Max Nordau: Discorso al Primo Congresso Sionista di Basilea

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Un documento storico

In occasione del secondo anniversario della sua fondazione Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguistica, offre ai suoi lettori e amici un documento storico: il discorso di Max Nordau al Primo Congresso Sionista di Basilea, del quale fu il primo vice-presidente, nell'agosto del 1897. Questo discorso, come l'insieme degli interventi al Congresso, è rimasto confidenziale per 111 anni e non è mai circolato se non in lingua tedesca. Il "Protocollo ufficiale" (cosi si chiama davvero) del Congresso, basato sulle note stenografiche, è stato pubblicato dall'Associazione Erez Israel di Vienna nel 1898 e ripubblicato nel 1911 a Praga.
Tlaxcala sta preparando un'edizione multilingue di 130 pagine di questo "Protocollo", documento storico fondamentale per comprendere la genesi dello Stato ebraico, che celebra quest'anno il suo 60° anniversario. Il discorso di Max Nordau che pubblichiamo oggi in più lingue è un'anticipazione di questa pubblicazione. Lanciamo un appello a tutti coloro che sono interessati a partecipare - finanziariamente e tecnicamente - a questo progetto.
                                        
Un colpo di poker

Nato nel 1849 a Budapest, Simon Miksa Südfeld cambia il proprio nome in Max Nordau quando si trasferisce a Berlino nel 1873. Giornalista, è inviato per conto di Die Neue Freie Press a Parigi, dove passerà la maggior parte della sua vita e morirà nel 1923.

Mentre la storia ha tramandato il nome di Theodor Herzl come fondatore del sionismo moderno, è di fatto Nordau che ha dato origine all'organizzazione del Congresso fondatore di Basilea svoltosi nella città svizzera dopo il rifiuto della comunità ebraica di Monaco di ospitarlo. Vi parteciparono 162 delegati.

Nordau, noto per le sue opere Le menzogne convenzionali della nostra civiltà (1883), Degenerazione (1892) e Paradossi sociologici (1896), è l'inventore del termine Entartung (degenerazione) che conoscerà il successo che sappiamo con i nazisti, che dichiararono battaglia all'arte degenerata.

Proprio come Herzl, Nordau è perfettamente assimilato nella cultura europea e assolutamente ateo. Come Herzl, si è scoperto ebreo al tempo dell'Affare Dreyfus, in seguito al quale ha concluso che l'assimilazione degli ebrei è un'illusione e che la sola soluzione possibile è la creazione di uno Stato-nazione fondato sui principi ereditati dal romanticismo tedesco e nella scia dei nazionalismi europei del XIX secolo. I termini utilizzati da Nordau nel suo discorso sono espliciti: parla degli ebrei come "Rasse" (razza) e come "Stamm" (stirpe).

La nascita del sionismo statale moderno segna una sconfitta del pensiero razionalista ereditato dagli illuministi e dalla rivoluzione francese in intellettuali che ne erano fortemente impregnati. La concezione romantica tedesca di nazione, che risulterà nell'ideologia Völkisch (nazional-popolare) del Blut und Boden (il sangue e la terra) comune al sionismo e al nazismo, si contrapponeva in modo evidente alla concezione ereditata dalla rivoluzione francese e riassunta in una formula suprema da Ernest Renan: "La nazione è un plebiscito quotidiano", vale a dire che non dipende da fattori "naturali" ma da un atto di volontà.
Nordau, Herzl e i loro compagni hanno messo in atto l'enigmatico colpo di poker che consisteva nel conciliare queste due concezioni contrapposte.

Esistono un prima e un dopo del Congresso di Basilea.

Prima del Congresso, Theodor Herzl scrive nel suo diario:

"È un fatto, che tengo nascosto a tutti, che dispongo soltanto di un esercito di Schnorrer [parassiti, truffatori in yiddish, N.d.T.]. Sono solo alla testa di ragazzini, mendicanti e Schmöck [scrocconi in yiddish, N.d.T.]. Molti mi sfruttano. Altri sono già invidiosi o sleali. I terzi si defilano non appena si presenta loro la possibilità di una piccola carriera. Pochi sono generosi entusiasti. Eppure questo piccolo esercito potrebbe essere sufficiente, sempre che abbiamo successo. In quel caso potrebbe diventare un solido esercito regolare. Vedremo allora cosa ci porterà il futuro prossimo".

Theodor Herzl, 24 agosto 1897, in : Briefe und Tagebücher. Bd. 2: Zionistisches Tagebuch 1895—1899. Berlin 1984, S. 535.

La sera del secondo giorno del Congresso, Herzl scrive:

"Non ho più bisogno di scrivere la cronaca della giornata di ieri, altri lo stanno già facendo."

Theodor Herzl, 30. agosto 1897, in : Briefe und Tagebücher. Bd. 2: Zionistisches Tagebuch 1895—1899. Berlin 1984, S. 538.

Quattro giorni dopo il Congresso, Herzl scrive:

"Se dovessi riassumere il Congresso di Basilea in una parola - cosa che mi guarderò bene dal fare pubblicamente - sarebbe questa: a Basilea ho fondato lo Stato degli ebrei. Se lo dicessi oggi sarei accolto da un'unanime risata. Forse tra cinque anni, al limite tra cinquanta, se ne renderanno conto tutti. Lo Stato è essenziale nella volontà nazionale del popolo, può perfino fondarsi sulla sola volontà di un individuo sufficientemente potente (l'État c'est moi, Luigi XIV). Il territorio non è che la base concreta, lo Stato ha sempre, anche quando dispone di un territorio, qualcosa d'astratto. Lo Stato della Chiesa esiste anche senza territorio, altrimenti il Papa non sarebbe sovrano. A Basilea ho creato dunque questa astrazione, invisibile agli occhi dei più. E di fatto con mezzi infinitesimali. Ho spinto gradualmente le persone verso la creazione di un clima nazionale e ho prodotto in loro la sensazione di essere l'Assemblea nazionale."

Theodor Herzl, 3. September 1897, in : Briefe und Tagebücher. Bd. 2: Zionistisches Tagebuch 1895—1899. Berlin 1984, S. 539.

Herzl aveva messo in atto il suo colpo.  

                                                                                                               Fausto Giudice

         

                  In alto: Herzl presso l'Hotel "des Trois Rois", Basilea, Agosto 1897.
                  Qui sopra: due immagini del congresso, Herzl nel suo ruolo di presidente.


                      
Poiché Tlaxcala è nata dall'incontro di scrittori e traduttori militanti che si sono conosciuti in occasione del lavoro di traduzione di un'intervista di Gilad Atzmon, ci è parso naturale chiedere a Gilad di presentare il discorso di Max Nordau.


Max Nordau - un'introduzione
Gilad Atzmon

 

Mi è stato chiesto di scrivere un'introduzione al Discorso di Max Nordau al Primo Congresso Sionista, ma la verità è semplice: il discorso di Nordau non necessita di un'introduzione. La sua presentazione del 1897 è una brillante esposizione dell'identità della Diaspora e della sua complessità.
Nonostante le sue origini ungheresi Nordau sentiva di appartenere alla cultura tedesca, e questo può spiegare il suo atteggiamento Völkisch e romantico. Tuttavia, come nel caso di Herzl, la conversione di Nordau al Sionismo fu innescata dall'Affare Dreyfus e da quello che gli apparve come l'inevitabile manifestazione dell'antisemitismo europeo.
Fino a un certo punto Nordau riuscì a preannunciare il completo fallimento del futuro stato ebraico. Lo struggimento nostalgico di Nordau nei confronti del ghetto, della segregazione e dell'isolamento ebraico possono essere visti come un'anticipazione dell'insostenibile realtà israeliana contemporanea, con i suoi "muri di difesa" e un possente arsenale nucleare che minaccia quotidianamente la pace del mondo.

"L'ebreo", dice Nordau, ritiene di "appartenere a una razza a parte, che non ha niente in comune con gli altri abitanti dello stesso paese. L'ebreo emancipato è insicuro nelle relazioni con i suoi simili, timido con gli estranei, sospettoso perfino verso i sentimenti segreti degli amici". Di conseguenza, secondo Nordau, l'ebreo non potrà mai riprendersi dalla perdita iniziale del ghetto, che egli descrive come un "rifugio". Per Nordau l'unico modo per salvare l'ebreo dalle sue condizioni umilianti era lanciare il progetto nazionale sionista.
Nordau, come molti pensatori romantici tedeschi del suo tempo, rifiuta lo spirito illuminista e razionalista che ha imposto l'emancipazione agli ebrei e alle loro nazioni-ospiti. "Le nazioni che hanno emancipato gli ebrei", dice, "hanno frainteso i propri sentimenti. Per avere pieno effetto, l'emancipazione sarebbe dovuta essere completa nel sentimento prima di essere dichiarata per legge". Secondo la linea di pensiero di Nordau, poiché gli ebrei non erano veramente amati dalle nazioni che li ospitavano il progetto di emancipazione era destinato al fallimento.
Secondo Nordau, alcuni ebrei avrebbero tentato di salvarsi l'anima diventando i “nuovi marrani”. Avrebbero abbandonato l'Ebraismo "con rabbia e amarezza, ma in cuor loro, anche se senza riconoscerlo, portano l'umiliazione, la disonestà, e un odio anche per il Cristianesimo che li ha costretti a mentire". Questa intuizione espressa da Nordau alla fine del XIX secolo contribuisce a spiegare la nascita di molte scuole di pensiero ebraiche cosmopolite che respingevano tanto il Sionismo quanto l'Ebraismo. Tuttavia, per quanto riguarda la politica ebraica, nessuna di queste scuole è sopravvissuta all'Olocausto. Il Bund, che era il principale rivale politico del sionismo, era scomparso. Di fatto, non una sola scuola politica ebraica cosmopolita è riuscita a sopravvivere fino al XXI secolo. Il Sionismo è la sola coerente ideologia politica organica e autentica che gli ebrei abbiano a disposizione.

Come predisse Nordau, il futuro Stato ebraico avrebbe risuscitato il Ghetto ebraico che egli stesso descrisse come
1. la via verso un'esistenza in cui l'ebreo trova infine le condizioni di vita più semplici ma più elementari.
2. un'esistenza sociale sicura in una comunità benevola.
3. un luogo che offre (all'ebreo) la possibilità di mettere a frutto le sue capacità per lo sviluppo del suo essere autentico.

Per triste che possa essere, questa è una descrizione molto accurata della realtà israeliana. Si tratta davvero di un'esistenza sociale sicura in una comunità benevola impegnata attivamente nella pulizia etnica della popolazione indigena sul territorio, cioè i palestinesi. In Israele l'ebreo celebra la "la possibilità di impiegare tutte le sue energie per lo sviluppo del suo vero essere". Questo significa in pratica: affamare gli abitanti di Gaza, sganciare bombe sui civili e fermare donne incinte ai posti di blocco.
Nello Stato ebraico gli israeliani cercano la propria autenticità. Tragicamente, questa stessa autenticità si traduce nell'inumana realtà dell'abuso totale nei confronti di milioni di palestinesi: quelli che si aggrappano disperatamente alla loro terra, quelli che subiscono il terrorismo di stato nel campo di concentramento di Gaza e quelli abbandonati nella Diaspora da 60 anni senza il permesso di ritornare alla terra che appartiene a loro e a loro soltanto.
Se Nordau fu abile nel delineare la complessità intrinseca dell'identità della Diaspora ebraica, non riuscì invece a intravedere quanto potesse diventare orribile lo Stato sionista quando gli ebrei avessero avuto la libertà di governare il loro “Stato ebraico”. In fin dei conti nessuno è perfetto, neanche Nordau.



 
  I 162 delegati ed il programma del congresso


Max Nordau: Discorso al Primo Congresso Sionista

Basilea, 29 agosto 1897



Dr. Max Nordau (Parigi): I rappresentanti speciali dei singoli paesi vi illustreranno le condizioni dei loro fratelli nei diversi stati. Alcune delle loro relazioni sono state sottoposte alla mia attenzione, altre no. Ma anche sui paesi di cui i miei collaboratori non mi hanno detto niente, ho, in parte grazie alle mie osservazioni e in parte attraverso altre fonti, ottenuto alcune informazioni che mi permettono di intraprendere, senza presunzione, il compito di riferire sulla situazione generale degli ebrei alla fine del XIX secolo.

Per dipingere questo quadro può, complessivamente, essere usato un solo colore. Ovunque, dove gli ebrei si sono insediati in numero relativamente consistente tra le nazioni, prevale la miseria ebraica. Non è la normale miseria che probabilmente costituisce il destino inalterabile dell'umanità. È una miseria peculiare, di cui gli ebrei non patiscono in quanto esseri umani, ma in quanto ebrei, e dalla quale sarebbero liberi se non fossero ebrei.

La miseria ebraica ha due forme, materiale e morale. Nell'Europa Orientale, nel Nord Africa e nell'Asia Occidentale - le regioni che ospitano la grande maggioranza, probabilmente nove decimi della nostra razza - la miseria degli ebrei va intesa letteralmente. È la fatica quotidiana del corpo, l'ansia per l'indomani, la dolorosa lotta per conservare la mera sopravvivenza fisica. Nell'Europa Occidentale la lotta per la sopravvivenza è stata resa in certo senso più lieve agli ebrei, anche se recentemente si è fatta visibile anche lì la tendenza a renderla nuovamente difficile. Il problema del cibo e del riparo, il problema della sicurezza della vita li tortura di meno; là la miseria è morale. Consiste negli insulti quotidiani all'onore e al rispetto di sé. Consiste nella rude repressione della ricerca di soddisfazioni spirituali, un'aspirazione alla quale nessun ebreo deve trovarsi costretto a rinunciare.

In Russia, la cui popolazione di ebrei ammonta a più di cinque milioni di persone e che è la patria di più della metà di tutti gli ebrei, i nostri fratelli sono sottoposti ad alcune limitazioni legali. Solo una setta ebraica poco numerosa, quella dei Caraiti, gode degli stessi diritti dei sudditi cristiani dello zar. Agli altri ebrei è proibito risiedere in gran parte del paese. Solo certe categorie di ebrei godono di libertà di movimento; per esempio, i commercianti della prima corporazione, i possessori di titoli accademici e via dicendo. Però per appartenere alla prima corporazione del commercio bisogna essere ricchi e pochi ebrei russi lo sono, e molti non possono neanche conseguire titoli accademici perché i centri statali di istruzione media e superiore permettono l'ingresso a un numero molto limitato di studenti ebrei e i diplomi stranieri non conferiscono alcun diritto davanti alla legge. Agli ebrei è proibito esercitare attività che sono consentite a tutti i russi cristiani. Questi infelici si affollano in alcuni distretti dove non hanno alcuna possibilità di mettere in pratica le loro capacità e la loro buona volontà. Le risorse educative dello Stato vengono loro lesinate e non possono aprire centri propri perché sono troppo poveri. Quando possono emigrano, per procurarsi all'estero l'aria e la luce negate loro in patria. Chi è non è abbastanza giovane e coraggioso continua a vivere nella miseria e nella degradazione mentale, morale e fisica.

Della Romania, con i suoi 250.000 ebrei, ci raccontano che anche lì ai nostri fratelli vengono negati dei diritti. Hanno il permesso di vivere solo nelle città, si trovano alla mercé di qualsiasi abuso delle autorità e dei funzionari più vili, sono esposti talvolta alla violenza sanguinaria della gentaglia e vivono nelle peggiori condizioni economiche. Il nostro rappresentante speciale per la Romania stima che la metà degli ebrei romeni si trovi nell'indigenza più assoluta.

Le situazioni che ci descrive il nostro rappresentante speciale per la Galizia sono spaventose. Secondo i dati del Dr. Salz, dei 772.000 ebrei della Galizia il 70% è costituito da mendicanti, poveri di professione che chiedono l'elemosina il più delle volte senza riceverla. Non voglio anticiparvi troppi dettagli della sua relazione. Non è necessario che sentiate una volta di più l'orrore che la sua relazione vi esporrà.

Quanto alla situazione nell'Austria occidentale, con circa 400.000 ebrei, è significativo il dato del Dr Mintz secondo il quale dei 25.000 abitanti ebrei di Vienna 15.000 sono così poveri da non riuscire a pagare la tassa religiosa. Dei 10.000 che la pagano, il 90% è soggetto alla tassa più bassa. Ma anche in queste categoria soggetta all'imposta minima, tre quarti non sono nella condizioni di adempiere a quell'obbligo. Diversamente da quello che avviene in Russia in Romania, in Austria la legge scritta non fa distinzione tra ebrei e cristiani. Però per le pubbliche autorità la legge è lettera morta, e la pratica ristabilisce la proscrizione degli ebrei che il legislatore aveva annullato. L'esclusione sociale fa sì che agli ebrei risulti difficile guadagnarsi da vivere, cosa che nel futuro prossimo diventerà del tutto impossibile.

Lo stesso lamento risuona dalla Bulgaria: una legge ipocrita che non fa differenza tra confessioni religiose, alla quale le autorità fanno però eccezione; un'ostilità che in tutti gli ambienti sociali respinge gli ebrei; necessità e miseria per l'immensa maggioranza, senza speranza di miglioramento.

In Ungheria gli ebrei non hanno di che lamentarsi. Godono di tutti i diritti civili, possono lavorare per guadagnarsi da vivere e la loro situazione economica è sempre più favorevole.
Di certo questa condizione felice non dura da tanto tempo da permettere agli ebrei di uscire dall'estrema povertà, così che anche in Ungheria la maggioranza di loro non è ancora giunta a conoscere il benessere. Inoltre chi è al corrente della situazione assicura che anche lì, sotto la superficie, continua ad ardere la fiamma dell'odio verso gli ebrei e che alla prima occasione divamperà con forza devastante.

Devo lasciare da parte i 150.000 ebrei del Marocco e quelli della Persia, di cui non conosco il numero. I più poveri non hanno più la forza per reagire alla miseria. La subiscono con cupa sottomissione, non si lamentano e richiamano la nostra attenzione solo quando la marmaglia assalta il ghetto, lo saccheggia e umilia e uccide i suoi abitanti.

I paesi che ho menzionato determinano il destino di più di sette milioni di ebrei. Tutti, a eccezione dell'Ungheria, per mezzo della limitazione dei diritti e la discriminazione ufficiale o sociale impongono agli ebrei la condizione di proletari o di mendicanti, senza concedere loro nemmeno la speranza di migliorare la propria situazione economica per quanto si sforzino di farlo individualmente o collettivamente.

Le persone "pratiche", che rinunciano a "sogni vani" e aspirano solo alle cose immediate e raggiungibili, sono dell'opinione che l'abolizione delle limitazioni legali dei loro diritti rimedierebbe alla miseria degli ebrei dell'Europa Orientale. La Galizia ci offre la confutazione di questa teoria. E non solo la Galizia. Il rimedio dell'emancipazione legale è stato tentato in tutti gli Stati altamente civilizzati. Vediamo cosa ci rivela questo esperimento.

Gli ebrei dell'Europa Occidentale non sono sottoporsi ad alcuna restrizione legale. Possono muoversi e svilupparsi liberamente, esattamente come i loro connazionali cristiani. Le conseguenze economiche di questa libertà di movimento sono state senza dubbio le più favorevoli. Le caratteristiche razziali dell'ebreo - l'operosità, la perseveranza, la sobrietà - hanno condotto a un rapida diminuzione del proletariato ebraico, che in alcuni paesi sarebbe scomparso completamente se non fosse alimentato dall'emigrazione proveniente dall'Est. Gli ebrei emancipati dell'Ovest hanno raggiunto rapidamente un livello di vita simile a quello della restante popolazione. In ogni caso, la lotta per il pane quotidiano non prende forme così terribili come quelle descritte a proposito della Russia, della Romania o della Galizia. Però tra questi ebrei sorge l'altro genere di miseria: la miseria morale.

L'ebreo occidentale ha il pane, ma l'uomo non vive di solo pane. La vita dell'ebreo occidentale non è più messa in pericolo dall'ostilità della folla; ma le ferite fisiche non sono le uniche ferite che causano dolore e che fanno morire dissanguati. L'ebreo occidentale voleva che emancipazione si tramutasse in vera liberazione, e si è affrettato a trarne le conclusioni. Ma le nazioni lo hanno fatto temere di sbagliare nell'essere così sconsideratamente logico. Le magnanime leggi magnanimamente espongono la teoria della parità dei diritti. Ma i governi e la Società esercitano la pratica della parità dei diritti in un modo che la fa sembrare una parodia, come quando Sancho Panza riceve l'altisonante carica di governatore dell'Isola di Barataria. Dice l'ebreo ingenuamente: "Sono un essere umano e non mi è estraneo niente che sia umano", e la risposta che riceve è: "Piano, i tuoi diritti in quanto uomo vanno goduti con cautela; ti manca la giusta nozione di onore, il senso del dovere, il senso morale, il patriottismo, l'idealismo. Devi, dunque, tenerti alla larga da tutte le occupazioni che presuppongono il possesso di queste qualità".

Nessuno ha mai tentato di giustificare con i fatti queste accuse terribili. Al massimo, di tanto in tanto, un singolo ebreo, la feccia della sua razza e dell'umanità, viene trionfalmente citato come esempio, e contrariamente a tutte le leggi della logica, l'esempio viene eletto a regola generale. Questa tendenza è psicologicamente corretta. È pratica dell'intelletto umano inventare per i pregiudizi suscitati dal sentimento una causa apparentemente ragionevole. La saggezza popolare conosce bene questa legge della psicologia, tanto che la esprime con il detto "Se devi annegare un cane devi prima dichiararlo pazzo". Agli ebrei si attribuiscono falsamente tutti i generi di vizi perché ci si vuole convincere di avere il diritto di detestarli. Ma il sentimento preesistente è l'odio nei confronti degli ebrei.

Devo pronunciare la parola dolorosa. Le nazioni che hanno emancipato gli ebrei hanno frainteso i propri sentimenti. Per avere pieno effetto, l'emancipazione sarebbe dovuta essere completa nel sentimento prima di essere dichiarata per legge. Ma non era questo il caso. La storia dell'emancipazione ebraica è una delle pagine più notevoli della storia del pensiero europeo. L'emancipazione degli ebrei non fu la conseguenza della convinzione che a una razza fosse stata arrecata una grave offesa e riservato un trattamento terribile e che fosse tempo di espiare un'ingiustizia durata mille anni; fu soltanto il risultato del metodo di pensiero geometrico del razionalismo francese del XVIII secolo. Questo razionalismo si basava sull'aiuto della logica pura, senza tener conto dei vivi sentimenti e dei principi della certezza dell'azione matematica; e insisteva a voler introdurre queste creazioni puramente intellettuali nel mondo reale. L'emancipazione degli ebrei fu un'automatica applicazione del metodo razionalista. La filosofia di Rousseau e gli enciclopedisti hanno portato alla dichiarazione dei diritti umani. Da questa dichiarazione la logica stringente degli uomini della Grande Rivoluzione dedusse l'emancipazione degli ebrei. Formularono una vera e propria equazione: Ciascun uomo è nato con certi diritti; gli ebrei sono esseri umani, dunque gli ebrei sono nati con i diritti degli uomini. In questo modo fu dichiarata l'emancipazione degli ebrei: non per un sentimento fraterno nei confronti degli ebrei, ma perché lo richiedeva la logica. Il sentimento popolare si ribellava, ma la filosofia della Rivoluzione decretò che i principi erano superiori ai sentimenti. Permettetemi allora un'espressione che non implica alcuna ingratitudine. Gli uomini del 1792 ci emanciparono solo per amor di principio.

Il resto dell'Europa Occidentale imitò la Francia, ma ancora una volta non sotto la spinta del sentimento, ma perché i popoli civilizzati sentirono una specie di coercizione morale a far propri i principi della Rivoluzione.
Così come la Rivoluzione Francese diede al mondo i sistemi metrico e decimale, essa creò anche una sorta di norma del sistema spirituale che altri paesi, volontariamente o loro malgrado, accettarono come l'unità di misura del loro grado di civiltà. Una nazione che dichiarasse di essere all'apice della cultura doveva possedere determinate istituzioni create o sviluppate dalla Grande Rivoluzione; come per esempio la rappresentanza del popolo, la libertà di stampa, i tribunali con i giurati, la divisione dei poteri, ecc. L'emancipazione degli ebrei era anch'essa uno degli articoli indispensabili di una cultura progredita; proprio come un pianoforte non può mancare in un salotto, anche se nessun membro della famiglia sa suonarlo. Così in Europa gli ebrei furono emancipati non per un'innata necessità, ma per imitare una moda politica; non perché il popolo avesse spontaneamente deciso di tendere fraternamente la mano agli ebrei, ma perché le classi dominanti avevano accettato dei principi che esigevano che anche l'emancipazione degli ebrei figurasse nella loro legislazione.
A un unico paese questo discorso non si applica: l'Inghilterra. Il popolo inglese non accetta che il progresso gli sia imposto dall'esterno; elabora il progresso dal proprio interno. In Inghilterra l'emancipazione degli ebrei è una realtà. Non è solo scritta, è un fatto. Era già giunta a compimento nei cuori prima che la legislazione la confermasse espressamente. Per rispetto verso la tradizione, si esitò in Inghilterra ad abolire le restrizioni legali dei non-conformisti, in un'epoca in cui gli inglesi già da lungo tempo non facevano differenze sociali tra cristiani ed ebrei.

Naturalmente una grande nazione con una vita spirituale così intensa non si libera facilmente dalle correnti intellettuale o dagli errori dei tempi, e dunque anche in Inghilterra si osservano casi isolati di antisemitismo. Però ha unicamente il valore di un'imitazione della moda continentale, che alcuni adottano per snobismo o come presunto segno di distinzione. Nei dati e nelle cifre della ricca relazione del Signor Haas sulla situazione degli ebrei in Inghilterra vedrete, insomma, che si tratta della situazione più confortante che incontreremo.

L'emancipazione ha cambiato completamente la natura dell'ebreo, e l'ha reso un altro essere. L'ebreo privo di diritti non amava il contrassegno giallo obbligatorio cucito sugli abiti  perché era un invito ufficiale alla folla a commettere brutalità, giustificandole anticipatamente. Ma di sua volontà ha fatto molto più di quanto potesse fare una pezza gialla per distinguere la propria natura separata. Le autorità non lo chiudevano in un ghetto, e lui se ne costruiva uno. Dimorava con i suoi e non voleva avere rapporti con i cristiani che non fossero d'affari. La parola "ghetto" oggi è associata a sentimenti di vergogna e umiliazione. Ma il ghetto, qualsiasi fossero le intenzioni del popolo che lo aveva creato, era per l'ebreo del passato non una prigione ma un rifugio. È verità storica affermare che solo il ghetto diede agli ebrei la possibilità di sopravvivere alle terribili persecuzioni del Medio Evo. Nel ghetto l'ebreo aveva il proprio mondo; era un rifugio sicuro che aveva per lui il valore morale e spirituale della casa natale. Qui c'erano dei simili da cui si voleva essere valutati e potevano a loro volta essere valutati; qui c'era un'opinione pubblica dalla quale l'ebreo ambiva a essere riconosciuto. La scarsa considerazione da parte di quell'opinione pubblica era la punizione per l'indegnità. Qui venivano apprezzate tutte le specifiche qualità ebraiche, e sviluppandole si poteva ottenere quel genere di ammirazione che è il miglior sprone per la mente umana. Che importava che fuori del ghetto si disprezzasse ciò che all'interno era lodato? L'opinione del mondo esterno non aveva alcuna influenza, perché era l'opinione di nemici ignoranti. Si cercava di compiacere i propri correligionari, e la loro lode era la miglior soddisfazione della vita. Così gli ebrei del ghetto vivevano, dal punto di vista morale, una vita davvero completa. La situazione all'esterno era incerta, spesso gravemente minacciata. Ma all'interno avevano raggiunto uno sviluppo perfetto delle loro qualità specifiche. Erano esseri umani in armonia, ai quali non mancavano gli elementi della normale vita sociale. Sentivano anche istintivamente tutta l'importanza del ghetto per la loro vita interiore, e dunque avevano una sola preoccupazione: rendere la sua esistenza sicura attraverso muri invisibili che erano più spessi e più alti dei muri di pietra che li circondavano. Tutti gli edifici e gli usi ebraici perseguivano inconsciamente un solo proposito: preservare l'Ebraismo attraverso la separazione dagli altri e rendere il singolo ebreo costantemente consapevole del fatto che avrebbe perso se stesso e si sarebbe distrutto se avesse rinunciato al proprio carattere specifico. L'impulso della separazione gli diede anche la maggior parte delle leggi rituali, che per l'ebreo di oggi coincidono con la fede stessa; e anche altri segni puramente esteriori e spesso casuali di differenziazione nell'abbigliamento e negli usi ricevettero una sanzione religiosa proprio perché fossero conservati. Il caffettano, i riccioli, il cappello di pelliccia e il gergo non hanno apparentemente nulla a che vedere con la religione. Ma essi sentono che queste manifestazioni da sole possono offrire loro un legame con la comunità, un legame senza il quale un individuo non può sopravvivere a lungo moralmente, intellettualmente e infine fisicamente.

Questa era la psicologia dell'ebreo del ghetto. Poi giunse l'emancipazione. La legge assicurò agli ebrei che erano cittadini a pieno diritto del loro paese. Nella fase più idilliaca attinse anche a sentimenti cristiani che scaldavano e purificavano il cuore. Gli ebrei, in una sorta di ebbrezza, si affrettarono a tagliarsi i ponti alle spalle. Avevano adesso un'altra casa; non avevano più bisogno di un ghetto; adesso avevano altri legami e non erano più costretti a vivere solo con il loro correligionari. Il loro istinto di conservazione si adattò immediatamente e completamente alle nuove condizioni di vita. In precedenza questo istinto era diretto solo verso una netta separazione. Adesso si affrettarono a sostituire la stretta convivenza e assimilazione alla distinzione che era stata la loro salvezza. Seguì un vero e proprio mimetismo, e per una o due generazioni l'ebreo ebbe il permesso di credere di essere solo tedesco, francese, italiano e così via.

All'improvviso, vent'anni fa, dopo essersi assopito per trenta-sessant'anni, l'antisemitismo è esploso nuovamente nelle profondità remote delle nazioni, e ha rivelato all'ebreo la vera situazione. L'ebreo poteva ancora votare per eleggere i membri del parlamento, ma era escluso dai circoli e dagli incontri dei suoi connazionali cristiani. Poteva andare dove voleva, ma ovunque si imbatteva nell'insegna: "Vietato l'ingresso agli ebrei". Aveva ancora il diritto di compiere tutti i doveri di un cittadino, ma i diritti più nobili riconosciuti al talento e al successo gli erano assolutamente negati.

Tale è l'attuale liberazione dell'ebreo emancipato in Europa Occidentale. Egli ha rinunciato al suo carattere specificatamente ebraico; ma gli altri gli fanno capire che non ha acquisito le loro caratteristiche speciali. Ha perso la casa del ghetto; ma la terra in cui è nato gli è negata in quanto patria. I suoi connazionali lo respingono quando desidera associarsi a loro. Gli manca la terra sotto i piedi e non ha una comunità a cui appartenga come membro a pieno diritto. Presso i suoi connazionali cristiani né il suo carattere né le sue intenzioni possono contare sulla giustizia, e tanto meno sul calore umano. Con il suoi connazionali ebrei ha perso i contatti: per forza deve pensare che il mondo lo odia e non vede un luogo ove poter trovare del calore quando ne sente il bisogno.

Questa è la miseria morale degli ebrei, che è peggiore di quella fisica perché affligge uomini di diversa condizione che posseggono i migliori e i più fieri sentimenti. Prima dell'emancipazione l'ebreo era uno straniero tra le genti, ma non pensava neanche lontanamente a opporsi al suo destino. Sentiva di appartenere a una razza a parte, che non aveva niente in comune con gli altri abitanti dello stesso paese. L'ebreo emancipato è insicuro nelle relazioni con i suoi simili, timido con gli estranei, sospettoso perfino verso i sentimenti segreti degli amici. Le sue migliori energie si esauriscono nella repressione o almeno nel difficile occultamento del suo vero carattere. Perché egli teme che il suo carattere possa essere considerato come ebraico, e non ha mai la soddisfazione di potersi mostrare com'è in tutti i suoi pensieri e sentimenti. È interiormente menomato, e esteriormente finto, e dunque sempre ridicolo e odioso agli uomini dai più alti sentimenti, come tutto ciò che è finto.

Tutti i migliori ebrei dell'Europa Occidentale si lamentano di questo, o cercano sollievo. Non hanno più la fede che dà la pazienza necessaria a sopportare le sofferenze, perché vedono in esse la volontà di un Dio punitivo ma non amorevole. Non sperano più nell'avvento del Messia, che un giorno li porterà in Gloria. Molti cercano di salvarsi fuggendo dall'Ebraismo. Ma l'antisemitismo razzista nega la possibilità di cambiamento con il battesimo, e questo genere di salvezza non sembra avere molte prospettive. Ed è poco raccomandabile che questi ebrei, che sono per lo più senza fede (non parlo naturalmente della minoranza dei veri credenti), entrino nella comunità cristiana con una bugia blasfema. In questo modo nasce un nuovo marrano, peggiore del vecchio. Quest'ultimo aveva una direzione idealistica, un segreto desiderio di libertà o un disagio straziante della coscienza, e spesso cercava l'espiazione e la purificazione attraverso il martirio. I nuovi marrani abbandonano il giudaismo con rabbia e amarezza, ma in cuor loro, anche se non lo riconoscono, portano l'umiliazione, la disonestà, e un odio anche per il Cristianesimo che li ha costretti a mentire. Penso con orrore allo sviluppo futuro di questa razza di nuovi marrani, che normalmente non hanno il sostegno di alcuna tradizione e la cui anima è avvelenata dall'ostilità verso il sangue proprio e altrui, e il cui rispetto di sé è distrutto dalla permanente consapevolezza di una fondamentale bugia. Altri contano di essere salvati dal Sionismo, che per loro non è il compimento di una promessa mistica delle Scritture, ma la via verso un'esistenza in cui l'ebreo possa infine trovare le più semplici ed elementari condizioni di vita, che sono ovvie per ogni ebreo di entrambi gli emisferi: la sicurezza sociale in una comunità benevola, la possibilità di impiegare tutte le sue energie per lo sviluppo del suo vero essere invece di abusarne per reprimerlo e falsificarlo. Altri, infine, che si ribellano alla menzogna dei marrani e che si sentono troppo intimamente legati alla terra natale per non capire il significato del Sionismo, si gettano nelle braccia della sovversione più selvaggia, con la vaga idea che con la distruzione di tutto e la costruzione di un nuovo mondo l'odio per gli ebrei possa non essere uno dei valori che si salveranno dalle rovine della vecchia situazione.

Questa è la storia di Israele alla fine del XIX secolo. Per riassumerla in poche parole: la maggioranza degli ebrei è una razza di mendicanti proscritti. Più industrioso e più abile dell'europeo medio, per non parlare dell'indolenza dell'asiatico e dell'africano, l'ebreo è condannato alla più estrema miseria perché non gli è consentito di usare liberamente le sue capacità. Questa povertà opprime il suo carattere e distrugge il suo fisico. Assetato di istruzione, si vede respinto dai luoghi che offrono la conoscenza, un vero supplizio di Tantalo in questa epoca poco mitica. Sbatte la testa contro lo spesso strato di odio e disprezzo che si forma sulla sua testa. Un essere sociale come pochi altri, un essere sociale cui la sua fede insegna che è azione meritoria e cara a Dio che per i pasti si riuniscano almeno tre persone e almeno dieci per le preghiere - è escluso dalla società dei suoi connazionali e condannato a un tragico isolamento. Ci si lamenta che gli ebrei sono ovunque, ma essi aspirano alla superiorità perché si vedono negata la parità. Sono accusati di solidarietà con gli ebrei di tutto il mondo; mentre al contrario, per loro sfortuna, non appena è stata pronunciata la prima amorevole parola dell'emancipazione essi hanno cercato di strappare dal proprio cuore tutta la solidarietà ebraica fino all'ultima traccia.

Storditi dalla pioggia di accuse antisemite, dimenticano chi sono e spesso immaginano di essere dei mostri nel corpo e nello spirito come i loro nemici mortali li raffigurano. Non è raro sentire un ebreo mormorare che deve imparare dal nemico e tentare di riparare ai vizi che gli vengono rimproverati. Dimentica, tuttavia, che le accuse antisemite sono prive di valore, perché non si basano sulla critica di fatti reali, ma sono il risultato di quella legge psicologica secondo la quale i bambini, i selvaggi e gli stolti danno la colpa dei loro mali a cose e persone per le quali hanno antipatia. Ai tempi della peste si accusava gli ebrei di avvelenare l'acqua, oggi i contadini li accusano di far calare il prezzo dei grano, gli artigiani di danneggiare la loro attività e i conservatori di opporsi al governo. Dove non ci sono ebrei si prendono come responsabili di questi mali altri settori odiati della popolazione, generalmente gli stranieri, a volte le minoranze nazionali, le sette o le piccole comunità. Questa antropomorfizzazione del disagio non prova niente contro gli accusati, prova solo che i loro persecutori li odiavano già prima di conoscere quel disagio e cercavano solo un capro espiatorio.

Il quadro non sarebbe completo se non aggiungessimo un dettaglio. Una leggenda, alla quale hanno contribuito anche persone serie e istruite che non avevano alcun ragione per essere antisemite, dice che il potere e tutte le ricchezze della terra sono in mano agli ebrei. Inquietanti manipolatori del potere, questi ebrei che non sono nemmeno capaci di proteggere quelli della loro stirpe dall'ansia del sangue della miserabile marmaglia araba, marocchina e persiana! Personificazione di Mammona, questi ebrei, la maggioranza dei quali non possiede neanche una pietra su cui appoggiare il capo, né un pezzo di stoffa con cui coprire la propria nudità! Questa beffa è il veleno instillato nella ferita già causata dall'odio. Di certo ci sono alcune centinaia di ebrei immensamente ricchi i cui milioni richiamano l'attenzione in modo stridente.

Ma cos'ha Israele in comune con queste persone? La maggioranza di loro - con l'eccezione di una fortunata minoranza - appartiene alla natura più bassa e vile dell'Ebraismo, che una selezione naturale ha orientato verso attività che hanno consentito di guadagnare rapidamente milioni e perfino miliardi: non chiedetemi come! In una normale società ebraica questi individui per le loro infime caratteristiche sarebbero disprezzati dal popolo, e in nessun caso riceverebbero i riconoscimenti o i titoli nobiliari con cui li premia la società cristiana. L'Ebraismo dei profeti e dei Tannaim, l'Ebraismo di Hillel, Filone, Ibn Gabirol, Jehuda Halevy, Ben Maimon, Spinoza, Heine non ha niente a che vedere con questi fanfaroni che disprezzano tutto ciò che veneriamo e esaltano tutto quello che disprezziamo. Queste persone offrono il pretesto principale al nuovo odio nei confronti degli ebrei, che ha ragioni più economiche che religiose. Agli ebrei che soffrono per colpa loro non hanno fatto altro che gettare un'elemosina che non costava loro alcun sacrificio, mantenendo in vita un cancro specificatamente ebraico, il parassitismo. Ai fini ideali non c'è stato mai alcun aiuto da parte loro e probabilmente non ci sarà mai. Molti abbandonano l'Ebraismo; noi auguriamo loro buona fortuna e ci dispiace solo che abbiano sangue ebraico, anche se del tipo peggiore.

Nessuno può rimanere indifferente alla sofferenza ebraica, né il cristiano né l'ebreo. È un grave peccato lasciare che degeneri intellettualmente e fisicamente una razza le cui capacità vengono riconosciute anche dai suoi peggiori nemici. È un peccato contro di loro e contro l'opera della civiltà, alla quale gli ebrei collaborano in modo non inutile né secondario. E può trasformarsi in un grave pericolo per i popoli portare all'esasperazione persone energiche e volonterose - la cui statura, nel bene e nel male, è superiore alla media - riservando loro un trattamento che non meritano e facendone dei nemici dell'ordine stabilito. La microbiologia ci insegna che i piccoli organismi, che sono stati inoffensivi per lungo tempo vivendo nell'aria, diventano terribilmente patogeni se li si priva di ossigeno, se li si trasforma in quelli che tecnicamente vengono chiamati esseri anaerobi. I governi e le popolazioni dovrebbero stare attenti a trasformare un ebreo in un essere anaerobo! Potrebbe costare loro caro, qualsiasi cosa volessero intraprendere per sterminare l'ebreo divenuto parassita per colpa loro.

Quella miseria ebraica lancia un grido d'aiuto. Trovare quell'aiuto sarà il grande compito di questo Congresso. Cedo ora la parola agli altri relatori, che esporranno e completeranno il quadro da me abbozzato; ascoltando le loro relazioni la maggioranza di voi avrà l'impressione di udire le Lamentazioni.

Max Nordau: Zionistischen Schriften, Berlino 1923 (2ª ed), pp. 39-57