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    di Riccardo D’Anna
    
    Unico maschio di quattro figli, nacque a Bagnara Calabra il 10
    luglio 1860 da Antonino, commerciante, e da Grazia Maria Gentiluomo.
    
    Seguì dapprima i corsi tecnici presso il collegio Donati di
    Messina, ma una naturale predisposizione per le discipline
    umanistiche lo convinse a prepararsi in breve tempo e con profitto
    agli esami di licenza ginnasiale. Nel liceo messinese ebbe
    professore di filosofia Giuseppe Sergi, che esercitò su di
    lui una profonda influenza. Iscrittosi alla facoltà di
    giurisprudenza dell’Università di Napoli, presto
    coltivò l’amore per le lettere (poco più che ventenne
    pubblicò la sua prima raccolta di versi: Strofe, Napoli 1881)
    e dette inizio a quell’apprendistato giornalistico che nel giro di
    pochi lustri ne fece l’«articolista principe del giornalismo
    italiano» e lo pose fra coloro «che non hanno bisogno
    del Larousse a portata di mano per fare sfoggio di dottrina e di
    sapere» (Kodak, 1904).
    
    Trasferitosi per un breve periodo a Pisa, vi fondò Il
    Marchese Colombi, in cui, cominciando ad affrontare i temi
    prediletti (letteratura, filosofia, diritto), affinò per via
    di una prosa brillante, ma sempre sorvegliata, la sua schietta
    natura di polemista. A Napoli conseguì la laurea nel 1883 e,
    fatto ritorno a Bagnara, cominciò a esercitare l’avvocatura.
    Gli orizzonti ristretti della città natìa lo
    convinsero presto a cercar fortuna altrove, ma non abbandonò
    mai la professione forense.
    
    Dotato di solide basi dialettiche, alla vena felice per la scrittura
    Morello seppe coniugare le sottigliezze del pensatore e la
    capacità oratoria, anche se si può affermare che fu
    «grande avvocato, ma più nel giornale che nel
    foro» (Missiroli, 1947, p. 169). Le arringhe in difesa di
    Antonio Monzilli nello scandalo della Banca romana (Per Antonio
    Monzilli…, Roma 1893) e di Carlo Secchi (Processo Murri. I delitti
    della gente onesta: l’arringa pro Secchi, Roma- Torino 1906) ebbero
    vasta eco in Italia (v. pure Politica e bancarotta, Roma 1894). Fu
    autore, altresì, di un commento al codice penale Zanardelli
    (cfr. le note a E. Ferri, Sul nuovo codice penale: discorsi alla
    Camera dei deputati, Napoli 1889) e de Il contratto agrario: studii
    e proposte (Roma 1899). Celebri furono anche le commemorazioni di
    Carducci e di Boccaccio nel sesto centenario della nascita (6
    settembre 1913), nonché il discorso per l’inaugurazione del
    monumento ai 6500 caduti calabresi nella Grande Guerra (Reggio
    Calabria, 3 maggio 1930).
    
    A Napoli, chiamato da Rocco De Zerbi, divenne dapprima redattore
    presso Il Piccolo – ottenendo celebrità e consensi per
    l’accesa polemica con Giovanni Bovio –, quindi passò al
    Corriere di Napoli. Trasferitosi nella capitale, collaborò
    alle testate della Roma che s’ha in uso chiamar «dannunziana
    »: dal Don Chisciotte al Capitan Fracassa alla Tribuna, dove
    consolidò la sua fama col balzacchiano pseudonimo di
    Rastignac che prestò finì per superare in
    notorietà il suo stesso nome.
    
    Tale scelta sembra racchiudere la parabola di Morello. Quel
    «fiero cavaliere che impugnava la penna come una spada, per
    servire le cause più degne» e che si distinse per
    «il vigore originale dell’ingegno e la nobiltà del
    carattere» (Federzoni, 1933, pp. 1662 s.) rammentava, infatti,
    assai da vicino Eugène de Rastignac, anch’egli giovane
    studente in legge, che, affiorato fra le pagine del Père
    Goriot, avrebbe attraversato alcuni fra i più celebrati
    romanzi di Balzac, diviso dapprincipio fra l’accettazione delle
    convenzioni borghesi e l’affascinante miraggio del gran mondo e dei
    brillanti riti, e che approdato ai più alti gradi della
    società – avendone sperimentato vizi e tentazioni –, aveva
    vòlto gli esiti di quell’esperienza a suo vantaggio senza
    eccessivi compromessi o venir meno al rigore morale e a una certa
    «onestà programmatica ».
    
    Morello – «meridionale cerebrale, freddo, taciturno, mai
    espansivo, mai confidente » (Natale, 1952, p. 112) e
    dell’indole degli idealisti che non si fanno troppe illusioni –
    avrebbe fatto personalmente le spese di quell’opportunismo che in
    politica sempre combatté: lungo una deriva che, dalla
    durevole infatuazione per Crispi e dal trasformismo depretisiano di
    cui fu acerrimo nemico, lo condusse a posizioni nazionalistiche,
    antiparlamentari (il parlamentarismo, cioè, inteso come
    «grande scuola di delinquenza nazionale») e
    antidemocratiche, quindi all’interventismo e all’appoggio della
    guerra di Libia, fino poi a una convinta adesione al fascismo.
    Candidatosi alle elezioni del 1895 per la XIX legislatura nel
    collegio di Bagnara, fu sconfitto da Antonino De Leo, notabile del
    luogo il quale, preoccupato che Morello una volta eletto potesse
    ledere i suoi interessi, alla forza delle idee aveva anteposto il
    potere del denaro. Morello ottenne 950 voti contro i 1420 di De Leo:
    accusato di essersi venduto all’avversario, uscì dalla
    vicenda profondamente amareggiato e, dall’indignazione provata nei
    confronti dei suoi concittadini, ebbe origine il vulnus che
    scavò una distanza insanabile con la sua città natale.
    
    Ormai immerso nell’attività giornalistica, prima di far
    ritorno definitivo alla Tribuna, nel 1894 fu tra i fondatori de Il
    Giornale, di chiara matrice crispina e «contro lo Zanardelli e
    la teoria fondamentale della “sinistra storica”», ove
    poté dar sfogo «al suo brillante ed animoso
    temperamento di polemista», sostenendo «battaglie
    memorabili » (Aliquò Lenzi - Aliquò Taverriti,
    1955, p. 250); il 22 aprile 1900, nominato da Ignazio Florio,
    fondò e diresse L’Ora di Palermo (fino al febbraio del 1902);
    nel 1909, a Firenze, fu direttore delle prestigiose Cronache
    letterarie che poterono vantare firme di scrittori e critici fra i
    più celebrati dell’epoca.
    
    Il 6 gennaio 1890 aveva dato vita con Giulio Aristide Sartorio a La
    Tribuna illustrata, dov’era cominciato ad apparire a puntate
    L’Invincibile di Gabriele d’Annunzio. Si trattava del primo
    tentativo «d’un giornale riccamente illustrato a colori, che
    potesse tenere testa ai grandi giornali esteri; ma dopo i debiti
    contrasti con gli editori, che le nostre superbie e le nostre
    impazienze giovanili rendevano ad ogni più lieve occasione
    incomponibili, abbandonata io la direzione letteraria e il Sartorio
    la direzione artistica, anche il d’Annunzio abbandonò la
    continuazione del romanzo; e così l’Invincibile […] vide poi
    la luce […] nell’aprile del 1894, sotto il titolo di Trionfo della
    morte» (Gabriele d’Annunzio, Roma 1910, pp. 55 s.).
    
    Morello fu lungamente legato a d’Annunzio, appena più
    giovane, se pur nei modi di un temperamento schivo e riservato.
    Tuttavia la sincera amicizia che caratterizzò i loro rapporti
    tardò a sbocciare. Fresco ancora di stampa il Canto novo, nel
    maggio del 1882, Morello lo aveva severamente criticato; pure,
    frequentando gli stessi ambienti, «in quel clima letterario
    creato da un pugno di giovani spregiudicati scesi dalla provincia a
    prendere possesso della capitale» (G.A. Castellani, in Roma,
    20 aprile 1954), e correggendo Morello la valutazione sul poeta, si
    poterono riavvicinare. La qual cosa non gli impedì di
    corteggiare Maria Hardouin di Gallese, moglie di d’Annunzio. Questi,
    morbidamente fedifrago, viveva all’epoca della passione per Barbara
    Leoni, e fu così che Maria, prostrata dallo sconforto per i
    tradimenti subiti, tentò il suicidio, offrendo allo scrittore
    materia pel romanzo in gestazione: sicché l’analogia fra la
    coppia coniugale dell’Innocente (1892) e quella reale sarebbe da
    credersi qualcosa più che generica. Il «6 giugno 1890,
    dopo una scenata del geloso e infedele marito, causa la corte che
    ella avrebbe accettato da Vincenzo Morello», gettatasi dalla
    finestra della casa in via Piemonte, dove abitava con la madre,
    «la poveretta si ebbe al letto d’inferma l’assistenza del
    marito (come spesso egli si prodigò con le donne amate);
    anche in ciò, l’analogia col romanzo è
    precisissima» (E. De Michelis, Guida a d’Annunzio, Torino
    1988, p. 101 n.).
    
    Nel carteggio con d’Annunzio (poi divulgato in Gabriele d’Annunzio,
    cit., prima monografia organica che si giovi di materiali di prima
    mano) Morello aveva raccolto le confessioni dello scrittore e potuto
    seguire in presa diretta l’ideazione della trilogia del Melograno e,
    in particolare, la genesi del Fuoco, cinque anni prima che il
    romanzo fosse pubblicato. A libro chiuso, in due interventi apparsi
    nella Tribuna (20 e 21 marzo 1900; poi Nietzsche e d’Annunzio, in
    L’energia letteraria, Roma-Torino 1905, pp. 165-197), Morello ben
    coglieva la carica innovativa del Fuoco, entro una prosa
    vòlta a destrutturare per via interna, tipologica,
    l’istituto-romanzo tradizionale.
    
    La più alta prova di amicizia Morello offrì a
    d’Annunzio con l’articolo che seguì il clamoroso fiasco
    ottenuto dal Più che l’amore la sera precedente al teatro
    Costanzi di Roma (Difendo Corrado Brando, in La Tribuna, 30 ottobre
    1906). Qui la capacità di analisi felicemente si coniuga al
    ragionamento del penalista: «Il delinquente uccide, e se
    tradisce ed inganna, non date la responsabilità della colpa
    al poeta, ma alla natura umana che non si è ancora esaurita,
    e non si esaurirà per un pezzo nella produzione della
    delinquenza» (ibid.).
    
    Quando, la sera del 12 maggio 1915, d’Annunzio per la prima volta
    fece ritorno a Roma dall’esilio francese di Arcachon, Morello era
    fra l’immensa folla accorsa alla stazione ad acclamarlo: più
    tardi, all’albergo Regina, su una copia dozzinale delle Elegie
    romane fortunosamente rimediata, il poeta vergò una dedica in
    cui ribadiva la stima per l’amico: «Mi tieni così in
    poco conto?!! a “Rastignac” con immutata ammirazione (questo aborto
    tipografico) ricordo delle giornate romane» (v. Gatti, 1955).
    
    Individualista convinto, geloso della propria libertà,
    Morello rifiutò l’idea del matrimonio o di generare figli per
    non compromettere la propria indipendenza. Fu forse il primo grande
    giornalista moderno, per l’abnegazione quasi religiosa con cui
    svolse la professione. Il giornale – sostiene Gaetano Natale (1952,
    p. 113) che lo ebbe al suo fianco per diversi anni nella redazione
    della Tribuna – fu il suo unico grande amore. «Dall’augusta
    tranquillità della casa – racconta Giuseppe De Rossi (1941,
    p. 196) – egli passava al fermento rumoroso del grande giornale […]
    e, fornito il proprio compito, dal giornale passava con una
    regolarità cronometrica all’amicale conversazione del
    Circolo, donde a sera usciva trasformato in marsina e sparato di un
    candore lucente, come un attore fuor dalle quinte, per andare a
    teatro, del quale era un assiduo frequentatore».
    
    Fu attento critico teatrale: si rammentino almeno, di là
    dagli articoli apparsi nei giornali, la conferenza Il teatro: una
    musa scomparsa (in La vita italiana nel Risorgimento (1846-1849),
    3ª serie, Firenze 1900, pp. 129-175), il saggio Il teatro del
    Quarantotto (in Id. L’energia letteraria, cit., pp. 399-436), le
    considerazioni sulla Francesca da Rimini dannunziana (ibid., pp.
    81-102) e più distesamente sull’intera parabola teatrale di
    d’Annunzio (in Gabriele d’Annunzio, cit., pp. 75-102). Autore egli
    stesso, se ne La flotta degli emigranti (commedia in 4 atti, Torino
    1907) – non senza inopportuna verbosità – volle
    «portare sulla scena l’ideale antiparlamentare propugnato nel
    giornalismo» (Porzia, 1912), ne Il malefico anello (commedia
    in 3 atti, Milano 1910) contrappose la necessità e la
    «moralità» del divorzio alla pregiudiziale
    indissolubilità del matrimonio. Di impostazione intimista,
    con chiare influenze francesi (Dumas figlio, Bourget) fu ancora
    L’amore emigra (commedia in 3 atti, Roma 1912), in cui riaffiora
    vistosamente la repulsione di Morello alla vita di coppia, mentre ne
    I condottieri (rappresentata a Milano nel 1921), al fianco della
    tematica sentimentale l’autore riprese motivi a lui cari che – nel
    contrasto fra la fermezza incoercibile e il cedere alle lusinghe del
    potere dei due politici protagonisti – si inscrivono in quel filone
    ‘parlamentare’ che, dal Daniele Cortis di Antonio Fogazzaro a La
    conquista di Roma di Matilde Serao fino a L’Imperio di Federico De
    Roberto, avevano caratterizzato, se pur nei termini del romanzo di
    genere, una stagione. Nel teatro di Morello la cornice finisce per
    soverchiare il quadro, ma si deve apprezzare lo sforzo di giungere a
    un nuovo sistema d’arte: «di distruggersi insomma – come
    scrisse di Eleonora Duse con rara finezza di tocco – per ricrearsi
    in una forma, che non sia più del nostro tempo, e neppure
    della nostra letteratura» (cit. da: L. Vergani, Eleonora Duse,
    Milano 1958, p. 124).
    
    Temperamento «originalissimo», pur avvolto da una
    straordinaria notorietà, fu sempre un appartato e non fece
    scuola. «Conoscitore come pochi della letteratura
    contemporanea, aveva larghe conoscenze di letteratura classica,
    specie latina – curò un’edizione delle Catilinarie di
    Cicerone (Milano 1929) –, e una preparazione storica e giuridica non
    comune» (Missiroli, cit., p. 167). Crebbe nell’alveo di una
    cultura inverata dal positivismo (predilesse Stendhal, Balzac,
    soprattutto Zola, oltre che Spencer, Taine e Nietzsche, se pur
    svuotato del senso ineluttabile che contrappone l’uomo a un destino
    nemico).
    
    Fervente nemico di Giolitti, fu deciso interventista e
    rivendicò con forza la centralità dell’Italia nello
    scacchiere internazionale del primo dopoguerra, in nome di un
    «rinnovamento che significhi una restaurazione dello spirito
    italiano», come scrisse ne Il libro della guerra di Rastignac
    (Torino 1915, p. 213) che, insieme con L’Adriatico senza pace
    (Milano s.d. [ma 1919]) e Il Rovento ardente (Firenze 1926), forma
    una vera e propria trilogia di carattere storico-politico. Un
    rinnovamento che Morello aveva auspicato e visto realizzarsi col
    fascismo, che, prim’ancora della marcia su Roma e a far tempo dalla
    caduta delle illusioni su Fiume e poi dalla Conferenza di pace di
    Parigi e dal trattato di Rapallo, «combatteva per risollevare
    i segni della vittoria abbattuti, per risvegliare la coscienza della
    Nazione umiliata, per difendere, contro le aggressioni dei nemici
    interni ed esterni, quel che ancora rimaneva del naufragio della
    potenza di vita italiana nel dopoguerra» (ibid., p. 319).
    
    Nominato senatore il 19 aprile 1923 (per la 20ª categoria),
    finì per dover accettare a contraggenio un posto in quel
    parlamento che pure detestava, con l’attenuante e «il
    pretesto» che si trattava del Senato di Mussolini.
    Collaborò, inoltre, con La Nuova Antologia e Gerarchia,
    compose la prefazione all’edizione degli Scritti politici di Benito
    Mussolini raccolti e ordinati da Arnaldo Mussolini e Dino Grandi
    (Milano 1924) e nel 1927 dette alle stampe Dante Farinata Cavalcanti
    (ibid.), saggio nato dalla lettura del canto X dell’Inferno tenuta
    presso la Casa di Dante in Roma il 25 aprile 1925, poi duramente
    stroncato da Antonio Gramsci (cfr. Quaderni del carcere, ed. critica
    a cura di V. Gerratana, 2ª ed., Torino 1977, I, pp. 522-526,
    529 s.), che contò sprezzantemente Morello nel novero dei
    «mediocri intellettuali […] che però ritengono (o sono
    ritenuti da molti) appartenere alla “alta coltura”» (ibid.,
    III, p. 1881). Aveva partecipato alle celebrazioni del regime ne La
    Civiltà fascista illustrata nella dottrina e nelle opere (a
    cura di G.L. Pomba, Torino 1928) con due lunghi saggi (La
    dissoluzione del vecchio regime e Il nuovo regime e Mussolini,
    rispett. pp. 38-54 e 55-75), ma progressivamente si distaccò
    dal fascismo, fino a dimettersi dal partito il 28 aprile 1930.
    Inoltre fu presidente della Società italiana degli autori ed
    editori (SIAE) nel biennio 1928-29.
    
    La sua ultima produzione è lucida e a tratti lungimirante: La
    Germania si sveglia: dopo Locarno e Thoiry (Roma 1931) di poco tenne
    dietro all’analisi del romanzo-memoriale I Proscritti di Ernst von
    Salomon sulla disfatta materiale e morale tedesca all’indomani della
    Grande Guerra. Morello, dal canto suo, poteva soltanto interpretare
    i segni del presente e del recente passato per amor del futuro:
    «Alla disperazione e all’ebbrezza Hitler dà l’elmo e la
    maschera eroica, e in arnese di guerra le porta alle urne »
    (ibid., p. 43). Certo non immaginava quanta verità si celasse
    nelle sue parole: «Da qualunque parte venga, o dalla Germania
    per la rivendicazione della sconfitta, o dalla Francia per la difesa
    del Trattato, una guerra, domani, sarebbe la più tragica
    delle follie, nella quale sommergerebbe, senza più speranza
    di risorgere, quel che resta ancora delle fortune e della
    civiltà della vecchia Europa» (ibid., p. 55).
    
    Ne Il conflitto dopo la conciliazione (Milano 1932) affrontò
    i rapporti fra Chiesa e Stato alla luce dei recenti Patti
    Lateranensi, criticando duramente Mussolini per le concessioni
    avanzate, che giudicava di natura essenzialmente politica, come il
    «pegno, verso il mondo cattolico, della soggezione dell’Italia
    alla Chiesa» (ibid., p. 86). Convinto assertore della
    laicità dello Stato, contestò benefici e privilegi
    elargiti, rilevando nel contempo la forte ingerenza della Chiesa
    nell’apparato statale: dal diritto al matrimonio, dalla
    proprietà all’istruzione.
    
    Il razionalismo di Morello, nutrito di individualismo, fu al tempo
    stesso ragione della sua forza e della sua debolezza: ostile al
    conforto della religione e al cattolicesimo, non rimase immune
    dall’ondata di irrazionalismo, relativismo e inquietudine che
    investì la cultura europea tra fine e principio di secolo,
    riducendo l’uomo a spettatore della propria impotenza. Pur senza
    rinunciare a un approccio coerente ormai radicato, il determinismo
    scientista su cui aveva fatto sempre affidamento vacillò.
    «Un amaro pessimismo parve più di una volta
    sorprenderlo», trovando «non di rado degli accenti di
    una desolazione quasi pascaliana » (Missiroli, cit., p. 171).
    Una cogente disillusione caratterizzò l’ultima fase della sua
    vita, pena il non veder realizzati quegli ideali in cui aveva
    creduto, impersonati dal fascismo. Anche la vena inesauribile del
    polemista che si chinava a commentare i fatti del giorno parve
    infine fiaccata. Il giornalista che aveva fatto dell’articolo –
    secondo la sua celebre definizione – un cavaliere o un dittatore,
    che si forma il suo blasone o la sua legge nel torneo o
    nell’avventura della giornata, si vedeva infine costretto a
    constatare «l’inconsistenza delle idee nelle quali aveva
    confidato e che erano apparse vitali nello sfolgorio paradossale del
    suo stile » (Natale, cit., p. 114).
    
    Già da tempo sofferente di pericardite, morì a Roma il
    30 marzo 1933.