www.treccani.it
Scrittore svizzero di lingua francese (Firenze 1829 - Ginevra 1885).
Visse a lungo in Italia e fu prof. di letterature straniere
nell'univ. di Ginevra. I suoi studî si rivolsero specialmente
alle condizioni politico-sociali dell'Italia contemporanea (L'Italie
est-elle la terre des morts?, 1860; Garibaldi: histoire de la
conquête des Deux-Siciles, 1861; Histoire du brigandage dans
l'Italie méridionale, 1862; La camorra: mystères de
Naples, 1863) e alla critica letteraria (Genève et ses
poètes, 1874). Fu anche poeta (Lucioles, 1853;
Poésies, 1878) e narratore (Nouvelles napolitaines, 1879).
Curioso e garbato il suo Théâtre des marionnettes
(1871).
*
Wikipedia
Marc Monnier, o Marco Monnier (Firenze, 7 dicembre 1829 – Ginevra,
18 aprile 1885), è stato uno scrittore e poligrafo italiano
naturalizzato svizzero.
Biografia
Figlio di Jacques-Louis, francese originario della Ardèche, e
di Priscille Lacour, svizzera di Ginevra, nacque e trascorse la
giovinezza in Italia. Nel 1832 risiedette con i familiari a Napoli.
Fece gli studi università all'estero, dapprima alla Sorbona
di Parigi per un paio di semestri, quindi all'Università di
Ginevra, completando gli studi ad Heidelberg e a Berlino. Si
stabilì a infine a Ginevra dove divenne professore di
letterature comparate (1864-1885) e più tardi fu vice-rettore
dell'Università. Fu padre di Philippe Monnier.
Marc Monnier fu uno scrittore prolifico e si interessò di
argomenti disparati. È ormai ricordato come autore di saggi
in lingua francese sulla cultura europea, e in particolare sulla
cultura italiana (L'Italie est-elle la terre des morts?, 1859;
Garibaldi, 1861; Les contes populaires en Italie, 1879; Les
nouvelles napolitaines, ecc.). Si cimentò anche nella satira
politica con buoni risultati; fu autore, in particolare, di una
raccolta di brevi commedie in versi ottonari intitolata
Théâtre des marionettes (1871).
Nella sua opera Notizie storiche documentarie sul brigantaggio nelle
province napoletane, tradusse e pubblicò il diario del
generale catalano Josè Borjes, giunto nel 1861 in Italia
meridionale per tentare un'insurrezione borbonica e divenendo noto
per l'alleanza con il brigante Carmine Crocco.
Tradusse dal tedesco in lingua francese il Faust di Goethe.
Opere in volume
* L'Italie est-elle La terre des morts?, Paris, L.
Hachette et C., 1860 (434 p.) Trad. it. L'Italia è Ella la
terra dei morti?, Venezia, Prem. stabil. tip. di P. Naratovich, 1863
* Notizie storiche documentarie sul brigantaggio nelle
province napoletane dai tempi di fra Diavolo sino ai nostri giorni,
Firenze, Gaspero Barbèra, 1862, Ed. Roma, Adelmo Polla, 1986.
* La camorra: notizie storiche raccolte e documentate
per cura di Marco Monnier, 2ª ed., Firenze, G. Barbera, 1862
Ed. con prefazione di
Nicola Tranfaglia, Cosenza, Memoria, 1998
* Histoire du brigandage dans l'histoire meridionale,
Paris, Michel Levy Frères, 1862
*
www.bibliocamorra.altervista.org
Origini e storia della camorra
Le origini della camorra
Quando si cercano le origini della Bella Società Riformata
capita di imbattersi in alcuni avvenimenti – leggenda o
realtà? – spesso ripresi come atti costitutivi della setta
ottocentesca.
Negli anni ‘20 dell’800 Pasquale Capuozzo, uomo che si guadagnava la
vita ferrando gli zoccoli e che arrotondava “facendo la camorra”,
ovvero estorcendo denaro con la violenza sul lavoro altrui, nel
significato dell’epoca, promosse una riunione segreta nella chiesa
di Santa Caterina a Formello, nel cuore di Napoli, per decidere le
regole di chi volesse “fare camorra” e regolamentare un gruppo di
delinquenti e cani sciolti troppo indisciplinato. Secondo leggenda,
Capuozzo fu nominato nel corso della riunione primo capintesta della
città. Si parla degli anni ‘20 dell’800.
Venti anni dopo, un altrettanto forse leggendario Francesco
Scorticelli, contaiolo della camorra, nel 1842 avrebbe scritto un
testo di 26 regole, denominato “frieno”. I dubbi
sull’originalità del testo non sono mai stati dissipati.
Episodi destinati, dunque, a restare nella leggenda, vista anche la
distruzione di buona parte delle fonti di polizia borbonica che
avrebbero potuto probabilmente fare chiarezza sugli episodi.
Marc Monnier, nella sua storia della camorra, fonte pubblicistica
più attendibile per la lettura della camorra del periodo, non
crede nell’esistenza di un codice scritto, innanzitutto
perché la maggior parte degli affiliati non sapeva né
leggere né scrivere. In secondo luogo perché la
trasmissione delle regole, secondo Monnier, aveva carattere orale.
Francesco Mastriani, nella sua opera dal titolo "I vermi. Studi
storici su le classi pericolose a Napoli", del 1863/4, riporta il
"codice della camorra" riprendendolo dall'opuscolo anonimo dal
titolo "Natura ed origine della misteriosa setta della camorra nelle
sue diverse sezioni e paranze. Linguaggio convenzionale di essa, usi
e leggi". In ventiquattro punti viene raccolto il codice della
camorra.
L'interessante testo è pubblicato da Pasquale Sabbatino ne
"Le città indistricabili".
Il saggio di Marc Monnier
Sulle origini ottocentesche del fenomeno della camorra, non si
può prescindere da un testo al quale tutti gli autori
successivi fanno poi riferimento. Si tratta di “La camorra. Notizie
storiche raccolte e documentate” volume preziosissimo scritto nel
1863 da Marc Monnier, professore italo-svizzero che nacque a Napoli
e qui passò la giovinezza prima di trasferirsi altrove, salvo
poi ritornarci dal 1855 al 1864 per affari di famiglia.
Il suo è un testo fondamentale innanzitutto perché
è la prima opera pubblicistica sul fenomeno poi perché
è un testo storico-sociologico che propone un’analisi molto
chiara del fenomeno.
Monnier che studiò all’epoca, come racconta, centinaia di
carte della Polizia, scrive innanzitutto che, per quanto abbia
cercato fonti orali e scritte, non ha trovato tracce
dell’organizzazione in città prima del 1820-1830. Negli
scritti dei grandi storici che raccontano la rivoluzione napoletana
del 1799, non c’è traccia del fenomeno. Quindi, anche se non
si è riusciti a individuare un preciso atto di nascita della
setta camorristica, Monnier ne collocava la vera comparsa non prima
del periodo degli anni venti dell’Ottocento. È tra questi
anni e il 1860 che la camorra si sarebbe formata prima nelle carceri
poi sul territorio urbano.
Scrive Marcella Marmo, docente di Storia Contemporanea alla Federico
II e storica della camorra delle origini: «Benché
già questa generazione di metà secolo non riuscisse a
individuare un preciso atto di nascita della setta, la memoria
recente ne collocava la comparsa non prima del 1820-30 (non ce
n’è traccia infatti nei grandi storici del 1799) e ne trovava
alcuni precedenti nelle tradizioni estorsive carcerarie, attestate
da prammatiche e fonti gesuitiche cinque-settecentesche che Monnier
non manca di citare per esteso, per dedurne tuttavia la
novità del fenomeno settario, solo di recente così
‘visibile’, in particolare sul territorio urbano. Presente con
distinte paranze per settori di tangente nei dodici quartieri delle
ripartizioni amministrative, la cosiddetta ‘società onorata’
o ‘ bella società riformata’ era organizzata con una vera e
propria gerarchia interna (…) attraverso un reclutamento e una
carriera ritualizzati che dal picciotto di sgarro conducevano al
camorrista, al camorrista proprietario, al capo società di
quartiere, al capintesta o re della camorra di tutta Napoli. Le
tante storie apprese da fonti orali, le numerose biografie criminali
ricevute dal questore di Napoli del 1862 non lasciavano dubbi sulla
natura marcatamente plebea e criminale del fenomeno, e sul ruolo
svolto nell’emergere di esso da precisi livelli aggregativi, che lo
rendevano ben distinguibile da altri fatti sociali nel gran
calderone della corruzione e della violenza della grande
città capitale».
Modelli di riferimento della camorra delle origini
Nel periodo della sua nascita, la camorra sembra imitare altri
modelli associativi incontrati in carcere o presenti nella
società. In merito, la docente di Storia Contemporanea della
Federico II e storica della camorra delle origini, Marcella Marmo,
membro del comitato scientifico della Biblioteca digitale sulla
camorra, nel saggio «Ordine e disordine: la camorra napoletana
dell’Ottocento», contenuto nella rivista "Meridiana" dedicata
a "Mafia, ‘ndrangheta, camorra" scrive:
«La frequentazione dei liberali in carcere può avere
offerto un modello per l’aggregazione di uomini e fenomeni
disparati: ha chiari echi massonici il vincolo settario forte,
ritualizzato dal giuramento di sangue, di quella che a metà
secolo veniva chiamata anche Bella Società Riformata, e si
diceva avesse tra i compagni anche dei framassoni».
Ma non solo massoneria e carboneria. La camorra sembra ispirarsi,
nella sua struttura associativa, al linguaggio dell’onore tipico del
mondo nobiliare e alla tangente-tassa divisa per quartieri e paranze
tipica dell’amministrazione fiscale. Il codice dell’onore per la
Bella Società riformata dell’Ottocento è il linguaggio
parlato all’interno della setta. Detta le virtù e le regole
che il perfetto camorrista deve avere. L’omertà, la
fedeltà alla setta e la solidarietà – rituale ma anche
materiale - coi settari sono le più importanti.
All'origine della parola
Sul tema della ricostruzione etimologica della parola (tema
sviluppato nella sezione "Parole e gergo" della Biblioteca digitale
sulla camorra) Isaia Sales, sociologo che ha dedicato parecchi studi
al tema della criminalità organizzata napoletana, tra i quali
il testo del 1993, "La camorra Le camorre" scrive:
«Sull’origine del termine “camorra” non c’è accordo tra
gli studiosi. Prima di addentrarci nell’elenco numeroso di tutte le
possibili spiegazioni, conviene esporre i significati con i quali
è entrato nel linguaggio comune. “Camorra” è
innanzitutto un’attività prima ancora che un’organizzazione
delinquenziale. Anzi essa indica precisamente un tipo di
attività malavitosa svolta: l’estorsione. “Prendersi la
camorra” vuol dire infatti estorcere un guadagno minacciando o
esercitando violenza, al punto che “camorra” ed “estorsione” sono
diventati, nel tempo, sinonimi. […] Dunque la parola indica
un’imposizione, un’esazione, una tassa che si paga a chi è in
condizione di esercitare ritorsioni violente all’eventuale rifiuto,
e indica al tempo stesso la cosa estorta. Strettamente legato a
questo significato ce n’è un altro: “camorra” è
un’attività delinquenziale fortemente organizzata, ed
è, di conseguenza, l’insieme di coloro che vi aderiscono.
Nella lingua italiana il termine è entrato nel senso di “lega
di persone disoneste per ottenere illecitamente favori o guadagni
ingiusti o anche l’insieme delle loro arti e delle loro azioni, un
accordo per usare soperchierie, un agire ingiustamente a vantaggio
del proprio ed a danno altrui. […] In definitiva, la parola
“camorra” indicava allo stesso tempo un’organizzazione criminale e
l’attività da essa svolta (l’estorsione)».
Il gioco della morra
Arturo Labriola, anarcosindacalista, autore nel 1901 de “Le leggenda
della camorra”, è il primo ad indicare l’origine di camorra
dal gioco della morra, in particolare, parlando di capo della morra,
di colui, cioè, che controllava il gioco prendendo i soldi
sul vincitore.
La morra era un gioco molto diffuso nella città di Napoli
nell'Ottocento. Per giocare bastava poco. Si giocava in due, a
vincere era chi, più velocemente, riusciva a indicare il
numero che i due giocatori sommavano aprendo insieme,
contemporaneamente, le dita di una mano. Gioco semplice ma che
raggiungeva una forte violenza verbale.
L'etimologia più attendibile fa riferimento, dunque, a un
campo che rientrava nelle tipiche attività della camorra che
sul gioco per strada, nelle carceri ma anche nelle case da gioco,
faceva sentire la sua presenza imponendo la tangente come prezzo
della mediazione. Il camorrista si poneva, ovvero, come garante
dell’esattezza del gioco.
Ad avallare questa tesi, un documento ufficiale: la prammatica del
1735. Questo documento rappresenta, ad oggi, la prima comparsa della
parola camorra in un atto ufficiale. Nella prammatica si autorizzava
a Napoli l'apertura di otto case da gioco di fronte a palazzo reale,
con la dicitura “camorra avanti palazzo”.
Arturo Labriola scrive: «La parola camorra ha la sua
interpretazione in sé stessa e deriva manifestamente dal
giuoco della morra, che è appunto solito nel popolino. Non
c’è bisogno di ricavare dall’arabo o dallo spagnuolo la
parola, che ha dovuto sorgere dal cuore stesso del popolo, per una
consuetudine di vivere. E del resto ove si ponga mente che il
fenomeno della camorra si svolge più acutamente intorno alle
case da giuoco di infimo ordine o meglio quotate, apparrà
verosimile che da qualche consuetudine plebea di giuoco trasse la
parola origine. Volere la camorra, frase che anche oggi in certi
ambienti si usa, avrà dovuto proprio significare: volere una
parte alla vincita del giuoco della morra».
Liborio Romano
Discusso personaggio dell’Italia risorgimentale, Liborio Romano ebbe
un ruolo fondamentale nelle vicende che traghettarono le regioni
dell’Italia meridionale dal Regno delle Due Sicilie al Regno
d’Italia, che stava nascendo, guidato dai Savoia.
Aderendo alla causa risorgimentale, partecipò ai primi moti
del 1820 e poi agli avvenimenti del 1848 che portarono alla
concessione della costituzione da parte del re Ferdinando II di
Borbone.
Nel 1860, mentre Garibaldi organizzava i suoi Mille, e mentre si
avvicinava la fine del Regno delle Due Sicilie, Liborio Romano venne
nominato dal re Francesco II, ultimo monarca del casato dei Borbone,
prefetto di Polizia.
Conferitogli in seguito la carica di ministro di polizia, fu
lungimirante nel capire in che direzione strava andando il regno,
prese perciò contatti segreti con Camillo Benso conte di
Cavour e con Giuseppe Garibaldi e pensò a preparare il
terreno per il passaggio del Mezzogiorno dai Borbone ai Savoia.
Fu lo stesso Liborio Romano a suggerire al re Francesco II di
Borbone di lasciare la capitale e di riparare a Gaeta e poi a Roma
senza opporre resistenza alle truppe garibaldine che si avvicinavano
alla città, con l’intento di evitare spargimenti di sangue.
In questo momento arriva la sua intuizione di cooptare i più
forti camorristi e delinquenti dell’epoca per tenere buona la
città all’ingresso di Garibaldi.
Grazie al suo intervento si evitarono problemi di ordine pubblico e
Garibaldi entrò in una città calma e tenuta sotto
controllo. Ma il prezzo da pagare per la città fu importante,
vista l'escalation criminale che ne seguì. Garibaldi
confermò Romano ministro dell’interno fino al 24 settembre
1860, data in cui entrò a far parte del Consiglio di
Luogotenenza. Alle prime elezioni del neonato Regno d’Italia,
Liborio Romano venne eletto deputato. Ritiratosi dopo pochi anni,
morì nel 1867.
La camorra indossa la divisa
L’ingresso dei più forti camorristi nella guardia cittadina
nel periodo di formazione della nazione italiana e il tentativo di
legalizzazione della camorra rappresentarono, per Don Liborio Romano
e per il nascente Stato italiano, un vero fallimento perché
non si riuscì a normalizzare la mala vita, così come
si sperava, mentre fu un grande successo per la “camorra in coccarda
tricolore”, come venne poi chiamato il fenomeno in questa breve
fase.
Legittimata dalla divisa, la camorra negli anni '60 dell'Ottocento
acquisì nuova potenza e si aprì nuove strade di
guadagno illecito. La “camorra in coccarda tricolore” apparve
legittimata verso il basso, capace ovvero di gestire il popolo, ma
non irreggimentata dall’alto, per cui con indosso la divisa ebbe
più spazio per fare quello che già faceva. Un episodio
questo fondamentale anche per la storiografia sulla camorra.
In una parte della memoria storico-politica successiva ai fatti, la
“camorra in coccarda tricolore” rappresenta l’emblema della
delegittimazione assoluta del potere generale verso il basso e, allo
stesso tempo, la prova di una natura della camorra come contropotere
plebeo, delinquenziale sì, ma capace allo stesso tempo di
assolvere funzioni sociali e politiche complesse, come appunto
quella di rappresentanza e “partito della plebe”, come è
stata spesso definita.
Al di là delle interpretazioni, l'episodio dell'ingresso dei
maggiori camorristi nella guardia cittadina, ci dà l’idea di
un fenomeno delinquenziale ben organizzato e capace, in questa
congiuntura politica, di valorizzare il suo controllo del territorio
microcriminale.
Emerge, inoltre, in questa congiuntura, un altro aspetto che
resterà presente per tutta la storia della camorra, cifra di
lettura del fenomeno: l’opportunismo dell’organizzazione. La
risposta alla chiamata di Liborio Romano non fu, infatti, adesione
alla causa risorgimentale e liberale ma, piuttosto, sfruttamento di
una situazione propizia.
A riguardo è indicativa una canzoncina camorrista riportata
per primo da Dalbono nel 1866: “Nuje nun simm’ Cravunar’, Nuje nun
simm’ Rialist’, Ma facimm’ ’e cammurist’, Famm’ n’… a chill’ e
a chist’”.
A citare questa illuminante canzoncina è Marcella Marmo che,
nel saggio pubblicato nella rivista "Meridiana" n.7/8 del 1990 e
dedicato alle mafie scrive:
«Non posso non citare una famosa canzoncina camorrista, che
sintetizza bene l’orientamento nella congiuntura delle generazioni
pre-1860: "Nuje nun simm’ Cravunar’, Nuje nun simm’ Rialist’, Ma
facimm’ ’e cammurist’, Famm’ n’… a chill’ e a chist’". Dagli
anni quaranta ai plebisciti del ’60, questa o quella scelta di campo
viene dunque percepita come una scelta autonoma, funzionale
all’economia del gruppo (“nuje facimm’ ’e cammurist), che si
ritiene autonomo ed intenzionalmente ostile (Famm’ n’… a chill’ e a
chist’) a quante altre élites o istituzioni ne richiedessero
comunque l’alleanza. Informazioni molto generali, come queste,
lasciano solo intuire come la collaborazione mercenaria abbia potuto
realmente contribuire a confermare o accrescere la “spaventevole”
autorità dei camorristi nei quartieri, che appariva a questi
scrittori liberali un prodotto della storia ma più ancora
della perversa congiuntura, dominata a tutti i livelli sociali e
politici dalla forza e dalla paura».
Memoria sulla consorteria dei Camorristi
Archiviati presso il Ministero dell’Interno tra «atti
diversi» di gabinetto del cinquantennio che va dal 1849 al
1895, si trovano due manoscritti, rinvenuti da Marcella Marmo,
«Memoria sulla consorteria dei Camorristi esistente nelle
Provincie Napolitane» e «Rapporto sulla camorra»,
conservati senza firma e senza data. Solo un appunto a mano, con
scritto “1860”, ci mette probabilmente sulle tracce della
congiuntura politica dell’Unità d’Italia.
Marmo scrive: “Benché in stesura non ufficiale, si tratta con
ogni probabilità della documentazione sulla camorra pervenuta
al Ministero di Torino nella primavera del 1861 dal Dicastero di
Polizia della Luogotenenza napoletana, affidato fin dal novembre del
1860 a Silvio Spaventa, già emigrato di prestigio e leader a
Napoli del “partito piemontese”. Tra i tanti e complessi problemi
dell’ordine pubblico e degli indirizzi generali per la politica
meridionale nel 1861, l’attivo ed intransigente Consigliere
dell’Interno e della Polizia fin dalle prime settimane del suo
insediamento si era orientato a reprimere la virulenta camorra della
capitale, organizzazione misteriosa ma visibilissima nelle pratiche
estorsive tra carceri e città”. Due testi che rappresentano
dunque un buon osservatorio sul fenomeno criminale di metà
Ottocento.
Di seguito alcuni tra i più interessanti passaggi tratti
dalla «Memoria»:
«Sotto il patronato della Madonna del Carmine vive nelle
Province Napolitane una mala consorteria che Consorteria dei
Camorristi o Camorra semplicemente si appella. Essa ha organamento,
mezzi di azione e scopo determinato e questo scopo è: campare
la vota nell’ozio mediante estorsione e scrocco da praticarsi a
scapito dei giuocatori anzi tutto, poi di quanti si guadagnano anche
onestamente un pane. Non sono riuscito a spiegare la causa di questo
nome: camorristi».
«I camorristi sono divisi in tre classi: la prima comprende i
Picciotti d’onore, poi vengono i Picciotti di sgarro, nella terza
categoria sono i Camorristi propriamente detti. Queste tre classi
costituiscono un vero ordine gerarchico, né si può
essere Camorrista senza essere prima stato Picciotto d’onore e
Picciotto di sgarro».
«La Consorteria dei Camorristi ha tanti centri quanti sono i
Capo-luoghi di Provincia. A Napoli havvi un centro in ogni quartiere
e i quartieri della città sono dodici. Ciascun centro ha un
capo, eletto di camorristi compresi nella sfera in cui egli
avrà impero. Si sceglie sempre a capo della società
chi è più provetto ed abile in materia di Camorra e
maneggio del coltello. Nei bagni, nelle prigioni, nei corpi
militari, è pure stabilita la Camorra, ed in ogni luogo di
pena come in ogni corpo militare havvi un proprio
Capo-società.Tutti questi camorristi sono in relazione fra
loro, quelli di una Provincia con quelli delle altre Province,
quelli dei bagni, delle prigioni e dell’armata con quelli che sono
liberi».
«Ora ecco in quel modo lucrano i camorristi. Essi intervengono
dove si giuoca, sui mercati, nei postriboli, nelle piazze e strade,
dove vi sono vetture a nolo o facchini, si trovano al porto, si
trovano in qualsiasi altro luogo pubblico e sempre quando uno busca
qualche cosa, deve farne parte al camorrista. (…) E non vi è
modo alcuno per sottrarsi al pagamento di questo tributo dovuto alla
Camorra. Il Camorrista ha mezzi troppo potenti e temuti,
perché gli si osi far resistenza».
Rapporto sulla camorra
Archiviato presso il Ministero dell’Interno tra «atti
diversi» di gabinetto del cinquantennio che va dal 1849 al
1895, insieme con la Memoria, c'è il documento intitolato
«Rapporto sulla camorra».
Seguono alcuni brani.
«La camorra è un sodalizio criminoso che ha per iscopo
un lucro illecito e che si esercita da uomini feroci sui deboli per
mezzo delle minacce e della violenza. La sua sede principale
è nei luoghi di custodia e di pena, ivi si manifesta nella
sua piena forza e vi giunge ad atti di scellerata ferocia».
«Ma il vocabolo camorra col decorrere del tempo mutò il
suo primitivo valore e fu applicato a denominare ogni abituale
estorsione e però furon detti camorristi non solo i veri
adepti alla consorteria, ma ben anche tutti coloro che vivono di
lucri indebiti prelevati sulle case di giuochi, di prostituzione e
sopra alcune specie d’industrie e di commercio. Di questa lebbra
è infetta Napoli e le province tutte e sebbene essa riposi
egualmente nella estorsione operata dal forte sul debole per mezzo
della minaccia e della violenza, l’indole ne è diversa per
caratteri sostanziali che la distinguono da quella che ha vita nei
luoghi di pena. Ed invero la camorra nel carcere costituisce
un’associazione, i di cui membri hanno gerarchia di gradi, hanno usi
tradizionali, metodi di ammissione, corrispondenza anche in luoghi
lontani».
«La camorra poi della città è di altra indole.
Il camorrista, così impropriamente denominato ha per lo
più un mestiere, che esercita, il suo regno è
limitato, egli non può uscirne».
«La prelevazione delle tasse si esercita nel modo più
schifoso e brutale che immaginar si possa. Tutto è soggetto a
tributo, lo si preleva principalmente sul giuoco, poi sull’ingresso
dei detenuti nel luogo di pena o di custodia, poi sulla vendita del
vino, dei commestibili e di qualsiasi oggetto. Tutto suscita
l’ingordigia del camorrista, egli preleva la sua parte dal danaro
largito dall’affetto dei congiunti e quando questo non ha più
denaro, lo spoglia prima dei suoi abiti, poi lo priva del
cibo».
La legge Pica: prima legge speciale
La prima “Legge di pubblica sicurezza” dello Stato italiano è
datata 15 agosto 1863 e prende il nome dal deputato pugliese che la
firmò: Giuseppe Pica.
La legge speciale conferiva al Governo la facoltà di
comminare – inizialmente per un periodo non superiore a un anno, poi
esteso a due – il domicilio coatto agli “oziosi, ai vagabondi, ai
camorristi, ai manutengoli e alle persone sospette”, previa
approvazione di una Giunta che doveva essere formata dal Prefetto di
Napoli, che la presiedeva, dal presidente del Tribunale, dal
sostituto procuratore del Re e da due consiglieri provinciali. Nel
testo della legge Pica, “procedura per la repressione del
brigantaggio e dei camorristi nelle province infette”, fece la sua
prima comparsa, in una disposizione del nuovo Stato, il termine
camorrista. Presentata come "mezzo eccezionale e temporaneo di
difesa", la legge Pica, redatta da una Commissione parlamentare dopo
un suo viaggio al sud, interveniva senza bisogno di un processo.
In due anni, tra il 1863 e il 1864, la commissione provinciale prese
in esame ben 1800 posizioni con richieste di domicilio coatto di cui
1200 subirono condanna. Insieme all’epurazione messa in atto da
Spaventa, costituì la prima guerra di stato alla camorra. La
prima legge di polizia ordinaria dello Stato Italiano entrò
in vigore due anni dopo, nel 1865.
Alla legge Pica seguono due provvedimenti di carattere eccezionale:
uno nel 1864, l’altro nel 1866, che rimpiazzavano la legge ordinaria
del ‘65. Tra le leggi di polizia del '65 e del '71 c’è una
differenza: mentre nella prima i camorristi non rientravano nelle
categorie sociali pericolose, passibili delle temibili “misure
preventive” (come oziosi, vagabondi, persone sospette), essi nel
1871 verranno reinseriti tra le persone sospette, come già
nelle leggi eccezionali.
Il ricorso, o la semplice invocazione, a una giustizia straordinaria
è una costante della storia della città, attribuibile
alla difficoltà nel trovare prove di colpevolezza per
incriminare i sospetti. Nasconde però una valutazione
politica del problema, come una sorta di ammissione di impotenza
della classe politica che si confessa incapace di risolvere in
maniera ordinaria al fenomeno.
Nel 1889 vengono promulgati il nuovo codice penale Zanardelli, dal
nome del ministro, e la nuova legge di Pubblica Sicurezza,
coordinata al primo e destinata a sostituire la vecchia legge del
1865. Ultimi atti dell’Italia liberale in materia penale, resteranno
in vigore, rispettivamente, fino al codice Rocco del 1930, il primo,
e fino alla nuova legge di pubblica sicurezza del 1926, la
seconda.
Il codice Zanardelli presentava significative innovazioni in senso
liberale e garantista, con l’abolizione della pena di morte, e
l’inserimento della libertà di sciopero. Aspetti che venivano
mitigati dalla concessione di maggiori poteri all’esecutivo e alla
polizia.
I provvedimenti d’ammonizione e di domicilio coatto svolgevano una
funzione di repressione preventiva nei confronti delle classi
pericolose. Il presupposto per la richiesta di ammonizione nella
nuova legge di PS per i delinquenti si basava, insieme alla classica
voce pubblica, sull’esistenza di precedenti incriminazioni,
indipendentemente dall’esito del processo.
Provvedimenti non certo garantisti, ma la difficoltà di
trovare prove dell’associazione si mostrò subito. Importante
momento di discussione su garantismo e antigarantismo, con caratteri
di scontro interistituzionale, e sull’applicazione o meno del reato
d’associazione per delinquere, sarà offerto, tra fine
Ottocento e primi anni del Novecento, dal processo Cuocolo, arrivato
non a caso subito dopo la ventata di moralizzazione suscitata
dall’Inchiesta Saredo.
Il voto: nuovo mercato della camorra
La seconda metà dell'Ottocento rappresentò per la
camorra il momento della scoperta di un nuovo mercato.
L'allargamento del suffragio giocò in merito un ruolo
fondamentale.
Gigi Di Fiore nel suo libro «La camorra e le sue storie. La
criminalità organizzata a Napoli dalle origini alle ultime
guerre», descrive molto bene quanto stava accadendo: «Il
Dio voto si affermava. L’allagamento del suffragio, seppure limitato
agli uomini e a persone con un alto censo e requisiti culturali,
faceva aumentare le possibilità di pressione che i camorristi
potevano esercitare sugli elettori, in appoggio a questo o quel
candidato. All’estorsione, dopo appena una decina di anni
dall’unità d’Italia, si aggiungeva un altro monopolio della
Bella Società Riformata che, però, continuava a non
possedere colore politico preciso. Gli appoggi ai candidati erano
momentanei e strumentali: i camorristi speravano di ricavarne
benefici immediati o successivi».
A proposito della presenza della camorra sulle elezioni, «Il
Mattino», nato nel marzo del 1892 e destinato a diventare il
maggiore giornale cittadino, in occasione di due tornate elettorali,
una per le elezioni provinciali del luglio 1892 e l’altra per le
elezioni politiche del maggio 1895, nel quartiere di Montecalvario a
Napoli, parla con chiarezza della presenza della malavita impegnata
nelle elezioni e presente nei seggi a sostenere l’uno o l’altro
candidato.
A scriverne è il direttore Edoardo Scarfoglio che il 30
luglio del 1892 scrive un articolo dal titolo “La mala vita e
l’elezione di Montecalvario”, duro attacco e denuncia del sistema
clientelare e affaristico che si serve, per fini elettorali, della
malavita.
«L’avvocato Girardi, che ha perorato assai fiaccamente per se
stesso davanti agli elettori di Montecalvario, nel suo
discorso-programma commise due errori di tattica talmente
grossolani, che non s’intende come abbia potuto cadervi. Il primo
(lo rilevammo ieri con sufficiente efficacia), ponendo in campo la
significazione morale della sua candidatura; e l’altro, lanciando
un’emozionante invettiva contro la mala vita suscitata contro di lui
da Billi. Chi ignora che tutte le speranze dell’on. Girardi riposano
appunto su questa tanto deprecata mala vita?».
Scarfoglio ha amici e – soprattutto – nemici in città. Le sue
parole possono essere dettate da inimicizie o interessi. L’accusa di
connivenza con la camorra e di manipolazione di questa forza per
vantaggi elettorali potrebbe essere usata dal direttore come arma
politica. Ciò che è certo, però, è che,
da un lato o dall’altro, gli articoli riflettono la presenza della
malavita nelle elezioni. L’impressione che si ha è quella di
una politica che tiene le redini e che indirizza i rapporti con la
mala vita locale che sta con chi gli concede favori, al di là
di ogni tipo di ideologia.
«Invano in un portoncino al numero 75 del vico Lungo San
Matteo si sono distribuite migliaia e migliaia di lire, senz’alcun
ritegno; invano la feccia di Montecalvario, violentemente scossa tra
il terrore dell’ispettore Rinaldi e la lusinga d’un biglietto di
banca, gli è stata suscitata contro, invano tutte le citeree
del quartiere hanno promesso piaceri inediti e gratuiti agli
elettori che tradissero il vecchio lupo nella fatal giornata: Billi
ha vinto», scrive Tartarin, pseudonimo di Scarfoglio, il primo
agosto 1892.
Il colera a Napoli
Nell’estate del 1884 una grave epidemia di colera colpì
Napoli, facendo contare, alla fine, circa settemila morti nella sola
città e quasi ottomila nella provincia.
A essere più duramente colpiti furono i vecchi quartieri di
Vicaria, Porto, Pendino, Mercato con il degradato tessuto di
fondaci, vicoli stretti, edifici putridi. L’epidemia pose il tema
della riqualificazione della città di Napoli al centro del
dibattito dell’opinione pubblica nazionale e legò,
inscindibilmente, le urgenti misure igieniche di cui Napoli
necessitava al più ampio obiettivo della modernizzazione
della città.
Per la prima volta si cominciò a parlare di un intervento
straordinario per Napoli. La legge «pel risanamento della
città di Napoli» fu approvata nel gennaio 1885 e
prevedeva la bonifica dei quartieri bassi, con finanziamento
statale, l’ampliamento della città, con la costruzione di
nuovi rioni, la realizzazione di fognature e il proseguimento della
costruzione dell’acquedotto del Serino. L’inaugurazione di una parte
dell’acquedotto e la cosiddetta "posa della prima pietra" per la
costruzione del nuovo rione Vomero, rispettivamente il 10 e l’11
maggio del 1885, lasciavano ben sperare sulla rapidità di
realizzazione dei lavori.
Ma, a una prima fase di concordia amministrativa dettata
dall’urgenza e dall’attenzione nazionale, seguirono quattro anni di
stallo dei lavori, bloccati di fronte alle difficoltà e alle
lotte interne alle giunte che si scioglieranno e si formeranno sulla
questione dei lavori del Risanamento.
La questione del Risanamento si incrocerà con la difficile
congiuntura finanziaria dell’Italia di fine secolo, e le vicende
generali del Paese si sovrapporranno a quelle di Napoli. Nella crisi
bancaria nazionale verranno coinvolti anche Istituti che avevano
contribuito col proprio capitale alla nascita della “Società
per il Risanamento”, affidataria dei lavori.
L’opera di risanamento della città di Napoli perderà
il carattere emergenziale e i suoi lavori si protrarranno ben oltre
i tempi previsti. Inoltre, la gestione dei finanziamenti
destò subito sospetti: inchieste amministrative sulle case
popolari e sulle opere del Risanamento e un clima di sospetto si
tradussero nel primo commissariamento del comune di Napoli, sciolto
nel 1891 e affidato al commissario regio Giuseppe Saredo.
Dieci anni dopo, Saredo firmò l’inchiesta* che porta il suo
nome, sui rapporti tra camorra e amministrazione a Napoli.
* L'Inchiesta Saredo
di Antonella Migliaccio
Nel clima surriscaldato dalla durissima campagna a mezzo stampa
condotta dal giornale socialista "La Propaganda" contro la
cosiddetta “camorra amministrativa”, campagna dall’eco nazionale,
maturò la necessità di fare chiarezza su quanto
accadeva a Napoli.
L’8 novembre del 1900 Giuseppe Saracco, presidente del Consiglio in
carica, firmò il decreto di istituzione della commissione
d’inchiesta col fine di indagare sulla cosiddetta “camorra
amministrativa”, ovvero sulla corrotta classe dirigente napoletana a
capo delle amministrazioni cittadine tra gli anni Ottanta e Novanta
portata alla luce dalla campagna moralizzatrice de "La Propaganda".
Il giornale si era fatto portavoce di una “triplice battaglia,
morale contro la camorra, politica contro la reazione ed economica a
favore del proletariato”, di forte impatto politico, tanto da
preoccupare le forze moderate, che avevano finito per appoggiare la
campagna moralizzatrice col fine di sottrarne il monopolio ai
socialisti.
L’eco degli scandali napoletani era arrivato anche in Parlamento. A
trentanove anni dall’Unità d’Italia, Napoli era già
stata commissariata nove volte.
L’inchiesta Saredo portò alla luce la grave situazione di
corruzione, di clientelismo e di generale inefficienza del Comune
napoletano. Notevole la mole di atti prodotti, di tipo ufficiale,
come delibere delle giunte, bilanci del Comune, verbali di
interrogatori, ma anche non ufficiali, come una documentazione fatta
di memorie, lettere, biglietti di raccomandazione di notevole
interesse. Si parlò nell’Inchiesta di “alta camorra”, dal
carattere borghese, distinta dalla camorra plebea, e pure in
contatto con questa attraverso la figura dell’intermediario.
Le indagini dell’Inchiesta si svolsero in un clima difficile,
ostacolate dai boicottaggi del personale amministrativo che
contrastava invece con il diffuso appoggio dell’opinione pubblica.
L’Inchiesta indagò profondamente sui meccanismi di formazione
del personale burocratico nel periodo unitario e sul funzionamento
della macchina amministrativa, e mise in luce una struttura da
sempre affollata ma aumentata negli ultimi anni, con meccanismi
d’assunzione per meriti, come previsto dal regolamento, regolarmente
disattesi. Età avanzata degli impiegati, basso grado
d’istruzione, esubero del numero degli assunti ma, soprattutto, il
cumulo di doppi e a volte triplici incarichi di lavoro in diversi
uffici. Significativo il dato finanziario di questa politica di
impiego: le retribuzioni erano tra le più basse d’Italia, a
fronte di una spesa comunale dedicata agli stipendi, invece, tra le
più alte.
L’inchiesta Saredo fece luce sul quadro di malgoverno e la natura
clientelare degli scambi, disegnando una distorta realtà
della quale l'onorevole Casale, oggetto degli attacchi de La
Propaganda, rappresentava solo la punta di un iceberg di corrotti.
"La propaganda"
«La Propaganda», rivista prima e quotidiano poi,
espressione del pensiero socialista, giocò un ruolo
importante nello smuovere la città di Napoli dal torpore in
cui versava a fine Ottocento.
A partire dal maggio 1899, il giornale si fece portavoce di una
“triplice battaglia, morale contro la camorra, politica contro la
reazione ed economica a favore del proletariato di forte impatto
politico", tanto da preoccupare anche le forze moderate che finirono
per appoggiare la campagna moralizzatrice pur di sottrarne il
monopolio ai socialisti.
Tutto cominciò con un’inchiesta sul modo in cui il Comune di
Napoli aveva stipulato alcune convenzioni per l’illuminazione
pubblica e i tram cittadini. Bersagli principali delle accuse della
Propaganda furono il sindaco Celestino Summonte e il potente
parlamentare Alberto Aniello Casale, entrambi, secondo il giornale,
sostenuti dalla camorra. Anche il direttore de Il Mattino, Edoardo
Scarfoglio finì nel mirino del quotidiano socialista, che
parlò della triade Casale-Summonte-Scarfoglio come punta di
un iceberg corrotto di funzionari, politici e amministratori che
verrà poi descritto dall’inchiesta Saredo di lì a
poco.
Durissimi gli attacchi contro la cosiddetta “camorra
amministrativa”.
L’on. Casale si vide costretto a querelare il giornale, ma il
processo che ne seguì fu tutto a suo svantaggio: i
giornalisti della «Propaganda» furono assolti
perché i fatti di corruzione vennero provati. Casale si
dimise. L’eco degli scandali napoletani arrivò anche in
Parlamento: era maturo il clima per nominare una commissione di
inchiesta.
Il commissariamento di Napoli
Sull'aprirsi del Novecento, la città di Napoli fu interessata
da un grande scandalo - una sorta di tangentopoli ante litteram -
che condusse al commissariamento della città.
Ma come maturò la situazione che aprì l'infelice
storia dei commissariamenti dell'amministrazione cittadina?
Non sono da sottovalutare le contingenze storiche post unitarie che
condussero fino all'Inchiesta Saredo. Napoli era una città in
cerca di un riposizionamento, perso il ruolo di capitale aspirava
una nuova identità. Sul territorio urbano si faceva sempre
più accesa la lotta per il controllo del Comune e per la
conquista di seggi in Parlamento.
Intanto, nel 1884, Napoli fu sconvolta da una gravissima epidemia di
colera che fece contare più di 6800 morti solo in
città. Fu questa l’occasione in cui, per la prima volta, si
cominciò a parlare di un intervento straordinario per Napoli:
nel 1885 venne approvata la prima legge speciale per Napoli che
prevedeva fondi per lavori di ristrutturazione e ammodernamento
della città.
La società del Risanamento si aggiudicò i lavori. Ma
la gestione dei finanziamenti destò subito sospetti:
già cinque anni dopo furono disposte due inchieste
amministrative sulle case popolari e sulle opere del Risanamento.
Un clima di sospetto che si tradusse nel primo commissariamento del
comune di Napoli che, sciolto nel 1891, fu affidato al commissario
regio Giuseppe Saredo.
C’erano già tutte le premesse per un terremoto della vita
cittadina che culminerà sotto l’inchiesta dello stesso Saredo
per i rapporti tra camorra e amministrazione.
Brani dall'inchiesta Saredo
“Il male più grave, a nostro avviso, fu quello di aver fatto
ingigantire la Camorra, lasciandola infiltrare in tutti gli strati
della vita pubblica e per tutta la compagine sociale, invece di
distruggerla, come dovevano consigliare le libere istituzioni, o per
lo meno di tenerla circoscritta, là donde proveniva,
cioè negli infimi gradini sociali. In corrispondenza quindi
alla bassa camorra originaria, esercitata sulla povera plebe in
tempi di abiezione e di servaggio, con diverse forme di prepotenza
si vide sorgere un’alta camorra, costituita dai più scaltri e
audaci borghesi. Costoro, profittando della ignavia della loro
classe e della mancanza in essa di forza di reazione, in gran parte
derivante dal disagio economico, ed imponendole la moltitudine
prepotente ed ignorante, riuscirono a trarre alimento nei commerci e
negli appalti, nelle adunanze politiche e nelle pubbliche
amministrazioni, nei circoli, nella stampa. È quest’alta
camorra, che patteggia e mercanteggia colla bassa, e promette per
ottenere, e ottiene promettendo, che considera campo da mietere e da
sfruttare tutta la pubblica amministrazione, come strumenti la
scaltrezza, la audacia e la violenza, come forza la piazza, ben a
ragione è da considerare come fenomeno più pericoloso,
perché ha ristabilito il peggiore dei nepotismi, elevando a
regime la prepotenza, sostituendo l’imposizione alla volontà,
annullando l’individualità e la libertà e frodando le
leggi e la pubblica fede”.
Brano tratto dalla Regia commissione d’Inchiesta per Napoli,
Relazione sull’amministrazione comunale, di cui era relatore il
senatore Saredo.
Di difficile lettura sono le relazioni camorriste quando si
incontrano con i poteri alti. Il rischio che si corre – avverte
Marcella Marmo, docente di Storia contemporanea
dell’Università degli Studi di Napoli Federico II,
ricercatrice sulla camorra dell’Ottocento e componente del comitato
scientifico della Biblioteca sulla camorra – è quello di
incorrere in errori interpretativi, confondendo le relazioni che il
network delinquenziale intesse con altri gruppi, con l’esistenza di
una “camorra alta” o “in guanti bianchi” che dirige quella bassa.
L'omicidio Notarbartolo
Il delitto Notarbartolo fu il primo delitto eccellente di mafia. Il
primo febbraio del 1893 sul treno Termini-Palermo si consumò
l’assassinio che l’opinione pubblica non tardò a bollare come
di mafia.
Emanuele Notarbatolo, ex direttore generale del Banco di Sicilia
morì accoltellato e i sospetti caddero subito su un deputato
della Destra storica, Raffaele Palizzolo, come mandante
dell’omicidio. Lo scenario in cui va inquadrato l’omicidio è
quello dei complicati networks che fanno incrociare cosche, politica
centrale, alta finanza e interessi delle più potenti lobbies
cittadine palermitane.
Il caso scosse l’opinione pubblica italiana. Per la prima volta, ci
si trovò a fare i conti col fenomeno mafioso che, rotti
confini insulari, invase le aule dei tribunali di Milano, Bologna e
Firenze, irrompendo nello scenario nazionale.
Venne allo scoperto un fenomeno mafioso che si muoveva tra
affarismo, mafia, politica e questione bancaria e che lo proiettava
da una dimensione atavica e arretrata a un contesto che aveva a che
fare con la modernità.
Il caso Notarbartolo incrociò, inoltre, un’importante
inchiesta realizzata tra il 1898 e il 1900 dal questore di Palermo
Ermanno Sangiorgi, documento rivelatore della struttura associativa
delle cosche mafiose di fine Ottocento. I documenti raccolti
disegnarono la mappa delle cosche (o nasse), la loro struttura
organizzativa, i gradi.
La mafia emerse come organizzazione federata attiva nell’agro
palermitano, composta da un insieme di cosche distinte per
competenza territoriale ma coordinate da una conferenza di capi e da
un «capo supremo», segno di continuità
associativa nella zona delle borgate palermitane con la mafia
novecentesca.
Oltre al processo Notarbartolo, un’altra inchiesta veniva condotta a
Palermo, parallelamente, sul piano amministrativo, nominata dal
governo Saracco (come l’Inchiesta Saredo) per la moralizzazione del
municipio. Si tratta dell’Inchiesta Schanzer che indagava sulla
Sicilia degli anni Novanta e sui rapporti clientelari dell’on.
Palizzolo venuti fuori nel corso del processo Notarbartolo.
L’inchiesta rivelò un forte uso di clientele, come nella
situazione napoletana, ma un intreccio tra mafia e politica
più stretto e provato.
La ricostruzione del caso Cuocolo
Il processo Cuocolo rappresentò un caso interessante per
numerosi motivi, non solo strettamente processuali.
Innanzitutto si è probabilmente di fronte al primo caso in
cui la collaborazione, non rara tra mafiosi/camorristi e polizia, fu
portata in tribunale.
Gennaro Abbatemaggio, ricordato come il primo pentito di camorra,
era affiliato all’organizzazione col grado di picciotto ed era un
confidente abituale delle forze dell’ordine, una faccia nota. Salvo
poi nel suo memoriale, successivo al processo, raccontare di essere
stato convinto alla fasulla delazione dai Carabinieri e dal denaro
offertogli.
Inoltre, nell'attirare l'attenzione su questo processo dei primi del
Novecento, fu decisivo anche il coinvolgimento di una camorra mista.
Non solo quella della massa di affiliati che gestisce i più
diversi affari illeciti, ma anche quella elegante dei circuiti di
cavalli e aste che tanto ricordava l’“alta camorra” dell’Inchiesta
Saredo, il cui ricordo era ancora molto caldo in città.
Fu un processo che vide il forte scontro tra garantismo e
antigarantismo, con aspri toni e conflitti inter-istituzionali, tra
la Questura e i Carabinieri, ma anche all’interno della stessa
magistratura.
Rappresentò, infine, per l’attenzione locale ma anche
nazionale di giornali e gente comune, il primo momento della
“nazionalizzazione” della camorra (a scriverlo è Marcella
Marmo che la riprende dalla pubblicistica dell’epoca) ovvero
dell’uscita allo scoperto della organizzazione sull’intero
territorio nazionale. I giornali portarono alla conoscenza
dell’intero paese l’esistenza, le attività e le facce della
camorra.
Le fasi del processo Cuocolo
l processo Cuocolo, per l'uccisione dei coniugi basisti della
camorra, iniziò nel 1906.
La prima istruttoria, messa in piedi contro un gruppo di noti
camorristi che il giorno dell’omicidio banchettava poco lontano dal
luogo del ritrovamento del corpo di Cuocolo, fallì per
insufficienza di prove. La pista camorrista fu rilanciata l’anno
seguente dalla polizia giudiziaria dei Reali Carabinieri, che
portarono al procuratore una persona a conoscenza dei fatti, tale
Gennaro Abbatemaggio, primo pentito di camorra, poi rivelatosi falso
pentito, sulle cui rivelazioni si costruì l’accusa.
I Carabinieri del comandante Fabroni – in opposizione alla Questura
e alla sua polizia giudiziaria sospettata di sostenere la pista del
furto con l’obiettivo di proteggere i camorristi – impostarono il
processo sull’associazione per delinquere attraverso reiterate
falsificazioni di prove: due lettere fatte preparare con
rapidità da un presunto tradito che chiedeva giustizia al
Tribunale della Camorra, e un presunto anello di Cuocolo, prova
dell’avvenuto assassinio, trovato dai Carabinieri in assenza della
difesa a casa del presunto tradito.
Intorno alla produzione di prove false si mobilitò l’opinione
pubblica garantista e si provocò uno scontro interno anche
alla magistratura, con la sottrazione del processo a un PM
garantista di alto prestigio, Leopoldo Lucchesi Palli.
Il processo, che per legittima suspicione fu spostato alla Corte
d’Assise di Viterbo nel 1911-1912, terminerà con la vittoria
della parte colpevolista e antigarantista. Dure pene saranno
comminate: trent’anni agli imputati di duplice omicidio, cinque agli
imputati per sola associazione.
Il processo risulta un punto d’arrivo di una strategia giudiziaria
che aveva cercato di applicare a livello processuale il paradigma
associativo, rilanciandolo contro la camorra in linea con il
riaprirsi di un’attenzione penalistica alla mafia negli anni del
processo Notarbartolo.
Nel corso degli anni la difesa cercherà più volte di
riaprire il processo, appigliandosi alle irregolarità e alle
manipolazioni probatorie. Solo nel 1927 le ritrattazioni del falso
pentito Abbatemaggio confermeranno i dubbi e le denunce
dell’opinione pubblica garantista, rappresentata dal PM Lucchesi
Palli e da un avvocato-giornalista de «Il Mattino»,
Diodato Lioy che ancora per anni si erano spesi per la causa
innocentista. Il processo però non fu riaperto e il caso si
risolse con la remissione delle pene solo negli anni ’30, dopo che
il delatore del 1907 inviò un memoriale di ritrattazione.
"Il Mattino"
Il 16 marzo del 1892 viene pubblicato il primo numero de «Il
Mattino», giornale fondato da Edoardo Scarfoglio insieme con
sua moglie Matilde Serao, in un panorama giornalistico culturalmente
molto vivo.
In città, infatti, si pubblicavano con buone tirature il
Roma, il Pungolo, il Piccolo, il Corriere di Napoli, e dal 1889
anche il quotidiano La Propaganda, voce del socialismo napoletano.
In questo quadro di ricchezza culturale la nuova esperienza de
«Il Mattino» cercherà di ritagliarsi il suo
pubblico. Un lungo editoriale a firma del direttore Scarfoglio
saluta i lettori e spiega la nascita del giornale, costola del
Corriere di Napoli di Matteo Schilizzi, cui avevano collaborato i
coniugi prima del nuovo percorso. Al distacco doloroso dal passato
Scarfoglio affianca l’entusiasmo per la nascita di un “giornale la
cui voce di Napoli si spandesse per tutta quanta l’Italia; e fosse
insieme un elemento di cultura e di civiltà per le nostre
provincie, e un campione dei diritti meridionali davanti al resto
della patria”.
Numerose le firme de «Il Mattino»: uno fra tutti il
giovane Ferdinando Russo si occuperà della cronaca cittadina
e pubblicherà numerose poesie sui costumi napoletani. Il
giornale vanterà anche una vasta schiera di illustri
collaboratori, partendo da Gabriele D’Annunzio, amico di Scarfoglio,
che pubblicherà numerose poesie in prima pagina, e
Giosuè Carducci, per arrivare a Rocco De Zerbi e Francesco
Saverio Nitti.
Quattro pagine costruite su cinque colonne, con il fondo
solitamente a firma di Tartarin, pseudonimo di Scarfoglio. Alla
Serao spettava la rubrica «Api, Mosconi e Vespe», con lo
pseudonimo gibus, mentre diventava “Giuliano Sorel” quando firmava
le sue inchieste sociali che portavano i lettori nei vicoli di
Napoli. A tre mesi dalla fondazione il quotidiano già godeva
di un pubblico numeroso: terzo giornale cittadino – dopo il Roma e
il Corriere di Napoli – aveva una tiratura di 13.000 copie.