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di Giovanni Sartori
Sommario: 1. Inquadramento storico. 2. Pubblica opinione e
democrazia. 3. La formazione dell'opinione. 4. Policentrismo e
requisiti dell'autonomia dell'opinione. 5. La propaganda
totalitaria. 6. Elementi e caratteristiche della pubblica opinione.
7. Propaganda e pubblicità. 8. Opinione pubblica e
comportamenti di voto. 9. Democrazia eleggente, democrazia
partecipante e referendum. □ Bibliografia.
1. Inquadramento storico
La dizione ‛opinione pubblica' è di conio relativamente
recente: risale ai decenni che precedono la Rivoluzione francese del
1789. La coincidenza non è fortuita. Non si tratta solo del
fatto che gli illuministi si assegnavano il compito di ‛diffondere i
lumi' e pertanto, implicitamente, di formare le opinioni di un
più ampio pubblico; ma anche che la Rivoluzione francese
preparava una democrazia in grande - ben diversa dalla democrazia in
piccolo di Rousseau - che a sua volta presupponeva e generava un
pubblico che manifesta opinioni. Il fatto che l'opinione pubblica
emerge - sia come dizione, sia come forza operante - in concomitanza
con la Rivoluzione del 1789 sta anche a indicare che l'associazione
primaria del concetto è un'associazione politica. È di
per sé evidente che un'opinione generalizzata (diffusa tra un
largo pubblico) può esistere, e di fatto esiste, in qualsiasi
materia. Nondimeno gli studi sulla pubblica opinione e il
significato che potremmo dire tecnico della dizione vertono, in
primissima istanza, su un pubblico interessato alla ‛cosa pubblica'.
Il pubblico in questione è soprattutto un pubblico di
cittadini, un pubblico che ha un'opinione sulla gestione degli
affari pubblici, e dunque sugli affari della città politica.
In sintesi: ‛pubblico' non è solo il soggetto ma anche
l'oggetto dell'espressione. Una opinione viene detta pubblica non
solo perché è del pubblico (diffusa tra i molti, o tra
i più), ma anche perchè investe oggetti o materie che
sono di natura pubblica: l'interesse generale, il bene comune e, in
sostanza, la res publica.
Anche se il nome viene coniato alla metà del sec. XVIII,
è lecito sostenere che la cosa è sempre esistita,
seppur sotto altri nomi: la vox populi del tardo Impero romano, il
consensus della dottrina medievale, la ‟pubblica voce" e ‟pubblica
fama" di Machiavelli. Locke in particolare introduceva, accanto alle
leggi divina e civile, una ‟legge di opinione o di reputazione". Si
è anche ritenuto che il concetto di opinione pubblica sia
prefigurato nello ‟spirito" di Montesquieu e nella ‟volontà
generale" di Rousseau; e taluno ha anche trovato affinità tra
il concetto di pubblica opinione e quello di Volksseele o
Volksgeist, l'anima o spirito del popolo dei romantici (per tutti
questi precedenti v. Bauer, 1914). Tutte le surricordate dizioni si
richiamano e in parte si sovrappongono. Nondimeno un nome nuovo
denota di regola una cosa nuova, o comunque evidenzia nuovi aspetti
del proprio referente. Dicendo vox populi, spirito generale,
volontà generale, e più ancora Volksgeist, evochiamo
un'entità che non vuole essere scomposta e tantomeno
contabilizzata pro capite. Anche la dottrina medievale del consenso
appartiene alla stessa famiglia, dal momento che designa un consenso
presuntivo, non sottoposto ad accertamento e tantomeno alla
possibilità di prova contraria. D'altra parte la ‟pubblica
voce" o ‟fama" di Machiavelli è semplicemente la fama, fama
popularis o anche i rumores dei romani: una reputazione, ovvero una
serie di ‛voci' che circolano os ad aurem, da bocca a orecchio, in
un aggregato sociale. Più che ogni altro è semmai
Locke che ha in mente l'opinione pubblica cosi come verrà
concepita nella più matura dottrina liberalcostituzionale, e
cioè come fonte non solo di legittimità ma anche di
conduzione di un retto governo.
Un'opinione viene detta ‛pubblica', dunque, quando se ne predicano
congiuntamente due caratteristiche: la diffusione tra pubblici, e il
riferimento alla cosa pubblica. Resta da precisare perché
diciamo opinione, e cioè perché non diciamo più
vox, spirito o volontà. Qual è, quantomeno in chiave
semantica, la differenza? Vox sta a indicare soltanto
un'esteriorizzazione, una manifestazione verbale il cui retroterra
resta imprecisato. Pertanto ‛voce' può esprimere soltanto
immediati desideri o bisogni, e cioè non presuppone stati di
informazione e ancor meno stati di cognizione. La differenza tra
‛opinione' e ‛spirito' è ancora più evidente. Quando
Montesquieu tratta dello spirito delle leggi, o quando diciamo ‛lo
spirito della costituzione', alludiamo a un senso profondo, a un
animo; mentre lo ‛spirito del popolo' dei romantici è
un'essenza metafisica, sia pure storicizzata, e cioè
riportata a uno ‛spirito del tempo'. Piuttosto, perché dire
opinione pubblica invece che, con Rousseau, ‛volontà
generale'? In parte la dizione rousseauiana è stata sconfitta
dal suo sapore metafisico, in parte dalla sua monoliticità e
in parte dalla sua ambiguità o anche indecifrabilità.
Inoltre tra ‛opinione', che è stato mentale, e
‛volontà', che è energia attivante e sostegno di
azione, la differenza è almeno per noi grandissima. Lo era
meno per Rousseau, visto che la sua era una volontà
razionale, intellettualizzata, e non certo la ‛volontà
volontaristica' (antirazionale, o comunque a-razionale) celebrata da
molte filosofie successive. Resta il fatto che la volontà
generale di Rousseau era sintonizzata al contesto di piccole
democrazie dirette e partecipanti, laddove il concetto di opinione
pubblica si situa nel contesto della democrazia rappresentativa e si
pone il problema di istituire la democrazia su larga scala.
Infine, ‛opinione' è doxa, non è - per rifarsi alla
classica distinzione platonica - episteme, non è sapere o
scienza. Anche per questa via si arriva a intendere in qual modo la
democrazia dei moderni sia approdata al concetto di opinione
pubblica, e come quest'ultimo concetto si presti meglio di tutti i
suoi antenati e cugini a fondare la liberaldemocrazia. La maggiore
obiezione contro la democrazia è, infatti, che il popolo ‛non
sa'. Platone ne argomentava che il compito di governare doveva
spettare ai depositari dell'episteme, e cioè ai filosofi. Non
occorre seguire le molteplici variazioni del tema del filosofo-re,
del governo dei sapienti. Il punto è che la democrazia
rappresentativa si caratterizza non come ‛governo del sapere' ma,
appunto, come ‛governo dell'opinione'; il che equivale a dire che
alla democrazia basta la doxa, che il pubblico abbia opinioni:
niente di più, ma anche - sottolineiamolo subito - niente di
meno.
Questo sommario inquadramento storico circoscrive l'analisi che
andremo facendo e consente una definizione preliminare della
fattispecie. Per il primo rispetto, non ci occuperemo di qualsiasi
opinione che si trovi a essere disseminata, individuo per individuo,
tra vasti pubblici, ma solo di quelle opinioni che assumono una
qualche rilevanza politica, che ci coinvolgono non soltanto come
privati ma anche come cittadini. Per il secondo rispetto, ‛pubblica
opinione' può essere definita, in prima istanza, così:
un pubblico, o una molteplicità di pubblici, i cui stati
mentali diffusi (opinioni) interagiscono con flussi di informazione
sullo stato della cosa pubblica.
Questa definizione può sembrare troppo vaga o fluida; ma la
sua fluidità rispecchia la natura del fenomeno sotto
osservazione. D'altra parte, pur nella sua vaghezza la definizione
proposta contiene una specificazione che consente di cogliere la
novità della fattispecie. Stati mentali indotti da ‛flussi di
informazione sullo stato della cosa pubblica' non sono gli stati di
opinione che troviamo anche nelle società premoderne e
tradizionalistiche, o comunque dove i flussi di informazione non
sono propriamente ‛flussi', o non concernono la res publica.
Beninteso la pubblica opinione come qui definita contiene, come
propri ingredienti, bisogni, desideri, valori e atteggiamenti, e
cioè gli ingredienti di qualsiasi stato mentale; ma contiene
in più, e come fattore caratterizzante, notizie su come la
cosa pubblica viene gestita. È in quest'ultimo riferimento, e
per questo motivo, che la teoria dell'opinione pubblica diventa
parte costitutiva della teoria della democrazia.
2. Pubblica opinione e democrazia
Il nesso costitutivo tra pubblica opinione e democrazia è di
solare evidenza: la prima è il fondamento sostantivo e
operativo della seconda. Quando asseriamo che la democrazia si fonda
sulla sovranità popolare ne indichiamo soltanto, o comunque
soprattutto, il principio di legittimazione. Resta che un sovrano
vuoto, un sovrano che non sa e non dice, è un sovrano da
nulla, un re di coppe. Per essere in qualche modo sovrano il popolo
deve dunque possedere ed esprimere un ‛contenuto': e l'opinione
pubblica è appunto il contenuto che dà sostanza e
operatività alla sovranità popolare. Da questa
considerazione discendono due classiche definizioni della
democrazia: che la democrazia è ‛governo di opinione' (v.
Dicey, 1914), e che la democrazia è ‛governo consentito',
governo fondato sul consenso. Il collegamento tra le due definizioni
è facile da vedere: un governo di opinione è un
governo che cerca e chiede, appunto, il ‛consenso' dell'opinione
pubblica; e un governo consentito è, appunto, un governo
sostenuto dalla ‛pubblica opinione'.
Di recente si è molto disputato se sia vero che la democrazia
si fonda sul consenso, e taluni autori hanno soste- nuto che invece
la democrazia presuppone il dissenso. A patto che non vengano
esagerate, entrambe le tesi sono vere nei diversi contesti e
significati in cui vengono espresse. Chi sottolinea il dissenso e la
conflittualità ha in mente la natura pluralistica della
democrazia e quel dissenso che si esprime primariamente nei
meccanismi dell'opposizione e dell'alternanza dei governi. Il
dissenso in questione è dunque dissenso a livello di governo,
nei confronti di un personale di governo che vorremmo cambiare.
Invece chi sottolinea l'importanza del consenso si riferisce al
cosiddetto consenso sulle fondamenta, sui valori di fondo e sulle
regole del gioco del sistema politico. Senza consenso, per esempio,
sulle regole che disciplinano i conflitti, resta soltanto un
conflitto mirante a imporre, con la violenza, quelle regole.
Il punto che più interessa in questa sede è, peraltro,
che i concetti di opinione pubblica e di consenso non solo si
richiamano l'un l'altro, ma sono combacianti: sono entrambi,
cioè, concetti che designano stati diffusi. È arduo
dimostrare che il consenso di una pubblica opinione consiste di una
molteplicità di precisi consensi su una molteplicità
di precise questioni. Ma, appunto, il demonstrandum non è
questo. Analogamente, il consenso dell'opinione è un idem
sentire generalizzato, uno stato di sintonia o altrimenti di
dissintonia.
Fino all'avvento degli strumenti audiovisivi di comunicazione di
massa - radio e televisione - la teoria della de- mocrazia si poteva
fermare a questo punto. Una pubblica opinione c'era perché
c'erano i giornali. Più esattamente, il requisito del ‛flusso
di informazioni' era soddisfatto dal- l'esistenza di una stampa che
fosse molteplice e libera. Ne conseguiva, infatti, che il pubblico
veniva alimentato di notizie che a loro volta alimentavano
un'opinione che era davvero ‛del' pubblico, e cioè che il
pubblico si faceva da sé. In altri termini, la pubblica
opinione che fa da architrave alla democrazia è un'opinione
‛autonoma'. L'opinione pubblica non è tale perché
ubicata ‛nel' pubblico, ma perché fatta ‛dal' pubblico.
Beninteso, nei processi di opinione che dipendono da flussi di
informazione il pubblico è un termine di arrivo il quale
‛riceve' i messaggi. Ma sino all'avvento dei media per antonomasia i
processi di formazione dell'opinione erano - si riteneva - in
equilibrio, o meglio controbilancianti, e cioè tali da
consentire l'autoformarsi dell'opinione dei pubblici.
L'autonomia dell'opinione pubblica è stata messa in crisi, o
comunque in dubbio, dalla propaganda totalitaria e anche dalla nuova
tecnologia delle comunicazioni di massa. È un punto sul quale
ci soffermeremo in seguito. Al momento basta notare questa
possibilità: che l'opinione ‛nel' pubblico non sia per niente
un'opinione ‛del' pubblico. Non sta scritto in nessuna legge di
natura che una opinione pubblica sia autonoma; può essere, o
essere resa, eteronoma. In entrambi i casi è un'opinione che
si colloca materialmente nel pubblico; ma la prima sta alla seconda
come un originale sta a un falso. Anzi, un'opinione pubblica
prefabbricata, eteronoma, è non soltanto la contraffazione ma
anche la negazione di una pubblica opinione autonoma. La distinzione
tra opinione ‛nel' e ‛del' pubblico è dunque una distinzione
cruciale.
Va da sé che un'opinione pubblica puramente autonoma o
puramente eteronoma costituiscono tipi ideali che non esistono, come
tali, nel mondo reale. La distinzione fissa i poli opposti di un
continuo, lungo il quale troveremo, in concreto, una distribuzione
di prevalenze, vale a dire stati di opinione prevalentemente
autonomi o prevalentemente eteronomi, più vicini a un polo
ovvero più vicini all'altro. Un'ultima avvertenza preliminare
è che quando asseriamo che la democrazia si fonda sulla
pubblica opinione, l'asserzione vale tanto per la democrazia
rappresentativa quanto per la democrazia diretta e, al limite,
autogovernante. La differenza tra le due fattispecie è
grandissima; ma su questo punto esse si ricongiungono. Anzi, in una
democrazia diretta l'opinione dei pubblici è il porro unum.
Nella democrazia diretta il popolo esercita il potere in proprio. A
tanto maggior ragione, dunque, se il popolo non ha un'opinione
propria quell' asserito autogoverno è truffaldino; e se la
qualità di quell'opinione è scadente, se il popolo
vuole senza sapere, avremo un autogoverno che si autodistrugge.
3. La formazione dell'opinione
Le opinioni non sono innate e non zampillano dal nulla; sono il
frutto di processi di formazione. In che modo, allora, le opinioni
vengono a formarsi, o vengono formate?
Una prima raffigurazione dei processi di opinione è quella
del bubble-up, della pubblica opinione come un ‛ribollire' del corpo
sociale che sale verso l'alto. A questa immagine Deutsch (v., 1968)
contrappone il cascade model, e cioè una serie di processi
discendenti ‛a cascata' i cui salti sono intervallati da vasche
nelle quali le acque si rimescolano ogni volta. Nel modello di
Deutsch i livelli o serbatoi della cascata sono cinque. In alto sta
la vasca nella quale circolano le idee delle élites
economiche e sociali, seguita da quella nella quale si incontrano e
scontrano le élites politiche e di governo. Il terzo livello
è costituito dalla rete delle comunicazioni di massa, e in
buona sostanza dal personale che trasmette e diffonde i messaggi. Un
quarto livello è dato dai 'leaders d'opinione' a livello
locale, e cioè da quel 5-10 per cento della popolazione che
davvero si interessa di politica, che è attento ai messaggi
dei media, e che è determinante nel plasmare le opinioni dei
gruppi con i quali i leaders di opinione interagiscono. Infine, il
tutto confluisce nel demos, nel serbatoio dei pubblici di massa.
Approfondiremo in seguito i processi che avvengono a quest'ultimo
livello. Al momento basta notare che il grosso della più
recente letteratura nega la passività delle cosiddette masse,
e anzi sottolinea come il ricevente dei messaggi sia, nel riceverli,
assai più attivo che passivo.
Tornando allo schema d'insieme di Deutsch, è opportuno
evidenziarne tre aspetti. Il primo è l'importanza del livello
dei leaders di opinione locale: un punto di passaggio e di
intermediazione che è stato per lungo tempo sottovalutato. Il
secondo aspetto è che nessuno dei livelli è monolitico
e nemmeno, di solito, solidale: all'interno di ogni serbatoio le
opinioni e gli interessi sono discordi, i canali di comunicazione
molteplici e polifonici. Il che equivale a dire che a ogni livello
troviamo un ciclo completo di dialettica di opinioni, un crogiolo a
sé stante di formazione dell'opinione. Il terzo aspetto
è che, per quanto l'andamento di una cascata sia discendente,
tuttavia Deutsch sottolinea la continua presenza di feedbacks, di
retroazioni di risalita. Per quest'ultimo rispetto si potrebbe
sostenere che il modello della cascata incorpora, come proprio
elemento interno, quello del ribollimento, del bubble-up. Ma sembra
più esatto vedere i due tipi di processo come fenomeni
alternativi che possono benissimo coesistere, ma che di solito si
rimpiazzano l'uno con l'altro.
Il fatto è che Deutsch elabora il suo modello in riferimento
alla politica estera, e cioè a un settore troppo remoto per
interessare davvero larghi pubblici, quantomeno finché non
esplodono crisi ravvicinate; Deutsch si riferisce, insomma, a quel
pubblico che più di quarant'anni prima veniva icasticamente
descritto da Lippmann (v., 1925) come un ‟pubblico fantasma", un
pubblico che non c'è perché non ha opinione. Ma se in
sede di affari esteri il cascade model può riassorbire
(finché non capita, per esempio, la guerra del Vietnam) il
bubble-up, il caso è diverso quando passiamo a considerare
settori e problemi che toccano il pubblico da vicino, in persona o
cosa propria. Qui il fenomeno di brontolii, ribollimenti e magari
getti di opinione - e pertanto di un'opinione pubblica che
autenticamente emerge e si impone dal basso non si pone affatto come
una sottospecie dell'andamento a cascata. Di tanto in tanto il
pubblico si impunta e reagisce in modo inaspettato, non previsto e
certo non desiderato da chi sta nei bacini superiori. Dunque, si
danno ‛maree di opinione' che fanno davvero risalire il corso delle
acque. Ciò chiarito, e solo dopo che sia ben chiarito, si
può consentire con la tesi che i processi normali, o
più frequenti, di genesi dell'opinione pubblica sono a
cascata.
La dottrina ha sempre sottinteso che la pubblica opinione doveva la
propria autonomia a complessi processi di riequilibramento e di
reciproca neutralizzazione. Il pregio del modello di Deutsch sta nel
trasformare questo sottinteso che restava largamente tale in uno
schema analitico. Nel mondo reale ‛autonomia' è concetto
relativo. Quando asseriamo che nelle democrazie il pubblico si fa
una opinione propria della cosa pubblica, non asseriamo che il
pubblico fa tutto da sé e da solo. Sappiamo benissimo,
cioè, che ci sono ‛influenti' e ‛influenzati', che i processi
di opinione vanno dai primi ai secondi, e che alle origini delle
opinioni diffuse stanno sempre piccoli nuclei di diffusori. Il punto
è che il diffondersi delle influenze formatrici di opinione
non è da configurare come una serie di onde concentriche che
si espandono, come quando gettiamo un sasso in uno stagno. Anche se
prescindiamo dalle maree di risalita, il modello a cascata ci fa
vedere il pro- cesso di formazione-diffusione delle opinioni in modo
del tutto diverso.
In primo luogo, ogni serbatoio non solo sviluppa un ciclo completo,
ma all'interno di ogni vasca i processi di interazione sono
orizzontali: influenti contro influenti, emittenti contro emittenti,
risorse contro risorse. In secondo luogo, a ogni passaggio da un
livello all'altro intervengono fattori nuovi: ogni volta ricomincia
un ciclo completo che rimescola tutto, e che nel rimescolare
modifica quel che arriva dagli altri serbatoi. A questo effetto
l'immagine del ‛salto' è calzante non tanto e soltanto
perché denota una discesa, ma perché evoca una
discontinuità, uno stacco. Partiamo, per semplificare, dal
livello della classe politica; non perché questa sia la vera
e primaria fucina delle opinioni, ma perché la pubblica
opinione si caratterizza come tale ricordiamolo - in relazione a
quel che dicono e fanno i politici. La classe politica esemplifica
assai bene tutte le caratteristiche di un serbatoio a ciclo
completo: è un microcosmo altamente competitivo nel quale i
partiti manovrano per rubarsi gli elettori e i politici guerreggiano
tra loro, anche, e spesso soprattutto, all'interno dei rispettivi
partiti, per soffiarsi i posti. E se i partiti come tali sono
estroversi nel senso che tengono l'occhio sull'elettorato, i
politici come singoli sono invece introversi, e cioè tutti
intenti a manovrare l'un contro l'altro all'interno di un mondo
chiuso di giochi di potere. Dalla molteplicità dei partiti, e
ancor più dalla conflittualità intrapartitica, partono
dunque pressoché infinite e certo contrastanti voci, che
arrivano in prima istanza al personale dei media. Questo personale
non le ritrasmette tal quali. Come minimo, ciascun canale di
comunicazione stabilisce che cosa costituisce, o non costituisce,
notizia. Ogni canale seleziona, semplifica, magari distorce, certo
interpreta, e sovente è fonte autoctona di messaggi. D'altra
parte, anche a questo livello valgono le regole della competizione,
e quindi si ripropongono quei processi di interazione orizzontale
che rifanno un nuovo calderone.
I leaders di opinione locale giocano, al livello successivo, un
ruolo non meno decisivo. Gli strumenti di comunicazione di massa
sono, pur nella loro possanza, strumenti anonimi che non possono
surrogare il rapporto personale, faccia a faccia, con un
interlocutore in carne e ossa (v. Katz e Lazarsfeld, 1955). Inoltre
i media parlano con voci diverse, presentano ‛verità'
diverse. A chi credere? I leaders di opinione sono pertanto le
‛autorità cognitive', coloro ai quali chiediamo a chi prestar
fede e a che cosa credere. Ovviamente, anche a questo livello le
opinioni e le autorità cognitive sono diversificate; ma a
tanto maggior ragione ogni gruppo ascolta un qualche leader.
I leaders di opinione locale fanno dunque da filtro e anche da
prisma alle comunicazioni di massa: ne possono rinforzare,
ritrasmettendoli capillarmente, i messaggi; ma li possono anche
deflettere o bloccare dichiarandoli poco credibili, distorti o
comunque irrilevanti. Si è già notato che per lungo
tempo l'importanza di questo passaggio è stata sottovalutata.
Vale ora la pena di notare che il modello a cascata di Deutsch
prende ispirazione proprio dalle ricerche sul cosiddetto two-step
flow, sul flusso a due gradini, delle comunicazioni (v. Lazarsfeld e
altri, 19482; v. Berelson e altri, 1954; v. Katz, 1957). In queste
ricerche veniva in evidenza che il messaggio non trovava un pubblico
‛atomizzato' e non arrivava in linea retta, ma invece arrivava ‛a
gradino', e cioè facendo pernio sul gradino del leader di
opinione. L'intuizione di Deutsch è stata di mettere su
gradini, o in gradini, tutto il processo da cima a fondo.
Resta da mettere a fuoco il ruolo e la collocazione, ai vari livelli
della cascata, degli intellettuali in senso lato. Il punto sfugge
anche a Deutsch, forse perché la sovrapproduzione e
conseguente massificazione degli intellettuali è uno sviluppo
degli ultimi decenni che caratterizza, per dirla con Daniel Bell, la
società postindustriale. La popolazione fornita di ‛diplomi
per pensare' e cresciuta a dismisura e, con la sua crescita,
è aumentato anche il suo peso specifico. Se non altro per
ragioni quantitative il fermento dell'intelletto, o del
pseudointelletto, si distribuisce a tutti i livelli. Se fino a una
ventina di anni fa il grosso degli intellettuali trovava un impiego
relativamente appartato e remoto nelle università, oggi una
‛nuova classe' ingorga i media e, non trovando più posto
nemmeno lì, si orienta anche e soprattutto in altre
direzioni. L'espansione della professione intellettuale e la sua
diffusione più o meno irrequieta in tutto il corpo sociale
porta dunque acqua al modello del bubbling-up e intensifica il
fermentare di opinioni che non cascano affatto dall'alto ma che,
all'opposto, pullulano e germogliano, sia pur in piccoli nuclei di
intellighenzie, a livello di massa.
Fin qui ci siamo soffermati, in sostanza, su come i pubblici si
rapportano alle informazioni e recepiscono i messaggi relativi, i
‛messaggi informanti'. A questo punto importa sottolineare - per
riequilibrare il quadro complessivo - che le opinioni di ogni
singolo derivano anche, e in non piccola parte, da ‛gruppi di
riferimento': la famiglia, gruppi di coetanei, il gruppo di lavoro,
ed eventuali identificazioni partitiche, religiose, di classe,
etniche, e altre ancora. L'io è un io-in-gruppo che si
integra nei gruppi, e con i gruppi, che istituiscono i suoi punti di
riferimento. Diciamo, allora, che le opinioni attingono da due
fonti: da messaggi informanti, ma anche da identificazioni. Nel
primo contesto ci imbattiamo in opinioni che interagiscono con
informazioni: il che non le rende, s'intende, opinioni informate ma
le caratterizza come opinioni esposte, e in qualche modo influenzate
da flussi di notizie. Nel contesto dei gruppi di riferimento
è facile imbattersi, invece, in ‛opinioni senza
informazione'. Con il che non si intende che in questo opinare
l'informazione sia del tutto assente, ma che le opinioni sono
precostituite rispetto alle informazioni. L'opinione senza
informazione è dunque un'opinione che si difende contro
l'informazione, e che tende a sussistere a dispetto dell'evidenza
contraria.
Chi fa, in conclusione, l'opinione che diventa pubblica? Dopo aver
seguito i mille rivoli del modello a cascata, evidenziato i
ribollimenti dal basso, e ricordato che le opinioni provengono anche
da identificazioni di gruppo, da molteplici gruppi di riferimento,
la risposta d'insieme non può essere che questa: tutti e
nessuno. Beninteso, ‛tutti' non sono proprio tutti: sono però
molti, e molti in luoghi e modi diversi. Del pari, ‛nessuno' non
è proprio nessuno ma, nell'aggregato, nessuno in particolare
o, se si vuole, qualcuno che è sempre diverso. Anche se
risultasse possibile assegnare a ogni singolo opinante una specifica
‛autorità' che lo guida, una sola fonte fededegna di
ispirazione, resta vero che l'insieme risulta da un crogiolo di
influenze e contro-influenze. Ecco, dunque, un'opinione pubblica che
può ben essere detta autentica: autentica perché
autonoma, e certo autonoma per quel tanto che basta a fondare la
democrazia come governo di opinione.
4. Policentrismo e requisiti dell'autonomia dell'opinione
È bene sottolineare che i processi di formazione
dell'opinione che abbiamo testé descritto si applicano
soltanto alle liberaldemocrazie, e questo perché un'opinione
che sia autenticamente ‛del' pubblico presuppone tutta una serie di
condizioni. Queste condizioni vengono riassunte nei principi della
libertà di pensiero, libertà di espressione e
libertà di organizzazione. I principi sono noti; ma non tutti
ne colgono le concrete e più profonde implicazioni.
La libertà di pensiero non è, tanto per cominciare, un
valore che tutti sentono. È un valore occidentale, un valore
scoperto e affermato dal pensiero greco; ed è un valore nella
misura in cui è sostanziato da un'ansia di verità e,
ancor più fondamentalmente, dal ‛rispetto per la
verità': la verità di quel che è davvero
successo, di quel che è davvero stato detto. Se manca il
sottofondo del rispetto e desiderio di verità, la
libertà di pensiero non significa più nulla, e non
c'è più motivo di agitarsi in pro della libertà
di espressione. Inoltre la libertà di pensiero non è
soltanto la libertà di pensare in silenzio, nel chiuso
dell'animo, quel che ci aggrada: presuppone che l'individuo possa
attingere liberamente a tutte le fonti del pensare; e presuppone
anche che ciascuno sia libero di accertare e controllare quel che
trova scritto o sente detto, e quindi presuppone, tra l'altro, mondi
aperti, mondi attraversabili che consentano di andare a vedere di
persona.
A sua volta la libertà di espressione, la libertà di
scrivere o dire in pubblico quel che si pensa in privato, presuppone
un'‛atmosfera di sicurezza'. Per quanto la libertà di
espressione sia tutelata da una carta costituzionale, là dove
esistono intimidazioni, dove temiamo le conseguenze di quel che
diciamo e, insomma, dove aleggia la paura, la libertà di
espressione diventa subito una libertà cartacea, e di
riflesso la stessa libertà di pensiero viene anchilosata e
deformata. Eccezion fatta per pochi solitari eroi, chi teme di dire
quello che pensa, finisce per non pensare quel che non può
dire. Infine, la libertà di espressione è anche, nel
suo naturale proseguimento, la libertà di organizzarsi per
propagare quel che abbiamo da dire. I moderni partiti politici, la
cui matrice è nei clubs di opinione e di diffusione delle
opinioni del Settecento, costituiscono la prima concreta
illustrazione di come la libertà di espressione si converta
in ‛organizzazione dell'opinione'. A noi interessa di più,
peraltro, la libertà di organizzare le comunicazioni, e
più precisamente la struttura delle comunicazioni di massa
che è, ad un tempo, il prodotto e il promotore della
libertà di espressione.
La struttura delle comunicazioni di massa che caratterizza le
liberaldemocrazie è una struttura di tipo policentrico, anche
se il grado di policentrismo varia di parecchio da paese a paese.
Negli Stati Uniti non esiste alcun monopolio statale nè della
radio nè della televisione: il policentrismo è
massimo. In Inghilterra la radiotelevisione di Stato si attiene a
regole di imparzialità che correggono efficacemente quella
concentrazione. In paesi come l'Italia il policentrismo è
relativamente basso, o comunque mal congegnato ai fini che dichiara
di voler servire. Vero è che la struttura delle comunicazioni
di tutte le democrazie è ampiamente sotto accusa. Ma è
difficile negarne, quantomeno con dati alla mano, il policentrismo.
Infatti le accuse vertono, in genere, su una insufficiente
‛democraticità' delle comunicazioni di massa, ed escono dal
generico quando rilevano che i costi di avviamento di un organo di
stampa, di una stazione radio, o di antenne televisive, sono costi
proibitivi e tali da privilegiare il potere del denaro. In
verità il potere del denaro coincide sempre meno con il
potere del capitalista; ma è ben certo che la libertà
di espressione non è nella sua proiezione nei media - eguale
per tutti. A tanto maggior ragione è bene stabilire che il
requisito necessario e sufficiente ai fini dell'autonomia di una
pubblica opinione è il requisito policentrico.
Precisiamo meglio. Per essere sufficiente il policentrismo dei media
dev'essere un policentrismo in un qualche equilibrio, e
specificamente un policentrismo non dominato da una voce
schiacciante. Pertanto un colosso attorniato da una miriade di
pigmei non costituisce uno stato di policentrismo soddisfacente. E
se poniamo mente a quanto sia già difficile soddisfare la
condizione di un ‛policentrismo riequilibrante', occorre stare
attenti a non confondere il problema del pluralismo dei media con il
problema dell'eguaglianza nei media. Anche in economia si può
sostenere che il produttore non è uguale al consumatore, e
che un sistema economico giusto vorrebbe che tutti fossero,
singolarmente ed egualmente, produttori-consumatori; ma questo
sarebbe un perfezionamento egualitario che distruggerebbe i nostri
sistemi economici e che riporterebbe i superstiti alla poco
appetitosa economia curtense del Medioevo. Analogamente, una
qualsiasi analisi di costi-benefici, e ancor più di
rischi-benefici, mette in evidenza costi e rischi - nel perseguire
obiettivi di egualizzazione nei media e dei media - del tutto
sproporzionati ai benefici. Posto, dunque, che il policentrismo
è già condizione sufficiente, è bene rendersi
contestualmente conto di quanto già sia, di per sè,
una conquista fragile e precaria. Al qual fine basta allungare lo
sguardo e volgerlo in giro, come ora ci accingiamo a fare.
5. La propaganda totalitaria
Si è già detto di passata che la fede nell'opinione
pubblica, o meglio nella sua autonomia, è stata scossa da due
fatti nuovi: la potenza intrinseca delle comunicazioni di massa e la
propaganda totalitaria. Cominciamo dalla prima.
Finora abbiamo considerato un sistema di comunicazioni di massa a
struttura policentrica e controbilanciante. In tal caso la potenza,
diciamo tecnica, dello strumento viene neutralizzata dalla sua
dispersione, dal fatto che emette messaggi diversi che arrivano a
pubblici diversi, e che ogni voce viene contrastata da controvoci.
In tal caso, dunque, vale la regola generale che qualsiasi forza
risulta domabile se suddivisa in controforze. Ma, nel mondo
contemporaneo, di sistemi policentrici di questo tipo ne esistono
una trentina o poco più. Mettiamo pure da parte tutti quei
paesi in via di sviluppo il cui sistema di comunicazioni di massa
è davvero sottosviluppato, e quindi conta ancora poco o
nulla. Resta un nutrito gruppo di paesi ad alta, o quantomeno
sufficiente, tecnologia di comunicazioni, il quale non soddisfa le
condizioni del policentrismo ed è, invece, a struttura
unicentrica. Ed è qui, nel caso della sua concentrazione
monopolistica e monistica, che davvero si misura la potenza dello
strumento, se ne afferra cioè la potenzialità.
Nella prospettiva dei rapporti di forza tutta l'evoluzione storica
può essere vista come un succedersi di mezzi di offesa che
prevalgono sui mezzi di difesa, e viceversa. La cavalleria travolge
il soldato a piedi, ma il fucile dell'uomo appiedato distrugge
l'uomo a cavallo; il fortilizio ferma chi ha soltanto la bombarda,
ma viene eliminato dal cannone. Analogamente per l'opinione
pubblica. Finché è bersagliata da una miriade di
frecce è una corazza che regge; ma se alle frecce sottentra
il cannone la corazza ha fatto il suo tempo.
L'autonomia della pubblica opinione viene dimostrata dai suoi casi
ottimali: le democrazie funzionanti ad alta strutturazione
pluralistica e policentrica. Una corretta procedura euristica
richiede lo stesso trattamento per l'eteronomia, o sudditanza,
dell'opinione pubblica, e cioè che venga illustrata dal caso
ottimale opposto: le dittature totalitarie. Gli esempi per
antonomasia sono il regime di Hitler, l'Unione Sovietica, i paesi
dell'Est, il regime comunista in Cina. S'intende che, come nessuna
democrazia reale è una pura democrazia, così nessuno
dei totalitarismi esistenti è un totalitarismo senza crepe,
completo o perfetto (se commisurato, per esempio, al mondo
ipotizzato da Orwell). Del pari, come le liberaldemocrazie sono
più o meno democratiche, così i paesi a dittatura
comunista sono più o meno totalitari, e il grado del loro
‛totalismo' varia non solo tra l'uno e l'altro ma anche nel tempo.
Resta il fatto che, sino ad oggi, forse soltanto la Iugoslavia si
è allontanata dal modello totalitario a tal punto da poter
essere riclassificata come una dittatura autoritaria.
Nell'ottica che ci compete, un sistema totalitario è definito
dalle seguenti caratteristiche. Primo, la struttura di tutte le
comunicazioni di massa è rigidamente unicentrica e
monocolore, e cioè parla con una voce sola: quella del
regime. Secondo, e forse ancora più importante, tutti gli
strumenti di socializzazione, e precipuamente la scuola, sono
egualmente strumenti di una sola propaganda di Stato: la distinzione
tra propaganda ed educazione è cancellata. Terzo, il mondo
totalitario si preserva come un mondo chiuso che non vuole parametri
esterni, che impedisce l'uscita della grandissima maggioranza dei
propri sudditi, e che censura tutti i messaggi del mondo
circostante. Quarto, il mondo totalitario è capillarmente e
incessantemente mobilitato, e in questa perenne mobilitazione i
leaders di opinione locale a emergenza spontanea vengono stritolati,
ancor più che dal controllo poliziesco, dalla morsa degli
attivisti di partito. Infine, e riassuntivamente, il totalitarismo
si caratterizza nell'essere, o voler essere, l'invasione ultima e la
distruzione della ‛sfera privata'.
In queste condizioni il cittadino è esposto, pressoché
dalla culla alla bara, a una propaganda ossessiva e indottrinante
che fa quadrare tutto perché tutto è falso, e che fa
sembrare tutto vero impedendo l'accertamento del vero. È
possibile che in siffatte circostanze l'opinione ‛nel' pubblico sia
anche ‛del' pubblico? Se è vero che la formazione di
un'opinione pubblica autonoma dipende dai fattori descritti in
precedenza, allora è sicuro che, venendo a mancare o venendo
addirittura rovesciati tutti quei fattori, il prodotto non
può essere lo stesso. Lo possiamo chiamare pubblica opinione;
ma una stessa dizione non sta, in questo caso, per una stessa
realtà. Da un totalismo onnipervadente può risultare
solo una pubblica opinione prefabbricata in blocco, una pubblica
opinione eteronoma.
Ciò premesso, cerchiamo di cogliere più da vicino la
differenza che passa tra l'opinione ‛del' pubblico che caratterizza
le democrazie, e l'opinione ‛nel' pubblico che troviamo nei
totalitarismi. Notavamo all'inizio che la pubblica opinione si
caratterizza come tale in quanto alimentata da un flusso di
informazioni sulla cosa pubblica. Non era stato detto - ma importa
esplicitarlo ora - che questo flusso di informazioni si caratterizza
a sua volta come tale, come ‛informazione', in quanto mirante, nei
limiti dell'imperfezione umana, alla completezza e
all'obiettività. Non si pretende, ovviamente, che questi
requisiti vengano soddisfatti da ciascuna voce. È la
polifonia che dà relativa completezza; ed è il
policentrismo che corregge, nell'insieme, la soggettività,
unilateralità o anche falsità dei messaggi di ogni
singola fonte.
Importa altresì ricordare che la libertà di pensiero
ci è cara in quanto ci è caro, diciamo pure, il
miraggio della Verità (con la maiuscola). Questo miraggio
alimenta, tra l'altro, un'etica professionale dei trasmettitori di
informazione. Solo piccoli gruppi intensamente ideologizzati
coltivano, nell'Occidente, il culto della menzogna: nei più
vige un'intima ripugnanza per il messaggio patentemente falso,
patentemente distorto. E dunque si può legittimamente parlare
di un'informazione che è, nelle democrazie occidentali,
relativamente completa e relativamente obiettiva.
È questo l'elemento che viene del tutto a mancare nei regimi
a propaganda totale, quando tutto è indottrinamento e al
culto della Verità sottentra il culto della Causa. Si noti:
un totalitarismo non è (non riesce a essere) tale, se non
è sorretto da credenti, da una fede nell' ‛uomo nuovo', in
una rigenerazione ab imis dell'umanità (v. Inkeles, 1951; v.
Bauer, 1952; v. Lifton, 1961). In siffatta escatologia i viventi
diventano animali da vivisezione (v. Biderman e Zimmer, 1961) e il
fine giustifica qualsiasi mezzo, ivi includendo la menzogna pura, la
distorsione sistematica (anche se l'ideologo fanatizzato non la
percepisce più come tale). Così un flusso di
informazioni si capovolge nel suo opposto, in un flusso di
disinformazione e mistificazione.
Rispetto al modello a cascata, la cascata c'è sempre; ma ha
un solo rivolo, e ogni serbatoio è soltanto una cassa di
risonanza, una tappa di rinforzo. Il passaggio da un livello
all'altro non interrompe e modifica, ma invece moltiplica
l'irradiazione dell'unico verbo. La docile sottomissione del sotto
al sopra non richiede nemmeno un occhiuto controllo: basta una
‛volta di paura'. I ‛fenomeni di volta' sono semplici, tanto in
architettura che in politica. Una volta tiene perché tutti i
tasselli dell'arco stanno al loro posto, ma casca se un solo
tassello cade. In una volta di paura può darsi, al limite,
che tutti i tasselli umani che la sostengono ne auspichino, nel
chiuso del cuore, il crollo; ma, avendo paura, sperano che sia un
altro a uscire di volta. In attesa continuano a passare la patata
che scotta, e così la volta tiene. Potremmo dire, allora, che
la cascata (con retroazioni) di Deutsch si trasforma in una cascata
di paura, nella quale basta la paura per assicurare lungo tutta la
linea una trasmissione ortodossa (senza retroazioni).
In definitiva, all'opinione eteronoma viene a mancare tutto il
positivo dell'opinione autonoma, e cioè la possibilità
stessa di ‛opinioni informate'. La sola possibile somiglianza tra le
due fattispecie è al negativo, e cioè in eventuali
reazioni di rigetto. Se la propaganda totalitaria impedisce a limine
la formulazione al positivo di sistemi di opinione diversi da quello
che propaga, alla lunga può nondimeno fallire. Il pubblico,
sazio di bombardamento e saturo di monotonia, sfugge alla presa non
credendo, oppure non interessandosi: si chiude in se stesso, si
difende con l'apatia, e finisce eventualmente per reagire con
un'ostilità generalizzata. È probabilmente vero che,
al livello di massa, vi sono oggi più credenti nei radiosi
destini del comunismo nei paesi occidentali che non nei paesi
dell'Est europeo. Alla lunga, si diceva, anche la propaganda
totalitaria può fallire. Ma questa è una prognosi da
capire bene e sulla quale ci dobbiamo intendere.
In primo luogo, anche se fallimento c'è, non è mai
fallimento in tutto. Un totalitarismo non fallisce in quel che
distrugge ed elimina, e cioè in quel che non fa arrivare al
suo pubblico; può fallire solo in quel che smercia ed elogia,
e cioè nel vendere le menzogne che vende. In ogni caso,
dunque, un totalitarismo produce una pubblica opinione anchilosata e
dimezzata, l'opinione che abbiamo detto al negativo. In secondo
luogo, anche se un totalitarismo fallisce nella parte in cui
fallisce, non dobbiamo credere che il riflusso di rigetto sia facile
e tantomeno rapido. L'obiettivo con il quale i totalitarismi
esordiscono è, ricordiamolo, la distruzione della sfera
privata, l'invasione dell'animo. Per risalire la china di
quell'invasione dobbiamo attendere che un totalitarismo invecchi e,
con l'avvento delle generazioni postrivoluzionarie, imputridisca.
Più esattamente, per risalire la china occorre che la sfera
privata ricuperi vitalità e sia in grado di ricostituire
‛gruppi di riferimento' spontanei, e cioè, in concreto,
gruppi di controriferimento.
In terzo luogo, e conclusivamente, il fallimento è
‛possibile', non certo. La tesi secondo la quale una propaganda
totalitaria necessariamente e inevitabilmente perde la sua guerra
è plausibile se proiettata nei secoli e argomentata in chiave
di inesorabili cicli storici di decadenza; ma è una tesi che
resta largamente indimostrata a breve o medio termine. Nella
Germania hitleriana e nella Russia staliniana l'indottrinamento dei
crani ha funzionato benissimo e la distruzione dei gruppi di
controriferimento è effettivamente avvenuta; né si
può dubitare che l'opinione inculcata ‛in' quei pubblici
fosse un'opinione fortemente credente e autenticamente persuasa.
Inoltre, in punto di logica, non è sulla base di fallimenti
avvenuti (se già sono avvenuti) che si può dimostrare
che il potenziale non c'è, e cioè che una tecnologia
delle comunicazioni di massa strumentalizzata da un regime
totalitario (e pertanto estesa a tutte le sedi di socializzazione)
non possa essere irresistibile. Come ricordava Gaetano Mosca, non
è vero che le persecuzioni non riescano; è vero,
invece, che non riescono le persecuzioni che non perseguitano sino
all'ultimo uomo, che non perseguitano sino in fondo.
Nell'ultimo ventennio l'indirizzo prevalente della letteratura
specializzata è stato di sdrammatizzare l'impatto delle
comunicazioni di massa, soprattutto rivalutando i processi di
retroazione, di feedback, e il ‛ruolo attivo' dei riceventi dei
messaggi. Di riflesso, l'indirizzo prevalente è anche stato
di attribuire alla propaganda una relativa innocuità. Questa
letteratura è fondata su ricerche, e ne ha la forza probante.
Il suo limite è di dimenticare, quando generalizza, che le
ricerche accertano soltanto quel che osservano dove l'osservano. Per
esempio, uno dei più autorevoli esponenti della letteratura
sui media, W. Schramm, denunzia una paura quasi patologica della
propaganda" negli studi degli anni trenta-cinquanta, osserva che le
ricerche degli ultimi trent'anni ‟hanno demolito questa visione
delle cose", e per il resto (il non ricercato) si limita a osservare
in forma ipotetica che se ‟un particolare punto di vista
monopolizzerà i canali costituiti dai media [...] l'influsso
della propaganda sarà verosimilmente assai maggiore" (v.
Schramm, 1975, p. 913).
In sede di metodo la letteratura esemplificata da questi passi
soffre di due vizi: non avverte la propria parrocchialità, e
resta intrappolata nel circolo vizioso di tutto il behaviorismo. Per
il primo punto basterà notare che il grosso della letteratura
di ricerca dell'ultimo ventennio conosce solo gli Stati Uniti. Ne
conosce, se si vuole, ogni piega e meandro; ma più scava in
profondità, più il suo orizzonte visivo si restringe.
Fin qui nulla da eccepire: siamo nella logica di tutti gli
specialismi. Il vizio è che questa letteratura conosce solo
l'America ma parla, implicitamente, anche di quel che non conosce; e
così facendo cade nell'errore metodologico di generalizzare
sulla base di un caso ottimale, estrapolando da una situazione
limite. Per il secondo punto - il circolo vizioso - occorre
ricordare che per le scienze sociali di osservanza behavioristica
non c'è conoscenza scientifica se non c'è ricerca.
È difficile negare la scientificità di questo
precetto. Il che non toglie che restiamo con un quesito che resta
inevaso: cosa dire sui paesi in cui la ricerca è carente o
addirittura vietata?
Il quesito non solo resta senza risposta ma il più delle
volte non è nemmeno sollevato. Ne consegue, nel fatto, che
sul non ricercabile cade una cortina che non è tanto di
silenzio ma soprattutto di miopia. Di silenzio non può
essere, dal momento che i tre quarti del genere umano non possono
essere ignorati. Sottentra così una miopia, che spesso
è vera e propria cecità, il cui procedimento euristico
è di proiettare i dati del mondo che consente di reperirli -
con aggiustamenti in più o in meno, di gradazione - sul mondo
nel quale la ricerca non può entrare. Alla fine tutto si
somiglia, salvo differenze di grado: la propaganda totalitaria
è ‛meno' innocua; una dittatura è ‛meno' policentrica;
l'opinione pubblica è ‛meno' tale. In virtù delle sue
premesse, e se si vuole del proprio rigore, il behaviorismo
atrofizza l'immaginazione, e in tal modo si intrappola. L'ironia
è che questa ‛scientificità' premia chi la impedisce,
e cioè chi impedisce la ricerca.
Eppure la faccia nascosta della luna esiste. Se non si lascia
esplorare, va messa quantomeno in conto in sede di impostazione.
È per questo che al caso limite di un'opinione che è
veramente ‛del' pubblico, abbiamo contrapposto in questo scritto il
caso egualmente limite di un'opinione che sia soltanto ‛nel'
pubblico. A questo punto l'orizzonte è tutto dispiegato, e
non c'è più danno nel restringerlo. In quanto segue,
quindi, ci limiteremo ad approfondire il ruolo e i limiti della
pubblica opinione nelle democrazie liberali.
6. Elementi e caratteristiche della pubblica opinione
Passiamo a scomporre la pubblica opinione - in democrazia - nei suoi
vari ingredienti, quali risultano dalle indagini empiriche. La prima
ovvia osservazione è che il ricercatore non trova, quando
comincia a scavare, ‛una' opinione pubblica, ma opinioni di ‛molti
pubblici'. Quando parliamo di ‛una' opinione intendiamo
semplicemente dire che rispetto a un determinato problema troviamo
una curva di distribuzione di opinioni unimodale, a campana, e
quindi che esiste un'opinione dei più che è l'opinione
modale di quella distribuzione. I molti pubblici vengono invece in
evidenza quando la distribuzione è bimodale o plurimodale: il
che sta a indicare che una questione è controversa (con ogni
pubblico individuato dalla sua moda).
A questo punto ci occorre anche una definizione tecnica di
‛opinione', quale quella proposta da Lane e Sears: ‟una opinione
è una ‛risposta' fornita a una ‛domanda' in una situazione
data" (v. Lane e Sears, 1964, p. 13). Ovviamente questa definizione
vale per opinioni singole. Ogni individuo possiede anche un insieme
di opinioni che può essere - come insieme - del tutto
sconnesso, relativamente congruente, o anche altamente coerente.
Vedremo come e perché. Qui importa notare che la definizione
di cui sopra consente di separare l'individuo che davvero cambia
opinione (poco sicuro, poco intenso, o che risponde a caso),
dall'individuo che ogni volta adatta la propria risposta al contesto
in cui è data (e che dunque non cambia affatto, in sostanza,
la propria opinione). La precisazione è importante
perché quando accusiamo qualcuno di incoerenza spesso
confondiamo due cose: il contraddire la stessa specifica opinione
espressa in precedenza, ovvero una contraddittorietà delle
varie opinioni tra di loro. Il primo caso è molto meno
frequente del secondo. Alla domanda ‟sposeresti un cinese?" la
risposta può essere no; alla domanda ami i cinesi?" la
risposta può essere sì; il che non rivela, di per
sé, alcuna intima contraddizione, se ricordiamo che ogni
risposta viene adattata al contesto in cui concretamente si situa.
Poste queste precisazioni preliminari, i quesiti di fondo sono due.
Primo: qual è la struttura e quali le componenti di
ciò che viene detto, riassuntivamente e globalmente,
opinione? Secondo: qual è l'effettivo grado o livello di
informazione che sostanzia le opinioni disseminate nei pubblici di
massa?
Gli studi e ricerche che investono questi quesiti sono soprattutto
le indagini sui comportamenti elettorali. È facile capire
perché se ricordiamo che quel che più importa,
nell'ambito delle opinioni del pubblico, è l'opinare sulla
res publica. Orbene, questa è proprio l'opinione che il
cittadino manifesta sub specie di elettore. Nell'ottica complessiva
della teoria della democrazia il discorso si imposta così:
che il popolo è davvero sovrano, e cioè esercita il
potere di cui è titolare, quando vota; e che, per converso,
senza libere elezioni l'opinione resta disarmata e il consenso
dell'opinione presuntivo. Per tutte queste buone ragioni esiste
oramai una nutritissima letteratura che viene raggruppata sotto il
titolo ‛pubblica opinione e comportamenti elettorali'. Nel passarla
in attenta rassegna Converse (v., 1975) distingue tra: 1) la base
d'informazione; 2) la singola opinione, specialmente nel suo grado
di cristallizzazione; 3) la struttura che collega le opinioni (o
strutture di atteggiamento); 4) l'intelaiatura di credenze o
ideologica che organizza il tutto entro insiemi di concetti
astratti.
Alla base di informazione arriveremo tra poco. Della singola
opinione si è già detto. Per il resto, la
scomposizione analitica di Converse porta in evidenza due punti: che
l'informazione non è, di per sè, opinione; e il
problema di come le opinioni ‛stanno assieme'. In ordine al primo
punto sappiamo già che esistono opinioni senza informazione;
Converse si sofferma, invece, sulla differenza tra
messaggio-come-emesso e messaggio-come-ricevuto. Il punto che qui
interessa svolgere è, peraltro, il secondo: come le opinioni,
nell'interagire con la base di informazione, si collegano tra loro.
Saltando le strutture di atteggiamento arriviamo subito, per dovere
di brevità, al livello nel quale le opinioni sono agglutinate
e magari anche organizzate da un'intelaiatura più astratta
(di concetti astratti), e cioè dal sistema di credenze ovvero
da una specifica e ben definita ideologia.
Un sistema di credenze è indicato da dizioni del tipo ‛la
visione liberale della vita' e si caratterizza, pertanto, come una
rete concettuale a maglie larghe e sfumate. Di conseguenza un
sistema di credenze predispone alla ‛mente aperta', o quantomeno non
la ostacola, nel senso che il ricevente dei messaggi ascolta anche i
messaggi dissonanti, informazioni e opinioni che disturbano e vanno
a contraddire le proprie credenze. Un'ideologia - si pensi al
marxismo - è invece un ‛sistema' davvero sistematizzato e
caratterizzato dalla propria sistematicità. Un'ideologia
è dunque una dottrina ben esplicitata che fa circolo e si
salda con se stessa: il che rende la rete concettuale a maglie
strette e chiuse. In questo senso un'ideologia predispone non alla
mente aperta, ma alla ‛mente chiusa': il ricevente dei messaggi
ascolta soltanto i messaggi rinforzanti e rifiuta i messaggi
dissonanti. In questa chiusura sta, a un tempo, il limite ma anche
la forza dell'ideologizzato: è lui che non solo possiede le
opinioni più salde e sicure, ma anche le opinioni più
coerenti, meglio concatenate. Per converso, chi è poco o
punto ideologizzato si trova spesso in difficoltà a dare un
senso agli accadimenti, ed è non solo molto meno coerente ma
anche assai meno destro dell'ideologo nel maneggio dei concetti
astratti. I pregi della mente aperta ne costituiscono, a un tempo,
la debolezza.
Veniamo al secondo quesito di fondo, e per esso all'accertamento di
quanto l'opinione pubblica sa, mal sa, o non sa. In merito alla base
di informazione soccorrono non soltanto le ricerche sul
comportamento elettorale, ma anche i sondaggi di opinione. Sul punto
siamo dunque documentatissimi (v. per un'esemplificazione
sistematica Erskine, 1962 e 1963). E il responso è
costantemente, salvo differenze di enfasi, di questo tenore: lo
stato di disattenzione, sottoinformazione, distorsione percettiva e,
infine, totale ignoranza dei pubblici di massa è
scoraggiante. Solo un dieci-venti per cento della popolazione adulta
merita la qualifica di informata, o sufficientemente informata, e
cioè supera l'esame di un seguire gli eventi che è
anche, in qualche modesta misura, capirli; il resto non finisce mai
di stupire anche l'osservatore più disincantato.
Per esempio, è risultato più di una volta che meno
della metà dell'elettorato sa - negli Stati Uniti - qual
è il partito che detiene la maggioranza al Congresso; dove
è da sottolineare non solo che i partiti sono soltanto due;
ma anche che quella maggioranza, la maggioranza del partito
democratico, non è cambiata da decenni. Altro esempio: il
caso di Berlino. Non c'è ombra di dubbio sul fatto che la
più pericolosa crisi internazionale di tutto il dopoguerra
è stata provocata dal blocco di Berlino del 1949. Orbene, nel
1961, al momento dell'erezione del famigerato muro di Berlino, un
sondaggio ha rivelato che più della metà degli
americani non sapevano che Berlino era una città isolata,
circondata dal territorio della Germania di Pankow. Ma illustriamo
con un esempio particolareggiato nel quale l'abbaglio
dell'elettorato è così grosso da riflettersi, di
ritorno, in un abbaglio dei suoi interpreti. Nel 1968 la guerra del
Vietnam era ormai, è ben certo, al centro dell'opinione
pubblica americana, e ne costituiva il punto più dolente e
controverso. In quell'anno McCarthy si presentò alle primarie
democratiche per candidarsi alla presidenza contro l'allora
presidente Johnson. La prima di dette primarie, quella che dà
tradizionalmente il la, è quella del New Hampshire: e tra la
sorpresa generale McCarthy vi ottenne il 42 per cento dei voti
contro un magro 48 per cento del presidente in carica. Gli
osservatori ne ricavarono che il movimento pacifista (McCarthy si
presentava, senza ombra di ambiguità, come una ‛colomba' a
oltranza) stava oramai dilagando nel paese ; e il presidente Johnson
fu il primo a capire il segnale in questo modo. Solo successivamente
un sondaggio accertò che il grosso dei votanti per McCarthy
era costituito da ‛falchi' irritati dalla irrisolutezza con la quale
Johnson perseguiva la guerra, e ignari del fatto, pur
reclamizzatissimo, che McCarthy ne chiedeva la fine a qualsiasi
prezzo. L'esempio illustra anche la differenza tra messaggio-emesso
e messaggio-ricevuto, sia all'andata che al ritorno. Nella direzione
che va da McCarthy all'elettorato del New Hampshire si sbriciola la
difesa dell'elettorato fatta da Key (v., 1966), e cioè la
tesi del ‟pubblico ingannato", del pubblico al quale non si fa
sapere o si fa sapere ambiguamente. Nel caso in esame, il messaggio
di McCarthy era di una semplicità lampante, e i media
l'avevano diffuso con altrettanta chiarezza e profusione. Pertanto
siamo al cospetto di un caso patente di sottoinformazione e
distorsione percettiva da parte, si badi, di un elettorato di
primarie, e dunque di un elettorato che votava perché
interessato. Nella direzione di ritorno, dai votanti ai media,
l'interesse del caso non sta soltanto nel fraintendimento del
messaggio-ricevuto, ma altrettanto nel testimoniare che la pubblica
opinione pesa, e quanto pesa. Perché si può ben
ritenere che l'inizio della fine della guerra del Vietnam risale a
quel segnale.
7. Propaganda e pubblicità
Se non lo si è già implicitamente capito, occorre
dirlo subito: il quadro di cui sopra, che è il quadro
disegnato dal politologo, non coincide con il quadro tratteggiato
dallo specialista di comunicazioni di massa; anzi, il contrasto
è abbastanza stridente. Il quadro offerto dalla scienza
politica è, nel complesso, poco esaltante, per non dire che
è sconfortante; mentre il quadro proposto dal secondo
è progressivamente diventato un quadro non diciamo radioso,
ma di belle speranze (v. McLuhan, 1964). Prima di entrare nel merito
importa stabilire che le due categorie di specialisti non osservano
esattamente lo stesso fenomeno, e per di più che lo osservano
in funzione di problemi e parametri ben diversi. Il referente del
politologo è precipuamente costituito dagli effetti, o non
effetti, della propaganda politica; laddove lo studioso di
comunicazioni di massa guarda assai più alla
pubblicità, e cioè alla propaganda commerciale. Non
sono per nulla la stessa cosa.
Il telespettatore più inondato al mondo dalla
pubblicità, dai commercials, è senza dubbio quello
americano, che passa in media due ore al giorno di fronte al video.
Persuasione occulta? In questo contesto di occulto c'è ben
poco. Non solo la pubblicità gli arriva per quel che
è, ma la réclame di una marca è immancabilmente
seguita dalle contro-réclame delle marche concorrenti. Si
dirà che il caso non è diverso quando sul video arriva
un repubblicano al quale subito, o poco dopo, risponde un
democratico. Difatti, fin qui la differenza non è
apprezzabile, il che aiuta a spiegare come mai per lo specialista di
comunicazioni americano - che fa anche da battistrada ai suoi
colleghi europei - la distinzione tra pubblicità e propaganda
finisce per sfuggire. Ma allunghiamo lo sguardo e prendiamo il
propagandista autentico, che non è un agente pubblicitario
noleggiato per una campagna elettorale ma un ‛credente' che si
dedica a propagare la propria fede politica.
Intanto, e per cominciare, chi vuol convertire a una fede politica
punta in primo luogo sulla socializzazione, e in concreto sulla
scuola, sui libri di testo, sugli addetti alla trasmissione del
sapere. Per questo rispetto il propagandista arriva assai prima
dell'agente pubblicitario, e lavora in profondità su un
terreno che l'altro a malapena sfiora. In secondo luogo, alla
propaganda politica è consentito un margine di inganno
incommensurabilmente maggiore di quello consentito alla
pubblicità. Lasciamo pure da parte il fatto che il sistema
legale punisce la frode in commercio mentre non può che
tutelare - dovendo tutelare la libertà di pensiero e di
espressione - la frode di falso politico. La differenza è che
la pubblicità si indirizza a un consumatore il quale,
consumando, controlla (per quanto imbrogliabile, si accorge se quel
che compra per vino è soltanto acqua colorata), laddove la
propaganda politica può smerciare colossali menzogne che
nessun normale cittadino è in condizioni di controllare.
Infine, e tornando al caso specifico della televisione, il paragone
tra pubblicità e propaganda non è da istituire come si
è fatto innanzi, ma è da spostare dietro le quinte.
Vale a dire, la propaganda efficace non è quella che si
esibisce come tale, quella che parla di un uomo politico o lo fa
parlare. Il vero gioco avviene tutto al buio, e la sua efficacia
persuasiva è data dalla sua invisibilità. Il gioco si
fa eliminando le notizie dissonanti; quando non è possibile,
commentandole in modo minimizzante o mistificante; e scegliendo ad
hoc, nei dibattiti, chi è da presentare sul video e chi
è da lasciare a casa in modo da precostituire quale tesi
vincerà. Vero è che la ‟persuasione occulta"
c'è anche in pubblicità (v. Packard, 1957): ma
persegue, tutto sommato, il consumismo, e cioè il suo
obiettivo e la sua colpa è di indurre a sovraconsumare. La
persuasione occulta che si dispiega in politica è di
tutt'altra portata: investe la vita nella sua totalità, e
quindi arriva, o può anche arrivare, sino a venderci un
inferno sotto le mentite spoglie di un paradiso.
Avendo portato le caratteristiche differenzianti al limite,
precisiamo subito che la manipolazione o persuasione occulta che si
dà in politica varia grandemente, in concreto, da paese a
paese. Dove il personale dei media è altamente professionale
e permeato dall'etica professionale del rispetto della
verità, le differenze tra pubblicità e propaganda
possono risultare minime. Per contro, il propagandista entra anche
nella scuola, e riesce a trasformare l'educazione in indottrinamento
soprattutto nelle democrazie ad alta intensità e
conflittualità ideologica. La regola generale, o di massima,
sembra essere che la manipolazione propagandistica cresce con il
crescere della ideologizzazione. È di entità modesta e
più che altro di natura subconscia nei paesi caratterizzati
da pragmatismo politico, mentre diventa pervadente, deliberata e
pressoché senza remore interiorizzate nei paesi
caratterizzati da guerra ideologica: e questo perché una fede
ideologica non solo richiede, ma legittima, una propaganda fidei.
Stabilita la differenza tra propaganda e pubblicità, ne viene
come ovvia inferenza che il politologo fa bene a circoscrivere la
propria attenzione alla propaganda politica, così come
è giusto che lo specialista in comunicazioni si interessi a
qualsiasi tipo di messaggio. Il secondo è in errore,
peraltro, quando fa di ogni erba un fascio - sia perché
confonde le due fattispecie, sia perché nega la distinzione -
il che lo induce, al tirar delle somme, a rivestire e travestire la
propaganda nelle sembianze della pubblicità. L'errore
è spiegabile in chi osserva paesi a modestissima
slealtà e intensità ideologica. Ma, pur se spiegabile,
l'errore resta tale.
Si diceva anche che il politologo e lo studioso di comunicazioni si
pongono problemi del tutto diversi. Il primo cerca di capire quanto
la pubblica opinione possa fondare la democrazia e come si traduca
nei comportamenti di voto. Il secondo si preoccupa soprattutto di
stabilire - almeno nella fase presente della sua disciplina - che il
ricevente dei messaggi non è né passivo né
indifeso. Se le conclusioni dell'uno sono ragguagliate a quelle
dell'altro alla luce delle rispettive prospettive, molte discrasie
si rivelano apparenti. Nondimeno la differenza di problema
attribuisce un ben diverso significato a una stessa rilevazione. Il
ricevente viene caratterizzato da Schramm, e dalla maggioranza della
sua specializzazione, come ‟attivo non meno dell'emittente" (v.
Schramm, 1975, p. 904). Ma nell'analisi del politologo la
grandissima maggioranza di questi riceventi effigiati come ‛attivi'
risultano tali nell'attività di non ascoltare, o di ascoltare
male. Così la consolazione del primo fa la desolazione del
secondo.
Chi ha più ragione? In tema di opinione pubblica dovrebbe
aver ragione chi si occupa della res publica, e cioè il
politologo. Lo studioso di comunicazioni include l'opinione pubblica
nelle sue rilevazioni; ma la sua messa a fuoco è su
emittenti, messaggi e riceventi, non sulla pubblica opinione.
Pertanto la distintività di questa fattispecie - che non
è affatto una sottospecie - gli sfugge. Meglio restare,
allora, alla diagnosi dello studioso di politica, e per essa
all'accertamento che dichiara l'‛autonomia' dell'opinione dei
pubblici. È ripartendo da qui che possiamo precisare se, in
quale senso, e quando, nell'autonomia ci sia anche
‛attività'.
8. Opinione pubblica e comportamenti di voto
Berelson, in un passo classico, assimila ai gusti le opinioni che si
esprimono nel voto. Egli scrive: ‟Per molti elettori le preferenze
politiche sono qualcosa di molto simile ai gusti culturali [...]
Entrambi hanno la loro origine in tradizioni etniche, di mestiere,
di classe, e di famiglia. Entrambi dispiegano stabilità e
resistenza al cambiamento nei singoli individui, ma
flessibilità e aggiustamento generazionale nella
società nel suo insieme. Entrambi investono sentimenti e
disposizioni più che preferenze ragionate" (v. Berelson e
altri, 1954, p. 311). In questo passo l'opinione pubblica viene
implicitamente dotata di formidabile autonomia; ma non sottintende
in alcun modo attori ‛attivi'. Si capisce, Berelson non negherebbe
che i suoi elettori incessantemente decodificano e ricodificano dei
messaggi; ma tutta questa attività non lo scuote
perché non sposta di un ette il fatto che l'insieme è
soprattutto un insieme vischioso caratterizzato, appunto, dalla sua
vischiosità. D'altra parte, è altrettanto chiaro che
Berelson non allude in alcun modo a protagonisti ‛passivi', se per
passività si intende - come i più intendono - una cera
molle che si lascia facilmente plasmare. Dal che si evince, in
conclusione, che i termini attività e passività non
sono appropriati al caso. Non solo si prestano male a descrivere la
fatti- specie, ma inducono in equivoco: ché dichiarare
l'elettore ‛non passivo' non equivale in nessun modo a dichiarano
attivo.
Meglio rifarsi, allora, a una distinzione diversa, quale la
distinzione accennata in precedenza tra opinione pubblica ‛al
negativo' e opinione pubblica ‛al positivo'. Questa distinzione
dispone la pubblica opinione su due versanti. Berelson, nel passo
citato, caratteristicamente raffigura il versante al negativo, e
cioè il versante nel quale le opinioni si ancorano
soprattutto ai ‛gruppi di riferimento'. Nella sua raffigurazione,
infatti, i messaggi dei media hanno ben poco peso. Ma potremmo dire
che hanno poco peso appunto perché l'elettore è
‛attivo' nel bloccarli, nel respingerli o nel ricodificarli a
propria immagine e convenienza. Questa attività non toglie,
dunque, che l'opinione pubblica in questione sia al negativo, e
cioè fortissima nel dire no, o altrimenti tenace nel volere e
preferire ‛senza informazione', prescindendo dal flusso dei messaggi
informanti. Di conseguenza possiamo dire che lo stato al negativo
dell'opinione dei pubblici si traduce, caratteristicamente, in un
‛chiedere-resistere'. Per converso, lo stato al positivo è
quello che risulta dalle ‛opinioni informate', o comunque dalle
opinioni che interagiscono con le informazioni, e pertanto è
lo stato che si converte, caratteristicamente, in un
‛proporre-pilotare'.
Si capisce, in entrambi i casi - il chiedere-resistere o il
proporre-pilotare - esiste un ‛chiedere'; ma non è lo stesso
chiedere. La prima dizione richiama la democrazia governata; la
seconda prefigura una democrazia che si autogoverna. Su questo punto
ci spiegheremo da ultimo. Intanto restiamo alla conclusione che
segue. Il fatto che il ricevente dei messaggi non sia -
finché ascolta in un habitat pluralistico e polifonico -
facilmente plasmabile va a confermare la consistenza dell'opinione
pubblica al negativo, dell'opinione che impedisce ai governanti di
‛mal fare'. Peraltro, la massiccia evidenza sullo stato di
disinformazione, o peggio, dei pubblici di massa lascia sul tappeto
il problema di quanto fa, e può fare, l'opinione pubblica al
positivo, l'opinione che indica il ‛ben fare'.
Veniamo alla domanda: perché l'elettore vota come vota?
È una domanda centrale perché è nel voto che il
cittadino finisce per esprimere concretamente la propria opinione.
Occorre dunque stabilire in che modo la pubblica opinione si
manifesta nel votare, e più esattamente nell'eleggere.
Siccome nelle democrazie esistenti il cittadino vota scegliendo tra
candidati e tra partiti (il caso del referendum verrà
trattato come un caso a sé stante), la domanda diventa: in
qual modo il votante sceglie tra un candidato e l'altro, e tra un
partito e l'altro?
È superfluo soffermarsi sul candidato nella sua indipendenza
dal partito. Il candidato indipendente, o che si fa eleggere in
virtù dei propri meriti, è diventato un caso
abbastanza marginale che postula piccoli elettorati, oppure sistemi
a collegio uninominale (ma anche qui solo quando un collegio
è insicuro). Certo, in un'elezione presidenziale di tipo
americano o francese il candidato conta; ma si tratta pur sempre di
candidati portati dai partiti e che beneficiano del loro sostegno.
Pertanto ci limiteremo alla scelta che l'elettore compie
primariamente tra partiti.
A questo effetto gli elettori vengono divisi tra ‛identificati' e
no, tra issue voters (che votano in ragione delle posizioni dei
partiti su singole questioni) e no, tra elettori stabili e
instabili. L'idea generale è che l'elettore identificato
(immedesimato con il ‛suo' partito) è un elettore stabile che
è poco o punto influenzato dalle issues, dalle singole
questioni; e buona parte della letteratura considera questo elettore
irrazionale o a-razionale, e cioè di minor pregio. L'elettore
dichiarato razionale, o comunque considerato di miglior livello,
è l'elettore che vota in funzione delle questioni, e che
quindi cambia voto per punire un partito che lo delude ovvero per
premiare il partito che lo soddisfa. Ma non è così
semplice. Tanto per cominciare, gli elettori identificati
(immedesimati) costituiscono tutta una gamma che va dagli
intensamente ai debolmente identificati: e questi ultimi cambiano il
voto. Inoltre, non è vero che un elettore è stabile
perché identificato: può risultare stabile
perché vota con conoscenza di causa, contro o per il meno
peggio. Viceversa, un elettore fluttuante può essere un
elettore che davvero non sa quel che vota. Infine, visto che anche
il cosiddetto issue voter è sovente male informato, che la
sua percezione delle issues è solitamente parziale e
distorta, per quale ragione mai dovrebbe essere insignito del titolo
di votante ‛razionale', o comunque più razionale?
Converse (v., 1975, pp. 118-125) svolge molto bene questa critica.
In primo luogo, egli osserva, nella letteratura sui comportamenti
elettorali la razionalità non è definita, oppure viene
definita come ‟la scelta che massimizza la utilità
percepita". A questa stregua è chiaro che ogni elettore
è per definizione razionale, e cioè segue la propria
percezione del proprio interesse. In secondo luogo, una
razionalità così intesa è a cortissimo raggio e
si converte facilmente, nei tempi più lunghi, in una
irrazionalità catastrofica per l'insieme. Per esempio
l'individuo che vota per essere pagato senza lavorare è - per
il suddetto parametro - razionalissimo; ma totalmente e stupidamente
irrazionale per altri parametri e a più lunga scadenza.
L'invito di Converse di capire il voto lasciando da parte gli
apprezzamenti di razionalità sembra dunque da accogliere.
Per capire davvero il voto occorre una spiegazione di tipo causale,
o quantomeno una sequenza. Un possibile tipo di sequenza è:
1) preferenze di issue; 2) percezioni di issue; 3) voto per il
partito ‛vicino' in soluzioni di issue. In effetti questa sequenza
si dà, e viene in evidenza, quando una o due questioni
acquistano una particolare visibilità e spaccano un'opinione
pubblica. Nondimeno è una sequenza relativamente rara anche
nei paesi dove l'issue voting, il votare in funzione dei problemi,
è facilitato da due condizioni : un sistema bipartitico, e
dunque a massima semplicità di scelta, e un basso grado di
ideologizzazione, il che vuol dire che l'elettore non si regola con
criteri del tipo ‛destra-sinistra'. Ma nella gran maggioranza dei
paesi la sequenza di gran lunga prevalente è una sequenza
invertita, che va dalle ‛immagini di partito' a un elettore che ne
predilige uno e vi si attacca. Inoltre, man mano che il sistema
partitico si complica (è complicato dal suo stato di
frammentazione), e man mano che dalla politica pragmatica si passa
alla politica ideologica, d'altrettanto queste immagini di partito
si traducono in immagini di ‛collo- cazione spaziale', e cioè
di tipo destra-sinistra. Detto in parole povere, un partito viene
scelto, dai più, perché considerato di destra, centro
o sinistra e, inversamente, rifiutato perché troppo di destra
o troppo di sinistra. Insomma, l'elettore medio è un
grandissimo semplificatore. Non accade quasi mai che un elettorato
sia, nel complesso, abbastanza attento e abbastanza articolato da
giudicare sulle questioni, e cioè da esprimere, con un issue
voting, le proprie preferenze e percezioni di issue. E se
così è, allora dobbiamo insistere nel chiedere quale
sia, e possa essere, il ruolo, nella gestione del sistema politico,
dell'opinione che si esprime votando. In succo: cosa è che
questo tipo di pubblico fa e, viceversa, non può o non sa
fare?
9. Democrazia eleggente, democrazia partecipante e referendum
Ripercorriamo in due punti il filo di tutto l'argomento. Primo, la
democrazia postula una pubblica opinione che a sua volta fonda un
governo consentito, e cioè governi che sono condizionati dal
consenso di quella opinione. Secondo, per essere autentico questo
consenso deve fare capo a pubblici che possiedono opinioni autonome;
e per essere efficace deve essere accertato ed espresso mediante
libere elezioni. Domanda: questo edificio - che è poi la
teoria della democrazia rappresentativa - regge o non regge alla
riprova dei fatti? La risposta è che regge nei termini
suesposti, e cioè nell'ambito della democrazia di tipo
rappresentativo. Infatti in questo ambito tutto quel che la teoria
richiede dalla pratica è che la pubblica opinione si
costituisca come opinione autonoma. Non è davvero poco, come
abbiamo visto; ma non è nemmeno, come passeremo a vedere,
pretendere troppo.
Il punto che appare più debole e dolente è - lo
sappiamo - il punto di partenza: la base di informazione. Nessuno
contesta che si debba in ogni modo tentare di curare lo stato di
disinformazione dei grandi pubblici. Ma per trovare una terapia
occorre prima capire la natura del problema.
In passato le colpe sono state variamente attribuite ai bassi
livelli di istruzione, all'insufficiente varietà o
completezza dei canali d'informazione, alla scarsa
intelligibilità e chiarezza del gioco politico, o anche alla
pochezza della posta in gioco, e cioè delle alternative
proposte all'elettore. Ma quando, in un paese o l'altro, queste
condizioni ostacolanti sono venute meno, gli effetti sullo stato
dell'opinione sono stati di gran lunga inferiori alle aspettative.
Il fatto che più colpisce è che la percentuale dei
cittadini relativamente attenti e informati di politica non varia in
modo sensibile anche quando le suesposte condizioni variano. Alla
fine siamo stati costretti a ripiegare su questa ovvia
generalizzazione: che la fascia dei relativamente informati è
costituita, in prevalenza, dai settori dei più istruiti.
Dunque, si conclude, il livello di informazione è una
funzione del livello di istruzione. Ma, attenzione, questa
conclusione - che è largamente tautologica - vale per
l'informazione in generale, cioè si applica a un tutto
costituito da una molteplicità di settori particolari. Regge
male, o assai meno bene, se riferita specificamente all'informazione
politica. Chi è più istruito è, per
definizione, più informato; ma non è detto che una
crescita generalizzata dei livelli d'istruzione si rifletta in un
aumento dei pubblici informati politicamente.
Anche l'informazione è un ‛costo'. Pertanto, chi si tiene
informato in un settore lo fa, per forza, a scapito di altri. In
secondo luogo, il costo dell'informarsi diventa redditizio - lieve,
e al tempo stesso gratificante - solo dopo che l'informazione
immagazzinata raggiunge una determinata soglia. Per godere la musica
bisogna sapere di musica. Un gioco che entusiasma lo sportivo non
dice nulla a chi non lo capisce. In politica, chi ha superato la
soglia legge senza fatica le notizie del giorno e le capisce a volo;
ma chi resta al di sotto della soglia, chi non ha fatto
l'immagazzinamento, fa uno sforzo, non afferra lo stesso, e in
definitiva si annoia a morte. Per chi non è informato,
dunque, il costo di capire e digerire l'informazione politica si
ripropone ogni giorno e non diventa mai gratificante. Il che spiega
due cose. Primo, spiega perché troviamo il salto riscontrato
tra chi è informato e chi non lo è, e cioè una
distribuzione discontinua. Secondo, spiega perché i confini
tra le varie zone o specialità d'informazione sono davvero
dei confini, e quindi anche perché la quota di una
specialità può diventare massiccia e la quota di
un'altra restare esigua. Poniamo una popolazione tutta di laureati:
resta ancora da spiegare perché quella popolazione debba
trovare l'interesse politico più appetitoso di altri
interessi.
Chiarito perché il livello d'istruzione può crescere
senza alcuna necessaria crescita, o riflusso, nel settore dei
politicamente informati, importa ribadire che, anche se la base di
informazione dei pubblici di massa resta quella che è, si
tratta pur sempre di un punto debole digerito - o comunque
digeribile - finché restiamo alla ‛democrazia elettorale',
vale a dire finché la pubblica opinione si esprime eleggendo.
Quando votiamo per eleggere, non decidiamo singole questioni di
governo. Il vero potere dell'elettorato è il potere di
scegliere chi lo governerà. Dunque, le elezioni non decidono
le questioni, ma decidono chi sarà a deciderle. La differenza
è grossa. E spiega perché l'autonomia dell'opinione
può bastare. In chiave di autonomia non ci preoccupiamo di
quanta parte della pubblica opinione sia al negativo e di quanta al
positivo, e nemmeno postuliamo che debba essere informata. Tutto
quel che presupponiamo è che l'opinione pubblica si
costituisce come un protagonista a sé stante, con il quale i
governanti devono fare i conti e al quale devono rendere conto. La
buona o cattiva qualità di questa opinione non è
dunque in questione. Meglio, certo, se la qualità è
buona; ma il sistema politico può funzionare anche se non lo
è. Ma se la democrazia elettorale non ci basta, e se
chiediamo, come oggi si dice, una ‛democrazia partecipante', allora
il discorso è tutto da rifare.
Intendiamoci su quest'ultima nozione, invero nebulosa. L'unico punto
chiaro è che una democrazia partecipante non si accontenta
della ‛partecipazione elettorale', e nemmeno si può
accontentare del referendum finché resta uno strumento
interno, subordinato, di una democrazia che rimane di tipo indiretto
e rappresentativo. Georges Burdeau ( v., 1956 e 19702) distingue tra
una democrazia governata e una democrazia governante; ma questa
distinzione vale soprattutto a rendere l'idea di un passaggio, o di
un crescendo, e non si presta a chiarire qual è il punto di
svolta tra democrazia rappresentativa e no. Beninteso, la democrazia
rappresentativa è una democrazia governata (dai
rappresentanti); ma per Burdeau una democrazia è già
governante quando le assemblee rappresentative si piegano alla
volontà popolare, quando diventano etero-dirette. In questo
sviluppo possiamo sì vedere una massimizzazione della
sovranità del demos; ma possiamo altrettanto bene vedere quel
governare demagogico e irresponsabile che già Aristotile
denunziava come l'inizio di una fine, come uno sviluppo
degenerativo. Comunque sia, il punto è che l'ottica di
Burdeau non aiuta a trovare il confine tra la democrazia elettorale
e una democrazia di diversa fondazione. Dopotutto, anche la
democrazia rappresentativa auspica la partecipazione e richiede
‛più partecipazione'. Quando accade, dunque, che i pesi si
invertono, che la partecipazione subordina a sé la
rappresentanza e, nei disegni più ambiziosi, la sostituisce
sino a eliminarla?
In concreto, lo spartiacque deve essere strutturale e tra- dursi in
strutture. Difatti, lo possiamo trovare nell'istituto del
referendum. Sia chiaro; tanto nella democrazia rappresentativa
quanto nella democrazia che diremo, per intenderci, referendaria, il
cittadino si limita a votare; e siccome nel referendum l'opzione si
riduce a un sì-no, è lecito ritenere che l'opinione
che si esprime nel referendum sia ancora più cruda, o
più elementare, dell'opinione che si esprime in un'elezione
(nei sistemi pluripartitici con voto di preferenza). La differenza
è che, quando elegge, il cittadino decide su chi
deciderà per lui; laddove con il referendum il cittadino
decide in proprio, e cioè decide una questione. Il referendum
fa dunque da spartiacque per questo rispetto: che sostituisce al
decidere dei rappresentanti il decidere dei rappresentati. Ne
consegue che quante più questioni vengono decise
referendariamente, tanto più una democrazia rappresentativa
si trasforma in una democrazia diretta, variamente da denominare -
in crescendo - partecipante, davvero governante, o letteralmente
autogovernante.
Forse si obietterà che i propugnatori della democrazia
partecipante non pensano affatto, o comunque non primariamente, a
una democrazia referendaria. Ma anche se il loro cuore batte per
l'assemblearismo e per l'attivizzazione di piccoli gruppi, la loro
ragione non può non capire che una democrazia il cui demos si
conta in diecine o anche centinaia di milioni non può che
approdare alla tecnica del referendum: altro strumento di attuazione
non c'è. E dunque chi vuole superare la democrazia
rappresentativa deve volere comunque la chiami - una democrazia
referendaria, una democrazia imperniata e sostanziata dal rimettere
le singole questioni da decidere alla decisione del popolo.
Se questa è, come è, la sostanza di una democrazia
più avanzata della democrazia rappresentativa è subito
chiaro perché il problema della pubblica opinione sia tutto
da riproporre. Nella democrazia referendaria la pubblica opinione
diventa il sine qua non di tutto, e tutto ne dipende. Pertanto non
basta che l'opinione dei pubblici sia autonoma; importa poco che sia
temibile al negativo; importa, invece, che sia ‛di qualità'
al positivo. Quel ricevente che è attivo nell'eliminare quel
che lo disturba e nel ricodificare i messaggi a modo suo, e
cioè infedelmente, non solo non ci serve più, ma
diventa pericoloso, per non dire esiziale. Chi decide da sé -
non per sé, si badi, ma per tutti - deve sapere su cosa
decide, e deve anche padroneggiare il problema sul quale decide.
Finora abbiamo parlato sempre e soltanto di ‛informazione', magari
sottintendendo che l'informazione comporta ‛cognizioni', ma senza
mai mettere i puntini sulle i. Soprattutto, sinora abbiamo sorvolato
sulla differenza, l'enorme differenza, che passa tra ‛informazione'
e ‛conoscenza'. La distinzione non è essenziale in
riferimento a un elettorato eleggente; ma diventa cruciale in
riferimento a un demos decidente. Anche se una persona memorizza
un'enciclopedia, e dunque è informatissima su tutto, non ne
consegue in alcun modo che sappia mettere assieme e a frutto
quell'arsenale di nozioni. Certo, la padronanza conoscitiva
presuppone informazione, e cioè un insieme di notizie, di
dati. Ma non è vero l'inverso: l'informazione non dà,
di per sé, episteme, quel sapere che è comprensione
del problema nel quale una decisione si situa, e anche delle
conseguenze della decisione che andiamo a prendere. E se alla
democrazia eleggente basta la trasformazione dell'informazione in
opinione, alla democrazia referendaria occorre la trasformazione
dell'informazione in sapere, in conoscenza.
A tutt'oggi la letteratura sulla democrazia partecipante fa leva
sulla formula ‛partecipando si impara' e lascia intendere, o
sottintende, che la ‛vera partecipazione' porta con sé un
salto di qualità. Purtroppo non è così; e
semmai quel discorso è da sviluppare al contrario, a ritroso.
La partecipazione in questione non è più,
ricordiamolo, quella che c e già; vuol essere una
partecipazione attiva, generalizzata (al limite, di tutti), che
sostituisce il cittadino che ‛prende parte' in prima persona al
rappresentante che ne fa le veci. Orbene, per questo tipo di salto
in avanti non soccorre il livello d'istruzione (che rischia di
generare, tra l'altro, l'uomo contemplativo più che l'uomo
attivo) ma occorre la politicizzazione: cioè il fattore in
gioco è la ‛intensità'. In sostanza, la teoria della
democrazia partecipante ipotizza che le caratteristiche di piccoli
gruppi intensi - che sentono intensamente i problemi della
città politica - si diffondano e pervadano tutto il corpo
sociale. E qui sta il nodo di Gordio.
L'intensità stimola, è vero, l'attenzione; ma quella
particolare attenzione che attivizza, che attizza l'azione.
L'impegnato - è ben di lui che stiamo trattando - non vede,
non vuol vedere, i pro e i contro; vede solo in bianco e nero, con
tutto il bene da una parte e tutto il male dall'altra. In politica
l'altamente ‛intenso' è dunque - nove su dieci - il
dogmatico, il settario, il fanatico. Quel che risulta da tutte le
indagini è un'altissima correlazione tra intensità ed
estremismo: chi prende posizioni estreme è altamente intenso,
e viceversa (v. Lane e Sears, 1964, pp. 105- 106). L'estremista sa
già tutto, ha già la risposta per tutto; essendo
altamente intenso, semplicemente e fortissimamente ‛vuole'. Il punto
è, dunque, che l'intensità che produce il cittadino
politicizzato, altamente partecipante, sta agli antipodi della
padronanza conoscitiva, e ne erode le stesse premesse. Non è
che intensità attenzione informazione cognizione padronanza
conoscitiva covarino positivamente; piuttosto la serie tende a
covariare negativamente. Quel che vorremmo fosse un crescendo
‛virtuoso' si rivela, invece, un boomerang: il trionfo della mente
chiusa sulla mente aperta (v. Rokeach, 1960).
È giocoforza concludere, allora, che mentre la democrazia
rappresentativa si fonda su una pubblica opinione sufficiente - sia
in teoria che in pratica - a sostenerla, tutti i richiesti
superamenti dell'istituto della rappresentanza devono ancora
cominciare a fare i conti con il problema della pubblica opinione:
un'omissione che è tanto macroscopica quanto sorprendente. Si
notava in esordio che quando è stata coniata la dizione
pubblica opinione, il sostantivo non era scelto a caso: si è
detto ‛opinione' perché si intendeva proprio un opinare. Ma
ai fini di una democrazia referendaria non basta l'opinione,
occorrerebbe - è bene ripeterlo - il sapere, la competenza
conoscitiva. Il salto dev'essere davvero di qualità; è
davvero un salto grossissimo; e tutto il nostro sapere ne
contraddice la fattibilità. Si avverta: dal punto di vista
tecnologico una democrazia referendaria integrale - e cioè un
popolo che si autogoverna quotidianamente - è oramai cosa
fattibilissima. Basta installare in ogni casa un terminale da
quattro soldi collegato a un elaboratore centrale, di fronte al
quale ogni sera i cittadini rispondono sì o no ai quesiti che
passano sul video. La cosa è fattibilissima; ma è da
fare? Per rispondere occorre cominciare con l'avere chiaro che cosa
l'opinione pubblica sia e possa essere.
di Giuseppe Bedeschi, Everett C. Ladd
di Giuseppe Bedeschi ed Everett C. Ladd
OPINIONE PUBBLICA
Opinione pubblica
di Giuseppe Bedeschi
sommario: 1. Premessa. 2. Storia del concetto. 3. La critica
dell'opinione pubblica in Tocqueville e Mill. 4. L'opinione pubblica
nelle società industriali avanzate. □ Bibliografia.
1. Premessa
L''opinione pubblica' (che non è mai qualcosa di unitario, se
non in momenti eccezionali, bensì è l'insieme delle
grandi correnti di opinione - a volte diverse, a volte addirittura
contrapposte fra loro - dominanti in una società) sorge e si
costituisce nelle società moderne in primo luogo grazie alla
vasta diffusione dei libri e degli opuscoli, resa possibile
dall'invenzione della stampa, allo sviluppo dei giornali e delle
pubblicazioni periodiche, al formarsi delle accademie e delle
organizzazioni culturali e politiche. Tutti questi strumenti
esprimono e diffondono le idee, le esigenze e gli umori di
società civili che divengono sempre più variegate e
complesse grazie allo sviluppo economico e tecnologico, il quale
modifica incessantemente i modi di vita e genera nuove classi e
nuovi ceti sociali. Il sorgere dell'opinione pubblica ha infatti
come presupposto essenziale il costituirsi di una società
civile complessa e articolata (classico è il caso dell'Olanda
del Seicento, con il suo impetuoso sviluppo economico accompagnato
da un altrettanto impetuoso sviluppo sociale e culturale,
caratterizzato da un ampio pluralismo), che in un primo tempo
rivendica una propria autonomia dal potere politico, e
successivamente esige che tale potere sia una sua emanazione e che
resti sotto il suo costante controllo.Là dove, come in
Inghilterra e in Francia, tali processi si sono svolti attraverso
profonde convulsioni sociali e politiche, il formarsi dell'opinione
pubblica è stato un fenomeno che ha avuto un'estensione e
un'accelerazione eccezionali, e ha esercitato un influsso decisivo
sugli avvenimenti.
Per quanto riguarda l'Inghilterra, si pensi alla sua prima
Rivoluzione, al profondo travaglio religioso e politico che la
prepara e che trova espressione nel corso di essa. È stato
giustamente osservato che la natura rivoluzionaria della prima
Rivoluzione inglese è dimostrata in modo forse più
convincente dalle sue parole che dai suoi fatti: basti pensare che
tra il 1640 e il 1661 si pubblicarono in Inghilterra più di
22.000 sermoni, discorsi, libelli e giornali. "Questo fiume di
parole stampate - è stato ben scritto - è il sintomo
di un cozzo di idee e di ideologie, e dell'affermarsi di concezioni
radicali su ogni aspetto del comportamento umano e su ogni
istituzione sociale, dalla famiglia, alla Chiesa, allo Stato" (cfr.
L. Stone, The causes of the English revolution 1529-1642, London
1972; tr. it., Torino 1982, p. 60). La prima Rivoluzione inglese non
potrebbe dunque essere adeguatamente intesa senza tener conto del
ricco e complesso movimento di 'pubblica opinione' - riguardante
tutti i campi della vita sociale - che la prepara e la orienta.Lo
stesso si può dire della Francia, dove l'illuminismo
costituisce la premessa ideale essenziale della grande Rivoluzione
(e vedremo che non a caso il concetto di opinione pubblica sorge per
la prima volta, in modo consapevole e organico, nell'ambito del
movimento illuministico), e dove nel corso della Rivoluzione
medesima il processo di formazione e di manifestazione dell'opinione
pubblica conosce un'accelerazione inaudita: basti pensare che,
mentre prima della Rivoluzione esistevano in Francia 14 giornali
politici, dal luglio 1789 all'agosto 1792 ne nacquero 1.400.
L'opinione pubblica nasce sul terreno di questi processi
economico-sociali, politici e culturali che hanno luogo nell'Europa
del Seicento e del Settecento; ed è infatti in questo periodo
che il concetto di opinione pubblica viene elaborato e teorizzato
dalle élites culturali.
2. Storia del concetto
Si è soliti far risalire a Locke la prima formulazione, sia
pure embrionale, del concetto di 'opinione pubblica'. Infatti, nel
Saggio sull'intelligenza umana (libro II, cap. XXVIII, parr. 7 ss.),
il filosofo inglese, dopo aver detto che le leggi alle quali gli
uomini riferiscono le loro azioni, per giudicare della loro
rettitudine o meno, sono tre (la legge divina, la legge civile, la
legge dell'opinione o reputazione), aggiunge: "Appare chiaro che
tali nomi della virtù e del vizio, nei casi particolari della
loro applicazione in mezzo alle varie nazioni e società umane
nel mondo, sono costantemente attribuiti soltanto a quelle azioni
che in ciascun paese e società godono reputazione o
discredito", sicché "la misura di ciò che dovunque
è detto e stimato virtù e vizio è questa
approvazione o deplorazione, elogio o biasimo, che, per segreto e
tacito consenso si stabilisce in ciascuna singola società,
tribù e circolo d'uomini nel mondo: per cui varie azioni
vengono a trovare credito o deplorazione tra di essi, secondo il
giudizio, le massime o il costume di quel luogo" (par. 10).
Queste affermazioni di Locke sono certo importanti, per la
distinzione che esse contengono fra legge civile (emanata dal potere
legislativo) e legge dell'opinione, che ha il suo fondamento nel
fatto che gli uomini, una volta usciti dallo stato di natura ed
entrati in una società civile o politica (i due termini sono
sinonimi per il filosofo inglese), "conservano ancora il potere di
giudicare il bene e il male, approvando o disapprovando le azioni di
coloro fra i quali vivono e con cui hanno rapporti" (ibid.).
È evidente che la distinzione lockiana fra legge civile e
legge dell'opinione corrisponde alla distinzione fra sfera politica
e sfera morale e ideale: e se la seconda non è superiore alla
prima (poiché lo Stato lockiano si basa sul consenso dei
cittadini), essa gode però di una sua autonomia, che deve
essere riconosciuta e rigorosamente tutelata dal potere politico.
E tuttavia, nonostante la grande importanza di queste affermazioni
di Locke, bisogna guardarsi dalla tentazione di trovare in esse
più di quanto contengano. Infatti, come è stato
riconosciuto (v. Matteucci, 1980), il punto focale dei passi
lockiani sopra citati è costituito dalla reputazione o fama
dei singoli nella società, la quale li approva o li condanna
a seconda delle loro virtù o dei loro vizi; ma è del
tutto assente, in quei passi, il momento della discussione pubblica,
e del suo rapporto con la sfera politica.
Questo aspetto, che è essenziale per il concetto di opinione
pubblica, viene elaborato nel Settecento dal pensiero illuministico.
Nel 1753 D'Alembert pubblica l'Essai sur la société
des gens de lettres et des grands, in cui pronuncia un'appassionata
difesa del ruolo degli "uomini di lettere" (oggi noi diremmo degli
intellettuali) nell'ambito della società civile: essi devono
ricercare la verità in piena e totale autonomia, anche a
prezzo della povertà, senza cedere alle lusinghe dei potenti,
del loro mecenatismo corruttore che trasforma il filosofo in
cortigiano. Se gli uomini di lettere riescono a mantenersi
completamente indipendenti dal potere politico e, più in
generale, dai "potenti", se essi riescono a "vivere uniti",
consapevoli della loro vocazione e della loro funzione, "in certo
modo chiusi in se stessi", allora essi possono esercitare un
influsso profondo sulla società civile, nonostante e contro
l'assolutismo della sfera politica: "essi giungeranno senza
difficoltà - dice D'Alembert - a dettar legge al resto della
nazione in materia di gusto e di filosofia" (Saggio sui rapporti tra
intellettuali e potenti, Torino 1977, p. 55). L'autore non usa
l'espressione 'opinione pubblica', ma è evidente che questo
concetto è implicito nell'idea che una funzione essenziale
degli uomini di lettere o intellettuali sia quella di orientare la
nazione "in materia di gusto e di filosofia", cioè sui grandi
temi sociali e culturali del paese. Ed è appena il caso di
ricordare, a questo proposito, la grande battaglia degli illuministi
contro la censura e per la libertà di stampa, battaglia che
ha nel saggio di Diderot Sur la liberté de la presse
(1763-1764) una delle sue manifestazioni più alte. Si deve,
del resto, a uno scrittore vicino a Diderot, Louis-Sébastien
Mercier, una delle più limpide formulazioni del concetto di
opinion publique: "I buoni libri - egli dice - spandono lumi in
tutte le classi del popolo, ornano la verità. Sono essi che
già governano l'Europa, che illuminano il governo sui suoi
doveri, sui suoi errori, sui suoi veri interessi, sull'opinione
pubblica che esso deve ascoltare e seguire: questi buoni libri sono
maestri pazienti che attendono il risveglio degli amministratori
degli Stati e la calma delle loro passioni" (Notions claires sur les
gouvernements, Amsterdam 1787, p. IV). Qui, come si vede, gli uomini
di lettere (autori dei buoni libri) devono illuminare i governanti e
indicare loro quella pubblica opinione che gli stessi uomini di
lettere formano e interpretano.
Ma è soprattutto Kant a dare quella che può essere
considerata la formulazione più chiara e più organica
della funzione che deve essere svolta dagli uomini di cultura per
orientare lo spirito pubblico - che noi oggi chiamiamo la pubblica
opinione - in modo tale che i sovrani debbano tener conto, prima o
poi, dei mutamenti avvenuti in esso. Per Kant deve essere senz'altro
riconosciuto al cittadino il diritto di manifestare pubblicamente la
propria opinione su ciò che nei decreti sovrani egli ritiene
che arrechi ingiustizia alla comunità. "Dunque - dice Kant -
la libertà della penna - tenuta nei limiti del rispetto e
dell'amore per la costituzione sotto la quale si vive dai sentimenti
liberali che ispirano i sudditi (le cui penne si limitano
reciprocamente da sé per non perdere tale libertà) -
è l'unico palladio dei diritti del popolo" (Sopra il detto
comune: "questo può essere giusto in teoria ma non vale per
la pratica" - 1793 - in Scritti politici e di filosofia della storia
e del diritto, Torino 1965, p. 270). Contestare al popolo questa
libertà significherebbe non solo privarlo di ogni pretesa
giuridica nei riguardi del sovrano (come vuole Hobbes), ma anche
togliere al sovrano stesso ogni conoscenza di ciò che, se gli
fosse noto, ne modificherebbe l'opinione (pp. 270-271).Si profila
qui la concezione kantiana dell'illuminismo, che è per il
filosofo tedesco l'uscita degli uomini da uno stato di
minorità dovuto alla mancanza di decisione e di coraggio nel
far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro.
"Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria
intelligenza! È questo - dice Kant - il motto
dell'illuminismo" (Risposta alla domanda: che cosa è
l'Illuminismo? - 1784 - in Scritti politici e di filosofia della
storia e del diritto, Torino 1965, p. 141).
Al tempo stesso, però, poiché il pubblico colto, pur
avendo il diritto-dovere di esprimere liberamente il proprio punto
di vista sui più vari problemi - punto di vista che
può ben essere in contrasto con quello dell'autorità
sovrana - deve ubbidire sempre e comunque a essa (Kant nega infatti
il diritto di resistenza dei sudditi), occorre distinguere fra un
uso pubblico e un uso privato della ragione. "Intendo - dice Kant -
per uso pubblico della propria ragione l'uso che uno ne fa come
studioso davanti all'intero pubblico dei lettori. Chiamo invece uso
privato della ragione quello che alcuno può farne in un certo
impiego o funzione civile a lui affidata". Mentre nel primo caso gli
studiosi devono godere della più completa libertà, nel
secondo caso essi devono ispirare la loro condotta alla
volontà del governo: "qui senza dubbio non è permesso
di ragionare, ma si deve ubbidire" (p. 143).
Così un ufficiale deve ubbidire sempre e comunque agli ordini
dei suoi superiori, e sarebbe assurdo se, in servizio, volesse
ragionare pubblicamente sull'opportunità e utilità di
tali ordini; ma non è giusto impedirgli in qualità di
studioso di fare le sue osservazioni sugli errori commessi nelle
operazioni di guerra, e di sottoporre tali osservazioni al giudizio
del pubblico. Allo stesso modo il cittadino non può
rifiutarsi di pagare i tributi che gli vengono imposti; tuttavia
egli può, come studioso, manifestare apertamente il proprio
pensiero sull'iniquità del sistema fiscale, e così
via.La libertà del cittadino in quanto essere pensante
è dunque per Kant una libertà dimidiata, che trova
nella volontà dell'autorità costituita il proprio
limite invalicabile. Si può, anzi si deve ragionare
pubblicamente come sembra più giusto, ma si deve sempre e
comunque ubbidire. Qui si misura certo tutta l'arretratezza della
posizione politica di Kant (e, più in generale, della cultura
politica tedesca) rispetto a quella di Locke (teorico del diritto di
resistenza dei cittadini contro un governo iniquo), espressa un
secolo prima. E tuttavia non si può non apprezzare il ruolo
che Kant attribuisce agli uomini di cultura nell'orientare e nel
plasmare le idee dei cittadini, con effetti di grande importanza
nella sfera sociale e politica. Egli infatti sottolinea che la
libertà del pubblico colto di manifestare il proprio pensiero
sugli argomenti e sui problemi più vari non può non
incidere, alla lunga, sullo spirito pubblico, cioè su quella
che noi oggi chiamiamo la pubblica opinione, e quindi "da ultimo
anche sui principî del governo, che finisce per comprendere
che è per lui vantaggioso trattare [...] l'uomo in modo
conforme alla sua dignità" (p. 149). E questa è
secondo il filosofo tedesco una garanzia sufficiente per il trionfo,
prima o poi, della razionalità politica.
Assai più arretrata, rispetto a Kant, è la posizione
assunta da Hegel sul problema dell'opinione pubblica. Nella
Filosofia del diritto (1821) egli dice che le Camere (la Camera
alta, di casta, e la Camera bassa, formata dai rappresentanti delle
corporazioni) devono dibattere pubblicamente. Alla pubblicità
dei dibattiti parlamentari Hegel annette grande importanza, come
potente strumento di educazione dell'opinione pubblica (egli usa
questa espressione nel suo significato moderno: "die
öffentliche Meinung"). Senonché egli esclude il
movimento inverso, e cioè che l'opinione pubblica possa
esercitare un benefico influsso sulle Camere, trasmettendo a esse il
proprio spirito e i propri problemi. Il popolo, infatti, considerato
senza il suo monarca, senza l'organizzazione burocratico-statuale e
senza le corporazioni che danno una struttura comunitaria alla
classe media (artigiani, industriali e commercianti), è per
Hegel "la parte che non sa quel che vuole", poiché, egli
dice, "sapere che cosa si vuole, e, ancor più, che cosa vuole
la volontà che è in sé e per sé, la
ragione, è il frutto di una conoscenza e di una penetrazione
più profonda che, appunto, non è affare del popolo"
(par. 301).
Tale conoscenza e penetrazione più profonda è propria
del governo e della "classe generale" (la burocrazia al servizio
dello Stato), nonché dei membri della Camera alta e dei
rappresentanti delle corporazioni che formano la Camera bassa: tutti
costoro educano l'opinione pubblica, la quale è continuamente
insidiata dalle passioni e dalla irrazionalità del cosiddetto
popolo, sicché da un lato essa ha nobili aspirazioni (nella
misura in cui viene educata e formata), e dall'altro lato (in quanto
espressione del "popolo") è compromessa da pregiudizi,
ignoranza, mancanza di cognizioni, ecc., e dunque "merita di venire
tanto apprezzata quanto disprezzata" (parr. 316-318). Questo modo
hegeliano di presentare il problema dell'opinione pubblica (modo che
risponde organicamente allo spirito della Restaurazione) costituisce
l'esatto contrappunto della ferma difesa che nello stesso periodo
Benjamin Constant fa dell'opinione pubblica (e non si dimentichi che
Hegel conosceva assai bene gli scritti constantiani). L'impostazione
constantiana è assai interessante e articolata, e merita di
essere vista nei dettagli.Nei Principes de politique (1815)
Constant, dopo aver lamentato che "la rappresentanza nazionale
è stata fra noi spesso meno avanzata dell'opinione pubblica
in molte materie", difende l'elezione diretta, l'unica, a suo
avviso, che possa far godere alla Francia i benefici del governo
rappresentativo. "È questa - dice Constant - che dal 1788
porta alla Camera dei Comuni britannica tutti gli uomini
illuminati". E aggiunge: "Soltanto l'elezione diretta può
investire la rappresentanza nazionale di una vera forza e darle
radici profonde nell'opinione [pubblica]. Il rappresentante nominato
in altro modo non trova in nessun luogo una voce che riconosca la
sua" (Principî di politica, Roma 1965, p. 101).
La rappresentanza, dunque, è viva e vitale solo se ha radici
profonde nell'opinione pubblica, e solo in tal caso essa è in
grado di esprimere un governo degno di questo nome. Il legame tra la
rappresentanza e l'opinione pubblica deve essere tanto più
favorito e garantito, in quanto "le assemblee sono sempre troppo
inclini ad acquisire uno spirito di corpo che le isola dalla
nazione" (p. 107). Queste posizioni di Constant si riconnettono alla
concezione inglese della pubblica opinione, quale fu espressa da
Edmund Burke in diverse lettere ai suoi elettori, nelle quali
sottolineava che sono "l'opinione generale" e "lo spirito pubblico"
a dare legittimità al Parlamento. E aggiungeva: "Nei negozi e
nelle fabbriche dei paesi liberi si può trovare una saggezza
e una sagacia pubblica più reale che nei gabinetti dei
principi [...]. La vostra importanza, quindi, dipende nel suo
complesso dall'uso discreto e costante della vostra ragione" (v.
Matteucci, 1980). Naturalmente, ed è appena il caso di
ricordarlo, Constant ha una concezione rigorosamente censitaria del
diritto elettorale, e per lui l'opinione pubblica è
l'opinione dei possidenti. E tuttavia resta il fatto che egli
formula la concezione più completa e avanzata che sia stata
espressa fino a quel momento dell'opinione pubblica, come terreno
nel quale la rappresentanza deve affondare le proprie radici, e come
sfera i cui orientamenti ideali e politici devono avere la massima
libertà di manifestarsi. Si inserisce in tale contesto
l'appassionata difesa che Constant ha sempre fatto della
libertà di stampa.
È, questo, un tema che percorre tutta la meditazione politica
del grande pensatore liberale, e che trova forse la sua formulazione
più alta nel grande discorso da lui pronunciato il 13
febbraio 1827 alla Camera dei deputati contro il progetto di legge
relativo alla censura sulla stampa. In questo discorso Constant
supera i limiti classisti della sua concezione politica là
dove afferma che la libertà di stampa "è necessaria
per tutte le classi", poiché, "come i cittadini hanno bisogno
di chiamare aiuto quando sono aggrediti per strada o quando di notte
si viola il loro domicilio, così hanno bisogno della stampa
per poter reclamare quando sono colpiti dall'arbitrio e dalle
vessazioni" (in Antologia degli scritti politici di Benjamin
Constant, Bologna 1962, p. 145). Come si vede, la libertà di
stampa è considerata qui come una fondamentale libertà
civile che spetta a tutti, quale che sia la loro condizione sociale.
Certo, l'obiettivo del governo di Carlo X era quello di imbavagliare
in primo luogo e soprattutto la classe media, la quale, dice
Constant, "è indipendente perché la sua ricchezza si
fonda sul suo lavoro, è illuminata perché legge e
ragiona, ama la giustizia perché non ha interessi contrari
alla giustizia". Questa classe costituisce il nerbo della nazione:
ecco perché il governo vuole abbrutirla o distruggerla. Ma
distruggerla senza abbrutirla è impresa difficile; e
poiché essa è consapevole dei suoi diritti, che
quarant'anni di esercizio le hanno reso cari, e che la
libertà di stampa aiuta a ricordare e a difendere, ecco che
il governo vuole impedirle di leggere per farle dimenticare quei
diritti; dopo sarà più facile impedirle di parlare e
opprimerla senza ostacoli (p. 149).
Ma, continua Constant, pur essendo l'attacco del governo diretto
principalmente contro la classe media, è la pubblica opinione
in generale che esso vuole coartare e disarticolare. Nel mirino del
governo, infatti, ci sono in primo luogo i giornali quotidiani, che
sono ormai divenuti un bisogno per tutti. "Essi sono espressioni di
diverse opinioni, costituiscono un legame intellettuale fra i
cittadini che accolgono le diverse opinioni, aiutandoli così
nella comprensione reciproca. Ma non bisogna che i cittadini si
comprendano. Nessun legame deve esistere tra loro. Solo così
il dispotismo può rovesciarsi su questi atomi isolati come
sulla polvere" (p. 150).Libertà di stampa, dunque, come
condizione essenziale del formarsi di libere opinioni individuali,
le quali vengono a costituire tutte insieme l'opinione pubblica
quale baluardo fondamentale contro il dispotismo. Su questi temi
Constant ha insistito e martellato durante tutta la Restaurazione,
assai prima e assai più efficacemente dei cosiddetti
'dottrinari' (Royer-Collard, Guizot, ecc.), al fine di rendere
più ampio e più saldo quel poco di libertà di
stampa che era stato accordato dai Borboni, in verità con
molta parsimonia. E del resto, quando i dottrinari verranno
maturando una posizione sempre più critica verso la
legislazione borbonica e sempre più favorevole alla
libertà di stampa, anche e soprattutto dei giornali, quale
condizione fondamentale per il formarsi di una libera opinione
pubblica, si esprimeranno con concetti e quasi con parole
constantiani (v. Compagna, 1979, p. 157). "Nessuno oggi ignora -
dice Royer-Collard alla Camera nel dicembre 1817 - che per le
società moderne sparse su vasti territori e che mai si
riuniscono in una comune deliberazione, la libera pubblicazione
delle opinioni individuali attraverso la stampa non è
soltanto condizione della libertà politica, ma ne è il
principio primo, poiché essa sola può formare nel seno
di una nazione un'opinione generale circa i suoi problemi e i suoi
interessi" (cfr. P. de Barante, La vie politique de M.
Royer-Collard, ses discours et ses écrits, Paris 1861, vol.
I, p. 340).
Il concetto di opinione pubblica ha un ruolo significativo anche
nell'opera di Marx. Marx vede nella separazione fra Stato (sfera
giuridico-istituzionale) e società civile (sfera
economico-sociale) una delle caratteristiche essenziali della
società borghese moderna. In questa società tutti sono
eguali nell'ambito giuridico-istituzionale, ma tutti sono disuguali
nella sfera economico-sociale. Le istituzioni politiche (e,
più in generale, la macchina statuale borghese) mostrano
però di essere non già degli strumenti 'neutri',
bensì degli strumenti che servono a garantire e a perpetuare
l'ineguaglianza sociale e lo sfruttamento capitalistico. Sin dalle
sue opere giovanili, Marx indica nel superamento della scissione fra
Stato e società civile, fra sfera politica e sfera sociale,
la condizione fondamentale per realizzare un'eguaglianza effettiva,
ovvero per edificare la società socialista caratterizzata
dall'autogoverno dei produttori, nella quale la politica nella sua
separatezza scompare e viene riassorbita dalla comunità
autoregolantesi. Nelle opere della maturità Marx vede nel
regime parlamentare borghese il "regime dell'irrequietezza", ovvero
un regime che, in quanto vive della discussione, e fa continuamente
appello alle opinioni diffuse nel paese, cioè all'opinione
pubblica, mette continuamente in forse se stesso e la sua
separatezza dalla sfera sociale.
Marx dice infatti a proposito del regime parlamentare: "La lotta
degli oratori alla tribuna provoca le polemiche violente dei
giornali; il club di discussione che è il Parlamento viene
necessariamente completato dai club di discussione dei salotti e
delle osterie; i rappresentanti, che continuamente fanno appello
all'opinione pubblica, autorizzano l'opinione pubblica a esprimere
con delle petizioni la sua vera opinione. Il regime parlamentare
rimette tutto alla decisione delle maggioranze; come le grandi
maggioranze non dovrebbero voler decidere al di fuori del
Parlamento? Se alla sommità dell'edificio dello Stato si
suona il violino, come non aspettarsi che quelli che stanno in basso
si mettano a ballare?" (Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte -
1852 - Roma 1947, p. 67). Marx intende dunque per opinione pubblica
l'insieme delle esigenze, delle rivendicazioni e delle convinzioni
delle grandi masse popolari, che aspirano a diventare protagoniste
della vita sociale e politica, e che quindi mirano a sopprimere
tutte le istituzioni e tutti i diaframmi che si frappongono davanti
a tale obiettivo.
3. La critica dell'opinione pubblica in Tocqueville e Mill
In tutti gli autori visti finora, l'opinione pubblica ha sempre (con
la sola eccezione di Hegel) un significato incondizionamente
positivo: il suo libero formarsi e il suo libero esplicarsi sono
considerati dagli scrittori liberali come la garanzia essenziale
contro i pericoli del dispotismo. Marx, a sua volta, considera
l'opinione pubblica come uno strumento per abbattere e superare la
separatezza della politica dalla sfera sociale.Con Tocqueville e con
J.S. Mill incomincia però un modo nuovo di valutare la
pubblica opinione, assai più critico e assai più
pessimista.La ferma difesa della libertà di stampa è
un tema centrale anche dell'opera di Tocqueville (la cui formazione,
del resto, avviene sotto l'influsso delle correnti culturali e
politiche liberali dell'età della Restaurazione: basti
pensare all'intensità del suo sodalizio intellettuale con
Royer-Collard). Ma nella prima parte della Democrazia in America
(1835) Tocqueville richiama energicamente l'attenzione sui pericoli
del dominio irresistibile della maggioranza, che nelle
società democratiche viene a configurare una vera e propria
tirannide della pubblica opinione ai danni delle minoranze e dei
dissenzienti.
Nella seconda parte (1840) del suo capolavoro Tocqueville ritorna
più ampiamente sui pericoli di conformismo, di dispotismo
della maggioranza e quindi dell'opinione pubblica, insiti nella
società democratica di massa.
Tocqueville rileva a questo proposito che, a mano a mano che i
cittadini diventano più uguali e più simili, la
disposizione di ciascuno a identificarsi nella massa e a credere in
essa aumenta, ed è sempre più l'opinione comune a
guidare il mondo. Il pubblico viene quindi a godere, presso i popoli
democratici, di un singolare potere: "non fa valere le proprie
opinioni attraverso la persuasione, ma le impone e le fa penetrare
negli animi attraverso una specie di gigantesca pressione dello
spirito di tutti sull'intelligenza di ciascuno", sicché "si
può prevedere che la fede nell'opinione pubblica
diverrà come una specie di religione, di cui la maggioranza
sarà il profeta" (La democrazia in America, in Scritti
politici, vol. II, Torino 1968, pp. 498-499). Si delinea così
il pericolo di un nuovo dispotismo, tanto più pericoloso in
quanto non controlla solo i movimenti e le azioni esteriori,
bensì annichila l'autonomia dello spirito e isterilisce la
creatività dell'intelligenza.Il fatto è che la
democrazia, come è uguaglianza delle condizioni sociali e
livellamento intellettuale e morale dei singoli, così produce
un analogo livellamento nello spirito pubblico. Uomini uguali nei
diritti, nell'educazione, nella fortuna, cioè uomini di
uguale condizione, hanno necessariamente bisogni, abitudini e gusti
assai simili. "Siccome - dice Tocqueville - vedono le cose sotto lo
stesso aspetto, la loro mente propende naturalmente verso idee
analoghe, e per quanto ciascuno possa discostarsi dai suoi
contemporanei e farsi convinzioni proprie, finiscono per ritrovarsi
tutti, senza saperlo e senza volerlo, in un certo numero di opinioni
comuni" (p. 751). In una società siffatta le
personalità fortemente marcate e originali sono sempre
più rare, e in ogni caso per esse diventa sempre più
difficile affermare idee e concezioni nuove. Nelle democrazie le
grandi rivoluzioni intellettuali e spirituali diventano sempre
più difficili.
Contro queste tendenze della società democratica di massa,
Tocqueville fa appello soprattutto a due strumenti:
l'associazionismo e la libertà di stampa. Egli dice che
un'associazione politica, o industriale, o commerciale, o
scientifica, o letteraria "è come un cittadino illuminato e
potente, che non può essere assoggettato a piacere, né
oppresso in segreto, e che, difendendo i suoi diritti particolari
contro le esigenze del potere, salva le libertà comuni" (p.
818). Nella libertà di stampa, poi, Tocqueville vede un
efficacissimo strumento per la difesa dell'individuo contro i
pericoli della società egualitaria e la sua tendenza al
conformismo. Poiché in tempi d'uguaglianza il cittadino
è completamente isolato, atomo fra atomi, e completamente
alla mercé delle opinioni dominanti, egli ha un solo modo per
difendersi: rivolgersi alla nazione intera attraverso la stampa.
"Così, la libertà di stampa è infinitamente
più preziosa nelle nazioni democratiche, che non nelle altre;
essa è il solo rimedio alla maggior parte dei mali prodotti
dall'eguaglianza" (ibid.).
Questa analisi tocquevilliana della società democratica di
massa, e dei suoi pericoli, è condivisa da John S. Mill, il
quale rimprovera a Bentham e ai suoi seguaci di aver voluto rendere
"sempre più stretto il giogo dell'opinione pubblica addosso a
ogni pubblico funzionario". E aggiunge: "Certamente si è
fatto abbastanza per una potenza quando essa è divenuta la
più forte; da questo punto in poi bisogna preoccuparsi
piuttosto che questa potenza non schiacci tutte le altre" (Bentham,
in "London and Westminster Review", agosto 1838).
Ma è soprattutto nel saggio On liberty (1859) che Mill
sviluppa motivi di critica dell'opinione pubblica assai simili a
quelli sviluppati da Tocqueville. Anche a Mill il dominio
dell'opinione pubblica appare ormai come il dominio dei molti e dei
mediocri: "È mera volgarità - egli afferma - il dire
che l'opinione pubblica illuminata governa presentemente il mondo:
il solo potere che ne meriti il nome è quello delle masse.
Ciò si avvera tanto nelle reazioni morali e sociali quanto
negli affari politici [...]. E quello che è ancora più
nuovo e strano è che le masse attualmente non attingono
né ricevono più le loro opinioni, come una volta, dai
grandi dignitari della Chiesa e dello Stato, oppure da qualche capo
visibile, o dai libri. Le opinioni delle masse sono formate da
persone uscite dal loro seno e pressappoco della loro stessa
levatura, persone che s'indirizzano al pubblico o parlano in suo
nome sulle questioni della giornata, per mezzo dei giornali" (La
libertà, Torino 1925, pp. 100-101).
Mill condivide la preoccupazione di Tocqueville circa il destino
dell'individuo nella società democratica di massa, in quanto
questa società tende a inaridire qualunque originalità
individuale e a far trionfare un conformismo universale. L'Europa -
dice Mill richiamandosi esplicitamente a Tocqueville - sta avanzando
verso l'ideale cinese di rendere tutti gli uomini uguali; classi e
individui diventano di giorno in giorno più simili. Oggi la
gente legge le stesse cose, ascolta le stesse cose, vede le stesse
cose, va negli stessi posti, ecc. Sorge così un'opinione
pubblica con gli stessi gusti, gli stessi pensieri, gli stessi
sentimenti, le stesse esigenze, le stesse aspirazioni, lo stesso
stile di vita. E a tale opinione pubblica gli uomini politici devono
adeguarsi, pena il venir meno del consenso. Il non-conformismo perde
così qualsiasi sostegno sociale.Anche in Gran Bretagna,
dunque, il concetto di opinione pubblica, diffuso già nel
Settecento (l'Oxford dictionary lo aveva registrato nel 1781) con
significato incondizionatamente positivo, incomincia ad assumere
nella seconda metà dell'Ottocento, con John S. Mill, un
significato prevalentemente negativo.
4. L'opinione pubblica nelle società industriali avanzate
Nelle società industriali avanzate del nostro secolo - con la
concessione del suffragio universale, con il formarsi dei grandi
partiti politici e dei grandi sindacati, con il sorgere delle grandi
organizzazioni economiche, con l'intervento sempre più ampio
dello Stato nell'economia, e altresì con l'enorme diffusione
dei mezzi di comunicazione di massa (quotidiani, rotocalchi, radio e
televisione) - il processo di formazione dell'opinione pubblica
è diventato sempre più complesso, e tale
complessità è stata studiata dalle scienze sociali
(sociologia e politologia, in primo luogo). È ormai ammesso
da tutti gli studiosi che nelle società industriali avanzate
(rette da istituzioni democratiche, beninteso, poiché nei
regimi totalitari il problema non si pone nemmeno) il processo di
formazione dell'opinione pubblica non è più qualcosa
di assolutamente libero, autonomo e spontaneo (come poteva avvenire
nelle ristrette élites delle società ottocentesche), e
che su di esso influiscono vari elementi (economici e politici) che
lo condizionano 'dall'alto', per così dire, e lo plasmano in
misura più o meno ampia. L'ampiezza e l'efficacia di questo
condizionamento sono oggetto di discussione.Già W. Lippmann,
nel suo libro Public opinion, pubblicato nel 1922 (che costituisce
uno dei primi lavori seri e profondi sull'argomento), aveva
osservato che nelle società industriali avanzate, per la loro
grande complessità, per l'ampiezza del pubblico e la sua
stratificazione in classi e ceti sociali, per l'impatto crescente
dei mezzi di comunicazione di massa, "ciò che l'individuo fa
si fonda non su una conoscenza diretta e certa ma su immagini che
egli si forma o che gli vengono date". L'insieme delle immagini in
base alle quali gli individui o i gruppi di individui agiscono,
costituisce per l'appunto l''opinione pubblica'.
Ma tali immagini vengono diffuse - con un grado più o meno
cosciente di manipolazione - attraverso i mass media dalle grandi
forze (economiche, politiche, religiose, militari) dominanti nella
società.Sull'idea che nelle società industriali
avanzate l'opinione pubblica sia il risultato di un insieme
complicato e variegato di processi di 'manipolazione', o comunque di
forte pressione dei ceti superiori sui ceti inferiori, ha poi
insistito una vasta letteratura. Così per esempio, Lazarsfeld
(v., 1955; v. Lazarsfeld e altri, 1944) ha sostenuto che mentre
all'interno di ogni strato sociale si ha una diffusione orizzontale
delle mode e delle abitudini di consumo, fra i vari strati sociali,
invece, la diffusione delle idee politiche procede in senso
verticale, poiché va dai gruppi di status più elevato
a quelli di status inferiore. Secondo Lazarsfeld, infatti, gli
"opinion leaders in public affairs" sono quasi sempre più
colti e hanno una posizione sociale superiore rispetto ai gruppi che
sono soggetti alla loro influenza.Una diagnosi estrema - nel senso
che nelle società industriali avanzate l'opinione pubblica
non solo sarebbe interamente eterodiretta, ma addirittura
scomparirebbe in quanto tale, sicché non avrebbe più
senso parlare di essa - è stata formulata dalla Scuola di
Francoforte. Jürgen Habermas - esponente della seconda
generazione di questa Scuola - ha sostenuto in un fortunato libro
(Strukturwandel der Öffentlichkeit, 1962) che il venir meno,
nelle società industriali avanzate, di qualsiasi confine fra
pubblico e privato, fra sfera sociale e sfera politica, fra Stato e
società civile, ha del tutto annichilito quella che una volta
veniva chiamata opinione pubblica. In particolare, Habermas ha
insistito su alcuni aspetti, che qui richiameremo schematicamente.
1. Compenetrazione di sfera pubblica e ambito privato. Il sorgere di
grandi imprese, sia private sia (in molti paesi) pubbliche, e
l'intervento crescente dello Stato nell'economia e nel campo
assistenziale, con il connesso costituirsi di grandi burocrazie,
fanno vacillare e poi scomparire la barriera fra Stato e
società civile. Sempre più spesso, poi, ha luogo un
trasferimento di compiti dell'amministrazione pubblica a imprese,
enti, istituti parastatali di diritto privato, cioè ha luogo
una sorta di privatizzazione del diritto pubblico. Ma avviene anche
il processo inverso di appropriazione del pubblico da parte del
privato: le grandi imprese costruiscono alloggi o aiutano il
lavoratore a farsi una casa, costruiscono edifici scolastici, chiese
e biblioteche, organizzano concerti e rappresentazioni teatrali,
tengono corsi di cultura popolare, assistono le persone anziane, gli
orfani, ecc. In altre parole, tutta una serie di funzioni che in
origine venivano svolte da istituzioni pubbliche, vengono assunte
ora da organizzazioni private. Il privato si trasforma così,
direttamente e senza mediazioni, in pubblico. E non è raro il
caso in cui l'oikos della grande impresa permea la vita dell'intera
città e dà origine a quel fenomeno che è stato
definito 'feudalesimo industriale'. Autori americani possono
perciò fare studi di psicologia sociale sul cosiddetto
organization man, senza badare se esso appartenga a una
società privata, a un ente semipubblico o a una pubblica
amministrazione: quello che conta qui è che organization
è sinonimo di grande azienda, la quale pianifica, plasma e
controlla, in tutti i suoi dettagli, la vita di centinaia di
migliaia, di milioni di individui.
2. Dal pubblico culturalmente critico al pubblico consumatore di
cultura. Nella società dell'organization man la tendenza al
dibattito pubblico continua ancora a manifestarsi. Le cosiddette
'pubbliche discussioni', le tavole rotonde, le tribune politiche, i
dibattiti culturali, vengono continuamente promossi. La radio, le
case editrici, le associazioni fanno di tutto ciò una
fiorente attività collaterale. Tutto sembra dimostrare che ci
si prende la massima cura della discussione e che la sua diffusione
non ha limiti. Tuttavia, a veder bene, essa ha subito una
trasformazione sostanziale: ha assunto la forma di un bene di
consumo. E anche il consumo culturale è al servizio della
propaganda economica e politica, cioè della propaganda delle
grandi aziende e delle grandi organizzazioni politiche, strettamente
intrecciate fra loro e saldamente alleate per assestare il consenso
della pubblica opinione sui loro interessi e sulle loro esigenze. Ma
qui la pubblica opinione è ormai svuotata di ogni autonomia,
e quindi di ogni ruolo che non sia quello della subordinazione dei
singoli agli 'interessi superiori', e della conservazione acritica
dello status quo economico-politico. A ciò contribuiscono
efficacemente i nuovi mezzi di comunicazione di massa (radio,
cinema, televisione), che fanno scomparire gradualmente il distacco
che il lettore conservava di fronte alla parola stampata. Con i
nuovi mezzi, la forma della comunicazione stessa si trasforma; essi
sono molto più 'penetranti', nel senso stretto del termine,
di quel che sia mai stata la stampa. Il comportamento del pubblico
assume nuove forme sotto la costrizione del don't talk back ('non
replicare').
In confronto alle comunicazioni stampate, i messaggi diffusi dai
nuovi mezzi di comunicazione riducono singolarmente le reazioni del
ricevente; essi avvincono il pubblico come ascoltatore e come
spettatore.A veder bene, questa analisi di Habermas (che deve molto
a L'uomo a una dimensione di Marcuse e ad altri testi della Scuola
di Francoforte) dimostra troppo. Infatti, se essa fosse del tutto
vera, non dovrebbero più aver luogo, nelle società
industriali avanzate, grandi mutamenti nella pubblica opinione,
essendo quest'ultima così manipolata da essere completamente
'congelata' e quindi virtualmente scomparsa. Senonché la
storia sociale e politica degli ultimi decenni ci mostra invece,
nelle società industriali avanzate, profondi mutamenti nella
pubblica opinione, sia nella politica sia nel costume (mutamenti
dovuti a volte a grandi avvenimenti internazionali - come, per
esempio, la guerra in Vietnam - ma non esclusivamente: basti pensare
al grande movimento femminista e al suo profondo influsso sulla
pubblica opinione, o su vasti settori di essa, per ciò che
attiene al ruolo della donna nella società, ai rapporti fra i
sessi, ecc.).
La letteratura più interessante sull'opinione pubblica ha in
realtà un approccio al problema assai meno manicheo di quello
della Scuola di Francoforte. Essa non solo mette in rilievo che
un'opinione pubblica puramente autonoma e una puramente eteronoma
costituiscono tipi ideali che non esistono, come tali, nel mondo
reale, ma nega anche la passività delle cosiddette masse, e
anzi sottolinea come il destinatario dei messaggi sia, nel
riceverli, assai più attivo che passivo (v. Sartori, 1979, p.
939).
Per quanto riguarda i processi di formazione della pubblica
opinione, sono stati elaborati, dai sociologi e dai politologi, due
grandi modelli. Uno è il cosiddetto 'modello a cascata',
proposto da K.W. Deutsch (v., 1968). Secondo questo autore si
possono distinguere cinque livelli o 'serbatoi' della cascata. Nel
primo circolano le idee delle élites economiche e sociali;
nel secondo si confrontano e si scontrano le élites politiche
e di governo; nel terzo operano le comunicazioni di massa, con la
loro continua diffusione di messaggi; nel quarto operano i 'leaders
d'opinione' a livello locale, che hanno un ruolo determinante nel
plasmare le opinioni dei gruppi sociali con i quali interagiscono;
nel quinto livello troviamo il demos considerato nella sua
totalità.Il significato del 'modello a cascata' proposto da
Deutsch è più complesso di quanto lo schema ora
esposto lasci supporre. Sartori ne ha evidenziato tre aspetti: "Il
primo è l'importanza del livello dei leaders di opinione
locale: un punto di passaggio e di intermediazione che è
stato per lungo tempo sottovalutato. Il secondo aspetto è che
nessuno dei livelli è monolitico e nemmeno, di solito,
solidale: all'interno di ogni serbatorio le opinioni e gli interessi
sono discordi, i canali di comunicazione molteplici e polifonici. Il
che equivale a dire che a ogni livello troviamo un ciclo completo di
dialettica di opinioni, un crogiolo a sé stante di formazione
dell'opinione. Il terzo aspetto è che, per quanto l'andamento
di una cascata sia discendente, tuttavia Deutsch sottolinea la
continua presenza di feed-backs, di retroazioni di risalita.
Per quest'ultimo rispetto si potrebbe sostenere che il modello della
cascata incorpora, come proprio elemento interno, quello del
ribollimento, del bubble-up" (v. Sartori, 1979, p. 939).
Il modello del 'ribollimento', del bubble-up, è appunto il
secondo modello elaborato da sociologi e politologi per spiegare i
processi di formazione della pubblica opinione. Secondo questo
modello, tali processi non vanno dall'alto verso il basso,
bensì dal basso verso l'alto: nel senso che nel pubblico, o
in vasti settori o strati di esso, si formano continuamente dei
'ribollimenti' o movimenti d'opinione, in modo repentino e
inaspettato, che non sono stati previsti, e che spesso non sono
affatto desiderati, dalle élites dirigenti (economiche,
politiche, militari, religiose, ecc.).Giovanni Sartori ha proposto
un'integrazione dei due modelli. Del primo egli ha dato, peraltro,
una interpretazione dinamica. Così egli ha messo in rilievo
che se si parte dal livello della classe politica (poiché la
pubblica opinione si caratterizza come tale in primo luogo in
rapporto a quel che dicono e a quel che fanno i politici), non si
deve perdere di vista il fatto che la classe politica è un
microcosmo altamente competitivo nel quale i partiti manovrano per
rubarsi gli elettori, e i politici guerreggiano tra loro all'interno
dei rispettivi partiti. Dalla conflittualità fra i partiti, e
fra i leaders all'interno dei partiti, partono pressoché
infinite e assai contrastanti voci, che arrivano al personale dei
media. Questo personale, però, non le ritrasmette tali e
quali, bensì le seleziona, le interpreta, le modifica, le
distorce, ecc., e sovente esso è fonte autoctona di messaggi.
I leaders di opinione a livello locale, a loro volta, fanno da
filtro, e possono rinforzare i messaggi che ricevono, possono
depotenziarli, possono distorcerli, e così via.
C'è poi un punto che Sartori sottolinea con grande forza, ed
è il ruolo degli intellettuali nella società
contemporanea. In questa società 'postindustriale' il numero
degli intellettuali è cresciuto a dismisura, e di conseguenza
è aumentato anche il loro peso specifico. Oggi gli
intellettuali non operano solo nelle scuole e nelle
università, ma anche nei media e in molte altre direzioni.
"L'espansione della professione intellettuale - dice Sartori - e la
sua diffusione più o meno irrequieta in tutto il corpo
sociale porta dunque acqua al modello del bubbling-up, e intensifica
il fermentare di opinioni che non cascano affatto dall'alto ma che,
all'opposto, pullulano e germogliano, sia pure in piccoli nuclei di
intellighenzie, a livello di massa" (v. Sartori, 1979, p. 940).A
tutto ciò bisogna aggiungere che le opinioni di ogni singolo
individuo derivano anche, e in non piccola parte, da 'gruppi di
riferimento': la famiglia, il gruppo di lavoro, l'identificazione
partitica, religiosa, di classe, etnica, ecc. "L'io - dice Sartori -
è un io-in-gruppo, che si integra nei gruppi, e con i gruppi,
che costituiscono i suoi punti di riferimento" (ibid.).
Alla luce di questo quadro, estremamente variegato e complesso,
Sartori conclude che l'opinione pubblica è fatta da tutti e
da nessuno, nel senso che essa risulta da un crogiolo di influenze e
controinfluenze. Ciò significa che nella società
contemporanea l'opinione pubblica è sostanzialmente
"autentica perché autonoma, e [...] autonoma per quel tanto
che basta a fondare la democrazia come governo di opinione" (ibid.).
A ciò si può aggiungere che, nonostante l'enorme peso
che la televisione ha assunto nel mondo d'oggi, non è certo
diminuito il ruolo dei giornali d'opinione (sia quotidiani che
settimanali), e che anzi esso si è accresciuto, proprio per
il livello culturale sempre più elevato della popolazione.
Ora, i giornali risentono sì, in misura più o meno
grande a seconda dei casi, degli interessi economici e politici ai
quali fanno riferimento; ma i grandi giornali di opinione, con i
bilanci in attivo grazie alla loro diffusione, hanno, in
virtù dell'appoggio delle centinaia di migliaia di lettori
che li acquistano, un notevole grado di autonomia e di indipendenza.
Questo fatto era già stato colto assai bene da Lippmann, in
uno dei capitoli più importanti del suo libro del 1922. Un
giornale, egli diceva, può difendere o attaccare potenti
interessi economici, "ma se si aliena le simpatie del pubblico che
ha potere di acquisto, perde il solo patrimonio indispensabile alla
sua esistenza". Il rapporto col pubblico - rapporto fondato
esclusivamente sulla qualità delle analisi e dei commenti,
poiché le notizie vere e proprie oggi vengono diffuse
rapidissimamente da radio e televisione - diventa quindi decisivo
per la sopravvivenza o per il successo del giornale. La pubblica
opinione (o vasti settori di essa) diventa così il fondamento
e la garanzia della diffusione dei giornali; e i giornali, a loro
volta, forti di questo sostegno, contribuiscono a formare la
pubblica opinione.