «parentesi» tra il 1789 e il domani della Restaurazione: tra l'altro, anche la formazione dell'unità statale italiana. Ma per gli Italiani che significato ha questa formula? Vogliono restaurare le condizioni di prima del Risorgimento? Il secolo XIX è stupido perché esso ha espresso le forze che hanno unificato l'Italia?

Ideologia di sotterfugi: c'è una corrente, molto stupida nelle sue manifestazioni, che realmente cerca di riabilitare gli antichi regimi, specialmente quello borbonico, e ciò proprio con spirito apologetico (parallelamente agli studi storici che cercano di ricostruire obbiettivamente i fatti). Ma in tutte queste espressioni mi pare sia l'imbarazzo di chi vorrebbe avere una tradizione e non può averla (una tradizione rumorosa, come potrebbe essere quella francese di Luigi XIV o di Napoleone) o è costretto a risalire troppi secoli, e nella reale tradizione del paese vede contenuta troppa quantità di argomenti polemici negativi. Appunto per questo la fortuna della frase di Daudet è un tipico esempio di sudditanza alle correnti intellettuali francesi.

La questione, però, ha un aspetto generale molto interessante: quale deve essere l'atteggiamento di un gruppo politico innovatore verso il passato, specialmente verso il passato più prossimo? Naturalmente deve essere un atteggiamento essenzialmente «politico», determinato dalle necessità pratiche, ma la quistione consiste precisamente nella determinazione dei «limiti» di un tale atteggiamento. Una politica realistica non deve solo tener presente il successo immediato (per determinati gruppi politici, però, il successo immediato è tutto: si tratta dei movimenti puramente repressivi, per i quali si tratta specialmente di dare un gran colpo ai nemici immediati, di terrorizzare i gregari di questi e quindi acquistare il respiro necessario per riorganizzare e rafforzare con istituzioni appropriate la macchina repressiva dello Stato), ma anche salvaguardare e creare le condizioni necessarie per l'attività avvenire e tra queste condizioni è l'educazione popolare. Questo è il punto. L'atteggiamento sarà tanto più «imparziale», cioè storicamente «obbiettivo», quanto più elevato sarà il livello culturale e sviluppato lo spirito critico, il senso delle distinzioni. Si condanna in blocco il passato quando non si riesce a differenziarsene, o almeno le differenziazioni sono di carattere secondario e si esauriscono quindi nell'entusiasmo declamatorio. È certo, d'altronde, che nel passato si può trovare tutto quello che si vuole, manipolando le prospettive e l'ordine delle grandezze e dei valori.

Il secolo XIX ha voluto dire nell'ordine politico sistema rappresentativo e parlamentare. È vero che in Italia questo sistema è stato importato meccanicamente? Esso è stato ottenuto con una lotta, alla quale le grandi masse della popolazione non sono state chiamate a partecipare: esso si è adattato a queste condizioni assumendo forme ben specificate, italiane, inconfondibili con quelle degli altri paesi. La tradizione italiana perciò presenta diversi filoni: quello della resistenza accanita, quello della lotta, quello dell'accomodantismo e dello spirito di combinazione (che è la tradizione ufficiale). Ogni gruppo può richiamarsi a uno di questi filoni tradizionali, distinguendo tra fatti reali e ideologie, tra lotte effettive e lotte verbali, ecc. ecc.; può anche sostenere d'iniziare una nuova tradizione, di cui nel passato si trovano solo elementi molecolari, non già organizzati, e mettere in valore questi elementi, che per lo stesso loro carattere non sono compromettenti, cioè non possono dar luogo a una elaborazione ideologica organica che si contrapponga all'attuale, ecc.

Ci siamo veramente liberati o lavoriamo effettivamente per liberarci dall'influsso francese? A me pare, in un certo senso, che l'influsso francese sia andato aumentando in questi ultimi anni e che esso andrà sempre più aumentando. Nell'epoca precedente, l'influsso francese giungeva in Italia disorganicamente come un fermento che metteva in ebollizione una materia ancora amorfa e primitiva: le conseguenze erano, in un certo senso, originali. Anche se la spinta al movimento era esterna, la direzione del movimento era originale, perché risultava da una componente delle forze indigene risvegliate. Ora, invece, si cerca di limitare o addirittura di annullare questo influsso «disorganico», che si esercitava spontaneamente e casualmente; ma l'influsso francese è stato trasportato nel sistema stesso, nel centro delle forze motrici che vorrebbero appunto limitare e annullare. La Francia è diventata un modello negativo, ma siccome questo modello negativo è una mera apparenza, un fantoccio dell'argomentazione polemica, la Francia reale è il modello positivo. La stessa «romanità» in quanto ha qualcosa di efficiente, diventa un modello francese, poiché, come giustamente osserva il Sorel (lettere al Michels pubblicate nei «Nuovi Studi di Politica, Economia e Diritto»), la tradizione statale di Roma si è conservata specialmente nel centralismo monarchico francese e nello spirito nazionale statale del popolo francese. Si potrebbero trovare curiose prove linguistiche di questa imitazione: i marescialli dopo la guerra, il titolo di direttore della Banca d'Italia cambiato in governatore ecc. C'è nella lotta Francia-Italia sottintesa una grande ammirazione per la Francia e per la sua struttura reale, e da questa lotta nasce un influsso reale enormemente più grande di quello del periodo precedente. (Il nazionalismo italiano copiato dal nazionalismo francese, ecc.: era la traccia, ben più importante che il mimetismo democratico, che questo influsso reale era già nato nel periodo precedente).

Cultura storica italiana e francese.

La cultura storica e la cultura generale francese ha potuto svilupparsi e diventare «popo-lare-nazionale» per la stessa complessità e varietà della storia politica francese negli ultimi centocinquant'anni. La tendenza dinastica si è dissolta per il succedersi di tre dinastie antagoniste tra loro in modo radicale: legittimista, liberale-conservatrice, militare-plebiscitaria, e per il succedersi di governi repubblicani, anch'essi differenziati fortemente: il giacobino, il radicale-socialista e l'attuale. E impossibile un'«agiografia» nazionale unilineare: ogni tentativo di questo genere appare subito settario, sforzato, utopistico, antinazionale, perché è costretto a tagliar via o a sottovalutare pagine incancellabili della storia nazionale (vedi l'attuale tendenza Maurras e la misera Storia di Francia del Bainville). Per questa ragione il protagonista della storia francese è diventato l'elemento permanente di queste variazioni politiche, il popolo-nazione; quindi, un tipo di nazionalismo politico e culturale che sfugge ai limiti dei partiti propriamente nazionalistici e che impregna tutta la cultura, quindi una dipendenza e un collegamento stretto tra popolo-nazione e intellettuali.

Niente di simile in Italia, in cui nel passato occorre ricercare col lanternino il sentimento nazionale, facendo distinzioni, interpretando, tacendo, ecc., in cui, se si esalta Ferrucci occorre spiegare Maramaldo, se si esalta Firenze occorre giustificare Clemente VII e il papato, se si esalta Milano e la Lega occorre spiegare Como e le città favorevoli al Barbarossa, se si esalta Venezia occorre spiegare Giulio II, ecc. Il preconcetto che l'Italia sia sempre stata una nazione complica tutta la storia e domanda acrobazie intellettuali antistoriche. Perciò nella storia del secolo XIX non ci poteva essere unità nazionale, mancando l'elemento permanente, il popolo-nazione. La tendenza dinastica, da una parte, doveva prevalere dato l'apporto che le dava l'apparato statale, e le tendenze politiche più opposte non potevano avere un minimo comune di obbiettività: la storia era propaganda politica, tendeva a creare l'unità nazionale, cioè la nazione, dall'esterno contro la tradizione, basandosi sulla letteratura, era un voler essere, non un dover essere, perché esistono già le condizioni di fatto. Per questa loro stessa posizione, gli intellettuali dovevano distinguersi dal popolo, mettersene fuori, creare tra di loro o rafforzare lo spirito di casta, e nel loro fondo diffidare del popolo, sentirlo estraneo, averne paura, perché in realtà [era] qualcosa di sconosciuto, una misteriosa idra dalle innumerevoli teste.

Mi pareva che attualmente ci fosse qualche condizione per superare questo stato di cose, ma essa non è stata sfruttata a dovere e la retorica ha ripreso il sopravvento (l'atteggiamento incerto nell'interpretare Caporetto offre un esempio di questo attuale stato di cose, così la polemica sul Risorgimento e ultimamente sul Concordato). Non bisogna negare che molti passi in avanti sono stati compiuti in tutti i sensi, però: sarebbe un cadere in una retorica opposta. Anzi, specialmente prima della guerra, molti movimenti intellettuali erano rivolti a svecchiare e sretorizzare la cultura e ad avvicinarla al popolo, cioè a nazionalizzarla. (Nazione-popolo e nazione-retorica si potrebbero dire le due tendenze). (Su questo ultimo argomento confrontare Volpe, L'Italia in cammino, dove [sono] molte inesattezze di fatto e di proporzioni e dove si osserva il nascere di una nuova retorica; il libro di Croce, la Storia d'Italia, dove [sono] difetti di altro genere, ma non meno pericolosi, perché la storia viene vanificata nella astrazione dei concetti; e i libri di Prezzolini sulla cultura italiana).

Francia-Italia.

È realmente mai esistita una francofilia in Italia? Ed erano realmente francofili i radicali-massoni del «Secolo», che appunto sono giudicati solitamente come spudoratamente francofili? Penso che, analizzando più profondamente, si può trovare che neanche quella corrente fu francofila in senso proprio. La Francia rappresentò un mito per la democrazia italiana, la trasfigurazione in un modello straniero di ciò che la democrazia italiana non era mai riuscita a fare e non si proponeva di fare concretamente, il senso della propria impotenza e inettitudine nell'ambito proprio nazionale. La Francia era la Rivoluzione francese, e non il regime attuale, era la partecipazione delle masse popolari alla vita politica e statale, era l'esistenza di forti correnti d'opinione, la sprovincializzazione dei partiti, il decoro dell'attività parlamentare, ecc., cose che non esistevano in Italia, che si agognavano, ma per il cui raggiungimento non si sapeva e non si voleva far nulla di preciso, di coordinato, di continuativo: si mostrava al popolo italiano l'esemplare francese, quasi si aspettasse che il popolo italiano facesse da sé, cioè per iniziativa spontanea di massa, ciò che i Francesi avevano raggiunto attraverso una serie di rivoluzioni e di guerre, a costo di torrenti di sangue. Ma non era francofilia nel senso tecnico e politico: anzi c'era, proprio in questi democratici, molta invidia per la Francia e un odio sordo. Francofili sono stati i moderati, che ritenevano un dovere della Francia di aiutare sempre l'Italia come una pupilla e che si sarebbero subordinati alla politica francese: per disillusione si gettarono nelle braccia della Germania.

Nell'Histoire d'un crime,

Victor Hugo scrive: «Ogni uomo di cuore ha due patrie in questo secolo. La Roma di un giorno e Parigi di oggi». Questa patria d'un tempo associata a quella d'oggi presuppone che la Francia sia l'erede di Roma: ecco un'affermazione che non era fatta, e specialmente non è fatta per piacere a molti.

[«Ondata di materialismo» e «crisi di autorità».]

L'aspetto della crisi moderna che viene lamentato come «ondata di materialismo» è collegato con ciò che si chiama «crisi di autorità». Se la classe dominante ha perduto il consenso, cioè non è più «dirigente», ma unicamente «dominante», detentrice della pura forza coercitiva, ciò appunto significa che le grandi masse si sono staccate dalle ideologie tradizionali, non credono più a ciò in cui prima credevano, ecc. La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati. A questo paragrafo devono essere collegate alcune osservazioni fatte sulla così detta «quistione dei giovani», determinata dalla «crisi di autorità» delle vecchie generazioni dirigenti e dal meccanico impedimento, posto a chi potrebbe dirigere, di svolgere la sua missione. Il problema è questo: una rottura così grave tra masse popolari e ideologie dominanti come quella che si è verificata nel dopoguerra, può essere «guarita» col puro esercizio della forza che impedisce a nuove ideologie di imporsi? L'interregno, la crisi di cui si impedisce così la soluzione storicamente normale, si risolverà necessariamente a favore di una restaurazione del vecchio? Dato il carattere delle ideologie, ciò è da escludere, ma non in senso assoluto. Intanto la depressione fisica porterà a lungo andare a uno scetticismo diffuso e nascerà una nuova «combinazione», in cui per esempio il cattoli-cismo diventerà ancora di più gretto gesuitismo, ecc. Anche da questo si può concludere che si formano le condizioni più favorevoli per un'espansione inaudita del materialismo storico. La stessa povertà iniziale che il materialismo storico non può non avere come teoria diffusa di massa, lo renderà più espansivo. La morte delle vecchie ideologie si verifica come scetticismo verso tutte le teorie e le formule generali e applicazioni al puro fatto economico (guadagno ecc.) e alla politica non solo realista di fatto (come è sempre) ma cinica nella sua manifestazione immediata (ricordare la storia del Preludio al Machiavelli1, scritto forse sotto l'influenza del prof. Rensi, che in un certo periodo, nel '21 o '22, esaltò la schiavitù come mezzo moderno di politica economica). Ma questa riduzione all'economia e alla politica significa appunto riduzione delle superstrutture più elevate a quelle più aderenti alla struttura, cioè possibilità e necessità di formazione di una nuova cultura.

La paura del kerenskismo.

È uno dei tratti più rilevanti degli anni del dopoguerra. Corrisponde forse, in una certa misura, alla paura del lafayettismo nel periodo successivo alla Rivoluzione francese. Intorno al kerenskismo si è formato tutto un «mito negativo». Sono state attribuite al Kerenskij tutte le qualità negative, le debolezze, le irrisolutezze, le deficienze di un'intera epoca storica. Non essere il Kerenskij del proprio paese, è divenuta l'ossessione di tutta una serie di capi di governo. Da questa paura sono derivate alcune delle massime politiche del machiavellismo attuale e dei principi critici su cui si svolge la propaganda politica di massa. Ma cosa c'è di reale in questa paura? Non si osserva che uno degli elementi del kerenskismo è appunto questa paura stessa di essere Kerenskij, cioè il fatto che a un indirizzo positivo si sostituisce un indirizzo negativo nella vita politica, si pensa più al «non fare» che al «fare concreto», si è ossessionati dall'avversario che si sente dominare nell'interno stesso della propria personalità. Del resto si è «Kerenskij» non per volontà, così come la volontà non può fare evitare dall'essere Kerenskij. Kerenskij è stato l'espressione di un determinato rapporto di forze politiche, organizzative, militari immediate, che non era stato creato da lui e che egli non riusci a correggere, nonostante i suoi sforzi disperati, tanto disperati e incomposti da dargli l'aspetto di un Arlecchino. Si è preso sul serio il quadro morale e intellettuale di Kerenskij dipinto dai suoi nemici come arma di lotta contro di lui, come mezzo immediato per liquidarlo e isolarlo, e se ne è fatto un uomo di paglia assoluto fuori del tempo e dello spazio, un tipico «ilota» da mostrare agli «spartiati» per educarli. Si potrebbe dimostrare che non è vero che Kerenskij non abbia ricorso alle misure di forza, tutt'altro; ma forse appunto questo suo ricorso alla forza accelerò il processo politico da cui egli fu travolto. In realtà, il Kerenskij ebbe molti successi relativi, e la sua linea politica non era sbagliata in sé; ma ciò contò poco nell'insieme delle forze scatenate intorno a lui, che erano incontrollabili da politici di tipo Kerenskij, cioè dall'insieme delle forze sociali di cui Kerenskij era l'espressione più adeguata.

Avvenimenti del giugno 1914.

Ricordare l'articolo di Rerum Scriptor sulla assenza di programma di tali avvenimenti. È strano che Rerum Scriptor non si sia accorto che quegli avvenimenti avevano un grande valore perché rinnovavano i rapporti tra Nord e Sud, tra le classi urbane settentrionali e le classi rurali meridionali. Se il fatto che dette origine agli avvenimenti si ebbe ad Ancona, bisogna ricordare che l'origine reale fu l'eccidio di Roccagorga, tipicamente «meridionale», e che si trattava di opporsi alla politica tradizionale di Giolitti, ma anche dei governi di tutti gli altri partiti, di passare immediatamente per le armi i contadini meridionali che elevassero anche una protesta pacifica contro il malgoverno e le cattive amministrazioni degli amici di tutti i governi. È anche da ricordare l'aggettivo «ignobile» impiegato da Adolfo Omodeo per qualificare quegli avvenimenti (cfr. «Critica» del 20 gennaio 1932, Momenti della vita di guerra, pp. 29-30). L'Omodeo parla di «Ignazio di Trabia (il secondogenito del principe Pietro)» che come ufficiale di cavalleria nel giugno '14 «dovette caricare per le vie di Roma la folla durante l'ignobile settimana rossa. Ne riportò un disgusto profondo. Scriveva: "E stata un'ora proprio brutta per tutta l'Italia e ce ne dobbiamo tutti rammaricare. Il paese ha dato uno spettacolo addirittura incivile. Non è stato, ecc."». Bisognerebbe mettere a confronto con queste parole del principino di Trabia le deposizioni dei contadini di Roccagorga al processo fatto a Milano contro Mussolini e Scalarmi. Ma è da notare che Adolfo Omodeo, liberale classico, commenta gli avvenimenti originati per la difesa dei contadini meridionali con le parole di un latifondista siciliano, che delle condizioni di abbrutimento dei contadini meridionali è uno degli organizzatori. E per la superficialità di storico e l'incongruenza politica dell'Omodeo occorre confrontare questo atteggiamento con quello che risulta dal libro L'età del Risorgi-mento, dove l'Omodeo mette in luce le avvilenti condizioni del contadiname meridionale come causa di ritardo del Risorgimento italiano.

Millenovecentoquindici.

Per ciò che riguarda il rapporto delle forze al momento dell'entrata in guerra dell'Italia, e per giudicare la capacità politica di Salandra-Sonnino, non bisogna considerare la situazione qual era al 24 maggio, ma qual era quando fu fissata la data del 24 maggio per l'inizio delle ostilità. È evidente che una volta fissata questa data, per trattato, non era pili possibile mutarla perché nel frattempo la situazione sul fronte orientale era mutata. La quistione che si pone è se non convenisse che l'entrata in guerra dell'Italia avesse a coincidere con l'inizio dell'offensiva russa e non calcolare «assolutamente» sulla buona riuscita dell'offensiva stessa. Che Sa-landra metta in vista e insista sul fatto che l'entrata in guerra coincise col rovescio russo, quasi ad affermare che non si andava in soccorso del vincitore, non testimonia di molta serietà politica e di responsabilità storica.

Quistione della dissoluzione dell'impero austro-ungarico. Dalle Memorie del conte Czernin1 apparirebbe che Czernin riteneva che l'esistenza del patto di Londra significava la distruzione della monarchia absburgica, poiché senza Trieste la monarchia non sarebbe più esistita. I tentativi di pace separata da parte dell'Austria (iniziativa di Sisto di Borbone — polemica Cle-menceau-Czernin nei primi mesi del 1918 — dimissioni di Czernin) sarebbero falliti per l'opposizione dell'Italia e per il patto di Londra, nonostante l'austrofilia latente in Francia e Inghilterra (tanto che Czernin scrive che l'Italia aveva «la direzione diplomatica della guerra»). Ma queste affermazioni di Czernin non mutano il giudizio sulla condotta del Sonnino verso il problema dell'Austria, poiché si tratta non di sapere se l'impero absburgico sarebbe «meccanicamente» morto per l'amputazione di Trieste, ma se Sonnino voleva la fine dell'impero absburgico. Intanto è da dubitare che l'impero sarebbe crollato senza Trieste; poteva anche avere un sussulto di energia e dar luogo a una nuova guerra con l'Italia. La posizione di Sonnino è da vedere per riguardo alle quistioni nazionali esistenti in Austria, e quindi come problema politico-militare immediato, come elemento della guerra in atto: una politica di nazionalità (come voleva anche il generale Cadorna) avrebbe accelerato la vittoria italiana determinando il dissolvimento interno dell'esercito austroungarico? Questo è il problema e intorno a esso sono da discutere le responsabilità di Salandra-Sonnino e specialmente di Sonnino.

Il patto di Londra.

L'art. 13 del patto di Londra stabilisce che, nel caso in cui Francia e Inghilterra avessero aumentato i loro domini coloniali a spese della Germania, questi due paesi avrebbero riconosciuto come principio che l'Italia avrebbe potuto esigere compensi equi, specialmente nel regolamento delle quistioni concernenti le frontiere delle colonie, ecc. L'imprecisione e l'ambiguità della formulazione sono connesse al carattere del patto, per cui l'Italia si impegnava a dichiarare guerra all'Austria e non alla Germania. Questo elemento rimane il fattore centrale della politica estera e di alleanze dell'Italia in quel periodo. Perché si prese questa decisione e come si sapeva dell'atteggiamento che avrebbe preso la Germania? cioè, che la Germania non avrebbe, essa, dichiarato guerra all'Italia? Problemi che rimangono ancora insoluti. Elementi per risolverli: 1) il documento Cadorna che Salandra scrive di non aver conosciuto; 2) atteggiamento Salandra-Sonnino per cui essi non si associano Giolitti, ma pretendono di «fare la storia» da soli, cioè a beneficio del loro partito, senza però riuscire a dominare le forze politiche dominanti del paese; 3) atteggiamento Giolitti nel 1918-'19, cioè movimenti di Giolitti per una costituente, o almeno per [una] limitazione del potere esecutivo, da cui parrebbe che non sono stati mantenuti dei patti o delle promesse fatte a Giolitti dietro le spalle di Salan-dra e Sonnino.

Cadorna.

Spectator (Mario Missiroli), Luigi Cadorna, «Nuova Antologia» del 1° marzo 1929. Osservazioni brillanti, ma superficiali, sulla tradizione politico-militare della famiglia Cadorna e sulle condizioni di crisi dell'esercito italiano nel periodo in cui Luigi iniziò e compi la sua carriera. Importanza del generale napoletano Pianell nell'infondere uno spirito nuovo nel nuovo esercito nazionale, contro la tradizione burocraticamente francese dello stato maggiore piemontese, composto di elementi mediocri: ma Pianell [era] vecchio, e la sua eredità [è stata] più di critica che di costruzione. Importanza della guerra del '70 nel mutare le idee sull'arte militare, fossilizzate sulla base della tradizione francese. Cadorna collabora con Pianell. Si «fossilizza» sull'aspetto tecnico, di organizzazione della guerra e trascura l'aspetto storico-sociale.

(Mi pare che questa sia un'accusa esagerata: la colpa non è di Cadorna, ma dei governi che devono essi educare politicamente i militari). Il modello napoleonico non può essere richiamato: Napoleone rappresentava la società civile e il militarismo della Francia, congiungeva in sé le due funzioni di capo del governo e di capo dell'esercito. La classe dominante italiana non ha saputo preparare dei capi militari, ecco tutto. Perché si dovrebbe domandare a Cadorna una grande capacità politica, se non si domanda ai capi politici una corrispondente capacità militare? Certo il capo militare deve avere, per la sua stessa funzione, una capacità politica, ma l'atteggiamento politico verso le masse militari e la politica militare devono essere fissati dal governo sotto la sua responsabilità. Ecco una serie di quistioni molto interessanti da studiare a proposito della guerra fino a Caporetto: c'era identità di vedute tra governo e Cadorna sulla politica militare, sui fini strategici e sui mezzi generali per raggiungerli e sull'amministrazione politica delle masse militari? Sul primo punto c'era disaccordo tra Cadorna e Sonnino, e Cadorna era miglior politico di Sonnino: Cadorna voleva fare una politica delle nazionalità in Austria, voleva cioè cercare di disgregare l'esercito austriaco, Sonnino si oppose; egli non voleva la distruzione dell'Austria. Sul secondo punto, non si hanno elementi: è molto probabile che il governo abbia trascurato di occuparsene, pensando che rientrasse nei poteri discrezionali del capo dell'esercito. Non così avvenne in Francia, dove gli stessi deputati si recavano al fronte e controllavano il trattamento fatto ai soldati; in Italia ciò appariva un'enormità, ecc., e avrà magari dato luogo a qualche inconveniente, ma gli inconvenienti non furono certo della importanza di Caporetto.

«Le deficienze naturali di senso storico e di intuito dei sentimenti delle masse si resero più sensibili per una concezione della vita militare che aveva assorbita alla scuola del Pianell e che s'era intrecciata ad una fede religiosa tendente al misticismo». (Sarebbe più esatto parlare di bigotteria e precisare che sull'influsso del sentimento religioso Cadorna fondava la sua politica verso le masse militari: l'unico coefficiente morale del regolamento era, infatti, affidato ai cappellani militari). Avversione di Cadorna per la vita politica parlamentare, che è incomprensione (ma non lui solo responsabile, bensì anche e specialmente il governo). Non ha partecipato alle guerre d'Africa. Diventa capo dello stato maggiore il 27 luglio 1914. Ignoto al gran pubblico, «con un alone di rispetto senza effusione nel ceto dei militari». (L'accenno alla Memoria di Cadorna pubblicata nelle Altre pagine sulla grande guerra è ingenuo e gesuitesco).

Il piano strategico «contemplava due possibilità egualmente ragionevoli: offensiva su la fronte Giulia e difensiva sul Trentino, o viceversa? Egli si attenne alla prima soluzione». (Perché ugualmente ragionevoli? Non era la stessa cosa: l'offensiva vittoriosa nel Trentino portava la guerra in piena tedescheria, cioè avrebbe galvanizzato la resistenza germanica e determinato «subito» lo scontro tra Italiani e Tedeschi di Guglielmo; l'offensiva vittoriosa sulla fronte Giulia avrebbe invece portato la guerra nei paesi slavi e, appoggiata da una politica delle nazionalità, avrebbe permesso di disgregare l'esercito austriaco. Ma il governo era contrario alla politica delle nazionalità e non voleva urtare la Germania, alla quale non aveva dichiarato la guerra: così la scelta di Cadorna — scelta relativa, come si vede, per l'equivoca posizione verso la Germania — mentre poteva essere politicamente ottima, divenne pessima; le truppe slave videro nella guerra una guerra nazionale di difesa delle loro terre da un invasore straniero, e l'esercito austriaco si rinsaldò).

Cadorna [era] un burocratico della strategia; quando aveva fatto le sue ipotesi «logiche», dava torto alla realtà e si rifiutava di prenderla in considerazione.

Caporetto: dalle Memorie di Cadorna appare che egli era da qualche tempo informato, prima di Caporetto, che il morale delle truppe era infiacchito. (E in questo punto bisogna collocare una sua particolare attività «politica», molto pericolosa: egli non cerca di rendersi conto se occorre mutare qualcosa nel governo politico dell'esercito, se cioè l'infiacchimento morale delle truppe non sia dovuto al comando militare, egli non sa esercitare l'autocritica; è persuaso che il fatto dipende dal governo civile, dal modo con cui è governato il paese e domanda misure reazionarie, domanda repressioni, ecc. Nel paese trapela qualcosa di questa sua attività «politica» e gli articoli della «Stampa» sono l'espressione di una crisi e del paese e dell'esercito. «La Stampa» oggettivamente ha ragione: la situazione è molto simile a quella che ha preceduto la «fatai Novara». Anche in questo caso la responsabilità è del governo, che doveva allora sostituire Cadorna e occuparsi «politicamente» dell'esercito).

Il «mistero» militare di Caporetto. Il Comando supremo era stato avvertito dell'offensiva fino al giorno e all'ora, alla zona, alle forze austro-tedesche che vi avrebbero partecipato.

(Vedere il libro di Aldo Valori sulla guerra italiana). Perché invece ci fu «sorpresa»? L'articolista se la cava con dei luoghi comuni: Cadorna capo militare di secondo grado; critica dei militari italiani che erano appartati dal paese e dalla sua vita reale (il contrasto esercito piemontese-garibaldini continua nel contrasto tra esercito e paese: cioè continua a operare la negatività nazionale del Risorgimento).

Molti luoghi comuni: è poi vero che prima della guerra in Italia l'esercito fosse trascurato? Bisognerebbe dimostrare che la percentuale italiana di spese militari sul bilancio totale sia stata più bassa che negli altri paesi: mi pare invece in Italia fosse più alta di molti paesi. (Ostinato più che volitivo: energia del testardo).

La politica di Luigi Cadorna.

Nell'articolo del Fermi, La Spagna cattolica, in «Gerarchia» del dicembre 1931, si accenna alla costituzione spagnola del 1812 e si dice: «La resistenza indomita opposta ai francesi dal 1808 al 1813 da tutte, o quasi, le classi della nazione, guidate dal clero, anch'esso ridestato, segnò una pagina gloriosa. Ferdinando VII e le Cortes del 1812 si incaricarono di annullarne i risultati. Queste, con la costituzione modellata sul figurino francese del 1791, inflissero al paese un travestimento: cattiva copia di una cattiva copia, come diceva Luigi Cadorna di un travestimento analogo». Dove e quando il Cadorna si espresse in tali termini? Il giudizio del Fermi sulla costituzione spagnola del 1812 è il solito giudizio superficiale della demagogia reazionaria.

Avvenimenti del 1917.

Il ministero Salandra cade il 10 giugno 1916, contraccolpo della dichiarazione di guerra alla Germania, mentre durava la minaccia dell'esercito austriaco dal Trentino. Boselli forma il ministero nazionale (vedere atteggiamento dei giolittiani a questo proposito). Il 12 giugno 1917, crisi del ministero: i ministri rimettono al Boselli i loro portafogli, per dargli la possibilità di organizzare meglio l'opera del governo. Contrasti in politica estera e in quella interna: Bissolati e altri osteggiavano la politica di Sonnino, cioè volevano che fossero precisati e mutati i fini della guerra, osteggiavano la politica militare del Cadorna (memoriale Douhet a Bissolati), osteggiavano la politica interna troppo liberale e indulgente verso gli avversari del governo (socialisti, giolittiani e cattolici). Cadorna a sua volta osteggiava la politica interna del governo, ecc. E da notare che a Torino comincia a mancare il pane proprio nella seconda metà di giugno (confrontare gli articoli della «Gazzetta del Popolo» pubblicati, ma occorrerebbe conoscere se già prima la «Gazzetta del Popolo» abbia voluto intervenire e ne sia stata impedita dalla censura, senza che nel giornale apparisse traccia di questi tentativi: forse nell'Archivio di Stato tracce più concrete. Confrontare anche l'autodifesa del prefetto Verdinois, che però è scolorita e imprecisa). Il gabinetto Boselli cade il 16 ottobre 1917 alla vigilia di Caporetto.

(Poteva chiamarsi nazionale un governo da cui fosse assente Giolitti? Nel '17 appunto si hanno i frutti della politica Salan-dra-Sonnino, che vollero monopolizzare a sé e al loro partito la gloria dell'entrata in guerra e, non impedendo la caccia a Giolitti, determinarono il suo ulteriore atteggiamento).

I memoriali dell'allora colonnello Douhet sono pubblicati nel volume: Giulio Douhet, Le profezie di Cassandra, a cura del generale Gherardo Pantano, Genova, Soc. ed. Tirrena, 1931, in 8°, pp. 443. Su questo volume confrontare la strabiliante recensione di Giacomo Devoto nel «Leonardo» del febbraio 1932. Il Devoto si domanda: «Ma perché poi critiche così fondate, venendo da un uomo di prim'ordine come era senza dubbio il Douhet, non hanno avuto il successo che in se stesse meritavano?». E risponde: «Non per la malvagità degli uomini, non per il carattere inelastico dell'autore, nemmeno per un destino crudelmente avverso. Le perdite morali e materiali che il deficiente comando ha procurato erano necessarie all'Italia. L'Italia che per lunga abitudine, al primo accenno di sconfitta o di incertezza in una battaglia coloniale perdeva la calma, doveva imparare a sopportare pazientemente prove francamente dure. Una buona metà dei nostri soldati sono stati sacrificati, dal punto di vista militare, inutilmente. Ma come per imparare a bene operare è fatale che prima si erri, così per imparare a sacrificarsi utilmente, un paese deve temprarsi a sacrifizi non sproporzionati. Nessuna apologia potrà farci credere che il vecchio comando supremo abbia condotto bene l'esercito. Ma per arrivare a comandare bene, bisogna voler comandare». Bisognerebbe sapere chi è questo signor Giacomo Devoto, se è un militare (un G. Devoto è professore di glottologia all'Università di Padova). Il suo ragionamento rassomiglia a quello dell'on. Giuseppe Canepa, commissario per gli approvvigionamenti nel 1917, che, dopo gli avvenimenti di Torino, si giustificò della disorganizzazione del suo servizio, ricordando il «provando e riprovando» dell'Accademia del Cimento. Ma questa è la filosofia di monsignor Perrelli nel governo dei cavalli. E non si tien conto che la massa dell'esercito non è un corpo vile e passivo per fare tali esperienze, ma reagisce, appunto, disfacendosi: perciò è utile sapere chi è il Devoto, se appartiene ai circoli militari e se le sue opinioni sono pure idiosincrasie o concezione diffusa.

Paolo Boselli si potrebbe chiamare la «cicala nazionale». La sua scelta a capo del governo nazionale nel giugno 1916 è il segno della debolezza della combinazione, che si costituisce su un terreno di retorica parolaia e non di realismo politico: sotto il velo dell'unità data dai discorsi del Boselli, il governo era dilaniato da dissidi insanabili e che, d'altronde, non si voleva sanare, ma solo coprire.

Politica dei giolittiani nel dopoguerra: discorso di Giolitti a Dronero, dove si pone la quistione della soppressione dell'art. 5 dello Statuto, cioè dell'allargamento dei poteri parlamentari contro il potere esecutivo. La caratteristica della politica giolit-tiana è di non aver coraggio di se stessa (ma che cosa poi si proponeva Giolitti? e non si accontentava poi egli di ottenere appunto solo ciò che ottenne effettivamente, cioè di disperdere il partito salandrino?): i giolittiani vogliono una costituente senza la costituente, senza cioè l'agitazione politica popolare che è legata alla convocazione di una costituente; vogliono che il normale Parlamento funzioni come una costituente ridotta ai minimi termini, edulcorata, addomesticata. Bisogna ricercare la funzione svolta da Nitti per togliere ancora il residuo di veleno alla parola d'ordine lanciata da Giolitti, per diluirla, annegarla nel marasma parlamentare: certo è che la quistione della soppressione dell'art. 5 fa la sua comparsa ufficiale in Parlamento, per essere dimenticata. I giolittiani, prima del ritorno di Giolitti al governo, lanciano la parola d'ordine di un'inchiesta politica sulla guerra». Cosa poi significhi di preciso questa formula è difficile capire: ma essa è appunto solo uno pseudonimo della costituente ridotta voluta da Giolitti, come arma per intimorire gli avversari. E da ricordare che i giolittiani ponevano tutta la loro speranza politica nel Partito popolare, come partito di massa centrista, che avrebbe dovuto servire (e, in realtà, servi) da strumento per la manovra giolittiana. Articoli di Luigi Ambrosini nella «Stampa», entrata di Am-brosini nel Partito popolare (confrontare alcuni di questi articoli raccolti nel volumetto Fra Guidino alla cerca). E tutto un periodo di storia politica e dei partiti italiani da studiare e da approfondire.

[Giolittismo e nittismo.]

Confronto tra la concentrazione culturale francese, che si riassume nell'«Istituto di Francia», e la non coordinazione italiana. Riviste di cultura francesi e italiane (tipo «Nuova Antologia», «Revue des Deux Mondes»).

Giornali quotidiani italiani molto meglio fatti che i francesi: essi compiono due funzioni — quella di informazione e di direzione politica generale e la funzione di cultura politica, letteraria, artistica, scientifica che non ha un suo organo proprio diffuso (la piccola rivista per la media cultura). In Francia, anzi, anche la prima funzione si è distinta in due serie di quotidiani: quelli di informazione e quelli di opinione che a loro volta sono dipendenti da partiti direttamente, oppure hanno un'apparenza di imparzialità («Action Francaise», «Temps», «Débats»). In Italia, per l'assenza di partiti organizzati e centralizzati, non si può prescindere dai giornali: sono i giornali, raggruppati a serie, che costituiscono i veri paniti. Per esempio, nel dopoguerra, Giolitti aveva una serie di giornali che rappresentavano le varie correnti o frazioni del partito liberale democratico: la «Stampa» a Torino, che cercava di influire sugli operai e aveva saltuariamente spiccate tendenze riformistiche (nella «Stampa» tutte le posizioni erano saltuarie, intermittenti a seconda che Giolitti era o non era al potere, ecc.); la «Tribuna» a Roma, che era legata alla burocrazia e all'industria protezionista (mentre la «Stampa» era piuttosto liberista — quando Giolitti non era al potere, con maggiore accentuazione); il «Mattino» a Napoli, legato alle cricche meridionali giolittiane, con altri organi minori (la «Stampa», per certa collaborazione e servizi d'informazione, era alla testa di un trust giornalistico di cui facevano parte specialmente il «Mattino», la «Nazione» e anche il «Resto del Carlino»).

«Il Corriere della Sera» formava una corrente a sé, che cercava di essere in Italia ciò che il «Times» [era] in Inghilterra, custode dei valori nazionali al di sopra delle singole correnti. Di fatto era legato all'industria lombarda d'esportazione tessile (e gomma), e perciò più permanentemente liberista: nel dopoguerra il «Corriere» era alla destra del nittismo (dopo aver sostenuto Salandra). Il nittismo aveva anch'esso una serie di giornali: il «Corriere» a destra, il «Carlino» al centro destra, il «Mondo» al centro sinistra, il «Paese» alla sinistra. Il nittismo aveva due aspetti: plutocratico, legato all'industria protetta e di sinistra. Una posizione a parte occupava il «Giornale d'Italia», legato all'industria protetta e ai grandi proprietari terrieri dell'Emilia, del Centro e del Mezzogiorno. E interessante notare che i grandi giornali che rappresentavano la tradizione del Partito d'Azione — «Secolo» a Milano, «Gazzetta del Popolo» a Torino, «Messaggero» a Roma, «Roma» a Napoli — ebbero dal '21 al '25 un atteggiamento diverso dalla «Stampa», dal «Corriere», dal «Giornale d'Italia», «Tribuna», dal «Mattino» e anche dal «Resto del Carlino».

Il «Corriere» fu sempre antigiolittiano, come ho spiegato in una precedente nota1. Anche al tempo della guerra libica, il «Corriere» si tenne neutrale fino a pochi giorni prima della dichiarazione di guerra, quando pubblicò l'articolo di Andrea Torre, rumoroso e pieno di strafalcioni.

Il nittismo era ancora una formazione politica in fieri; ma Nitti mancava di alcune doti essenziali dell'uomo di Stato, era troppo pauroso fisicamente e troppo poco deciso; egli era però molto furbo, ma è questa una qualità subalterna. La creazione della guardia regia è il solo atto politico importante di Nitti: Nitti voleva creare un parlamentarismo di tipo francese (è da notare come Giolitti cercasse sempre le crisi extraparlamentari: Giolitti con questo «trucco» voleva mantenere formalmente intatto il diritto regio di nominare i ministri all'infuori o almeno a latere del Parlamento; in ogni caso impedire che il governo fosse troppo legato o esclusivamente legato al Parlamento), ma si poneva il problema delle forze armate e di un possibile colpo di Stato. Poiché i carabinieri dipendevano disciplinarmente e politicamente dal Ministero della Guerra, cioè dallo Stato Maggiore (anche se finanziariamente dal Ministero degli Interni), Nitti creò la guardia regia, come forza armata dipendente dal Parlamento, come contrappeso contro ogni velleità di colpo di Stato. Per uno strano paradosso, la guardia regia, che era un completo esercito professionale, cioè di tipo reazionario, doveva avere una funzione democratica, come forza armata della rappresentanza nazionale contro i possibili tentativi delle forze irresponsabili e reazionarie. È da notare la occulta lotta svoltasi nel 1922 tra nazionalisti e democratici intorno ai carabinieri e alla guardia regia. I liberali, sotto la maschera di Facta, volevano ridurre il corpo dei carabinieri o incorporarne una gran parte (il 50%) nella guardia regia. I nazionalisti reagiscono, e al Senato il generale Giardino parla contro la guardia regia e ne fa sciogliere la cavalleria (ricordare la comica e miserevole difesa che di questa cavalleria fece il «Paese»: il prestigio del cavallo, ecc., ecc.).

Le direttive di Nitti erano molto confuse: nel 1918, quand'era ministro del Tesoro, fece una campagna oratoria sostenendo la industrializzazione accelerata dell'Italia e sballando grosse fanfaluche sulle ricchezze minerarie di ferro e carbone del paese (il ferro era quello di Cogne, il carbone era la lignite toscana: il Nitti giunse a sostenere che l'Italia poteva esportare questi minerali dopo aver soddisfatto una sua industria decuplicata: confrontare a questo proposito F. Ciccotti, L'Italia in rissa). Sostenne, prima dell'armistizio, la polizza ai combattenti, di mille lire, acquistando la simpatia dei contadini. Significato dell'amnistia ai disertori (italiani all'estero che non avrebbero più mandato rimesse, di cui la Banca di Sconto aveva il quasi monopolio). Discorso di Nitti sulla impossibilità tecnica della rivoluzione in Italia, che produsse un effetto folgorante nel Partito socialista (confronta il discorso di Nitti con la lettera aperta di Serrati nel novembre o dicembre 1920)1. La guardia regia era per il 90% di meridionali. Programma di Nitti dei bacini montani nell'Italia meridionale che produsse tanto entusiasmo.

La morte del generale Ameglio, suicidatosi dopo un pubblico alterco col gen. Tettoni, incaricato di una ispezione amministrativa sulla gestione della Cirenaica (Ameglio era il generalissimo della guardia regia). La morte di Ameglio, per la sua tragicità, deve essere collegata al suicidio del gen. Pollio nel 1914 (Pollio aveva, nel 1912, al momento del rinnovo della Triplice, firmato la convenzione militare navale con la Germania, che entrava in vigore il 6 agosto 1914: mi pare che proprio in base a questa convenzione il Bresslan e il Goeben poterono rifugiarsi nel porto di Messina: confrontare in proposito le pubblicazioni di Rerum Scriptor nella «Rivista delle Nazioni Latine» e nell'«Unità» del 1917-'18, che io riassunsi nel «Grido del Popolo»). Nelle sue Memorie Salandra accenna alla morte «repentina» di Pollio (non scrive che fu suicidio); il famoso Memorandum di Cadorna, che Salandra dichiara di non aver conosciuto, deve rispecchiare le vedute dello Stato Maggiore sotto la gestione Pollio e in dipendenza della convenzione del 1912: la dichiarazione di Salandra di non averlo conosciuto è estremamente importante e piena di significati sulla politica italiana e sulla reale situazione dell'elemento parlamentare nel governo.

Nello studio dei giornali come funzionanti da partito politico occorre tener conto di singoli individui e della loro attività. Mario Missiroli è uno di questi. Ma i due tipi più interessanti sono Pippo Naldi e Francesco Ciccotti. Naldi ha cominciato come giovane liberale borelliano — collaboratore di piccole riviste liberali — direttore del «Resto del Carlino» e del «Tempo»: è stato un agente importantissimo di Giolitti e di Nitti; legato ai fratelli Perrone e certamente ad altri grossi affaristi; durante la guerra la sua attività è delle più misteriose. L'attività di Ciccotti è delle più complesse e difficili, sebbene il suo valore personale sia mediocre. Durante la guerra ebbe atteggiamenti disparati: fu sempre un agente di Nitti o per qualche tempo anche di Giolitti? A Torino nel 1916-'17 era assolutamente disfattista; egli invitava all'azione immediata. Se si può parlare di responsabilità individuali per i fatti dell'agosto '17, Ciccotti avrebbe dovuto ritenersi il più responsabile: invece fu appena interrogato dal giudice istruttore e non si procedette contro di lui. Ricordo la sua conferenza del '16 o del '17, dopo la quale furono arrestati un centinaio di giovani e adulti accusati di aver gridato «Evviva l'Austria!». Non credo che il grido sia stato emesso da nessuno, ma dopo la conferenza di Ciccotti non sarebbe stato strano che qualcuno avesse anche emesso questo grido. Ciccotti cominciò la sua conferenza dicendo che i socialisti erano responsabili di una grave colpa: aver affermato che la guerra era capitalistica. Secondo Ciccotti questo significava nobilitare la guerra. Egli allora, con una sottigliezza rimarchevole nell'abilità di suscitare i sentimenti popolari elementari, sviluppò un romanzo d'appendice a forti tinte che cominciava su per giù così: — la sera tale si riunirono al Caffè Faraglino Vincenzo Morello (Rastignac), e il senatore Artom e un terzo che non ricordo, ecc., ecc.; la guerra era dovuta alla congiura di questi tre e ai denari di Barrare. — Ricordo d'aver visto alcuni operai, che conoscevo come gente calmissima e temperata, coi capelli rizzati in testa, frenetici, uscire dalla sala, dopo la perorazione, in uno stato di eccitazione incredibile. Il giorno dopo la «Stampa» pubblicava un articolo non firmato, scritto da Ciccotti, in cui si sosteneva la necessità del blocco tra Giolitti e gli operai in tempo prima che l'apparecchio statale cadesse completamente nelle mani dei pugliesi di Salandra. Qualche giorno dopo la «Giustizia» di Reggio Emilia pubblicava il resoconto di una conferenza di Ciccotti a Reggio, dove aveva esaltato il prampolinismo, ecc. Ricordo che mostrai questo giornale ad alcuni «rigidi», i quali erano infatuati di Ciccotti e volevano si sostenesse (certo per istigazione del Ciccotti stesso) una campagna per dare l'«Avanti!» a Ciccotti. Nessuno ha studiato ancora a fondo i fatti di Torino dell'agosto '17. E certissimo che i fatti furono spontanei e dovuti alla mancanza di pane prolungata, che negli ultimi dieci giorni prima dei fatti, aveva determinato la mancanza assoluta di ogni cibo popolare (riso, polenta, patate, legumi, ecc.). Ma la quistione è appunto questa: come spiegare questa assoluta deficienza di vettovaglie? (Assoluta: nella casa dove abitavo io, ed era una casa del centro, si erano saltati tre pasti di fila, dopo un mese in cui i pasti saltati erano andati crescendo). Il prefetto Verdinois, nell'autodifesa pubblicata nel 1925, non dà ragguagli sufficienti; il ministro Orlando richiamò solo amministrativamente il Verdinois e nel discorso alla Camera se la cavò male anch'egli; intanto non fu fatta nessuna inchiesta. Il Verdinois accusa gli operai, ma la sua accusa è una cosa inetta: egli dice che i fatti non avevano come causa la mancanza di pane, perché continuarono anche quando fu dato in vendita il pane fatto con la farina dei depositi militari. La «Gazzetta del Popolo» però, già da venti giorni, prevedeva gravi fatti per la mancanza di pane e avvertiva quotidianamente di provvedere a tempo: naturalmente, cambiò tono dopo e parlò solo di denaro straniero. Come fu lasciato mancare il pane a una città, la cui provincia è scarsamente coltivata a grano e che era diventata una grande officina di guerra, con una popolazione accresciuta di più di 100.000 lavoratori per le munizioni?

Io ho avuto la convinzione che la mancanza di pane non fu casuale, ma dovuta al sabotaggio della burocrazia giolittiana, e in parte all'inettitudine di Canepa, che né aveva la capacità per il suo ufficio, né era in grado di padroneggiare la burocrazia dipendente dal suo commissariato. I giolittiani erano di un fanatismo tedescofilo incredibile: essi sapevano che Giolitti non poteva andare ancora al potere, ma volevano creare un anello intermedio, Nitti o Orlando, e rovesciare Boselli; il meccanismo funzionò tardi, quando Orlando era già al potere, ma il fatto [era stato] preparato [per] far cadere il governo Boselli su una pozza di sangue torinese. Perché fu scelta Torino? Perché era quasi tutta neutralista, perché Torino aveva scioperato nel '15, ma specialmente perché i fatti avevano importanza specialmente a Torino. Ciccotti fu il principale agente di questo affare; egli andava troppo spesso a Torino e non sempre per far conferenze agli operai, ma anche per parlare con quelli della «Stampa». Non credo che i giolittiani fossero in collegamento con la Germania: ciò non era indispensabile. Il loro livore era tale per i fatti di Roma del '15, e perché pensavano che l'egemonia piemontese sarebbe stata fortemente scossa o addirittura spezzata, che essi erano capaci di tutto: il processo di Porto-gruaro contro Frassati e l'affare del colonnello Gamba mostrano solo che questa gente aveva perduto ogni controllo. Bisogna aver visto la soddisfazione con cui i redattori della «Stampa», dopo Caporetto, parlavano del panico che regnava a Milano nei dirigenti e della decisione del «Corriere» di trasportar via tutto il suo impianto, per comprendere di che potevano essere capaci: indubbiamente, i giolittiani avevano avuto paura di una dittatura militare che li mettesse al muro; essi parlavano di una congiura Cadorna-Albertini per fare un colpo di Stato: la loro smania di giungere a un accordo coi socialisti era incredibile.

Ciccotti durante la guerra servi di tramite per pubblicare nel-P«Avanti!» articoli del Controllo democratico inglese (gli articoli li riceveva la signora Chiaraviglio). Ricordo il racconto di Serrati del suo incontro a Londra con una signora che lo voleva ringraziare a nome del comitato e la meraviglia del povero uomo che fra questi intrighi non sapeva che decisioni prendere. Altro aneddoto raccontato da Serrati: l'articolo di Ciccotti contro la [Banca] Commerciale lasciato passare, l'articolo contro la [Banca di] Sconto censurato; il commento di Ciccotti a un discorso di Nitti prima censurato, poi permesso dopo [una] telefonata di Ciccotti che si richiamava a [una] promessa di Nitti e non pubblicato da Serrati, ecc. Ma l'episodio più interessante è quello dei gesuiti che, attraverso Ciccotti, cercavano di far cessare la campagna per i Ss. Martiri: cosa avranno dato in cambio i gesuiti a Ciccotti? Ma nonostante tutto Ciccotti non venne espulso, perché bisognava dargli l'indennità giornalistica. Un altro di questi tipi è stato Carlo Bazzi.

G. B. Angioletti.

Nell'«Italia Letteraria» del 18 maggio 1930, è riportata una serie di verbali per una vertenza tra l'Angioletti e Guglielmo Danzi, che, nel giornale «La Quarta Roma» del 30 aprile 1930, aveva attaccato l'Angioletti sul suo passato politico, a quanto pare. L'Angioletti consegnò ai suoi padrini Nosari e Ungaretti una nota coi dati essenziali del suo stato di servizio militare, politico, giornalistico. L'Angioletti avrebbe partecipato ai fatti di Milano del 15 aprile 1919 e sarebbe stato nel 1923 condirettore della «Scure» di Piacenza col Barbiellini.

Epilogo primo.

L'argomento della «rivoluzione passiva» come interpretazione dell'età del Risorgimento e di ogni epoca complessa di rivolgimenti storici. Utilità e pericoli di tale argomento. Pericolo di disfattismo storico, cioè di indifferentismo, perché l'impostazione generale del problema può far credere a un fatalismo, ecc.; ma la concezione rimane dialettica, cioè presuppone, anzi postula come necessaria, una antitesi vigorosa e che metta in campo tutte le sue possibilità di esplicazione intransigentemente. Dunque, non teoria della «rivoluzione passiva» come programma, come fu nei liberali italiani del Risorgimento, ma come criterio di interpretazione, in assenza di altri elementi attivi in modo dominante. (Quindi lotta contro il morfinismo politico che esala da Croce e dal suo storicismo). (Pare che la teoria della rivoluzione passiva sia un necessario corollario critico dell'Introduzione alla critica dell'economia politica). Revisione di alcuni concetti settari sulla teoria dei partiti, che appunto rappresentano una forma di fatalismo del tipo «diritto divino». Elaborazione dei concetti del partito di massa e del piccolo partito di élite e mediazione tra i due. (Mediazione teorica e pratica: teoricamente può esistere un gruppo, relativamente piccolo, ma sempre notevole, per esempio di qualche migliaio di persone, omogeneo socialmente e ideologicamente, senza che la sua stessa esistenza dimostri una vasta condizione di cose e di stati d'animo corrispondenti, che non possono esprimersi solo per cause meccaniche estranee e perciò transitorie?).

[Interventisti e socialisti.]

A questo saggio appartengono le osservazioni altrove scritte sui tipi «strani» che circolavano nel partito e nel movimento operaio: Ciccotti-Scozzese, Gatto-Roissard ecc. Nessuna politica interna di partito, nessuna politica organizzativa, nessun controllo sugli uomini. Però abbondante demagogia contro gli interventisti anche se stati interventisti da giovanissimi. La mozione per cui si stabiliva che gli interventisti non potevano essere ammessi nel partito fu solo un mezzo di ricatto e di intimidazione individuale e un'affermazione demagogica. Infatti non impedi a Nenni di essere ammesso nonostante il suo losco passato (così a Francesco Rèpaci), mentre servi a falsificare la posizione politica del partito che non doveva fare dell'antinterventismo il perno della sua attività, e a scatenare odi e persecuzioni personali contro determinate categorie piccolo-borghesi. (Rèpaci diventò corrispondente del giornale da Torino come Nenni ne diventò redattore, quindi non si tratta di gente entrata di straforo).

Il discorso dell'«espiazione» di Treves e la fissazione dell'interventismo sono strettamente legati: è la politica di evitare il problema fondamentale, il problema del potere, e di deviare l'attenzione e le passioni delle masse su obiettivi secondari, di nascondere ipocritamente la responsabilità storico-politica della classe dominante, riversando le ire popolari sugli strumenti materiali e spesso inconsapevoli della politica della classe dominante: continuava, in fondo, una politica giolittiana.

A questa stessa tendenza appartiene l'articolo Carabinieri reali di Italo Toscani: il cane che morde il sasso, e non la mano che lo lancia. Il Toscani è finito poi scrittore cattolico di destra nel «Corriere d'Italia». Era evidente che la guerra, con l'enorme sconvolgimento economico e psicologico che aveva determinato specialmente fra i piccoli intellettuali e i piccoli borghesi, avrebbe radicalizzato questi strati. Il partito se li rese nemici gratis, invece di renderseli alleati, cioè li ributtò verso la classe dominante.

Funzione della guerra negli altri paesi per selezionare i capi del movimento operaio e per determinare la precipitazione delle tendenze di destra. In Italia questa funzione non fu svolta dalla guerra (giolittismo), ma avvenne posteriormente in modo ben più catastrofico e con fenomeni di tradimento in massa e di diserzione quali non si erano visti in nessun altro paese.

Italo Toscani.

Nel 1928 è uscita una Vita di S. Luigi Gonzaga di Italo Toscani, Roma, Libreria Fr. Ferrari, in 16°, pp. 254, L. 5,50, lodata dalla «Civiltà Cattolica» del 21 luglio 1928. Il Toscani già nel '26 scriveva nel «Corriere d'Italia». Ricordare le sue avventure durante la guerra. Il suo contegno al fronte (furono pubblicate dal Comando militare cartoline illustrate con suoi versi d'occasione). Suoi articoli nel 1919, specialmente contro i carabinieri: uomo repellente da ogni punto di vista. Condannato a 6 o 7 anni nel 1917 dal Tribunale di Roma per antimilitarismo, la condanna gli fu condonata per le poesie scritte al fronte; autolesionista: si «curava» gli occhi in modo così sfacciato che faceva maraviglia come al reggimento gliela passassero liscia. «Stranezze» della vita militare durante la guerra. Come mai al Toscani, abbastanza noto, si davano tanti permessi di dormire fuori della caserma? (aveva una stanza mobiliata ai Canelli; episodio tragicomico del falso Calabresi).

[Gli avvenimenti del 1919 a Milano.]

Da una lettera a Uberto Lagardelle di Giorgio Sorel (scritta il 15 agosto 1898 e pubblicata nell'«Educazione Fascista» del marzo 1933): «Deville a pour grand argument que la campagne pour Dreyfus donne de la force aux militaristes et peut amener une réaction. Le mal-heureux ne voit pas que c'est tout le contraire: la réaction était en train express et elle se bute devant une résistence inopinée, où les avancés ont pour auxiliaire des modérés. Les gens qui ne voyaient pas le mouvement réel, qui en étaient aux apparences trompeuses des scrutins, croyaient que la France marchait dare dare vers le socialisme; j'ai toujours vu qu'elle marchait vers le césarisme. Le mouvement apparaìt maintenant, parce qu'il y a une pierre dans l'engrenage, les dents grincent et se cassent; mais ce n'est pas la pierre qui a fait naìtre l'engrenage, mais elle force les aveugles à s'apercevoir qu'il existe».

La mentalità alla Deville è sempre stata diffusa. Quistione dell'offensiva e della difensiva. È da domandare se, ogni qualvolta lo «scrutinio» era favorevole alla Sinistra, non ci sia stata una preparazione di colpo di Stato da parte della Destra, che non avrebbe mai permesso alla Sinistra di avere dalla sua parte la forza e il prestigio della così detta «legalità» statale. (Ricordare gli articoli del Garofalo nell'«Epoca» del 1922. Il libro di Nino Daniele su D'Annunzio politico. Modo di impostare la narrazione degli avvenimenti del 1918-'19-'20, ecc.). Nelle memorie del diplomatico Aldovrandi, pubblicate nella «Nuova Antologia» del 15 maggio - 1° giugno 1933, alcuni spunti utilissimi per valutare gli avvenimenti dell'aprile 1919 a Milano. La qui-stione legata a quella della così detta «violenza» come metodo dogmatico, stupidissima forma di rosolia di quegli anni. (Orlando, che nell'aprile 1919 era a Parigi, non dev'essere stato estraneo agli avvenimenti di Milano, che [erano] necessari alla commissione italiana per sostenere la sua posizione. Anche l'abbio-sciamento di Giacinto Menotti1 non dovette essere senza un motivo forse determinato indirettamente dal governo).

Spontaneità e direzione consapevole.

Dell'espressione «spontaneità» si possono dare diverse definizioni, perché il fenomeno cui essa si riferisce è multilaterale. Intanto occorre rilevare che non esiste nella storia la «pura» spontaneità: essa coinciderebbe con la «pura» meccanicità. Nel movimento «più spontaneo» gli elementi di «direzione consapevole» sono semplicemente incontrollabili, non hanno lasciato documento accertabile. Si può dire che l'elemento della spontaneità è perciò caratteristico della «storia delle classi subalterne», e anzi degli elementi più marginali e periferici di queste classi, che non hanno raggiunto la coscienza della classe «per sé» e che perciò non sospettano neanche che la loro storia possa avere una qualsiasi importanza e che abbia un qualsiasi valore lasciarne tracce documentarie.

Esiste dunque una «molteplicità» di elementi di «direzione consapevole» in questi movimenti, ma nessuno di essi è predominante, o sorpassa il livello della «scienza popolare» di un determinato strato sociale, del «senso comune» ossia della concezione del mondo tradizionale di quel determinato strato.

È appunto questo l'elemento che il De Man, empiricamente, contrappone al marxismo, senza accorgersi (apparentemente) di cadere nella stèssa posizione di coloro che avendo descritto il folclore, la stregoneria, ecc., e avendo dimostrato che questi modi di vedere hanno una radice storicamente gagliarda e sono abbarbicati tenacemente alla psicologia di determinati strati popolari, credesse di aver «superato» la scienza moderna e prendesse come «scienza moderna» gli articolucci dei giornali scientifici per il popolo e le pubblicazioni a dispense; è questo un vero caso di teratologia intellettuale, di cui si hanno altri esempi: gli ammiratori del folclore appunto, che ne sostengono la conservazione, gli «stregonisti» legati al Maeterlinck che ritengono si debba riprendere il filo dell'alchimia e della stregoneria, strappato dalla violenza, per rimettere la scienza su un binario più fecondo di scoperte ecc. Tuttavia, il De Man ha un merito incidentale: dimostra la necessità di studiare ed elaborare gli elementi della psicologia popolare, storicamente e non sociologicamente, attivamente (cioè per trasformarli, educandoli, in una mentalità moderna) e non descrittivamente come egli fa; ma questa necessità era per lo meno implicita (forse anche esplicitamente dichiarata) nella dottrina di Ilic, cosa che il De Man ignora completamente.

Che in ogni movimento «spontaneo» ci sia un elemento primitivo di direzione consapevole, di disciplina, è dimostrato indirettamente dal fatto che esistono delle correnti e dei gruppi che sostengono la spontaneità come metodo. A questo proposito occorre fare una distinzione tra elementi puramente «ideologici», ed elementi d'azione pratica, tra studiosi che sostengono la spontaneità come «metodo» immanente ed obbiettivo del divenire storico e politicanti che la sostengono come metodo «politico». Nei primi si tratta di una concezione errata, nei secondi si tratta di una contraddizione immediata e meschina che lascia vedere l'origine pratica evidente, cioè la volontà immediata di sostituire una determinata direzione a un'altra. Anche negli studiosi l'errore ha un'origine pratica, ma non immediata come nei secondi. L'apoliticismo dei sindacalisti francesi dell'anteguerra conteneva ambedue questi elementi: era un errore teorico e una contraddizione (c'era l'elemento «sorelliano» e l'elemento della concorrenza tra la tendenza politica anarchico-sindacalista e la corrente socialistica). Essa era ancora la conseguenza dei terribili fatti parigini del '71: la continuazione, con metodi nuovi e con una brillante teoria, della passività trentennale (1870-1900) degli operai francesi. La lotta puramente «economica» non era fatta per dispiacere alla classe dominante, tutt'altro. Così dicasi del movimento catalano, che se «dispiaceva» alla classe dominante spagnola, era solo per il fatto che obbiettivamente rafforzava il separatismo repubblicano catalano, dando luogo a un vero e proprio blocco industriale repubblicano contro i latifondisti, la piccola borghesia e l'esercito monarchici.

Il movimento torinese [dell'Ordine Nuovo] fu accusato contemporaneamente di essere «spontaneista» e «volontarista» o bergsoniano (!). L'accusa contraddittoria, analizzata, mostra la fecondità e la giustezza della direzione impressagli. Questa direzione non era «astratta», non consisteva nel ripetere meccanicamente delle formule scientifiche o teoriche; non confondeva la politica, l'azione reale con la disquisizione teoretica; essa si applicava a uomini reali, formatisi in determinati rapporti storici, con determinati sentimenti, modi di vedere, frammenti di concezioni del mondo, ecc., che risultavano dalle combinazioni «spontanee» di un dato ambiente di produzione materiale, con il «casuale» agglomerarsi in esso di elementi sociali disparati. Questo elemento di «spontaneità» non fu trascurato e tanto meno disprezzato: fu educato, fu indirizzato, fu purificato da tutto ciò che di estraneo poteva inquinarlo, per renderlo omogeneo, ma in modo vivente, storicamente efficiente, con la teoria moderna. Si parlava dagli stessi dirigenti di «spontaneità» del movimento; era giusto che se ne parlasse: questa affermazione era uno stimolante, un energetico, un elemento di unificazione in profondità, era più di tutto la negazione che si trattasse di qualcosa di arbitrario, di avventuroso, di artefatto e non di storicamente necessario. Dava alla massa una coscienza «teoretica», di creatrice di valori storici e istituzionali, di fondatrice di Stati.

Questa unità della «spontaneità» e della «direzione consapevole» ossia della «disciplina», è appunto l'azione politica reale delle classi subalterne, in quanto politica di massa e non semplice avventura di gruppi che si richiamano alla massa. Si presenta una quistione teorica fondamentale a questo proposito: la teoria moderna può essere in opposizione con i sentimenti «spontanei» delle masse? («spontanei» nel senso che non [sono] dovuti a un'attività educatrice sistematica da parte di un gruppo dirigente già consapevole, ma formatosi attraverso l'esperienza quotidiana illuminata dal «senso comune», cioè dalla concezione tradizionale popolare del mondo, quello che molto pedestremente si chiama «istinto» e non è anch'esso che un'acquisizione storica primitiva ed elementare). Non può essere in opposizione: tra di essi c'è differenza «quantitativa», di grado, non di qualità: deve essere possibile una «riduzione», per così dire, reciproca, un passaggio dagli uni all'altra e viceversa. (Ricordare che Emanuele Kant ci teneva a che le sue teorie filosofiche fossero d'accordo col senso comune; la stessa posizione si verifica nel Croce: ricordare l'affermazione di Marx nella Sacra Famiglia che le formule della politica francese della Rivoluzione si riducono ai principi della filosofia classica tedesca).

Trascurare e peggio disprezzare i movimenti così detti «spontanei», cioè rinunziare a dar loro una direzione consapevole, ad elevarli a un piano superiore inserendoli nella politica, può avere spesso conseguenze molto serie e gravi. Avviene quasi sempre che a un movimento «spontaneo» delle classi subalterne si accompagna un movimento reazionario della destra della classe dominante, per motivi concomitanti: una crisi economica, per esempio, determina malcontento nelle classi subalterne e movimenti spontanei di massa da una parte, e, dall'altra, determina complotti di gruppi reazionari che approfittano dell'indebolimento obbiettivo del governo per tentare dei colpi di Stato. Tra le cause efficienti di questi colpi di Stato è da porre la rinunzia dei gruppi responsabili a dare una direzione consapevole ai moti spontanei e a farli diventare quindi un fattore politico positivo. Esempio dei Vespri siciliani e discussioni degli storici per accertare se si trattò di movimento spontaneo o di movimento concertato: mi pare che i due elementi si siano combinati nei Vespri siciliani, l'insurrezione spontanea del popolo siciliano contro i provenzali, estesasi rapidamente tanto da dare l'impressione della simultaneità e quindi del concerto esistente, per l'oppressione diventata ormai intollerabile su tutta l'area nazionale, e l'elemento consapevole di varia importanza ed efficienza, con il prevalere della congiura di Giovanni da Procida con gli Aragonesi. Altri esempi si possono trarre da tutte le rivoluzioni passate in cui le classi subalterne erano parecchie e gerarchizzate dalla posizione economica e dall'omogeneità. I movimenti «spontanei» degli strati popolari più vasti rendono possibile l'avvento al potere della classe subalterna più progredita per l'indebolimento obbiettivo dello Stato. Questo è ancora un esempio «progressivo», ma sono, nel mondo moderno, più frequenti gli esempi regressivi.

La concezione storico-politica scolastica e accademica, per cui è reale e degno solo quel moto che è consapevole al cento per cento e che anzi è determinato da un piano minutamente tracciato in antecedenza o che corrisponde (ciò che è lo stesso) alla teoria astratta. Ma la realtà è ricca delle combinazioni più bizzarre ed è il teorico che deve in questa bizzarria rintracciare la riprova della sua teoria, «tradurre» in linguaggio teorico gli elementi della vita storica e non viceversa la realtà presentarsi secondo lo schema astratto. Questo non avverrà mai e quindi questa concezione non è che una espressione di passività. (Leonardo sapeva trovare il numero in tutte le manifestazioni della vita cosmica, anche quando gli occhi profani non vedevano che arbitrio e disordine).

La favola del castoro.

(Il castoro, inseguito dai cacciatori che vogliono strappargli i testicoli da cui si estraggono dei medicinali, per salvar la vita, si strappa da se stesso i testicoli.) Perché non c'è stata difesa? Scarso senso della dignità umana e della dignità politica dei partiti: ma questi elementi non sono dei dati naturali, delle deficienze proprie di un popolo in modo permanentemente caratteristico. Sono dei «fatti storici» che si spiegano con la storia passata e con le condizioni sociali presenti. Contraddizioni apparenti: dominava una concezione fatalistica e meccanica della storia (Firenze 1917, accusa di bergsonismo1) e però si verificavano atteggiamenti di un volontarismo formalistico sguaiato e triviale: per esempio, il progetto di costituire nel 1920 un consiglio urbano a Bologna coi soli elementi delle organizzazioni; cioè di creare un doppione inutile, di sostituire a un organismo storico radicato nelle masse, come la Camera del Lavoro, un organismo puramente astratto e libresco. C'era almeno il fine politico di dare una egemonia all'elemento urbano, che con la costituzione del consiglio veniva ad avere un centro proprio, dato che la Camera del Lavoro era provinciale? Questa intenzione mancava assolutamente e d'altronde il progetto non fu realizzato.

Il discorso di Treves sull'«espiazione»: questo discorso mi pare fondamentale per capire la confusione politica e il dilettantismo polemico dei leaders. Dietro a queste schermaglie c'è la paura delle responsabilità concrete, dietro a questa paura la nessuna unione con la classe rappresentata, la nessuna comprensione dei suoi bisogni fondamentali, delle sue aspirazioni, delle sue energie latenti: partito paternalistico, di piccoli borghesi che fanno le mosche cocchiere. Perché non difesa? L'idea della psicosi di guerra, e che un paese civile non può «permettere» che si verifichino certe scene selvagge. Queste generalità erano anch'esse mascherature di altri motivi più profondi (d'altronde, erano in contraddizione con l'affermazione ripetuta ogni volta dopo un eccidio: l'abbiamo sempre detto noi che la classe dominante è reazionaria), che sempre si incentrano nel distacco dalla classe, cioè nelle «due classi»: non si riesce a capire ciò che avverrà se la reazione trionfa, perché non si vive la lotta reale, ma solo la lotta come «principio libresco»'.

Altra contraddizione intorno al volontarismo: se si è contro il volontarismo si dovrebbe apprezzare la «spontaneità». Invece no: ciò che era «spontaneo» era cosa inferiore, non degna di considerazione, non degna neppure di essere analizzata. In realtà, lo «spontaneo» era la prova piú schiacciante dell'inettitudine del partito, perché dimostrava la scissione tra i programmi sonori e i fatti miserabili. Ma intanto i fatti «spontanei» avvenivano (1919-1920), ledevano interessi, disturbavano posizioni acquisite, suscitavano odi terribili anche in gente pacifica, facevano uscire dalla passività strati sociali stagnanti nella putredine: creavano, appunto per la loro spontaneità e per il fatto che erano sconfessati, il «panico» generico, la «grande paura» che non potevano non concentrare le forze repressive spietate nel soffocarli.

Un documento eccezionale di questo distacco tra rappresentati e rappresentanti è costituito dal cosí detto patto di alleanza tra confederazione e partito, che può essere paragonato a un concordato fra Stato e Chiesa. Il partito, che è in embrione una struttura statale, non può ammettere nessuna divisione dei suoi poteri politici, non può ammettere che una parte dei suoi membri si pongano come aventi eguaglianza di diritto, come alleati del «tutto», cosí come uno Stato non può ammettere che una parte dei suoi sudditi, oltre le leggi generali, facciano con lo Stato cui appartengono e attraverso una potenza straniera, un contratto speciale di convivenza con lo Stato stesso. L'ammissione di una tale situazione implica la subordinazione di fatto e di diritto dello Stato e del partito alla cosí detta «maggioranza» dei rappresentanti, in realtà, a un gruppo che si pone come anti-Stato e anti-partito e che finisce con l'esercitare indirettamente il potere. Nel caso del patto d'alleanza apparve chiaro che il potere non apparteneva al partito.

Al patto d'alleanza corrispondevano gli strani legami tra partito e gruppo parlamentare, anch'essi d'alleanza e di parità di diritto. Questo sistema di rapporti faceva sí che concretamente il partito non esistesse come organismo indipendente, ma solo come elemento costitutivo di un organismo piú complesso che aveva tutti i caratteri di un partito del lavoro, discentrato, senza volontà unitaria, ecc. Dunque i sindacati devono essere subordinati al partito? Porre cosí la quistione sarebbe errato. La quistione deve essere impostata cosí: ogni membro del partito, qualsiasi posizione o carica occupi, è sempre un membro del partito ed è subordinato alla sua direzione. Non ci può essere subordinazione tra sindacato e partito, se il sindacato ha spontaneamente scelto come suo dirigente un membro del partito: significa che il sindacato accetta liberamente le direttive del partito, e, quindi, ne accetta liberamente (anzi ne desidera) il controllo sui suoi funzionari.

Questa quistione non fu impostata giustamente nel 1919, quantunque esistesse un grande precedente istruttivo, quello del giugno 1914: perché in realtà non esisteva una politica delle frazioni, cioè una politica del partito.

Agitazione e propaganda.

La debolezza dei partiti politici italiani in tutto il loro periodo di attività, dal Risorgimento in poi (eccettuato in parte il Partito nazionalista) è consistita in quello che si potrebbe chiamare uno squilibrio tra l'agitazione e la propaganda e che, in altri termini, si chiama mancanza di principi, opportunismo, mancanza di continuità organica, squilibrio tra tattica e strategia, ecc. La causa principale di questo modo di essere dei partiti è da ricercare nella deliquescenza delle classi economiche, nella gelatinosa struttura economica e sociale del paese, ma questa spiegazione è alquanto fatalistica: infatti, se è vero che i partiti non sono che la nomenclatura delle classi, è anche vero che i partiti non sono solo una espressione meccanica e passiva delle classi stesse, ma reagiscono energicamente su di esse per svilupparle, assodarle, universalizzarle. Questo appunto non è avvenuto in Italia, e la manifestazione di questa «omissione» è appunto questo squilibrio tra agitazione e propaganda o come altrimenti si voglia dire.

Lo Stato-governo ha una certa responsabilità in questo stato di cose (si può chiamare responsabilità in quanto ha impedito il rafforzamento dello Stato stesso, cioè ha dimostrato che lo Stato-governo, non era un fattore nazionale): il governo ha infatti operato come un «partito», si è posto al di sopra dei partiti non per armonizzarne gli interessi e l'attività nei quadri permanenti della vita e degli interessi statali nazionali, ma per disgregarli, per staccarli dalle grandi masse e avere «una forza di senza-partito legati al governo con vincoli paternalistici di tipo bonapartistico-cesareo»: cosí occorre analizzare le cosí dette dittature di Depretis, Crispi, Giolitti e il fenomeno parlamentare del trasformismo. Le classi esprimono i partiti, i partiti elaborano gli uomini di Stato e di governo, i dirigenti della società civile e della società politica. Ci deve essere un certo rapporto utile e fruttuoso in queste manifestazioni e in queste funzioni. Non può esserci elaborazione di dirigenti dove manca l'attività teorica, dottrinaria dei partiti, dove non sono sistematicamente ricercate e studiate le ragioni di essere e di sviluppo della classe rappresentata. Quindi, scarsità di uomini di Stato, di governo, miseria della vita parlamentare, facilità di disgregare i partiti, corrompendone, assorbendone i pochi uomini indispensabili. Quindi, miseria della vita culturale e angustia meschina dell'alta cultura: invece della storia politica, la erudizione scarnita; invece della religione la superstizione; invece dei libri e delle grandi riviste, il giornale quotidiano e il libello. Il giorno per giorno, con le sue faziosità e i suoi urti personalistici, invece della politica seria. Le Università, tutte le istituzioni che elaboravano le capacità intellettuali e tecniche, non per- meate dalla vita dei partiti, dal realismo vivente della vita nazionale, formavano quadri nazionali apolitici, con formazione mentale puramente rettorica, non nazionale. La burocrazia cosí si estraniava dal paese, e attraverso le posizioni amministrative, diventava un vero partito politico, il peggiore di tutti, perché la gerarchia burocratica sostituiva la gerarchia intellettuale e politica: la burocrazia diventava appunto il partito statale-bonapartistico.

Vedere i libri che dopo il '19 criticarono un «simile» (ma molto piú ricco nella vita della «società civile») stato di cose nella Germania guglielmina, per esempio il libro di Max Weber, Parlamento e governo nel nuovo ordinamento della Germania. Critica politica della burocrazia e della vita dei partiti. Traduzione e prefazione di Enrico Ruta, pp. XVI-200, L. 10,00. (La traduzione è molto imperfetta e imprecisa).

Contro il bizantinismo.

Si può chiamare bizantinismo o scolasticismo la tendenza degenerativa a trattare le quistioni cosí dette teoriche come se avessero un valore di per se stesse, indipendentemente da ogni pratica determinata. Un esempio tipico di bizantinismo sono le cosí dette tesi di Roma [Le «tesi» estremiste presentate e fatte votare da Amadeo Bordiga al II Congresso del Partito comunista italiano, Roma, 1922 n. d. r.], in cui alle quistioni viene applicato il metodo matematico come nella economia pura. Si pone la quistione se una verità teorica scoperta in corrispondenza di una determinata pratica può essere generalizzata e ritenuta universale in una epoca storica. La prova della sua universalità consiste appunto in ciò che essa diventa: 1) stimolo a conoscere meglio la realtà effettuale in un ambiente diverso da quello in cui fu scoperta, e in ciò è il suo primo grado di fecondità; 2) avendo stimolato e aiutato questa migliore comprensione della realtà effettuale, si incorpora a questa realtà stessa come se ne fosse espressione originaria. In questo incorporarsi è la sua concreta universalità, non meramente nella sua coerenza logica e formale e nell'essere uno strumento polemico utile per confondere l'avversario. Insomma, deve sempre vigere il principio che le idee non nascono da altre idee, che le filosofie non sono partorite da altre filosofie, ma che esse sono espressione sempre rinnovata dello sviluppo storico reale. La unità della storia, ciò che gli idealisti chiamano unità dello spirito, non è un presupposto, ma un continuo farsi progressivo. Uguaglianza di realtà effettuale determina identità di pensiero e non viceversa. Se ne deduce ancora che ogni verità, pur essendo universale, e pur potendo essere espressa con una formula astratta, di tipo matematico (per la tribú dei teorici), deve la sua efficacia all'essere espressa nei linguaggi delle situazioni concrete particolari: se non è esprimibile in lingue particolari è un'astrazione bizantina e scolastica, buona per i trastulli dei rimasticatori di frasi.

Cavalieri azzurri (o principi azzurri), calabroni e scarafaggi stercorari.

Luigi Galleani, verso il 1910, ha compilato uno zibaldone farraginoso, intitolato Faccia a faccia col nemico (edito dalle «Cronache sovversive», negli Stati Uniti, a Chicago o a Pittsburg), in cui ha raccolto da giornali disparati, senza metodo e critica, i resoconti dei processi di una serie di cosí detti libertari individualistici (Ravachol, Henry, ecc.). La compilazione è da prendere con le molle, ma qualche spunto curioso può esserne tratto.

1) L'on. Abbo, nel suo discorso di Livorno del gennaio 1921, ripeté letteralmente la dichiarazione di «principi» dell'individualista Etievant, riportata in appendice del libro galleanesco; anche la frase sulla «linguistica», che suscitò l'ilarità generale, è ripetuta alla lettera. Certamente l'on. Abbo sapeva a memoria il pezzo e ciò può servire a indicare quale fosse la cultura dei tipi come l'on. Abbo e come tale letteratura fosse diffusa e popolare.

2) Dalle dichiarazioni degli imputati risulta che uno dei motivi fondamentali delle azioni «individualistiche» era il «diritto al benessere» concepito come un diritto naturale (per i francesi, s'intende, che occupano la maggior parte del libro). Da vari imputati è ripetuta la frase che «una orgia dei signori consuma ciò che basterebbe a mille famiglie operaie»; manca ogni accenno alla produzione e ai rapporti di produzione. La dichiarazione di Etievant, riportata nel testo scritto integrale, è tipica, perché in essa si cerca di costruire un ingenuo e puerile sistema giustificativo delle azioni «individualistiche». Ma le stesse giustificazioni sono valide per tutti, per i gendarmi, per i giudici, per i giurati, per il carnefice: ogni individuo è chiuso in una rete deterministica di sensazioni, come un porco in una botte di ferro, e non può evaderne: l'individualista lancia la «marmitta», il gendarme arresta, il giudice condanna, il carnefice taglia la testa e nessuno può fare a meno di operare cosí. Non c'è via d'uscita, non può esserci punto di risoluzione. È un libertarismo e individualismo che per giustificare moralmente se stesso, si nega in modo pietosamente comico. L'analisi della dichiarazione di Etievant mostra come l'ondata di azioni individualistiche che si abbatté sulla Francia in un certo periodo era la conseguenza episodica dello sconcerto morale e intellettuale che corrose la società francese dal '71 fino al dreyfusismo, nel quale trovò uno sfogo collettivo.

3) A proposito dell'Henry è riportata nel volume la lettera di un certo Galtey (da verificare) al «Figaro». Pare che l'Henry avesse amato la moglie del Galtey, reprimendo «nel proprio seno» questo amore. La donna, saputo che l'Henry era stato innamorato di lei (pare non se ne fosse accorta) dichiarò a un giornalista che se avesse saputo, forse si sarebbe data. Il Galtey, nella lettera, tiene a dichiarare di non aver nulla da obbiettare alla moglie e argomenta: se un uomo non è riuscito a incarnare il sogno romantico della sua donna sul cavaliere (o principe) azzurro, peggio per lui: deve ammettere che un altro lo sostituisca. Questo miscuglio di principi azzurri, di razionalismo materialistico volgare e di furti nelle tombe alla Ravachol è tipico e da rilevare.

4) Nella sua dichiarazione al processo di Lione del 1894 (da verificare) il principe Kropotkin annunzia con tono di sicurezza che sbalordisce come qualmente entro i dieci anni successivi ci sarebbe stato lo sconvolgimento finale.

La debolezza teorica, la nessuna stratificazione e continuità storica della tendenza di sinistra, sono state una delle cause della catastrofe. Per indicare il livello culturale si può citare il fatto di Abbo al congresso di Livorno: quando manca un'attività culturale del partito, i singoli si fanno la cultura come possono e aiutando il vago del concetto di sovversivo, avviene appunto che un Abbo impari a memoria le scempiaggini di un individualista.

Centralismo organico e centralismo democratico. Disciplina.

Come deve essere intesa la disciplina, se si intende con questa parola un rapporto continuato e permanente tra governanti e governati che realizza una volontà collettiva? Non certo come passivo e supino accoglimento di ordini, come meccanica esecuzione di una consegna (ciò che però sarà pure necessario in determinate occasioni, come per esempio nel mezzo di una azione già decisa e iniziata), ma come una consapevole e lucida assimilazione della direttiva da realizzare. La disciplina pertanto non annulla la personalità in senso organico, ma solo limita l'arbitrio e l'impulsività irresponsabile, per non parlare della fatua vanità di emergere. Se si pensa, anche il concetto di «predestinazione» proprio di alcune correnti del cristianesimo, non annulla il cosí detto «libero arbitrio» nel concetto cattolico, poiché l'individuo accetta «volente» il volere divino (cosí pone la quistione il Manzoni nella Pentecoste), al quale, è vero, non potrebbe contrastare, ma a cui collabora o meno con tutte le sue forze morali. La disciplina pertanto non annulla la personalità e la libertà: la quistione della «personalità e libertà» si pone non per il fatto della disciplina, ma per l'«origine del potere che ordina la disciplina». Se questa origine è «democratica», se cioè l'autorità è una funzione tecnica specializzata e non un «arbitrio» o un'imposizione estrinseca ed esteriore, la disciplina è un elemento necessario di ordine democratico, di libertà. Funzione tecnica specializzata sarà da dire quando l'autorità si esercita in un gruppo omogeneo socialmente (o nazionalmente); quando si esercita da un gruppo su un altro gruppo, la disciplina sarà autonoma e libera per il primo, ma non per il secondo.

In caso di azione iniziata o anche già decisa (senza che ci sia il tempo di rimettere utilmente in discussione la decisione) la disciplina può anche apparire estrinseca e autoritaria. Ma altri elementi allora la giustificano. È osservazione di senso comune che una decisione (indirizzo) parzialmente sbagliata può produrre meno danno di una disubbidienza anche giustificata con ragioni generali, poiché ai danni parziali dell'indirizzo parzialmente sbagliato si cumulano gli altri danni della disubbidienza e del duplicarsi degli indirizzi (ciò si è verificato spesso nelle guerre, quando dei generali non hanno ubbidito a ordini parzialmente erronei e pericolosi, provocando catastrofi peggiori e spesso insanabili).

Continuità e tradizione.

Un aspetto della quistione accennata a p. 331 «Dilettantismo e disciplina», dal punto di vista del centro organizzativo di un raggruppamento è quello della «continuità» che tende a creare una «tradizione» intesa, naturalmente, in senso attivo e non passivo come continuità in continuo sviluppo, ma «sviluppo organico». Questo problema contiene in nuce tutto il «problema giuridico», cioè il problema di assimilare alla frazione piú avanzata del raggruppamento tutto il raggruppamento: è un problema di educazione delle masse, della loro «conformazione» secondo le esigenze del fine da raggiungere. Questa appunto è la funzione del diritto nello Stato e nella società; attraverso il «diritto» lo Stato rende «omogeneo» il gruppo dominante e tende a creare un conformismo sociale che sia utile alla linea di sviluppo del gruppo dirigente. L'attività generale del diritto (che è piú ampia dell'attività puramente statale e governativa e include anche l'attività direttiva della società civile, in quelle zone che i tecnici del diritto chiamano di indifferenza giuridica, cioè nella moralità e nel costume in genere) serve a capire meglio, concretamente, il problema etico, che in pratica è la corrispondenza «spontaneamente e liberamente accolta» tra gli atti e le omissioni di ogni individuo, tra la condotta di ogni individuo e i fini che la società si pone come necessari, corrispondenza che è coattiva nella sfera del diritto positivo tecnicamente inteso, ed è spontanea e libera (piú strettamente etica) in quelle zone in cui la «coazione» non è statale ma di opinione pubblica, di ambiente morale, ecc. La continuità «giuridica» del centro organizzativo non dev'essere di tipo bizantino-napoleonico, cioè secondo un codice concepito come perpetuo, ma romano-anglosassone, cioè la cui caratteristica essenziale consiste nel metodo, realistico, sempre aderente alla concreta vita in perpetuo sviluppo. Questa continuità organica richiede un buon archivio, bene attrezzato e di facile consultazione, in cui tutta l'attività passata sia facilmente riscontrabile e «criticabile». Le manifestazioni piú importanti di questa attività non sono tanto le «decisioni organiche» quanto le circolari esplicative e ragionate (educative).

C'è il pericolo di «burocratizzarsi», è vero, ma ogni continuità organica presenta questo pericolo, che occorre vigilare. Il pericolo della discontinuità, dell'improvvisazione, è ancora piú grande. Organo, il «Bollettino» che [ha] tre sezioni principali: 1) articoli direttivi; 2) decisioni e circolari; 3) critica del passato, cioè richiamo continuo dal presente al passato, per mostrare le differenziazioni e le precisazioni e per giustificarle criticamente.

Grande ambizione e piccole ambizioni.

Può esistere politica, cioè storia in atto, senza ambizione? «L'ambizione» ha assunto un significato deteriore e spregevole per due ragioni principali: 1) perché è stata confusa l'ambizione (grande) con le piccole ambizioni; 2) perché l'ambizione ha troppo spesso condotto al piú basso opportunismo, al tradimento dei vecchi principi e delle vecchie formazioni sociali che avevano dato all'ambizioso le condizioni per passare a servizio piú lucrativo e di piú pronto rendimento. In fondo, anche questo secondo motivo si può ridurre al primo: si tratta di piccole ambizioni, poiché hanno fretta e non vogliono aver da superare soverchie difficoltà o troppo grandi difficoltà, o correre troppo grandi pericoli.

È nel carattere di ogni capo di essere ambizioso, cioè di aspirare con ogni sua forza all'esercizio del potere statale. Un capo non ambizioso non è un capo, ed è un elemento pericoloso per i suoi seguaci: egli è un inetto o un vigliacco. Ricordare l'affermazione di Arturo Vella: «Il nostro partito non sarà mai partito di governo», cioè sarà sempre partito di opposizione: ma che significa proporsi di stare sempre all'opposizione? Significa preparare i peggiori disastri, perché, se l'essere all'opposizione è comodo per gli oppositori, non è «comodo» (a seconda, naturalmente, delle forze oppositrici e della loro natura) per i dirigenti del governo, i quali a un certo punto dovranno porsi il problema di spezzare e spazzare l'opposizione. La grande ambizione, oltre che necessaria per la lotta, non è neanche spregevole moralmente, tutt'altro: tutto sta nel vedere se l'«ambizioso» si eleva dopo aver fatto il deserto intorno a sé, o se il suo elevarsi è condizionato consapevolmente dall'elevarsi di tutto uno strato sociale e se l'ambizioso vede appunto la propria elevazione come elemento dell'elevazione generale.

Di solito, si vede la lotta delle piccole ambizioni (del proprio particulare) contro la grande ambizione (che è indissolubile dal bene collettivo). Queste osservazioni sull'ambizione possono e devono essere collegate con altre sulla cosí detta demagogia. Demagogia vuol dire parecchie cose: nel senso deteriore, significa servirsi delle masse popolari, delle loro passioni sapientemente eccitate e nutrite, per i propri fini particolari, per le proprie piccole ambizioni (il parlamentarismo e l'elezionismo offrono un terreno propizio per questa forma particolare di demagogia, che culmina nel cesarismo e nel bonapartismo coi suoi regimi plebiscitari). Ma se il capo non considera le masse umane come uno strumento servile, buono per raggiungere i propri scopi e poi buttar via, ma tende a raggiungere fini politici organici di cui queste masse sono il necessario protagonista storico, se il capo svolge opera «costituente» costruttiva, allora si ha una «demagogia» superiore; le masse non possono non essere aiutate a elevarsi attraverso l'elevarsi di singoli individui e di interi strati «culturali». Il «demagogo» deteriore pone se stesso come insostituibile, crea il deserto intorno a sé, sistematicamente schiaccia ed elimina i possibili concorrenti, vuole entrare in rapporto con le masse direttamente (plebiscito, ecc., grande oratoria, colpi di scena, apparato coreografico fantasmagorico: si tratta di ciò che il Michels ha chiamato «capo carismatico»). Il capo politico dalla grande ambizione, invece, tende a suscitare uno strato intermedio tra sé e la massa, a suscitare possibili «concorrenti» ed eguali, a elevare il livello di capacità delle masse, a creare elementi che possano sostituirlo nella funzione di capo. Egli pensa secondo gli interessi della massa, e questi vogliono che un apparecchio di conquista e di dominio non si sfasci per la morte o il venir meno del singolo capo, ripiombando la massa nel caos e nell'impotenza primitiva. Se è vero che ogni partito è partito di una sola classe, il capo deve poggiare su di questa ed elaborarne uno stato maggiore e tutta una gerarchia; se il capo è di origine «carismatica», deve rinnegare la sua origine e lavorare a rendere organica la funzione della direzione, organica e coi caratteri della permanenza e continuità.

Stato e partiti.

La funzione egemonica o di direzione politica dei partiti può essere valutata dallo svolgersi della vita interna dei partiti stessi. Se lo Stato rappresenta la forza coercitiva e punitiva di regolamentazione giuridica di un paese, i partiti, rappresentando lo spontaneo aderire di una élite a tale regolamentazione, considerata come tipo di convivenza collettiva a cui tutta la massa dev'essere educata, devono mostrare nella loro vita particolare interna di aver assimilato come principi di condotta morale quelle regole che nello Stato sono obbligazioni legali. Nei partiti la necessità è già diventata libertà, e da ciò nasce il grandissimo valore politico (cioè di direzione politica) della disciplina interna di un partito, e quindi il valore di criterio di tale disciplina per valutare la forza di espansività dei diversi partiti. Da questo punto di vista i partiti possono essere considerati come scuole della vita statale. Elementi di vita dei partiti: carattere (resistenza agli impulsi delle culture oltrepassate), onore (volontà intrepida nel sostenere il nuovo tipo di cultura e di vita), dignità (coscienza di operare per un fine superiore), ecc.

[Farmacia di provincia.]

Tendenza al pettegolezzo, alla maldicenza, alle insinuazioni perfide e calunniose in contrapposto alla possibilità di discussione libera, ecc. Istituto della «farmacia di provincia», che ha una sua concezione del mondo che si impernia sul cardine principale che, se le cose vanno male, significa che il diavolo ci ha messo la coda, e gli avvenimenti sono giudicati dagli uomini, che sono tutti mascalzoni, ladri, ecc. Se poi si scopre che un uomo politico è qornuto, tutto diventa chiaro.

Richiamare il costume della cosí detta «briglia della comare», che era un modo di mettere alla berlina le donne pettegole, mettimale e rissose. Alla donna si applicava un meccanismo, che, fissato alla testa e al collo le teneva fermo sulla lingua un listello di metallo che le impediva di parlare.

La logica di Don Ferrante.

Si può avvicinare la forma mentale di don Ferrante a quella che è contenuta nelle cosí dette «tesi» di Roma (ricordare la discussione sul «colpo di Stato» ecc.). Era proprio come il negare la «peste» e il «contagio» da parte di don Ferrante e cosí morirne «stoicamente» (se pure non è da usare un altro avverbio piú appropriato). Ma in don Ferrante in realtà c'era piú ragione «formale» almeno, cioè egli rifletteva il modo di pensare dell'epoca sua (e questo il Manzoni mette in satira, personificandolo in don Ferrante), mentre nel caso piú moderno si trattava di anacronismo, come se don Ferrante fosse risuscitato con tutta la sua mentalità in pieno secolo XX.

[Dirigere e organizzare.]

Convinzione ogni giorno piú radicata che non meno delle iniziative conta il controllo che la iniziativa sia attuata, che mezzi e fini coincidano perfettamente (sebbene non sia ciò da intendere materialmente) e che si può parlare di volere un fine solo quando si sanno predisporre con esattezza, cura, meticolosità, i mezzi adeguati, sufficienti e necessari (né piú né meno, né di qua né di là dalla mira). Convinzione anche radicata, che, poiché le idee camminano e si attuano storicamente con gli uomini di buona volontà, lo studio degli uomini, la scelta di essi, il controllo delle loro azioni è altrettanto necessario che lo studio delle idee, ecc. Perciò ogni distinzione tra il dirigere e l'organizzare (e nello organizzare è compreso il «verificare» o controllare) indica una deviazione e spesso un tradimento.

Élite e decimo sommerso.

È da porsi la domanda se in qualsivoglia società sia possibile la costituzione di una élite, senza che in essa confluiscano una gran quantità di elementi appartenenti al «decimo sommerso» sociale. Ma la domanda diviene necessaria se la élite si costituisce sul terreno di una dottrina che può essere interpretata fatalisticamente: allora affluiscono, credendo di poter giustificare idealmente la loro povertà d'iniziativa, la loro deficiente volontà, la loro mancanza di paziente perseveranza e concentrazione degli sforzi, tutti i falliti, i mediocri, gli sconfitti, i malcontenti che la mancanza non piova dal cielo e le siepi non producano salsicce, che anch'essi sono una forma di «decimo sommerso» delle società in cui la lotta per l'esistenza è accanita e nei paesi poveri, in cui ci si può fare un posto al sole solo dopo lotte accanite. Cosí si può avere una élite alla rovescia, una avanguardia di invalidi, una testa-coda.

[Manifestazioni di settarismo.]

Una delle manifestazioni piú tipiche del pensiero settario (pensiero settario è quello per cui non si riesce a vedere come il partito politico non sia solo l'organizzazione tecnica del partito stesso, ma tutto il blocco sociale attivo di cui il partito è la guida perché l'espressione necessaria) è quella per cui si ritiene di poter fare sempre certe cose anche quando la «situazione politico-militare», è cambiata. Tizio lancia un grido e tutti applaudono e si entusiasmano: il giorno dopo, la stessa gente che ha applaudito e si è entusiasmata a sentire lanciare quel grido, finge di non sentire, scantona, ecc.; al terzo giorno, la stessa gente rimprovera Tizio, lo rintuzza, e anche lo bastona o lo denunzia. Tizio non ne capisce nulla; ma Caio che ha comandato Tizio, rimprovera Tizio di non aver gridato bene, o di essere un vigliacco o un inetto, ecc. Caio è persuaso che quel grido, elaborato dalla sua eccellentissima capacità teorica, deve sempre entusiasmare e trascinare, perché nella sua conventicola infatti i presenti fingono ancora di entusiasmarsi, ecc. Sarebbe interessante descrivere lo stato d'animo di stupore e anche di indignazione del primo francese che vide rivoltarsi il popolo siciliano dei Vespri.

Gli estremisti, con Amadeo Bordiga alla testa, non credevano all'imminenza del colpo di Stato fascista (n.d.r.). Passaggio dalla guerra manovrata (e dall'attacco frontale) alla guerra di posizione anche nel campo politico. Questa mi pare la quistione di teoria politica la piú importante, posta dal periodo del dopoguerra e la piú difficile a essere risolta giustamente. Essa è legata alle quistioni sollevate dal Bronsteinl che, in un modo o nell'altro, può ritenersi il teorico politico dell'attacco frontale in un periodo in cui esso è solo causa di disfatte. Solo indirettamente, mediatamente, questo passaggio nella scienza politica è legato a quello avvenuto nel campo militare, sebbene certamente un legame esista ed essenziale. La guerra di posizione domanda enormi sacrifizi a masse sterminate di popolazione; perciò è necessaria una concentrazione inaudita dell'egemonia e quindi una forma di governo piú «intervenzionista», che piú apertamente prenda l'offensiva contro gli oppositori e organizzi permanentemente l'«impossibilità» di disgregazione interna: controlli di ogni genere, politici, amministrativi, ecc., rafforzamento delle «posizioni» egemoniche del gruppo dominante, ecc. Tutto ciò indica che si è entrati in una fase culminante della situazione politico-storica, poiché nella politica la «guerra di posizione», una volta vinta, è decisiva definitivamente. Nella politica cioè sussiste la guerra di movimento fino a quando si tratta di conquistare posizioni non decisive e quindi non sono mobilizzabili tutte le risorse dell'egemonia e dello Stato, ma quando, per una ragione o per l'altra, queste posizioni hanno perduto il loro valore e solo quelle decisive hanno importanza, allora si passa alla guerra d'assedio, compressa, difficile, in cui si domandano qualità eccezionali, di pazienza e di spirito inventivo. Nella politica l'assedio è reciproco, nonostante tutte le apparenze, e il solo fatto che il dominante debba fare sfoggio di tutte le sue risorse dimostra quale calcolo esso faccia dell'avversario.

«Una resistenza che si prolunga troppo in una piazza assediata è demoralizzante di per se stessa. Essa implica sofferenze, fatiche, privazioni di riposo, malattie e la presenza continua

Politica e arte militare.

Tattica delle grandi masse e tattica immediata di piccoli gruppi. Rientra nella discussione sulla guerra di posizione e quella di movimento, in quanto si riflette nella psicologia dei grandi capi (strateghi) e dei subalterni. È anche (se si può dire) il punto di connessione tra la strategia e la tattica, sia in politica che nell'arte militare. I singoli individui (anche come componenti di vaste masse) sono portati a concepire la guerra istintivamente, come «guerra di partigiani» o «guerra garibaldina» (che è un aspetto superiore della «guerra di partigiani»). Nella politica, l'errore avviene per una inesatta comprensione di ciò che è lo Stato (nel significato integrale: dittatura piú egemonia), nella guerra si ha un errore simile, trasportato nel campo nemico (incomprensione non solo del proprio Stato, ma anche dello Stato nemico). L'errore nell'uno e nell'altro caso è legato al particolarismo individuale, di municipio, di regione, che porta a sottovalutare l'avversario e la sua organizzazione di lotta.

[Il transfuga.]

Viene spesso osservato come un'incongruenza e un sintomo di ciò che la politica di per sé pervertisce gli animi, il fatto che, dopo una rottura «si scopre» contro il transfuga o il traditore un mucchio di malefatte che prima pareva si ignorassero. Ma la quistione non è cosí semplice. In primo luogo la rottura è di solito un lungo processo, del quale solo l'ultimo atto si rivela al pubblico: in questa «istruttoria» si raccolgono tutti i fatti negativi ed è naturale che si cerchi di mettere il «transfuga» in condizioni di torto anche immediato, cioè si finge di essere «longanimi» per mostrare che la rottura era proprio necessaria e inevitabile. Pare che ciò sia abbastanza comprensibile politicamente. Anzi mostra come l'appartenenza a un partito sia ritenuta essere importante e si decida l'atto risolutivo solo quando la misura è colma. Che la enumerazione dei «fatti» sia facile «dopo» è, dunque, chiaro: essa non è che il rendere pubblico un processo che privatamente durava già da un pezzo. In secondo luogo, è anche chiaro che tutta una serie di fatti passati può essere illuminata da un ultimo fatto in modo incontrovertibile. Tizio frequenta quotidianamente una casa: niente di notevole, finché non si viene a sapere, per esempio, che quella tal casa è un covo di spionaggio e Tizio è una spia. Evidentemente chi avesse segnato tutte le volte che Tizio si è recato in questa casa, può enumerare quante volte Tizio si è incontrato con delle spie consapevolmente, senza poter recar sorpresa in nessuno.

Il proverbio: «fratelli, coltelli».

È poi cosí strano e irrazionale che le lotte e gli odi diventino tanto piú accaniti e grandi quanto piú due elementi «sembrano» vicini e portati dalla «forza delle cose» a intendersi e a collaborare? Non pare. Almeno «psicologicamente» il fatto si spiega. Infatti, uno non si può attendere nulla di buono da un nemico o da un avversario; invece ha il diritto di attendersi e di fatto si attende unità e collaborazione da chi gli sta vicino, da chi é legato con lui da vincoli di solidarietà o di qualsiasi genere. Infatti, non solo il proverbio «fratelli, coltelli» si applica ai legami di affetto, ma anche ai legami costituiti da obblighi legali. Che ti faccia del male chi ti è nemico o anche solo indifferente, non ti colpisce, ti rimane «indifferente», non suscita reazioni sentimentali di esasperazione. Ma se chi ti fa del male aveva il dovere morale di aiutarti (nelle associazioni volontarie) o l'obbligo legale di fare diversamente (nelle associazioni di tipo statale), ciò ti esaspera e aumenta il male, poiché ti rende difficile prevedere l'avvenire, ti impedisce di fare progetti e piani, di fissarti una linea di condotta. E certo che ogni uomo cerca di fissare quanti piú elementi è possibile di riferimenti certi nella sua condotta, di limitare il «casuale» e la «forza maggiore»; nello sforzo di questa limitazione entra in calcolo la solidarietà, la parola data, le promesse fatte da altri, che dovrebbero portare a certi fatti certi. Se essi vengono a mancare per incuria, per negligenza, per imperizia, per slealtà, al male che ne risulta si aggiunge l'esasperazione morale che è tipica di questo ordine di relazioni. Se un nemico ti arreca un danno e te ne lamenti, sei uno stupido, perché è proprio dei nemici di arrecare danni. Ma se un amico ti arreca danno, è giustificato il tuo risentimento. Cosí se un rappresentante della legge commette un'illegalità la reazione è diversa che se l'illegalità la commette un bandito. Perciò mi pare che non sia da maravigliarsi dell'accanimento nelle lotte e negli odi tra vicini (per esempio, tra due partiti cose detti affini); il contrario sarebbe sorprendente, cioè l'indifferenza e l'insensibilità morale, come avviene negli urti tra nemici aperti e dichiarati.

Economismo, sindacalismo, svalutazione di ogni movimento culturale ecc.

Ricordare polemica, prima del 1914, tra Tasca e Amadeo [Bordiga (n.d.r.)], con riflesso nell'«Unità» di Firenze. Si dice spesso che l'estremismo «economista» era giustificato dall'opportunismo culturalista (e ciò si dice per tutta l'area di conflitto), ma non si potrebbe anche dire, viceversa, che l'opportunismo culturalista era giustificato dall'estremismo economicistico? In realtà né l'uno né l'altro erano «giustificabili» e sono mai da giustificare. Saranno da «spiegare» realisticamente come i due aspetti della stessa immaturità e dello stesso primitivismo.

[Lingua cinese.]

Se si domanda a Tizio, che non ha mai studiato il cinese e conosce bene solo il dialetto della sua provincia, di tradurre un brano di cinese, egli molto ragionevolmente si maraviglierà, prenderà la domanda in ischerzo e, se si insiste, crederà di essere canzonato, si offenderà e farà ai pugni.

Eppure, lo stesso Tizio, senza essere neanche sollecitato, si crederà autorizzato a parlare di tutta una serie di quistioni che conosce quanto il cinese, di cui ignora il linguaggio tecnico, la posizione storica, la connessione con altre quistioni, talvolta gli stessi elementi fondamentali distintivi. Del cinese almeno sa che è una lingua di un determinato popolo che abita in un determinato punto del globo: di queste quistioni ignora la topografia ideale e i confini che le limitano.

Nel secondo volume delle sue Memorie (edizione francese, II, pp. 233 sgg.) W. Steed racconta come il 30 ottobre 1918, il dott. Kram2-, capo del partito giovane-czeco, che era stato imprigionato e condannato a morte in Austria, si incontrò a Ginevra con Benès. I due fecero una grande fatica a «comprendersi». Dal 1915 Benès aveva vissuto e lavorato nei paesi dell'Intesa e si era assimilato il modo di pensare di essi, mentre Kramg-, restato in Austria, aveva, nonostante tutto, ricevuto la maggior parte delle sue impressioni di guerra per il tramite della cultura e della propaganda tedesca e austriaca. «A mano a mano che la conversazione durava, Benès comprese quale largo fossato separasse i punti di vista di guerra degli Alleati e dell'Europa centrale. Mi comunicò le sue impressioni al suo ritorno a Parigi e io compresi che se la differenza di pensiero poteva essere cosí grande tra due patrioti czechi, tanto piú grande doveva essere tra gli Alleati e i popoli germanici, cosí grande, invero, da escludere ogni possibilità di intesa tra essi finché non fosse stato formulato un vocabolario o un gruppo di pensieri comuni». Perciò Steed propone a Northcliffe di trasformare l'ufficio di propaganda e di dedicarlo a questo fine: creare la possibilità di far comprendere ai Tedeschi ciò che era successo e perché, in modo, per cosí dire, da «disincantare» il popolo tedesco e renderlo passibile di accettare come necessaria la pace che l'Intesa avrebbe imposto.

Si tratta, come si vede, di due ordini di fatti e di osservazioni: 1°) Che uomini il cui pensiero sia fondamentalmente identico, dopo aver vissuto staccati e in condizioni di vita tanto diverse, finiscono col durar fatica a intendersi, creandosi cosí la necessità di un periodo di lavoro comune, necessario per riaccordarsi allo stesso diapason. Se non si capisce questa necessità si incorre nel rischio banale di impostare polemiche senza sugo, su quistioni di «vocabolario», quando ben altro occorrerebbe fare. Ciò rinforza il principio che in ogni movimento il grado di preparazione del personale non deve essere inteso astrattamente (come fatto esteriormente culturale, di elevazione culturale), ma come preparazione «concorde» e coordinata, in modo che nel personale, come visione, esista identità nel modo di ragionare e quindi rapidità di intendersi per operare di concerto con speditezza. 2°) Che non solo due campi nemici non si comprenderanno piú per lungo tempo dopo la fine della lotta, ma non si comprenderanno neanche gli elementi affini tra loro che esistono nei due campi come massa e che dopo la lotta dovrebbero amalgamarsi rapidamente. Che non bisogna pensare che, data l'affinità, la riunione sia per avvenire automaticamente, ma occorre predisporla con un lavoro di lunga mano su tutta l'area, cioè in tutta l'estensione del dominio culturale e non astrattamente, cioè partendo da principi generali sempre validi, ma concretamente, sull'esperienza dell'immediato passato e dell'immediato presente, da cui i principi devono sembrar scaturire come ferrea necessità, e non come a priori.

Sindacato e corporazione.

Difficoltà che trovano i teorici del corporativismo a inquadrare il fatto sindacale (organizzazione delle categorie) e sorda lotta tra sindacalisti tradizionali (per esempio, E. Rossoni) e corporativisti di nuova mentalità (per esempio, Giuseppe Bottai e Ugo Spirito). In realtà, il Rossoni non riesce a superare la vecchia concezione del sindacalismo formale e astratto, ma è anche vero che neanche il Bottai e lo Spirito riescono a comprendere e superare l'esigenza che sia pure grossolanamente e sordamente il Rossoni rappresenta. D'altronde, neanche il Bottai e lo Spirito sono d'accordo. Il Bottai afferma che il sindacato è un'istituzione necessaria che non può essere assorbita dalla corporazione, ma non riesce a definire cosa debba essere e quale funzione debba avere il sindacato; lo Spirito, invece, con una consequenziarietà formale, sostiene che il sindacato deve essere assorbito nella corporazione, ma in questo assorbimento non appare quali compiti nuovi e quali nuove forme debbano risultare. Lo Spirito in due scritti sul libro del Bottai (Il Consiglio nazionale delle corporazioni, Mondadori, Milano 1932, pp. XI-427), il primo pubblicato nel «Leonardo» del marzo 1933 (Il fascismo nella fase corporativa) e il secondo nell'«Italia Letteraria» del 26 marzo del 1933 (Origine e avvenire della corporazione fascista) accenna al suo dissenso col Bottai. Scrive lo Spirito in questo secondo articolo: «Di quali prospettive intenda parlare il Bottai, si comprende da quel che egli osserva nello stesso articolo (articolo in «Lo Spettacolo Italiano» del settembre 1930), a proposito del rapporto tra sindacalismo e corporativismo e quindi tra sindacati e corporazioni e tra corporazioni nazionali e corporazioni di categoria. In una nota pubblicata in "Leonardo" ho già accennato al risoluto atteggiamento assunto dal Bottai contro ogni tentativo verso un corporativismo integrale che risolva in sé il sindacalismo. Eppure, penso che il concepire in tal modo l'ulteriore sviluppo del corporativismo sia nella stessa logica di tutto il suo pensiero e della sua azione politica, volta a dare realtà e concretezza alla corporazione. Se la corporazione stenta ancora a trovare quella ricchezza che le è indubbiamente riservata, è soltanto perché non riesce a riassorbire in sé il sindacato, al quale resta giustapposta e in gran parte estranea. Il sindacalismo di Stato ha segnato il primo passo verso il corporativismo; oggi bisogna porre il problema del superamento definitivo di una forma sociale troppo legata ancora al passato, e perciò in qualche modo limitatrice dell'originalità del fascismo. Il sindacalismo è espressione del classismo; col sindacato di Stato le classi sono messe allo stesso livello e avviate a una piú spirituale collaborazione, ma soltanto con la corporazione il classismo sarà superato sul serio e con esso il principio dell'arbitraria concorrenza (liberalismo) e della materialistica lotta (socialismo). Allora la corporazione si arricchirà di tutta la vita del sindacato, e liberata dalla funzione di comporre il dualismo inerente all'ordinamento sindacale, potrà operare senza limiti nella costruzione della nuova vita economica e politica». Appaiono evidenti le ragioni per cui il Bottai non accetta la tesi dello Spirito, ragioni politiche ed economiche, come appare evidente che la costruzione dello Spirito è una non molto brillante e feconda utopia libresca. Ma è interessante notare che in verità non si comprende neanche cosa lo Spirito intenda per sindacato e per categoria e come egli paia non conoscere la letteratura in proposito. Gli si potrebbero ricordare le polemiche sull'organizzazione per fabbrica (di tipo industriale) in contrapposto a quella per categoria, il diverso significato che la parola categoria ha avuto (dal semplice mestiere, per esempio di tornitore, a quello di operaio metallurgico, ecc.) e la discussione stessa se, nonostante che fosse un progresso l'amalgamazione di tutti gli elementi di un'industria in un solo sindacato unitario, tuttavia non fosse necessario, per ragioni tecnico-professionali (sviluppo delle forme di lavoro, degli utensili, ecc.) conservare una traccia dell'organizzazione di mestiere, in quanto il mestiere tecnicamente si mantiene distinto e indipendente.

È da notare, in ogni modo, la giustezza fondamentale dell'intuizione dello Spirito, per la quale, ammesso che il classismo sia stato superato dal corporativismo e da una forma qualsiasi di economia regolata e programmatica, le vecchie forme sindacali nate sul terreno del classismo, devono essere aggiornate, ciò che potrebbe anche voler dire assorbite dalla corporazione (da ciò si deduce che la resistenza del vecchio sindacalismo formale e astratto è una forma di critica reale ad affermazioni che si possono fare solo sulla carta). Cioè il sindacalismo astratto e formale è solo una forma di feticismo e di superstizione? Nell'elemento sindacato prevale ancora il salariato, da una parte, e il percettore di profitto, dall'altra, oppure realmente il fatto produttivo ha superato quello della distribuzione del reddito industriale tra i vari elementi della produzione?

Fino a quando l'operaio da una parte e l'industriale dall'altra dovranno preoccuparsi del salario e del profitto, è evidente che il sindacalismo vecchio tipo non è superato e non può essere assorbito in altre istituzioni. Il torto scientifico dello Spirito è quello di non esaminare in concreto questi problemi, ma nel presentare le quistioni nel loro aspetto formale e apodittico, senza le necessarie distinzioni e le indispensabili fasi di transizione: da ciò forse non solo il suo contrasto col Rossoni ma anche quello col Bottai, il cui spirito politico non può non sentire queste necessità. Se si parte dal punto di vista della produzione, e non da quello della lotta per la distribuzione del reddito, è evidente che il terreno sindacale deve essere completamente mutato. In una fabbrica di automobili di una certa estensione, oltre agli operai meccanici, lavora un certo numero di operai di altre «categorie»: muratori, elettricisti, materassai, carrozzieri, pellettieri, vetrai, ecc. Questi operai a quale sindacato dovranno appartenere dal punto di vista della produzione? Certamente al sindacato metallurgico o meglio ancora, al sindacato dell'automobile, perché il loro lavoro è necessario per la costruzione dell'automobile. Cioè in ogni complesso produttivo, tutti i mestieri sono rivolti alla costruzione dell'oggetto principale per cui il complesso è specializzato. Ma se la base è il salario, è evidente che i muratori dovranno unirsi ai muratori, ecc., per regolare il mercato del lavoro, ecc. D'altronde, pure riconosciuta la necessità che tutti i mestieri di un'azienda produttiva si uniscano per la produzione, intorno al prodotto stesso, occorre tener conto che ogni mestiere è un fatto tecnico in continuo sviluppo e che di questo sviluppo bisogna esista un organo, che controlli, diffonda, favorisca le innovazioni progressive. Si può riconoscere che nell'attuale grande azienda razionalizzata, le vecchie qualifiche di mestiere vanno sempre piú perdendo importanza e si sviluppano nuove qualifiche, spesso limitate a un'azienda o a un gruppo di aziende: tuttavia l'esigenza rimane ed è dimostrata dalle difficoltà dei turnover e dalla spesa che l'eccessivo turnover rappresenta per l'azienda stessa. La soluzione rappresentata dai delegati di

reparto eletti dalle squadre di lavorazione, per cui nel complesso rappresentativo tutti i mestieri hanno un rilievo, pare sia finora la migliore trovata. È possibile infatti riunire i delegati per mestiere nelle quistioni tecniche e l'insieme dei delegati sulle quistioni produttive. Finora lo Spirito non si è mai interessato delle quistioni di fabbrica e di azienda: eppure, non è possibile parlare con competenza dei sindacati e dei problemi che essi rappresentano senza occuparsi della fabbrica o dell'azienda amministrativa, delle sue esigenze tecniche, dei rapporti reali che vi si annodano e dei diversi atteggiamenti vitali che gli addetti vi assumono. Per l'assenza di questi interessi vivi, tutta la costruzione dello Spirito è puramente intellettualistica e, se attuata, darebbe luogo solamente a schemi burocratici senza impulso e senza possibilità di sviluppo.

[Il lavoratore collettivo.]

Nell'esposizione critica degli avvenimenti successivi alla guerra e dei tentativi costituzionali (organici) per uscire dallo stato di disordine e di dispersione delle forze, mostrare come il movimento per valorizzare la fabbrica [Il movimento dei consigli di fabbrica, promosso dalla rivista «L'Ordine Nuovo» (n.d.r.)], in contrasto (o meglio autonomamente) con la (dalla) organizzazione professionale, corrispondesse perfettamente all'analisi che dello sviluppo del sistema di fabbrica è fatta nel primo volume della Critica dell'economia politica'. Che una sempre piú perfetta divisione del lavoro riduca oggettivamente la posizione del lavoratore nella fabbrica a movimenti di dettaglio sempre piú «analitici», in modo che al singolo sfugge la complessità dell'opera comune, e nella sua coscienza stessa il proprio contributo si deprezzi fino a sembrare sostituibile facilmente in ogni istante; che nello stesso tempo il lavoro concertato e bene ordinato dia una maggiore produttività «sociale» e che l'insieme della maestranza della fabbrica debba concepirsi come un «lavoratore collettivo», sono i presupposti del movimento di fabbrica che tende a fare diventare «soggettivo» ciò che è dato «oggettivamente». Cosa poi vuol dire in questo caso oggettivo? Per il lavoratore singolo «oggettivo» è l'incontrarsi delle esigenze dello sviluppo tecnico con gli interessi della classe dominante. Ma questo incontro, questa unità tra sviluppo tecnico e gli interessi della classe dominante è solo una fase storica dello sviluppo industriale, deve essere concepito come transitorio. Il nesso può sciogliersi; l'esigenza tecnica può essere pensata concretamente separata dagli interessi della classe dominante, non solo, ma unita con gli interessi della classe ancora subalterna. Che una tale «scissione» e nuova sintesi sia storicamente matura é dimostrato perentoriamente dal fatto stesso che un tale processo è compreso dalla classe subalterna, che appunto perciò non è piú subalterna, ossia mostra di tendere a uscire dalla sua condizione subordinata. Il «lavoratore collettivo» comprende di essere tale e non solo in ogni singola fabbrica, ma in sfere piú ampie della divisione del lavoro nazionale e internazionale e questa coscienza acquistata dà una manifestazione esterna, politica, appunto negli organismi che rappresentano la fabbrica come produttrice di oggetti reali e non di profitto.

Società politica e civile.

Polemica intorno alle critiche di Ugo Spirito all'economia tradizionale. Nella polemica ci sono molti sottintesi e presupposti ideologici che si evita di discutere, almeno finora, da parte degli «economisti» e anche da parte dello Spirito, a quanto pare. È, evidente che gli economisti non vogliono discutere la concezione dello Stato dello Spirito, ma è proprio questa la radice del dissenso. Lo Spirito, d'altronde, non vuole o esita a spingerli e incalzarli su questo terreno, perché la conseguenza sarebbe di suscitare una discussione politica generale e di far apparire l'esistenza di piú partiti nello stesso partito, uno dei quali collegato strettamente con sedicenti senza partito: apparirebbe esistere un partito degli scienziati e dell'alta cultura. Da parte degli scienziati, d'altronde, sarebbe facile dimostrare tutta l'arbitrarietà delle proposizioni dello Spirito, e della sua concezione dello Stato, ma essi non vogliono uscire da certi limiti, che raramente trascendono l'indulgenza e la cortesia personale. Quello che è comico è la pretensione dello Spirito, che gli economisti gli costruiscano una scienza economica secondo il suo punto di vista. Ma nella polemica dello Spirito non tutto è da buttar via: ci sono alcune esigenze reali, affogate nella farragine delle parole «speculative». L'episodio perciò è da notare come un momento della lotta culturale-politica. Nell'esposizione occorre, appunto, partire dalla concezione dello Stato propria dello Spirito e dell'idealismo gentiliano, che è ben lungi dall'essere stata fatta propria dallo «Stato» stesso, cioè dalle classi dominanti e dal personale politico piú attivo, cioè non è per nulla diventata (tutt'altro!) elemento di una politica culturale governativa. A ciò si oppone il Concordato (si oppone implicitamente, s'intende) ed è nota l'avversione del Gentile al Concordato, espressa nel 1928 (confrontare articoli nel «Corriere della Sera» e discorsi di quel tempo); occorre tener conto del discorso di Paolo Orano alla Camera (confrontare), nel 1930, tanto piú significativo se si tien conto che Paolo Orano spesso ha parlato alla Camera in senso «ufficioso». Da tener conto anche della breve ma violenta critica del libro dello Spirito (Critica dell'economia liberale) pubblicata nella «Rivista di Politica Economica» (dicembre 1930) da A. De Pietri Tonelli, dato che la rivista è emanazione degli industriali italiani (cfr. la direzione: nel passato era organo dell'Associazione delle società anonime). Ancora: all'Accademia è stato chiamato P. Jannaccone, noto economista ortodosso, che ha demolito lo Spirito nella «Riforma Sociale» (dicembre 1930). Confrontare anche la Postilla del Croce nella «Critica» del gennaio 1931. Dalle pubblicazioni dello Spirito apparse nei «Nuovi Studi» appare come le sue tesi sono finora state accettate integralmente solo da... Massimo Fovel, noto avventuriero della politica e dell'economia. Tuttavia allo Spirito si lascia fare la voce grossa e si dànno incarichi di fiducia (dal ministro Bottai, credo, che ha fondato l'«Archivio di studi corporativi» con ampia partecipazione dello Spirito e C.).

La concezione dello Stato nello Spirito non è molto chiara e rigorosa. Talvolta sembra sostenga addirittura che prima che egli diventasse «la filosofia», nessuno abbia capito nulla dello Stato e lo Stato non sia esistito o non fosse un «vero» Stato, ecc. Ma siccome vuol essere storicista, quando se ne ricorda, ammette che anche nel passato sia esistito lo Stato, ma che ormai tutto è cambiato e lo Stato (o il concetto dello Stato) è stato approfondito e posto su «ben altre» basi speculative che nel passato e, poiché «quanto piú una scienza è speculativa tanto piú è pratica», cosí pare che queste basi speculative debbano ipso facto diventare basi pratiche e tutta la costruzione reale dello Stato mutare, perché lo Spirito ne ha mutato le basi speculative (naturalmente non lo Spirito uomo empirico, ma Ugo Spirito-Filosofia). Confrontare Critica dell'economia liberale, p. 180: «Il mio saggio sul Pareto voleva essere un atto di fede e di buona volontà: di fede in quanto con esso volevo iniziare lo svolgimento del programma dei "Nuovi Studi" e cioè il raccostamento e la collaborazione effettiva della filosofia e della scienza», e le illazioni sono lí: filosofia = realtà, quindi anche scienza e anche economia, cioè Ugo Spirito = sole raggiante di tutta la filosofia — realtà, che invita gli scienziati specialisti a collaborare con lui, a lasciarsi riscaldare dai suoi raggi-principi, anzi a essere i suoi raggi stessi per diventare «veri» scienziati, cioè «veri» filosofi.

Poiché gli scienziati non vogliono lasciarsi fare e solo qualcuno si lascia indurre a entrare in rapporto epistolare con lui, ecco che lo Spirito li sfida nel suo terreno e, se non accettano ancora, sorride sardonicamente e trionfalmente: non accettano la sfida, perché hanno paura o qualcosa di simile. Lo Spirito non può supporre che gli scienziati non vogliano occuparsi di lui perché non ne vale la pena e perché hanno altro da fare. Poiché egli è la «filosofia» e filosofia = scienza, ecc. quegli scienziati non sono «veri» scienziati, anzi la «vera» scienza non è mai esistita, ecc.

Volpicelli e Spirito, direttori dei «Nuovi Studi», i Bouvard e Pécuchet della filosofia, della politica, dell'economia, del diritto, della scienza, ecc. ecc. Quistione fondamentale: l'utopia di Spirito e Volpicelli consiste nel confondere lo Stato con la società regolata, confusione che si verifica per una puramente «razionalistica» concatenazione di concetti: individuo = società (l'individuo non è un «atomo» ma l'individuazione storica dell'intera società), società = Stato, dunque individuo = Stato. Il carattere che differenzia questa «utopia» dalle utopie tradizionali e dalle ricerche, in generale, dell'«ottimo Stato» è che Spirito e Volpicelli dànno come già esistente questa loro «fantastica» entità, esistente ma non riconosciuta da altri che da loro, depositari della «vera verità», mentre gli altri (specialmente gli economisti e in generale gli scienziati di scienze sociali) non capiscono nulla, sono nell'«errore», ecc. Per quale «coda del diavolo» avvenga che solo Spirito e Volpicelli posseggano questa verità e gli altri non la vogliano possedere, non è stato ancora spiegato dai due, ma appare qua e là un barlume dei mezzi con cui i due ritengono che la verità dovrà essere diffusa e diventare autocoscienza: è la polizia (ricordare il discorso Gentile a Palermo nel '24). Per ragioni politiche è stato detto alle masse: «Ciò che voi aspettavate e vi era stato promesso dai ciarlatani, ecco, esiste già», cioè la società regolata, l'uguaglianza economica, ecc. Spirito e Volpicelli (dietro Gentile, che però non è cosí sciocco come i due) hanno allargato l'affermazione, e l'hanno «speculata», «filosofizzata», sistemata, e si battono come leoni impagliati contro tutto il mondo, che sa bene cosa pensare di tutto ciò. Ma la critica di questa «utopia» domanderebbe ben altra critica, avrebbe ben altre conseguenze che la carriera piú o meno brillante dei due Aiaci dell'«attualismo» e allora assistiamo alla giostra attuale. In ogni modo è ben meritato che il mondo intellettuale sia sotto la ferula di questi due pagliacci, come fu ben meritato che l'aristocrazia milanese sia rimasta tanti anni sotto il tallone della triade. (La sottoscrizione per le nozze di donna Franca potrebbe essere paragonata con l'atto di omaggio a Francesco Giuseppe nel1853: [la distanza] da Francesco Giuseppe a donna Franca indica la caduta della aristocrazia milanese). Bisognerebbe anche osservare come la concezione di Spirito e Volpicelli sia un derivato logico delle piú scempie e «razionali» teorie democratiche. Ancora essa è legata alla concezione della «natura umana» identica e senza sviluppo come era concepita prima di Marx per cui tutti gli uomini sono fondamentalmente uguali nel regno dello Spirito (= in questo caso allo Spirito Santo e a Dio padre di tutti gli uomini).

Questa concezione è espressa nella citazione che Benedetto Croce fa nel capitolo A proposito del positivismo italiano (in Cultura e vita morale, p. 45) da «una vecchia dissertazione tedesca»: «Omnis enim philosophia, cum ad communem hominum cogitandi facultatem revocet, per se democratica est; ideoque ab optimatibus non iniuria sibi existimatur perniciosa». Questa «comune facoltà di pensare», diventata «natura umana», ha dato luogo a tante utopie di cui si riscontra traccia in tante scienze che partono dal concetto dell'uguaglianza perfetta fra gli uomini, ecc.

[La «filosofia dell'epoca».]

La discussione sulla forza e il consenso ha dimostrato come sia relativamente progredita in Italia la scienza politica e come nella sua trattazione, anche da parte di statisti responsabili, esista una certa franchezza di espressione. Questa discussione è la discussione della «filosofia dell'epoca», del motivo centrale della vita degli Stati nel periodo del dopoguerra. Come ricostruire l'apparato egemonico del gruppo dominante, apparato disgregatosi per le conseguenze della guerra in tutti gli Stati del mondo? Intanto perché si è disgregato? Forse perché si è sviluppata una forte volontà politica collettiva antagonistica? Se cosí fosse stato, la quistione sarebbe stata risolta a favore di tale antagonista. Si è disgregato invece per cause puramente meccaniche di diverso genere: 1) perché grandi masse, precedentemente passive sono entrate in movimento, ma in un movimento caotico e disordinato, senza direzione, cioè senza precisa volontà politica collettiva; 2) perché classi medie che nella guerra avevano avuto funzioni di comando e di responsabilità ne sono state private con la pace, restando disoccupate, proprio dopo aver fatto un apprendissaggio di comando, ecc.; 3) perché le forze antagonistiche sono risultate incapaci a organizzare a loro profitto questo disordine di fatto. Il problema era di ricostruire l'apparato egemonico di questi elementi prima passivi e apolitici, e questo non poteva avvenire senza la forza: ma questa forza non poteva essere quella «legale» ecc. Poiché in ogni Stato il complesso dei rapporti sociali era diverso, diversi dovevano essere i metodi politici di impiego della forza e la combinazione delle forze legali e illegali. Quanto piú grande è la massa di apolitici, tanto piú grande deve essere l'apporto delle forze illegali. Quanto piú grandi sono le forze politicamente organizzate e educate, tanto piú ocorre «coprire» lo Stato legale, ecc.

Un dialogo.

Qualcosa c'è di mutato fondamentalmente. E si può vedere. Che cosa? Prima tutti volevano essere oratori della storia, avere le parti attive, ognuno avere una parte attiva. Nessuno voleva essere «concio» della storia. Ma può ararsi senza prima ingrassare la terra? Dunque ci deve essere l'aratore e il «concio». Astrattamente tutti lo ammettevano. Ma praticamente? «Concio» per «concio» tanto valeva tirarsi indietro, rientrare nel buio, nell'indistinto. Qualcosa è cambiato, perché c'è chi si adatta «filosoficamente» a essere concio, chi sa di doverlo essere, e si adatta. È come la quistione dell'uomo in punto di morte, come si dice. Ma c'è una grande differenza, perché in punto di morte si è a un atto decisivo che dura un attimo; invece, nella quistione del concio, la quistione dura a lungo, e si ripresenta ogni momento. Si vive una volta sola, come si dice; la propria personalità è insostituibile. Non si presenta, per giocarla, una scelta spasmodica, di un istante, in cui tutti i valori sono apprezzati fulmineamente e si deve decidere senza rinvio. Qui il rinvio è di ogni istante e la decisione deve ripetersi ogni istante. Perciò si dice che qualcosa è cambiato. Non è neanche la quistione di vivere un giorno da leone o cento anni da pecora. Non si vive da leone neppure un minuto, tutt'altro: si vive da sottopecora per anni e anni e si sa di dover vivere cosí. L'immagine di Prometeo che, invece di essere aggredito dall'aquila, è invece divorato dai parassiti. Giobbe l'hanno potuto immaginare gli Ebrei: Prometeo potevano solo immaginarlo i Greci; ma gli Ebrei sono stati piú realisti, piú spietati, e anche hanno dato una maggiore evidenza al loro eroe.

L'on. De Vecchi. Confrontare nella «Gerarchia» dell'ottobre 1928 l'articolo di Umberto Zamboni, La marcia su Roma. Appunti inediti. L'azione della colonna Zamboni, dove si dice che il De Vecchi, solo tra i quadrumviri, era rimasto a Roma «per tentare ancora l'estremo tentativo di una soluzione pacifica». L'affermazione è da confrontare con l'articolo di Michele Bianchi, nel numero unico di «Gerarchia» dedicato alla marcia su Roma e in cui si parla del De Vecchi in forma abbastanza strana. Lo Zamboni andò a Perugia col Bianchi e avrà sentito da lui questa versione dei contatti avuti tra il De Vecchi e il Bianchi il 27 ottobre.

[La marcia su Roma.]

Sulla marcia su Roma vedere il numero di «Gioventú Fascista» pubblicato per il nono anniversario (1931), con articoli molto interessanti di De Bono e Balbo. Balbo, tra l'altro, scrive: «Mussolini agí. Se non lo avesse fatto, il movimento fascista avrebbe perpetuato per decenni la guerriglia civile e non è escluso che altre forze che militavano, come le nostre, al di fuori della legge dello Stato ma con finalità anarchiche e distruttive, avrebbero finito per giovarsi della neutralità e dell'impotenza statale per compiere piú tardi il gesto di rivolta da noi tentato nell'ottobre del '22. In ogni modo è certo che senza la marcia su Roma, cioè senza la soluzione rivoluzionaria, il nostro movimento sarebbe andato incontro a quelle fatali crisi di stanchezza, di tendenze e di indisciplina, che erano state la tomba dei vecchi partiti». C'è qualche inesattezza: lo Stato non era «neutrale e impotente» come si è soliti dire, appunto perché il movimento fascista ne era il principale sostegno in quel periodo; né ci poteva essere «guerra civile» tra lo Stato e il movimento fascista, ma solo un'azione violenta sporadica per mutare la direzione dello Stato e riformarne l'apparato amministrativo. Nella guerriglia civile il movimento fascista fu in linea con lo Stato, non contro lo Stato, altro che per metafora e secondo la forma esterna della legge.

Storia dei 45 cavalieri ungheresi.

Ettore Ciccotti, durante il governo Giolitti di prima del 1914, soleva spesso ricordare un episodio della guerra dei Trent'Anni: pare che 45 cavalieri ungari si fossero stabiliti nelle Fiandre e, poiché la popolazione era stata disarmata e demoralizzata dalla lunga guerra, siano riusciti per oltre sei mesi a tiranneggiare il paese. In realtà, in ogni occasione è possibile che sorgano «45 cavalieri ungari», là dove non esiste un sistema protettivo delle popolazioni inermi, disperse, costrette al lavoro per vivere e quindi non in grado, in ogni momento, di respingere gli assalti, le scorrerie, le depredazioni, i colpi di mano eseguiti con un certo spirito di sistema e con un minimo di previsione «strategica». Eppure, a quasi tutti pare impossibile che una situazione come questa da «45 cavalieri ungari» possa mai verificarsi: e in questa «miscredenza» è da vedere un documento di innocenza politica. Elementi di tale «miscredenza» sono specialmente una serie di «feticismi», di idoli, primo fra tutti quello del «popolo» sempre fremente e generoso contro i tiranni e le oppressioni. Ma forse che, proporzionalmente, sono piú numerosi gli Inglesi in India di quanto fossero i cavalieri ungari nelle Fiandre? E ancora: gli Inglesi hanno i loro seguaci fra gli Indiani, quelli che stanno sempre col piú forte, non solo, ma anche dei seguaci «consapevoli», coscienti, ecc. Non si capisce che, in ogni situazione politica, la parte attiva è sempre una minoranza, e che se questa, quando è seguita dalle moltitudini, non organizza stabilmente questo seguito, e viene dispersa per un'occasione qualsiasi propizia alla minoranza avversa, tutto l'apparecchio si sfascia e se ne forma uno nuovo, in cui le vecchie moltitudini non contano nulla e non possono piú muoversi e operare. Ciò che si chiamava «massa» è stata polverizzata in tanti atomi senza volontà e orientamento e una nuova «massa» si forma, anche se di volume inferiore alla prima, ma piú compatta e resistente, che ha la funzione di impedire che la primitiva massa si riformi e diventi efficiente. Tuttavia molti continuano a richiamarsi a questo fantasma del passato, lo immaginano sempre esistente, sempre fremente, ecc. Cosf il Mazzini immaginava sempre l'Italia del '48 come un'entità permanente che occorreva solo indurre, con qualche artifizio, a ritornare in piazza ecc. L'errore è anche legato a un'assenza di «sperimentalità»: il politico realista, che conosce le difficoltà di organizzare una volontà collettiva, non è portato a credere facilmente che essa si riformi meccanicamente dopo che si è disgregata. L'ideologo, che come il cuculo ha posto le uova in un nido già preparato e non sa costruir nidi, pensa che le volontà collettive siano un dato di fatto naturalistico, che sbocciano e si sviluppano per ragioni insite nelle cose, ecc.

[La burocrazia.]

Un aspetto essenziale della struttura del paese è l'importanza che nella sua composizione ha la burocrazia. Quanti sono gli impiegati dell'amministrazione statale e locale? E quale frazione della popolazione vive coi proventi degli impieghi statali e locali? È da vedere il libro del dottor Renato Spaventa, Burocrazia, ordinamenti amministrativi e fascismo, 1928, editori Treves. Egli riporta il giudizio di un «illustre economista» che diciassette anni prima, cioè quando la popolazione era sui 35 milioni, calcolava che «coloro che traggono sostentamento da un impiego pubblico, oscillano sui due milioni di persone». Pare che in essi non fossero calcolati gli impiegati degli enti locali, mentre pare fossero calcolati gli addetti alle ferrovie e alle industrie monopolizzate, che non possono calcolarsi come impiegati amministrativi, ma devono essere considerati a parte, perché, bene o male, producono beni controllabili e sono assunti per necessità industriali controllabili con esattezza. Il paragone tra i vari Stati può essere fatto per gli impiegati amministrativi centrali e locali e per la parte di bilancio che consumano (e per la frazione di popolazione che rappresentano), non per gli addetti alle industrie e ai servizi statizzati che non sono simili e omogenei tra Stato e Stato. Per questa stessa ragione non possono includersi fra gli impiegati statali i maestri di scuola, che devono essere considerati a parte ecc. Bisogna isolare e confrontare quegli elementi di impiego statale e locale che esistono in ogni Stato moderno, anche nel piú «liberistico», e considerare a parte tutte le altre forme di impiego, ecc.

Lo Stato e i funzionari.

Un'opinione diffusa è questa: che mentre per i cittadini l'osservanza delle leggi è un obbligo giuridico, per lo «Stato» l'osservanza è solo un obbligo morale, cioè un obbligo senza sanzioni punitive per l'evasione. Si pone la quistione: che cosa si intende per «Stato», cioè chi ha solo l'obbligo «morale» di osservare la legge e non si finisce mai di constatare quanta gente crede di non avere obblighi «giuridici» e di godere dell'immunità e dell'impunità. Questo «stato d'animo» è legato a un costume o ha creato un costume? L'una cosa e l'altra sono vere. Cioè lo Stato, in quanto legge scritta permanente, non è stato mai concepito (e fatto concepire) come un obbligo oggettivo o universale.

Questo modo di pensare è legato alla curiosa concezione del «dovere civico» indipendente dai «diritti», come se esistessero doveri senza diritti e viceversa: questa concezione è legata appunto all'altra della non obbligatorietà giuridica delle leggi per lo Stato, cioè per i funzionari e agenti statali i quali pare abbiano troppo da fare per obbligare gli altri perché rimanga loro tempo di obbligare se stessi.

Millenovecentoventidue.

Articoli del senatore Raffaele Garofalo, alto magistrato di Cassazione, sull'«Epoca» di Roma, a proposito della dipendenza della magistratura dal potere esecutivo e della giustizia amministrata con le circolari. Ma è specialmente interessante l'ordine di ragioni con cui il Garofalo sosteneva la necessità immediata di rendere indipendente la magistratura.

Otto Kahn.

Suo viaggio in Europa nel 1924. Sue dichiarazioni a proposito del regime italiano e di quello inglese di Mac Donald. Analoghe dichiarazioni di Paul Warburg (Otto Kahn e Paul Warburg appartengono ambedue alla grande firma americana Kuhn-Loeb et Co.), di Judge Gary, dei delegati della Camera di Commercio americana e di altri grandi finanzieri. Simpatie della grande finanza internazionale per il regime inglese e italiano. Come si spiega nel quadro dell'espansionismo mondiale degli Stati Uniti. La sicurezza dei capitali americani all'estero: intanto non azioni, ma obbligazioni. Altre garanzie non puramente commerciali ma politiche per il trattato sui debiti concluso da Volpi (vedere atti parlamentari, perché nei giornali certe «minuzie» non furono pubblicate) e per il prestito Morgan. Atteggiamento di Caillaux e della Francia verso i debiti e il perché del rifiuto di Caillaux di concludere l'accordo. Tuttavia anche Caillaux rappresenta la grande finanza, ma francese, che tende anch'essa all'egemonia o per lo meno a una certa posizione di superiorità (in ogni caso non vuole essere subordinata). Il libro di Caillaux, Dove va la Francia? Dove va l'Europa?, in cui [è] esposto chiaramente il programma politico-sociale della grande finanza e si spiega la simpatia per il laburismo. Somiglianze reali tra il regime politico degli Stati Uniti e dell'Italia, notato anche in altra nota.

Tendenze nell'organizzazione esterna dei fattori umani produttivi nel dopoguerra. Mi pare che tutto l'insieme di queste tendenze debba far pensare al movimento cattolico economico della Controriforma, che ebbe la sua espressione pratica nello Stato gesuitico del Paraguay. Tutte le tendenze organiche del moderno capitalismo di Stato dovrebbero essere ricondotte a quella esperienza gesuitica. Nel dopoguerra c'è stato un movimento intellettualistico e razionalistico che corrisponde al fiorire delle utopie nella Controriforma: quel movimento è legato al vecchio protezionismo, ma se ne differenzia e lo supera, sboccando in tanti tentativi di economie «organiche» e di Stati organici. Si potrebbe applicare ad essi il giudizio del Croce sullo Stato del Paraguay: che si tratti, cioè, di un modo per un savio sfruttamento capitalistico nelle nuove condizioni che rendono impossibile (almeno in tutta la sua esplicazione ed estensione) la politica economica liberale.

La crisi.

Lo studio degli avvenimenti che assumono il nome di crisi e che si prolungano in forma catastrofica dal 1929 a oggi dovrà attirare speciale attenzione. 1) Occorrerà combattere chiunque voglia di questi avvenimenti dare una definizione unica, o che è lo stesso, trovare una causa o un'origine unica. Si tratta di un processo che ha molte manifestazioni e in cui cause ed effetti si complicano e si accavallano. Semplificare significa snaturare e falsificare. Dunque: processo complesso, come in molti altri fenomeni, e non «fatto» unico che si ripete in varie forme per una causa ed origine unica. 2) Quando è cominciata la crisi? La domanda è legata alla prima. Trattandosi di uno svolgimento e non di un evento, la quistione è importante. Si può dire che della crisi come tale non vi è data d'inizio, ma solo di alcune «manifestazioni» piú clamorose che vengono identificate con la crisi, erroneamente e tendenziosamente. L'autunno del 1929 col crack della borsa di New York è per alcuni l'inizio della crisi e, si capisce, per quelli che nell'«americanismo» vogliono trovare l'origine e la causa della crisi. Ma gli eventi dell'autunno 1929 in America sono appunto una delle clamorose manifestazioni dello svolgimento critico, niente altro. Tutto il dopoguerra è crisi, con tentativi di ovviarla, che volta a volta hanno fortuna in questo o quel paese, niente altro. Per alcuni (e forse non a torto) la guerra stessa è una manifestazione della crisi, anzi la prima manifestazione, appunto la guerra fu la risposta politica ed organizzativa dei responsabili. (Ciò mostrerebbe che è difficile nei fatti separare la crisi economica dalle crisi politiche, ideologiche, ecc., sebbene ciò sia possibile scientificamente, cioè con un lavoro di astrazione). 3) La crisi ha origine nei rapporti tecnici, cioè nelle posizioni di classe rispettive, o in altri fatti? Legislazioni, torbidi ecc.? Certo pare dimostrabile che la crisi ha origini «tecniche» cioè nei rapporti rispettivi di classe, ma che ai suoi inizi le prime manifestazioni o previsioni dettero luogo a conflitti di vario genere e a interventi legislativi, che misero piú in luce la «crisi» stessa, non la determinarono, o ne aumentarono alcuni fattori. Questi tre punti: 1) che la crisi è un processo complicato; 2) che si inizia almeno con la guerra, se pure questa non ne è la prima manifestazione; 3) che la crisi ha origini interne, nei modi di produzione e, quindi, di scambio, e non in fatti politici e giuridici, paiono i tre primi punti da chiarire con esattezza.

Altro punto è quello che si dimenticano i fatti semplici, cioè le contraddizioni fondamentali della società attuale, per fatti apparentemente complessi (ma meglio sarebbe dire «lambiccati»). Una delle contraddizioni fondamentali è questa: che, mentre la vita economica ha come premessa necessaria l'internazionalismo o meglio il cosmopolitismo, la vita statale si è sempre piú sviluppata nel senso del «nazionalismo», «del bastare a se stessi», ecc. Uno dei caratteri piú appariscenti dell'«at tuale crisi» è niente altro che l'esasperazione dell'elemento nazionalistico (statale-nazionalistico) nell'economia: contingentamenti, clearing, restrizione al commercio delle divise, commercio bilanciato tra due soli Stati, ecc. Si potrebbe allora dire, e questo sarebbe il piú esatto, che la «crisi» non è altro che l'intensificazione quantitativa di certi elementi, non nuovi e originali, ma specialmente l'intensificazione di certi fenomeni, mentre altri che prima apparivano e operavano simultaneamente ai primi, immunizzandoli, sono divenuti inoperosi o sono scomparsi del tutto. Insomma, lo sviluppo del capitalismo è stata una «continua crisi», se cosí si può dire, cioè un rapidissimo movimento di elementi che si equilibravano e immunizzavano. A un certo punto, in questo movimento, alcuni elementi hanno avuto il sopravvento, altri sono spariti o sono divenuti inetti nel quadro generale. Sono allora sopravvenuti avvenimenti ai quali si dà il nome specifico di «crisi», che sono piú gravi, meno gravi appunto secondo che elementi maggiori o minori di equilibrio si verificano. Dato questo quadro generale, si può studiare il fenomeno nei diversi piani e aspetti: monetario, finanziario, produttivo, del commercio interno, del commercio internazionale, ecc., e non è detto che ognuno di questi aspetti, data la divisione internazionale del lavoro e delle funzioni nei vari paesi, non sia apparso prevalente o manifestazione massima. Ma il problema fondamentale è quello produttivo; e, nella produzione, lo squilibrio tra industrie progressive (nelle quali il capitale costante è andato aumentando) e industrie stazionarie (dove conta molto la mano d'opera immediata). Si comprende che, avvenendo anche nel campo internazionale una stratificazione tra industrie progressive e stazionarie, i paesi dove le industrie progressive sovrabbondano hanno sentito piú la crisi, ecc. Onde illusioni varie dipendenti dal fatto che non si comprende che il mondo è una unità, si voglia o non si voglia, e che tutti i paesi, rimanendo in certe condizioni di struttura, passeranno per certe «crisi». (Per tutti questi argomenti sarà da vedere la letteratura della Società delle Nazioni, dei suoi esperti e della sua commissione finanziaria, che servirà almeno ad avere dinanzi tutto il materiale sulla quistione, cosí anche le pubblicazioni delle piú importanti riviste internazionali e delle Camere dei deputati).

La moneta e l'oro. La base aurea della moneta è resa necessaria dal commercio internazionale e dal fatto che esistono e operano le divisioni nazionali (ciò che porta a fatti tecnici particolari di questo campo da cui non si può prescindere: tra i fatti c'è la rapidità di circolazione che non è un piccolo fatto economico). Dato che le merci si scambiano con le merci, in tutti i campi, la quistione è se questo fatto innegabile, avvenga in breve o lungo tempo e se questa differenza di tempo abbia la sua importanza. Dato che le merci si scambiano con le merci (intesi tra le merci i servizi) è evidente l'importanza del «credito» cioè il fatto che una massa di merci o servizi fondamentali, che indicano cioè un completo ciclo commerciale, producono dei titoli di scambio e che tali titoli dovrebbero mantenersi uguali in ogni momento (di pari potere di scambio) pena l'arresto degli scambi. È vero che le merci si scambiano con le merci, ma «astrattamente», cioè gli attori dello scambio sono diversi (non c'è il «baratto» individuale, cioè, e ciò appunto accelera il movimento). Perciò se è necessario che, nell'interno di uno Stato, la moneta sia stabile, tanto piú necessario appare sia stabile la moneta che serve agli scambi internazionali, in cui «gli attori reali» scompaiono dietro il fenomeno. Quando in uno Stato la moneta varia (inflazione o deflazione), avviene una nuova stratificazione di classi nel paese stesso, ma, quando varia una moneta internazionale (per esempio la sterlina, e meno, il dollaro, ecc.) avviene una nuova gerarchia fra gli Stati, ciò che è piú complesso e porta ad arresto nel commercio (e spesso a guerre); cioè c'è passaggio «gratuito» di merci e servizi tra un paese e l'altro e non solo tra una classe e l'altra della popolazione. La stabilità della moneta è una rivendicazione, all'interno, di alcune classi e, all'estero (per le monete internazionali, per cui si sono presi gli impegni), di tutti i commercianti; ma perché esse variano? Le ragioni sono molte, certamente: 1) perché lo Stato spende troppo, cioè non vuol far pa gare le sue spese a certe classi, direttamente, ma indirettamente ad altre e, se possibile, a paesi stranieri; 2) perché non si vuole diminuire un costo «direttamente» (esempio il salario), ma solo indirettamente e in un tempo prolungato, evitando attriti pericolosi, ecc. In ogni caso, anche gli effetti monetari sono dovuti all'opposizione dei gruppi sociali, che bisogna intendere nel senso non sempre del paese stesso dove il fatto avviene, ma di un paese antagonista.

È questo un principio poco approfondito e tuttavia capitale per la comprensione della storia: che un paese sia distrutto dalle invasioni «straniere» o barbariche non vuol dire che la storia di quel paese non è inclusa nella lotta di gruppi sociali. Perché è avvenuta l'invasione? Perché quel movimento di popolazione, ecc.? Come, in un certo senso, in uno Stato, la storia è storia delle classi dirigenti, cosí, nel mondo, la storia è storia degli Stati egemoni. La storia degli Stati subalterni si spiega con la storia degli Stati egemoni. La caduta dell'impero romano si spiega con lo svolgimento della vita dell'impero romano stesso, ma questo dice perché «mancavano» certe forze, cioè è una storia negativa e perciò lascia insoddisfatti. La storia della caduta dell'impero romano è da ricercare nello sviluppo delle popolazioni «barbariche» e anche oltre, perché spesso i movimenti delle popolazioni barbariche erano [conseguenze] «meccaniche» (cioè poco conosciute) di altro movimento affatto sconosciuto. Ecco perché la caduta dell'impero romano dà luogo a «brani oratori» e viene presentata come un enigma: 1) perché non si vuole riconoscere che le forze decisive della storia mondiale non erano allora nell'impero romano (fossero pure forze primitive); 2) perché di tali forze mancano i documenti storici. Se c'è enigma, non si tratta di cose «inconoscibili», ma semplicemente «sconosciute» per mancanza di documenti. Rimane da vedere la parte negativa: «perché l'impero si fece battere?»; ma appunto lo studio delle forze negative è quello che soddisfa di meno e a ragione, perché di per sé presuppone l'esistenza di forze positive e non si vuol mai confessare di non conoscere queste. Nella quistione dell'impostazione storica della caduta dell'impero romano entrano in gioco anche elementi ideologici, di boria, che sono tutt'altro che trascurabili.

Elementi della crisi economica.

Nella pubblicità della «Riforma Sociale» le cause «piú caratteristiche e gravi» della crisi sono elencate come segue: 1) alte imposte; 2) consorzi industriali; 3) sindacati operai; 4) salvataggi; 5) vincoli; 6) battaglie per il prodotto nazionale; 7) contingentamento; 8) debiti interalleati; 9) armamenti; 10) protezionismo. Appare che alcuni elementi sono simili, sebbene siano elencati partitamente, come cause specifiche. Altri non sono elencati: esempio le proibizioni all'emigrazione. Mi pare che facendo un'analisi si dovrebbe incominciare dall'elencare gli impedimenti posti dalle politiche nazionali (o nazionalistiche) allà,circolazione: 1) delle merci; 2) dei capitali; 3) degli uomini (lavoratori e fondatori di nuove industrie e nuove aziende commerciali). Che non si parli, da parte dei liberali, degli ostacoli posti alla circolazione degli uomini è sintomatico, poiché nel regime liberale tutto si tiene e un ostacolo ne crea una serie di altri. Se si ritiene che gli ostacoli alla circolazione degli uomini sono «normali», ossia giustificabili, ossia dovuti a «forza maggiore», significa che tutta la crisi è «dovuta a forza maggiore», è «strutturale», e non di congiuntura, e non può essere superata che costruendo una nuova struttura, che tenga conto delle tendenze insite nella vecchia struttura e le domini con nuove premesse. La premessa maggiore in questo caso è il nazionalismo, che non consiste solo nel tentativo di produrre nel proprio territorio tutto ciò che vi si consuma (il che significa che tutte le forze sono indirizzate nella previsione dello stato di guerra), ciò che si esprime nel protezionismo tradizionale; ma nel tentativo di fissare le principali correnti di commercio con determinati paesi, o perché alleati (perché quindi li si vuol sostenere e li si vuol foggiare in un modo piú acconcio allo stato di guerra) o perché li si vuole stroncare già prima della guerra militare (e questo nuovo tipo di politica economica è quello dei «contingentamenti» che parte dall'assurdo che tra due paesi vi debba essere «bilancia pari» negli scambi, e non che ogni paese può bilanciare alla pari solo commerciando con tutti gli altri paesi indistintamente). Tra gli elementi di crisi fissati dalla «Riforma Sociale» non tutti sono accettabili senza critica; per esempio... «le alte imposte». Esse sono dannose quando sono rivolte a mantenere una popolazione sproporzionata alle necessità amministrative, non quando servono ad anticipare capitali che solo lo Stato può anticipare, anche se questi capitali non sono immediatamente produttivi (e non si accenna alla difesa militare). La cosí detta politica dei «lavori pubblici» non è criticabile in sé, ma solo in condizioni date: cioè sono criticabili i lavori pubblici inutili o anche lussuosi, non quelli che creano le condizioni per un futuro incremento dei traffici o evitano danni certi (alluvioni per esempio) ed evitabili, senza che individualmente nessuno possa essere spinto (abbia il guadagno) a sostituire lo Stato in questa attività. Cosí dicasi dei «consorzi industriali»: sono criticabili i consorzi «artificiosi», non quelli che nascono per la forza delle cose; se ogni «consorzio» è dannabile, allora il sistema è dannabile, perché il sistema, anche senza spinte artificiali, cioè senza lucri prodotti dalla legge, spinge a creare consorzi, cioè a diminuire le spese generali. Cosí è dei «sindacati operai» che non nascono artificialmente, anzi nascono o sono nati nonostante tutte le avversità e gli ostacoli di legge (e non solo di legge, ma dell'attività criminosa privata impunita dalla legge). Gli elementi elencati dalla «Riforma Sociale» mostrano cosí la debolezza degli economisti liberali di fronte alla crisi: 1) essi tacciono alcuni elementi; 2) mescolano arbitrariamente gli elementi considerati, non distinguendo quelli che sono «necessari» dagli altri, ecc.

Osservazioni sulla crisi '29-'30.

Confrontare numero di «Economia» del marzo 1931 dedicato a La depressione economica mondiale: i due articoli di P. Jannaccone e di Gino Arias. Il Jannaccone osserva che «la causa prima» (sic!) della crisi «è un eccesso, non un difetto di consumo», cioè che siamo di fronte a una profonda e, assai probabilmente, non passeggera perturbazione dell'equilibrio dinamico fra la quota consumata e la quota risparmiata del reddito nazionale e il ritmo della produzione necessario per mantenere in un tenore di vita, immutato o progrediente, una popolazione che aumenta a un determinato saggio di incremento netto. La rottura di tale equilibrio può verificarsi in piú modi: espansione della quota di reddito consumata a danno di quella risparmiata e reinvestita per la produzione futura; diminuzione del saggio di produttività dei capitali, aumento del saggio di incremento netto della popolazione. A un certo punto, cioè, il reddito medio individuale da crescente diviene costante e da costante progressivamente decrescente: scoppiano a questo punto le crisi, la diminuzione del reddito medio porta a una contrazione anche assoluta del consumo e per riflesso a ulteriori riduzioni della produzione ecc. La crisi mondiale, cosi, sarebbe crisi di risparmio, e «il rimedio sovrano per arginarla, senza che si abbassi il saggio d'incremento [netto] della popolazione, sta nell'aumentare la quota di reddito destinata al risparmio e alla formazione di capitali nuovi. Questo è l'ammonimento di alto valore morale che sgorga dai ragionamenti della scienza economica».

Le osservazioni del Jannaccone sono indubbiamente acute: l'Arias ne trae però delle conclusioni puramente tendenziose e in parte imbecilli. Ammessa la tesi del Jannaccone è da domandare: a che cosa è da attribuire l'eccesso di consumo? Si può provare che le masse lavoratrici abbiano aumentato il loro tenore di vita in tale proporzione da rappresentare un eccesso di consumo? Cioè il rapporto tra salari e profitti è diventato catastrofico per i profitti? Una statistica non potrebbe dimostrare questo neppure per l'America. L'Arias «trascura» un elemento «storico» di qualche importanza: non è avvenuto che nella distribuzione del reddito nazionale, attraverso specialmente il commercio e la borsa, si sia introdotta, nel dopoguerra (o sia aumentata in confronto del periodo precedente), una categoria di «prelevatori» che non rappresenta nessuna funzione produttiva necessaria e indispensabile, mentre assorbe una quota di reddito imponente? Non si bada che il «salario è sempre legato necessariamente a un lavoro» (bisognerebbe distinguere però il salario o la mercede che assorbe la categoria di lavoratori addetti al servizio delle categorie sociali improduttive e assolutamente parassitarie), (ci sono [inoltre] lavoratori infermi o disoccupati che vivono di pubblica carità o di sussidi) e il reddito assorbito dal salariato è identificabile quasi al centesimo. Mentre è difficile identificare il reddito assorbito dai non-salariati che non hanno una funzione necessaria e indispensabile nel commercio e nell'industria. Un rapporto tra operai «occupati» e il resto della popolazione darebbe l'immagine del peso «parassitario» che grava sulla produzione. Disoccupazione di non-salariati: essi non sono passibili di statistica, perché «vivono» in qualche modo di mezzi propri, ecc. Nel dopoguerra la categoria degli improduttivi parassitari in senso assoluto e relativo è cresciuta enormemente, ed è essa che divora il risparmio. Nei paesi europei essa è ancor superiore che in America, ecc. Le cause della crisi non sono quindi «morali» (godimenti, ecc.), né politiche ma economico-sociali, cioè della stessa natura della crisi stessa: la società crea i suoi propri veleni, deve far vivere delle masse (non solo di salariati disoccupati) di popolazione che impediscono il risparmio e rompono cosí l'equilibrio dinamico.

[Imposte e assicurazioni.]

Oltre al gettito delle imposte (i redditi patrimoniali sono trascurabili) i governi hanno a loro disposizione le grandi somme rappresentate dal movimento delle assicurazioni, che spesso sono imponenti. È da vedere se attraverso le assicurazioni non si riesca a imporre nuove tasse. Vedere quanto costa l'assicurazione e se essa è «pagata» con maggiore o minore facilità e subito o con ritardo. Se, rendendola piú a buon prezzo, potrebbe diffondersi maggiormente, quali classi sono assicurate e quali escluse; l'assicurazione è una forma di risparmio, anzi la piú tipica e popolare. Come lo Stato reintegra le somme che si fa passare dagli istituti di assicurazione? Con buoni del tesoro o con debito pubblico? In ogni modo, il governo ha la possibilità di spendere senza il controllo del Parlamento. È escluso un fallimento o difficoltà delle assicurazioni? Le assicurazioni sono organizzate come una specie di gioco del lotto: si calcola che sempre ci sarà guadagno, e ingente. Errore: il guadagno dovrebbe essere ridotto ai margini del calcolo delle probabilità attuarie. Inoltre: i capitali ingenti a disposizione dell'assicurazione dovrebbero avere investimenti sicuri, certo, e di tutto riposo, ma produttivi in senso piú elastico che non siano gli investimenti di Stato. Come lo Stato, attraverso l'obbligo della conversione in titoli dei patrimoni di una serie di enti, specialmente di beneficenza, sia riuscito a espropriare parti notevoli del patrimonio dei poveri: esempio, il Collegio delle Province di Torino. Le conversioni della rendita e le inflazioni, anche se a lungo intervallo, sono catastrofiche per tali enti e li distruggono completamente.

Studi sulla struttura economica nazionale.

Significato esatto delle tre iniziative su cui si è tanto discusso: 1) consorzi obbligatori; 2) Istituto mobiliare italiano; 3) poteri dello Stato di proibire la creazione di nuove industrie e l'estensione di quelle esistenti (cioè necessità della patente statale per l'iniziativa industriale da un giorno dato); 4) Istituto per la ricostruzione industriale (diviso in due sezioni giuridicamente autonome: a) sezione finanziamento industriale; b) sezione smobilizzi industriali).

Intanto occorre per ogni istituto una «storia» esatta delle fasi legali attraverso cui è passato e l'identificazione delle cause immediate che ne provocarono la fondazione. Per le prospettive generali di questi istituti, è da tener conto innanzi tutto della particolare funzione svolta dallo Stato italiano in ogni tempo nell'economia, in sostituzione della cosí detta iniziativa privata o assente o «diffidata» dai risparmiatori. La quistione «economica» potrebbe esser questa: se tali istituti non rappresentino una spesa gravosa in confronto di ciò che sarebbe se la loro funzione fosse svolta dall'iniziativa privata. Pare questo un falso problema, e non è: certo, in quanto manca l'attore privato di una certa funzione e questa è necessaria per svecchiare la vita nazionale, è meglio che lo Stato si assuma la funzione. Ma conviene dirlo apertamente, cioè dire che non si tratta della realizzazione di un progresso effettivo, ma della constatazione di una arretratezza cui si vuole ovviare «ad ogni costo» e pagandone lo scotto. Non è neanche vero che se ne paga lo scotto una volta per tutte: lo scotto che si paga oggi non eviterà di pagare un altro scotto quando dalla nazionalizzazione, per rimediare a una certa arretratezza, si passerà alla nazionalizzazione come fase storica organica e necessaria nello sviluppo dell'economia verso una costruzione programmatica. La fase attuale è quella corrispondente, in un certo senso, alle monarchie illuminate del Settecento. Di moderno ha la terminologia esteriore e meccanica, presa da altri paesi dove questa fase è realmente moderna e progressiva.

Nazionalizzazioni.

Cfr. l'articolo di A. De Stefani nel «Corriere» del 16 marzo '32 (La copertura delle perdite): «Anche in tempi ordinari negli attuali regimi protezionistici, è tutta la nazione che concorre a pareggiare sistematicamente i bilanci delle aziende e a formare i loro utili... Il problema della copertura delle perdite di un'azienda è appunto quello della loro ripartizione oltre la cerchia che dovrebbe direttamente sopportarle a termini del diritto comune: i proprietari (azionisti), i creditori (prestatori di denaro, prestatori d'opera e fornitori). Tale processo potrebbe chiamarsi, nei casi in cui lo Stato provvede a coprire le perdite di un'azienda, un processo di nazionalizzazione delle perdite, un'estensione del principio del risarcimento dei danni di guerra e degli infortuni naturali». Che si nazionalizzino le perdite, e non i profitti, che si risarciscano i danni creati dalla speculazione (voluta), ma non dalla disoccupazione (involontaria), non fa ridere il De Stefani.

L'individuo e lo Stato.

Come la situazione economica è mutata a «danno» del vecchio liberalismo: è vero che ogni cittadino conosce i suoi affari meglio di chiunque altro nelle attuali condizioni? è vero che avviene, nelle attuali condizioni, una selezione secondo i meriti? «Ogni cittadino», in quanto non può conoscere e specialmente non può controllare le condizioni generali in cui gli affari si svolgono data l'ampiezza del mercato mondiale e la sua complessità, in realtà non conosce neanche i propri affari: necessità delle grandi organizzazioni industriali, ecc. Inoltre lo Stato, col regime sempre piú gravoso delle imposte, colpisce i cittadini propri, ma non può colpire i cittadini delle altre nazioni (meno tassate, o con regimi di tasse che distribuiscono diversamente le imposte); i grandi Stati, che devono avere grandi spese per servizi pubblici imponenti (compresi esercito, marina, ecc.) colpiscono di piú i cittadini propri (si aggiunge la disoccupazione sussidiata, ecc.). Ma l'intervento dello Stato con le tariffe doganali crea una nuova base? Lo Stato, con le tariffe, «sceglie» tra i cittadini quelli da proteggere anche se non «meritevoli», e scatena una lotta tra i gruppi per la divisione del reddito nazionale, ecc.

[Roma capitale.]

La frase che «non si rimane a Roma senza idee», che trovasi citata in altra nota', ed è attribuita al Mommsen, è stata pronunciata il 26 marzo 1861 (in Parlamento) da Giuseppe Ferrari, che sosteneva doversi andare a Roma «colle idee proclamate dalla Rivoluzione francese», che «ci possono redimere dal pontefice perché riscattano la ragione». Nel 1872 (16 dicembre, in Parlamento), il Ferrari osservava che come tante altre cose d'Italia si erano fatte «a poco a poco, lentamente, per una serie di quasi», si era «persino trovato il mezzo di venire a Roma a poco a poco»; e aggiungeva: non vorrei «che a poco a poco fossero snaturate le nostre istituzioni e che noi ci trovassimo in un altro mondo: per esempio, nel Medioevo». Ricordare che dei moderati, Quintino Sella trovava che «bisognava andare a Roma» con un'idea universale, e quest'idea trovava nella «scienza».

Cfr. B. Croce, Storia d'Italia, 3' ediz., p. 4 e nota alla p. 4, a p. 305. In un articolo del 22 dicembre 1864, all'annunzio della votazione che decide il trasferimento della capitale da Torino a Firenze, Francesco De Sanctis (nell'«Italia» di Napoli o nel «Diritto»? cercare) scrive: «A Roma noi andiamo per edificarvi la terza civiltà, per farla una terza volta regina del mondo civile. La capitale del mondo pagano e del mondo cattolico è ben degna di essere la capitale dello spirito moderno. Roma dunque è per noi non il passato, ma l'avvenire».

Il problema della capitale: Roma-Milano.

Funzione e posizione delle piú grandi città: Torino - Trieste - Genova - Bologna - Firenze - Napoli - Palermo - Bari - Ancona, ecc. Nella statistica industriale del 1927 e nelle pubblicazioni che ne hanno esposto i risultati, esiste una divisione, di questi dati per città e per centri industriali in generale? (L'industria tessile presenta zone industriali senza grandi città, come Biellese, Comasco, Vicentino, ecc.) Rilievo sociale e politico delle città italiane.

Questo problema è coordinato a quello delle «cento città», cioè dell'agglomerazione in borghi (città) della borghesia rurale, e dell'agglomerazione in borgate contadine di grandi masse di braccianti agricoli e di contadini senza terra dove esiste il latifondo estensivo (Puglie, Sicilia). È collegato anche al problema di quale gruppo sociale eserciti la direzione politica e intellettuale sulle grandi masse, direzione di primo grado e di secondo grado (gli intellettuali esercitano spesso una direzione di secondo grado, poiché essi stessi sono sotto l'influsso dei grandi proprietari terrieri e questi a loro volta, direttamente e indirettamente, in modo parziale o in modo totale, sono diretti dalla grande borghesia, specialmente finanziaria).

Industriali e agrari.

Tutta la storia passata, dal nascere di una certa industria in poi, è caratterizzata da un difficile e complicato sforzo di dividere il reddito nazionale tra industriali e agrari, sforzo complicato dall'esistenza di una relativamente vasta categoria di medi e piccoli proprietari terrieri non coltivatori, ma abitanti in città (nelle cento città), divoratori parassitari di rendita agraria. Poiché il sistema cosí costruito (protezionismo industriale e protezionismo agricolo) non può non essere insufficiente, esso si regge sul basso tenor di vita delle grandi masse, per la mancanza di materie prime (che non permette un grande sviluppo industriale) e per l'impossibilità di risparmio notevole, perché i margini sono inghiottiti dai ceti parassitari e manca l'accumulazione (nonostante il basso tenor di vita delle grandi masse). Cosí si spiega anche lo stento in cui vivono certe industrie esportatrici, come la seta, che si avvantaggerebbe enormemente dal basso prezzo dei viveri e potrebbe entrare in vittoriosa concorrenza con la Francia, alla quale l'Italia cede la materia prima (i bozzoli). Calcolare quanti bozzoli sono venduti all'estero e quanti trasformati in Italia, e calcolare la differenza che passa tra l'esportazione della seta lavorata e quella dei bozzoli grezzi. Altro calcolo per lo zucchero, che [è] piú protetto del grano, ecc. Analisi delle industrie d'esportazione, che potrebbero nascere o svilupparsi sia nella città che nell'agricoltura, senza il sistema doganale vigente. Quando l'assenza di materie prime assurge a motivo di politica militarista e nazionalista (non certo imperialista, che è grado piú sviluppato dello stesso processo) è naturale domandarsi se le materie prime esistenti sono bene sfruttate, perché altrimenti non si tratta di politica nazionale (cioè di una intera classe), ma di una oligarchia parassitaria e privilegiata, cioè non si tratta di politica estera, ma di politica interna di corruzione e di deperimento delle forze nazionali.

La borghesia rurale.

Articolo di Alfredo Rocco, La Francia risparmiatrice e banchiera, in «Gerarchia» dell'ottobre 1931. Articolo da rettificare in molti particolari; ma il punto principale da notarsi è questo: perché in Francia si accumula tanto risparmio? Sarà solamente perché i Francesi sono tirchi e avari, come pare sostenere il Rocco? Sarebbe difficile dimostrarlo, almeno in senso assoluto. Gli Italiani sono «sobri, lavoratori, economi»: perché non si accumula risparmio in Italia? Il tenore di vita medio francese è superiore in modo notevole a quello italiano (confrontare studio del Camis sull'alimentazione in Italia), perciò gli Italiani dovrebbero risparmiare di piú dei Francesi. In Italia non avviene ciò che avviene in Francia perché esistono classi assolutamente parassitarie che non esistono in Francia, e piú importante di tutte, la borghesia rurale (confrontare il libro del Serpieri) sulle classi rurali in Italia durante la guerra e precisare quanto «costa» una tale classe ai contadini italiani).

La quistione della terra.

Apparente frazionamento della terra in Italia: ma la terra non [è] dei contadini coltivatori, ma della borghesia rurale, che spesso [è] piú feroce e usuraia del grande proprietario. Accanto a questo fenomeno c'è l'altro del polverizzarsi della poca terra posseduta dai contadini lavoratori (che intanto sono per lo piú in alta collina e in montagna). Questo polverizzarsi ha diverse cause: 1) la povertà del contadino che è costretto a vendere una parte della sua poca terra; 2) la tendenza ad avere molte piccolissime parcelle nelle diverse zone agricole del comune o di una serie di comuni, come assicurazioni contro la monocoltura esposta a totale distruzione in caso di cattiva annata; 3) il principio di eredità della terra fra i figli, ognuno dei quali vuole una parcella di ogni campo ereditato (questo parcellamento non appare dal catasto perché la divisione non viene fatta legalmente, ma bona fide). Pare che il nuovo codice civile introduca anche in Italia il principio del homestead, o bene di famiglia, che tende appunto in molti paesi a evitare lo sminuzzamento eccessivo della terra, a causa di eredità.

Quistioni agrarie.

Cosa deve intendersi per «azienda agricola»? Un'organizzazione industriale per la produzione agricola che abbia caratteri permanenti di continuità organica. Differenza tra azienda e impresa. L'impresa può essere per fini immediati, mutevoli ogni anno o gruppo di anni, ecc. senza investimenti fondiari, ecc., con capitale d'esercizio «d'avventura». La quistione ha importanza, perché l'esistenza della azienda o del sistema aziendale indica il grado di industrializzazione raggiunto e ha una ripercussione sulla mentalità della massa contadina. Arrigo Serpieri: «La stabilizzazione nello spazio dell'impresa è realizzata, quando essa coincide con una azienda, unità tecnico-economica che stabilmente coordina terra, capitali e forze di lavoro occorrenti alla produzione». (Su alcuni di questi problemi, confrontare l'articolo del Serpieri, Il momento attuale della bonifica, nella «Gerarchia» del luglio 1933).

«L'agricoltore è risparmiatore: egli sa che la sistemazione del terreno, gli impianti, le costruzioni, sono cose periture e sa che cagioni nemiche, che egli non può dominare, possono fargli perdere il raccolto; non calcola quote d'ammortamento, di reintegro e di rischio, ma accumula risparmio e, nei momenti difficili, ha una resistenza economica che meraviglia chi esamina le situazioni contingenti». (Antonio Marozzi, La razionalizzazione della produzione, «Nuova Antologia», 16 febbraio 1932). È vero che il contadino è un risparmiatore generico e che ciò, in circostanze molto determinate, è una forza; ma bisognerebbe notare a che prezzo sono possibili questi risparmi «generici» resi necessari dall'impossibilità di calcoli economici precisi, e come questi risparmi vengano scremati dalle manovre della finanza e della speculazione.

Contadini e vita della campagna.

Elementi direttivi per una ricerca: condizioni materiali di vita: abitazione, alimentazione, alcoolismo, pratiche igieniche, abbigliamento, movimento demografico (mortalità, natalità, mortalità infantile, nuzialità, nascite illegittime, inurbamento, frequenza dei reati di sangue e altri reati non economici, litigiosità giudiziaria per quistioni di proprietà, ipoteche, subaste per imposte non pagate, movimento della proprietà terriera, inventario agricolo, costruzioni di case rurali, reati di carattere economico, frodi, furti, falsi, ecc., inurbamento di donne per servizi domestici, emigrazione, popolazione passiva familiare). Orientamento della psicologia popolare nei problemi della religione e della politica, frequenza scolastica dei fanciulli, analfabetismo delle reclute e delle donne.

Distribuzione territoriale della popolazione italiana.

Secondo il censimento del 1921, su ogni 1000 abitanti, 258 vivevano in case sparse e 262 in centri con meno di 2000 abitanti (questa può dirsi tutta popolazione rurale), 125 nei centri con 20005000 abitanti, 134 nei centri con 5000-20.000 abitanti (piccole città), 102 nei centri con 20.000-100.000 (medie città), 119 nelle grandi città con piú di 100.000 abitanti (cfr. Giorgio Mortara, Natalità e urbanesimo in Italia, nella «Nuova Antologia» del 1° luglio 1929). Confrontare con lo spostamento delle categorie dei centri abitati dovuto alle aggregazioni di vari comuni dopo il 1927, che ha aumentato il numero delle grandi e medie città specialmente (ma anche delle piccole, forse anche in maggior proporzione), senza però mutarne la struttura sociale.Secondo (sempre) il Mortara, nel 1928 la popolazione dei venti comuni con oltre 100.000 abitanti (comuni, e non soltanto centri, perché dopo le aggregazioni) supera di poco i sette milioni, cioè corrisponde al 173 per mille della popolazione nazionale; in Francia la proporzione è 160 per mille, in Germania 270 per mille, in Gran Bretagna circa 400 per mille, nel Giappone 150 per mille. Cent'anni fa i comuni con oltre 100.000 abitanti comprendevano 68 su 1000 abitanti e cinquant'anni or sono 86 per mille, oggi 173 per mille.

Il fordismo.

A parte il fatto che gli alti salari non rappresentano nella pratica industriale del Ford ciò che Ford teoricamente vuol far loro significare (confronta note sul significato essenziale degli alti salari come mezzo per selezionare una maestranza adatta al fordismo sia come metodo di produzione e di lavoro, sia come sistema commerciale e finanziario: necessità di non avere interruzioni nel lavoro, quindi open shop, ecc.'), è da notare: in certi paesi di capitalismo arretrato e di composizione economica in cui si equilibrano la grande industria moderna, l'artigianato, la piccola e media cultura agricola e il latifondismo, le masse operaie e contadine non sono considerate come un «mercato». Il mercato per l'industria è pensato all'estero, e in paesi arretrati dell'estero, dove sia piú possibile la penetrazione politica per la creazione di colonie e di zone di influenza. L'industria, col protezionismo interno e i bassi salari, si procura mercati all'estero con un vero e proprio dumping permanente.

Paesi dove esiste nazionalismo, ma non una situazione «nazionale-popolare», dove cioè le grandi masse popolari sono considerate come il bestiame. Il permanere di tanto ceto artigianesco industriale in alcuni paesi non è appunto legato al fatto che le grandi masse contadine non sono considerate un mercato per la grande industria, la quale ha prevalentemente un mercato estero? E la cosí detta rinascita o difesa dell'artigianato non esprime appunto la volontà di mantenere questa situazione ai danni dei contadini piú poveri, ai quali è precluso ogni progresso?

[Costruttori di soffitte.]

Una generazione può essere giudicata dallo stesso giudizio che essa dà della generazione precedente, un periodo storico dal suo stesso modo di considerare il periodo da cui è stato preceduto. Una generazione che deprime la generazione precedente, che non riesce a vederne le grandezze e il significato necessario, non può che essere meschina e senza fiducia in se stessa, anche se assume pose gladiatorie e smania per la grandezza. È il solito rapporto tra il grande uomo e il cameriere. Fare il deserto per emergere e distinguersi. Una generazione vitale e forte, che si propone di lavorare e di affermarsi, tende invece a sopravalutare la generazione precedente perché la propria energia le dà la sicurezza che andrà anche piú oltre; semplicemente vegetare è già superamento di ciò che è dipinto come morto.

Si rimprovera al passato di non aver compiuto il compito del presente: come sarebbe piú comodo se i genitori avessero già fatto il lavoro dei figli. Nella svalutazione del passato è implicita una giustificazione della nullità del presente: chissà cosa avremmo fatto noi se i nostri genitori avessero fatto questo e quest'altro..., ma essi non l'hanno fatto e, quindi, noi non abbiamo fatto nulla di piú. Una soffitta su un pianterreno è meno soffitta di quella sul decimo o trentesimo piano? Una generazione che sa far solo soffitte si lamenta che i predecessori non abbiano già costruito palazzi di dieci o trenta piani. Dite di esser capaci di costruire cattedrali, ma non siete capaci che di costruire soffitte.

Differenza col Manifesto, che esalta la grandezza della classe moritura.

[Le ghiande e la quercia.]

L'attuale generazione ha una strana forma di autocoscienza ed esercita su di sé una strana forma di autocritica. Ha la coscienza di essere una generazione di transizione, o meglio ancora, crede di sé di essere qualcosa come una donna incinta: crede di stare per partorire e aspetta che nasca un grande figliuolo. Si legge spesso che «si è in attesa di un Cristoforo Colombo che scoprirà una nuova America dell'arte, della civiltà, del costume». Si è letto anche che noi viviamo in un'epoca pre-dantesca: si aspetta il Dante novello che sintetizzi potentemente il vecchio e il nuovo e dia al nuovo lo slancio vitale. Questo modo di pensare, ricorrendo a immagini mitiche prese dallo sviluppo storico passato, è dei piú curiosi e interessanti per comprendere il presente, la sua vuotezza, la sua disoccupazione intellettuale e morale. Si tratta di una forma di «senno del poi» delle piú strabilianti. In realtà, con tutte le professioni di fede spiritualistiche e volontaristiche, storicistiche e dialettiche, ecc., il pensiero che domina è quello evoluzionistico volgare, fatalistico, positivistico. Si potrebbe porre cosí la quistione: ogni «ghianda» può pensare di diventare quercia. Se le ghiande avessero una ideologia, questa sarebbe appunto di sentirsi «gravide» di querce. Ma nella realtà, il 999 per mille delle ghiande servono di pasto ai maiali e, al piú, contribuiscono a crear salsicciotti e mortadella.

[Vecchi e giovani.]

Nel succedersi delle generazioni (e in quanto ogni generazione esprime la mentalità di un'epoca storica) può avvenire che si abbia una generazione anziana dalle idee antiquate e una generazione giovane dalle idee infantili, che cioè manchi l'anello storico intermedio, la generazione che abbia potuto educare i giovani.

Tutto ciò è relativo, s'intende. Questo anello intermedio non manca mai del tutto, ma può essere molto debole «quantitativamente» e quindi materialmente nell'impossibilità di sostenere il suo compito. Ancora: ciò può avvenire per un gruppo sociale e non per un altro. Nei gruppi subalterni il fenome no si verifica piú spesso e in modo piú grave, per la difficoltà, insita nell'essere «subalterno», di una continuità organica dei ceti intellettuali dirigenti e per il fatto che per i pochi elementi che possono esistere all'altezza dell'epoca storica è difficile organizzare ciò che gli americani chiamano trust dei cervelli.

Inchieste sui giovani.

L'inchiesta «sulla nuova generazione» pubblicata nella «Fiera Letteraria» dal 2 dicembre 1928 al 17 febbraio 1929. Non molto interessante. I professori d'università conoscono poco i giovani studenti. Il ritornello piú frequente è questo: i giovani non si dedicano piú alle ricerche e agli studi disinteressati, ma tendono al guadagno immediato. Agostino Lanzillo risponde: «Oggi specialmente noi non conosciamo l'animo dei giovani e i loro sentimenti. È difficile guadagnare il loro animo: essi tacciono sui problemi culturali, sociali e morali molto volentieri. È diffidenza o disinteresse?» («Fiera Letteraria», 9 dicembre '28). (Questa del Lanzillo è l'unica nota realistica dell'inchiesta). Nota ancora il Lanzillo: «... vi è una disciplina ferrea e una situazione di pace esterna e interna, che si sviluppa nel lavoro concreto e fattivo, ma che non consente il disfrenarsi di opposte concezioni politiche o morali. Ai giovani manca la palestra per agitarsi, per manifestare forme esuberanti di passioni o di tendenze. Nasce e deriva da questo un'attitudine fredda e silenziosa che è una promessa, ma che contiene anche delle incognite». Nello stesso numero della «Fiera Letteraria» la risposta di Giuseppe Lombardo-Radice: «V'è oggi fra i giovani scarsa pazienza per gli studi scientifici e storici; pochissimi affrontano un lavoro che richieda lunga preparazione e offra difficoltà d'indagine. Vogliono, in generale, sbrigarsi degli studi; tendono soprattutto a collocarsi rapidamente, e distaccano l'animo dalle ricerche disinteressate, aspirando a guadagnare e repugnando alle carriere che loro paiono troppo lente. Malgrado tanta "filosofia" in giro, è povero il loro interesse speculativo; la loro cultura si vien facendo di frammenti; poco discutono, poco si dividono fra di loro in gruppi e cenacoli cui sia segnacolo una idea filosofica o religiosa. Il tono verso i grandi problemi è di scetticismo, o di rispetto affatto estrinseco per coloro che li prendono sul serio, o d'adozione passiva di un «verbo" dottrinale». «In generale i meglio disposti spiritualmente sono gli studenti universitari piú poveri» e «gli agiati sono, per lo piú, irrequieti, insofferenti della disciplina degli studi, frettolosi. Non da loro verrà una classe spiritualmente capace di dirigere il nostro paese».

Queste note del Lanzillo e del Lombardo-Radice sono l'unica cosa seria di tutta l'inchiesta, alla quale hanno d'altronde partecipato quasi esclusivamente professori di lettere. La maggior parte ha risposto con «atti di fede», non con constatazioni obbiettive o ha confessato di non poter rispondere.

Il problema dei giovani.

«I fascisti hanno vissuto troppo la storia contemporanea per avere l'obbligo di conoscere alla perfezione quella passata». Mussolini, prefazione a Gli Accordi del Laterano. Discorsi al Parlamento, Libreria del Littorio, Roma 1929.

Nella «Civiltà Cattolica» del 20 maggio 1933 è dato un breve riassunto delle Conclusioni all'inchiesta sulla nuova generazione. (Estratto del fascicolo 28 del «Saggiatore», Roma, Arti grafiche Zamperini, 1933, in 8°, pp. 32). Si sa come tali inchieste siano necessariamente unilaterali, monche, tendenziose, e come di solito diano ragione al modo di pensare di chi le ha promosse. Tanto piú occorre esser cauti, quanto piú pare che attualmente sia difficile conoscere ciò che le nuove generazioni pensano e vogliono. Secondo la «Civiltà Cattolica», il succo dell'inchiesta sarebbe: «La nuova generazione sarebbe dunque: senza morale e senza principi immutabili di moralità, senza religiosità ovvero atea, con poche idee e con molto istinto». «La generazione prebellica credeva e si faceva dominare dalle idee di giustizia, di bene, di disinteresse e della religione; la moderna spiritualità si è sbarazzata di tali idee, le quali in pratica sono immorali. I piccoli fatti della vita richiedono elasticità e pieghevolezza morale, che si comincia a ottenere con la spregiudicatezza della nuova generazione. Nella nuova generazione perdono valore tutti quei principi morali che si sono imposti quali assiomi alle coscienze individuali. La morale è divenuta assolutamente pragmatistica: essa scaturisce dalla vita pratica, dalle diverse situazioni in cui l'uomo viene a trovarsi. La nuova generazione non è né spiritualistica, né positivistica, né materialistica, essa tende a superare razionalmente tanto gli atteggiamenti spiritualistici, quanto le viete posizioni positivisti-che e materialistiche. Sua principale caratteristica è la mancanza di qualsiasi forma di reverenzialità per tutto ciò che incarna il vecchio mondo. Nella massa dei giovani si è affievolito il senso religioso e tutti i diversi astratti imperativi morali, ormai divenuti inadatti alla vita di oggigiorno. I giovanissimi hanno meno idee e piú vita, hanno invece acquistato naturalezza e confidenza nell'atto sessuale, sí che l'amore non è piú considerato nel senso di un peccato, di una trasgressione, di una cosa proibita. I giovani, diretti attivamente nelle direzioni che la vita moderna indica, risultano immuni da ogni possibile ritorno ad una religiosità dommatica dissolvente».

Pare che questa serie di affermazioni non sia altro che il programma stesso del «Saggiatore», e questo pare piuttosto una curiosità che una cosa seria. È, in fondo, un ripensamento popolaresco del «superuomo», nato dalle piú recenti esperienze della vita nazionale, un «superuomo» strapaesano, da circolo dei signori e da farmacia filosofica. Se si riflette, significa che la nuova generazione è diventata, sotto l'aspetto di un volontarismo estremo, della massima abulicità. Non è vero che non abbia ideali: questi solo sono tutti contenuti nel codice penale, che si suppone fatto una volta per sempre nel suo complesso. Significa anche che manca nel paese ogni direzione culturale all'infuori di quella cattolica, ciò che farebbe supporre che per lo meno l'ipocrisia religiosa debba finire per incrementarsi. Sarebbe tuttavia interessante sapere di quale nuova generazione il «Saggiatore» intenda parlare.

Pare che l'«originalità» del «Saggiatore» consista nello aver trasportato alla «vita» il concetto di «esperienza» proprio non già della scienza ma dell'operatore da gabinetto scientifico. Le conseguenze di questa meccanica trasposizione sono poco brillanti: esse corrispondono a ciò che era abbastanza noto col nome di «opportunismo» o di mancanza di principi (ricordare certe interpretazioni giornalistiche del relativismo di Einstein quando, nel 1921, questa teoria diventò preda dei giornalisti). Il sofisma consiste in ciò: che, quando l'operatore da gabinetto «prova e riprova», il suo riprovare ha conseguenze limitate allo spazio dei provini e alambicchi: egli «riprova» fuori di sé, senza dare di se stesso all'esperimento altro che l'attenzione fisica e intellettuale. Ma nei rapporti tra gli uomini le cose si comportano ben diversamente e le conseguenze sono di ben diversa portata. L'uomo trasforma il reale e non si limita a esaminarlo sperimentalmente in vitro per riconoscerne le leggi di regolarità astratta. Non si dichiara una guerra per «esperimento», né si sovverte l'economia di un paese, ecc., per trovare le leggi del migliore assetto sociale possibile. Che nel costruire i propri piani di trasformazione della vita occorra basarsi sull'esperienza, cioè sull'esatto rilievo dei rapporti sociali esistenti e non su vuote ideologie o generalità razionali, non importa che non si debbano avere principi, che non sono altro che esperienza messa in forma di concetti o di norme imperative. La filosofia del «Saggiatore», oltre che una reazione plausibile all'ubriacatura attualistica e religiosa, è però essenzialmente connessa a tendenze conservatrici e passive, e in realtà contiene la piú alta «reverenzialità» per l'esistente, cioè per il passato cristallizzato. In un articolo di Giorgio Granata (nel «Saggiatore», riferito nella «Critica Fascista» del 1° maggio 1933) ci sono molti spunti di tale filosofia: per il Granata, la concezione del «partito politico» con il suo «programma» utopico, «come mondo del dover essere (!) di fronte al mondo dell'essere, della realtà», ha fatto il suo tempo, e perciò la Francia sarebbe «inattuale»: come se proprio la Francia non avesse sempre nell'Ottocento dato l'esempio del piú piatto opportunismo politico, cioè del servilismo a ciò che esiste, alla realtà, cioè ai «programmi» in atto di forze ben determinate e identificabili. E l'essere servili ai fatti voluti e compiuti dagli altri è il vero punto di vista del «Saggiatore», cioè indifferenza e abulia sotto la veste di grande attività da formiche: la filosofia dell'uomo del Guicciardini che riappare sempre in certi periodi della vita italiana. Che per tutto ciò si dovesse rifarsi al Galilei e riprendere il titolo di «Saggiatore» è solo una bella impudenza, ed è da scommettere che i signori Granata e C. non abbiano da temere nuovi roghi e inquisizioni. (La concezione che del «partito politico» esprime il Granata coincide d'altronde con quella espressa dal Croce nel capitolo «Il partito come giudizio e come pregiudizio» del volume Cultura e vita morale e col programma dell'«Unità» fiorentinal, problemistica, ecc.).

E tuttavia questo gruppo del «Saggiatore» merita di essere studiato e analizzato: 1) perché esso cerca di esprimere, sia pur rozzamente, tendenze che sono diffuse e vagamente concepite dal gran numero; 2) perché esso è indipendente da ogni «grande filosofo» tradizionale, e anzi si oppone a ogni tradizione cristallizzata; 3) perché molte affermazioni del gruppo sono indubbiamente ripetizioni a orecchio di posizioni filosofiche della filosofia della praxis entrate nella cultura generale, ecc. (Ricordare il «provando e riprovando» dell'on. Giuseppe Canepa, come commissario per gli approvvigionamenti durante la guerra: questo Galileo della scienza amministrativa aveva bisogno di una esperienza con morti e feriti per sapere che dove manca il pane corre sangue2).

La storia maestra della vita, le lezioni dell'esperienza, ecc.

Anche Benvenuto Cellini (Vita, libro secondo, ultime parole del paragrafo XVII), scrive: «Gli è ben vero che si dice: tu imparerai per un'altra volta. Questo non vale, perché la (fortuna) viene sempre con modi diversi e non mai immaginati». Si può forse dire che la storia è maestra della vita e che l'esperienza insegna, ecc. non nel senso che si possa, dal modo come si è svolto un nesso di avvenimenti, trarre un criterio sicuro d'azione e di condotta per avvenimenti simili, ma solo nel senso che, essendo la produzione degli avvenimenti reali il risultato di un concorrere contraddittorio di forze, occorre cercare di essere la forza determinante. Ciò che va inteso in molti sensi, perché si può essere la forza determinante non solo per il fatto di essere la forza quantitativamente prevalente (ciò che non è sempre possibile e fattibile), ma per il fatto di essere quella qualitativamente prevalente, e questo può aversi se si ha spirito d'iniziativa, se si coglie il «momento buono», se si mantiene uno stato continuo di tensione alla volontà, in modo da essere in grado di scattare in ogni momento scelto (senza bisogno di lunghi apprestamenti che fanno passare l'istante piú favorevole), ecc. Un aspetto di tal modo di considerare le cose si ha nell'aforisma che la migliore tattica difensiva è quella offensiva. Noi siamo sempre sulla difensiva contro il «caso», cioè il concorrere imprevedibile di forze contrastanti che non possono sempre essere identificate tutte (e una sola trascurata impedisce di prevedere la combinazione effettiva delle forze che dà sempre originalità agli avvenimenti) e possiamo «offenderlo», nel senso che interveniamo attivamente nella sua produzione, che, dal nostro punto di vista, lo rendiamo meno «caso» o «natura» e piú effetto della nostra attività e volontà.

[Crisi della famiglia.]

Da un articolo di Manlio Pompei nella «Critica Fascista» del 1° maggio 1933: «Nella generica affermazione di una necessaria ripresa morale, abbiamo sentito spesso ricordare la famiglia, come l'istituto intorno a cui si deve riannodare questa inderogabile ripresa. Su questo punto non mancano i pareri discordi: una recente polemica sulla letteratura infantile e sulla educazione dei nostri ragazzi ha fatto affiorare il concetto che il vincolo familiare, gli affetti che lega no i membri di una stessa famiglia, possano a un certo punto costituire un intralcio per quella educazione guerriera e virile, che è nelle finalità del fascismo. A nostro avviso la famiglia è e deve restare la cellula-madre della società fascista». Tutto l'articolo è interessante, sebbene la quistione non sia impostata con rigore. Il Pompei descrive la crisi della famiglia in tutti gli strati sociali, e invero non indica né come tale crisi possa essere arginata o condotta a una soluzione razionale, né come lo Stato possa intervenire per costruire o stimolare la costruzione di un nuovo tipo di famiglia. Il Pompei anzi afferma che la crisi è necessaria, connessa com'è a tutto un processo di rinnovazione sociale e culturale, e perciò è tanto piú notevole l'effettivo disorientamento suo, nonostante le affermazioni generiche costruttive.

La scuola.

Lo studio del latino è in piena decadenza. Il Missiroli, in alcuni articoli dell'«Italia Letteraria» della fine del 1929, ha dato una visione «sconfortante» dello studio del latino in Italia. L'«Italia Letteraria» ha aperto un'inchiesta sulla quistione: nella risposta del prof. Giuseppe Modugno (preside di liceo e noto grecista, oltre che seguace della pedagogia gentiliana) si dice, dopo aver riconosciuto che è vera la decadenza del latino nelle scuole: «E la riforma Gentile? quale influenza ha essa esercitato su un siffatto stato di cose?... sono un convinto ammiratore (della riforma)». Ma «... uno strumento qualsiasi può essere ottimo, ma può non essere persona adatta chi l'adopera. Se quello strumento, pertanto, fa male quel che fa e non consegue l'effetto cui è destinato, si deve perciò concludere che sia mal fatto?». Maraviglioso! Altra volta, affidare uno strumento «ottimo» alle persone inadatte, si chiamava astrattismo, antistoricismo, ecc.; si affermava che non esistono strumenti ottimi in sé, ma rispondenti al fine, adeguati alla situazione, ecc. Vedere tutto ciò che si è scritto, per esempio, contro il... parlamentarismo.

La scuola professionale.

Nel novembre 1931 si è svolta alla Camera dei deputati un'ampia discussione sull'insegnamento professionale, e in essa tutti gli elementi teorici e pratici per lo studio del problema sono affiorati in modo abbastanza perspicuo e organico. Tre tipi di scuola: 1) professionale; 2) media tecnica; 3) classica. La prima per gli operai e contadini; la seconda per i piccoli borghesi; la terza per la classe dirigente.

La quistione si è svolta sull'argomento se le scuole professionali devono essere strettamente pratiche e fine a se stesse, tanto da non dare possibilità di passaggio non solo alla scuola classica, ma neanche a quella tecnica. La larghezza di vedute è consistita nell'affermazione che deve essere data la possibilità del passaggio alla scuola tecnica (il passaggio a quella classica è stato escluso a priori da tutti). (Il problema [è] legato all'organico militare: un soldato può diventare sottufficiale? e se il soldato può diventare sottufficiale, può diventare ufficiale subalterno, ecc.? e a ogni organico in generale: nella burocrazia, ecc.).

Sarebbe interessante ricostruire la storia delle scuole professionali e tecniche nelle discussioni parlamentari e nelle discussioni dei principali consigli municipali, dato che alcune delle maggiori scuole professionali sono state fondate dai municipi oppure da lasciti privati, amministrati o controllati, o integrati sui bilanci municipali. Lo studio delle scuole professionali collegato alla coscienza delle necessità della produzione e dei suoi sviluppi. Scuole professionali agrarie: un capitolo molto importante: molte iniziative private (ricordare le scuole Faina nell'Abruzzo e in Italia centrale). Scuole agrarie specializzate (per la viticoltura, ecc.). Scuole agrarie per medi e piccoli proprietari, per creare cioè capi-azienda o direttori d'azienda: ma è esistito un tipo di scuola agraria professionale, cioè diretta alla creazione dell'operaio agrario specializzato?

Governi e livelli culturali nazionali.

Ogni governo ha una politica culturale e può difenderla dal suo punto di vista e dimostrare di aver innalzato il livello culturale nazionale. Tutto sta nel vedere quale sia la misura di questo livello. Un governo può organizzare meglio l'alta cultura e deprimere la cultura popolare, e ancora: dell'alta cultura può organizzare meglio la sezione riguardante la tecnologia e le scienze naturali, paternalisticamente mettendo a sua disposizione somme di denaro come prima non si faceva, ecc. Il criterio di giudizio può essere solo questo: un sistema di governo è repressivo o espansivo? e anche questo criterio deve essere precisato: un governo repressivo per alcuni aspetti, è espansivo per altri? Un sistema di governo è espansivo quando facilita e promuove lo sviluppo dal basso in alto, quando eleva il livello di cultura nazionale-popolare e rende quindi possibile una selezione di «cime intellettuali» su piú vasta area. Un deserto con un gruppo di alte palme è sempre un deserto: anzi è proprio del deserto avere delle piccole oasi con gruppi di alte palme.

Gli intellettuali: la decadenza di Mario Missiroli.

Confrontare l'articolo su Clemenceau di Mario Missiroli (Spectator) nella «Nuova Antologia» del 16 dicembre 1929. Articolo abbastanza interessante, perché il Missiroli non ha perduto la capacità di grande giornalista nel sapere impostare un articolo brillante valendosi di alcune idee fondamentali e organizzandovi intorno una serie di fatti intelligentemente scelti. Ma perché e come Clemenceau fu a contatto con la Francia, col popolo francese e lo rappresentò nel momento supremo?

Il Missiroli non lo sa dire: egli è diventato vittima del luogo comune antiparlamentare, antidemocratico, «antidiscussionistico», antipartito, ecc. La quistione è questa: nella Francia di prima del 1914 la molteplicità dei partiti, la molteplicità dei giornali di opinione, la molteplicità delle frazioni parlamentari, il settarismo e l'accanimento nelle lotte politiche parlamentari e nelle polemiche giornalistiche erano un segno di forza o di debolezza nazionale (egemonia della classe media, ossia del terzo stato), un segno di ricerca continua di nuova piú compatta unità o di disgregazione? Alla base della nazione, nello spirito popolare c'erano in realtà due soli partiti: la destra, dei nobili, del clero alto e di una parte dei generali; il centro, costituito da un solo grande partito diviso in frazioni personali o di gruppi politici fondamentalmente affini; e piccole minoranze non organizzate politicamente alla periferia sinistra, nel proletariato.

La divisione morale della Francia era tra la destra e il resto della nazione, riproduceva la divisione tradizionale avvenuta dopo il '93, dopo il Terrore e l'esecuzione del re, dei nobili e dell'alto clero per le sentenze del tribunale rivoluzionario robespierrista. Le divisioni interne erano nelle alte cime della gerarchia politica, non alla base, ed erano legate alla ricchezza di sviluppi interni della politica nazionale francese dal 1789 al 1870: era un meccanismo di selezione di personalità politiche capaci di dirigere, piú che una disgregazione, era un perfezionamento continuo dello stato maggiore politico nazionale. In tale situazione si spiegano la forza e la debolezza di Clemenceau e la sua funzione. Cosí si spiegano anche le diagnosi sempre disastrose della situazione francese, sempre smentite dai fatti reali succeduti alla diagnosi. Il fenomeno di disgregazione interna nazionale (cioè di disgregazione dell'egemonia politica del terzo stato) era molto piú avanzato nella Germania del '14 che nella Francia del '14, solo che la burocrazia ne faceva sparire i sintomi sotto la brillante vernice della disciplina coatta militaresca. Il fenomeno di disgregazione nazionale è avvenuto in Francia, ossia ha iniziato il suo processo di sviluppo, ma dopo il '19, molto dopo, molto piú tardi che nei paesi a regime autoritario, che sono essi stessi un prodotto di tale disgregazione.

Ma Missiroli é diventato una vittima piú o meno interessata dei luoghi comuni e la sua intelligenza della storia e della reale efficienza dei nessi ideologici è catastroficamente declinata: In un articolo Sorel e Clemenceau, pubblicato nell'«Italia Letteraria» del 15 dicembre, il Missiroli riporta su Clemenceau un giudizio di Sorel cui non aveva accennato nell'articolo della «Nuova Antologia». Nel febbraio 1920, il Missiroli pregò il

Sorel di scrivere un articolo sulla candidatura presentata e ritirata da Clemenceau alla presidenza della Repubblica. Il Sorel non volle scrivere l'articolo, ma in una lettera comunicò al Missiroli il suo giudizio: «Clemenceau sarebbe stato un presidente assai piú sul tipo di Casimir Périer che di Loubet e di Fallières. Egli ha sempre lottato appassionatamente contro gli uomini che per la loro popolarità potevano dargli ombra. Se Clemenceau fosse stato eletto, sarebbe successa una vera rivoluzione nelle istituzioni francesi. Sarebbero stati accontentati coloro i quali chiedono che i poteri del presidente della Repubblica vengano estesi come quelli dei presidenti americani». Il giudizio è acuto, ma Missiroli non ha saputo servirsene nel suo articolo. della «Nuova Antologia», perché contrario alla sua falsificazione della storia politica francese.

La filosofia di Gentile.

Selvaggio attacco contro Gentile e i suoi discepoli sferrato nella «Roma Fascista» dell'ottobre 1931. Gentile è accusato di «alto tradimento», di procedimenti sleali e truffaldini. L'attacco fu fatto cessare d'autorità, ma non pare che l'attaccante (G. A. Fanelli) sia stato colpito da sanzioni, nonostante la estrema gravità delle accuse, evidentemente non provate, perché il Gentile è rimasto nei posti occupati. Ricordare il precedente attacco di Paolo Orano, ecc. Appare che la posizione occupata ufficialmente dal Gentile nel campo della cultura nazionale non si vuole rimanga indiscussa e si rafforzi troppo fino a diventare una istituzione: la filosofia del Gentile non è riconosciuta come ufficiale e nazionale, ciò che significherebbe subordinazione esplicita del cattolicismo e sua riduzione a un compito subalterno, ecc.

[Gioberti.]

Sulla quistione dell'importanza data dal Gentile al Gioberti per individuare un filone filosofico nazionale permanente e conseguente sono da vedere due studi sul Gioberti: quello dello scrittore cattolico Palhoriès, Gioberti, Alcan, Paris, 1929, in 8°, pp. 408, e quello dell'idealista Ruggero Rinaldi, Gioberti e il problema religioso del Risorgimento, prefazione di Balbino Giuliano, Vallecchi, Firenze, in 8°, pp. XXVIII-180. Ambedue, sebbene partendo da punti di vista diversi, giungono a dimostrazioni simili: che il Gioberti, cioè, non è per nulla lo Hegel italiano, ma si mantiene nel campo dell'ortodossia cattolica e dell'ontologismo. È da tener conto dell'importanza che ha nel «gentilismo» l'interpretazione idealistica del Gioberti, che in fondo è un episodio di Kulturkampf o un tentativo di riforma cattolica. È da notare l'introduzione del Giuliano al libro del Rinaldi, perché pare che il Giuliano presenti alcuni dei problemi di cultura posti dal Concordato in Italia e cioè come, avvenuto l'accordo politico tra Stato e Chiesa, possa aversi un «accordo» tra trascendenza e immanenza nel campo del pensiero filosofico e della cultura.

[Un congresso hegeliano.]

Discussioni sul congresso internazionale hegeliano tenuto a Roma nel 1933 (terzo congresso della Società internazionale hegeliana). Si è voluto vedere in esso un'affermazione tendenziosa dell'idealismo attualistico italiano (Gentile, ecc.) nel mezzo dell'anno santo indetto dal Vaticano per il 1900° anniversario della nascita di Cristo. Il congresso fu cosí combattuto e dai cattolici e dagli epigoni del positivismo o neocriticismo.

«I luoghi comuni a rovescio». Per molti essere «originali» significa solo capovolgere i luoghi comuni dominanti in una certa epoca: per molti questo esercizio è il massimo della eleganza e dello snobismo intellettuale e morale. Ma il luogo comune rovesciato rimane sempre un luogo comune, una banalità. Forse il luogo comune rovesciato è ancora piú banale del semplice luogo comune. Il bohémien è piú filisteo del mercante di campagna. Da ciò quel senso di noia che viene col frequentare certi circoli che credono essere di eccezione, che si pongono come una aristocrazia distaccata dal vivere solito. Il democratico è stucchevole, ma quanto piú stucchevole il sedicente reazionario che esalta il boia, e magari i roghi. Nell'ordine intellettuale Giovanni Papini è un grande fabbricatore di luoghi comuni rovesciati: nell'ordine politico erano tali i nazionalisti vecchio stile, come Coppola, Forges-Davanzati, Maraviglia, e specialmente Giulio De Frenzi. Nella stessa serie intellettuale è da porre il Farinelli col suo lirismo e pateticismo, che sono piú stucchevolmente pedanteschi che non gli scritti dello Zumbini. (L'espressione «luogo comune a rovescio» è impiegata da Turgheniev in Padri e figli. Bazarov ne enuncia il principio cosí: «E un luogo comune dire che l'istruzione pubblica è utile, è un luogo comune al rovescio dire che l'istruzione pubblica è dannosa», ecc.).

[Intelligenza a quintali.]

Il culto provinciale dell'intelligenza e la sua retorica. Confrontare la lettera-prefazione di Emilio Bodrero alla rivista «Accademie e Biblioteche d'Italia», vol. 1, p. 5, dove si dice press'a poco che l'Italia «non ha nulla da esportare se non intelligenza». (Cfr. «il rutto del pievano» di Maccari). Nei libri di Oriani questo elemento è frenetico. Ricordare l'aneddoto di Oriani che, domandato se aveva da daziare, risponde: «Se l'intelligenza paga dazio, qui ce n'è a quintali». Sarà da notare che tale atteggiamento è degli intellettuali mediocri e falliti.

[L'Accademia d'Italia.]

Sull'impressione reale che ha fatto l'inizio d'attività dell'Accademia d'Italia confrontare l'«Italia Letteraria» del 15 giugno 1930, La prima seduta pubblica dell'Accademia d'Italia. In un articolo editoriale si critica acerbamente il modo con cui l'Accademia d'Italia ha distribuito la somma di un milione che era a sua disposizione per aiutare le patrie lettere, in 150 premiati: la distribuzione pare abbia assunto l'aspetto di una elargizione tipo minestra da convento; in altro pezzo, Cronaca per la storia di Antonio Aniante, presenta la seduta come se fosse l'assemblea di un consiglio comunale di città provinciale.

Nella «Nuova Antologia» del 1° novembre 1929 sono pubblicati i discorsi inaugurali del Capo del Governo e di Tittoni.

Il rutto del pievano e altre strapaesanerie.

Cesare De Lollis (Reisebilder, pp. 8 e sgg.) scrive alcune note interessanti sui rapporti tra «minoranza» che fece l'Italia, e popolo: «... non molti giorni or sono mi capitò di leggere in un giornale quotidiano che da tempo l'Italia si dava troppo pensiero delle scuole elementari e popolari in genere (tra i principali responsabili si designava il Credaro), laddove è l'educazione delle classi superiori che bisogna curare nell'interesse vero della nazione. Or con questo si torna o si vorrebbe tornare al concetto dell'educazione come privilegio di classe; concetto del tutto ancien régime, la Controriforma compresa, che si guardò bene anch'essa dall'avvicinare la cultura alla vita, e quindi al popolo. Eppure: perché la nazione sia stilizzata in una vera unità, occorre che quanti la compongono si ritrovin tutti in un certo grado di educazione. Le classi inferiori devono nelle superiori ravvisare i tratti della perfezione conseguita: queste devono in quelle riconoscere la perfettibilità. [...] Ora, che si sia fatto molto in questo senso non potran dire che i superficiali osservatori o i rètori che empiono la bocca propria e la testa degli altri di paroloni come "stirpe" e "gente", paroloni i quali tendono, conferendo titoli di nobiltà ereditaria, ad abolire il senso dello sforzo e del dovere personale, cosí come l'ammirazione ora di moda, e tutta romantica, del costume e dei costumi locali tende a immobilizzare e cristallizzare, invece che incitare sulla via del progresso». (È acuto l'accostamento implicito tra lo strapaesanismo e la cultura privilegio di classe).

Fatto affine è quello dei nomi delle strade (confronta Corrado Ricci, I nomi delle strade, «Nuova Antologia» del 1° marzo 1932): il Ricci, nel giugno 1923, al Senato, discutendosi un decreto relativo ai mutamenti di nomi delle strade e delle piazze comunali, propose che si facesse una revisione dei nomi vecchi e nuovi, per vedere se non convenisse, in diversi casi, tornare all'antico. (Ciò che avvenne in molti casi, e il fatto che talvolta fu opportuno non toglie niente al significato dell'indirizzo).

Cosí le diverse «Famiglie» meneghina, torinese, bolognese, ecc., che prosperano in questo stesso periodo. Tutti tentativi di immobilizzare e cristallizzare, ecc.

[Il «nuovo Masticabrodo».]

Franz Weiss, «stelletta», dei «Problemi del lavoro», potrebbe chiamarsi il «nuovo Masticabrodo» e la raccolta dei suoi scritti il «Nuovo libro delle Sette Trombe».

L'altra «stelletta» quella del «Lavoro» (Weiss ha sei punte, Ansaldo ha cinque punte: la stelletta di Ansaldo viene identificata anche come «stelletta nera» del «Lavoro») è piú «aristocratica» e nello stile e nel contenuto di argomenti. La «popolarità» dello stile del Weiss consiste specialmente in ciò che i suoi articoli sono formicolanti di proverbi e di modi di dire popolari (piú proverbioso di Sancio Pancia: si potrebbe fare una raccolta di «sapienze»): «tanto va la gatta al lardo, bandiera vecchia, gallina vecchia, il senno di poi, due pesi e due misure», ecc.; vedere anche la «falsa» familiarità e il brio da cocotte stanca. Si ha l'impressione che Weiss abbia uno stock di proverbi e modi di dire da mettere in circolazione, come il commesso viaggiatore ha il suo stock di freddure: quando vuol scrivere un articolo, non gli importa il contenuto dell'articolo, ma la razione di proverbi da esitare. Lo svolgimento letterario è dettato non dalla necessità intima della dimostrazione, ma dal bisogno di collocare le preziose gemme della sapienza dei popoli. Parallelo con Corso Bovio, che, invece dei proverbi, costella gli articoli di grandi nomi; ogni colonnina di giornale è una passeggiata in un Pincio della Società delle Nazioni: bisogna che appaiano, per colonna, almeno cinquanta nomi, da Pitagora a Paneroni, dall'Ecclesiaste a Tom Pouce. Si potrebbe, come esempio di ilotismo letterario, analizzare cosí un articolo di Weiss e uno di Corso Bovio. (C'è però un po' di Bovio in Weiss e un po' di Weiss in Bovio, e ambedue fanno rimaner babbeo il lettore operaio al quale si rivolgono).

Franz Weiss e i suoi proverbi.

Confrontare Don Quijote, seconda parte, cap. XXXIV: «Maldito seas de Dios y de todos sus santos, Sancho maldito — dijo Don Quijote —; y cuando sera el dia, como otras muchas veces he dicho, donde yo te vea hablar sin refranes una razón corriente y concertada» (cfr. quad. 1, p. 47)1. Nei consigli che Don Chisciotte dà a Sancho prima di diventar governatore dell'isola', un paragrafo è dedicato contro i troppi proverbi: «También, Sancho, no has de mezclar en tus plkicas la muchedumbre de refranes que sueles; que puesto que los refranes son sentencias breves, muchas veces los traes tan por los cabellos, que mas parecen disparates que sentencias. — Eso Dios lo puede remediar, respondió Sancho, porque sé mas refranes que un libro, y viénenseme tantos juntos a la boca cuando hablo, que ririen, por salir, unos con otros; pero la lengua va arrojando los primeros que encuentra, aunque no vengan a pelo». Nello stesso capitolo XLIII: «i0h, maldito seas de Dios, Sancho! Sesenta mil satanases te lleven a ti y a tus refranes! Yo te aseguro que estos refranes te han de llevar un dia a la horca». E Sancho: «dA qué diablos se pudre de que yo me sirva de mi hacienda, que ninguna otra tengo, ni otro caudal alguno, sino refranes y mds refranes?». Al capitolo L, il curato del pueblo di Don Chisciotte dice: «Yo no puedo creer sino que todos los deste linaje de los Panzas nacieron cada uno con un costal de refranes en el cuerpo: ninguno dellos he visto que no los derrame todas horas y en todas las plkicas que tienen», dopo aver sentito che anche Sanchicha, figlia di Sancho, snocciola proverbi. Si può dunque sostenere che Franz Weiss è disceso dai lombi di «los Panzas» e che, quando vorra latinizzare tutto il suo nome, oltre a Franz non dovrà chiamarsi Bianco, ma Panza, o Pancia, ancor piú italianamente.

Stella Nera.

Giovanni Ansaldo compila a Genova un «Raccoglitore Ligure», «una pubblicazione di studi e di ricerche non solo folcloristiche ma bene spesso storiche, letterarie, artistiche, compilata con tutti i sette sacramenti da "Stella Nera", il quale vi mette a partito quel suo particolarissimo gusto per l'erudizione spicciola, e per la trouvaille storicistica, coadiuvato da un gruppetto di vere e proprie "competenze"» («Italia Letteraria», 19 febbraio 1933). Pare sia la giusta conclusione delle tendenze intellettuali dell'Ansaldo questa letteratura di tipo «gesuitico» o da «Giornale dei cretini e dei curiosi», come avrebbe detto Edoardo Scarfoglio.

[Polemiche.]

Ho letto riportato un brano del «Tevere», in cui il prof. Orestano, che rappresenta la filosofia italiana nell'Accademia, è chiamato «ridicolo» personaggio o qualcosa di simile. E il «Tevere» ha una certa importanza nel mondo culturale odierno. Ma come tuttavia si aspettano che l'Accademia d'Italia unifichi e centralizzi la vita intellettuale e morale della nazione?

Quistioni e polemiche personali.

A chi giovano? A quelli che vogliono ridurre le quistioni di principio e generali a schermaglie e bizze particolari, a casi di ambizione individuale, a trastulli letterari e artistici (quando sono letterari e artistici). L'interesse del pubblico viene sviato: da parte in causa, il pubblico diventa mero «spettatore» di una lotta di gladiatori, che si aspetta i «bei colpi», in sé e per sé: la politica, la letteratura, la scienza, vengono degradate a «gioco sportivo». In questo senso occorre perciò condurre le polemiche personali, bisogna cioè ottenere che il pubblico senta che «de te fabula narratur».

Santi Sparacio.

Nel capitolo XXII della seconda parte del Don Chisciotte: «l'humanista» che accompagna Don Chisciotte e Sancio alla «cueva de Montesinos». «En el camino preguntó Don Quijote al primo de que género y calidad eran sus ejercicjos, sus profesión y estudios. A lo que él respondió que su profesión era ser humanista, sus ejercicios y estudios componer libros para darà la estampa, todos de gran provecho y no menos entretenimiento para la república: que el uno se intitulaba El de las libreas, donde pintaba setecientas y tre libreas con sus colores, motes y cifras, de donde podían sacar y tornar las que quisiesen en tiempo de festas y regocijos los caballeros cortesanos, sin andarlas mendigando de nadie, ni lambicando, como dicien, el cerbelo por sacarlas conformes à sus deseos y intenciones; porque doy al zeloso, al desdeñado, al olvidado y al ausente las que les convienen, que les vendràn màs justas que pecadoras. Otro libro tengo tambien, à quien he de llamar, Metamorfóseos, ó, Ovidio español, de invención nueva y rara; porque en él, imitando à Ovidio à lo burlesco, pinto quién fué la Giralda de Sevilla y el Angel de la Magdalena, quién el cario de Vecinguerra de Córdoba, quién es los toros de Guisando, la Sierra Morena, las fuentes de Leganitos y Lavapiés, en Madrid, no olvidàndome de la del Piojo, de la del Cario Dorado y de la Priora; y esto, con sus alegorías, metàforas, y translaciones, de modo, que alegran, suspenden y enserian à un mismo punto. Otro libro tiengo, que le llamo Suplemento a Virgilio Polidoro, que trata de la invención de las cosas, que es de grande erudición y estudio, à causa que las cosas que se dejó de decir Poli-doro de gran sustancia, las averiguo yo, y las declaro por gentil estilo. Olvidósele à Virgilio de declararnos quién fué el primero que tuvo catarro en el mundo, y el primero que tomó las unciones para curarse del morbo gàlico, y yo lo declaro al pie de la letra, y lo autorizo con màs de veinte y cinco autores, porque vea vuesa merced si he trabajado bien, y si ha de ser útil el tal libro à todo el mundo».

Sancio si interessa, com'è naturale, specialmente a questo ultimo libro, e pone delle quistioni all'«humanista»: «Quién fué el primero que se rascó en la cabeza?» [...]. «Nuién fué al primer volteador del mundo?» e risponde che il primo fu Adamo, che, avendo testa e capelli, certo talvolta dovette grattarsi la testa; e il secondo Lucifero, che, espulso dal cielo, cadde «volteando» fino agli abissi dell'inferno.

Il tipo mentale dell'humanista ritratto dal Cervantes si è conservato finora, e cosí si son conservate nel popolo le «curiosità» di Sancio, e ciò spesso appunto viene chiamato «scienza». Questo tipo mentale, in confronto a quelli tormentati, per esempio, dal problema del moto perpetuo, è poco conosciuto e troppo poco messo in ridicolo, perché in certe regioni è un vero flagello. Al carcere di Palermo, nel dicembre 1926, ho visto una dozzina di volumi, scritti da siciliani, e stampati in Sicilia stessa, ma alcuni in America da emigrati (certo inviati in omaggio al carcere o al cappellano). Il piú tipico di essi era un volume di certo Santi Sparacio, impiegato della ditta Florio, il quale appariva autore anche di altre pubblicazioni. Non ricordo il titolo principale del libro; ma nei sottotitoli, si affermava che si voleva dimostrare: 1) la esistenza di Dio; 2) la divinità di Gesú Cristo; 3) l'immortalità dell'anima. Nessuna di queste quistioni era realmente trattata, ma invece, nelle circa trecento pagine del volume, si contenevano le quistioni piú disparate su tutto lo scibile: per esempio, si trattava come fare per impedire la masturbazione nei ragazzi, come evitare gli scontri tranviari, come evitare che nelle case si rompano tanti vetri alle finestre, ecc. Questo della «rottura dei vetri» era trattato cosí: si rompono tanti vetri, perché si pongono le sedie con lo schienale troppo vicino ai vetri, e, sedendosi, per il peso lo schienale si abbassa e il vetro è rotto. Quindi bisogna curare, ecc.; ciò per pagine e pagine. Dal tono del libro si capiva che lo Sparacio nel suo ambiente era ritenuto un gran saggio e sapiente, e che molti ricorrevano a lui per consigli ecc.

[Uno Stato federale mediterraneo.]

Nel «'19», rivista fascista diretta a Milano da Mario Giampaoli, è stato pubblicato nel 1927 (o prima o dopo; lessi l'articolo nel carcere di Milano) un articoluccio di Antonio Aniante, da cui appariva che l'Aniante, con qualche altro siciliano, aveva preso sul serio il programma, nato nel cervello di alcuni intellettuali sardi (C. Bell. e qualche altro: ricordo che Emilio Lussu cercava di far dimenticare l'episodio ridendone), di creare uno Stato federale mediterraneo che avrebbe dovuto comprendere la Catalogna, le Baleari, Corsica e Sardegna, la Sicilia e Candia. L'Aniante ne scrive con un fare scemo da ammazzasette e bisogna far la tara nel suo racconto: per esempio è credibile ch'egli sia stato mandato all'estero (a Parigi, mi pare) per incontrarsi con altri «congiurati»? E chi l'avrebbe mandato? E chi avrebbe dato i soldi?

Arturo Calza, il «Farmacista» del «Giornale d'Italia» con Bergamini e Vettori.

Cominciò a scrivere nella «Nuova Antologia», collo pseudonimo di Diogene Laerzio, le sue note melense e zuppificatrici; poi apparve il suo nome vero di Arturo Calza. Nella «Nuova Antologia» del 1° febbraio 1930, scrisse una delle solite note tetramente sciocche: La «Questione dei giovani» e il manifesto dell'«Universalismo»; fu attaccato da «Critica Fascista», che ricordò il suo passato bergaminiano, e il senatore Tittoni pensò bene di disfarsene sui due piedi. La rubrica almeno fu abolita, sostituita da brevi riassunti di articoli di rivista che per la scempiaggine potrebbero essere anche scritti dal Calza: sono firmati XXX, ma forse sono dovuti al Marchetti-Ferranti. (Il Calza scrisse l'ultima nota nella «Nuova Antologia» del 16 febbraio seguente: vedere quando apparve l'attacco della «Critica Fascista»').

[Carlo Lovera di Castiglione.]

Articoli del 1926 del conte Carlo Lovera di Castiglione nel «Corriere» di Torino; risposte fulminanti del «Corriere d'Italia» di Roma. È da notare che gli articoli del Lovera di Castiglione, pur essendo molto arditi, non erano tuttavia paragonabili al contenuto del libro Storia di un'idea; perché i cattolici non reagirono cosí energicamente contro il libro mentre furono feroci con il Lovera? Vedere la produzione letteraria del Lovera: collaboratore delle riviste del Gobetti e del «Davide» di Gorgerino: articoli nel «Corriere» di Torino. È un vecchio aristocratico, credo, discendente di Solaro della Margarita. È interessante notare che è amico degli scrittori della «Civiltà Cattolica» e che ha messo a loro disposizione l'archivio del Solaro.

[Riforma.]

Riforma luterana — calvinismo inglese — in Francia razionalismo settecentesco e pensiero politico concreto (azione di massa). In Italia non c'è mai stata una riforma intellettuale e morale che coinvolgesse le masse popolari. Rinascimento, filosofia francese del Settecento, filosofia tedesca dell'Ottocento sono riforme che toccano solo le classi alte e spesso solo gli intellettuali: l'idealismo moderno, nella forma crociana, è una riforma indubbiamente, e ha avuto una certa efficacia, ma non ha toccato masse notevoli e si è disgregato alla prima controffensiva. Il materialismo storico perciò avrà o potrà avere questa funzione non solo totalitaria come concezione del mondo, ma totalitaria in quanto investirà tutta la società fin dalle sue piú profonde radici. Ricordare le polemiche (Gobetti, Missiroli, ecc.) sulla necessità di una riforma, intesa meccanicamente.

Il cattolicismo italiano.

A proposito della quistione di una possibile riforma protestante in Italia è da notare la «scoperta» fatta nel luglio-agosto 1931 (dopo l'enciclica sull'Azione Cattolica) di ciò che è realmente il cattolicismo da parte di alcune riviste italiane (specialmente notevole l'articolo editoriale di «Critica Fascista» sull'Enciclica). Questi cattolici hanno scoperto con grande stupore e senso di scandalo che cattolicismo è uguale a «papismo». Questa scoperta non deve aver fatto molto piacere in Vaticano: essa è un potenziale protestantesimo, come tale è l'avversione a ogni ingerenza papale nella vita interna nazionale e il considerare e proclamare il papato un «potere straniero». Queste conseguenze del Concordato devono essere state sorprendenti per i «grandi» politici del Vaticano.

[Irreligiosità.]

Dal libro Mi pare... di Prezzolini: «L'irreligiosità moderna è una nuova freschezza di spirito, un atto morale, una liberazione. L'irreligiosità è una difficoltà, un carico, un obbligo, un dovere maggiore. In questo senso ci rende nobili. È l'emulazione con la virtú passata. Noi, irreligiosi, possiamo e dobbiamo essere da tanto quanto gli uomini passati, religiosi. Anzi di piú; o meglio: diversamente».

[La diffusione del cristianesimo.]

Una riflessione che si legge spesso è quella che il cristianesimo si sia diffuso nel mondo senza bisogno dell'aiuto delle armi. Non mi pare giusto. Si potrà dire cosí fino al momento in cui il cristianesimo non fu religione di Stato (cioè, fino a Costantino), ma, dal momento in cui divenne il modo esterno di pensare di un gruppo dominante, la sua fortuna e la sua diffusione non può distinguersi dalla storia generale e quindi dalle guerre; ogni guerra è stata anche guerra di religione, sempre.

Apologhi. Spunti sulla religione.

L'opinione corrente è questa: che non si deve distruggere la religione se non si ha qualcosa da sostituirle nell'animo degli uomini. Ma come si fa a capire quando una sostituzione è avvenuta e il vecchio può essere distrutto?

Altro modo di pensare connesso al primo: la religione è necessaria per il popolo, anzi per il «volgo», come si dice in questi casi. Naturalmente ognuno crede di non essere piú «volgo», ma che volgo sia ogni suo prossimo e perciò dice necessario anche per sé fingere di essere religioso, per non turbare lo spirito degli altri e gettarli nel dubbio. Avviene cosí che siano molti a non credere piú, ognuno persuaso di essere superiore agli altri perché non ha bisogno di superstizioni per essere onesto, ma ognuno persuaso che occorre mostrare di «credere» per rispetto agli altri.

I cattolici dopo il Concordato.

È molto importante la risposta del Papa all'augurio natalizio del Sacro Collegio dei cardinali pubblicata nella «Civiltà Cattolica» del 4 gennaio 1930. Nella «Civiltà Cattolica» del 18 gennaio è pubblicata l'enciclica papale Quinquagesimo ante anno (per il cinquantesimo anno di sacerdozio di Pio XI), dove è ripetuto che Trattato e Concordato sono inscindibili e inseparabili «o tutti e due restano, o ambedue necessariamente vengono meno». Questa affermazione reiterata del Papa ha un grande valore: essa forse è stata fatta e ribadita, non solo nei riguardi del governo italiano, col quale i due atti sono stati compiuti, ma specialmente come salvaguardia nel caso di mutamento di governo. La difficoltà è nel fatto che, cadendo il trattato, il Papa dovrebbe restituire le somme che intanto sono state versate dallo Stato italiano in virtú del trattato: né avrebbe valore il cavillo possibile basato sulla legge delle guarentigie. Bisognerà vedere come mai nei bilanci dello Stato era impostata la somma che lo Stato aveva assegnato al Vaticano dopo le guarentigie, quando esisteva una diffida che tale obbligo veniva a cadere se, entro i cinque anni dopo la legge, il Vaticano ne avesse rifiutato la riscossione.

[Omaggi.]

Nella «Civiltà Cattolica» del 20 luglio 1929 è contenuta la cronaca della prima udienza, per la presentazione delle credenziali, concessa da Pio XI all'ambasciatore De Vecchi presso la Città del Vaticano. Nelle parole rivolte da Pio XI al De Vecchi, al secondo capoverso, si dice: «Parlando di novità di rapporti cosí felicemente iniziata, lo diciamo, signor conte, con riguardo particolare alla sua persona, lieti che questa novità di cose si inizi e prenda avviamento da quello che Ella rappresenta, di persona e di opere, da quello che Ella è venuta già facendo per il bene, non solo del paese, ma anche delle nostre Missioni».

I cattolici e lo Stato.

Confrontare l'articolo molto significativo Tra «ratifiche» e «rettifiche» (del padre Rosa) nella «Civiltà Cattolica» del 20 luglio 1929, riguardante anche il plebiscito del 1929. Su questo articolo confrontare anche il fascicolo successivo della stessa «Civiltà Cattolica» (del 3 agosto). A proposito del Concordato è da rilevare che l'art. 1° dice testualmente: «L'Italia, ai sensi dell'art. 1 del trattato, assicura alla Chiesa cattolica il libero esercizio del potere spirituale, ecc.». Perché si parla di potere, che ha un preciso significato giuridico, e non, per esempio, di «attività» o altro termine meno facilmente interpretabile in senso politico? Sarebbe utile fare una ricerca, anche di nomenclatura, negli altri concordati stipulati dalla Chiesa e nella letteratura di ermeneutica dei concordati dovuta ad agenti del Vaticano.

La religione nella scuola.

«Ecco perché nei nuovi programmi per le scuole, secondo la riforma gentiliana, l'arte e la religione sono assegnate alla sola scuola elementare, e la filosofia largamente attribuita alle scuole secondarie. Nell'intenzione filosofica dei programmi elementari, le parole "l'insegnamento della religione è considerato come fondamento e coronamento di tutta l'istruzione primaria" significano appunto che la religione è una categoria necessaria, ma inferiore, attraverso la quale deve passare l'educazione, giacché, secondo la concezione dell'Hegel, la religione è una filosofia mitologica e inferiore, corrispondente alla mentalità infantile ancora incapace di levarsi alla filosofia pura, nella quale poi la religione deve essere risoluta e assorbita. Notiamo subito che, nel fatto, questa teoria idealistica non è riuscita a inquinare l'insegnamento religioso nella scuola elementare, facendovelo trattare come mitologico, sia perché i maestri o non si intendono o non si curano di tali teorie, sia perché l'insegnamento religioso cattolico è intrinsecamente storico e dogmatico, ed è esternamente vigilato e diretto dalla Chiesa nei programmi, testi, insegnamenti. Inoltre, le parole "fondamento e coronamento" sono state accettate dalla Chiesa nel loro significato ovvio e ripetute nel Concordato tra la Santa Sede e l'Italia, secondo il quale (art. 36) l'insegnamento religioso è esteso alle scuole medie. Questo estendimento è venuto a contrariare le mire dell'idealismo, il quale pretendeva di escludere la religione dalle scuole medie e lasciarvi dominare solo la filosofia, destinata a superare e assorbire in sé la religione appresa nelle scuole elementari.» «Civiltà Cattolica», 7 novembre 1931 (Il buono e il cattivo nella pedagogia nuova, anonimo, ma del padre Mario Barbera).

Gli industriali e le missioni cattoliche.

È noto che gli industriali italiani hanno formato un organismo per aiutare direttamente e organicamente le missioni cattoliche nella loro opera di penetrazione culturale ed economica nei paesi arretrati. Si pubblica un bollettino speciale per tale attività: «Bollettino ufficiale del comitato nazionale industriali e commercianti per le missioni cattoliche», Roma, in 8°. Contribuiranno industriali e commercianti anche ebrei e miscredenti, naturalmente, e anche la Fiat che negli anni del dopoguerra aiutava l'YMCA e i metodisti a Torino.

Cristianesimo primitivo e non primitivo.

Nella «Civiltà Cattolica» del 21 dicembre 1929, articolo I novelli B.B. Martiri Inglesi difensori del primato romano. Durante le persecuzioni di Enrico VIII, «il beato Fisher fu a capo della resistenza, sebbene poi il clero, nella sua maggioranza, mostrasse una colpevole e illegittima sottomissione, promettendo con un atto, che fu detto "resa del clero", di far dipendere dal re l'approvazione di qualsiasi legge ecclesiastica» (15 maggio 1532).

Quando Enrico impose il «giuramento di fedeltà» e volle essere riconosciuto capo della Chiesa, «purtroppo molti del clero, dinanzi alla minaccia della perdita dei beni e della vita, cedettero, almeno in apparenza, ma con grave scandalo dei fedeli».

Le encicliche papali.

Un esame critico-letterario delle encicliche papali. Esse sono per il 90% un centone di citazioni generiche e vaghe, il cui scopo pare essere quello di affermare in ogni occasione la continuità della dottrina ecclesiastica dagli Evangeli a oggi. In Vaticano devono avere uno schedario formidabile di citazioni per ogni argomento: quando si deve compilare un'enciclica, si comincia con il fissare preventivamente le schede contenenti la dose necessaria di citazioni: tante dall'Evangelio, tante dai Padri della Chiesa, tante dalle precedenti encicliche. L'impressione che se ne ottiene è di grande freddezza. Si parla della carità, non perché ci sia un tal sentimento verso gli uomini attuali, ma perché cosí ha detto Matteo, e Agostino, e il «nostro predecessore di felice memoria», ecc. Solo quando il Papa scrive o parla di politica immediata, si sente un certo calore.

Le prigioni dello Stato pontificio.

Nel fascicolo aprile-settembre 1931 della «Rassegna Storica del Risorgimento» è pubblicato da Giovanni Maioli un capitolo di una autobiografia inedita di Bartolo Talentoni, patriota forlivese. Il capitolo si riferisce alle procedure giudiziarie e alla prigionia patita dal Talentoni, quando fu arrestato, nel 1855, come cospiratore e favoreggiatore di sétte in Romagna. Carcere di Bologna. Tra l'altro si può stralciare questo: «Tutto colà era calcolato, né mai ci lasciavano un momento tranquilli...». Perché un sonno riparatore non rafforzasse lo spirito e il corpo dei detenuti si ricorreva ai mezzi piú impensati. La sentinella faceva rimbombare la prigione con gli urrà, durante la notte il catenaccio era fatto scorrere con la piú rumorosa violenza, ecc. (Questi cenni sono presi dal «Marzocco» del 25 ottobre 1931).

La neutralità della Svizzera nel 1934.

Il consigliere Motta, capo del dipartimento federale degli Esteri, in un discorso tenuto a Friburgo il 22 luglio, in occasione della giornata ticinese del Tiro federale, ha detto: «Finché la Svizzera sarà risoluta a difendersi, — cosí diceva di recente l'insigne capo del governo italiano al signor Wagnière, nostro ministro a Roma, e io non credo di commettere un'indiscrezione rivelando questo detto amichevole — nessuno oserà prendersi la responsabilità di toccarla».

In ogni modo l'on. Motta ha fatto sapere che, «recentemente», in confronto al 22 luglio 1934, la diplomazia svizzera ha dovuto prospettare la possibilità di un'aggressione contro il suo territorio al governo italiano e ne ha ricevuto parole amichevoli.

Il governo inglese.

Un articolo interessante di Ramsay Muir sul sistema di governo inglese è stato pubblicato nel fascicolo di novembre 1930 della «Nineteenth Century» (riportato nella «Rassegna settimanale della Stampa estera», del 9 dicembre 1930). Il Muir sostiene che in Inghilterra non si può parlare di regime parlamentare, perché non esiste controllo del Parlamento sul governo e sulla burocrazia, ma solo di una dittatura di partito, e ancora di una dittatura inorganica, perché il potere oscilla tra partiti estremi. Nel Parlamento la discussione non è quale dovrebbe essere, cioè discussione di Consiglio di Stato, ma discussione di partiti per contendersi il corpo elettorale alla prossima elezione, con promesse da parte del governo, screditando il governo da parte dell'opposizione. Le deficienze del sistema di governo inglese si sono manifestate crudamente nel dopoguerra, per i grandi problemi di ricostruzione e di adattamento alla nuova situazione (ma anche alla vigilia della guerra: confrontare il caso Carson, nell'Irlanda settentrionale. Il Carson traeva la sua audacia e la sicurezza d'impunità appunto dal sistema di governo, per cui le sue azioni sovversive sarebbero state sanate da un ritorno dei conservatori al potere). Il Muir trova l'origine della dittatura di partito nel sistema elettorale senza ballottaggio, e specialmente senza proporzionale; ciò rende difficili i compromessi e le opinioni medie (o almeno costringe i partiti a un opportunismo interno peggiore del compromesso parlamentare). Il Muir non osserva altri fenomeni: nello stesso governo c'è un gruppo ristretto che domina sull'intero gabinetto, e ancora c'è una personalità che esercita una funzione bonapartista.

Debiti della Germania e pagamenti all'America.

Pare che ad aver fissato prima di ogni altro che debba esistere interferenza tra i pagamenti all'America e i debiti di guerra della Germania sia stato lord Balfour nella sua famosa nota del 1922. Il senatore D'Amelio non avrebbe che aderito alla nota Balfour nella conferenza di Londra del 1923.

Inghilterra e Germania.

Un raffronto dei due paesi per riguardo al loro comportamento di fronte alla crisi di depressione del 1929 [e anni] seguenti. Da questa analisi dovrebbe risultare la reale struttura dell'uno e dell'altro e la reciproca posizione funzionale nel complesso economico mondiale, elemento della struttura che non è, di solito, attentamente osservato. Si può iniziare l'analisi dal fenomeno della disoccupazione. Le masse di disoccupati in Inghilterra e in Germania hanno lo stesso significato? Il teorema delle «proporzioni definite» nella divisione del lavoro interno si presenta allo stesso modo nei due paesi? Si può dire che la disoccupazione inglese, pur essendo inferiore numericamente a quella tedesca, indica che il coefficiente «crisi organica» è maggiore in Inghilterra che in Germania, dove invece il coefficiente «crisi ciclica» è piú importante. Cioè nell'ipotesi di una ripresa «ciclica», l'assorbimento della disoccupazione sarebbe piú facile in Germania che in Inghilterra. Da quale elemento della struttura dipende questa differenza: dalla maggiore importanza che ha in Inghilterra il commercio in confronto della produzione industriale, cioè dall'esistenza in Inghilterra di una massa di «proletari» legati alla funzione commerciale, superiore a quella tedesca, dove invece è maggiore la massa industriale. Composizione della popolazione attiva e sua distribuzione nelle diverse attività. Molti commercianti (banchieri, agenti di cambio, rappresentanti, ecc.) determinano un largo impiego di personale per i loro servizi quotidiani: aristocrazia piú ricca e potente che in Germania. Piú numerosa la quantità di «parassiti rituali», cioè di elementi sociali impiegati non nella produzione diretta, ma nella distribuzione e nei servizi personali delle classi possidenti.

La Corsica.

Nell'«Italia Letteraria» del 9 agosto 1931 è pubblicato un articolo di Augusto Garsia, Canti d'amore e di morte nella terra dei Còrsi. Il Garsia pare sia stato recentemente in Corsica con Umberto Biscottini, che notoriamente organizza a Livorno tutta l'attività irredentistica in Corsica (edizione còrsa del «Telegrafo», il «Giornale di Letteratura e di Politica», libri, zibaldoni, ecc.). Dall'articolo del Garsia appare che si stampa da poco tempo una rivista «31-47» «che riporta molti articoli dell'edizione speciale fatta per i còrsi del giornale "II Telegrafo", introdotta clandestinamente nell'isola». Anche da Raffaello Giusti di Livorno è ora edito l'«Archivio storico di Corsica», che usci nel '25 a Milano e la cui direzione piú tardi fu assunta da Gioacchino Volpe. Il «Giornale di Politica e di Letteratura» non può entrare in Francia (quindi in Corsica).

L'irredentismo italiano in Italia è sufficientemente diffuso; non so quanto in Corsica. C'è in Corsica il movimento della «Muvra» e del Partito còrso d'Azione, ma essi non vogliono uscire dai quadri francesi e tanto meno riunirsi all'Italia; vogliono tutt'al piú una larga autonomia e partecipano al movimento autonomista francese (Bretagna, Alsazia, Lorena, ecc.). Ricordare l'avvocatino veneto che incontrai in treno nel 1914: era abbonato alla «Muvra», all'«Archivio storico di Corsica», leggeva romanzi di autori còrsi (per esempio Pierre Dominique, che per lui era un rinnegato). Sosteneva la rivendicazione non solo della Corsica, ma anche di Nizza e della Savoia.

Anche il commendator Belloni, vicequestore di Roma, quando nel settembre 1925 mi fece una perquisizione domiciliare di quattro ore, mi parlò a lungo di queste rivendicazioni. Il veterinario di Ghilarza, prima della guerra, dottor Nessi, brianzolo, rivendicava anche il Delfinato, Lione compresa, e trovava ascolto fra i piccoli intellettuali sardi che sono francofobi estremisti per ragioni economiche (la guerra di tariffe con la Francia dopo il 1889) e per ragioni nazionalistiche, i sardi sostengono che neanche Napoleone ha potuto conquistare la Sardegna, e la festa di sant'Efisio a Cagliari non è altro che la riproduzione della vittoria dei sardi sui francesi del 1794 con l'intera distruzione della flotta francese (quaranta fregate) e di un corpo di sbarco di quattromila uomini.

La lingua italiana a Malta.

La difesa della lingua e della cultura italiana a Malta, come appare dagli avvenimenti dei primi mesi del 1932 (confronta l'articolo del «Corriere della Sera» del 25 marzo 1932), è stata resa piú difficile dall'esistenza del Concordato. Finché lo Stato italiano era in conflitto con la Chiesa, l'esistenza di una italianità organizzata a Malta (come in molti altri paesi del mondo) non rappresentava un pericolo per gli Stati egemonici: essa difficilmente poteva svilupparsi nella sfera nazionale e politica: rimaneva nella sfera del folclore e delle culture dialettali. Col Concordato la quistione è cambiata: la Chiesa, amministrata da italiani, e rappresentata localmente da italiani, non piú in conflitto con lo Stato, in realtà si confonde con lo Stato italiano e non piú col ricordo folcloristico della cosmopoli cattolica. Ecco dunque che il Concordato, invece di facilitare un'espansione di cultura italiana, la rende piú difficile non solo, ma ha creato la situazione per una lotta contro i nuclei di italianità tradizionali. Cosí appare che nel mondo moderno un imperialismo culturale e spirituale è utopistico: solo la forza politica, fondata sull'espansione economica, può essere la base per una espansione culturale.

Controllare se l'on. Enrico Mizzi, uno dei leaders del Partito nazionalista maltese, sia stato tra i fondatori del Partito nazionalista italiano. Probabilmente, l'osservazione fatta da qualche giornale inglese si riferisce al fatto che il Mizzi avrà mandato la sua adesione al comitato organizzatore o a qualche personalità, come Corradini o Federzoni o Coppola.

Bilancio della guerra.

Camillo Pellizzi annunzia nel «Corriere» del 7 aprile 1932 il libro di Luigi Villari, The war on the italian front (con prefazione di sir Rennell Rodd, Cobden-Sanderson, Londra, 1932). In un'appendice sono pubblicate le cifre sul bilancio comparativo della guerra, e il Pellizzi riproduce le seguenti: l'Italia ha mobilitato il 14,48% della sua popolazione, la Francia il 20,08, l'Inghilterra il 12,31; l'Italia ha avuto il 14% di morti sul numero dei mobilitati, la Francia il 16,15; l'Inghilterra l'11,05; l'Italia ha speso nella guerra oltre un quarto della sua ricchezza totale, la Francia meno di un sesto; l'Italia ha perso il 58,93% del suo tonnellaggio mercantile, la Gran Bretagna il 43,63, la Francia il 39,44.

Occorrerebbe vedere come queste cifre sono ottenute e se si tratta di quantità omogenee. Le cifre percentuali della mobilitazione possono essere rese non esatte dal fatto che si calcolano tutti i mobilitati di vari anni e si fa la percentuale sulla popolazione di un anno dato. Cosí per il tonnellaggio occorrerebbe sapere l'età delle navi perdute, perché è noto che alcuni paesi tengono in servizio le navi piú di altri, onde il maggior numero di disastri anche in tempo di pace. Il calcolo della ricchezza di un paese varia sensibilmente a seconda dell'onestà fiscale nel denunziare i redditi, e questa forma di onestà non è mai abbondante.

[La cultura degli ufficiali.]

Non esiste in Italia una traduzione dell'opera di Clausewitz sulla guerra. Né pare che Clausewitz fosse conosciuto dalla vecchia generazione: in un articolo della «Nuova Antologia» (16 dicembre 1933, Appunti sulla costituzione degli organi di comando in guerra), dell'ammiraglio Sirianni, il nome è sempre riferito come «Clausenwitz». Sarebbe da mettere in rapporto questo fatto con l'affermazione' fatta dal generale De Bono, nelle sue memorie edite da Mondadori, che gli ufficiali della sua generazione non si occupavano di politica, non leggevano i giornali, non sapevano spesso neanche chi fossero i componenti del governo. Quale potesse essere il livello di cultura degli ufficiali della passata generazione è facile immaginare: un ufficiale che si disinteressa della vita politica del suo paese rassomiglia troppo a un soldato di ventura di tipo medioevale. Pare che il primo libro che riassume il pensiero militare (politico) del Clausewitz sia quello di Emilio Canevari, Clausewitz e la guerra odierna, Roma, 1934.

Da Virgilio Brocchi,

Il volo nuziale (cfr. nel «Secolo Illustrato», 1° ottobre 1932): «Il governo pareva incerto, e negoziava la neutralità e la guerra: ma perché i negoziati fossero realmente proficui doveva dare al mondo e soprattutto agli alleati di ieri la sensazione o la prova che esso non poteva contenere oramai la volontà esasperata della nazione che scoppiava in mille incendi, dal piú umile borgo alla capitale e divampava persino dentro i ministeri. Sulle fiamme, ogni giornale — anche quelli che fino al giorno innanzi avevano esaltato la magnifica violenza degli imperi centrali — gettava olio e polvere esplosiva: contro tutti contrastava un solo giornale; ma chi lo dirigeva, se pur era uomo di indefettibile fede e di sicuro coraggio, mancava di virtú simpatiche e di sufficiente accorgimento, cosí che parve difendere, piú che un supremo ideale umano, e l'istinto della civiltà minacciata, il pavido egoismo di proletari per cui la patria è solo la patria dei signori e la guerra una speculazione infame di banchieri».

[Servizi di pubblica sicurezza.]

Nel «Corriere della Sera» del 1° giugno [1932] sono riassunte dalla pubblicazione ufficiale le nuove norme per l'impiego delle truppe regolari in servizio di P.S. Alcune disposizioni innovatrici sono di grande importanza, come quella per cui l'autorità militare può decidere il suo intervento di propria iniziativa, senza essere chiamata dall'autorità politica. Cosí l'altra disposizione per cui la truppa interviene solo con le armi cariche, per agire, e, come pare, non può perciò essere impiegata alla formazione di cordoni, ecc.

[Ombre.]

Un episodio piuttosto oscuro, per non dire losco, è costituito dai rapporti dei riformisti con la plutocrazia: la «Critica Sociale» amministrata da Bemporad, cioè dalla Banca Commerciale (Bemporad era anche l'editore dei libri politici di Nitti), l'entrata dell'ingegnere Omodeo nel circolo di Turati, il discorso di Turati Rifare l'Italia! sulla base dell'industria elettrica e dei bacini montani, discorso suggerito e forse scritto in collaborazione con Omodeo.

[«Chi è?».]

Quando fu pubblicata la prima edizione del Chi è?, dizionario biografico italiano dell'editore Formiggini, il capo del governo osservò che mancava un paragrafo per il generale Badoglio. Questa accuratezza del capo del governo fu riportata dal Formiggini nell'«Italia che scrive» del tempo, ed è un tratto psicologico di grande rilievo.

[C'è rivoluzione e rivoluzione.]

Articolo dell'«Osservatore Romano» dell'11-12 marzo, riportato (alcuni brani) dalla «Civiltà Cattolica» del 6 aprile 1929: «Cosí come non desta piú l'impressione funesta, che sembra indurre in altri, la parola "rivoluzione", allorché vuole indicare un programma e un moto che si svolge nell'ambito degli istituti fondamentali dello Stato, lasciando al loro posto il monarca e la monarchia: vale a dire gli esponenti maggiori e piú sintetici dell'autorità politica del paese; senza sedizione cioè né insurrezione, da cui non sembravano poter prescindere fin qui il senso e i mezzi di una rivoluzione».

[La prigione.]

In un articolo di Mario Bonfantini, L'arte di Carlo Bini, nell'«Italia Letteraria» del 22 maggio 1932, sono citati questi due versi (o quasi): «La prigione è una lima sí sottile, — che temprando il pensier ne fa uno stile». Chi ha scritto cosí? Lo stesso Bini? Ma il Bini è stato davvero in prigione (forse non molto). La prigione è una lima cosí sottile, che distrugge completamente il pensiero, oppure fa come quel mastro artigiano, al quale era stato consegnato un bel tronco di legno d'olivo stagionato per fare una statua di San Pietro, e taglia di qua, togli di là, correggi, abbozza, fini col ricavarne un manico di lesina.

[Gli inchini del popolano.]

Articolo di Salvatore Di Giacomo sulla «impraticabilità» delle strade popolari di Napoli per i «sognatori» ed i «poeti»; dalle finestre cadevano i cesti di fiori ad ammaccare i cappelli duri e le pagliette signorili e anche i crani contenutivi (articolo nel «Giornale d'Italia» del '20). Episodio dei pomodori che costano e delle pietre che non costano. Senso del distacco, della differenziazione in un ambiente primitivo «riscaldato», che crede prossima l'impunità e si rivela apertamente. Questo stesso ambiente primitivo, in tempi «normali», è sornionamente adulatore e servile. Episodio del popolano veneziano, raccontato dal Manzoni al Bonghi: si sviscerava in inchini e scappellate dinanzi ai nobiluomini, salutava sobriamente dinanzi alle chiese; interrogato su questo apparente minor rispetto per le cose sacre, rispose ammiccando: «Coi santi non si cogliona». Come appariva la differenziazione in una città moderna? Esempi ed episodi.

[Tragedia e farsa.]

Inizio del Diciotto brumaio di Luigi Napoleone: il detto di Hegel che nella storia ogni fatto si ripete due volte; correzione di Marx che la prima volta il fatto si verifica come tragedia, la seconda volta come farsa. Questo concetto era già stato adombrato nel Contributo alla critica della filosofia del diritto: «Gli dei greci, tragicamente feriti a morte una prima volta nel Prometeo incatenato di Eschilo, subirono una seconda morte, la morte comica, nei dialoghi di Luciano. Perché questo cammino della storia? Affinché l'umanità si separi con gioia dal suo passato». («E questo gioioso destino storico noi lo rivendichiamo per le potenze politiche della Germania», ecc.).

«Sollecitare i testi».

Cioè far dire ai testi, per amor di tesi, piú di quanto i testi realmente dicono. Questo errore di metodo filologico si verifica anche all'infuori della filologia, in tutte le analisi e gli esami delle manifestazioni di vita. Corrisponde, nel diritto penale, a vendere a meno peso e di differente qualità da quelli pattuiti, ma non è ritenuto crimine, a meno che non sia palese la volontà di ingannare: ma la trascuratezza e l'incompetenza non meritano sanzione, almeno una sanzione intellettuale e morale se non giudiziaria?

Aneddoto di Giustino Fortunato.

Pare sia del 1925 o 1926. Raccontato da Lisa. Pare che si parlasse col Fortunato della lotta politica in Italia. Egli avrebbe detto che, secondo lui, c'erano in Italia due uomini veramente pericolosi, uno dei quali era il Mignoli [L'altro era Gramsci (n.d.r.)]. Sarebbe stato presente, oltre il Lisa, un certo avv. Giordano Bruno, di cui non ho mai sentito parlare, nonostante il suo tragico nome. Il Bruno avrebbe detto: «Ma, senatore, sono due uomini di grande ingegno!» ingenuamente, perché di solito «pericoloso» ha un significato strettamente «poliziesco». E il Fortunato, ridendo: «Appunto perché sono intelligenti sono pericolosi». Non so se l'aneddoto sia vero, e dato che sia vero, il Lisa l'abbia vissuto o solamente «sentito dire». Ma è verosimile e si inquadra perfettamente nel modo di pensare del Fortunato.

Ricordare la lettera del Fortunato riportata da Prezzolini nella prima edizione del suo volume La cultura italiana, e ricordare il necrologio di Piero Gobetti scritto dall'Einaudi (e mi pare anche che il Fortunato abbia scritto qualcosa nello stesso numero unico del «Baretti»); in ogni modo il Fortunato si teneva in rapporti col Gobetti e cercava di immunizzarlo dall'influsso della gente «pericolosa».

Phlipot.

La farsa dei trois galants et Phlipot contenuta nel Recueil de farces, ecc., par Le Roux de Lincy et F. Michel (Techener, Parigi, 1837, in 4 voll.) (nel 4° vol., n. 12). Phlipot, quando sente il «Qui vive?» risponde subito: «Je me rends!», grida successivamente «Vive France! Vive Angleterre! Vive Bourgogne!», finché minacciato da tutte le parti, e non sapendo dove cacciarsi grida: «Evviva i piú forti!». Farsa francese del secolo XV-XVI.

[Fertilità.]

Aneddoto contenuto nell'Olanda di De Amicis. Un generale spagnolo mostra a un contadino olandese un arancio: «Questi frutti il mio paese li produce due volte all'anno». Il contadino mostra al generale un pane di burro: «E il mio paese produce due volte al giorno questi altri frutti».

[Civiltà.]

Una definizione inglese della civiltà: «La civiltà è stata definita un sistema di controllo e di direzione che sviluppa nel modo piú rigogliosamente economico la massima potenzialità di un popolo». La traduzione non pare esatta: «rigogliosamente economico» cosa significa? La definizione nel complesso dice poco perché è troppo generica. A «civiltà» può sostituirsi «regime politico», «governo», con un significato piú preciso.

[«Bocche senza testa».]

Nelle Satire (satira IX) l'Alfieri scrisse dei Napoletani che sono «bocche senza testa». Ma di quanta altra gente si potrebbe ciò dire, mentre non è certo si possa dire dei Napoletani.

[«Matto per decreto».]

In una memoria politico-giuridica giovanile di Daniele Manin (cfr. l'articolo di A. Levi sulla Politica di Daniele Manin, nella «Nuova Rivista Storica» del maggio-agosto 1933) si usa l'espressione «matto per decreto». Il Tommaseo, annotando lo scritto del Manin, ricorda come di una signora, ammirata pubblicamente da Napoleone, si dicesse che era «bella per decreto». Per decreto si può diventare molte cose e l'epigramma è sempre vivo.

Manzoni dialettico.

Capitolo VIII dei Promessi Sposi, episodio della tentata sorpresa di Renzo e Lucia a Don Abbondio per farsi sposare in casa: «Renzo che strepitava di notte in casa altrui, dove s'era introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l'apparenza di un oppressore; eppure alla fin dei fatti, era l'oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente a' fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure in realtà era lui che faceva un sopruso. Cosí va spesso il mondo... voglio dire, cosí andava nel secolo decimosettimo».

Fratate.

Una ottava di Luigi Pulci (Morgante, XXVIII, 42; è da confrontare): «Sempre i giusti son primi i lacerati; — io non vo' ragionar piú della fede; — ch'io me ne vo poi in bocca a questi frati, — dove vanno anche spesso le lamprede; — e certi scioperon pinzocherati — rapportano: "Il tal disse, il tal non crede", — donde tanto rumor par che ci sia; — se in principio era buio, e buio fia».

Oggi nella bocca di questi tali frati non vanno tanto lamprede quanto volgari paste asciutte, ma i «frati» rimangono tali e anche oggi, come al tempo di Pascal, è piú facile trovar dei «frati» che delle buone ragioni.

La borghesia francese.

Si potrebbe dire che la borghesia francese è il «gargagnanl della civiltà europea». [Gargagnan, nel gergo della Ja.vita torinese, sfruttatore di donne (n.d.r.)]

Un detto popolare:

L'amore del tarlo. Ricordare anche il proverbio inglese: «Con cento lepri non si fa un cavallo, con cento sospetti non si fa una prova».

[Bricconi ricchi e poveri.]

«Quando i bricconi ricchi hanno bisogno dei bricconi poveri, questi possono imporre ai primi il maggior prezzo che vogliono». Shakespeare (nel Timone di Atene) (?).

[Saggezza degli Zulú.]

La saggezza degli Zulú ha elaborato questa massima riportata da una rivista inglese: «È meglio avanzare e morire che fermarsi e morire».

Note autobiografiche.

Come ho cominciato a giudicare con maggiore indulgenza le catastrofi del carattere. Per esperienza del processo attraverso cui tali catastrofi avvengono. Nessuna indulgenza per chi compie un atto contrario ai suoi principi «repentinamente» e intendo repentinamente in questo senso: per non aver pensato che il rimaner fermi in certi principi avrebbe procurato sofferenze e non averle prevedute. Chi, trovatosi d'un tratto dinanzi alla sofferenza, prima ancora di soffrirla o all'inizio della sofferenza, muta atteggiamento, non merita indulgenza. Ma il caso si pone in forme complesse. È strano che di solito si sia meno indulgenti coi mutamenti «molecolari» che con quelli repentini. Ora il movimento «molecolare» è il piú pericoloso, ché, mentre dimostra nel soggetto la volontà di resistere, «fa intravedere» (a chi riflette) un mutamento progressivo della personalità morale che a un certo punto da quantitativo diventa qualitativo: cioè non si tratta piú in verità, della stessa persona, ma di due. (S'intende che «indulgenza» non significa altro che mancanza di filisteismo morale, non già che non si tenga [conto] del mutamento e non si sanzioni; la mancanza di sanzione significherebbe «glorificazione» o per lo meno «indifferenza» al fatto e ciò non permetterebbe di distinguere la necessità e la non necessità, la forza maggiore e la vigliaccheria). Si è formato il principio che un capitano non debba abbandonare la nave naufragata che per ultimo, quando tutti si sono salvati, anzi si giunge in alcuni ad affermare che in tali casi il capitano «deve» ammazzarsi. Queste affermazioni sono meno irrazionali di quanto potrebbe sembrare. Certo non è escluso che non ci sia nulla di male a che un capitano si salvi per il primo. Ma se questa constatazione diventasse un principio, quale garanzia si avrebbe che il capitano ha fatto di tutto: 1) perché il naufragio non avvenga; 2) perché, avvenuto, tutto è stato fatto per ridurre al minimo i danni delle persone e delle cose? (danni delle cose significa poi danno futuro delle persone). Solo il principio, divenuto «assoluto», che il capitano, in caso di naufragio, abbandona per ultimo la nave e anzi muore con essa, dà questa garanzia, senza cui la vita collettiva è impossibile, cioè nessuno prenderebbe impegni e opererebbe abbandonando ad altri la propria sicurezza personale. La vita moderna è fatta in gran parte di questi stati d'animo o «credenze» forti come i fatti materiali.

La sanzione di questi mutamenti, per tornare all'argomento, è un fatto politico, non morale, dipende non da un giudizio morale, ma da uno di «necessità» per l'avvenire, nel senso che se cosí non si facesse, danni maggiori potrebbero venire: in politica è giusta una «ingiustizia» piccola per evitarne una piú grande ecc.

Dico che è «moralmente» piú giustificabile chi si modifica «molecolarmente» (per forza maggiore, s'intende) che chi si modifica d'un tratto, sebbene di solito si ragioni diversamente. Si sente dire: «Ha resistito per cinque anni, perché non per sei? Poteva resistere un altro anno e trionfare». Intanto in questo caso si tratta del senno di poi, perché al quinto anno il soggetto non sapeva che «solo» un altro anno di sofferenze lo aspettava. Ma a parte questo: la verità è che l'uomo del quinto anno non è quello del quarto, del terzo, del secondo, del primo ecc.; è una nuova personalità, completamente nuova, nella quale gli anni trascorsi hanno appunto demolito i freni morali, le forze di resistenza che caratterizzavano l'uomo del primo anno. Un esempio tipico è quello del cannibalismo. Si può dire che al livello attuale della civiltà, il cannibalismo ripugna talmente che una persona comune è da credere quando dice: — messo al bivio di essere cannibale, mi ammazzerei. Nella realtà, quella stessa persona, se dovesse trovarsi dinanzi al bivio: «essere cannibale o ammazzarsi» non ragionerebbe piú cosí, perché sarebbero avvenute tali modificazioni nel suo io, che l'«ammazzarsi» non si presenterebbe piú come alternativa necessaria: egli diventerebbe cannibale senza pensare per nulla ad ammazzarsi. Se Tizio, nel pieno delle sue forze fisiche e morali viene messo al bivio, c'è una probabilità che s'ammazzi (dopo essersi persuaso che non si tratta di una commedia ma di cosa reale, di alternativa seria); ma questa probabilità non esiste piú (o almeno diminuisce molto) se Tizio si trova al bivio dopo aver subito un processo molecolare in cui le sue forze fisiche e morali sono andate distrutte. Ecc.

Cosí vediamo uomini normalmente pacifici, dare in scoppi repentini di ira e ferocia. Non c'è, in realtà, niente di repentino: c'è stato un processo «invisibile» e molecolare in cui le forze morali che rendevano «pacifico» quell'uomo, si sono dissolte. Questo fatto individuale può essere considerato collettivo (si parla allora della «goccia che ha fatto traboccare il vaso» ecc.). Il dramma di tali persone consiste in ciò: Tizio prevede il processo di disfacimento, cioè prevede che diventerà... cannibale, e pensa: se ciò avverrà, a un certo punto del processo mi ammazzo. Ma questo «punto» quale sarà? In realtà ognuno fida nelle sue forze e spera nei casi nuovi che lo tolgano dalla situazione data. E cosí avviene che (salvo eccezioni) la maggior parte si trova in pieno processo di trasformazione oltre quel punto in cui le sue forze ancora erano capaci di reagire sia pure secondo l'alternativa del suicidio.

Questo fatto è da studiare nelle sue manifestazioni odierne. Non che il fatto non si sia verificato nel passato, ma è certo che nel presente ha assunto una sua forma speciale e... volontaria. Cioè oggi si conta che esso avvenga e l'evento viene preparato sistematicamente, ciò che nel passato non avveniva (sistematicamente vuol dire però «in massa» senza escludere naturalmente le particolari «attenzioni» ai singoli). È certo che oggi si è infiltrato un elemento «terroristico» che non esisteva nel passato, di terrorismo materiale e anche morale, che non è sprezzabile. Ciò aggrava la responsabilità di coloro che, potendo, non hanno, per imperizia, negligenza, o anche volontà perversa, impedito che certe prove fossero passate. Contro questo modo di vedere antimoralistico c'è la concezione falsamente eroica, retorica, fraseologica, contro la quale ogni sforzo di lotta è poco.

Appunti sparsi e note bibliografiche

Alcuni intellettuali.

Il barone Raffaele Garofalo: il suo articolo sull'amnistia pubblicato nella «Nuova Antologia» e annotato in un altro quaderno, la sua conferenza nel volume L'Italia egli Italiani del secolo XIX, a cura di Jolanda De Blasi. Giovanni Gentile: il suo discorso a Palermo nel 1925 (o '24? cfr. la nota di Croce in Cultura e vita morale). Antonio Baldini: la sua conferenza nel volume curato dalla De Blasi su Carducci, D'Annunzio, Pascoli. Il Garofalo rappresenta la vecchia tradizione del latifondista meridionale (ricordare il suo passo al Senato per fare aumentare i canoni enfiteutici e per mantenere nel nuovo codice la segregazione cellulare). Il Gentile e il Baldini, altro tipo di intellettuali, più «spregiudicati» del Garofalo.

Del Gentile è da ricordare il discorso agli operai romani, contenuto nel suo volume su Fascismo e cultura (edizione Treves).

La riforma Gentile e la religione nelle scuole.

Cfr. l'articolo L'ignoto e la religione naturale secondo il senator Gentile, nella «Civiltà Cattolica» del 6 dicembre 1930. Si esamina la concezione del Gentile sulla religione, ma naturalmente gli si è grati per aver introdotto l'insegnamento della religione nella scuola.

[L'enciclica sull'educazione.]

L'enciclica del Papa sull'educazione (pubblicata nella «Civiltà Cattolica» del 1° febbraio 1930); discussione che ha sollevato, problemi che ha posto, teoricamente e praticamente. (Questo è un comma del paragrafo generale sulla quistione della scuola, o dell'aspetto scolastico del problema nazionale della cultura, o della lotta per la cultura).

[La scuola e gli studi.]

Sulle condizioni recenti della scuola e degli studi in Italia occorre vedere gli articoli di Mario Missiro-li nell'«Italia Letteraria» del 1929.

Il talento.

Hofmannsthal rivolse a Strauss queste parole, a proposito dei detrattori del musicista: «Abbiamo buona volontà, serietà, coerenza, al che vai di più del malaugurato talento, di cui è fornito ogni briccone». (Ricordato da L. Beltrami, in un articolo sullo scultore Quadrelli nel «Marzocco» del 2 marzo 1930).

«Storia e antistoria».

«Sono veramente pochi coloro che riflettono e sono nello stesso tempo capaci di agire. La riflessione amplia, ma infiacchisce; l'azione ravviva, ma limita». Goethe, W. Meister (VIII, 5).

«In mille circostanze della mia vita ho dato a conoscere essere veramente il priore della confraternita di san Simpliciano». V. Monti.

Costumi italiani nel Settecento.

Cfr. l'articolo di Alessandro Giulini, Una dama avventuriera nel Settecento, «Nuova Antologia», 16 agosto 1929. (L'Italia ormai dava all'Europa solo avventurieri e anche avventuriere e non più grandi intellettuali. Né la decadenza dei costumi era solo quella che risulta dal Giorno del Parini e dal cicisbeismo: l'aristocrazia creava scrocconi e ladri internazionali accanto ai Casanova e ai Balsamo borghesi).

Una massima di Rivarol.

«Per lodare un libro non è affatto necessario di aprirlo; ma, se si è deciso di criticarlo, è sempre prudente leggerlo. Almeno finché l'autore è vivo...»

[Monarchici torinesi.]

Il Memorandum storico-politico di Clemente Solaro della Margarita è stato ristampato nel 1930 (Bocca, Torino, pp. XX, 488, L. 20), per cura del Centro di studi monarchici di Torino. Da chi sarà costituito questo centro? E forse una continuazione dell'«Associazione monarchica» di Giuseppe Brunati e C? Ricordare che questa associazione aveva per organo il settimanale «Il Sovrano» che si pubblicava a Milano; verso il 1925 vi fu scissione e il Brunati pubblicò a Torino un settimanale, «Il Sabaudo», che pubblicava degli articoli molto curiosi per gli operai (si giunse a pubblicare che solo il sovrano poteva realizzare il comunismo o qualcosa di questo genere).

[Sui Borboni.]

Un articolo interessante per constatare un certo movimento di riabilitazione dei Borboni di Napoli è quello di Giuseppe Nuzzo, La politica estera della monarchia napoletana alla fine del secolo XVIII, nella «Nuova Antologia» del 16 luglio 1930. Articolo insulso storicamente, perché parla di velleità burlesche.

I primordi del movimento unitario a Trieste di Camillo De Franceschi, «Nuova Antologia», 1° ottobre 1928. Articolo incoerente e a base di retorica. Ci sono però degli accenni all'intervento del «materialismo storico» nella trattazione della qui-stione nazionale, argomento che sarà interessante studiare concretamente.

Di Angelo Vivante, Socialismo, nazionalismo, irredentismo nelle provincie adriatiche orientali, Trieste, 1905; Irredentismo adriatico, Firenze, 1912 (opuscoli della «Voce»?). Del Vivante, che fu uomo molto serio e di molto carattere, furono pubblicati opuscoli dall'editrice «Avanti!» per cura di Mussolini, che difese il Vivante dagli attacchi feroci degli irredentisti e nazionalisti. Alla bibliografia su questo argomento bisogna aggiungere gli articoli di Mussolini sull'«Avanti!» a proposito di Trieste, e il suo opuscolo sul Trentino pubblicato dalla «Voce». Articoli furono pubblicati dal «Viandante» di Monicelli, dovuti ad Arturo Labriola, a Francesco Ciccotti, e mi pare ad altri (il problema nazionale fu uno dei punti critici per cui una parte degli intellettuali sindacalisti passò al nazionalismo: Moni-celli, ecc.). Vedere in quanto il Vivante seguiva l'austro-marxi-smo sulla quistione nazionale e in quanto se ne distaccava; vedere le critiche dei Russi all'austro-marxismo sulla quistione nazionale. Speciale forma che assumeva la quistione nazionale a Trieste e in Dalmazia (per gli italiani): articolo di Ludo Hartmann nella «Unità» del 1915, riprodotto nel volumetto sul Risorgimento (editore Vallecchi): polemiche sulla «Voce» a proposito dell'irredentismo e della quistione nazionale con molti articoli (mi pare uno del Borgese) favorevoli alla tesi «austriaca» (Hartmann).

[ «La Voce».]

Sul movimento della «Voce» di Prezzolini, che aveva certamente uno spiccato carattere di campagna per un rinnovamento morale e intellettuale della vita italiana (in ciò poi, continuava, con più maturità, il «Leonardo», e si distinse poi da «Lacerba» di Papini e dall'«Unità» di Salvemini, ma più da «Lacerba» che dall'«Unità»), cfr. il libro di Giani Stuparich su Scipio Slataper, edito nel 1922 dalla casa editrice «La Voce».

[I bollettini di guerra.]

Il compilatore dei bollettini di guerra del Comando supremo italiano, dal maggio 1917 al novembre 1918, compreso anche l'ultimo più famoso, fu l'attuale generale Domenico Siciliani.

[Vita industriale torinese.]

Ricordare il libretto di un certo Ghezzi (forse Raoul?) o Ghersi, da me ricevuto alla fine del '23 o agli inizi del '24 (stampato a Torino), in cui si difendeva l'atteggiamento di Agnelli specialmente, ma anche di altri industriali nel '21-'22, si spiegava l'organizzazione finanziaria della «Stampa» e della «Gazzetta del Popolo», ecc. Era scritto molto male letterariamente, ma conteneva alcuni dati interessanti sulla organizzazione della vita industriale torinese.

[Gioacchino Volpe e il fascismo.]

Cfr. G. Volpe, 23 marzo 1919 - 27 ottobre 1922, nel «Corriere della Sera» del 22 marzo 1932 (in occasione dell'anniversario della fondazione del Fascio di Milano). Articolo interessante e abbastanza comprensivo. Sarà da fare una bibliografia di tutti gli scritti del Volpe sugli avvenimenti del dopoguerra: alcuni sono già raccolti in volume. Nel «Corriere» del 23 marzo è uscito un secondo articolo del Volpe, Fascismo al governo: 1922-1932, molto meno interessante del primo, ma con elementi notevoli: è evidente il tentativo di scrivere non da apologeta puro, ma da critico che si pone da un punto di vista storico, ma non pare molto riuscito.

[Istituzioni del regime fascista.]

Vedere nella collezione della «Gerarchia» le fasi salienti del periodo 1920 e sgg. e specialmente la serie di studi sulle nuove istituzioni create dal regime fascista.

Michel Mitzakis, Les grands problemes italiens, 1931, fr. 80; Gustave Le Bon, Bases scientifiques d'une philosophie de l'histoire (15 fr.). (Il capo del governo è un grande ammiratore del Le Bon; cfr. l'intervista del Le Bon con F. Lefèvre nelle «Nouvelles Littéraires»).

[Storia del nazionalsocialismo.]

Poiché oggi la storia del so-cialnazionalismo tedesco sarà scritta piuttosto a scopi aulici, occorrerà ricordare il volume di Conrad Heiden, Geschichte des Nazionalsozialismus, die Karriere einer Idee, Rowohlt, Berlino, 1932, in 16°, p. 305 (cfr. recensione di Delio Cantimori nel «Leonardo» del marzo 1933).

La burocrazia (cfr. p. 551).

Studio analitico di F. A. Rèpaci, Il costo della burocrazia dello Stato, nella «Riforma Sociale» del maggio-giugno 1932. È indispensabile per approfondire l'argomento. Elabora il materiale complesso dei volumi statistici sulla burocrazia pubblicati dallo Stato.

Provveditorato generale dello Stato.

Pubblicazioni edite dallo Stato o col suo concorso: spoglio dei periodici e delle opere collettive 1926-1930 (parte V: Scritti biografici e critici; parte 2a: Ripartizione per materia), Ed. Libreria dello Stato, Roma.

Gli avvocati in Italia.

Cfr. l'articolo di Mariano D'Amelio, La classe forense in cifre, nel «Corriere della Sera» del 26 gennaio 1932. Cita uno studio di Rodolfo Benini, pubblicato negli Atti dell'Accademia dei Lincei, «ricco di savie e sottili osservazioni circa la classe degli avvocati, dei procuratori, e dei causidici, relativo agli anni 1880 e 1913». Libro di Piero Calamandrei (edito dalla «Voce», mi pare, e intitolato Troppi avvocati!). Studio recente dello Spallanzani (di circa venti pagine), L'efficienza della classe forense sulla vita italiana (senza indicazioni bibliografiche). Nel 1880 nei tre albi di avvocati e procuratori, di soli avvocati e soli procuratori, erano inscritti 12.885 professionisti, cioè 45,17 per 100.000 abitanti; nel 1913 il numero era di 21.488, 61,97 per 100.000 abitanti. Nel 1923, 23.925, 54,41 per 100.000. Nel 1927 dopo la revisione straordinaria degli albi disposta dalla nuova legge, il numero ascende a 26.679, 68,85 per 100.000; (furono cancellati più di 2.000). L'azione di revisione e le nuove norme restrittive per le inscrizioni riducono, nel '29, il numero a 25.353, 64,21 per 100.000. Ora in media si inscrivono 10 avvocati all'anno, meno delle vacanze che si verificano.

Negli altri paesi: Francia: nel 1911 gli avocats e avoués 10.236, 29 per 100.000 abitanti; nel 1921, 15.236, 39 per 100.000. Germania del dopoguerra: nel 1925, 13.676 Rechtsan-wàlte (avvocati e procuratori), 22 per 100.000; nel 1913, 18 per 100.000. Austria: prima della guerra 15 per 100.000; dopo la guerra 18. Inghilterra: nel 1920, 17.946, 47 per 100.000, prima della guerra 45 per 100.000.

Nelle facoltà di giurisprudenza italiane ogni anno 9.000 studenti: le lauree in legge che nel periodo 1911-14 furono 1.900, nel 1928-29 furono 2.240. Nel 1911-14 i licenziati dal liceo 4.943 in media all'anno, nel 1926-29, 5.640. Nella magistratura superiore (Corti d'Appello, d'Assise, Cassazione), i magistrati nel 1880 erano 2.666; nel 1913, 2.553; nel 1922, 2.546; nel 1929, 2.557.

Italia meridionale.

Sull'abbondanza dei paglietta nell'Italia meridionale ricordare l'aneddoto di Innocenzo XI, che domandò al marchese di Carpio di fornirgli 30.000 maiali e ne ebbe la risposta che non era in grado di compiacerlo, ma che, se a Sua Santità fosse accaduto di aver bisogno di 30.000 avvocati, era sempre al fatto di servirlo.

Il rispetto del patrimonio artistico nazionale.

È molto interessante a questo proposito l'articolo di Luca Beltrami, Difese d'arte in luoghi sacri e profani, nel «Marzocco» del 15 maggio 1927. Gli aneddoti riportati dal Beltrami dalla stampa quotidiana sono molto interessanti ed edificanti. Poiché questo punto è sempre messo innanzi per ragioni di polemica culturale, sarà bene ricordare questi episodi di volgare trimalcionismo delle cosi dette classi colte.

Emigrazione.

Nel Congo belga, sono 1.600 immigrati italiani: nel solo Katanga, la zona più ricca del Congo, ve ne sono 942. La maggior parte di questi immigrati italiani è al servizio di compagnie private in qualità di ingegneri, ragionieri, capo-mastri, sorveglianti di lavoro. Dei 200 medici che esercitano la professione al Congo per conto dello Stato e di società, i due terzi sono italiani («Corriere della Sera», 15 ottobre 1931).

Luigi Orsini, Casa paterna. Ricordi d'infanzia e di adolescenza, Treves, 1931. Luigi Orsini è nipote di Felice. Ricorda le descrizioni sull'adolescenza di Felice, narrate dal fratello, padre di Luigi. Pare che il libro sia interessante per il quadro della vita romagnola di villaggio di qualche decina di anni fa.

La Sardegna.

Nel «Corriere della Sera» tre articoli di Francesco Coletti col titolo generale, La Sardegna che risorge, enumerano alcuni dei più importanti problemi sardi e danno un prospetto sommario dei provvedimenti governativi. Il terzo articolo è del 20 febbraio 1932; gli altri due di qualche settimana prima. Il Coletti si è sempre occupato della Sardegna, anche negli anni prima della guerra, e i suoi scritti sono sempre utili, perché ordinati e riassuntivi di molti fatti. Non so se abbia fatto delle raccolte in volume di scritti vecchi. Vedere.

[Distribuzione dell'industria in Italia.]

Al congresso geografico tenuto a Varsavia nell'agosto 1934 il prof. Ferdinando Mi-lone, dell'Università di Bari, ha presentato uno studio delle cause e degli effetti della varia distribuzione dell'industria nelle singole parti d'Italia.

L'alimentazione del popolo italiano.

In «Gerarchia» del febbraio 1929, p. 158, il prof. Carlo Foà riporta le cifre fondamentali dell'alimentazione italiana in confronto agli altri paesi: l'Italia ha 909.750 calorie disponibili per abitante, la Francia 1.358.300, l'Inghilterra 1.380.000, il Belgio 1.432.500, gli Stati Uniti 1.866.250. La commissione scientifica interalleata per i vettovagliamenti ha stabilito che il minimo di consumo alimentare per l'uomo medio è di 1 milione di calorie per anno. L'Italia come media nazionale di disponibilità è al disotto di questa media. Ma, se si considera che la disponibilità non si distribuisce tra gli uomini medi, ma prima di tutto per gruppi sociali, si può vedere come certi gruppi sociali, come i braccianti meridionali (contadini senza terra) a stento devono giungere alle 400.000 calorie annue, ossia 2/5 della media stabilita dagli scienziati.

Il consumo del sale.

(Cfr. Salvatore Majorana, // monopolio del sale, in «Rivista di Politica Economica», gennaio 1931, p. 38). Nell'esercizio 1928-1929, subito dopo l'aumento del prezzo del sale, il consumo del sale è risultato inferiore di Kg. 1, 103 in confronto dell'esercizio precedente, cioè si è ridotto a Kg. 7,133 a testa, mentre il contributo è di L. 4,80 superiore. È stata inoltre cessata la elargizione gratuita di sale nei Comuni di pellagrosi, con la spiegazione che la pellagra è quasi sparita e che altre attività generali dello Stato lottano contro la pellagra (in generale), (ma i pellagrosi effettivi attuali che sorte hanno avuto?).

[Sulle condizioni dei contadini.]

Bibliografia. Nel «Corriere della Sera» del 12 maggio 1932, Arturo Marescalchi [Come vivono i rurali) parla di due libri, senza darne le indicazioni bibliografiche: uno del dott. Guido Mario Tosi studia il bilancio di una famiglia di piccoli proprietari nel Bergamasco (il bilancio è passivo); l'altro studio, diretto dal prof. Ciro Papi e compiuto dai dottori Filippo Scarponi e Achille Grimaldi, tratta del bilancio di una famiglia di mezzadri in provincia di Perugia, nella media valle del Tevere. La famiglia del mezzadro è in condizioni migliori di quella del piccolo proprietario, ma anche questo bilancio è tutt'altro che sicuro. Si tratta di due pubblicazioni dell'Istituto nazionale di economia agraria, che ha pubblicato anche un'inchiesta sulla nuova formazione di piccola proprietà coltivatrice nel dopoguerra. I libri sono in vendita presso Treves-Treccani-Tumminelli.

[Leone XIII e l'Italia.]

Cfr. articolo di Crispolto Crispolti nella «Gerarchia» del luglio 1933 su Leone XIII e l'Italia (sul volume di Eduardo Soderini, 7/ pontificato di Leone XIII, voi. II, Rapporti con l'Italia e con la Francia, Mondadori editore). Il Crispolti scrive che l'anticlericalismo italiano (e, quindi, lo sviluppo della massoneria) dal 1878 al 1903 (pontificato di Leone XIII) fu una conseguenza della politica antitaliana del Vaticano. Anche il Crispolti non [è] soddisfatto dei volumi del Soderini. Richiamo al volume del Salata e all'«Archivio Galimberti». Volumi del Soderini «aulici-ufficiali» del Vaticano. L'articolo del Crispolti è interessante.

Maggiorino Ferraris e la vita italiana dal 1882 al 1926.

Nella «Nuova Antologia» del 1° luglio 1929 è pubblicata la lista degli articoli pubblicati da Maggiorino Ferraris nella rivista stessa dal gennaio 1882 al 21 aprile 1926 (il Ferraris è morto nel giugno 1929 ed è stato direttore della «Nuova Antologia» dal '90 circa fino al 1926). Il Ferraris era un uomo mediocre, di tendenze liberali moderate con una punta verso il giolittismo e verso il nittismo, ma appunto perciò i suoi articoli hanno un interesse generale di sintomo. Era un pubblicista accurato nel-l'informarsi degli elementi tecnici dei problemi trattati, cosa non molto comune in Italia. Scrisse molto sui problemi agrari anche meridionali e su altri problemi di carattere tecnico economico (comunicazioni — ferrovie, telegrafo, navigazione —, tariffe doganali e dazii, cambi ecc.): alcune di queste serie di articoli sono da rivedere e studiare. Il Ferraris era piemontese (di Acqui).

«Rendre la vie impossible».

«Il y a deux facons de tuer: une, que l'on désigne franchement par le verbe tuer; l'autre, celle qui reste sous-entendue d'habitude derrière cet euphémisme délicat: "rendre la vie impossible". C'est le mode d'assassinat lem et obscur, qui consomme une foule d'invisibles complices. C'est un "auto-da-fé" sans "coroza" et sans flammes, perpétré par une Inquisition sans juge ni sentence...». Eugenio D'Ors, La vie de Goya, ed. Gallimard, p. 41. Altrove la chiama «Inquisizione diffusa».

Alessandro Mariani.

Di questo bellissimo tipo la «Nuova Antologia» del 1° ottobre 1927 pubblica una scelta d'impressioni e di pensieri {Interpretazioni) da una raccolta che avrebbe dovuto essere pubblicata prossimamente. Sono paragrafi molto pretenziosi e confusi, di scarso valore e teorico e artistico, ma talvolta curiosi per la decisa avversione al luogo comune e al pregiudizio banale (sostituiti da altri luoghi comuni e altre trivialità). Nella sezione «Arte politica», la «Nuova Antologia» riporta tre paragrafi sulle «Tre potenze»: 1°, La Chiesa di Roma; 2°, L'Internazionale Rossa; 3°, L'Internazionale ebraica.

La Chiesa cattolica è «la più possente forza conservatrice governante sotto la specie del divino, salvezza ultima ove la decadenza dei valori mette a repentaglio la struttura sociale». L'Internazionale rossa è «deviazione dell'ideologia cristiana», «è attiva dovunque, ma specialmente ove una società economica abbia preso sviluppo secondo il metro dell'Occidente. Sovvertitrice di valori, è forza rivoluzionaria ed espansiva. Nega l'ordine, l'autorità, la gerarchia inquantoché costituiti, ma obbedisce all'ordine proprio, più ferreo ed imperioso dell'antico per necessità di conquista. Nega il divino, disconosce lo Spirito, ma ad esso inconsciamente ed ineluttabilmente obbedisce affermando un'inesausta sete di giustizia pur sotto il fallace miraggio dell'Utopia. Vuol riconoscere soltanto i valori materiali e gli interessi, ma obbedisce inconsapevolmente ai più profondi impulsi spirituali ed agli istinti che hanno le più profonde radici nell'anima umana. È mistica. È assoluta. È spietata. E' religione, è dogma. Altrettanto è pieghevole nella trattazione degli affari quanto intransigente nell'ideologia. Relazione di mezzo a fine. È politica».

«Come la Chiesa, è sussidiata dai credenti ed alimentata da un servizio d'informazioni mondiale. L'intelligenza di tutte le nazioni è al suo servizio; tutte le risorse degli innumerevoli insoddisfatti che aguzzano l'ingegno verso la possibilità di un loro migliore domani. Come tutte le società umane ha le sue aristocrazie». «Come la Chiesa dice a tutti i popoli la stessa parola, tradotta in tutte le favelle. Il suo potere eversivo è sotterraneo. Mina la costruzione sociale dalle fondamenta. La sua politica manca di tradizione; non di intelligenza, di abilità, di pieghevolezza, sostenute da una ferma determinazione. Trattare con essa o combatterla può essere avvedutezza o errore, a seconda delle contingenze della politica. Non considerarla o rifiutarsi di considerarla è stoltezza».