Moderatismo

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m. [da moderato]. Comportamento politico volto a raggiungere gli obiettivi attraverso un metodo graduale, che eviti le trasformazioni violente e rifugga dai mutamenti radicali. A esso possono quindi richiamarsi tanto i gruppi dirigenti decisi a perseguire un programma di contenuto riformismo, quanto i movimenti d'opposizione favorevoli a una conquista progressiva del potere. Come tale è una prassi politica di tutti i tempi e di tutti i Paesi.

Cenni storici

Nel Risorgimento italiano la prima formulazione di un movimento moderato si può far risalire al 1794 quando a Napoli – discioltasi la Società Patriottica – sorse il club “Lomo” (Libertà o morte) in contrapposizione al radicale “Romo” (Repubblica o morte). Durante il Direttorio e il Consolato le due tendenze sopravvissero, in Italia, con una netta prevalenza dei moderati (Melchiorre Gioia, Giuseppe Compagnoni) sugli “anarchisti”. Il moderato Melzi d'Eril fu l'uomo più influente della Repubblica Cisalpina: egli non nascose di essere contrario alle “idee esagerate” e alle “famose teorie sui diritti del cittadino”; e in ciò era perfettamente allineato al programma “conciliatore” di Napoleone. I moti del 1820-21 diedero, a Napoli, il sopravvento della corrente radicale; a Torino videro primeggiare il moderato Santorre di Santarosa. Ma dopo la breve esplosione neoguelfa (1846) con cui vennero alla ribalta Gioberti, d'Azeglio, Salvagnoli, Lambruschini, Mamiani, ecc. (i “soffiafreddo”, come li definì Cattaneo) la rivoluzione del 1848 fu appannaggio della nobiltà. Il conte Casati fu riconosciuto da tutti come sindaco di Milano e la guerra di Carlo Alberto trovò l'appoggio persino di Mazzini.

L'armistizio diede l'avvio in Piemonte allo scontro vivacissimo tra le due correnti liberali, quella radicale, che chiedeva il proseguimento della guerra, e quella moderata che reclamava un periodo di ripensamento. Vinsero gli “esaltati” (come furono chiamati i radicali) che confinarono all'opposizione moderati e conservatori. Ma se, a partire dal 1849, la reazione ebbe il sopravvento in tutta Europa, il Piemonte rimase ancora un'oasi di libertà. Il pericolo veniva ora dalla destra e si fece temibilissimo quando anche la Francia scivolò verso l'impero di Luigi Napoleone.

A questo punto s'inserisce il ruolo del “partito moderato” che vide nel “connubio” tra il centro-destra di Cavour e il centro-sinistra di Rattazzi il mezzo ideale per conservare la libertà ed “erigere – sono parole di Cavour – una barriera abbastanza alta onde la reazione non venga mai a superarla”. Il “partito moderato” non giovò solo al Piemonte ma applicando i principi di libertà costituzionale e di liberismo economico catalizzò le aspirazioni di tutta la borghesia italiana mettendo in secondo piano le teorie mazziniane (sino allora trionfanti) e realizzando, con la Società Nazionale (1857; Pallavicino, La Farina, Daniele Manin, ecc.) la fusione di tutte le correnti per l'unità nazionale. “Partito moderato” fu per antonomasia la Destra Storica, ma marcatamente moderata fu anche la politica della Sinistra Storica, segnatamente con Depretis. Tuttavia l'irrisolta “questione romana” e l'ostilità del papato costrinsero anche i moderati ad assumere, almeno formalmente, un atteggiamento rivoluzionario, impedendo così – come disse De Sanctis alla Camera nel 1864 – di “costituire la base di un gran partito conservatore”.