La Storia d'Italia, La Biblioteca della Repubblica, Roma
2005, vol. 19
Gaetano Mosca
La teoria della classe politica di Mosca, come è stato da
tempo La teoria della opportunamente rilevato, non era di per se
stessa una teoria conservatrice: era tuttavia nettamente
conservatore l'uso che Mosca ne faceva e che, con la sua stessa
autorità di scienziato e di «autore», invitava a
farne.
La Teorica dei governi uscì alle stampe nel 1884, due anni
dopo la prima edizione di Govemo e governati di Turiello,
contemporaneamente ai saggi sulla decadenza del regime parlamentare
di V. E. Orlando e R. Bonghi e a breve distanza dai lavori di M.
Minghetti sui partiti politici e la loro ingerenza nella pubblica
amministrazione e di G. Arcoleo su Il governo di gabinetto nei
governi parlamentari (entrambi del 1881). Questa serie di richiami
non serve tuttavia tanto a prospettare una linea di filiazione
intellettua-le, quanto piuttosto a sottolineare la fondamentale
differenza di qualità che intercorre tra il discorso
dilettantesco e moralistico (Turiello), pubblicistico, e il discorso
scientifico di Mosca. L'osservazione spesso ripetuta sulla
scientificità d'alto livello della produzione moschiana, non
è certamente in alcun modo contestabile, ma non può
andare disgiunta da una serie di riflessioni circa la funzione che
vennero a svolgere sia le deduzioni e le proposte di carattere
pratico che Mosca pur trasse dalla sua scoperta scientifica dando
appunto a esse la forza che derivava da una coerente e lucida
elaborazione concettuale, sia le sparse e numerosissime analisi di
fatti particolari delle quali, conformemente al metodo
«storico» praticato dall'autore, la Teorica abbondava.
In effetti, non ci si trovava di fronte a un'opera nella quale il
rigore scientifico si risolvesse in un linguaggio per così
dire asettico, ma si era in presenza di un libro fortemente
impegnato su due fronti: in direzione cioè apertamente
«antidemocratica» e nello stesso tempo attestato su una
posizione critica nei confronti della classe tradizionale di governo
e di rottura anche nei confronti della tradizione della Destra, in
termini di «reale rinnovamento di tutta la classe politica [
... ] sulla base del merito personale e della capacità
tecnica».
Quanto in Turiello era constatazione empirica, in Mosca diventava
principio e strumento d'interpretazione generale: «in ogni
tempo e in ogni luogo - egli scriveva - tutto ciò che nel
governo è parte dispositiva, esercizio d'autorità, e
implica comando e responsabilità, è sempre
l'attribuzione di una classe speciale, i cui elementi di formazione,
secondo il secolo e il Paese, possono variare, è vero,
moltissimo, ma che, in qualunque modo sia composta, sempre forma,
davanti la massa dei governanti ai quali s'impone, una sparuta
minoranza. Con questa intuizione, Mosca non solo rendeva
«superata» la secolare tripartizione aristotelica delle
forme di governo e la dinamica di mutamento che da essa conseguiva,
ma cancellava con un colpo di bisturi l'illusione roussoviana della
democrazia che ai suoi occhi rimase sempre l'errore più
spettacolare che si fosse prodotto nel campo della scienza politica;
e, procedendo oltre, chiariva anche l'illusorietà di
ogni criterio di legittimazione della classe dirigente,
allorché osservava che qualsiasi fosse la classe politica che
detenesse il potere, questa lo giustificava appunto con una
«formula politica", cioè con un concetto privo di
un'effettiva corrispondenza con la realtà, con un
principio astratto. Quanto realmente importava non era pertanto
questa «formula», ma piuttosto il criterio in base al
quale la minoranza governante s'organizzava: all'esame dello
«Stato» si sostituiva quindi l'indagine sui meccanismi
di selezione della classe politica.
Ora, come s'è detto, quel che qui importa rilevare non
è già l'acquisizione scientifica offerta dalla
Teorica, ma il fatto che già nel 1884 appariva solidamente
impiantato un pensiero che non si limitava ad aggredire le
degenerazioni del parlamentarismo, ma organizzava coerentemente
una serie di dati che servivano, nonché a criticare, a
dimostrare impossibile la democrazia. In verità, Mosca, una
volta stabilito che a governare è sempre una minoranza, non
poteva fare a meno di chiedersi se la minoranza che governava
nell'Italia degli anni Ottanta fosse provvista delle capacità
che la ponessero all'altezza del suo compito. Egli si rendeva
perfettamente conto che il problema consisteva nella rispondenza del
mezzo di selezione a soddisfare le esigenze emergenti in seno
alla società, e che quindi si doveva rispondere al
quesito se il sistema di governo parlamentare fosse in grado di
assolvere a questa funzione. La sua risposta fu drasticamente
negativa e investì non soltanto il funzionamento di tale
sistema nella specifica realtà italiana, ma la sua
stessa natura.
Il risultato dell'indagine moschiana fu un attacco senza
remissione e senza finzione al sistema parlamentare che aveva
vanificato le funzioni della corona e del senato per consegnare
ogni potere alla camera elettiva dalla designazione della cui
maggioranza dipendeva il governo, realizzandosi così
un'effettiva dipendenza dell'esecutivo dal legislativo. La vita
politica italiana appariva pertanto a Mosca come un'irrazionale
realtà di intrighi nella quale non si era attuato alcun
sostanziale progresso rispetto ai precedenti regimi: al
dispotismo dei sovrani si era sostituito il dispotismo del
«numero» e si trattava quindi di individuare i
rimedi che potessero ricostituire un equilibrio e garantire la
formazione di una classe di governo adeguata. A costituire
questa classe non poteva certo soccorrere la
«volontà del Paese», strutturalmente
inadatta in quanto espressione di una maggioranza per definizione
passiva e legata per lo più a una rete di interessi
particolari e particolaristici; ma, una volta svelato il grande
arcano che presiedeva alla vita della società politica,
Mosca, quando passava a delineare quella che avrebbe dovuto essere
la parte costruttiva del suo sistema, non andava oltre
l'affermazione di alcune esigenze, tutto sommato, generiche.
Ai guasti provocati dal sistema parlamentare si poteva ovviare
riaffermando vigorosamente la necessità di costruire la
classe dirigente sul fondamento del merito e della capacità
personale e mettendo in opera un reciproco controllo tra tutti
i membri della classe stessa; ma per far questo, secondo Mosca,
non era affatto sufficiente apportare dei correttivi al sistema
vigente, occorreva uscirne del tutto, negandolo e rifiutandolo nelle
sue premesse ideologiche e nelle sue strutture oggettive. Quanto
dire, che bisognava respingere la formula giuridica della
sovranità popolare e limitare i poteri della camera
elettiva, rafforzando per contrappeso quelli del senato e della
corona. La scoperta della «classe politica» (o; per
meglio dire della classe di governo, almeno qui nella Teorica)
diventava dunque immediatamente anche arma di lotta politica. Se la
realtà di fatto del potere era ovunque e sempre quella di una
minoranza organizzata, non era più questione di essere
favorevoli o contrari alla democrazia: era piuttosto questione di
rendersi semplicemente conto che la democrazia, come governo
«affidato alla maggioranza dei cittadini» era non solo
inesistente, ma addirittura impossibile.
Cosa sostituire, però alla «sovranità
popolare»? Di quali poteri spogliare la camera elettiva? Quali
nuovi meccanismi di selezione inventare? Mosca nel 1884 su tutti
questi particolari non era, in vero, molto esplicito. La
«pars construenss della Teorica era indubbiamente
deficitaria e per taluni aspetti contraddittoria proprio
perché al momento del passaggio dall'indagine scientifica
alla proposta politica emergevano tutta una serie di
motivazioni che avevano poco a che fare con la
«neutralità» e
l'«obbiettività» della scienza. Ed erano
motivazioni ed esigenze di stampo nettamente conservatore, o
comunque proprie di chi si sentiva solidale, anzi compartecipe,
della classe politica, cioè della classe dei
«governanti». L'ingerenza dell'autorità
prefettizia, cioè dell'esecutivo, nelle elezioni appariva un
salutare correttivo alle mene delle cricche camorristiche locali; le
associazioni operaie erano assimilate alle organizzazioni mafiose; i
partiti politici venivano ridotti a consorterie senza fondamento
né ideale né pratico (salvo naturalmente i tre grandi,
partiti «del SiIlabo», liberale e socialistico che
spingeva a «ritornare alla barbarie, o almeno allo stato di
completa anarchia»); il miglioramento delle condizioni di vita
delle classi più umili scadeva a espediente di
preservazione dell'ordine sociale vigente e perdeva qualsiasi
caratteristica di promozione politica.
«Il primo dovere di un organismo costituito - scriveva
Mosca - è il sapersi conservare e difendere, e [ ... ] la
prima difesa è il non lasciare agli avversari dichiarati
l'agio di affermarsi e di organizzarsi»: ciò che
gli premeva difendere non era dunque affatto il
«Ìiberaiisrnr» ma quel particolare organismo che
era appunto lo «Stato liberale» nelle particolari forme
e strutture che esso era venuto storicamente assumendo prima della
degenerazione parlamentaristica. Eppure, Mosca non poteva non
rendersi conto della chiusura in cui quello Stato tendeva ad
arroccarsi, in virtù della sua natura di «associazione
dei ricchi». Qui, tuttavia, la sua acutezza di sociologo e di
storico rivelava un'aporia radicale, in quanto la via d'uscita che
egli trovava per evitare la possibilità della sclerosi
dell'organismo si risolveva nel vagheggiamento della formazione
d'una classe politica selezionata sulla base della cultura,
composta cioè dagli elementi della classe media dotati
di una posizione indipendente sia dal capitale industriale che dalla
rendita fondiaria. Dove fosse questa classe media sarebbe stato ben
difficile dire e soprattutto sarebbe stato arduo delineare le
caratteristiche di una cultura che ovviamente avrebbe dovuto
essere essa stessa diversa da quella della classe politica che aveva
dato vita alle istituzioni esistenti. Mosca accennava
addirittura a una «grande maggioranza» di persone
indipendenti dai gangli del potere economico, ma si trattava di
un'affermazione sostanzialmente destituita di ogni riscontro
obbiettivo nella realtà italiana. La «profonda cultura
intellettuale» della cui funzione politica Mosca si faceva
paladino e alla quale avrebbe onestamente voluto libero accesso per
gli appartenenti a tutte le classi sociali aveva in effetti bisogno
di una base materiale che ne faceva un appannaggio dei ceti
conservatori, ovvero avrebbe implicato, quale premessa, una profonda
riforma di tutta una serie di strutture che non era nelle intenzioni
dell'autore, né poteva essere opera dei ceti che proprio
da essa sarebbero riusciti danneggiati. In sostanza l'ideale di
Mosca non era liberale ma semplicemente conservatore.
Le costituzioni moderne del 1887, proprio nella maggiore pacatezza
d'analisi rispetto alla Teorica, confermò quello che il suo
più attento interprete ha definito «lo sgomento del
borghese» e che si tradusse in una proposta
riformistico-conservatrice assolutamente inadeguata rispetto
allivello delle acquisizioni teoriche. Per quanto Mosca avesse
approfondito attraverso l'insegnamento di Loria la natura e
l'incidenza dei legami fra struttura politica e struttura economica
e si rendesse conto con una certa approssimazione della funzione
delle classi lavoratrici e corrispondentemente accentuasse
l'interventismo statale nella vita economico-sociale, quando si
trattava di indicare i cardini di una possibile riforma, egli in
effetti suggeriva un complesso di provvedimenti che rappresentavano,
nel loro insieme, un tentativo destinato non già a realizzare
un'apertura in direzione delle classi emergenti, sia pure nella
prospettiva di una loro integrazione subalterna nello Stato
liberale, bensì a contenerne l'avanzata che appariva come
pericolo di imbarbarimento.
Nelle Costituzioni moderne veniva, inoltre, ancor maggiormente
accentuata la funzione della classe media, cioè - come si
è visto - della classe dei colti; di più, si tendeva a
individuare in questa classe la futura vera classe di governo, come
quella che, in possesso di una cultura superiore, aveva per
ciò la qualificazione a superare le prospettive
dell'interesse di classe e a porsi come rappresentante degli
interessi della collettività. Gli espedienti suggeriti da
Mosca si riassumevano nella duplice proposta d'una riforma del
senato in senso corporativo e dell'attuazione di un decentramento
amministrativo che nella Teorica era stato invece decisamente
scartato. A parte ogni valutazione dei loro aspetti tecnici,
interessa qui notare la sostanza delle proposte moschiane.
Quando delineava il nuovo organamento del senato e ne propugnava la
trasformazione in rappresentanza delle «classi
lavoratrici», Mosca pensava soprattutto a un'assemblea che
venisse a costituire un vero e proprio argine e correttivo agli
inconvenienti creati dall'allargamento del suffragio: le
discriminazioni che egli introduceva nel meccanismo di scelta e
negli stessi criteri di eleggibilità degli appartenenti
alle varie categorie erano pesanti e colpivano, naturalmente,
soprattutto i lavoratori manuali. Le stesse osservazioni
valgono per le prospettive di decentramento le quali si
concretavano nel rinvigorimento a livello locale del potere di
quegli stessi ceti che lo avrebbero avuto rinvigorito dalla
riforma del senato. Ma quel che è particolarmente
interessante notare è la funzione nettamente e
apertamente conservatrice che in tutto il discorso di Mosca veniva
assegnata alla cultura e agli intellettuali, concepiti come
baluardo dell'ordine.
Il compito attribuito da Mosca agli intellettuali è stato ben
chiarito da Delle Piane: esso non era "quello di esprimere con
consapevolezza in termini concretamente politici l'istanza
primordiale di un mondo affatto nuovo dei ceti più numerosi e
più poveri; bensì [aveva} per scopo di impedire
che quella aspirazione [sboccasse} in un moto totalmente eversivo e,
in sostanza [cercasse} comunque di realizzarsi nella sua premessa di
rottura assoluta con la tradizione. [ ... ] Insomma [ ... ] la
minoranza istruita sovrapponelva a quelle popolari le proprie
esigenze di conservazione di certi valori senza i quali era
convinta non si [desse} civiltà, e [erano} valori
culturali in senso lato ma altresì gerarchici [ ... ]. [Gli
ntellettuali} si presentaivano] come moderatori [ ... ] come coloro
che sanno fino a che punto si
deve chiedere e concedere per contenere l'impulso che sale dal basso
nell'ambito di una struttura che, in conclusione, è
nella sua essenza accettata." La cultura, in sostanza, finiva per
porsi come l'antidoto della rivoluzione, per esprimersi in una
«scienza dell'antirivoluzione».
Nove anni dopo Le costituzioni moderne, nel 1896, Mosca
pubblicò la prima edizione degli Elementi di scienza
politica, un'opera che sistemò organicamente tutte le sue
precedenti intuizioni ed elaborazioni concettuali, ma che non
per questo risultò meno impegnata di quelle che
l'avevano preceduta. Passato dalla Sicilia a Roma, Mosca aveva
avuto modo di osservare, del resto, la realtà italiana
da un osservatorio che lo metteva in grado di avere una visuale
più larga e più pertinente e di vivere a più
diretto contatto con la vita politica reale. Negli Elementi non
solo venne approfondita la teoria della classe politica e il
corrispettivo concetto di formula politica, ma i problemi posti
dal funzionamento del regime rappresentativo-parlamentare
vennero esaminati con maggiore pacatezza, fu sviluppata la
concezione della «difesa giuridica» e il realismo
moschiano si dispiegò pienamente cercando di fornire una
specie di sistema di politica «positiva».
Le acquisizioni non furono di lieve momento. In primo luogo, il
carattere per così dire monolitico della classe politica
scomparve per dar luogo a una visione più articolata in senso
sia orizzontale che verticale, una visione più ampia e
più mossa nella quale trovavano riconoscimento e
giustificazione le lotte esistenti in seno alla classe dirigente
stessa e i meccanismi sociali che regolavano la «disciplina
del senso morale» venivano riassunti nella partecipazione al
potere di una pluralità di forze capaci di reciprocamente
limitarsi e controllarsi. Per quanti approfondimenti e per
quante aperture Mosca mostrasse di proporre e in effetti attuasse,
restò però in lui salda la convinzione della funzione
assolutamente insostituibile della classe media. Ora proprio qui
stava la parte più propriamente contestabile del suo sistema
e più scopertamente appariva l'uso preciso in senso
tutt'affatto politico e non «scientifico» che egli
faceva della sua scoperta della classe politica, un uso che
aveva, per così dire, l'aggravante di non tenere
sufficientemente conto del processo storicamente reale dello
sviluppo della società che egli si vantava di esaminare
e di conoscere obbiettivamente. La politica positiva finiva
così per trasformarsi in una deontologia di retroguardia la
quale creava nella meritocrazia una nuova formula politica.
"Una società - scriveva Mosca - si trova nelle condizioni
migliori per applicarvi un'organizzazione politica
relativamente perfetta, quando in essa esiste una classe numerosa,
in posizione economica presso che indipendente da coloro che
hanno nelle mani il supremo potere, la quale ha quel tanto di
benessere, che è necessario per dedicare una parte del suo
tempo a perfezionare la sua cultura e ad acquistare
quell'interesse al pubblico bene, quello spirito diremmo quasi
aristocratico, che solo possono indurre gli uomini a servire il
proprio paese senza altre soddisfazioni che quelle che procura
l'amor proprio. In tutti i paesi che sono stati all'avanguardia
della difesa giuridica, o come comunemente dicesi della
libertà, una classe simile si è sempre trovata."
Il risvolto ideale e politico della scienza moschiana era dunque
evidente: la sottintesa polemica contro il marxismo conosciuto con
molta approssimazione, la riduzione e risoluzione della classe
economica nella classe politica, non si limitavano a essere
enunciazioni teoriche, ma tendevano appunto a prospettare tutti
i vantaggi che potevano derivare dalla corresponsabilizzazione o per
meglio dire dalla cooptazione del notabilato medio (di estrazione
agraria) alla gestione del potere. Non per nulla gli esempi di
difesa giuridica più efficiente erano individuati
nell'esistenza della gentry in Inghilterra e della classe dei
farmers agiati negli Stati Uniti, e la causa prima della
degenerazione contemporanea era indicata nell'allargamento del
suffragio e nella «selezione alla rovescia» che esso
comportava. «L'equilibrio giuridico legalmente
stabilito» era minacciato secondo Mosca dalla ricchezza
mobiliare e dalla democrazia sociale: bisognava dunque
rifiutare sia lo sviluppo del capitalismo finanziario e
dell'industrialismo, sia la prospettiva democratica avanzata dal
movimento socialista; ma il rimedio non poteva essere trovato
nel camminare a ritroso dal regime parlamentare al regime
costituzionale bensì nell'attuazione di un decentramento
largo e organico, vale a dire nel passaggio delle funzioni espletate
dalla burocrazia non già a corpi elettivi periferici,
bensì al notabilato locale. Di fronte a questo progetto
liberai-conservatore, la cui matrice era stata del resto
elaborata già un trentennio prima, la democrazia sociale
e il socialismo non potevano essere classificati se non come
astrazioni, mitologie, malattia intellettuale prodotta da una
falsa immagine della realtà, e andavano pertanto combattuti
sul piano politico e sul piano intellettuale:
"nel mondo in cui viviamo - scriveva Mosca quasi a conclusione degli
Elementi - il socialismo sarà solo arrestato se la
scienza politica arriverà [ ... ] a schiacciare del tutta gli
attuali metodi aprioristici e ottimisti, se cioè la
scoperta e la dimostrazione delle grandi leggi costanti che si
manifestano in tutte le società umane, metterà a
nudo l'impossibile attuazione della concezione democratica. A
questo patto, ma a questo patto soltanto, le classi intellettuali
saranno interamente sottratte all'influenza della democrazia
sociale e formeranno un ostacolo invincibile al suo trionfo."
La politica positiva, dunque, si configurava infine come una vera e
propria mitologia della scienza, la quale era a un tempo formula
politica e difesa giuridica dell'ordine liberale: lo storicismo
moschiano si riduceva pertanto all'erudizione storica che
doveva sfatare le illusioni delle masse, le quali, così
redente, avevano un loro contributo da dare, quasi una lezione
permanente di concretezza che poteva essere antidoto alla mancanza
di energia che subentrava a volte nella classe dirigente proprio
come conseguenza della raffinatezza della sua cultura che portava ad
accogliere teorie «sentimentali ed esageratamente
umanitarie» e ad adottare mezzi di governo «dolci e
persuasivi.
Il liberalismo moschiano era certamente ben lontano dal
prevedere un sistema chiuso: ciò che esso teorizzava con
piena lucidità era la necessità di un pluralismo a
direzione ed egemonia medio-borghese. La sua classe politica,
per quanto aperta egli potesse volerla, restava saldamente ancorata
al possesso fondiario, presupposto dell'acquisizione della scienza e
per ciò stesso base materiale dell'auspicato comando di una
classe generale, di una classe che non attuasse una confisca
esclusiva del potere, ma che, sufficientemente garantita dalla
proprietà, fosse in grado di mantenere l'equilibrio sociale.
Quel che si poteva tuttavia rimproverare a Mosca era che la sua
scienza in realtà non si presentava come completamente o
sufficientemente positiva, giacché mentre la sua analisi
delle società del passato era assai acuta, l'analisi della
società contemporanea e in particolare della democrazia
sociale non lo era altrettanto ed era in gran parte condotta sul
piano dell'ideologia, volta a contrapporre formula politica a
formula politica. Proprio nel suo onesto rifiuto d'una soluzione
autoritaria e nel non voler accettare il tramonto e la sostituzione
della classe politica di cui egli era parte stava il suo punto
debole, e la debolezza nasceva proprio dall'uso conservatore che
egli faceva della sua scoperta, dal suo sostanziale e drastico
rifiuto a concepire un equilibrio giuridico diversamente
strutturato rispetto a quello posto in essere a suo tempo dallo
Stato liberale.
La critica al parlamentarismo
Negli ultimi decenni dell'Ottocento il sistema parlamentare italiano
fu sommerso da un'ondata di critiche da parte di intellettuali,
letterati e uomini politici. Regnava in quegli anni una generale
insofferenza verso la politica e le istituzioni politiche del regno,
di fronte alla dilagante corruzione della classe politica e
all'inconcludenza del parlamento, che si mostrava sempre più
imbrigliato nella pratica del trasformismo.
Scandali bancari, manipolazioni elettorali, clientelismo: in questo
clima di sfiducia l'accusa rivolta alle degenerazioni del regime
parlamentare ebbe modo di attecchire facilmente e di articolarsi in
una grande varietà di percorsi polemici. I critici del
parlamentarismo di tutta l'Europa erano d'accordo nell'individuare
nell'awento della democrazia di massa, nella seconda metà del
sec. XIX, un elemento involutivo fondamentale. Con l'ingresso delle
masse nella scena politica europea il sistema parlamentare era stato
infatti stravolto nei suoi assetti, nelle sue regole, nelle sue
consuetudini. AI di fuori di Germania e
Austria-Ungheria, rimaste ferme all'esperienza del costituzionalismo
puro, ovunque, in tutta Europa, l'inarrestabile marcia della
democrazia si indirizzò verso un sostanziale
ridimensionamento della monarchia, della borghesia e della filosofia
liberale da essa sostenuta, a favore dei governi, delle assemblee
parlamentari e di nuove forme di organizzazione sociale.
Nell'affollato coro antiparlamentarista italiano si distinsero in
modo particolare le voci di Pietro Ellero, Ruggero Bonghi, Sidney
Sonnino, Gaetano Mosca. Tra i primi ad alimentare le polemiche in
Italia, il giurista friulano Pietro Ellero riassunse un po' tutto il
clima di delusione e di risentimento che si respirava negli ambienti
democratici.
Per Ellero la causa principale dei mali della nazione era da
ricercare in quell'esotico sistema di governo d'origine inglese, il
parlamentarismo appunto, completamente estraneo alla tradizione
politica e istituzionale italiana. Con la sua celebre opera La
tirannide borghese (1879), Ellero anticipò di qualche anno i
principali temi della letteratura antiparlamentarista italiana. Ne
L'ufficio del Principe in uno Stato libero (1893), lo statista
napoletano Ruggero Bonghi prospettò a sua volta l'istituzione
di uno speciale organo costituzionale, il «consiglio
privato>, che avrebbe dovuto restituire alla monarchia una
funzione di chiara preminenza all'interno del sistema politico
italiano, limitando gli eccessi di potere del parlarnento. Sulla
stessa lunghezza d'onda delle tesi bonghiane, il barone Sidney
Sonnino individuò quindi nel ritorno al' costituzionalismo
dinastico una possrbile via d'uscita ai mali che affliggevano il
parlamentarismo. Nel suo celebre saggio Torniamo allo Statuto
(1897), Sonnino intese restituire alla corona tutti i diritti
sanciti dal patto fondamentale del regno d'Italia, lo statuto
albertino concesso nel rnarzo del 1848.
Di tutt'altro tono fu l'accusa lanciata dal politico palermitano
Gaetano Mosca. La sua analisi critica si incentrò infatti
sulle modalità di reclutamento della classe dirigente,
smantellando in sostanza le tesi su cui poggiava l'intero sistema
parlamentare.
A essere messa sotto accusa da Mosca era la legittimità
stessa del sistema elettorale e, di conseguenza, l'assunto su cui si
fonda ancora oggi l'ideologia democratica: il principio della
maggioranza. In un ormai celebre passo della sua Teorica dei governi
e governo parlamentare (1884), Mosca arrivò a scrivere:
«Che il deputato sia scelto dalla maggioranza degli elettori
è una supposizione legale, che si trova in perfetta
contraddizione col fatto reale».
Nella realtà, infatti, secondo Mosca era una minoranza
organizzata quella che riusciva inevitabilmente ad avere il
sopravvento su diverse maggioranze disorganizzate.