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di S. A. Ch.
È una raccolta, secondo la tradizione, di cento novelle; in origine forse di un numero maggiore, composta, come la critica pare oggi concorde nel ritenere, sul cadere del secolo XIII da un unico autore, un fiorentino ignoto. Nel preambolo - bellissimo - in cui il dono della parola è vagheggiato con la gioia commossa di un primo possesso, l'autore dichiara esplicitamente il suo intento, ch'è quello di far "memoria d'alquanti fiori di parlare, di belle cortesie, ecc.", perché "chi avrà cuore nobile e intelligenzia sottile" possa servirsene "a prode ed a piacere di coloro che non sanno e disiderano di sapere". Per questo scopo didattico e ricreativo, l'autore coglie i suoi "fiori" dalle più svariate opere che si leggessero ai suoi tempi, e dalle redazioni correnti piuttosto che dagli originali (dalla Bibbia ai favolelli, da S. Gregorio a Petronio Arbitro, da Valerio Massimo alle vite dei Ss. Padri o dei trovatori provenzali, ai romanzi di cavalleria, alla Disciplina clericalis, ecc.) disponendoli di solito con un certo ordine che ora è interno e ora soltanto esteriore.
Alle fonti scritte si aggiungono motti e leggende popolari di tutti i tempi e luoghi, tratti dalla tradizione orale, e aneddoti e macchiette, specie dell'ambiente fiorentino o bolognese, che hanno tutta l'aria di cose vissute. Ma, pur traducendo, alterando, talvolta aggiungendo, ma più spesso, secondo il costume medievale, accorciando, l'autore impronta quasi sempre la materia della sua personalità e del suo stile. Anzitutto un senso vivo della realtà, un'assai fine esperienza del cuore umano distinguono questa da tutte le analoghe raccolte precedenti. Tra molte novelle per questo riguardo significative, singolarissima è la 34: dove con cristallina evidenza è narrato il processo per cui una semplice supposizione, coltivata nel segreto del cuore, si trasforma in realtà, con tutte le conseguenze che ne derivano. E chi confronti il consiglio che i giovani dànno al nuovo re Roboam nella nov. 7, con le parole della Bibbia da cui deriva, rimarrà stupito del realismo potente e della logica che è nel discorso del Novellino. Questo chiaro intuito del cuore umano insinua nel racconto sfumature ora di amarezza ora d'ironia sottilissime, sullo sfondo di una sapiente rassegnata accettazione della vita qual'è.
La schietta
onestà della coscienza e la saldezza della fede dell'autore
non si manifestano difatti mai né con i predicozzi
moraleggianti cari ai suoi predecessori e neppure con riflessioni
esplicite, che sono rarissime, sì bene nella finezza appunto
delle sottolineature e nella precisione del tono. Che è
quello della saggezza, o, per dirla col suo Federico, della
"misura", "la miglior cosa di questo mondo". Ciò non toglie
che, dovunque trovi esempî di più nobile
umanità, si commuova e si esalti, sia pur misuratamente. Si
leggano le magnifiche lodi di Federico II (21) e si confronti
l'elegia sconsolata della morte del Re Giovane (20) col passo
insignificante del Conto di antichi cavalieri, da cui par che
derivi.
Né meno il novellatore si compiace del dono
dell'intelligenza. dello spirito, del sangue freddo: è il
dono che procura il successo finale: la beffa ha in questo la sua
giustificazione e il suo gusto; e anche i cavilli e formalismi
giudiziarî di cui si fa forte la malvagità umana (al
qual proposito si ricordi l'ipotesi tutt'altro che infondata che
l'autore del Novellino fosse un notaro) non sono vinti che dalle
trovate dell'intelligenza. Per questo piacere dell'intelligenza,
come per l'assenza di vera passione e per la visione realistica
della vita, il Novellino può considerarsi un'anticipazione
del Decameron e la più caratteristica espressione dello
spirito italiano all'inizio della prosa letteraria in volgare. E
anche nelle novelle, specialmente romanzesche, dove meno evidenti
appaiono i segni della personalità dell'autore (pochissime
sono le novelle di nessun pregio), trovi quest'equilibrio dello
spirito, riflesso nella perfetta misura dello stile; che è
semplice, ma non ingenuo; è scarno e lineare, ma di compiuta
chiarezza; con periodi brevi e talora staccati, che nulla tolgono
alla continuità del racconto, anzi creano una rapidità
fulminea di movimenti, che assume atteggiamento di breve dramma nei
dialoghi frequentissimi. Nella sua nudità, talvolta, come
nella novella famosa di Piero tavoliere, o nell'aneddoto di Azzolino
e l'imperatore (84), la rappresentazione è tutta nervi.
L'esposizione è precisa e sicura: i tempi dell'azione sono
scanditi in ordine nettamente, come nei disegni dei primitivi; non
ci sono anticipazioni: la spiegazione dei fatti è data, con
subito effetto di arte, solo dopo la rappresentazione di essi; e la
chiusa è generalmente perfetta.
La denominazione di Novellino, sebbene d'uso comune già nel
Cinquecento, fu adottata solo con la stampa di Milano 1836. La
1ª ed., pei cura di C. Gualteruzzi (Bologna 1525), ebbe come
titolo Le ciento novelle antike. Nel 1572 V. Borghini al suo
raffazzonamento aggiunse il titolo Libro di Novelle et di Bel Parlar
Gientile, titolo che è anche in uno dei manoscritti del
Novellino, il Cod. Panciatichiano 32, edito nel 1880 a Firenze,
insieme con il Laurenziano-Gaddiano 193, da G. Biagi, con una
introduzione sulla storia esterna del testo, di fondamentale
importanza. Il Cod. Vaticano 3214 fu edito da E. Sicardi nella
Bibliotheca romanica, Strasburgo 1909. L'edizione Gualteruzzi
è stata riprodotta da L. Di Francia nella Collezione di
Classici italiani, Torino 1930, con introduzione e note ottime.