La Storia d'Italia, La Biblioteca della Repubblica, Roma 2005, vol. 19

Gaetano Mosca


La teoria della classe politica di Mosca, come è stato da tempo La teoria della opportunamente rilevato, non era di per se stessa una teoria conservatrice: era tuttavia nettamente conservatore l'uso che Mosca ne faceva e che, con la sua stessa autorità di scienziato e di «autore», invitava a farne.

La Teorica dei governi uscì alle stampe nel 1884, due anni dopo la prima edizione di Govemo e governati di Turiello, contemporaneamente ai saggi sulla decadenza del regime parlamentare di V. E. Orlando e R. Bonghi e a breve distanza dai lavori di M. Minghetti sui partiti politici e la loro ingerenza nella pubblica amministrazione e di G. Arcoleo su Il governo di gabinetto nei governi parlamentari (entrambi del 1881). Questa serie di richiami non serve tuttavia tanto a prospettare una linea di filiazione intellettua-le, quanto piuttosto a sottolineare la fondamentale differenza di qualità che intercorre tra il discorso dilettantesco e moralistico (Turiello), pubblicistico, e il discorso scientifico di Mosca. L'osservazione spesso ripetuta sulla scientificità d'alto livello della produzione moschiana, non è certamente in alcun modo contestabile, ma non può andare disgiunta da una serie di riflessioni circa la funzione che vennero a svolgere sia le deduzioni e le proposte di carattere pratico che Mosca pur trasse dalla sua scoperta scientifica dando appunto a esse la forza che derivava da una coerente e lucida elaborazione concettuale, sia le sparse e numerosissime analisi di fatti particolari delle quali, conformemente al metodo «storico» praticato dall'autore, la Teorica abbondava. In effetti, non ci si trovava di fronte a un'opera nella quale il rigore scientifico si risolvesse in un linguaggio per così dire asettico, ma si era in presenza di un libro fortemente impegnato su due fronti: in direzione cioè apertamente «antidemocratica» e nello stesso tempo attestato su una posizione critica nei confronti della classe tradizionale di governo e di rottura anche nei confronti della tradizione della Destra, in termini di «reale rinnovamento di tutta la classe politica [ ... ] sulla base del merito personale e della capacità tecnica».

Quanto in Turiello era constatazione empirica, in Mosca diventava principio e strumento d'interpretazione generale: «in ogni tempo e in ogni luogo - egli scriveva - tutto ciò che nel governo è parte dispositiva, esercizio d'autorità, e implica comando e responsabilità, è sempre l'attribuzione di una classe speciale, i cui elementi di formazione, secondo il secolo e il Paese, possono variare, è vero, moltissimo, ma che, in qualunque modo sia composta, sempre forma, davanti la massa dei governanti ai quali s'impone, una sparuta minoranza. Con questa intuizione, Mosca non solo rendeva «superata» la secolare tripartizione aristotelica delle forme di governo e la dinamica di mutamento che da essa conseguiva, ma cancellava con un colpo di bisturi l'illusione roussoviana della democrazia che ai suoi occhi rimase sempre l'errore più spettacolare che si fosse prodotto nel campo della scienza politica; e, procedendo oltre, chia­riva anche l'illusorietà di ogni criterio di legittimazione della classe dirigente, allorché osservava che qualsiasi fosse la classe politica che detenesse il potere, questa lo giustificava appunto con una «formula politica", cioè con un concetto privo di un'effettiva cor­rispondenza con la realtà, con un principio astratto. Quanto real­mente importava non era pertanto questa «formula», ma piuttosto il criterio in base al quale la minoranza governante s'organizzava: all'e­same dello «Stato» si sostituiva quindi l'indagine sui meccanismi di selezione della classe politica.

Ora, come s'è detto, quel che qui importa rilevare non è già l'ac­quisizione scientifica offerta dalla Teorica, ma il fatto che già nel 1884 appariva solidamente impiantato un pensiero che non si limi­tava ad aggredire le degenerazioni del parlamentarismo, ma organiz­zava coerentemente una serie di dati che servivano, nonché a criti­care, a dimostrare impossibile la democrazia. In verità, Mosca, una volta stabilito che a governare è sempre una minoranza, non poteva fare a meno di chiedersi se la minoranza che governava nell'Italia degli anni Ottanta fosse provvista delle capacità che la ponessero al­l'altezza del suo compito. Egli si rendeva perfettamente conto che il problema consisteva nella rispondenza del mezzo di selezione a sod­disfare le esigenze emergenti in seno alla società, e che quindi si do­veva rispondere al quesito se il sistema di governo parlamentare fos­se in grado di assolvere a questa funzione. La sua risposta fu drasti­camente negativa e investì non soltanto il funzionamento di tale si­stema nella specifica realtà italiana, ma la sua stessa natura.

Il ri­sultato dell'indagine moschiana fu un attacco senza remissione e senza finzione al sistema parlamentare che aveva vanificato le fun­zioni della corona e del senato per consegnare ogni potere alla ca­mera elettiva dalla designazione della cui maggioranza dipendeva il governo, realizzandosi così un'effettiva dipendenza dell'esecutivo dal legislativo. La vita politica italiana appariva pertanto a Mosca come un'irrazionale realtà di intrighi nella quale non si era attuato alcun sostanziale progresso rispetto ai precedenti regimi: al dispoti­smo dei sovrani si era sostituito il dispotismo del «numero» e si trat­tava quindi di individuare i rimedi che potessero ricostituire un equilibrio e garantire la formazione di una classe di governo ade­guata. A costituire questa classe non poteva certo soccorrere la «vo­lontà del Paese», strutturalmente inadatta in quanto espressione di una maggioranza per definizione passiva e legata per lo più a una re­te di interessi particolari e particolaristici; ma, una volta svelato il grande arcano che presiedeva alla vita della società politica, Mosca, quando passava a delineare quella che avrebbe dovuto essere la par­te costruttiva del suo sistema, non andava oltre l'affermazione di al­cune esigenze, tutto sommato, generiche.

Ai guasti provocati dal si­stema parlamentare si poteva ovviare riaffermando vigorosamente la necessità di costruire la classe dirigente sul fondamento del merito e della capacità personale e mettendo in opera un reciproco con­trollo tra tutti i membri della classe stessa; ma per far questo, se­condo Mosca, non era affatto sufficiente apportare dei correttivi al sistema vigente, occorreva uscirne del tutto, negandolo e rifiutandolo nelle sue premesse ideologiche e nelle sue strutture oggettive. Quanto dire, che bisognava respingere la formula giuridica della so­vranità popolare e limitare i poteri della camera elettiva, rafforzando per contrappeso quelli del senato e della corona. La scoperta della «classe politica» (o; per meglio dire della classe di governo, almeno qui nella Teorica) diventava dunque immediatamente anche arma di lotta politica. Se la realtà di fatto del potere era ovunque e sempre quella di una minoranza organizzata, non era più questione di essere favorevoli o contrari alla democrazia: era piuttosto questione di rendersi semplicemente conto che la democrazia, come governo «affidato alla maggioranza dei cittadini» era non solo inesistente, ma addirittura impossibile.

Cosa sostituire, però alla «sovranità popolare»? Di quali poteri spogliare la camera elettiva? Quali nuovi meccanismi di selezione inventare? Mosca nel 1884 su tutti questi particolari non era, in ve­ro, molto esplicito. La «pars construenss della Teorica era indubbia­mente deficitaria e per taluni aspetti contraddittoria proprio perché al momento del passaggio dall'indagine scientifica alla proposta po­litica emergevano tutta una serie di motivazioni che avevano poco a che fare con la «neutralità» e l'«obbiettività» della scienza. Ed erano motivazioni ed esigenze di stampo nettamente conservatore, o co­munque proprie di chi si sentiva solidale, anzi compartecipe, della classe politica, cioè della classe dei «governanti». L'ingerenza del­l'autorità prefettizia, cioè dell'esecutivo, nelle elezioni appariva un salutare correttivo alle mene delle cricche camorristiche locali; le associazioni operaie erano assimilate alle organizzazioni mafiose; i partiti politici venivano ridotti a consorterie senza fondamento né ideale né pratico (salvo naturalmente i tre grandi, partiti «del SiIla­bo», liberale e socialistico che spingeva a «ritornare alla barbarie, o almeno allo stato di completa anarchia»); il miglioramento delle condizioni di vita delle classi più umili scadeva a espediente di pre­servazione dell'ordine sociale vigente e perdeva qualsiasi caratteri­stica di promozione politica.

«Il primo dovere di un organismo co­stituito - scriveva Mosca - è il sapersi conservare e difendere, e [ ... ] la prima difesa è il non lasciare agli avversari dichiarati l'agio di af­fermarsi e di organizzarsi»: ciò che gli premeva difendere non era dunque affatto il «Ìiberaiisrnr» ma quel particolare organismo che era appunto lo «Stato liberale» nelle particolari forme e strutture che esso era venuto storicamente assumendo prima della degenera­zione parlamentaristica. Eppure, Mosca non poteva non rendersi conto della chiusura in cui quello Stato tendeva ad arroccarsi, in virtù della sua natura di «associazione dei ricchi». Qui, tuttavia, la sua acutezza di sociologo e di storico rivelava un'aporia radicale, in quanto la via d'uscita che egli trovava per evitare la possibilità della sclerosi dell'organismo si risolveva nel vagheggiamento della forma­zione d'una classe politica selezionata sulla base della cultura, com­posta cioè dagli elementi della classe media dotati di una posizione indipendente sia dal capitale industriale che dalla rendita fondiaria. Dove fosse questa classe media sarebbe stato ben difficile dire e so­prattutto sarebbe stato arduo delineare le caratteristiche di una cul­tura che ovviamente avrebbe dovuto essere essa stessa diversa da quella della classe politica che aveva dato vita alle istituzioni esi­stenti. Mosca accennava addirittura a una «grande maggioranza» di persone indipendenti dai gangli del potere economico, ma si tratta­va di un'affermazione sostanzialmente destituita di ogni riscontro obbiettivo nella realtà italiana. La «profonda cultura intellettuale» della cui funzione politica Mosca si faceva paladino e alla quale avrebbe onestamente voluto libero accesso per gli appartenenti a tutte le classi sociali aveva in effetti bisogno di una base materiale che ne faceva un appannaggio dei ceti conservatori, ovvero avrebbe implicato, quale premessa, una profonda riforma di tutta una serie di strutture che non era nelle intenzioni dell'autore, né poteva esse­re opera dei ceti che proprio da essa sarebbero riusciti danneggiati. In sostanza l'ideale di Mosca non era liberale ma semplicemente conservatore.

Le costituzioni moderne del 1887, proprio nella maggiore pacatezza d'analisi rispetto alla Teorica, confermò quello che il suo più attento interprete ha definito «lo sgomento del borghese» e che si tradusse in una proposta riformistico-conservatrice assolutamente inadeguata rispetto allivello delle acquisizioni teoriche. Per quanto Mosca avesse approfondito attraverso l'insegnamento di Loria la natura e l'incidenza dei legami fra struttura politica e struttura economica e si rendesse conto con una certa approssimazione della funzione delle classi lavoratrici e corrispondentemente accentuasse l'interventismo statale nella vita economico-sociale, quando si trattava di indicare i cardini di una possibile riforma, egli in effetti suggeriva un complesso di provvedimenti che rappresentavano, nel loro insieme, un tentativo destinato non già a realizzare un'apertura in direzione delle classi emergenti, sia pure nella prospettiva di una loro integrazione subalterna nello Stato liberale, bensì a contenerne l'avanzata che appariva come pericolo di imbarbarimento.

Nelle Costituzioni moderne veniva, inoltre, ancor maggiormente accentuata la funzione della classe media, cioè - come si è visto - della classe dei colti; di più, si tendeva a individuare in questa classe la futura vera classe di governo, come quella che, in possesso di una cultura superiore, aveva per ciò la qualificazione a superare le prospettive dell'interesse di classe e a porsi come rappresentante degli interessi della collettività. Gli espedienti suggeriti da Mosca si riassumevano nella duplice proposta d'una riforma del senato in senso corporativo e dell'attuazione di un decentramento amministrativo che nella Teorica era stato invece decisamente scartato. A parte ogni valutazione dei loro aspetti tecnici, interessa qui notare la sostanza delle propo­ste moschiane. Quando delineava il nuovo organamento del senato e ne propugnava la trasformazione in rappresentanza delle «classi lavoratrici», Mosca pensava soprattutto a un'assemblea che venisse a costituire un vero e proprio argine e correttivo agli inconvenienti creati dall'allargamento del suffragio: le discriminazioni che egli in­troduceva nel meccanismo di scelta e negli stessi criteri di eleggibi­lità degli appartenenti alle varie categorie erano pesanti e colpivano, naturalmente, soprattutto i lavoratori manuali. Le stesse osservazio­ni valgono per le prospettive di decentramento le quali si concreta­vano nel rinvigorimento a livello locale del potere di quegli stessi ce­ti che lo avrebbero avuto rinvigorito dalla riforma del senato. Ma quel che è particolarmente interessante notare è la funzione netta­mente e apertamente conservatrice che in tutto il discorso di Mosca veniva assegnata alla cultura e agli intellettuali, concepiti come ba­luardo dell'ordine.

Il compito attribuito da Mosca agli intellettuali è stato ben chia­rito da Delle Piane: esso non era "quello di esprimere con consapevolezza in termini concretamente politici l'istanza primordiale di un mondo affatto nuovo dei ceti più numerosi e più po­veri; bensì [aveva} per scopo di impedire che quella aspirazione [sboccasse} in un moto totalmente eversivo e, in sostanza [cercasse} comunque di realizzarsi nella sua premessa di rottura assoluta con la tradizione. [ ... ] Insomma [ ... ] la minoranza istruita sovrapponelva a quelle popolari le proprie esigenze di con­servazione di certi valori senza i quali era convinta non si [desse} civiltà, e [era­no} valori culturali in senso lato ma altresì gerarchici [ ... ]. [Gli ntellettuali} si presentaivano] come moderatori [ ... ] come coloro che sanno fino a che punto si
deve chiedere e concedere per contenere l'impulso che sale dal basso nell'ambi­to di una struttura che, in conclusione, è nella sua essenza accettata." La cultura, in sostanza, finiva per porsi come l'antidoto della rivo­luzione, per esprimersi in una «scienza dell'antirivoluzione».

Nove anni dopo Le costituzioni moderne, nel 1896, Mosca pub­blicò la prima edizione degli Elementi di scienza politica, un'opera che sistemò organicamente tutte le sue precedenti intuizioni ed ela­borazioni concettuali, ma che non per questo risultò meno impe­gnata di quelle che l'avevano preceduta. Passato dalla Sicilia a Ro­ma, Mosca aveva avuto modo di osservare, del resto, la realtà italia­na da un osservatorio che lo metteva in grado di avere una visuale più larga e più pertinente e di vivere a più diretto contatto con la vi­ta politica reale. Negli Elementi non solo venne approfondita la teo­ria della classe politica e il corrispettivo concetto di formula politi­ca, ma i problemi posti dal funzionamento del regime rappresenta­tivo-parlamentare vennero esaminati con maggiore pacatezza, fu sviluppata la concezione della «difesa giuridica» e il realismo mo­schiano si dispiegò pienamente cercando di fornire una specie di si­stema di politica «positiva».

Le acquisizioni non furono di lieve momento. In primo luogo, il carattere per così dire monolitico della classe politica scomparve per dar luogo a una visione più articolata in senso sia orizzontale che verticale, una visione più ampia e più mossa nella quale trovavano riconoscimento e giustificazione le lotte esistenti in seno alla classe dirigente stessa e i meccanismi sociali che regolavano la «disciplina del senso morale» venivano riassunti nella partecipazione al potere di una pluralità di forze capaci di reciprocamente limitarsi e con­trollarsi. Per quanti approfondimenti e per quante aperture Mosca mostrasse di proporre e in effetti attuasse, restò però in lui salda la convinzione della funzione assolutamente insostituibile della classe media. Ora proprio qui stava la parte più propriamente contestabile del suo sistema e più scopertamente appariva l'uso preciso in senso tutt'affatto politico e non «scientifico» che egli faceva della sua sco­perta della classe politica, un uso che aveva, per così dire, l'aggra­vante di non tenere sufficientemente conto del processo storica­mente reale dello sviluppo della società che egli si vantava di esa­minare e di conoscere obbiettivamente. La politica positiva finiva così per trasformarsi in una deontologia di retroguardia la quale creava nella meritocrazia una nuova formula politica.

"Una società - scriveva Mosca - si trova nelle condizioni migliori per appli­carvi un'organizzazione politica relativamente perfetta, quando in essa esiste una classe numerosa, in posizione economica presso che indipendente da colo­ro che hanno nelle mani il supremo potere, la quale ha quel tanto di benessere, che è necessario per dedicare una parte del suo tempo a perfezionare la sua cul­tura e ad acquistare quell'interesse al pubblico bene, quello spirito diremmo quasi aristocratico, che solo possono indurre gli uomini a servire il proprio paese senza altre soddisfazioni che quelle che procura l'amor proprio. In tutti i pae­si che sono stati all'avanguardia della difesa giuridica, o come comunemente di­cesi della libertà, una classe simile si è sempre trovata."

Il risvolto ideale e politico della scienza moschiana era dunque evidente: la sottintesa polemica contro il marxismo conosciuto con molta approssimazione, la riduzione e risoluzione della classe eco­nomica nella classe politica, non si limitavano a essere enunciazio­ni teoriche, ma tendevano appunto a prospettare tutti i vantaggi che potevano derivare dalla corresponsabilizzazione o per meglio dire dalla cooptazione del notabilato medio (di estrazione agraria) alla gestione del potere. Non per nulla gli esempi di difesa giuridica più efficiente erano individuati nell'esistenza della gentry in Inghilterra e della classe dei farmers agiati negli Stati Uniti, e la causa prima della degenerazione contemporanea era indicata nell'allargamento del suffragio e nella «selezione alla rovescia» che esso comportava. «L'equilibrio giuridico legalmente stabilito» era minacciato secondo Mosca dalla ricchezza mobiliare e dalla democrazia sociale: biso­gnava dunque rifiutare sia lo sviluppo del capitalismo finanziario e dell'industrialismo, sia la prospettiva democratica avanzata dal mo­vimento socialista; ma il rimedio non poteva essere trovato nel cam­minare a ritroso dal regime parlamentare al regime costituzionale bensì nell'attuazione di un decentramento largo e organico, vale a dire nel passaggio delle funzioni espletate dalla burocrazia non già a corpi elettivi periferici, bensì al notabilato locale. Di fronte a questo progetto liberai-conservatore, la cui matrice era stata del resto ela­borata già un trentennio prima, la democrazia sociale e il socialismo non potevano essere classificati se non come astrazioni, mitologie,  malattia intellettuale prodotta da una falsa immagine della realtà, e andavano pertanto combattuti sul piano politico e sul piano intellettuale:

"nel mondo in cui viviamo - scriveva Mosca quasi a conclusione degli Ele­menti - il socialismo sarà solo arrestato se la scienza politica arriverà [ ... ] a schiacciare del tutta gli attuali metodi aprioristici e ottimisti, se cioè la scoper­ta e la dimostrazione delle grandi leggi costanti che si manifestano in tutte le so­cietà umane, metterà a nudo l'impossibile attuazione della concezione demo­cratica. A questo patto, ma a questo patto soltanto, le classi intellettuali saran­no interamente sottratte all'influenza della democrazia sociale e formeranno un ostacolo invincibile al suo trionfo."

La politica positiva, dunque, si configurava infine come una vera e propria mitologia della scienza, la quale era a un tempo formula politica e difesa giuridica dell'ordine liberale: lo storicismo mo­schiano si riduceva pertanto all'erudizione storica che doveva sfata­re le illusioni delle masse, le quali, così redente, avevano un loro contributo da dare, quasi una lezione permanente di concretezza che poteva essere antidoto alla mancanza di energia che subentrava a volte nella classe dirigente proprio come conseguenza della raffinatezza della sua cultura che portava ad accogliere teorie «senti­mentali ed esageratamente umanitarie» e ad adottare mezzi di go­verno «dolci e persuasivi.

Il liberalismo moschiano era certa­mente ben lontano dal prevedere un sistema chiuso: ciò che esso teorizzava con piena lucidità era la necessità di un pluralismo a di­rezione ed egemonia medio-borghese. La sua classe politica, per quanto aperta egli potesse volerla, restava saldamente ancorata al possesso fondiario, presupposto dell'acquisizione della scienza e per ciò stesso base materiale dell'auspicato comando di una classe ge­nerale, di una classe che non attuasse una confisca esclusiva del po­tere, ma che, sufficientemente garantita dalla proprietà, fosse in grado di mantenere l'equilibrio sociale.

Quel che si poteva tuttavia rimproverare a Mosca era che la sua scienza in realtà non si presentava come completamente o suffi­cientemente positiva, giacché mentre la sua analisi delle società del passato era assai acuta, l'analisi della società contemporanea e in particolare della democrazia sociale non lo era altrettanto ed era in gran parte condotta sul piano dell'ideologia, volta a contrapporre formula politica a formula politica. Proprio nel suo onesto rifiuto d'una soluzione autoritaria e nel non voler accettare il tramonto e la sostituzione della classe politica di cui egli era parte stava il suo punto debole, e la debolezza nasceva proprio dall'uso conservatore che egli faceva della sua scoperta, dal suo sostanziale e drastico ri­fiuto a concepire un equilibrio giuridico diversamente strutturato ri­spetto a quello posto in essere a suo tempo dallo Stato liberale.

La critica al parlamentarismo

Negli ultimi decenni dell'Ottocento il sistema parlamentare italiano fu sommerso da un'ondata di critiche da parte di intellettuali, letterati e uomini politici. Regnava in quegli anni una generale insofferenza verso la politica e le istituzioni politiche del regno, di fronte alla dilagante corruzione della classe politica e all'inconcludenza del parlamento, che si mostrava sempre più imbrigliato nella pratica del trasformismo.

Scandali bancari, manipolazioni elettorali, clientelismo: in questo clima di sfiducia l'accusa rivolta alle degenerazioni del regime parlamentare ebbe modo di attecchire facilmente e di articolarsi in una grande varietà di percorsi polemici. I critici del parlamentarismo di tutta l'Europa erano d'accordo nell'individuare nell'awento della democrazia di massa, nella seconda metà del sec. XIX, un elemento involutivo fondamentale. Con l'ingresso delle masse nella scena politica europea il sistema parlamentare era stato infatti stravolto nei suoi assetti, nelle sue regole, nelle sue consuetudini. AI di fuori di Germania e
Austria-Ungheria, rimaste ferme all'esperienza del costituzionalismo puro, ovunque, in tutta Europa, l'inarrestabile marcia della democrazia si indirizzò verso un sostanziale ridimensionamento della monarchia, della borghesia e della filosofia liberale da essa sostenuta, a favore dei governi, delle assemblee parlamentari e di nuove forme di organizzazione sociale.

Nell'affollato coro antiparlamentarista italiano si distinsero in modo particolare le voci di Pietro Ellero, Ruggero Bonghi, Sidney Sonnino, Gaetano Mosca. Tra i primi ad alimentare le polemiche in Italia, il giurista friulano Pietro Ellero riassunse un po' tutto il clima di delusione e di risentimento che si respirava negli ambienti democratici.

Per Ellero la causa principale dei mali della nazione era da ricercare in quell'esotico sistema di governo d'origine inglese, il parlamentarismo appunto, completamente estraneo alla tradizione politica e istituzionale italiana. Con la sua celebre opera La tirannide borghese (1879), Ellero anticipò di qualche anno i principali temi della letteratura antiparlamentarista italiana. Ne L'ufficio del Principe in uno Stato libero (1893), lo statista napoletano Ruggero Bonghi prospettò a sua volta l'istituzione di uno speciale organo costituzionale, il «consiglio privato>, che avrebbe dovuto restituire alla monarchia una funzione di chiara preminenza all'interno del sistema politico italiano, limitando gli eccessi di potere del parlarnento. Sulla stessa lunghezza d'onda delle tesi bonghiane, il barone Sidney Sonnino individuò quindi nel ritorno al' costituzionalismo dinastico una possrbile via d'uscita ai mali che affliggevano il parlamentarismo. Nel suo celebre saggio Torniamo allo Statuto (1897), Sonnino intese restituire alla corona tutti i diritti sanciti dal patto fondamentale del regno d'Italia, lo statuto albertino concesso nel rnarzo del 1848.

Di tutt'altro tono fu l'accusa lanciata dal politico palermitano Gaetano Mosca. La sua analisi critica si incentrò infatti sulle modalità di reclutamento della classe dirigente, smantellando in sostanza le tesi su cui poggiava l'intero sistema parlamentare.
A essere messa sotto accusa da Mosca era la legittimità stessa del sistema elettorale e, di conseguenza, l'assunto su cui si fonda ancora oggi l'ideologia democratica: il principio della maggioranza. In un ormai celebre passo della sua Teorica dei governi e governo parlamentare (1884), Mosca arrivò a scrivere: «Che il deputato sia scelto dalla maggioranza degli elettori è una supposizione legale, che si trova in perfetta contraddizione col fatto reale».
Nella realtà, infatti, secondo Mosca era una minoranza organizzata quella che riusciva inevitabilmente ad avere il sopravvento su diverse maggioranze disorganizzate.