Pasquale Misuraca - Luis Razeto Migliaro


LA TRAVERSATA.

Prima edizione: Di Donato, Roma-Bari 1978

E
dizione critica attualizzata, Santiago del Cile 2009


Indice


PROLEGOMENI.


 

Parte Prima. LA CRITICA DELLE SOCIOLOGIE.

 

Capitolo 1. Il soggetto della critica.

Capitolo 2. La sociologia come ‘tendenza deteriore’ del marxismo.

Capitolo 3. La sociologia come scienza sociale e come alternativa al marxismo.

Capitolo 4. Critica delle leggi storiche, economiche e statistiche.

 

Parte Seconda. LA SCIENZA DELLA STORIA E DELLA POLITICA.

 

Capitolo 5. Dalla esperienza alla filologia ed alla scienza.

Capitolo 6. Teoria della crisi organica.

Capitolo 7. Teoria della burocrazia moderna.


NOTE TEORICHE.

 

I.

II.

III.

IV.

V.

VI.

VII.

VIII.


Libro Primo.

Dalla critica del marxismo e della sociologia alla proposta di una scienza della storia e della politica.



Caro lettore, cara lettrice,


è trascorsa più di una generazione da quando questo libro è stato scritto a Roma (dal 1975 al 1977) e pubblicato (nel 1978 – da De Donato editore). Preparando questa edizione critica, nel confronto dei testi di ieri con le realtà di oggi abbiamo constatato la sua attualità.

 

Certo, le situazioni e le circostanze storico-politiche sono notevolmente cambiate: è crollato il mondo del socialismo reale e il mondo del capitalismo vittorioso dà segni di cedimento strutturale, il marxismo e la sociologia sono in profonda crisi intellettuale e morale, l’economia ha completato il suo processo di internazionalizzazione e soffre una gravissima caduta, le comunicazioni si sono globalizzate, la politica è diventata spettacolo; e tuttavia questi ed altri processi in corso sono stati previsti negli anni Settanta del secolo scorso da questo libro. Quanto abbiamo scritto in quegli anni giovanili, ed in particolare le tesi centrali di questa opera teorica, ci pare che continui ad essere sostanzialmente vero e rilevante.

 

Da cosa dipende la scarsa accoglienza che ha ricevuto questo libro da parte degli intellettuali e dei politici dell’epoca, marxisti e sociologi in testa? Secondo noi precisamente dalla crisi del marxismo e della sociologia, che fin da allora annunciavamo e criticavamo, ed alla quale proponevamo come soluzione una nuova scienza: la scienza della storia e della politica.

 

In questa edizione il testo viene offerto nella sua veste originaria (con minuscoli aggiustamenti tesi a facilitarne la comprensione), e viene attualizzato da annotazioni critiche, riflessioni integrative, contestualizzazioni storiche che ne arricchiscono il contenuto – riconoscibili dai caratteri di colore blu. Alcuni paragrafi che si riferiscono a questioni che in quegli anni erano importanti ma già non interessano molto, li editiamo con lettera piccola, lasciandoli così a disposizione dei lettori specializzati. Inoltre aggiungiamo sottotitoli a gruppi di paragrafi che identificano temi o problemi determinati, ed evidenziamo in giallo alcune proposizioni sulle quali desideriamo richiamare la speciale attenzione dei lettori.

 

Il titolo La Traversata comprende due libri di una medesima ricerca e opera teorica: questo Libro Primo e un Libro Secondo (clicca su Libro Secondo).

 


Santiago de Chile, estate 2009.

 


 

PROLEGOMENI.

 


“Il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere.”

Antonio Gramsci


 

Le scienze storiche e politiche si trovano oggi nella necessità di comprendere, spiegare e dare risposte ad un insieme di fenomeni e di problemi che investono gli Stati contemporanei, la cui complessità e novità sono tali da evidenziare le carenze degli strumenti conoscitivi di cui dispongono le culture più avanzate. L’insieme di questi fenomeni e di questi problemi è solitamente compreso sotto il termine generico di ‘crisi’, ma le teorie finora elaborate sulle crisi economiche e politiche non sembrano sufficienti a dare ragione della novità e complessità che caratterizzano la crisi attuale e ad indicare adeguate politiche per affrontarla; ciò rivela che essa coinvolge le scienze storiche e politiche medesime.

 

Possiamo intravedere la natura complessa e nuova di questa problematica attraverso una preliminare considerazione di alcuni tra i sintomi più evidenti dell’attuale situazione critica.

 

Nel mondo capitalista, si compie un processo di rottura degli equilibri del mercato internazionale, proprio nel momento in cui l’annodarsi dei problemi (disoccupazione, inflazione e stagnazione in quanto fenomeni non puramente congiunturali ma piuttosto tendenziali, conseguenze e parti del modo in cui le forze produttive si sono sviluppate) esige soluzioni internazionali, che tuttavia sono contraddette dagli interessi e dalle ragioni politiche degli Stati nazionali. Ancora: la contestazione – attiva e passiva – del sistema istituzionale, sempre più estesa e profonda, che pone in questione la separazione tra dirigenti e diretti e spinge questi ultimi a mettere in discussione la legittimità della rappresentanza nelle sue attuali forme. Infine, c’è la caduta di capacità delle ideologie dominanti nel suscitare il consenso indispensabile ad assicurare l’integrazione sociale e ad evitare i sempre più vasti fenomeni di decomposizione morale nella convivenza civile.

 

Nel mondo socialista, a sua volta, si evidenzia la difficoltà dei rapporti tra i diversi Stati (l’acuta conflittualità tra l’Unione Sovietica e la Cina popolare, l’occupazione della Cecoslovacchia ad opera delle forze militari del Patto di Varsavia come modo di garantire un certo sistema di rapporti intersocialisti) proprio nel momento in cui la competizione tra i sistemi capitalista e socialista, e l’interna necessità di uno sviluppo socialista basato su una pianificazione coinvolgente i diversi Stati, abbisognano di un internazionalismo che pervenga ad un livello qualitativamente superiore. Ancora: si manifesta la divergenza tra un insieme di trasformazioni rivoluzionarie nella struttura sociale e un certo successo nella crescita economica da una parte, e le cristallizzazioni burocratiche nelle sovrastrutture politiche e culturali dall’altra; tra la pianificazione accentrata e tecnica e la necessità di partecipazione e controllo di massa nei processi decisionali. Infine: si constata la persistenza del ricorso a pratiche amministrative nei confronti della intellighenzia dissenziente.

 

Attualizzazione. Nel mondo capitalista, i processi individuati a metà degli anni Settanta del secolo scorso persistono, fino al punto che possono essere descritti oggi con le parole che abbiamo usato allora. L’unica novità è la costituzione dell’Unione Europea, il solo passo in avanti nel superamento della contraddizione fra gli interessi e le ragioni politiche degli Stati nazionali e il carattere globale che necessariamente devono avere le soluzioni dei problemi economici.

 

Nel mondo socialista, i processi e le contraddizioni che abbiamo individuato in quella epoca come minacce al sistema si acutizzarono in tal grado che portarono al crollo del cosiddetto ‘socialismo reale’. Detti processi non poterono essere affrontati con successo poiché il marxismo, le ideologie e le strutture cognitive che guidavano quel sistema non erano in condizione di comprendere in profondità i problemi e la loro complessità, tanto meno di offrire le risposte e le soluzioni appropriate.


Senza ancora proporre un’interpretazione di questi fenomeni e problemi, possiamo intanto cogliere in essi due caratteristiche definitorie della crisi attuale. Il suo investire l’insieme degli Stati, e il suo coinvolgere unitariamente economia, politica e cultura. Il mondo contemporaneo cioè attraversa una fase di crisi organica generalizzata che ha contenuti e adotta forme diverse negli Stati capitalisti e socialisti, manifestandosi tuttavia in ambo i sistemi attraverso fenomeni interrelati. È una fase in cui le varie formazioni economico-politiche sono di fronte alla necessità di compiere scelte radicali, tali da riorientarne il complessivo sviluppo futuro. La persistenza della crisi è connessa alle insufficienze teorico-scientifiche nella comprensione e nella risposta a quest’ultima, e il suo superamento è legato alla costruzione di una nuova scienza della storia e della politica, capace di avviare il passaggio ad una nuova epoca politica.

 

Capire questo rapporto tra crisi e scienze implica esaminare la crisi organica attuale come risultato di un processo storico le cui origini rimontano a quell’altra epoca storica di crisi internazionale, che segnò l’inizio dell’attuale assetto mondiale. Decisivi furono gli anni 1929-32. Gli anni, nel mondo capitalista, in cui l’acutizzarsi dello squilibrio economico-finanziario è la premessa di una riorganizzazione istituzionale del ciclo di accumulazione marcata principalmente dall’intervento sistematico dello Stato come fattore regolatore necessario. L’odierna crisi manifesta il logoramento di quel progetto di sviluppo economico, di ristrutturazione dello Stato e di ricomposizione dei rapporti tra economia e politica. Nel mondo socialista, in quel tempo rappresentata soltanto dall’URSS, sono gli anni della grande ‘svolta’ caratterizzata dalla politica di industrializzazione accelerata e di collettivizzazione dell’agricoltura, che ebbe come corollario il fenomeno che conosciamo come ‘stalinismo’. La crisi che oggi percorre il mondo socialista esprime a sua volta il logoramento di quel ‘modello’ di sviluppo economico, di organizzazione dello Stato e dei rapporti tra dirigenti e diretti.


Attualizzazione. La caduta dell’Unione Sovietica era assolutamente inattesa quando abbiamo scritto questa pagina, e la nostra osservazione del logoramento del suo sistema economico e politico fu accolta con incredulità e disprezzo dagli intellettuali e politici di sinistra; quindici anni dopo il Muro di Berlino viene fatto a pezzi e il movimento comunista internazionale entra in una fase di decomposizione.


Ora, l’analisi di quella crisi e l’elaborazione delle risposte ad essa furono condotte da determinate scienze sociali le quali, pur conservando distinte strutture concettuali – di derivazione marxista nel mondo socialista, di derivazione sociologica nel mondo capitalista - , avevano in comune un complesso di fondamenti teorici e di connotazioni metodologiche che ci permettono di assumerle sotto la denominazione generale disociologie. Il logoramento di quelle analisi e di quelle risposte alla crisi segna oggi la crisi di quelle strutture conoscitive, ed evidenzia la necessità della costruzione di una nuova scienza che comprenda, spieghi e dia risposte alla crisi organica attuale. Questo è il nostro programma di lavoro.

 

Un insieme di esperienze politiche e teoriche – maturate in relazione al problema italiano (caratterizzato dall’avvicinamento del Partito Comunista al potere, e dalla conseguente necessità di elaborare una cultura di governo atta alla situazione) ed alla vicenda cilena (in Cile era recentemente avvenuto il golpe militare che aveva posto fine ad una esperienza di governo socialista mancante della cultura politica necessaria per governare) – ci hanno indotto a soffermarci su Gramsci il quale, a seguito della sconfitta del movimento operaio in Europa negli anni Venti-Trenta del secolo scorso e nel contesto della ristrutturazione differenziata degli Stati contemporanei, consegna aiQuaderni del carcere i suoi studi critici sul marxismo e sulla sociologia e l’esame della crisi organica a lui contemporanea. Gramsci riflette su questi problemi nel preciso momento storico in cui i ‘modelli’ che oggi manifestano le proprie limitazioni si organizzano e cominciano a concretarsi. (Ci riferivamo ai modelli socialdemocratico e dello Stato del benessere nel mondo capitalista, e alla pianificazione tecnocratica nel campo socialista.) È chiaro che la coincidenza cronologica di per sé non vuol dire niente oltre una generica relazione che sempre radica l’uomo nella propria epoca, il pensiero teorico nel contesto storico. Ma il nesso storico che legittima la ricerca in Gramsci di unpunto di partenza per una impostazione scientifica dei problemi reali attuali è dato dal fatto che la sua ricerca s’incentra precisamente nella problematica storica che in quel tempo tendeva ad imporsi, ponendosi già allora come critica delle risposte (o ‘modelli’) date ed il logoramento delle quali costituisce l’essenza dei problemi presenti. E ancora dal fatto che Gramsci affronta tale problematica attraverso la critica delle concezioni teoriche, delle ideologie (la sociologia da una parte, un certo modo di concepire il marxismo dall’altra) che stavano alla base di quei ‘modelli’. È in questo senso e su questa base che attribuiamo attualità a Gramsci, una attualità determinata.


(Vedi Nota teorica I)


L’analisi dei problemi sui quali ci siamo proposti di intervenire esige non solo la lettura diretta dei testi di Gramsci, ma anche l’esame critico delle diverse interpretazioni di cui il pensiero gramsciano è stato oggetto. Questo è, da un lato, prerequisito della stessa lettura filologica, poiché oggi non è possibile leggere e interpretare l’opera gramsciana prescindendo dalle mediazioni delle interpretazioni che di questa si sono date. Dall’altra è un’esigenza della problematica che ci occupa, in quanto essa emerge in un contesto culturale del quale formano parte le interpretazioni dell’opera gramsciana.

 

Sulle interpretazioni del pensiero di Gramsci.


Quaranta anni di studi gramsciani, che offrono una variegata costellazione di interpretazioni divergenti del pensiero di Gramsci – considerato sia nel suo complesso che riguardo ad argomenti specifici - , ci pongono di fronte all’esistenza di difficoltà di lettura e comprensione. In effetti, le interpretazioni di Gramsci, con diversa fortuna, hanno percorso praticamente l’intera gamma ‘logica’ delle possibilità. Lo si è inteso come leninista conseguente, come revisionista, come politico impegnato nel tentativo di porre teoricamente la questione del passaggio al socialismo nei paesi occidentali, come storicista assoluto, come parzialmente storicista, come precursore dello strutturalismo, e così via.


(Vedi Nota Teorica II)


Questo ‘destino’ di Gramsci è paradossale, ove si ponga mente alla permanente preoccupazione d’essere preciso ed esplicito (fatte salve le particolari condizioni carcerarie); egli ritorna più volte sugli stessi appunti, perseguendo, in ulteriori stesure e in nuovi sviluppi teorici delle medesime questioni, l’approfondimento e la chiarificazione di ciò che gli appare ancora impreciso.

 

Cosa spiega la molteplicità contraddittoria delle interpretazioni dell’unico Gramsci? Comporre così la domanda, e cioè includendo l’aggettivo ‘unico’, significa rifiutarsi di avanzare a priori l’ipotesi opposta, costruita sulla possibilità logica di una carenza di unità teorica nell’esposizione gramsciana, d’una eterogenea mescolanza non risolta di posizioni teoriche contrastanti. Da una tale ‘ipotesi’ potrebbe derivarsi una meccanica ‘spiegazione’ della esistenza di interpretazioni così disparate, col risultato però di mancare proprio l’individuazione delle difficoltà d’interpretazione.

 

Ci sono stati impedimenti per una lettura filologicamente rigorosa dei Quaderni. Fino alla recente edizione critica (1975) non era possibile esaminare gli scritti gramsciani nell’ordine genetico in cui furono elaborati, il che ha impedito di appropriarsi della evoluzione intellettuale dell’autore. Inoltre: l’organizzazione tematica dei Quaderni nelle precedenti edizioni era una opzione a posteriori rispondente già a una determinata interpretazione dei testi. Il contesto tematico (esteriormente e da altri sovraimposto) attribuisce senso e contenuti ad ogni paragrafo particolare in quanto lo propone inserito in una certa problematica teorica, e priva di concretezza i concetti rendendoli ‘generici’ in quanto ne mette in ombra i legami col determinato momento storico e con l’ordine del pensiero dell’autore. Che il contesto tematico attribuito agli scritti carcerari non corrisponda all’originale contesto problematico secondo il quale Gramsci sviluppa la sua esposizione, soltanto adesso è possibile cogliere manifestamente. In effetti l’ordinamento cronologico di cui ora disponiamo permette di accedere ad un nuovo(antico quanto i Quaderni manoscritti) ordinamento problematico. In base a ciò sarà rimarchevole comprovare che apparenti contraddizioni ‘nella lettera’ – nelle affermazioni testuali di Gramsci – in realtà non sono tali: derivano piuttosto dalla inclusione in un medesimo nodo problematico di proposizioni che nel pensiero originale dell’autore erano riferite a questioni diverse. È chiaro che queste confusioni hanno dato origine a suggestive diversità interpretative.

 

È opportuno cogliere a questo riguardo un altro aspetto della stretta relazione che intercorre tra il problema filologico e il problema delle interpretazioni diverse del pensiero di Gramsci. Una certa diffusa forma di ‘leggere Gramsci’ può essere intesa appunto come una vera e propria teorizzazione (giustificazione) della possibilità di formulare interpretazioni ‘libere’. Alcuni studiosi sostengono infatti che per penetrare nel vero senso, nello ‘spirito’ del pensiero gramsciano, è necessario andare oltre le parole, il testo scritto, quasi che la lettera non corrispondesse a detto ‘spirito’, come se Gramsci avesse sofferto una difficoltà espressiva insormontabile. Questa forma di lettura libera permette di aggirare le apparenti contraddizioni tra proposizioni inscritte in diversi contesti, poiché nei fatti non si fanno i conti col senso diretto delle affermazioni stesse e si finisce accettando come veramente coerente con lo ‘spirito’ gramsciano taluna e non talaltra delle proposizioni contrastanti. È decisivo a questo punto richiamare il fatto che una interpretazione dell’opera di un autore è più valida di un’altra nella misura in cui ne comprende più parte, rende conto di più elementi e al limite delle formulazioni nella loro interezza.

 

Sul concetto di sistematicità.


Un altro problema di lettura deriva dal carattere a prima vista disordinato degli scritti gramsciani, e consiste nel problema di quale sia il criterio di sistematicità col quale avvicinarsi ai testi. Anche a questo riguardo precise indicazioni emergono oggi dalla lettura dell’edizione critica.

 

La precedente edizione tematica era un tentativo di sistematizzazione e in quanto tale esterno, nel preciso senso di una sistematizzazione che si propone di supplire una presunta carenza di sistematicità originaria. Il criterio di sistematizzazione editoriale corrispose ad una determinata interpretazione dell’opera gramsciana (e ad una determinata interpretazione dei criteri di sistematicità dichiarati più volte dallo stesso Gramsci) e al progetto politico di divulgare Gramsci facilitandone la comprensione. Si mostra oggi come una sistematizzazione formale intorno ad unità tematiche che ha condizionato il dibattito sulla sistematicità o meno dell’opera gramsciana, privandolo delle questioni riguardanti l’ ‘ordine di esposizione’ e l’ ‘ordine (logica) della ricerca’.

 

La ricostruzione filologica dei Quaderni permette di riaffrontare il problema della sistematicità dell’opera oltre ogni mediazione derivante da sistematizzazioni sovrapposte. In effetti diviene chiaro che Gramsci costantemente ricerca una determinata sistematicità sia nella esposizione che nella investigazione; ed è riduttivo interpretare quella ricerca come semplice lotta contro la frammentarietà delle condizioni psicologiche e tecniche della vita carceraria, poiché il significato decisivo di quello sforzo sta nel perseguimento di un nuovo tipo di sistematicità, interiore, parte costituente la logica del suo pensiero, e che è tutto il contrario di ciò che può essere detto una sistematicità tematica.

 

Il concetto gramsciano di sistematicità della teoria e del lavoro teorico può costituire l’oggetto di specifici studi; ci limitiamo qui alla individuazione degli essenziali punti di riferimento che segnalano la direzione nella quale debbono essere convogliati gli sforzi tesi allo scioglimento di queste difficoltà di lettura.

 

Un punto di partenza può essere quello offertoci da Gramsci in due lettere a Tania nelle quali espone i suoi progetti di lavoro intellettuale. Nella prima leggiamo: “studiare è molto più difficile di quanto non sembrerebbe [...] vorrei, secondo un piano prestabilito, occuparmi intensamente e sistematicamente di qualche soggetto che mi assorbisse e centralizzasse la mia vita interiore. Ho pensato a quattro soggetti finora, e già questo è un indice che non riesco a raccogliermi” {A. Gramsci, Lettere dal carcere, Einaudi, Torino 1973, p. 58 (la data della lettera è 19 marzo 1927) }. Abbiamo qui il concetto di sistematicità della ricerca come occupazione intensa conforme ad un piano prestabilito intorno ad un soggetto che centralizza in modo assorbente la vita interiore del ricercatore. È vero che enumera di seguito quattro soggetti dei quali intende occuparsi, distinti, (e non è l’unica volta che fa elenchi tematici); però da un lato sottolinea che alla base di questi ‘temi’ sta l’unità di un nodo problematico (“In fondo, a chi bene osservi, tra questi quattro argomenti esiste omogeneità: lo spirito popolare creativo, nelle sue diverse fasi e gradi di sviluppo, è alla base di essi in misura uguale” (Ivi, p. 59); dall’altro esplicitamente avverte che proporsi di lavorare su soggetti diversi “è già un indice che non riesco a raccogliermi”.

 

Nella lettera del 23 maggio 1927 appare ancora più chiaro il senso della sistematicità che si propone: “Un vero e proprio studio credo che mi sia impossibile, per tante ragioni, non solo psicologiche, ma anche tecniche; mi è molto difficile abbandonarmi completamente a un argomento o a una materia e sprofondarmi solo in essa, proprio come si fa quando si studia sul serio, in modo da cogliere tutti i rapporti possibili e connetterli armonicamente.”(Ivi, p. 92) Sempre la stessa idea: non la sistematicità formale ed esterna, ordinamento e organizzazione di temi distinti, e neppure la sistematicità il cui criterio consiste nell’allacciamento di problemi o temi tra di loro, bensì l’approfondimento in un solo nodo problematico per scoprirne tutti i rapporti possibili e congiungere il tutto attorno a un centro unificante.

 

Questa sistematicità deve dunque essere identificata nella logica interna dei Quaderni stessi, implicita alla ricerca ed alla esposizione teorica. Da qui la difficoltà: dal momento che il concetto di sistematicità della teoria è parte della teoria stessa e della stessa sistematicità della teoria, si rivela indispensabile partire – unico modo di rompere il circolo – dal livello filologico. La tendenza a comprendere i testi richiamandosi allo ‘spirito’ gramsciano si mostra come aggiramento speculativo del problema, come arbitrario surrogato di una componente essenziale della teoria.

 

Sulla base di questo modo d’intendere il problema della sistematicità, una lettura che metta in condizione di accedere alla determinata teoria-sistematicità gramsciana implica l’analisi di ogni paragrafo come un tutto coerente in sé medesimo ed autonomo, strutturato secondo una logica concreta e particolare che deve essere intelletta. In ogni ragionamento gramsciano tendenzialmente – ed implicitamente – è presente il nocciolo del suo pensiero complessivo; è per questo che l’autonomia dei paragrafi non significa separatezza e sconnessione da altri, ma al contrario radicale interiore unità.

 

La forma di esposizione gramsciana (l’apparente asistematicità, il trascorrere da un argomento ad un altro) che appariva sotto il velo dell’inorganicità delle ‘note sparse’, si rivela invece una forma di esposizione coerente con il metodo della ricerca e con il contenuto dell’analisi teorica.

 

Il passo che Gramsci compie nell’organizzare le note dei primi quaderni nelle successive stesure non consiste in una semplice riorganizzazione formale del materiale, ma in un superamento qualitativo dell’analisi, che concentra in nodi problematici più precisamente identificati una maggiore quantità di rapporti armonicamente connessi. È il dispiegarsi della logica particolare dell’oggetto specifico.

 

L’inizio di questa ricerca è articolata intorno alla lettura di alcune note dei Quaderni in cui Gramsci concentra le sue riflessioni critiche sul marxismo e sulla sociologia e in cui analizza i problemi della crisi e del riassetto degli Stati contemporanei. Tuttavia il soggetto di cui ci occupiamo – appunto attraverso questa lettura – trascende i confini così del testo come della problematica in esso esaminata da Gramsci. Ciò significa che la nostra preoccupazione non è prioritariamente filologica ma scientifica e politica; più precisamente che il lavoro filologico è in funzione dei problemi teorici e pratici: è l’intenzionalità scientifica e politica che ci conduce alla filologia, all’analisi dei testi. Il passaggio dalla teoria e dalla politica alla filologia, e da questa alla problematica scientifica e pratica, ha come punto di partenza i problemi reali attuali della scienza e della politica; ‘leggiamo’ Gramsci in quanto per il suo tramite sembra possibile pervenire ad una nuova impostazione dei problemi e individuare validi punti di riferimento che ci permettono di entrare nella prospettiva in cui possono ricevere risposta.

 

Questo lavoro è il risultato di una ricerca iniziata nella primavera del 1975 e sviluppata attraverso discussioni teoriche e letture metodiche unitamente condotte dagli autori. Ogni questione è stata esaminata da entrambi fin nei particolari e le singole proposizioni sono risultate non da mediazioni, ma dalla costruzione di un testo comune.

 

 

Parte prima


I. LA CRITICA DELLE SOCIOLOGIE.


Capitolo 1. Il soggetto della critica.

 

Attualizzazione. Quando abbiamo iniziato questa ricerca e scritto questo capitolo sul soggetto della critica, Gramsci veniva utilizzato dai partiti comunisti e dagli intellettuali marxisti europei come fonte del rinnovamento teorico richiesto dall’ ‘eurocomunismo’. La nostra analisi dei testi originari di Gramsci ci aveva invece portato alla scoperta che egli in carcere era andato oltre il marxismo e oltre il progetto di una società socialista, giungendo a impostare il bisogno di una nuova scienza della storia e della politica per costruire una nuova integrale civiltà. Di fatto i testi indicavano come soggetto della sua critica tutta la cultura sociale e politica esistente, marxismo incluso.

 

Questa scoperta dirompente necessitava di essere spiegata e dimostrata mediante una accurata analisi filologica e storico-critica. In quel tempo dovevamo liberare Gramsci dalla sua reclusione nel campo marxista; oggi dobbiamo recuperarlo dall’oblio in cui è stato trascinato a causa della crisi del marxismo. Lasciamo a disposizione quasi tutto il testo del capitolo in lettera piccola, per i lettori specializzati e per coloro che siano interessati a questa analisi da un punto di vista metodologico.

 

Sebbene affronti la questione in più luoghi, Gramsci concentra la critica della sociologia in sei pagine deiQuaderni: due paragrafi del Quaderno 11 secondo l’edizione critica, corrispondenti ad una nota del Quaderno XVIIIsecondo l’edizione tematica {Paragrafi 25 [Riduzione della filosofia della praxis a una sociologia] e 26 [Quistioni generali], pp. 1428-34 dei Quaderni del carcere, Edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1975 (d’ora in poi citati con la sigla Q seguita dal numero di pagina); nota Materialismo storico e sociologia, pp. 146-51 de Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Editori Riuniti, Roma 1971.} Ora, presentare il problema nei termini generici di ‘critica della sociologia’ solleva immediatamente domande decisive, dalla risposta alle quali dipende l’interpretazione che di tale critica si dia.

 

Il primo quesito è: a quale sociologia si riferisce Gramsci in questa occasione? È questo un problema delicato, poiché la superficiale risoluzione che ad esso è stata data sta all’origine di varie interpretazioni che non sono riuscite a cogliere il profondo significato delle proposizioni gramsciane. Alcuni hanno individuato in esse una critica della ‘sociologia borghese’, altri hanno percepito soltanto la critica alla Teoria del materialismo storico. Manuale popolare di sociologia marxista {La théorie dù matérialisme historique. Manuel populaire de sociologie marxiste, traduzione italiana della casa editrice La Nuova Italia, Firenze 1977.} di Nikolaj J. Bucharin. Più elementi devono essere presi in considerazione per avviare una risposta a questa domanda, alcuni dei quali emergono solo con l’edizione critica (in qualche modo ciò aiuta a capire perché le interpretazioni date si mostrano precarie).

 

Già nel titolo del primo dei paragrafi la complessità del problema è anticipata: Riduzione della filosofia della praxis a una sociologia. Degno di nota è intanto il fatto che nella edizione tematica dei Quaderni questo titolo non compare; è assorbito nella proposizione di apertura della nota. A ben vedere questa soppressione è conseguenza diretta di un altro fatto – ancor più carico di implicazioni -: il mancato riconoscimento del paragrafo nella sua autonomia. Infatti il paragrafo viene saldato ad un altro e compreso sotto il titolo di questo (Quistioni generali), e a questo appare subordinato come suo proseguimento; dall’edizione critica risulta invece sia la distinzione dei paragrafi sia l’originaria disposizione di questi: il paragrafo Riduzione della filosofia della praxis a una sociologia precede, e non segue, quello intitolato Quistioni generali. L’arbitraria operazione compiuta nella edizione tematica è indice (e forse anche è conseguenza) di una erronea – o parziale – identificazione del soggetto della critica di questi brani, e in primo luogo perché la ‘nota’ così composta appare incentrata nella critica del Saggio di Bucharin e su questa si apre.

 

Rimesse le cose al proprio posto, la semplice lettura del titolo del primo dei brani permette di intravedere come Gramsci in questo individua il soggetto della sua critica nei termini più comprensivi, tali da comprendere comeparte la particolare critica del Saggio buchariniano. L’accento è posto sulla “riduzione” della filosofia della praxis a “una” (indeterminata) sociologia, e non alla (determinata) sociologia di Bucharin. Di quale “riduzione” e di quale “sociologia” si tratta dunque? Un primo aspetto della questione viene posto dalla proposizione di apertura del paragrafo: “Questa riduzione ha rappresentato la cristallizzazione della tendenza deteriore già criticata da Engels (nelle lettere a due studenti nel ‘Sozialistische Akademiker’)...”

 

Il problema sta dunque in una “tendenza”, non recentemente emersa ma contemporanea agli stessi fondatori del marxismo, e che è iscritta nella storia del marxismo. Come tale Gramsci comincia con il considerarla, ma la comprende e la spiega da un punto di vista più generale ritenendola riflesso e manifestazione specifica di una tendenza non limitata al marxismo ma che si manifesta nell’insieme della storia della cultura contemporanea, come più avanti espliciteremo. Leggiamo la proposizione per intero: “Questa riduzione ha rappresentato la cristallizzazione della tendenza deteriore già criticata da Engels (nelle lettere a due studenti nel ‘Sozialistische Akademiker’) e consistenti nel ridurre una concezione del mondo a un formulario meccanico che dà l’impressione di avere tutta la storia in tasca.” (Q, 1428) Dunque non solo riduzione della filosofia della praxis, ma questa come momento di una più generale riduzione di una concezione del mondo.

 

È necessario a questo punto, per approssimarci ulteriormente al nucleo problematico che centralizza l’interesse di Gramsci in questo paragrafo, andare alla prima stesura (precedente di due anni: 1930-31) dello stesso, che incontriamo nel Quaderno 7 dell’edizione critica. Il paragrafo è qui aperto da questa proposizione: “La riduzione del materialismo storico a ‘sociologia’ marxista è un incentivo alle facili improvvisazioni giornalistiche dei ‘genialoidi’.”(Q, 856) Questa concisa formulazione non lascia dubbi rispetto ad un punto: esplicitamente Gramsci si propone di criticare una sociologia marxista, riduzione del materialismo storico. Tuttavia in questa prima stesura è assente ogni riferimento ad una tendenza, e cioè alla storia del marxismo; e già l’intitolazione del paragrafo (Il ‘Saggio popolare’ e la sociologia) indica come soggetto della critica specificamente il marxismo di Bucharin.

 

Ciò evidenzia un processo, una maturazione, nel pensiero di Gramsci. Dalla prima alla seconda stesura si dà uno spostamento e una ricomposizione di problematica, segnati fondamentalmente dal passaggio dalla critica ad una forma particolare di ‘riduzione’ alla critica ad una tendenza generale che ha una continuità storica e una dimensione culturale comprensiva; la critica a Bucharin è incorporata come momento della critica di una certa tendenza deteriore del marxismo (ponendo così il problema in termini di storia del marxismo) e questa è a sua volta incorporata come momento della critica di un certo sviluppo della cultura (ponendo il problema in termini di storia della cultura).

 

Tutto questo non emerge soltanto dalla comparazione della proposizione di apertura e dei titoli delle due stesure ma dal contenuto e dal contesto di ambo le redazioni nella propria interezza. Dal confronto globale risulta una ulteriore dimensione, che è necessario prendere in considerazione a questo punto per una intellezione accurata dei paragrafi.

 

La prima stesura del paragrafo è parte di un Quaderno da Gramsci intitolato Appunti di filosofia. Materialismo e idealismo.Questo titolo e il contenuto della generalità dei paragrafi che compongono il Quaderno 7 racchiudono un preciso contesto problematico sul quale Gramsci riflette in quel momento (1930-31) e che attribuisce un particolare senso al paragrafo sulla sociologia: il materialismo storico come filosofia, la sua originalità e specificità nei confronti delle altre filosofie che critica. La problematica è fondamentalmente, se non esclusivamente, di livello teorico-filosofico.

 

La seconda stesura del paragrafo (1932-33) sta in un Quaderno (l’11) in cui il problema ‘teorico’ della filosofia marxista e del confronto con le altre filosofie, è integrato nel più ampio contesto problematico della storia della cultura. Il Quaderno manca di un titolo originario (il titolo redazionale scelto dai curatori dell’edizione critica –Introduzione alla filosofia – non rende ragione della rivoluzione problematica che sostanzia questa seconda stesura, oscurandone la lettura); abbiamo tuttavia di pugno di Gramsci i titoli parziali dei due insiemi di paragrafi che compongono il Quaderno. Già il primo è degno di nota in quanto appunto sottolinea il terreno non puramente filosofico dei problemi trattati: Appunti e riferimenti di carattere storico-critico. Il titolo del secondo insieme di paragrafi (comprende i due paragrafi che stiamo esaminando e che direttamente ci interessa) è ancora più indicativo:Appunti per una introduzione e un avviamento allo studio della filosofia e della storia della cultura. Determinanti novità sono presenti in questo titolo (la cui completa trattazione sta nei paragrafi stessi del Quaderno). Scompare qui la contrapposizione ‘materialismo-idealismo’, e con ciò si dissolvono le contrapposizioni meccaniche – così ampiamente diffuse in quegli anni – tra filosofia idealista e filosofia materialista, tra scienza borghese e scienza proletaria, tra sociologia ‘borghese’ e sociologia ‘marxista’. La collocazione della filosofia della praxis nel quadro della storia della cultura non passa più attraverso la mediazione del binomio ‘materialismo-idealismo’.

 

L’elemento di differenziazione, secondo Gramsci, si raggiunge per via della critica di tutta la cultura precedente, la quale contiene tanto indirizzi ‘idealisti’ quanto indirizzi ‘materialisti’ e correnti filosofiche, scientifiche e sociologiche che ad essi possono richiamarsi o ricondursi. La filosofia della praxis è il fondamento e l’espressione teorica di una nuova cultura integrale. La precisa individuazione di questa prospettiva è un passo decisivo per comprendere il percorso dell’elaborazione gramsciana, e in particolare per identificare con esattezza a quali forme teoriche è diretta la sua critica della ‘sociologia’.

 

Sul concetto di ‘ortodossia’ e sul carattere rivoluzionario di una teoria.


A questo scopo è opportuno prendere in considerazione il paragrafo che, significativamente, segue i due paragrafi del Quaderno 11. In esso è sottoposto ad analisi il Concetto di ‘ortodossia’, che è appunto un modo di precisare i confini della filosofia della praxis, e di specificarne la differenza rispetto alle altre filosofie. “L’ortodossia – scrive Gramsci – non deve essere ricercata in questo o quello dei seguaci della filosofia della praxis, in questa o quella tendenza legata a correnti estranee alla dottrina originale, ma nel concetto fondamentale che la filosofia della praxis ‘basta a se stessa’, contiene in sé tutti gli elementi fondamentali per costruire una totale ed integrale concezione del mondo, una totale filosofia e teoria delle scienze naturali, non solo, ma anche per vivificare una integrale organizzazione pratica della società, cioè per diventare una totale, integrale civiltà.”(Q, 1434)

 

Su questa base Gramsci individua il carattere rivoluzionario di una teoria nel suo rappresentare “un elemento di completa scissione tra i sostenitori del vecchio e del nuovo mondo. Una teoria è appunto ‘rivoluzionaria’ nella misura in cui è elemento di separazione e distinzione consapevole in due campi, in quanto è un vertice inaccessibile al campo avversario.” (Q, 1434)

 

Il senso profondo di queste affermazioni – che cade molto oltre ogni lettura che in esse superficialmente veda una prospettiva integralista – lo esamineremo dettagliatamente più avanti. Questa citazione viene qui inserita allo scopo di mostrare che l’inclusione della ‘tendenza deteriore’ del marxismo nel quadro di una storia-critica della cultura significa l’avviamento di una critica ad un determinato marxismo in quanto questo non ha raggiunto a) teoricamente la necessaria autonomia rispetto ai fondamenti filosofici della cultura precedente; b) politicamente una prospettiva rivoluzionaria indirizzata ad una integrale riorganizzazione pratica della società. Ecco perché la critica gramsciana della sociologia ‘marxista’ non si presenta separata dalla critica delle sociologie non-marxiste o ‘borghesi’. Ancora: nemmeno gli stessi termini (‘marxista’, ‘borghese’) compaiono nella seconda stesura. Le diverse sociologie sono ricondotte da Gramsci ad una storia culturale comune, senza per ciò negare ad ognuna di esse la propria specificità.

 

Rimane da sottolineare che, non essendo questa critica esclusivamente teorica ma insieme pratico-politica, essa è rivolta anche al modo di fare politica che è parte di quella cultura da superare, e che include una tendenza, un modo di far politica presente anche nella stessa storia politica del movimento operaio.

 

La gramsciana critica della sociologia deve intendersi dunque come un momento, una parte della critica complessiva di una certa cultura prevalente. Sebbene internamente connessa alla critica della filosofia, la critica della sociologia non si identifica con essa, ma si svolge in forma specifica, rilevando nel contempo l’importanza successiva che le diverse sociologie acquistano nella cultura. Questo centrare la critica nella sociologia (e non in altri settori ideologici) ha ragioni storiche e teoriche.

 

Ragioni storiche nel capitalismo, in quanto precisamente lo sviluppo della sociologia è il modo specifico che assume l’ideologia delle classi dominanti per rispondere ai problemi dello sviluppo del capitalismo e al dominio di quelle classi nelle singole società. In effetti, l’economia politica classica servì fondamentalmente nell’epoca delle origini e della prima espansione del capitalismo ai bisogni della borghesia in ascesa che consolidava il suo sistema politico-economico, nella lotta contro le ideologie tradizionali; nell’epoca dell’espansione imperialista del capitalismo, delle sue crisi, della sua critica teorica e pratica da parte delle classi subordinate, i problemi delle classi dominanti non erano più giustificare e fondare il sistema su basi teorico-economiche (ciò che fu realizzato dall’economia politica), ma piuttosto controllare e contenere i fenomeni di dissoluzione del sistema, le sue ‘anomie’ e ‘disfunzionalità’, e cioè quei settori sociali conflittuali al sistema, reale minaccia al dominio delle classi proprietarie. È vero che anche l’economia aveva conosciuto uno sviluppo ulteriore – il marginalismo, le teorie dell’organizzazione industriale e del lavoro, le teorie microeconomiche, ecc. – ma questo sviluppo, sebbene indirizzato a funzionalizzare ed aggiustare il sistema affrontando i suoi problemi immediati, non si appropriava del problema centrale della nuova fase di sviluppo del sistema, problema che non era strettamente economico ma sociale: era la sociologia che si proponeva di dare a questi problemi risposte al livello richiesto, ed è per questo che le discipline sociologiche conquistavano rispetto ad altre un posto centrale ed egemonico.

 

Nell’Unione Sovietica, a sua volta, i rivoluzionari al potere si trovavano a dover affrontare problemi nuovi, riguardo ai quali il marxismo classico, orientato alla critica teorica e politica del sistema economico capitalista, si mostrava carente di elaborazioni e strumenti adeguati. Lo sviluppo del marxismo come ‘sociologia popolare’ si impone in tale situazione come il modo specifico che assume storicamente l’ideologia rivoluzionaria divenuta dottrina ufficiale di Stato. In effetti il marxismo classico – come ‘critica dell’economia politica’ - servì nell’epoca del dominio delle classi proprietarie per l’organizzazione sociale e politica delle masse all’esercizio della lotta di classe ed alla formazione della coscienza e della cultura politica di classe; nell’epoca apertasi con la ‘conquista del potere’ statale da parte dei rivoluzionari, che poneva a questi il compito di riorganizzare complessivamente l’economia e le istituzioni di potere, si presentavano anche problemi di controllo, di integrazione sociale, di contenimento di moti politici e culturali centrifughi, di funzionalità e stabilità organica del nuovo sistema in formazione. Un processo di sociologizzazione del marxismo fu la risposta teorica (di pratiche conseguenze) che in quelle condizioni storiche tendeva a imporsi scavalcando la ricerca leniniana ed emarginando l’‘alternativa’ trotskijana. La critica della sociologia sviluppatesi nell’ambito del capitalismo, già avviata in qualche modo da Lenin nel 1894 (Che cosa sono gli ‘amici del popolo’ e come lottano contro i socialdemocratici – Editori Riuniti, Roma 1972), non fu sviluppata ulteriormente dai marxisti; Gramsci proprio in quel mancato sviluppo della critica individua la causa e l’espressione della crisi di sviluppo del marxismo, sottolineando con ciò la centralità del nuovo compito critico necessario.

 

Accanto a queste ragioni storiche, anche ragioni teoriche portavano Gramsci a centrare lo sviluppo della filosofia della praxis nella critica delle sociologie. Una parte di queste si erano sviluppate nel mondo occidentale come ‘risposta a Marx’, come ‘superamento’ del marxismo: della sua concezione della storia (con una ‘teoria sociale’), della teoria della lotta di classe (con una teoria dei gruppi e della stratificazione sociale, ad esempio), dei suoi criteri d’interpretazione (con le ‘metodologie’).

 

La ‘risposta a Marx’ non era una funzione ideologica secondaria, ma elemento organicamente connesso al compito di contenere i conflitti e guidarne la ricomposizione. Il ritardo di una profonda critica scientifica di queste sociologie indebolisce il movimento delle classi subordinate e lo rende vulnerabile al livello della formazione della coscienza di classe e della lotta ideologica, privandolo sia delle armi da opporre a quelle tecniche di controllo sia della elaborazione di proprie tecniche di mobilitazione (queste alternative a quelle, poiché la costruzione del nuovo sistema d’egemonia si basa su una espansione organizzata del movimento sociale e non sulcontenimento del conflitto nell’adattamento sociale).

 

Questo non è tutto. L’assenza di una critica sistematica rigorosa delle sociologie comportava gravi conseguenze per lo stesso sviluppo del marxismo. Da un lato emergeva la tendenza al recupero di svariati elementi – in particolare teorie sociali e metodologie – di quelle ‘scienze sociali’, accorpandoli acriticamente al marxismo; il marxismo della Seconda Internazionale, nel nome del ‘realismo’ politico e sociale, esprimeva manifestamente questa tendenza. Reagendo con violenza contro di essa, accusandola di ‘revisionismo’, esorcizzando in blocco e senza la mediazione della critica che distingue e supera in forma reale (non verbale) questa sociologia, il ‘marxismo ortodosso’ si chiudeva in se stesso secondo una concezione esclusiva ed autosufficiente del proprio divenire, dogmatizzandosi ed amputando uno dei piedi sui quali cammina la scienza, e cioè la critica comprensiva d’ogni sviluppo teorico nuovo, capace di digerire il positivo e di negare il mistificatorio. A fronte della ‘sociologia borghese’ – così s’iniziò a chiamarla – si proponeva come vera e unica sociologia il materalismo storico, che veniva sottoposto ad un processo di formalizzazione sistematizzante. Il libro di Bucharin era inscritto in questa tendenza; Gramsci riconoscerà nel sottotitolo (Saggio popolare di sociologia) l’elemento di verità contenuto nel denominare “sociologia” questo marxismo.

 

Si manifesta così una curiosa convergenza negli indirizzi che il marxismo assume in condizioni storico-politiche non solo diverse ma apparentemente di segno opposto: in Occidente ove il marxismo è all’opposizione e nell’URSS ove è al potere.

 

L’interpretazione oggi prevalente secondo la quale il marxismo in Occidente si conformò alla tendenza che il marxismo aveva assunto in URSS in ragione della subordinazione politica e organizzativa dei partiti comunisti occidentali a quello sovietico, ci sembra insufficiente per il fatto che, sebbene questa subordinazione fosse un fatto reale che ebbe riflessi nel terreno dello sviluppo teorico, questo costituiva anche una risposta ai problemi specifici che i partiti comunisti fronteggiavano in Occidente.

 

Il processo di ideologizzazione del marxismo in Occidente – che assume quasi la portata di una vera rinuncia all’analisi delle nuove realtà di un capitalismo che si ostinava a funzionare – si dispiega come reazione alla situazione di crisi in cui si dibatteva il movimento comunista, come ‘riflesso’ della successione di sconfitte che il movimento subiva in quegli anni, come freno alla dispersione e antidoto all’attrazione dei ‘revisionisti’. Di contro a ciò, e dovendo continuare a realizzarsi come critica del capitalismo, il marxismo diventa astratto e ‘metafisico’: alla critica concreta dei processi concreti si sostituisce la fede nell’ineluttabile sbocco nel socialismo delle contraddizioni oggettive del sistema. In questo modo la convergenza di indirizzi tra il ‘marxismo al potere’ ed il ‘marxismo sconfitto’ trova spiegazione nella reale affinità delle difficoltà e dei problemi pratici che in situazioni diverse entrambi dovevano affrontare.

(Vedi Nota Teorica III)


Riassumendo. L’individuazione del soggetto della critica della sociologia ci ha portato a collocare il problema nel quadro della storia-critica della cultura e a discriminare nel concetto generico di ‘sociologie’ un insieme complesso di tendenze teoriche che si riconoscono come tali. Alcune di queste ‘sociologie’ costituiscono tendenze interne del marxismo e della sua storia, altre a questo si contrappongono come alternativa.

 

Tuttavia la critica gramsciana della sociologia coinvolge entrambi le tendenze in un unico movimento critico; se noi scegliamo di procedere analiticamente distinguendo la critica di ognuna delle tendenze, lo facciamo nella prospettiva di ritrovare alfine la sintesi, la matrice comune del soggetto della critica e l’unitarietà della critica del soggetto. 


 

Capitolo 2. La sociologia come ‘tendenza deteriore’ del marxismo.


Attualizzazione. In questo capitolo facciamo i conti con il marxismo, partendo dalla distinzione che realizza Gramsci tra le correnti riduttive e quelle progressive. Tuttavia, mentre Gramsci si riconosce ancora all’interno della corrente progressiva del marxismo – che chiama ‘filosofia della praxis’ - attribuendole connotazioni e potenzialità che nei fatti implicano un superamento del marxismo, qui noi identifichiamo e sviluppiamo questi elementi di superamento, senza ancora far riferimento alla nuova denominazione – ‘scienza della storia e della politica’ – che adotteremo più avanti. Questa nuova scienza ci installa definitivamente fuori dell’orizzonte marxista, sebbene recuperando e integrando questi concetti esposti qui da Gramsci, tra i quali, specialmente, il concetto di ‘autonomia’.


Nella già riportata proposizione d’apertura del primo paragrafo, nella quale abbiamo mostrato che è possibile leggere il soggetto generale della critica gramsciana della sociologia, è contenuta insieme l’individuazione della “tendenza deteriore” che con Bucharin si autodefinisce “sociologia marxista”. I criteri che permettono di indicare quale sia esattamente questa tendenza sono i medesimi elementi storico-critici esplicitati nella proposizione (è la stessa critica che identifica il soggetto della critica); per comprendere ciò in tutto il suo significato è necessario aver presente – conformemente al concetto gramsciano di ‘sistematicità’ – l’idea gramsciana di scienza o di filosofia della praxis.

 

L’affermazione era questa: “Questa riduzione [della filosofia della praxis a una sociologia] ha rappresentato la cristallizzazione della tendenza deteriore già criticata da Engels (nelle lettere a due studenti nel ‘Sozialistische Akademiker’) e consistenti nel ridurre una concezione del mondo a un formulario meccanico che dà l’impressione di avere tutta la storia in tasca.” (Q, 1428)

 

Si tratta, anzi tutto, di una riduzione, vale a dire un restringimento della prospettiva, un ridimensionamento dei contenuti teorici, una diminuzione di questi contenuti come risultato di una loro formalizzazione in forme ridotte rispetto a quelle che sono loro proprie. Questa riduzione è la manifestazione di – e si esprime in – unacristallizzazione. È questo un termine che descrive il fenomeno chimico-fisico per cui una sostanza passa dallo stato fluido al solido assumendo forma e struttura fissa; riferito analogicamente al processo teorico rappresenta la fissazione della teoria in uno stato di compiacimento, repulsivo di ogni mutazione, riconducendo questo processo teorico ad una replica rituale del medesimo nel diverso.

 

Cristallizzazione di una tendenza deteriore. Deteriore, in quanto risultato di una alterazione progrediente apportatrice di uno scadimento, di una perdita come impoverimento. Tendenza, una propensione persistente, un modo di concepire e ragionare inclinato ricorrentemente in una certa direzione, che riemerge più volte in forme determinate diverse le quali però manifestano un comune orientamento.

 

Chi sperimenta questa tendenza riducente, questo deterioramento? È la prima domanda che ci dobbiamo porre. La seconda sarà: qual è in concreto il prodotto, il contenuto e la forma, di questa determinata tendenza? Se torniamo al testo troviamo due formulazioni: una generale, che parla di “una concezione del mondo” che è ridotta “a un formulario meccanico che dà l’impressione di avere tutta la storia in tasca”, l’altra – che la specifica – individua la “Riduzione della filosofia della praxis a una sociologia”. Le nostre domande diventano conseguentemente queste: Come intende Gramsci la ‘filosofia della praxis’? E in che cosa consiste questo ‘formulario meccanico’, questa ‘sociologia’?

 

Una filosofia della praxis concepita da Gramsci come teoria aperta ed in sviluppo, complessa e diversificata, refrattaria alla schematizzazione e ad ogni riduzione a tesi fisse pena il proprio snaturamento, da una parte. Dall’altra un formulario meccanico il quale si reputa contenga tutta la storia, l’applicazione del quale basterebbe a renderne ragione; riferimento all’interpretazione schematica del materialismo storico, ridotto a una serie di categorie e leggi, determinazioni e contraddizioni (‘formule’), con le quali si presume di comprendere e spiegare qualsivoglia processo o fenomeno storico-sociale, e che implicitamente nega che nella storia e nella società possano svilupparsi novità che abbiano significato teorico, cioè che esigano sviluppi e mutamenti qualitativi della teoria stessa.

 

Che di questo precisamente e non di altro si tratti è confermato dal riferimento alle due lettere di Engels in cui Gramsci vede già avviata la critica della ‘tendenza deteriore’. Il senso del riferimento è degno di una sottolineatura: questa tendenza di inviluppo del marxismo è colta intanto da Gramsci in un antecedente storico concreto che permette di risalire alle sue origini. Questa tendenza compare quando i fondatori del marxismo sono ancora in vita, e da essi è criticata nel suo stato nascente; questa tendenza persiste tuttavia, ottenendo un successo storico: si sviluppa, si cristallizza come ‘sociologia marxista’, diventa dottrina e disciplina teorica. È la critica di questa ‘cristallizzazione’ che permette a Gramsci di comprendere e criticare alla radice tutta la tendenza, e la critica stessa può andare oltre la critica engelsiana in quanto coglie la tendenza nella sua fase ‘matura’, cioè nel suo dispiegamento teorico e politico.

 

L’emergenza e la persistenza di questa tendenza denuncia che le sue radici sono, oltre che di natura teorica, propriamente storico-sociali. Non è bastata la critica engelsiana, quando essa era allo stato incipiente, per sconfiggerla. Non è bastata nemmeno – constatiamo oggi – la critica gramsciana, e di altri ancora, quando la tendenza acquisiva corposità teorica, per arrovesciarla. Anzi la tendenza assurgeva a dottrina ufficiale del primo Stato socialista, insediandosi sulla cattedra per la formazione dei quadri politici del movimento comunista (il Manuale buchariniano servì infatti a formare tutta una generazione di rivoluzionari), e per la diffusione del ‘materialismo storico’ tra le masse.

 

Tre interrogativi si sommano: la base sociale della tendenza; le ragioni del suo successo politico; il perché della sconfitta della critica. Lasciando per ora le domande come tali, avanziamo due elementi di riflessione riguardanti l’ultima: 1. la critica è rimasta sostanzialmente incompresa (da alcuni è stata sintomaticamente accomunata al ‘revisionismo’); 2. i protagonisti della critica si sono posti essi stessi, in certo modo, come sconfitti, là dove agivano sotto l’influenza dell’idea secondo la quale l’impoverimento che comporta ogni diffusione massiva del marxismo conduce necessariamente ad una schematizzazione, in ultima analisi al sacrificio della argomentazione.

 

(Vedi Nota teorica IV)


Il contenuto di queste lettere engelsiane è stato generalmente individuato come critica di una interpretazione economicista, determinista e meccanicista della concezione marxista della storia, interpretazione che non riconosce la complessa dialettica che inerisce ai rapporti tra ‘base economica’, ‘forme politiche’ e ‘riflessi ideologici’. Gramsci da un lato coglie questi elementi della critica engelsiana, e ne sottolinea il riferimento alla tendenza alla scorporazione dalla teoria delle “tesi principali” ed al loro uso nella forma di “equazioni” o “formulario”; ed ancora che Engels in qualche modo nel far la critica ad un ‘errore’ teorico intravvede tutta una tendenza della cultura marxista. Infatti Engels scrive: “accade troppo spesso che si crede d’aver compreso perfettamente una nuova teoria, e di poterla senz’altro maneggiare, non appena se ne sono imparate – e anche questo non sempre rettamente – le tesi principali. Questo rimprovero io non lo posso risparmiare ad alcuno dei nuovi ‘marxisti’; e in verità è stata scritta della roba meravigliosa”. {Marx-Engels – Lassalle, Opere, Società editrice ‘Avanti!’, Milano 1914, p. 6}

 

D’altro lato Gramsci non solo, abbiamo detto, va oltre Engels nella critica della tendenza deteriore, ma il soggetto della sua critica comprende anche certe tesi che in queste lettere Engels sostiene: le stesse tesi che Engels all’ ‘errore’-tendenza aveva opposto. Quasi che la critica engelsiana non fosse riuscita ad uscire dalla logica in cui quell’errore era inscritto e partecipasse perciò – nonostante tutto – della tendenza stessa. Questo aspetto del problema sarà ripreso e approfondito più avanti.

 

La critica gramsciana della ‘tendenza deteriore’ non si ferma alla identificazione della improprietà dell’interpretazione della teoria e delle sue conseguenti ‘applicazioni’ (schematiche e dogmatiche) nelle analisi storiche particolari; individua altresì le ragioni storiche e teoriche che spiegano questa tendenza, il posto e il significato che essa ha nella la storia del marxismo, per la storia della cultura. Nelle pagine gramsciane si svolge un modo d’intendere il marxismo e la sua storia; la sua proposizione della filosofia della praxis, che rende conto di questa ‘tendenza deteriore’ (nei suoi presupposti e nelle sue conseguenze), comporta un nuovo modo di concepire l’ ‘ortodossia’ marxista.

 

Distinguere nella storia del marxismo una ‘tendenza deteriore’ implica distinguere questa ultima dalla filosofia della praxis. Implica concepire il marxismo come un processo storicizzabile nel suo proprio sviluppo teorico e politico, e la filosofia della praxis come sua ‘tendenza ortodossa’. In questo senso il marxismo si pone come luogo di conflitto teorico. Orbene, la filosofia della praxis, in quanto ‘tendenza ortodossa’, rifugge ogni dogmatismo e si pone come teoria scientifica aperta; però, dal momento che nella storia del marxismo si manifestano tendenze deteriori, diviene necessario sottolineare che non si tratta di una apertura indiscriminata ed eclettica, che riconosca validità e progresso conoscitivo a qualsiasi sviluppo e orientamento. In effetti, sebbene la filosofia della praxis sia aperta in senso storico, essa è insieme indipendente e autonoma in senso teorico: essa “ ‘basta a se stessa’, contiene in sé tutti gli elementi fondamentali per costruire una totale ed integrale concezione del mondo”. È venuto il momento di soffermarci su questa affermazione per verificare se in essa si manifesti una concezione integralista.

 

Ancor più si tratta di porsi il problema dei rapporti tra pluralismo, egemonia e ‘ortodossia’: della possibilità di un ‘concetto di ortodossia’ liberato dalle scorie di una certa tradizione staliniana, e più in generale dalle proprie connotazioni di sapore religioso; della possibilità di un criterio di critica storica e di analisi politica che permetta di distinguere le esigenze della coerenza scientifica dalle richieste ideologiche di parte, e di individuare una comune radice teorica alla pratica politica rivoluzionaria; della possibilità di teorizzare un processo di costruzione dell’egemonia nel contesto di una pratica politica e culturale pluralista.

 

Senza pretendere di dispiegare in modo articolato le risposte a questi problemi, cercheremo di cogliere nella formulazione gramsciana i nodi che sembrano costituire consistenti basi teoriche per affrontarli.

 

La filosofia della praxis non deve né uscire da se stessa, alienarsi, prendendo in prestito da altre concezioni del mondo fondamenti teorici e metodologici che ne guidino lo sviluppo, né compiacersi nella deduzione dei propri princìpi e delle proprie ‘leggi’. Nella storia del marxismo si può constatare come entrambi questi due atteggiamenti sono presenti e come entrambi rivendicano a sé d’essere i veri eredi dei padri fondatori. Gli uni – i ‘realisti’ – si richiamano ad un modo d’intendere l’apertura della teoria come accoglimento di ogni elemento conoscitivo sorto al di fuori del marxismo, a questo sommandoli esteriormente. Gli altri – gli ‘ortodossi’ – proclamano la compiutezza della teoria e ne intendono lo svolgimento solo nella applicazione pratica a realtà diverse, e nel rifiuto d’ogni teoria diversa. Gramsci scopre che questi due modi apparentemente opposti di rapportarsi alle teorie diverse condividono in realtà una comune contaminazione ideologica da parte di queste: da un lato per accettazione acritica e dall’altra per negazione acritica.


Sulla autonomia e la compiutezza della teoria. 


L’autonomia non si presenta mai come un dato acquisito ma deve essere conquistata di volta in volta di fronte ad ogni sviluppo culturale; essa è garantita soltanto dalla critica che digerisce e subordina, in un processo che non è né di accettazione né di negazione delle altre teorie ma – nella critica di queste – di ricostruzione di se stessa.L’immagine gramsciana dell’ ‘ortodossia’ non è focalizzata nel punto medio tra due ‘deviazioni’, ma si forma in un “vertice inaccessibile” ed autonomo: si pone al di là del segmento, sopra.

 

“Nell’impostazione dei problemi storico-critici, non bisogna concepire la discussione scientifica come un processo giudiziario, in cui c’è un imputato e c’è un procuratore che, per obbligo d’ufficio, deve dimostrare che l’imputato è colpevole e degno di essere tolto dalla circolazione. Nella discussione scientifica, poiché si suppone che l’interesse sia la ricerca della verità e il progresso della scienza, si dimostra più ‘avanzato’ chi si pone dal punto di vista che l’avversario può esprimere un’esigenza che deve essere incorporata, sia pure come momento subordinato, nella propria costruzione. Comprendere e valutare realisticamente la posizione e le ragioni dell’avversario (e talvolta è avversario tutto il pensiero passato) significa appunto essersi liberato dalla prigione delle ideologie (nel senso deteriore, di cieco fanatismo ideologico), cioè porsi da un punto di vista ‘critico’, l’unico fecondo nella ricerca scientifica.” (Q, 1263)

 

Il concetto di ‘apertura’ si allaccia al concetto di ‘ortodossia’. La filosofia della praxis condivide con tutte le altre concezioni del mondo la necessità di diventare un sistema compiuto ed in quanto tale distinto da tutti gli altri. Però alla filosofia della praxis il problema si presenta in modo diverso che alle altre filosofie; la sua diversità radicale sta anche nel modo di essere e nel modo di concepirsi ‘compiuta’. La compiutezza è in essa qualcosa che sta sempre nel futuro, e cioè si pone permanentemente come progetto, come realtà non acquisita e tuttavia come tensione che dà impulso allo sviluppo, come motore trainante. In atto, e cioè in ogni momento della sua storia, la filosofia della praxis vive nella (e della) ‘incompiutezza’; più precisamente, la sua ‘compiutezza in atto’ si manifesta nella forma di ‘autonomia’, ‘in forma polemica, di perpetua lotta’.

 

Possiamo ormai rileggere l’affermazione di Gramsci cogliendo in essa una piena coerenza con quanto abbiamo detto:

 

1. Non dice che la filosofia della praxis contiene la totalità degli elementi di una integrale concezione del mondo, bensì “tutti gli elementi fondamentali”, ai quali altri si possono e si debbono subordinare;

2. Non dice che quegli elementi costituiscono già compiutamente la nuova concezione del mondo, bensì che essi servono per costruire questa totale concezione, segnando in questo modo che quella ‘compiutezza’ è da intendersi come un progetto di lavoro.

 

In realtà tutto ciò non riveste di per sé grande valore teorico, ove risulti la semplice affermazione di un certo punto di vista opposto ad altri, privo delle ragioni fondanti. Gramsci, però, le ragioni le ha fornite. Ad esempio in quel passo del paragrafo intitolatoOsservazioni e note critiche su un tentativo di “Saggio popolare di sociologia”, dello stesso Quaderno, ove scrive della “necessità in una esposizione della filosofia della praxis della polemica con le filosofie tradizionali” sostenendo che “per questo suo carattere tendenziale di filosofia di massa, la filosofia della praxis non può essere concepita che in forma polemica, di perpetua lotta” (Q, 1397).

 

In qual modo Gramsci pone la relazione tra il carattere critico della filosofia della praxis e il suo carattere tendenziale di filosofia di massa? In qual modo questa relazione sta a fondamento della compiutezza caratteristica della filosofia della praxis?


Attualizzazione. Nella edizione originaria di queste analisi, seguendo il linguaggio e la terminologia di Gramsci abbiamo impiegato l’espressione ‘filosofia di massa’ e accolto l’idea della diffusione della filosofia della praxis ‘fra le masse’. Adottando ora definitivamente il concetto di ‘scienza della storia e della politica’ come una teoria tesa a fondare la creazione di una nuova civiltà, l’idea di ‘massa’ si presenta a noi come decisamente impropria, dato che la diffusione moltitudinaria e molecolare di questa teoria ha come effetto precisamente la dissoluzione delle masse in quanto tali e la formazione di individui autonomi organizzati. Con questa riserva terminologica, i concetti esposti conservano la loro validità, nel senso che il problema affrontato consiste nella diffusione molecolare e moltitudinaria della scienza della storia e della politica e che la sua ‘compiutezza’ comporta inoltre, come si spiega più avanti, la sua capacità di vivificare una intera formazione storico-sociale, o per meglio dire una nuova superiore civiltà.

 

La compiutezza della filosofia della praxis – il progetto di compiutezza – non cade dentro la teoria stessa, non è la compiutezza formale di un sistema che abbia elaborato e collegato tutti i propri concetti, e perciò la elaborazione di questa compiutezza non è ridotta al lavoro dei filosofi o di particolari organizzazioni intellettuali; al contrario, caratteristica costitutiva di questa teoria è il suo vivere non nel rapporto dei propri astratti elementi ma nel suo divenire coscienza collettiva, e perciò la compiutezza della filosofia della praxis sta nella costruzione di un “ordine intellettuale collettivo”, si elabora nella sua espansione progressiva. La forma della compiutezza della teoria consiste intanto nel suo essere filosofia di massa.

 

Condizione di questa espansione è il rapporto critico che la filosofia della praxis stabilisce con le altre teorie, cioè la critica delle concezioni che sono diffuse a vari livelli tra le masse. Questa attività critica non è altro che l’esercizio di una autonomia intesa non come espressione di distacco e separazione dal pensiero e dall’azione altrui – che comporterebbe una polemica volta alla distinzione ed alla autodifesa della propria integrità – ma come critica volta alla conquista di ciò che le si oppone. Il contenutodella compiutezza della teoria sta allora nella conquista dell’egemonia.


Sul concetto di egemonia e la diffusione della teoria.


Il concetto di ‘egemonia’ è richiamato da Gramsci nel brano dedicato al concetto di ‘ortodossia’ in rapporto ai concetti di autonomia e di critica, acquisendo sotto questa luce una inedita dimensione.

 

Il carattere egemonico della teoria non significa il predominio esteriore sulle altre teorie, cioè il fatto che la filosofia della praxis dirige il processo culturale – definendo per esempio il terreno ed i problemi sui quali le teorie devono confrontarsi – lasciando intoccate le altre teorie nella loro autonomia (e se stessa nella propria indipendenza), cioè ancora sancendo la separazione tra le diverse teorie; l’egemonia comporta invece la subordinazione a sé delle altre teorie attraverso una attività critica che le affronta, aggredisce, penetra, scompone, demistifica, sovverte ed assimila. Questo ‘digerire’ comporta una crescita ed un mutamento della stessa filosofia della praxis, di modo che la tendenza alla egemonia – che non si presenta mai come conquista definitiva poiché sempre nuove teorie da criticare emergono ed anche le vecchie persistono reiterate o rinnovate – si realizza nella costruzione dell’autonomia e non si distingue da questa.

 

Condizione di questo e quello, della conquista dell’egemonia e dell’espansione progressiva della filosofia della praxis, è il particolare rapporto di questa teoria con la pratica. La pratica connessa a questa teoria non si pone come un suo momento successivo e perciò esteriore, inteso ad applicarla, e la teoria stessa non si pone come pura ‘interpretazione del mondo’ da verificare nella pratica. La pratica assorbe la teoria nell’opera di ‘trasformazione del mondo’: la teoria non si compie perciò in se stessa, bensì nella critica reale della società, cioè nella costruzione di una nuova cultura, in una nuova organizzazione pratica della società. In sintesi: la ‘compiutezza’ della filosofia della praxis non si realizza all’interno della teoria stessa, bensì si realizza tendenzialmente nel rapporto teoria-pratica.

 

Leggiamo per intero la proposizione gramsciana, in condizione ormai di cogliervi l’effettivo contenuto, la ricchezza e la rigorosa articolazione (ulteriore conferma del tipo di sistematicità proprio degli scritti gramsciani): “L’ortodossia non deve essere ricercata in questo o quello dei seguaci della filosofia della praxis, in questa o quella tendenza legata a correnti estranee alla dottrina originale, ma nel concetto fondamentale che la filosofia della praxis ‘basta a se stessa’, contiene in sé tutti gli elementi fondamentali per costruire una totale ed integrale concezione del mondo, una totale filosofia e teoria delle scienze naturali, non solo, ma anche per vivificare una integrale organizzazione pratica della società, cioè per diventare una totale, integrale civiltà.”(Q, 1434)

 

Ancora, prendendo le mosse dall’ultima parte della proposizione gramsciana, un nuovo problema dobbiamo esaminare. Ma insomma, la filosofia della praxis si compie nel comunismo? E l’aver posto la ‘compiutezza’ della teoria come un progetto mai storicamente concluso, significa pensare la filosofia della praxis come l’ultima e più avanzata teoria possibile, che accoglierà in sé ad infinitum gli sviluppi di tutto il pensiero futuro? Ad entrambi le domande, a partire da Gramsci, rispondiamo negativamente.

 

L’affermazione gramsciana si pone infatti al di fuori di ogni prospettiva escatologica. La realizzazione della filosofia della praxis sta nel ‘divenire una totale, integrale civiltà’, nel ‘vivificare una integrale organizzazione pratica della società’. Si individua cioè la prospettiva storica di una organizzazione pratica o civiltà nuova e diversa rispetto alla civiltà precedente che assorbe e supera; processo sottolineato nell’altra frase della stessa nota dove si osserva come “la filosofia della praxis comincia ad esercitare una propria egemonia sulla cultura tradizionale”. In questo è il carattere rivoluzionario della teoria, allo stesso modo in cui “il cristianesimo fu rivoluzionario in confronto del paganesimo perché fu un elemento di completa scissione tra i sostenitori del vecchio e del nuovo mondo”. (Q, 1434-5)

 

La filosofia della praxis, in quanto teoria rivoluzionaria storicamente delimitata – epocale -, si presenta internamente strutturata come filosofia di conflitto. “Una teoria è appunto ‘rivoluzionaria’ nella misura in cui è elemento di separazione consapevole in due campi, in quanto è un vertice inaccessibile al pensiero avversario.” (Q, 1434)

 

La filosofia della praxis non è dunque la filosofia della democrazia ideale; è invece quella che oggi, nelle condizioni storiche date, ci mostra la strada per avvicinarsi ad essa, alla società ove svanisce la separazione tra ‘intellettuali’ e ‘semplici’, ‘dirigenti’ e ‘diretti’; ove la scienza si fa senso comune e la regolazione della vita sociale si manifesta come dominio della libertà. Solo che dall’interno di tutte le società contraddittorie e quindi delle teorie che in esse si affrontano, tale società futuribile non può comparire che come utopia politica, non può essere perciò teorizzata ma pensata e rappresentata miticamente (ideologicamente).

 

Coerenti a queste risposte si mostrano le affermazioni di Gramsci contenute nel paragrafo Storicità della filosofia della praxis. “Che la filosofia della praxis concepisca se stessa storicisticamente, come cioè una fase transitoria del pensiero filosofico, oltre che implicitamente che da tutto il suo sistema, appare esplicitamente dalla nota tesi che lo sviluppo storico sarà caratterizzato a un certo punto dal passaggio dal regno della necessità al regno della libertà. Tutte le filosofie (i sistemi filosofici) finora esistite sono state la manifestazione delle intime contraddizioni da cui la società è stata lacerata [...]. Ma se anche la filosofia della praxis è una espressione delle contraddizioni storiche, anzi ne è l’espressione più compiuta perché consapevole, significa che essa pure è legata alla ‘necessità’ e non alla ‘libertà’, che non esiste e non può ancora esistere storicamente. Dunque, se si dimostra che le contraddizioni spariranno, si dimostra implicitamente che sparirà, cioè verrà superata, anche la filosofia della praxis: nel regno della ‘libertà’ il pensiero, le idee non potranno più nascere sul terreno delle contraddizioni e delle necessità di lotta. Attualmente il filosofo (della praxis) può solo fare questa affermazione generica e non andare più oltre: infatti egli non può evadere dall’attuale terreno delle contraddizioni, non può affermare, più che genericamente, un mondo senza contraddizioni, senza creare immediatamente una utopia.” (Q, 1487-8)

 

Tutto ciò che precede sta in una precisa connessione con il problema della ‘tendenza deteriore’, e ci mette in condizione di comprendere questa tendenza ad un livello ulteriore di complessità teorica e di cogliervi le ragioni del deterioramento del marxismo che questa tendenza storicamente esprime. Per risalire il percorso compiuto dalla nostra analisi in modo da ritrovare queste ragioni, possiamo intanto annotare come Gramsci nella nota soprariportata individua precisamente nella concezione che nega la transitorietà storica della filosofia della praxis un rapporto costitutivo della ‘tendenza deteriore’.

 

Secondo Gramsci una ragione per cui “avviene anche che la stessa filosofia della praxis tende a diventare una ideologia nel senso deteriore, cioè un sistema dogmatico di verità assolute ed eterne, specialmente quando, come nel Saggio popolare, esso è confuso col materialismo volgare”, si trova nella difficoltà di “far comprendere praticamente” che l’affermazione teorica secondo la quale “ogni verità creduta eterna e assoluta ha avuto origini pratiche e ha rappresentato un valore provvisorio”, “è valida anche per la stessa filosofia della praxis.” (Q, 1489) Si tratta insomma della difficoltà sperimentata dal marxismo di rivolgere a sé i suoi criteri di critica della teoria altrui. Perdendo la capacità auto-critica, la teoria si disarma di fronte alle altre teorie; si chiude in atteggiamento difensivo, negatore di queste, o si apre ad una etero-direzione (eteronomia).

 

La individuata difficoltà di far comprendere che “tutto il sistema della filosofia della praxis può diventare caduco in un mondo unificato”(Q, 1490) è una difficoltà reale e pratica, che, non affrontata, viene ideologicamente capovolta e accolta nella teoria sotto la forma della concezione esattamente contraria, secondo la quale cioè detta teoria è il sistema delle ultime verità, il sistema i cui elementi fondamentali filosofici sono da intendersi come verità assolute, tesi cristallizzate.

 

Di questa difficoltà bisogna però rendere ragione. Gramsci la vede insorgere nei processi di volgarizzazione della teoria. E con ciò ritroviamo il problema che abbiamo denominato della diffusione progressiva della teoria, processo nel quale la filosofia della praxis, diventando filosofia di massa, rischia di deteriorarsi. Quando essa si diffonde tra le masse nella forma della volgarizzazione di una dottrina (come insieme di contenuti teorici da insegnare e da imparare) essa si sovrappone alla filosofia spontanea delle masse, al senso comune, al quale si accorpa come un suo ulteriore frammento. Entra cioè a far parte del processo di formazione storica del senso comune, un processo nel quale si frammischiano frammenti di diverse concezioni del mondo, si sedimentano ed esteriormente si compongono in un tutto eterogeneo. La filosofia della praxis, diffondendosi non come critica e nella critica del senso comune e delle filosofie che in esso ricadono, sperimenta quella perdita di identità, di quella autonomia sua propria che piega e subordina a sé sia il senso comune che le filosofie. Si subordina – nella coscienza delle masse e come riflesso fin nel proprio statuto teorico – alle concezioni del mondo proprie delle classi dominanti, poiché il senso comune costituisce l’ideologia politica che esprime e riproduce l’egemonia di quelle classi sull’intera società.

 

Per questa ragione s’incontra la difficoltà di far comprendere praticamente la storicità della stessa filosofia della praxis: ricondotta ad essere una dottrina analoga alle altre, essa si auto-concepisce secondo i criteri che le altre adottano per sé, secondo la convinzione di rappresentare verità assolute, sistema compiuto; secondo la credenza che “se una tale convinzione non fosse, gli uomini non opererebbero, non creerebbero nuova storia, cioè le filosofie non potrebbero diventare ‘ideologie’, non potrebbero nella pratica assumere la granitica compattezza fanatica delle ‘credenze popolari’ che assumono la stessa energia delle ‘forze materiali’ ”. (Q, 1497) Intesa la teoria secondo i criteri di compiutezza formale propri delle altre filosofie, si finisce col fraintendere il nuovo rapporto teoria-praxis che essa tende a stabilire, il quale si manifesta appunto come processo – politico e teorico – di diffusione della teoria, come incompiutezza in atto.

 

La tendenza al deterioramento della teoria nel processo attraverso il quale diviene filosofia di massa costituisce un problema più complesso di quanto sembri, ed è uno dei nodi teorici centrali della riflessione gramsciana. Per la filosofia della praxis il problema non consiste soltanto nell’evitare di deteriorarsi nel processo della sua diffusione tra le masse, ma nel presentarsi come già compiuta alle masse proprio quando in realtà acquisisce progressiva compiutezza nell’universalizzarsi. Il problema non consiste solo nel fatto che essa si diffonde in forma dogmatica e volgarizzata, e quindi il problema non si risolve organizzando tale diffusione in forma tale che i suoi contenuti – e tra essi quello fondamentale della propria storicità e transitorietà – siano rispettati. Oltre a ciò occorre individuare il carattere ‘strutturale’ del problema.

 

Diffondersi tra le masse significa diffondersi tra le classi subordinate economicamente, politicamente e culturalmente, tra classi cioè che non sono mai state autonome ma sempre eterodirette, che non hanno l’esperienza del controllo e della direzione dei processi storici e delle proprie condizioni di esistenza, che non hanno mai elaborato proprie coerenti concezioni del mondo ma che invece hanno un modo di pensare incoerente e frammentario nel quale si riassumono e compongono tutte le subordinazioni subite. Queste classi debbono diventare ‘autonome’, autonomia che non consiste nel non subire più l’influenza ideologica delle classi dominanti e nello svolgere indipendentemente una propria razionalità, ma nel raggiungere un ‘vertice inaccessibile agli avversari’ dal quale poter criticare, subordinare ed assimilare ogni vecchia o nuova concezione del mondo. Progetto molto difficile da realizzare e che richiede tempi e sforzi di tale portata che alta è la probabilità che compaiano tentazioni di risolvere il problema dell’‘egemonia’ con metodi burocratici (civili e militari). Ma in tal caso la politica della classi subordinate pur essendo ‘di classe’ non è progressiva, non allarga e non rende superiore la vita culturale.

 

Alla luce di questo concetto di ‘autonomia’ il problema politico della ‘rivoluzione’ acquista dimensioni tutte nuove, diventa il problema culturale della ‘ riforma intellettuale e morale’ - evidenziandosi in tal senso la centralità delle ricerche gramsciane sullo “spirito popolare creativo, nelle sue diverse fasi e gradi di sviluppo”. {A. Gramsci, Lettere dal carcere, op. cit., p. 59}

 

La ‘tendenza deteriore’ si rapporta al problema della incompiutezza della filosofia della praxis non soltanto perché fa scomparire il concetto di incompiutezza e storicità della teoria, ma anche in quanto il fatto stesso che la filosofia della praxis sia incompiuta in atto, sia quindi una storia essa stessa, implica la possibilità di soffrire processi di deterioramento (tendenze deteriori). Queste si pongono in rapporto con la teoria come ‘momenti negativi’ della sua storia, con i quali la teoria deve costantemente lottare e dai quali deve differenziarsi.

 

L’emergenza di ogni nuova concezione del mondo segna l’inizio di una lotta nell’ambito della cultura. La prospettiva nella quale questa lotta è intrapresa è la subordinazione e l’assorbimento di tutte le teorie avversarie da parte di ognuna: nella lotta ideale e culturale o si assorbisce o si è assorbiti. Ciò che distingue una teoria rivoluzionaria è il porsi come “un vertice inaccessibile al campo avversario”, vale a dire la potenziale capacità di digerire tutto “il mondo culturale esistente” e di porre i fondamenti (“elementi fondamentali”) del mondo culturale futuro. L’esempio storico scelto da Gramsci per comprovare una tale concezione della storia della cultura riguarda “il cristianesimo [che] fu rivoluzionario in confronto del paganesimo perché fu un elemento di completa scissione tra i sostenitori del vecchio e del nuovo mondo”.

 

Il conflitto permanente tra le diverse concezioni del mondo è stato plasticamente rappresentato da Max Weber come “conflitto tra gli dèi che presiedono ai singoli ordinamenti e valori”. “Tra i diversi valori che presiedono all’ordinamento del mondo il contrasto è inconciliabile.” {M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino 1971, pp. 31-2.} È questo un problema centrale e ricorrente della riflessione weberiana. Nel saggio Il significato della ‘avalutatività’ delle scienze sociologiche e economiche, precisa: “Tra i valori si tratta in ultima analisi, ovunque e sempre, non già di semplici alternative, ma di una lotta mortale senza possibilità di conciliazione, come tra ‘dio’ e il ‘demonio’. Tra di loro non è possibile nessuna relativizzazione e nessun compromesso.” {M. Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino 1966, p. 332.}

 

Weber coglie in tal modo la radicalità del conflitto ideale, e tuttavia, diversamente da Gramsci, ritiene che la scienza non contenga i criteri per decidere della superiorità teorica di un sistema di pensiero su altri: “Come si possa fare per decidere ‘scientificamente’ tra il valore della cultura tedesca e di quella francese, io lo ignoro. Anche qui c’è un antagonismo tra divinità diverse, in ogni tempo. [...] Su questi dèi e sulle loro lotte domina il destino, non certo la ‘scienza’. È dato solamente intendere che cosa sia il divino nell’uno o nell’altro caso, ovvero in un ordinamento o nell’altro.” {M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione, op. cit., pp. 31-2.}

 

Weber non riconosce quindi la possibilità di attingere un ‘vertice’, la necessità di subordinare ad una le altre teorie. La lotta non si risolve perciò sul terreno scientifico ma solo attraverso il dominio sul terreno politico. Questa separazione tra scienza e politica è assunta dalla teoria stessa di Weber, in quanto il criterio di scelta tra le teorie resta fuori della scienza, sul terreno etico e politico: “Giudicare la validità di tali valori è però una questione di fede, ed è inoltre forse un compito della considerazione speculativa e della interpretazione della vita e del mondo nel loro senso, ma non è sicuramente oggetto di una scienza empirica.” {M. Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali, op. cit., p. 62 - nel saggio L’ ‘oggettività’ conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale.}

 

La filosofia della praxis, poiché si pone come tendenziale filosofia di massa, non esaurisce la sua battaglia nello scontro con le altre filosofie ma la svolge simultaneamente, molecolarmente, sul terreno del senso comune; e in quanto si pone come critica pratica tesa alla trasformazione dei rapporti sociali, svolge la lotta non limitatamente sul terreno culturale ma anche sul terreno economico e politico.

 

A causa di ciò non le è sufficiente l’aver attinto teoricamente il vertice inaccessibile – e ciò non si realizza comunque una volta per tutte – per vincere la guerra. La manifestazione e lo sviluppo delle tendenze deteriori segnalano infatti i vincitori vinti. “La filosofia della praxis comincia ad esercitare una propria egemonia sulla cultura tradizionale, ma questa, che è ancora robusta e soprattutto più raffinata e leccata, tenta di reagire come la Grecia vinta, per finire di vincere il rozzo vincitore romano.”(Q, 1434-5)

 

Proprio nel Saggio popolare, manuale della tendenza deteriore, Gramsci vede come “L’ambiente ineducato e rozzo ha dominato l’educatore, il volgare senso comune si è imposto alla scienza e non viceversa; se l’ambiente è l’educatore, esso deve essere educato a sua volta, ma il Saggio non capisce questa dialettica rivoluzionaria” (Q, 1426).


Sulla previsione del crollo del socialismo e del marxismo.


Da questo punto di vista possiamo ricavare elementi esplicativi che consentono di scoprire la radice comune del ‘revisionismo’ in Occidente e dello ‘stalinismo’ nei paesi socialisti.

 

In Occidente il movimento operaio fu sconfitto sul terreno della lotta politica ed economica. Come reazione alla sconfitta – però anche come parte concorrente a questa – da un lato la cultura marxista è sottoposta ad un processo di ‘revisione’ che la subordina alla cultura delle classi vittoriose; dall’altro si assiste ad un rinserramento nella ortodossia (in senso deteriore) che finisce anch’esso con la subordinazione della cultura marxista, seppure in forme distinte: “Quando non si ha l’iniziativa nella lotta e la lotta stessa finisce quindi con l’identificarsi con una serie di sconfitte, il determinismo meccanico diventa una forza formidabile di resistenza morale, di coesione, di perseveranza paziente e ostinata. ‘Io sono sconfitto momentaneamente, ma la forza delle cose lavora per me a lungo andare ecc.’ La volontà reale si traveste in un atto di fede, in una certa razionalità della storia, in una forma empirica e primitiva di finalismo appassionato che appare come un sostituto della predestinazione, della provvidenza, ecc., delle religioni confessionali.” (Q, 1388)

 

Nei paesi socialisti le classi subalterne vincono sul terreno politico ed economico, ma la rivoluzione culturale avviata da Lenin rimane a mezza strada. Bucharin volgarizza la cultura marxista (e forma i quadri); nella lotta per l’egemonia i vincitori politici vengono vinti. Gramsci coglie tutta la gravità del fenomeno: “Quando il ‘subalterno’ diventa dirigente e responsabile dell’attività economica di massa, il meccanicismo appare a un certo punto un pericolo imminente.” (Q, 1388) Mancata l’egemonia, fallito l’assorbimento della vecchia cultura dominante, con lo stalinismo il terreno della battaglia culturale è occupato con le armi, dell’economia e della politica. Sopravvive il socialismo, tronco di una autonoma cultura.

 

Attualizzazione. Gramsci ha scritto negli anni Trenta. Ha attribuito la sconfitta politica che lo ha portato in carcere -contrariamente alla stragrande maggioranza dei marxisti e dei comunisti del suo tempo, che la concepivano come risultato di una errata applicazione della teoria negli orientamenti e nelle strategie politiche - ad una grave insufficienza culturale e intellettuale che riguardava il movimento operaio e socialista in tutto il mondo. Di conseguenza prevedeva la sconfitta storica di tutto il movimento, non solo nei paesi capitalistici ma anche nei paesi dove il comunismo si era imposto controllando il potere statale.

 

Nel suo tempo nessuno poteva credere a questa previsione gramsciana, dal momento che l’URSS era diventata una potenza economica, politica e militare, e il movimento comunista in Occidente cresceva sotto l’influsso del trionfo sovietico e della convinzione che le leggi della storia agissero a suo favore.

 

La seconda guerra mondiale ha consentito poi all’URSS vincitrice di mantenere e accrescere il suo potere internazionale estendendolo nella costituzione dei paesi satelliti europei e con l’instaurazione di nuovi poteri socialisti in Asia. Apparentemente dunque la previsione di Gramsci non si compiva. In realtà la sconfitta del marxismo e del movimento comunista era stata soltanto spostata nel tempo, essendo stato ‘risolto’ il problema della grave insufficienza culturale e intellettuale attraverso il dominio burocratico, politico e militare.

 

Quando noi negli anni Settanta abbiamo scritto di crisi del marxismo e del comunismo, facendo la medesima previsione della sua sconfitta storica, gli intellettuali e i politici marxisti e comunisti, ci hanno riso dietro. Per poco tempo. Negli anni Ottanta il ‘socialismo reale’ è crollato e il marxismo è stato abbandonato in massa dagli intellettuali e dai politici in Occidente. 

 

Se, come annota Gramsci, “i rapporti sono il contenuto e l’ideologia la forma”, si può dire che la sociologia-tendenza deteriore del marxismo si subordina ed in quale modo questa subordinazione si affermi. A partire dal precedentemente individuato modo di intendere la storia della filosofia della praxis – il carattere della sua autonomia, il modo della sua compiutezza, le forme del suo deterioramento – Gramsci, nella sociologia-tendenza deteriore del marxismo individua una subordinazione teorica ad una filosofia pre-marxista, al ‘materialismo filosofico’, di cui essa è un “frammento subordinato”.

 

Scrive Gramsci: “Nel Saggio popolare non è neanche giustificata coerentemente la premessa implicita nell’esposizione ed esplicitamente accennata in qualche posto, casualmente, che la vera filosofia è il materialismo filosofico e che la filosofia della praxis è una pura ‘sociologia’. Cosa significa realmente questa affermazione? Se essa fosse vera la teoria della filosofia della praxis sarebbe il materialismo filosofico. Ma in tal caso cosa significa che la filosofia della praxis è una sociologia? [...] Così non è giustificato il nesso tra il titolo generale Teoria del materialismo storico e il sottotitolo Saggio popolare di sociologia marxista. Il sottotitolo sarebbe il titolo più esatto se al termine ‘sociologia’ si desse un significato molto circoscritto.” (Q, 1431-2)

 

Intendere precisamente il significato di queste affermazioni e di queste domande non è semplice: in esse è inscritto un problema ben definito ed è implicita una risposta ad esso. Il problema è quello dei rapporti dati tra le sociologie e le filosofie; la risposta, esplicitata più avanti nel testo, è fissata sinteticamente là dove si dice che “ogni sociologia presuppone una filosofia, una concezione del mondo, di cui è un frammento subordinato”. (Q, 1432) Occorre leggere questa ‘formula’ non come una proposizione normativa, che stabilisca al livello ideologico dei principi un rapporto necessario, bensì come una proposizione di carattere scientifico, volta alla identificazione ed alla critica di un rapporto di fatto, e cioè il mancato raggiungimento da parte delle sociologie esistenti di un loro proprio statuto scientifico, e cioè di una reale rottura tale da renderle autonome dalle filosofie speculative. Queste ultime continuano ancora a detenere il terreno e gli elementi costitutivi della teoria sociale. Le discipline sociologiche sono perciò costituite da un miscuglio (combinazione che non risolve la reciproca esteriorità degli elementi) di frammenti di ‘teorie sociali’ deduttivamente ricavate dalle filosofie, e di fatti particolari costituenti il materiale empirico che, conformato secondo categorie e ‘leggi’ dedotte dalla teoria generale, dia a queste (teoria, categorie e ‘leggi’) la parvenza di fondarsi sulla realtà.

 

Mentre in realtà queste discipline sono strutturate in subordine ad una logica deduttiva, esse si vantano di condurre una battaglia decisiva contro la speculazione filosofica. In effetti però l’aggancio che stabiliscono con i fatti storico-sociali, il passo che le avvicina all’ ‘oggetto’ non si compie come rottura della logica speculativa-deduttiva, ma come riproposizione di questa su un terreno diverso. Torneremo più avanti su ciò, al momento dell’esame della critica gramsciana delle sociologie non-marxiste.

 

Questi elementi ci permettono comunque di raccogliere il significato di quelle affermazioni e domande gramsciane che abbiamo prima riportato. In esse Gramsci osserva che Bucharin distingue nel marxismo due livelli, il filosofico e il sociologico. Il livello filosofico è costituito dal ‘materialismo filosofico’ che sarebbe dunque la ‘filosofia marxista’ o ‘vera filosofia’; il livello sociologico è costituito dal ‘materialismo storico’ che sarebbe dunque la ‘sociologia marxista’, una “pura sociologia”. Nota Gramsci che, nel Saggio, questa distinzione è una “premessa implicita dell’esposizione ed esplicitamente accennata in qualche posto, casualmente”. Nel testo buchariniano sono difatti contenute, fra altre, affermazioni come queste, nelle quali è facile cogliere sia la distinzione del marxismo in due livelli, sia il rapporto deduttivo che il secondo (sociologico) lega al primo (filosofico): “Anche nelle scienze sociali, dunque, l’unico punto di vista giusto è quello materialista. Marx ed Engels hanno applicato in maniera coerente la concezione materialista alle scienze sociali. [...] Va da sé che Marx ha avuto dei predecessori soprattutto fra i socialisti utopisti (Saint-Simon). Ma soltanto Marx ha studiato a fondo la concezione materialista nel solo modo capace di produrre la vera sociologia scientifica.” {N. I. Bucharin, Teoria del materialismo storico, op. cit., pp. 61-2.} E ancora al paragrafo 6, La teoria del materialismo storico come sociologia marxista: “La classe operaia ha una propria sociologia, conosciuta sotto il nome di materialismo storico, i cui principi sono stati enunciati da Marx e da Engels. Viene chiamata anche concezione materialistica della storia, o, più semplicemente, ‘materialismo economico’ .” {Ivi, p. 13.}

 

Ma, Gramsci si domanda: “Cosa significa realmente questa affermazione?”, e cioè cosa effettivamente comporta considerare il materialismo storico come la sociologia marxista e che essa si costituisca nella applicazione del materialismo filosofico? E risponde: “Se essa fosse vera la teoria della filosofia della praxis sarebbe il materialismo filosofico.” Il materialismo storico, in quanto sociologia, non avrebbe dunque in se stesso gli elementi teorici costitutivi, che dovrebbe ricevere dalla filosofia. Insiste Gramsci: “Ma in tal caso cosa significa che la filosofia della praxis è una sociologia?” Significa appunto che si è così costituito il tipico rapporto che lega le sociologie alle filosofie, caratterizzato dalla subordinazione delle prime alle seconde e dalla applicazione delle seconde nelle prime. “Così non è giustificato il nesso tra il titolo generale Teoria del materialismo storico e il sottotitolo Saggio popolare di sociologia marxista. Il sottotitolo sarebbe il titolo più esatto”. Cioè Gramsci nega che il Saggio di Bucharin abbia un carattere teorico; gli riconosce invece un carattere ‘sociologico’: l’essere un frammento subordinato alla cultura tradizionale. Una espressione della tendenza deteriore del marxismo che ci fornisce la possibilità di individuarla nei suoi segni essenziali.

 

Si badi: Gramsci in più punti dei Quaderni ha svolto una critica del ‘materialismo filosofico’, mostrandone il carattere pre-marxista. Ha criticato anche l’espressione ‘materialismo storico’ in quanto in essa si è prevalentemente messo l’accento sul primo termine (“di origine metafisica”), e forse anche perché la stessa struttura lessicale dell’espressione sembra riassumere in formula la composizione tra il materialismo filosofico e l’analisi storica, cioè l’applicazione della filosofia materialista nella scienza della storia.

 

Tuttavia non bisogna immaginare che Gramsci critichi la sociologia marxista in quanto dipendente da una filosofia pre-marxista, lasciando aperta la possibilità di costruire una vera sociologia da una vera filosofia. Da tutto ciò che abbiamo preso in esame risulta invece chiaro che egli critica tutte le sociologie costruite sulla base di qualsiasi filosofia pre-costituita; Gramsci infatti pensa ad un rapporto radicalmente inverso e pone la possibilità della teoria (‘filosofia’) nella teorizzazione dei concetti che permettono di sancire il carattere scientifico, o meno, di una ‘disciplina’. In ciò sta la chiave di lettura delle proposizioni omesse nella nostra citazione, al centro della citata sequenza di affermazioni e domande. Riportiamole adesso: “E cosa sarebbe questa sociologia? Una scienza della politica e della storiografia? Oppure una raccolta sistematica e classificata secondo un certo ordine di osservazioni puramente empiriche di arte politica e di canoni esterni di ricerca storica? Le risposte a queste domande non si hanno nel libro, eppure esse solo sarebbero una teoria.” (Q, 1431-2) Su questo però ci soffermeremo più avanti.

 

Capitolo 3. La sociologia come ‘scienza sociale’ e come alternativa al marxismo.

 

La critica gramsciana di quelle sociologie che, da Comte a Michels, si propongono comescienza della società, diverse ed opposte al marxismo, si allaccia alla critica della sociologia-tendenza deteriore del marxismo. Difatti, seguitando la lettura del testo, osserviamo che Gramsci passa dalla critica di questa alla critica di quelle. “Infatti si presenta la quistione di che cosa è la ‘sociologia’. Non è essa un tentativo di una cosidetta scienza esatta (cioè positivista) dei fatti sociali, cioè della politica e della storia? cioè un embrione di filosofia? La sociologia non ha cercato di fare qualcosa di simile alla filosofia della praxis?” (Q, 1432)

 

Dalla constatazione che il lavoro buchariniano non raggiunge il livello teorico in quanto non dà risposte a domande teoriche, e della mancata giustificazione teorica del nesso tra il titolo (Teoria) e il sottotitolo (sociologia), Gramsci passa ad esaminare direttamente il concetto di ‘sociologia’, non già nel significato attribuitogli da Bucharin nell’espressione “sociologia marxista”, bensì nel “significato molto circoscritto” che il concetto mostra come proprio dalle origini e nella tradizione disciplinare. In questo modo Gramsci, mentre da una parte innesta il saggio di Bucharin nella tradizione sociologica, dall’altra passa alla specifica questione di che cosa è la sociologia, vale a dire della analisi critica della sociologia in quanto scienza sociale e come alternativa al marxismo.

 

La specificità della sociologia è precisamente individuata da Gramsci nel tentativo “di fare qualcosa di simile alla filosofia della praxis”. In una determinata fase dello sviluppo capitalistico, nella storia della cultura si manifesta un bisogno di conoscenze sui processi sociali dal quale originano due filoni di ricerca in competizione: da un lato “un tentativo di una cosidetta scienza esatta (cioè positivista) dei fatti sociali”, dall’altro il tentativo di una scienza materialistica della storia. E proprio perché cercano ‘di fare qualcosa di simile’, di organizzare risposte ai medesimi problemi reali – il che è molto diverso dall’accomunarle come scienze della società, cioè scienze dello stesso oggetto, come vedremo più avanti – la sociologia e il marxismo si manifestano in un rapporto di competizione che li rende fra di loro alternativi.

 

Il punto nodale della critica gramsciana dell’insieme delle sociologie sta nella individuazione del fatto che esse non si costituiscono come teorie. Il libro di Bucharin era riconosciuto da Gramsci come testo di sociologia proprio per il fatto di non fornire risposte teoriche. Cosa sarebbe allora la sociologia? “La sociologia è stata un tentativo di creare un metodo della scienza storico-politica [...]. La sociologia è quindi diventata un tentativo di descrivere e classificare schematicamente fatti storici e politici [...]. La sociologia è dunque un tentativo di ricavare ‘sperimentalmente’ le leggi di evoluzione della società umana.” (Q, 1432)

 

Abbiamo qui tre elementi di identificazione i quali, se formalmente organizzati, adotterebbero la forma di una definizione: la sociologia è un metodo che permette di descrivere e classificare i fatti sociali in modo tale da poterne ricavare le leggi della società. Gramsci però non è alla ricerca di una definizione che dia l’essenza della sociologia. Il “che cosa è la sociologia” in Gramsci è invece l’avvio di una ricognizione storica di un filone della storia della cultura; ciò si manifesta nella precisa progressione dei tempi dei verbi delle tre proposizioni (‘è stata... è quindi diventata... è dunque’).

 

In questa critica il punto di partenza fissato da Gramsci non è dato dai risultatiraggiunti sui quali dare una valutazione pragmatica, bensì dagli obiettivi costituenti la “particolare ‘logica’ interna delle diverse sociologie”, cioè dai propositi (‘tentativi’) che queste esplicitamente si danno nel loro proprio specifico attrezzarsi di fronte ai processi sociali emergenti.

 

Primo proposito, determinante di una prima fase della storia della sociologia, è quello della creazione di un metodo della scienza storico-politica. La sociologia si costituisce storicamente, originariamente, nella costruzione di una metodologia che acconsenta di dare scientificità alla conoscenza della realtà sociale. La costruzione di una ‘teoria sociale’ si presenta come elaborazione ulteriore, dipendente dall’esercizio del metodo. Questo processo costitutivo della sociologie segna il mancato distacco di queste dalle filosofie poiché, mentre il progetto consisteva precisamente nella sostituzione delle ‘filosofie sociali’ da parte delle ‘scienze sociali’, l’elaborazione di un metodo privo di propri supporti teorici conduceva all’assunzione – al posto della teoria mancante – di “un sistema filosofico già elaborato, il positivismo evoluzionistico”.

 

Dal momento che la sociologia non si costituisce originariamente come ricerca di unateoria, bensì come ricerca di una metodologia, ricerca guidata (nell’assenza di una propria teoria-guida) da due contrastanti fattori – i ‘principi’ della filosofia positivista ed il ‘modello’ delle scienze naturali -, ne risulta la mancanza di autonomia, cioè la duplice dipendenza: tanto dai ‘principi’ che dal ‘modello’. (Allo stesso modo in cui, in quanto dipendente e subordinata al ‘materialismo filosofico’, Gramsci aveva criticato la ‘sociologia-tendenza deteriore del marxismo’.)

 

La critica della dipendenza dai due fattori (principi e modello) è diversamente articolata. Il mancato distacco da un sistema filosofico già elaborato, speculativo (speculativo perché già elaborato: per Gramsci, come per Marx ed Engels, una filosofia non-speculativa è possibile soltanto a partire dai risultati della scienza; per Gramsci, più precisamente, si costituisce nella teorizzazione dei concetti della scienza.), la dipendenza da una filosofia è di per sé una negazione del processo costituente una scienza, che non può adottare la via deduttiva a partire da una filosofia poiché per ciò diventa anch’essa (la ‘scienza’, o meglio la metodologia ‘scientifica’) speculativa. In altri termini: nel processo di formazione della sociologia il rapporto scienza-filosofia è stato invertito, e questo evidenzia le carenze strutturali tanto della sociologia come scienza che del positivismo evoluzionistico come filosofia. Contemporaneamente però il rapporto di dipendenza della metodologia sociologica dal modello delle scienze naturali determina quella specifica tensione nei rapporti tra la sociologia e il positivismo evoluzionistico dalla quale origina una certa reazione parziale della sociologia nei confronti della filosofia.

 

Secondo proposito, determinante di una seconda fase della storia della sociologia, diviene quello di conoscere empiricamente i fatti storici e politici. La sociologia si sviluppa storicamente nella classificazione dei ‘fatti sociali’, nella cumulazione di dati i quali, nella loro organizzazione secondo schemi, forniscano una ‘immagine del mondo’, una certa ricostruzione dei meccanismi e del funzionamento della ‘società’.

 

In tal modo la reazione della sociologia contro la filosofia si pone come reazione empirista; in ciò la sua insufficienza e parzialità. Difatti l’intento di sostituire la filosofia sociale per mezzo di una descrizione e classificazione empirica dei fatti sociali non interrompe il rapporto di dipendenza nei confronti della filosofia positivista: il ricorso ai dati è già nella logica di questa; la reazione non recide la dipendenza in quanto non si sviluppa come – e nella – critica teorica del ‘sistema filosofico già elaborato’. Critica teorica che non può fare in quanto, non avendo raggiunto il livello della teoria, è priva degli strumenti necessari allo scopo. La reazione non si costituisce come critica, bensì limitatamente come rifiuto, negazione non-critica. “Si condanna in blocco il passato quando non si riesce a differenziarsene, o almeno le differenziazioni sono di carattere secondario e si esauriscono quindi nell’entusiasmo declamatorio.” (Q, 341)

 

In conseguenza della mancata critica teorica, lo stacco dalla filosofia consiste in una operazione tale da proporre la sociologia come sostituto della filosofia, nel medesimo modo in cui un sistema filosofico succede ad un altro. Lo stacco in realtà è appena sufficiente per fare della sociologia “una tendenza a sé, [...] una filosofia dei non filosofi” (Q, 1432). Tendenza a sé: una tensione verso l’autonomia propria di una scienza empirica e sperimentale; la sociologia adotta la forma di questa nella costruzione dei propri criteri secondo il ‘modello delle scienze naturali’, restando però al contempo priva di uno statuto teorico scientifico. Con ciò “è diventata la filosofia dei non filosofi”, espressione con la quale Gramsci sembra indicare in questa sociologia una razionalizzazione del senso comune. Allorché la sociologia utilizza schematicamente nell’analisi dei dati i criteri di descrizione e classificazione presi dalle scienze naturali, oltre al rimanere sotto, non attingere, le esigenze di interpretazione e spiegazione del movimento reale dei processi (cioè di quella ‘logica specifica dell’oggetto specifico’ che sta sotto le cose e dietro la rete ideologica), riduce i fatti storici e politici a ‘fatti sociali’, letti come ‘cose’.

 

Terzo proposito, determinante di una terza fase della storia della sociologia, è quello della costruzione, a partire da una classificazione e schematizzazione dei dati e come risultato di una analisi tendente a individuare i rapporti di causalità, di un sistema di leggi che permetta la previsione dell’avvenire. Questa ulteriore elaborazione dei dati si pone come tentativo di costituire una teoria sociologica.

 

In tale modo il processo di strutturazione della sociologia come ‘scienza sociale’ compie la premessa formulata nella sua prima fase, chiudendo il circolo che dalla metodologia scende ai dati e da questi sale alla teoria. Il compimento del circolo è tuttavia apparente poiché il suo percorso non si è svolto nell’autonomia di un discorso scientifico specifico, ma piuttosto subendo in ogni momento del proprio sviluppo l’attrazione dei due fattori esterni di cui abbiamo detto. Cosicché, sprovvisto di un proprio centro, il percorso non ha formato un ‘circolo’: più adeguatamente si può rappresentare come configurazione di un’ellisse, i due fuochi della quale sarebbero dati appunto dai ‘principi filosofici’ e dal ‘modello delle scienze naturali’.

 

L’emergenza della teoria sociologica segna in effetti un allontanamento ulteriore rispetto alla filosofia sociale e simultaneamente un avvicinamento alla logica delle scienze. Ma cosa significa costruire una teoria sulla base di dati intesi come presupposti ad essa? E cosa sarebbero questi dati antecedenti la teoria? Sono forse essi frammenti di realtà immediata? E cosa potrà essere un metodo indipendente sia dai dati specifici che dalla teoria, specifica anch’essa, ai quali il metodo si è proposto di corrispondere? Non implica ciò il richiamo ad un metodo generale e universale e indeterminato? Quali differenze sostanziali persisterebbero tra tale metodo ed una logica filosofica speculativa?

 

Queste domande – e le risposte critiche che contengono – sono decisive per il fatto che la ricognizione storica dello sviluppo della sociologia fatta da Gramsci è insieme una analisi della “particolare logica interna delle diverse sociologie”. Nei fatti, in ognuna delle fasi precedentemente delineate c’è una articolazione dei tre elementi (metodo, dati, teoria), essendo ogni fase distinguibile col criterio della dominanza successiva del primo, del secondo, del terzo elemento. È nell’analisi dell’ultima delle fasi, quella della ‘maturità’ della sociologia, che la logica interna di questa può essere colta, poiché soltanto in essa gli elementi precedentemente formatisi si articolano in una struttura relativamente stabile. Siamo alla critica di questa logica.

 

La critica fondamentale da fare al processo e alla logica di costituzione della sociologia è radicata nel fatto che l’articolazione tra il metodo, i dati e la teoria è esteriore, in quanto ogni elemento si forma in un diverso rapporto di subordinazione ai ‘due fattori esterni’. In effetti Gramsci, dopo la distinzione storico-critica delle fasi, svolgendo le conseguenze specificamente teoriche della critica della sociologia, così prosegue: “In ogni caso ogni sociologia presuppone una filosofia, una concezione del mondo, di cui è un frammento subordinato. Né bisogna confondere con la teoria generale, cioè con la filosofia, la particolare ‘logica’ interna delle diverse sociologie, logica per cui esse acquistano una meccanica coerenza.” (Q, 1432)

 

La subordinazione di ogni sociologia ad una filosofia è anche di ordine logico (oltre che storico-culturale): mentre una vera rottura con la tradizione filosofica speculativa comporta rapporti concreti esplicitamente critici, la sociologia si mantiene a quella logicamente subordinata nella forma di una contrapposizione astratta i cui contenuti specifici non sono criticamente esplicitati. Della tradizione filosofica la sociologia conserva certi contenuti (per esempio, i concetti ‘società’, ‘individuo’, ‘dato empirico’, ecc.), nega la preesistente organizzazione di questi, rifiutandosi con ciò di adottare la forma di una ‘concezione del mondo’. Ricompone tali concetti articolando ‘teorie’ circoscritte a fenomeni e processi particolari, ponendo così se stessa (la sociologia) come un’insieme di frammenti di conoscenza, cioè non elementi costituenti una nuova scienza, bensì ‘frammento subordinato’ d’una filosofia. La sociologia non è una critica delle ideologie e per questo non è una critica della società della quale le ideologie costituiscono l’organizzazione, il cemento.

 

Fare la critica dell’organizzazione sociale equivale a criticarne la logica specifica. Mentre la filosofia della praxis si costituisce nella critica del sistema di conoscenze organico al sistema sociale – passando dalla critica della filosofia alla critica dell’economia politica, ed arrivando ora alla critica della sociologia - la sociologia invece s’illude di attingere direttamente la ‘realtà’ sociale e magari di rappresentarne una critica. Per arrivare a questo essa precisamente tenta la costruzione di una metodologia secondo il modello delle scienze naturali; così come le scienze naturali pervengono, attraverso il loro metodo, alla conoscenza della realtà naturale, si suppone che attraverso una omologa metodologia sia possibile conseguire la conoscenza della realtà sociale. Qual è la base di questa convinzione se non quella distinzione propria della tradizione filosofica che individua fianco a fianco, nella ‘realtà’ senza aggettivi, l’ordine naturale e l’ordine sociale? Così l’oggetto della sociologia sono i fatti ed i fenomeni particolari dell’ordine sociale, intesi come ‘cose’ o ‘rapporti tra cose’, e la sociologia stessa viene incorporata ad un sistema delle scienze – occupando un luogo particolare nella gerarchia del sistema – corrispondente alla collocazione del mondo sociale nell’immagine della realtà fornita dall’evoluzionismo positivista.

 

Risultato della elaborazione di una scienza sociale secondo il modello delle scienze naturali è l’organizzazione della sociologia come tecnica; infatti per la logica interna delle scienze naturali e del loro metodo l’applicazione della conoscenza scientifica – a questa connessa come tendenza strutturale – è di carattere tecnologico. L’efficacia della sociologia – assunta come criterio e garanzia di ‘oggettività scientifica’ – è l’efficaciaoperazionale tipica di ogni tecnica. Essa si manifesta nel carattere ‘sperimentale’ che tende ad acquisire la sociologia in quanto tecnica dell’adattamento e del controllo sociale: a differenza della filosofia, che cerca di produrre direttamente il consenso sociale attraverso la proposizione di una concezione del mondo organica ai rapporti sociali dati, la sociologia individua i meccanismi attraverso i quali il consenso si produce e si riproduce, tramite l’osservazione di singoli fenomeni, processi e gruppi sociali. Chiunque possieda il ‘metodo’ sociologico è in condizione di fornire conoscenze, ‘oggettive’ perché ‘oggettivo’ è il metodo, che si pongono come ‘verificabili’ in quanto costruite sui ‘dati’.

 

La proposizione di un metodo comporta implicitamente la scelta di un oggetto, alla conoscenza del quale il metodo serva. Questo significa che l’oggetto non è costruito dalla propria scienza, e neanche dall’impiego del metodo, ma di questo e di quella costituisce un presupposto. Ma allora esso può essere ottenuto per due vie: per scorporamento di insiemi di concetti dalla tradizione filosofica o da un determinato sistema filosofico, oppure per assunzione di insiemi di fenomeni empirici pre-organizzati dall’esperienza scientifica precedente. In entrambi i casi l’operazione consiste nella recinzione di un terreno proprio, di un ambito di realtà, differenziandosi soltanto il criterio col quale il taglio è condotto. L’oggetto così stabilito è esteriore alla scienza, e in questa esteriorità la sociologia fonda la propria ‘oggettività’.

 

La ‘società’, i ‘fatti sociali’, diventano così realtà esterne; esterne a ciò che dovrebbe costituirne la scienza, al soggetto di questa scienza (lo scienziato), all’esperienza scientifica (l’ ‘attività pratico-critica’), alla teoria stessa.

 

La sociologia concepisce la realtà (e quindi la realtà sociale) allo stesso modo del senso comune: per criticare la concezione soggettivistica essa accoglie la concezione della realtà oggettiva “nella sua forma più triviale e acritica, senza neanche sospettare che a questa può essere mossa l’obbiezione di misticismo”(Q, 1415). Allorquando la sociologia afferma che la realtà (sociale) è oggettiva in quanto esterna, non svolge in effetti una ricognizione teorica di ciò che esiste, bensì organizza ideologicamente e soggettivamente (‘misticamente’) un’esperienza.

 

Costruendosi un oggetto separato, produce realmente la separazione tra le condizioni(storicamente determinate) e le iniziative; nel linguaggio sociologico, tra la ‘società’ e l’ ‘individuo’, categorie che appunto all’interno della sociologia servono a formalizzare tale separazione, una operazione di oggettivazione della ‘società’ e di soggettivazione dell’ ‘individuo’. In un processo di duplice polarizzazione è organizzato concettualmente sotto il nome di ‘società’ ciò che è ridotto a fatto oggettivo (‘cose’ o ‘rapporti tra cose’), e sotto il nome di ‘individuo’ ciò che, sfuggendo ad ogni controllo, è ridotto a soggetto. In tal modo la sociologia, piuttosto che produrre una esperienza scientifica (una ‘scienza sociale’) produce una esperienza politica (una ‘politica sociale’), è essa stessa una politica.

 

Sulla funzione politica della sociologia.


Da e su questo oggetto la sociologia tenta dunque di elaborare una teoria che di esso colga i meccanismi di funzionamento (cioè i meccanismi di integrazione) e i meccanismi di sviluppo (cioè le tendenze evolutive). Dal momento che l’oggetto dell’analisi sociologica include soltanto ‘fattori oggettivi’ (le condizioni) ed esclude l’iniziativa, la teoria su di esso costruita assume la medesima struttura delle teorie che si riferiscono ai processi della natura. Questo procedimento di riduzione dei processi storici a processi naturali fa della sociologia, come scrive Gramsci, “un tentativo di ricavare ‘sperimentalmente’ le leggi di evoluzione della società umana in modo da ‘prevedere’ l’avvenire con la stessa certezza con cui si prevede che da una ghianda si svilupperà una quercia”(Q, 1432). In tal modo la teoria sociologica costruisce leggi e modelli ‘esplicativi’ dell’integrazione e del mutamento sociale in modo da escludere dal proprio campo visivo l’intervento pratico-critico dei soggetti attivi, vale a dire le ‘iniziative’.

 

L’operazione teorica di esclusione delle iniziative dal proprio oggetto è funzionale all’operazione pratica di esclusione della attività politica stessa. Rimane della politica soltanto il sistema di direzione col quale i gruppi dirigenti organizzano la subordinazione, consensuale o coercitiva, dei diretti. Di ciò la sociologia diviene la teoria e la tecnica. In quanto tale ‘teoria’ e ‘tecnica’ della politica, la sociologia si presenta come “una raccolta sistematica e classificata secondo un certo ordine di osservazioni puramente empiriche di arte politica”. (Q, 1431-2)

 

Gramsci approfondisce questo aspetto della sociologia in un riferimento a Henri De Man: “Il libro di Henri De Man, se ha un valore, lo ha appunto in questo senso: che incita a ‘informarsi’ particolarmente dei sentimenti reali e non di quelli supposti secondo leggi sociologiche, dei gruppi e degli individui. Ma il De Man non ha fatto nessuna scoperta nuova né ha trovato un principio originale che possa superare la filosofia della praxis o dimostrarla scientificamente errata o sterile: ha elevato a principio scientifico un criterio empirico di arte politica già noto ed applicato sebbene forse insufficientemente definito e sviluppato. Il De Man non ha neanche saputo limitare esattamente il suo criterio, perché ha finito col creare una nuova legge statistica e inconsapevolmente, con altro nome, un nuovo metodo di matematica sociale e di classificazione esterna, una nuova sociologia astratta.”(Q, 1430-1)

 

Intanto vediamo che il De Man è considerato da Gramsci come un rappresentante di questo aspetto della sociologia come scienza sociale alternativa al marxismo, e questo brano contiene gli elementi generali della critica di esso. Questa sociologia prende come oggetto l’arte politica in quanto attività dei gruppi dirigenti, dei capi; soltanto ad essa è attribuito e riconosciuto il carattere di ‘realtà’, cosicché essa diventa oggetto proprio della scienza della società. Alla massa popolare, ai diretti vengono attribuiti e riconosciuti soltanto sentimenti soggettivi, incapaci di costituirsi come ‘realtà sociale’, in quanto per sé stessi impotenti, sterili e passivi. L’arte politica dei gruppi dirigenti e dei capi consiste proprio nella oggettivazione, in un piano subordinato, di tali sentimenti. È soltanto per la mediazione dell’attività politica dei gruppi dirigenti e dei capi che i diretti, il popolo diventa reale: i suoi stati d’animo vengono rappresentati, mostrandosi come reali non in se stessi ma nell’attività di coloro che li rappresentano. L’arte politica è l’arte di questa rappresentazione. Rappresentazione che non è un prodotto (“una scoperta nuova”) della sociologia, ma che già aveva prodotto nel proprio esercizio criteri empirici, sebbene insufficientemente definiti e sviluppati. Tale criteri erano noti (ai) ed applicati dai gruppi dirigenti e dai “capi individuali (o carismatici, come dice il Michels) [...] per intuizione”(Q, 1430).

 

L’arte politica consiste dunque nel “processo di standardizzazione dei sentimenti popolari”, standardizzazione che rende possibile l’esercizio della rappresentanza dei molti da parte dei pochi, nella misura in cui riduce una primitiva molteplicità di sentimenti spontanei ad una uniformità elaborata (standard), “che il capo traduce in idee-forza, in parole-forza”(Q, 1430). La sociologia si inserisce in questo processo introducendo in esso nuovi elementi di razionalità.

 

Da una parte dunque la sociologia “incita a informarsi particolarmente dei sentimenti reali e non di quelli supposti secondo leggi sociologiche, dei gruppi e degli individui”. La sociologia introduce così un primo elemento specifico di razionalità nell’arte politica: l’informazione empirica. Essa tende a sostituire la supposizione del reale, sia nella forma dell’intuizione (dei politici) che nella forma della deduzione (in base a principi e leggi generali). Dall’altra parte la sociologia eleva a principi scientifici quei criteri empirici di arte politica già noti ed applicati, cioè li generalizza, ne estrae le uniformità ricorrenti, li classifica e sistematizza. In tal modo la sociologia introduce la statistica nella politica, la quale acquista la razionalità esteriore che le dà l’uso strumentale di un nuovo metodo, “un nuovo metodo di matematica sociale, di classificazione esterna, una nuova sociologia astratta”.

 

La sociologia non corrode né investe i rapporti tra i dirigenti e i diretti, bensì tende a stabilizzarli ed a istituzionalizzarli provvedendo i gruppi dirigenti di una nuova tecnica di induzione del consenso. Fa questo anche se suo proposito, più o meno consapevole, era ed è quello di sostituire la politica (ed i politici) per mezzo di una ingegneria sociale totalizzante.

 

Dal complesso dell’analisi storico-logica fin qui svolta della sociologia come scienza sociale e come alternativa al marxismo risulta una più precisa intelligenza del problema, da Gramsci accennato laddove individua la ‘logica’ interna della sociologia: il problema della separazione delle tre parti costitutive della sociologia. Il metodo, i dati, la teoria, costituitisi nella reciproca esteriorità, hanno configurato una tendenza allo sviluppo autonomo dei campi inerenti ad ognuna delle parti. Si tratta di una tendenza alla dispersione che induce una vera e propria istituzionalizzazione disciplinare, che distingue e delimita nella sociologia i corpi separati della ‘metodologia della ricerca sociale’, della ‘banca dei dati’, della ‘teoria sociologica’.

 

Dalla critica storico-logica emerge che tale tendenza non risulta dalle necessità di divisione tecnica del lavoro scientifico, né è un prodotto della traduzione della scienza secondo le esigenze dell’accademia, bensì è una tendenza costitutiva, strutturale della sociologia. Anche da ciò dipende la difficile cumulabilità dei risultati della sociologia, ove non sia intesa come cumulabilità puramente esteriore. Difatti il dramma di una ‘scienza sociale’ che tenta (ostenta e stenta) di svilupparsi secondo il modello delle scienze naturali è quello di non svolgersi storicamente al modo di una scienza. Mentre le scienze naturali si sviluppano in una cumulazione di risultati che costituisce un terreno ogni volta più ricco ed avanzato sul quale poggia lo sviluppo qualitativo della scienza stessa, la sociologia invece procede secondo il modello di sviluppo proprio delle filosofie, che è caratterizzato da una successione di concezioni e sistemi che si affiancano l’uno all’altro in un rapporto che conduce ad una cumulazione esteriore. Una esposizione di storia della sociologia non somiglia più ad una esposizione di storia della filosofia che ad una di storia della fisica o della biologia?

 

Circa un anno dopo la seconda stesura di questi paragrafi sul Saggio popolare e la sociologia, Gramsci in un nuovo contesto problematico - incentrato nella riflessione sulla politica e sulla sua scienza - riprende il discorso sulla sociologia. Il paragrafo s’intitola Machiavelli. Sociologia e scienza politica, titolo seguìto da “vedere i paragrafi sulSaggio popolare” (Q, 1765). Essa da un lato conferma gli indirizzi della critica della sociologia fin qui sviluppata, dall’altro introduce alcuni elementi nuovi che dobbiamo considerare.

 

Il paragrafo così inizia: “La fortuna della sociologia è in relazione con la decadenza del concetto di scienza politica e di arte politica verificatisi nel secolo XIX (con più esattezza nella seconda metà, con la fortuna delle dottrine evoluzionistiche e positivistiche). Ciò che di realmente importante è nella sociologia non è altro che scienza politica. ‘Politica’ divenne sinonimo di politica parlamentare o di cricche personali. Persuasione che con le costituzioni e i parlamenti si fosse iniziata una epoca di ‘evoluzione’ ‘naturale’, che la società avesse trovato i suoi fondamenti definitivi perché razionali, ecc. ecc. Ecco che la società può essere studiata col metodo delle scienze naturali.”

 

Intanto si vede che il problema della sociologia è ripreso da Gramsci in termini di storia della cultura e viene storicizzato esso stesso. Egli specificamente coglie le ragioni dell’emergenza ed insieme del successo della sociologia nella crisi delle attività politiche tradizionali che matura fin dagli inizi del XIX secolo e che scoppia nella sua seconda metà. Una crisi di rappresentanza per la quale i dirigenti hanno perso l’egemonia ed i diretti ne contestano l’autorità. Una crisi di un determinato tipo di organizzazione statale, di un modo di fare politica e di garantire e legittimare i rapporti di dominazione e subordinazione di classe, complessivamente fondati e cementati con l’ideologia del razionalismo illuminista che aveva prodotto le costituzioni, i parlamenti elettivi e l’idea di uno Stato che esprime e realizza indifferenziatamente gli interessi e le aspirazioni del ‘cittadino’.

 

Precisamente le ‘dottrine evoluzionistiche e positivistiche’ rappresentavano una critica dell’ideologia illuministica ed un tentativo di superamento di tale crisi. Il progetto di una scienza della società si basa sulla convinzione che questa ‘avesse trovato i suoi fondamenti definitivi perché razionali’. La sociologia eredita dalla teoria politica precedente la persuasione che con le costituzioni e i parlamenti si fosse iniziata una epoca di ‘evoluzione naturale’, persuasione ideologica tradottasi nella possibilità di fare della società un ‘oggetto’ che può essere intelletto con l’ ‘oggettività’ del metodo positivo. La crisi del complesso delle attività pratiche e teoriche che organizzano la vita sociale induce la sostituzione delle precedenti ideologie e teorie politiche con la sociologia, il cui proposito essenziale è quello di restaurare, ricostituire, rifondare l’ordine politico-sociale.

 

Proseguiamo la lettura del testo gramsciano. “Se scienza politica significa scienza dello Stato e Stato è tutto il complesso di attività pratiche e teoriche con cui la classe dirigente giustifica e mantiene il suo dominio non solo ma riesce a ottenere il consenso attivo dei governati, è evidente che tutte le quistioni essenziali della sociologia non sono altro che le quistioni della scienza politica. Se c’è un residuo, questo non può essere che di falsi problemi cioè di problemi oziosi.” (Q, 1765)

 

La sociologia – ribadisce Gramsci – si forma come erede delle teorie politiche (operanti nel XVIII ed agli inizi del XIX secolo), in quanto il suo problema fondamentale è costituito dal complesso delle attività dirigenti (di governo), delle attività di conservazione del potere e di produzione ed organizzazione del consenso. La sociologia è perciò la scienza dello Stato, cioè la scienza della politica propria della (nuova) epoca politica nella quale la ricomposizione dell’equilibrio tra la società politica e la società civile nello Stato contemporaneo richiede la passività delle masse.

 

La precedente epoca politica – che appunto entrava in crisi di rappresentanza -, sorta con la costituzione rivoluzionaria degli Stati moderni, aveva richiesto invece il concorso attivo delle plebi e dei cittadini, mobilitati ed organizzati dall’alto attraverso un’arte ed una scienza politica capaci di produrre lo specifico livello di consenso politico necessario. Se l’epoca politica che si chiudeva si fondava su una politicizzazione diffusa, dall’alto indotta e contenuta entro certi limiti, l’epoca politica che si apriva necessitava di una generale smobilitazione (depoliticizzazione) che ‘atomizzasse’ le masse e orientasse gli ‘individui’ (in ‘individui’ infatti si erano trasformati i ‘cittadini’) verso le attività ‘private’, economiche e civili. Questa nuova epoca richiedeva l’esercizio di una arte politica assegnata ad appositi funzionari (la ‘politica come professione’, la ‘burocrazia dello Stato’, la ‘classe politica’) e di una scienza politica - la sociologia - elaborata da nuovi intellettuali i quali, sebbene funzionali a tale struttura statale, erano separati dalla politica e dal suo esercizio (la ‘scienza come professione’, la ‘tecnocrazia’, l’‘intellighentsia’).

 

(Vedi Nota teorica V)


Di seguito Gramsci individua il modo in cui questa nuova problematica politica si presenta nell’interna struttura (nella ‘logica’) della sociologia. La individua nel criticarla: “Se è vero che l’uomo non può essere concepito se non come uomo storicamente determinato, cioè che si è sviluppato e vive in certe condizioni, in un determinato complesso sociale o insieme di rapporti sociali, si può concepire la sociologia come studio solo di queste condizioni e delle leggi che ne regolano lo sviluppo? Poiché non si può prescindere dalla volontà e dall’iniziativa degli uomini stessi, questo concetto non può non essere falso.”(Q, 1765-6)

 

Essendo lo Stato e la politica il vero soggetto della sociologia, avviene però che l’oggetto proprio di tale scienza è concettualizzato e formalizzato sotto il nome generico di ‘società’ in modo tale che lo specificamente politico, la volontà e l’iniziativa degli uomini stessi, l’intervento consapevole ed attivo, sia escluso ed occultato da esso. Quando la ‘società’ è intesa come l’insieme delle ‘condizioni e delle leggi che ne regolano lo sviluppo’, la società umana è ridotta a società naturale, società di cose e di rapporti tra cose e non società di uomini e di rapporti tra uomini.

 

Qual è il rapporto tra tale modo di elaborare il proprio oggetto da parte della sociologia e il bisogno politico di organizzare quella specifica passività che la nuova struttura statale richiede? Nel paragrafo intitolato Problemi di cultura. Feticismo, Gramsci dà gli elementi per una risposta. Questa operazione di distacco della ‘società’ dall’ ‘individuo’, per la quale la società è oggettivata come totalità esteriore e trascendente i singoli individui, oggetto svuotato dei soggetti (‘condizioni oggettive’ vuote di ‘iniziative soggettive’), è da Gramsci denominata appunto “feticismo”: “Come si può descrivere il feticismo. Un organismo collettivo è costituito di singoli individui, i quali formano l’organismo in quanto si sono dati e accettano attivamente una gerarchia e una direzione determinata. Se ognuno dei singoli componenti pensa l’organismo collettivo come un’entità estranea a se stessa, è evidente che questo organismo non esiste più di fatto, ma diventa un fantasma dell’intelletto, un feticcio. […] Si è portati a pensare i rapporti tra il singolo e l’organismo come un dualismo, e ad un atteggiamento critico esteriore del singolo verso l’organismo (se l’atteggiamento non è di una ammirazione entusiastica acritica). In ogni caso un rapporto feticistico.” (Q, 1769-70)

 

Tale rapporto feticistico Gramsci lo individua in tre tipi di organizzazioni umane: le organizzazioni religiose (la Chiesa), le organizzazioni politiche (il partito), le organizzazioni generali (lo Stato, la nazione).

 

Per la Chiesa: questo rapporto “è naturale che avvenga […] poiché, almeno in Italia, il lavorio secolare del centro vaticano per annientare ogni traccia di democrazia interna e di intervento dei fedeli nell’attività religiosa è pienamente riuscito ed è divenuto una seconda natura del fedele”; rapporto fondato teoricamente dalla teoria della “trascendenza cattolica”.

 

Per il partito: “Ciò che fa meraviglia, e che è caratteristico, è che il feticismo di questa specie si riproduca per organismi ‘volontari’, di tipo non ‘pubblico’ o statale, come i partiti e i sindacati. […] Il singolo si aspetta che l’organismo faccia, anche se egli non opera e non riflette che appunto, essendo il suo atteggiamento molto diffuso, l’organismo è necessariamente inoperante”. (Q, 1770)

 

Gramsci rileva che tale rapporto feticistico ha un significato distinto nelle organizzazioni religiose e nelle organizzazioni politiche. Per le prime tale rapporto appare ‘naturale’ in quanto la Chiesa (cattolica specialmente) storicamente ha svolto funzioni ed elaborato ideologie tese a sacralizzare la separazione tra dirigenti e diretti, gerarchia e fedeli. Come dice Gramsci “l’intervento dal basso disgregherebbe infatti la Chiesa (si vede ciò nelle chiese protestantiche)” (Q, 1771). Producendo in questo modo una ‘seconda natura’ negli uomini, trasformando gli uomini in ‘fedeli’, le Chiese fanno politica: organizzano solitamente un consenso passivo e indiretto e la protesta impotente. Per i partiti la riproduzione di questo rapporto “fa meraviglia”, in quanto sembra contraddire le funzioni storiche e le ideologie sulle quali si fondano. I partiti, organismi volontari, cioè organismi che fanno collettiva la volontà dei singoli, che rendono coerente, omogenea, potente l’iniziativa dei soggetti, in contraddizione a ciò diventano – sotto certe condizioni – organizzazioni anch’esse caratterizzate da questo rapporto feticistico. Gramsci individua nella “molto diffusa concezione deterministica e meccanica della storia (concezione che è del senso comune ed è legata alla passività delle grandi masse popolari)” il fondamento teorico della feticizzazione del partito: “ogni singolo, vedendo che, nonostante il suo non intervento, qualcosa tuttavia avviene, è portato a pensare che appunto al disopra dei singoli esiste una entità fantasmagorica, l’astrazione dell’organismo collettivo, una specie di divinità autonoma, che non pensa con nessuna testa concreta ma tuttavia pensa, che non si muove con determinate gambe di uomini, ma tuttavia si muove, ecc.” (Q, 1770) In questo modo il partito, che in se stesso costituisce una critica dell’economicismo, lo prolunga all’interno della vita politica dandogli forma politica.

 

Per lo Stato, Gramsci aveva già esaminato il problema del feticismo nel precedente paragrafo Machiavelli. Sociologia e scienza della politica, e di ciò abbiamo già scritto. Vi è in questo paragrafo uno sviluppo ulteriore della critica della sociologia. Al nuovo Stato, sorto dalla crisi di rappresentanza del vecchio Stato liberal-democratico, è funzionale la sociologia. Essa si pone come scienza politica, scienza di questo Stato in quanto fonda ‘teoricamente’ la società come oggetto vuoto di soggetti concreti. Mentre lo Stato in realtà è un complesso di attività teoriche e pratiche, di attività concrete degli uomini concreti e delle classi, dei partiti, delle istituzioni che li organizzano, esso appare agli individui come un feticcio: realtà oggettiva, esteriore e naturale che rappresenta la società umana come società naturale.

 

Allo stesso modo in cui lo Stato (i governanti) produce la passività degli individui (i governati), la sociologia (gli intellettuali funzionali a questo Stato), produce il proprio oggetto, la ‘società’. Tutta la sociologia, anche quella sociologia che svolge una certa critica della società e che razionalizza ed organizza la protesta, non perciò smettendo di stabilire la separazione. La ‘sociologia critica’ non può essere una critica della sociologia e dello Stato poiché si svolge comunque nel terreno della scissione. Una volta stabiliti “i rapporti tra i singoli e l’organismo come un dualismo”, l’atteggiamento dei singoli può essere tanto “di una ammirazione entusiastica acritica” che “un atteggiamento critico esteriore del singolo verso l’organismo”: “in ogni caso un rapporto feticistico”. La sociologia secolarizza nello Stato contemporaneo ciò che la religione “nei vecchi regimi paternalistici” aveva sacralizzato. In effetti la sociologia, come la religione, è politica.

 

Lo è, in primo luogo, come abbiamo già visto, in quanto si presenta come scienza politica; ma si tratta precisamente di vedere in qual modo essa sia ‘scienza’, per cogliere il suo modo d’essere ‘politica’. Gramsci conclude il paragrafo nei seguenti termini: “Il problema di che cosa è la ‘scienza’ stessa è da porre. La scienza non è essa stessa ‘attività politica’ e pensiero politico, in quanto trasforma gli uomini, li rende diversi da quelli che erano prima? Se tutto è ‘politico’ occorre, per non cadere in un frasario tautologico e noioso, distinguere con concetti nuovi la politica che corrisponde a quella scienza che tradizionalmente si chiama ‘filosofia’, dalla politica che si chiama scienza politica in senso stretto. Se la scienza è ‘scoperta’ di realtà ignorata prima, questa realtà non viene concepita come trascendente in un certo senso? E non si pensa che esiste ancora qualcosa di ‘ignoto’ e quindi trascendente?” (Q, 1766)

 

E’ qui affrontato il problema della critica della scienza, della data pratica scientifica, a partire dalla critica dell’ideologia che informa tale pratica. La scienza è concepita da Gramsci non riduttivamente come conoscenza ma come pratica, cioè intervento umano che trasforma la realtà e gli uomini. In questo senso ogni scienza è “attività politica e pensiero politico”, cioè creazione di realtà nuove. Il che non significa la semplice ripetizione che tutto è politica, e perciò anche la scienza; essa è ‘politica’ in un duplice senso: in quanto pensiero politico determinato, interpretazione del mondo, ed in quanto attività politica determinata, trasformazione del mondo. Questi sono i concetti vecchi per distinguere la politica propria della ‘filosofia’ dalla politica propria della ‘scienza politica’. Tale distinzione non si dissolve in una tautologia a condizione che sia realizzata in modo nuovo, con concetti nuovi. Mentre i vecchi concetti distinguevano tra ‘interpretazione’ e ‘trasformazione’ del mondo, la distinzione gramsciana individua due modi di interpretare e insieme trasformare, due politiche.

 

Una è “la politica che corrisponde a quella scienza che tradizionalmente si chiama ‘filosofia’ ”, la quale consiste nell’organizzare, attraverso la fissazione di fini e principi generali, valori e norme di comportamento; fornendo un determinato senso alla vita al quale si connette una determinata etica, essa orienta gli uomini secondo un progetto storico-politico. L’altra è “la politica che si chiama scienza politica in senso stretto”, vale a dire la sociologia, la quale consiste anch’essa nel tentativo di orientare gli uomini secondo un progetto storico-politico. Lo fa però in un modo parzialmente diverso poiché, sebbene comune rimanga l’intento generale di organizzare la subordinazione dei diretti, mutate sono le condizioni storiche: la produzione di massa richiede la standardizzazione degli uomini e crea le masse, l’uomo-massa; il controllo e la direzione delle masse richiede un modo di volere, pensare ed operare di massa, una politica di massa che crei il consenso passivo. A questo scopo la ‘scienza della società’ non ridiscute quei fini e principi generali, quei valori e norme di comportamento fissati dalle filosofie (perciò ogni sociologia presuppone una filosofia alla quale si subordina), ma elabora ‘teorie’ che razionalizzano il senso comune, ‘metodi’ e tecniche d’accertamento e di controllo sociale, ‘dati’ che riducono le differenze e i cambiamenti a quantità operazionali (riducendo la qualità a quantità, elaborando la realtà sociale quantitativamente e operazionalizzandola statisticamente, organizza la realtà stessa secondo modelli operazionali e li controlla praticamente).

 

Questi due modi di fare ‘scienza’ implicano un concetto della conoscenza come “scoperta di realtà ignorata prima” e, ponendo così la realtà come trascendente ed esteriore ai soggetti, riducono questi alla passività politica. A tali ‘scienze’ Gramsci contrappone l’esigenza di una “scienza della storia e della politica”; egli prospetta un nuovo concetto di scienza, una nuova pratica scientifica e una nuova politica tese a costruire l’unificazione della teoria e della pratica, della scienza e del suo ‘oggetto’, delle condizioni e dell’iniziativa. Intesa la scienza come “creazione”, come intervento che organizza e dà forma, che fa diventare soggettiva la realtà, essa trasforma gli uomini in soggetti politici attivi. Su questa nuova scienza e sul come essa produca una nuova politica, ed al contempo sul come condizione della sua elaborazione sia l’attivazione politica delle moltitudini, svolgeremo più avanti l’analisi.

 

Capitolo 4. Critica delle leggi storiche, economiche e statistiche.


Dall’insieme delle analisi sulla sociologia come tendenza del marxismo e sulla sociologia come scienza sociale risulta l’unitarietà di fondo della critica a queste, in quanto sono basate su una simile filosofia della storia ed una comune cultura politica. Queste sociologie presuppongono entrambe una certa concezione del mondo, l’una il materialismo filosofico, l’altra il positivismo evoluzionistico; tuttavia l’eterogeneità che implicitamente sembra derivare dalla dualità filosofica non è determinante, dal momento che il materialismo filosofico ed il positivismo evoluzionistico coincidono nel concepire lo sviluppo storico come processo naturale soggetto a leggi fisse e nell’interpretare le vicende storiche sulla base del modello dei rapporti causa-effetto.

 

L’interpretazione ‘legalitaria’ della storia umana deriva precisamente dall’uso di un modello esplicativo (ricavato dalle scienze naturali) che pone in relazione i ‘fenomeni’ sociali secondo le categorie di causalità: determinati fenomeni causano altri fenomeni; rapporto che è inteso sostanzialmente in maniera simile sia quando è definito come rapporto tra ‘determinante’ e ‘determinato’ che come rapporto tra ‘variabile indipendente’ e ‘variabile dipendente’. Ed è perciò che la critica gramsciana delle sociologie si incentra sul problema delle ‘leggi della storia’.

 

Queste ‘leggi’ assumono forme distinte nella sociologia come tendenza del marxismo, ove si presentano come leggi generali della storia (per esempio ‘legge di corrispondenza tra forze produttive e rapporti di produzione’) e come leggi particolari di singoli modi di produzione (per esempio ‘legge di concentrazione del capitale’), e nella sociologia come scienza sociale, ove si presentano come leggi generali dell’evoluzione (per esempio ‘legge del più forte’) e come leggi statistiche specifiche (per esempio ‘legge di correlazione tra l’urbanizzazione e la scolarità’). La critica gramsciana di questi due modi d’intendere le leggi della storia si svolge unitariamente: l’asse del problema è lo stesso concetto di ‘leggi’ in quanto applicato alla realtà storico-politica, e l’uso che di queste leggi è fatto e si può fare nelle analisi concrete dei processi concreti.

 

Dal momento che la funzione primaria delle leggi nelle sociologie è quella di permettere previsioni sul futuro dei processi (assunto come livello di scientificità di una scienza il grado della sua potenza predittiva), la critica di questo concetto di leggi si prolunga nella critica del concetto di previsione scientifica. Essa svela i legami concreti stabilitisi fra una concezione della storia ed una concezione della scienza in una intera fase della storia della cultura, mostrando come un modo di fare scienza produce una concezione del mondo (una filosofia della storia) e come quest’ultima si ripercuote nella forma di questa scienza, ed ancora come entrambe hanno i propri fondamenti storici nella specificità della prassi umana di una determinata epoca politica. Questo il programma dell’analisi che segue.

 

Si parte dalla critica di una concezione della scienza storico-sociale. Riprendiamo la lettura dei paragrafi critici della sociologia: “La sociologia è dunque un tentativo di ricavare ‘sperimentalmente’ le leggi di evoluzione della società umana in modo da ‘prevedere’ l’avvenire con la stessa certezza con cui si prevede che da una ghianda si svilupperà una quercia. L’evoluzionismo volgare è alla base della sociologia che non può conoscere il principio dialettico col passaggio della quantità alla qualità, passaggio che turba ogni evoluzione e ogni legge di uniformità intesa in senso volgarmente evoluzionistico.” (Q, 1432)

 

È qui posto in evidenza come la ricerca sperimentale di leggi sociologiche è il risultato di una concezione naturalistica della storia. Questa concezione della storia esclude ogni novità che risulti da interventi umani-soggettivi: così come la quercia è implicita nella ghianda, è il suo sviluppo, l’avvenire è implicito nel passato e nel presente, è la proiezione delle ‘condizioni’ determinanti. Quantunque la storia non sia intesa come costante ripetizione dello stesso, ed un certo ordine di novità sia così riconosciuto, essa è rappresentata come un processo di sviluppo, cioè accrescimento, espansione, svolgimento, insieme dei processi attraverso i quali un organismo acquista la sua forma matura.

 

Questo concetto di sviluppo che fonda lo svolgimento storico come processo regolato dalle condizioni oggettive nega il “passaggio della quantità alla qualità, passaggio che turba ogni evoluzione e ogni legge di uniformità”. Soffermiamoci su questo ‘passaggio’. Solitamente la critica all’evoluzionismo ed alla legalità sociologica si è risolta nella contrapposizione di un’altra ‘legge di evoluzione’ e di un’altra ‘legalità’: alla concezione del mutamento graduale (riformistico) della società viene opposta la concezione del mutamento secondo rotture repentine (rivoluzionarie); però anche in quest’ultima concezione il mutamento sociale è concepito secondo il canone di una legge obiettiva, la legge appunto del passaggio dalle trasformazioni quantitative alle trasformazioni qualitative, secondo la quale naturalmente dall’accumulo delle piccole e parziali trasformazioni ad un dato momento avviene la metamorfosi del tutto. Gramsci non a caso non solo evita di parlare di ‘legge’ dialettica (del passaggio dalla quantità alla qualità), ma esplicitamente sostiene che questo ‘passaggio’ “turba ogni legge”. Gramsci nega con ciò non i rapporti dialettici ma la loro assunzione come legge della storia, come ad esempio allorché si sostiene che il capitalismo è la ghianda del socialismo, cioè che lo sviluppo del capitalismo, il graduale accumulo delle sue proprie contraddizioni, sfocia necessariamente nel socialismo.


Sulla concezione delle leggi sociologiche e statistiche.


Il problema del passaggio e delle leggi Gramsci l’aveva già affrontato nel paragrafo precedente dove, dopo aver riconosciuto una certa utilità pratica a certi tipi di leggi, osserva che: “Ma non è stato messo in rilievo che la legge statistica può essere impiegata nella scienza e nell’arte politica solo fino a quando le grandi masse della popolazione rimangono essenzialmente passive – per rispetto alle quistioni che interessano lo storico e il politico – o si suppone rimangano passive [...]. Infatti nella politica l’assunzione della legge statistica come legge essenziale, fatalmente operante, non è solo errore scientifico ma diventa errore pratico in atto; essa inoltre favorisce la pigrizia mentale e la superficialità programmatica. È da osservare che l’azione politica tende appunto a far uscire le moltitudini dalla passività, cioè a distruggere la legge dei grandi numeri; come allora questa può essere ritenuta una legge sociologica? Se si riflette bene la stessa rivendicazione di una economia secondo un piano, o diretta, è destinata a spezzare la legge statistica meccanicamente intesa, cioè prodotta dall’accozzo casuale di infiniti atti arbitrari individuali, sebbene dovrà basarsi sulla statistica, il che però non significa lo stesso: in realtà la consapevolezza umana si sostituisce alla ‘spontaneità’ naturalistica. Un altro elemento che nell’arte politica porta allo sconvolgimento dei vecchi schemi naturalistici è il sostituirsi, nella funzione direttiva, di organismi collettivi (i partiti) ai singoli individui, ai capi individuali (o carismatici, come dice il Michels).” (Q, 1429-30)

 

È da rilevare intanto che, sebbene Gramsci in questo brano considera esplicitamente le leggi statistiche della sociologia, il discorso coinvolge tutte le leggi sociologiche, così come risulta dal medesimo contenuto delle argomentazioni e da un trittico di paragrafi (Libertà e ‘automatismo’, Regolarità e necessità, Previsione e prospettiva) incentrati sul problema.

 

Per Gramsci la storia è storia umana, è la praxis degli uomini, non è data naturalmente ma è costruita soggettivamente, ove per soggettivo è da intendersi l’intervento attivo più meno consapevole. Punto di riferimento sono le Tesi su Feuerbach (di Marx), da Gramsci ritradotte in carcere. La prima, specialmente, che si apre criticamente così: “Il vizio fondamentale di ogni materialismo, fino ad oggi, - compreso quello di Feuerbach – è che l’oggetto, il reale, il sensibile è concepito solo sotto la forma dell’oggetto o della intuizione; ma non come attività sensibile umana, praxis, non soggettivamente.” (Q, 2355) Anche l’ottava: “La vita sociale è essenzialmente pratica. Tutti i misteri, che sviano la teoria verso il misticismo, trovano il loro scioglimento razionale nella praxis umana, e nel concetto di questa praxis”. E la nona, laddove il “materialismo contemplativo” è definito e criticato in quanto “materialismo che non concepisce il reale come attività pratica”. (Q, 2357)

 

Se la storia è praxis, per intelligerla concretamente occorre però distinguere in essa con concetti nuovi le diverse strutture (articolazioni) di questa praxis. È ciò che fa Gramsci. Egli distingue tra la situazione pratica in cui “le grandi masse della popolazione rimangono essenzialmente passive” e la situazione pratica in cui “l’azione politica tende appunto a far uscire le moltitudini dalla passività”. Nel primo tipo di situazione praticala storia appare come “prodotta dall’accozzo casuale di infiniti atti arbitrari individuali”, nel secondo tipo di situazione pratica “in realtà la consapevolezza umana si sostituisce alla ‘spontaneità’ naturalistica”. Fenomeni – propri della storia contemporanea – caratteristici di questo secondo tipo di situazione pratica sono “il sostituirsi, nella funzione direttiva, di organismi collettivi (i partiti) ai singoli individui, ai capi individuali”, “l’estendersi dei partiti di massa e il loro aderire organicamente alla vita più intima (economico-produttiva) della massa stessa”, la “rivendicazione di una economia secondo un piano, o diretta”.

 

Ora, come è sorto il concetto di regolarità e di leggi nello sviluppo storico? Le ‘leggi della storia’ sono sorte come generalizzazioni astratte dal primo tipo di situazione pratica. I singoli individui interagiscono sul piano degli interessi privati, in modo tale da non risultarne nessuna coerente attività politica. Le masse si organizzano ed agiscono ad un livello pre-politico (religioso, economico-corporativo, consumistico, ludico, psicologico). Gli atti concreti degli individui e delle masse, nella situazione pratica che così definiscono, sembrano non costituire storia, non produrre nessuna concreta attività storica. Il loro svolgersi acquista la forma della casualità, il loro ripetersi quella della regolarità e della necessità. La generalizzazione astratta di questa esperienza pratica e l’assunzione acritica della stessa ideologia che la conforma, raffinata teoricamente, conduce alla proposizione di leggi che descrivono e presuntivamente spiegano e guidano lo sviluppo storico.

 

Dal momento che i risultati storici (i fatti storici) non sono quelli consapevolmente voluti e perseguiti nella praxis di ogni singolo individuo e della massa stessa, la storia appare non come il prodotto della praxis umana concreta bensì come il prodotto di forze naturali (quando non siano intese addirittura come forze extrastoriche), che agiscono secondo una propria logica (che determina i singoli fatti storici in quanto facenti parte di un sistema di relazioni predeterminate, le cui parti stanno ‘giuridicamente’ connesse) secondo la quale, date certe relazioni, se ne può prevedere lo sviluppo.

 

Sulla concezione delle leggi storiche in Engels.

 

Le due lettere di Engels che Gramsci ricorda in questo stesso paragrafo trattano il medesimo problema. Engels nella prima così scrive: “la storia si forma in modo tale che il risultato finale scaturisce sempre dai conflitti di molte volontà singole, ognuna delle quali a sua volta viene prodotta da una quantità di speciali condizioni della vita; ci sono dunque innumerevoli forze che s’incrociano, un gruppo infinito di parallelogrammi delle forze, da cui esce una risultante – l’avvenimento storico – che a sua volta può nuovamente essere considerato come il prodotto di una potenza agente, come un tutto, incoscientemente e involontariamente. Però quel che ogni singolo vuole, viene impedito da ogni altro, e quel che ne risulta è una qualche cosa che nessuno ha voluto. In questo modo la storia scorre fino ad ora al modo d’un processo naturale, e in sostanza è anche esposta alle stesse leggi di moto. Ma, per il fatto che le singole volontà – ognuna delle quali vuole quello a cui la spingono la sua costituzione fisica o circostanze esteriori ed in ultima istanza economiche (o sue proprie personali o generali della società) - non raggiungono ciò che vogliono, ma si fondono in una media generale, in una risultante comune, per questo fatto non si può ancora concludere che esse siano uguali a zero. Al contrario, ognuna contribuisce a produrre la risultante ed è in essa compresa.” {Marx – Engels – Lassalle, Opere, cit., p. 5.}

 

E nella seconda lettera Engels scrive: “Gli uomini fanno essi stessi la loro storia, ma finora non con una volontà generale e secondo un piano generale, neppure in una data società limitata. Le loro aspirazioni si contrariano; ed in ogni simile società prevale appunto per questo la necessità, di cui l’accidentalità è il complemento e la forma di manifestazione. La necessità, che si impone attraverso ogni accidentalità, è alla fin fine la necessità economica.” {Ivi, p. 8.}

 

Dal confronto tra queste proposizioni engelsiane e il paragrafo gramsciano in cui sono richiamate risulta evidente che Gramsci a queste due lettere si riferiva non soltanto per identificare in esse gli inizi dell’autocritica del pensiero marxista di fronte alla sua tendenza deteriore, ma insieme per identificare altresì in esse sia certi presupposti teorici della scienza della storia e della politica, sia la persistenza nel vecchio Engels del ‘feticcio’, di una concezione legalitaria della storia.

 

I presupposti sono da individuare in quelle proposizioni engelsiane che rappresentano i processi storici come prodotti della pratica umana concreta. Questo ‘presupposto’ risale all’Ideologia tedesca: “I presupposti da cui muoviamo non sono arbitrari, non sono dogmi: sono presupposti reali, dai quali si può astrarre solo nell’immaginazione. Essi sono gli individui reali, la loro azione e le loro condizioni materiali di vita, tanto quelle che essi hanno trovato già esistenti quanto quelle prodotte dalla loro stessa azione.” {K. Marx – F. Engels,L’Ideologia Tedesca, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 8.}

 

Solitamente il ‘presupposto’ si presenta in compagnia del ‘principio’ (fondamentale del materialismo storico) della determinazione della sovrastruttura da parte della struttura. Il ‘presupposto’ ed il ‘principio’ sono affermati insieme, anzi sono presentati come complementari: reciprocamente l’uno viene tirato in ballo di fronte alle accuse a cui l’altro è sottoposto ed alle insufficienze di ciascuno nel dare ragione sufficiente di specifici processi. Tale coesistenza è presente nelle proposizioni engelsiane citate. Le due lettere engelsiane rispondono in effetti alle domande di due studenti che chiedono “fino a qual punto le condizioni economiche influiscono causalmente”, e “come sia stato inteso da Marx ed Engels stesso il principio fondamentale del materialismo storico” riguardante la determinazione economica. Per rispondere a tali domande anche Engels espone l’uno di fianco all’altro il ‘presupposto’ ed il ‘principio’ ma, non limitandosi a questo, tenta un passo ulteriore: spiegare il rapporto tra i due individuando il passaggio teorico dall’uno all’altro.

 

Il ‘principio’, lo svolgimento della storia secondo leggi, è presentato come la conclusione di un sillogismo in cui le premesse sono: la prima, che “noi stessi facciamo la nostra storia”, la quale risulta “sempre dai conflitti di molte volontà singole”; la seconda, che però “quel che ogni singolo vuole, viene impedito da ogni altro, e quel che ne risulta è una qualche cosa che nessuno ha voluto”. Questo nella prima lettera. Nella seconda il ragionamento si ripete: (prima premessa) “Gli uomini fanno essi stessi la loro storia”; (seconda premessa) “ma finora non con una volontà generale e secondo un piano generale [...]. Le loro aspirazioni si contrariano”; (conclusione) “in ogni simile società prevale appunto per questo la necessità”. Ma qui Engels aggiunge un nuovo elemento, informandoci sul fatto che ciò che è espresso nella conclusione (il ‘principio’) “prevale” e “si impone” sulle premesse nella esplicazione dei processi storici. La “necessità” si impone attraverso ogni “accidentalità”, le ‘leggi della storia’ cioè prevalgono tramite la casuale attività dei singoli. Quest’ultima (il ‘presupposto’) si pone come “la forma di manifestazione” della legalità storica.

 

Questa teorizzazione engelsiana dei rapporti fra il ‘presupposto’ ed il ‘principio’ ottiene dei risultati puramente verbali. Difatti la conclusione logica dalle premesse (presentarsi i fenomeni storici non coincidenti con la volontà e le idee di chiunque) sarebbe da identificare in una storia senza indirizzi prefissati, appunto non-legale. Ciò vuol dire che in effetti il ‘presupposto’ ed il ‘principio’ non possono convivere in pace. (Non è testimonianza palese di questa incompatibilità la polarizzazione persistente e la lotta, nella storia del marxismo, tra storicisti e strutturalisti? Quantunque entrambi gli schieramenti a parole sostengano unitamente il ‘presupposto’ ed il ‘principio’, essi nel far teoria poggiano (sul) e privilegiano l’uno o l’altro.)

 

Engels osserva che gli eventi storici si realizzano attraverso la concreta attività degli uomini, ma queste attività sono il mezzo attraverso cui si esprimono potenze agenti naturali (incoscienti ed involontarie) strutturate secondo proprie leggi. L’interpretazione della storia si ottiene dunque non tramite l’esame delle attività concrete degli uomini concreti, e delle trasformazioni che ne risultano, ma piuttosto nella individuazione della logica immanente che conforma queste attività. Agli uomini concreti non è così riconosciuta la responsabilità di creatori-produttori della storia; la loro attività è ridotta a quella di attori che impersonano una trama. In Engels in tal modo assistiamo ad una trasformazione del ‘presupposto’ al fine di farlo convivere con il ‘principio’, ma proprio tale trasformazione costituisce la sua negazione.

 

Engels, per negare il ‘presupposto’ nella sua forma originale definisce la volontà degli uomini come “prodotta da una quantità di speciali condizioni della vita” e la loro attività come “quello a cui la spingono la sua costituzione fisica o circostanze esteriori ed in ultima istanza economiche (o sue proprie personali o generali della società)”. Per sostenere che la storia è risultato della attività degli uomini ed al contempo prodotto delle proprie leggi, fa ricorso alla osservazione che l’attività degli uomini poggia sulle circostanze esteriori date; così facendo confonde la banale osservazione che ogni ‘iniziativa’ parte da certe ‘condizioni’ con la supposizione che ogni iniziativa non sia che lo sviluppo di ciò che sta implicitamente contenuto nelle condizioni.

 

Il concetto di ‘determinazione’ cristallizza la confusione, in quanto adoperato indistintamente per esprimere teoricamente due diverse questioni: la terrestrità dell’attività degli uomini e la predeterminazione della direzione di sviluppo della storia. Che Engels tenti di risolvere in un medesimo concetto due rapporti eterogenei è da leggersi anche nel fatto che frequentemente accompagna al termine ‘determinazione’ la formula ‘in ultima istanza’, il che comunque non ci dice nulla di concreto sul contenuto di questo concetto, mentre invece lo rende sufficientemente vago, verbalmente comprensivo di rapporti eterogenei.

 

In sintesi è questo il modo in cui Engels fonda la propria concezione legalistica della storia nel primo tipo di situazione pratica, quella caratterizzata dalla passività politica delle masse. Engels fissa la validità della concezione legalitaria soltanto per la storia delle società divise in classi; egli difatti dichiara esplicitamente nella seconda lettera che tale concezione legalitaria è valida “finora”. Ci si può accorgere che la seconda premessa del sillogismo la cui conclusione afferma la ‘necessità’ nella storia esplicitamente delimita una situazione storica definita temporalmente: “finora non con una volontà generale e secondo un piano generale”. Engels rimandava l’impossessamento della storia da parte degli uomini all’avvento della società senza classi, realizzazione secondo un ‘piano generale’ della ‘volontà generale’.

 

Da tutto ciò risulta palese che Gramsci nella costruzione dei due paragrafi critici della sociologia aveva stabilito un preciso rapporto teorico con le due lettere engelsiane sulla concezione materialistica della storia. Ma Gramsci prende in esame i problemi affrontati da Engels non in funzione dell’elaborazione di una concezione generale della storia, bensì in termini di analisi storica concreta. Per Gramsci si trattava di spiegare l’origine storica (teorica e pratica) delle concezioni legalitarie della storia e costruire una scienza della storia e della politica; a questo fine la distinzione fra i ‘due tipi di situazione pratica’ è fondamentale. Agli inizi degli anni Trenta del XX secolo il socialismo non era solo un progetto ma una realtà storica concreta; e Gramsci non interpreta la realtà del suo tempo conformandola secondo le modalità prefissate da una concezione generale della storia. Non spartisce la storia in due fasi, ma identifica attraverso l’analisi della storia recente la realizzazione di nuovi modi dell’attività politica degli uomini, caratterizzati dall’organizzazione collettiva consapevole: le organizzazioni politiche di massa e l’intervento pianificato dello Stato nell’economia. Tali nuove forme dell’attività degli uomini danno luogo ad un nuovo tipo di ‘situazione pratica’.

 

Gramsci pone in relazione le due diverse situazioni pratiche col problema delle leggi nella storia. Se nelle situazioni in cui “le grandi masse della popolazione rimangono essenzialmente passive [...] non si può escludere l’utilità pratica di identificare certe leggi di tendenza”, in quanto esse forniscono una certa immagine del risultato dell’intreccio delle attività degli uomini secondo la loro volontà e i loro piani privati, nelle situazioni in cui “l’azione politica fa uscire le moltitudini dalla passività”, quella residua utilità delle leggi scompare, in quanto l’azione politica collettiva è appunto orientata contro le tendenze in atto. Mentre per Engels l’azione organizzata delle masse è rivoluzionaria nella misura in cui aderisce alle leggi della storia, per Gramsci l’attività politica delle moltitudini è rivoluzionaria nella misura in cui “tende a distruggere la legge dei grandi numeri”, quando cioè l’iniziativa produce il passaggio dal primo al secondo tipo di situazione pratica. Ricapitolando: la concezione legalitaria della storia emerge dall’interno del primo tipo di situazione pratica come una sua generalizzazione astratta.


Sulla concezione delle leggi economiche in Marx.

 

Nello stesso Quaderno 11, alcune pagine più avanti, in un paragrafo intitolato Regolarità e necessità, Gramsci affronta il medesimo problema riferito direttamente a Marx. Il paragrafo inizia con la domanda: “Come è sorto, nel fondatore della filosofia della praxis, il concetto di regolarità e di necessità nello sviluppo storico?” La risposta: “Non pare che possa pensarsi a una derivazione dalle scienze naturali, ma pare invece debba pensarsi a una elaborazione di concetti nati nel terreno dell’economia politica, specialmente nella forma e nella metodologia che la scienza economica ricevette da Davide Ricardo. Concetto e fatto di ‘mercato determinato’, cioè rilevazione scientifica che determinate forze decisive e permanenti sono apparse storicamente, forze il cui operare si presenta con un certo ‘automatismo’ che consente una certa misura di ‘prevedibilità’ e di certezza per il futuro delle iniziative individuali che a tali forze consentono dopo averle intuite e rilevate scientificamente. [...] Dopo aver rilevato queste forze decisive e permanenti e il loro spontaneo automatismo (cioè la loro relativa indipendenza dagli arbitrii individuali e dagli interventi arbitrari governativi) lo scienziato ha, come ipotesi, reso assoluto l’automatismo stesso, ha isolato i fatti meramente economici dalle combinazioni più o meno importanti in cui realmente si presentano, ha stabilito dei rapporti di causa ed effetto, di premessa e conseguenza e così ha dato uno schema astratto di una determinata società economica.” (Q, 1477-8)

 

In questa risposta Gramsci osserva dapprima che la concezione marxiana delle leggi è elaborata non a partire da una concezione generale della storia (cioè nel terreno teorico delle sociologie), ma dall’analisi concreta dell’economia capitalistica (cioè nel terreno teorico dell’economia politica). Per ciò il concetto di regolarità e di necessità nello sviluppo storico in Marx non deriva dal modello delle scienze naturali, ma dalla forma e dalla metodologia che la scienza economica aveva acquisito con Ricardo.

 

Detto questo, Gramsci coglie l’origine dell’elaborazione marxiana delle leggi economiche nella ‘situazione pratica’ caratterizzata dalla formazione di un determinato mercato generale, il mercato capitalistico. Tale ‘mercato determinato’, infatti, si costituisce allorquando si generalizzano sulla scena storica comportamenti economici relativamente automatici. Questo mercato sembra subire una regolazione ‘spontanea’, come se funzionasse sotto lo stimolo di una propria razionalità, di proprie leggi che sono appunto le cosiddette ‘leggi di mercato’. Tale struttura regolare si svolge con “relativa indipendenza dagli arbitrii individuali e dagli interventi arbitrari governativi”, funzionando cioè indipendentemente dall’azione degli uomini. Di fronte a ciò “lo scienziato” spiega l’automatismo del mercato analizzandolo come se fosse regolato da “rapporti di causa ed effetto, di premessa e conseguenza”; considerato il processo economico in quanto combinazione di fatti economici giunge all’esclusione della concreta azione umana e fornisce uno “schema astratto” che pone come “assoluto l’automatismo stesso”, il funzionamento regolare del mercato.

 

Gramsci identifica e spiega il configurarsi di un funzionamento ‘automatico’ del mercato nella comparsa sulla scena storica di determinati gruppi sociali omogenei e relativamente permanenti che svolgono una azione razionale, sono portatori cioè di nuovi comportamenti economici razionali. Questi gruppi regolano il mercato mettendo in opera “iniziative individuali” basate sul calcolo individuale, secondo un omogeneo comportamento di gruppo. Questo comportamento è orientato a garantire al gruppo “certezza per il futuro” attraverso la riproduzione allargata delle condizioni economiche date; è questo che secondo Gramsci “consente una certa misura di ‘prevedibilità’ ”, nella misura in cui appunto le iniziative presenti organizzano un futuro calcolato.

 

Gramsci annota che Marx aveva “rilevato queste forze decisive e permanenti”, ma aveva assegnato il dispiegarsi della loro azione al terreno della produzione, dei rapporti di produzione, considerato determinante; il mercato rimaneva ‘determinato’ appunto dalla produzione, risultando così che la spiegazione del suo funzionamento non richiedeva la considerazione della azione degli uomini in esso. Per Gramsci invece “ ‘mercato determinato’ equivale pertanto a dire ‘determinato rapporto di forze sociali in una determinata struttura dell’apparato di produzione’, rapporto garantito (cioè reso permanente) da una determinata superstruttura politica, morale, giuridica”. (Q, 1477) Di tale complessa definizione ci limitiamo a questo punto a rilevare che il mercato consiste in un rapporto di forze sociali il quale, nella misura in cui si svolge secondo un equilibrio stabile (che è anche politico e culturale), offre una immagine di funzionamento regolare e necessario. (Ogni crisi del mercato è quindi un mutamento dei rapporti di forza; ma di ciò più avanti.)

 

Questa operazione teorico-critica di spiegazione degli automatismi nei processi economici, non come sviluppo di determinate leggi oggettive (immanenti ‘nelle cose’) indipendenti dalla volontà degli uomini, ma come risultato di un processo di standardizzazione e generalizzazione dei comportamenti di gruppi sociali orientati a certi fini, era già stata il soggetto di un paragrafo precedente, intitolato Libertà e ‘automatismo’(Q, 1245-6). In esso Gramsci riconosce all’economia politica, al livello da essa attinto con Ricardo, l’avvenuto superamento della concezione deterministica e naturalistica: “Quando Ricardo diceva ‘poste queste condizioni’ si avranno queste conseguenze in economia, non rendeva ‘deterministica’ l’economia stessa, né la sua concezione era ‘naturalista’. ”

 

Insieme però coglie nel rapporto così fissato tra condizioni e conseguenze l’elaborazione di un nuovo legalismo: “Osservava [Ricardo] che posta l’attività solidale e coordinata di un gruppo sociale, che operi secondo certi principii accolti per convinzione (liberamente) in vista di certi fini, si ha uno sviluppo che si può chiamare automatico e si può assumere come sviluppo di certe leggi riconoscibili e isolabili col metodo delle scienze esatte.”

 

La spiegazione gramsciana degli automatismi non ricorre, invece, ad alcun modello legalitario. “In ogni momento c’è una scelta libera, che avviene secondo certe linee direttrici identiche per una gran massa di individui o volontà singole, in quanto queste sono diventate omogenee in un determinato clima etico-politico. Né è da dire che tutti operano in modo eguale: gli arbitrii individuali sono anzi molteplici, ma la parte omogenea predomina e ‘detta legge’.” Non esistono leggi oggettive, ma soltanto l’azione organizzata di gruppi sociali che dettano norme di comportamento alle masse: si tratta cioè del processo di formazione del dominio e del consenso.

 

Gramsci va ancora oltre, ponendo il problema in termini storici, laddove di seguito scrive: “Che se l’arbitrio si generalizza, non è più arbitrio ma spostamento della base dell’ ‘automatismo’, nuova razionalità.” È così posto il problema della formazione degli automatismi e del passaggio da un automatismo ad uno nuovo. Il ‘sistema dell’economia borghese’ funziona ‘automaticamente’ non in quanto guidato da leggi, e tantomeno per la composizione spontanea degli arbitrii individuali, ma per l’azione delle masse conformate secondo i modelli d’azione prodotti dalle classi dominanti ‘in un determinato clima etico-politico’. La formazione degli automatismi capitalistici di mercato non risulta dal passaggio da un tipo di società umana in cui gli arbitrii individuali siano stati predominanti sulla ‘parte omogenea’ ad un’altro in cui gli arbitrii individuali siano diventati omogenei; si tratta invece del passaggio da un vecchio ad un nuovo automatismo. Storicamente si è verificato il passaggio non dall’arbitrio all’automatismo, ma da un tipo di automatismo ad un altro, prodotti dall’azione di diverse classi dominanti: “spostamento della base dell’ ‘automatismo’, nuova razionalità”. Come Gramsci aveva scritto in apertura di paragrafo: “l’automatismo è una libertà di gruppo, in opposizione all’arbitrio individualistico”.

 

Il paragrafo si conclude con la precisazione delle ragioni che spingono Gramsci a preferire il termine ‘automatismo’ a quello di ‘razionalità’, con la sottolineatura che il rendere autonomo l’automatismo rispetto all’attività pratica degli uomini non è altro che una metafora verbale: “Automatismo è niente altro che razionalità, ma nella parola ‘automatismo’ è il tentativo di dare un concetto spoglio di ogni alone speculativo: è possibile che la parola razionalità finisca coll’attribuirsi all’automatismo nelle operazioni umane, mentre quella ‘automatismo’ tornerà a indicare il movimento delle macchine, che diventano ‘automatiche’ dopo l’intervento dell’uomo e il cui automatismo è solo una metafora verbale, come lo è detto delle operazioni umane.”

 

In qual modo tutto questo riguarda direttamente la concezione legalitaria in Marx? Gramsci ritiene che la critica dei concetti di regolarità e di legge propri dell’economia politica classica è ancora valida riguardo i concetti di regolarità e di legge propri della critica dell’economia politica di Marx.

 

Nel paragrafo Regolarità e necessità Gramsci attribuisce alla critica marxiana un preciso superamento dell’economia politica classica: “La ‘critica’ dell’economia politica parte dal concetto della storicità del ‘mercato determinato’ e del suo ‘automatismo’, mentre gli economisti puri concepiscono questi elementi come ‘eterni’, ‘naturali’; la critica analizza realisticamente i rapporti delle forze che determinano il mercato, ne approfondisce le contraddizioni, valuta le modificabilità connesse all’apparire di nuovi elementi e al loro rafforzarsi e presenta la ‘caducità’ e la ‘sostituibilità’ della scienza criticata; la studia come vita ma anche come morte e trova nel suo intimo gli elementi che la dissolveranno e la supereranno immancabilmente, e presenta l’ ‘erede’ che sarà presuntivo finché non avrà dato prove manifeste di vitalità ecc.” (Q, 1478)

 

Ma Gramsci non considera che ciò sia sufficiente per il superamento definitivo del modello esplicativo basato sulle leggi, elaborato nella scienza economica con Ricardo: “La economia classica ha dato luogo a una ‘critica dell’economia politica’ ma non pare che finora sia possibile una nuova scienza o una nuova impostazione del problema scientifico. [...] Per stabilire l’origine storica di questo elemento [le leggi] della filosofia della praxis (elemento che è poi, nientemeno, il suo particolare modo di concepire l’ ‘immanenza’) occorrerà studiare l’impostazione che delle leggi economiche fu fatta da Davide Ricardo. Si tratta di vedere che il Ricardo non ha avuto importanza nella fondazione della filosofia della praxis solo per il concetto di ‘valore’ in economia, ma ha avuto un’importanza ‘filosofica’, ha suggerito un modo di pensare e di intuire la vita e la storia. Il metodo del ‘posto che’, della premessa che dà una certa conseguenza, pare debba essere identificato come uno dei punti di partenza (degli stimoli intellettuali) delle esperienze filosofiche dei fondatori della filosofia della praxis.” (Q, 1478-9)

 

Gramsci spiega questo elemento di continuità tra Ricardo e Marx con la persistenza di una stessa situazione pratica, dello stesso ‘mercato determinato’, dei medesimi automatismi. La razionalità economica continuava ad essere, nel tempo di Marx, prodotta dagli stessi gruppi sociali dominanti nel tempo di Ricardo: “Date queste condizioni in cui è nata l’economia classica, perché si possa parlare di una nuova ‘scienza’ o di una nuova impostazione della scienza economica (il che è lo stesso) occorrerebbe aver dimostrato che si sono venuti rilevando nuovi rapporti di forze, nuove condizioni, nuove premesse, che cioè si è ‘determinato’ un nuovo mercato con un suo proprio nuovo ‘automatismo’ e fenomenismo che si presenta come qualcosa di ‘obbiettivo’, paragonabile all’automatismo dei fatti naturali. [...] Che nella vita economica moderna l’elemento arbitrario sia individuale, sia di consorzi, sia dello Stato abbia assunto un’importanza che prima non aveva e abbia profondamente turbato l’automatismo tradizionale è fatto che non giustifica di per sé la impostazione di nuovi problemi scientifici, appunto perché questi interventi sono ‘arbitrari’, di misura diversa, imprevedibili. Può giustificare l’affermazione che la vita economica è modificata, che c’è ‘crisi’, ma questo è ovvio; d’altronde non è detto che il vecchio ‘automatismo’ sia sparito, esso si verifica solo su scale più grandi di quelle di prima, per i grandi fenomeni economici, mentre i fatti particolari sono ‘impazziti’.” (Q, 1478-9)

 

Le condizioni di una nuova scienza emergeranno con l‘avvento di un nuovo tipo di situazione pratica, allorquando muta il rapporto di forze costituente il mercato per l’ascesa in campo di individui e gruppi portatori di nuovi comportamenti collettivi. “Da queste considerazioni occorre prendere le mosse per stabilire ciò che significa ‘regolarità’, ‘legge’, ‘automatismo’ nei fatti storici. Non si tratta di ‘scoprire’ una legge metafisica di ‘determinismo’ e neppure di stabilire una legge ‘generale’ di causalità. Si tratta di rilevare come nello svolgimento storico si costituiscono delle forze relativamente ‘permanenti’, che operano con una certa regolarità e automatismo. [...] La ‘necessità’ nel senso ‘speculativo-astratto’ e nel senso ‘storico-concreto’. ” (Q, 1479)

 

In queste affermazioni è sintetizzata la critica gramsciana dei concetti speculativo-astratti di ‘necessità’ e di ‘legge’ in quanto categorie che fissano rapporti di determinazione e di causalità, ed insieme è proposta la spiegazione della regolarità storica in quanto risultato storico concreto dell’azione di forze sociali che impongono determinati comportamenti collettivi costanti all’interno di certe situazioni pratiche del primo tipo.

 

Le ‘leggi della storia’ non sono per Gramsci indipendenti dalla volontà e dalla coscienza degli uomini, non sono cioè ‘leggi oggettive’, bensì pratiche collettive regolari indotte dalle classi dominanti all’insieme degli uomini. La razionalità della storia consiste nel processo attraverso il quale i fini concreti degli aggruppamenti sociali dominanti in ciascuna fase storica conquistano il consenso generale. Gramsci precisa ed esplicita questa dimensione soggettiva (politica) della razionalità della storia: “Esiste necessità quando esiste una premessa efficiente e attiva, la cui consapevolezza negli uomini sia diventata operosa ponendo dei fini concreti alla coscienza collettiva, e costituendo un complesso di convinzioni e di credenze potentemente agente come le ‘credenze popolari’.” (Q, 1479-80)

 

Con questa proposizione si sovverte il senso della concezione kantiana fatta propria da Engels, secondo la quale ‘la libertà è la coscienza della necessità’. Quando la consapevolezza negli uomini della necessità diviene operante si è prodotta nella coscienza e nella azione collettiva una subordinazione ai fini concreti delle classi dominanti. Quando le masse agiscono nella convinzione che la situazione storica non può che dirigersi verso sbocchi necessari, esse non hanno acquisito autonomia (non agiscono liberamente, non agiscono in funzione dei propri fini, non hanno una propria politica), ma restano subordinate.

 

Sulla previsione scientifica.


Queste osservazioni pongono direttamente il problema della ‘previsione scientifica’. Se non ci sono leggi che guidino il processo storico, è possibile, e cosa vuol dire, prevederelo sviluppo storico? Se l’avvenire non è legalmente determinato dal passato e dal presente, in qual modo esso può essere visto prima, previsto? Gramsci, nel paragrafo Il concetto di ‘scienza’, mostra come la critica della comune concezione della previsione scientifica sia un momento indispensabile del superamento della concezione legalitaria della storia, e più generalmente d’ogni concezione finalistica.

 

“È necessario – scrive – impostare esattamente il problema della prevedibilità degli accadimenti storici per essere in grado di criticare esaurientemente la concezione del causalismo meccanico, per svuotarla di ogni prestigio scientifico e ridurla a puro mito che fu forse utile nel passato, in un periodo arretrato di sviluppo di certi gruppi sociali subalterni (vedere una nota precedente).” (Q, 1404) Gramsci si riferisce alla Nota 1 del paragrafo Alcuni punti preliminari di riferimento, iniziale del Quaderno 12: “A proposito della funzione storica svolta dalla concezione fatalistica della filosofia della praxis si potrebbe fare un elogio funebre di essa, rivendicandone la utilità per un certo periodo storico, ma appunto per ciò sostenendo la necessità di seppellirla con tutti gli onori del caso. Si potrebbe veramente paragonare la sua funzione a quella della teoria della grazia e della predestinazione per gli inizi del mondo moderno che poi ha però culminato con la filosofia classica tedesca e con la sua concezione della libertà come coscienza della necessità. Essa è stata un surrogato popolare del grido ‘dio lo vuole’, tuttavia anche su questo piano primitivo ed elementare era un inizio di concezione più moderna e feconda di quella contenuta nel ‘dio lo vuole’ o nella teoria della grazia. [...] Il deperimento del ‘fatalismo’ e del ‘meccanicismo’ indica una grande svolta storica”. (Q, 1394)

 

Se la razionalità della storia sta nel fatto che i gruppi sociali fondamentali organizzano la propria azione verso fini storici concreti ed elaborano e costruiscono i mezzi adeguati al raggiungimento di questi, la previsione dell’avvenire prossimo si può in certo modo realizzare in quel tipo di situazioni pratiche nelle quali le masse rimangono sostanzialmente passive, cioè quando prevale l’automatismo dato dal dominio egemonico delle classi dominanti che ordinano ai propri fini le attività delle classi subordinate. La regolarità dei comportamenti collettivi, individuata con gli strumenti della statistica, può dar luogo - in queste situazioni pratiche – a ‘previsioni’ fondate sullo svolgimento quantitativo delle tendenze presenti. Questa operazione di rappresentazione anticipata del futuro non può includere la rappresentazione delle novità teoricamente possibili, ma solo la continuazione dell’esistente. La previsione in tal senso è una previsione tecnica, una tecnica funzionale alla riproduzione dei rapporti di forza dati, e alla riproduzione della passività delle masse.

 

Ma allora, è possibile prevedere le novità storiche, i mutamenti qualitativi? Cominciamo intanto col rilevare, con Gramsci, che la previsione non è “un atto scientifico di conoscenza. Si conosce ciò che è stato o è, non ciò che sarà, che è un ‘non esistente’ e quindi inconoscibile per definizione”. (Q, 1404) A meno che, appunto, ciò che sarà non sia altro che la riproduzione allargata di ciò che è. In questo senso il futuro prossimo prevedibile è da considerare come presente, in quanto non contiene alcuna novità. Il presente non è da intendersi in termini di istante cronologico, ma come tutta una situazione storica segnata dalla persistenza di determinati comportamenti regolari.

 

Ora, il vero futuro, una situazione cioè inclusiva di novità storiche, non può essere oggetto di conoscenza scientifica, ma solo di progetto politico. “Chi fa la previsione – scrive Gramsci - in realtà ha un ‘programma’ da far trionfare.” (Q, 1810) Ed ancora: “Realmente si ‘prevede’ nella misura in cui si opera, in cui si applica uno sforzo volontario e quindi si contribuisce concretamente a creare il risultato ‘preveduto’.” (Q, 1403) Questo non significa che l’attività predittiva equivalga all’attività politica, ne costituisce soltanto un momento, un momento specificamente teorico. “La previsione si rivela quindi non come un atto scientifico di conoscenza, ma come l’espressione astratta dello sforzo che si fa, il modo pratico di creare una volontà collettiva.” (Q, 1403-4)

 

Come più precisamente intendere questo atto teorico (la previsione) che tuttavia non è conoscitivo? Innanzitutto esso consiste nella proposizione alla coscienza ed alla volontà degli uomini di fini tali da suscitare un complesso di comportamenti collettivi informati ad una diversa razionalità. Consiste cioè nell’elaborazione di un progetto. Questa proposizione di fini e questa elaborazione di progetti non sono atti di conoscenza, ma si basano su atti di conoscenza. Non qualsiasi progetto acquista il carattere di una previsione razionale; si possono produrre (si producono) previsioni arbitrarie, gratuite, utopiche. Condizione necessaria di una previsione razionale è la rigorosa individuazione degli elementi fondamentali e relativamente permanenti del processo storico, cioè delle forze sociali decisive alla sua realizzazione.

 

Per prevedere bisogna prima conoscere, ma non basta: bisogna insieme volere. “Solo chi fortemente vuole identifica gli elementi necessari alla realizzazione della sua volontà. [...] Ciò si vede dalle previsioni fatte dai così detti ‘spassionati’: esse abbondano di oziosità, di minuzie sottili, di eleganze congetturali. Solo l’esistenza nel ‘previsore’ di un programma da realizzare fa sì che egli si attenga all’essenziale, a quegli elementi che essendo ‘organizzabili’, suscettibili di essere diretti o deviati, in realtà sono essi soli prevedibili.” (Q, 1811) L’atto del prevedere in quanto atto teorico non conoscitivo ma più precisamente progettuale, collega l’attività scientifica e l’attività politica, la razionalità teorico-scientifica e la razionalità storico-politica.

 

Queste osservazioni pongono il problema della scienza e della politica e del rapporto tra queste. Problema che affronteremo positivamente più avanti. Esso è stato qui preso in considerazione per il fatto che la critica delle leggi implica la critica del comune concetto di ‘previsione scientifica’. Difatti la credenza nella operosità di leggi ‘oggettive’ (immanenti al processo storico) crea l’illusione che sia possibile anticipare scientificamente il futuro; ma è soprattutto il bisogno di essere certi del proprio futuro, di aver fede nel proprio successo, che spinge a credere che la storia si dispieghi secondo leggi indipendenti dalla propria e dall’altrui volontà.

 

“La posizione del problema come una ricerca di leggi, di linee costanti, regolari, uniformi è legata a una esigenza, concepita in modo un po’ puerile e ingenuo, di risolvere perentoriamente il problema pratico della prevedibilità degli accadimenti storici.” (Q, 1403) In questo modo “Si pensa generalmente che ogni atto di previsione presuppone la determinazione di leggi di regolarità del tipo di quelle delle scienze naturali. Ma siccome queste leggi non esistono nel senso assoluto (o meccanico) che si suppone, non si tiene conto delle altrui volontà e non si ‘prevede’ la loro applicazione. Pertanto si costruisce su una ipotesi arbitraria e non sulla realtà”. (Q, 1811)

 

Questa critica delle leggi storiche, economiche e statistiche ci riporta al problema del rapporto della sociologia con il modello delle scienze naturali. Dal momento che tale modello viene adottato per l’analisi dei fatti umani (storico-politici), a questi vengono attribuite le caratteristiche dei fenomeni ‘materiali’, delle cose, cioè regolarità costanti in un sistema di rapporti necessari. “Poiché pare, per uno strano capovolgimento delle prospettive, che le scienze naturali diano la capacità di prevedere l’evoluzione dei processi naturali, la metodologia storica è stata concepita ‘scientifica’ solo se e in quanto abilita astrattamente a ‘prevedere’ l’avvenire della società.” (Q, 1403)

 

(Vedi Nota teorica VI)


Attualizzazione. Questa elaborazione critica delle scienze sociali (impostata come critica delle sociologie e del marxismo) e in particolare la critica dell’idea che i processi storici, economici e politici si svolgono secondo leggi e regolarità indipendenti dalla volontà e dalla coscienza degli individui e delle organizzazioni sociali, mantiene piena validità, e specialmente in riferimento alle concezioni economiche e politiche attualmente dominanti.

 

Ciò si può constatare anzitutto in relazione al neoliberalismo, che afferma e promuove l’idea che l’economia di mercato, lasciata al più libero e spontaneo funzionamento secondo le leggi dell’economia, costituisca l’espressione vera e storicamente più avanzata della razionalità economica, e che la riduzione delle dimensioni, delle funzioni e degli interventi dello Stato sia la condizione politica del perfetto sviluppo della società. Si sostiene cioè che il neoliberismo sia l’espressione scientifica dell’unica e vera razionalità economica e politica. La tesi di Francis Fukuyama sulla ‘fine della storia’ – che intende come tale la ‘situazione pratica’ in cui non sono più possibili autentiche novità e cambiamenti storici per sopraggiunta perfezione della razionalità economica e politica (situazione realizzata nelle società occidentali più evolute) -, la possiamo intendere come l’affermazione che questo progetto economico-politico dominante è riuscito nella completa conformazione (pratica e teorica) delle odierne masse umane (inclusa la massa degli intellettuali e la massa dei politici) al ‘modello’ e al ‘progetto’ proprio dei gruppi o settori oggi dominanti nel mondo. Modello e progetto che avrebbero raggiunto la maturità e stabilità essendo l’espressione storico-politica della razionalità teorico-scientifica, che funziona regolarmente, legalmente, indipendentemente dalla coscienza e dalla volontà degli uomini; ancora: che funziona in un modo più compiutamente razionale nella misura in cui la coscienza e la volontà degli uomini non intervengono, dovendo questi assoggettarsi nel loro operare agli ‘automatismi’ e alle ‘leggi’ dell’economia e della politica.

 

Ma questo modello e progetto economico-politico sperimentano una profonda crisi che viene spiegata come conseguenza ed espressione del fatto che certe istituzioni, imprese ed individui hanno smesso di agire secondo le esigenze della razionalità economica e politica. Questi si sarebbero corrotti, avrebbero assunto comportamenti irrazionali, ingannato gli investitori eccetera, trasgredendo in diversi modi le leggi dell’economia.

 

È qui che riprende forza l’antico (e apparentemente sconfitto) keynesianismo, che propone come soluzione l’intervento sistematico dello Stato come fattore regolatore necessario. Ma in cosa consiste la regolazione ritenuta necessaria? In niente altro che nel tentativo di ristabilire il funzionamento ‘razionale’ dell’economia mediante leggi emanate dai poteri statali, le quali hanno lo scopo di costringere gli individui, le imprese e le istituzioni ad operare secondo le ‘leggi’ inerenti all’economia stessa, cioè alla razionalità economica del ‘mercato determinato’. La ‘regolazione’ non è in questo modo intesa come pianificazione statale né come recupero della politica nella conduzione della società, bensì come quella azione pubblica, già identificata da Gramsci nella sua definizione di ‘mercato determinato’: “ ‘determinato rapporto di forze sociali in una determinata struttura dell’apparato di produzione’, rapporto garantito (cioè reso permanente) da una determinata superstruttura politica, morale, giuridica”. (Q, 1477) Ciò che si spera oggi dalla ‘regolazione’ statale è precisamente che questa ristabilisca, renda permenente e garantisca la regolarità economica di questo mercato determinato attraverso il rafforzamento della sua struttura giuridica, morale, politica.

 

È per tutto questo che i principali movimenti che attualmente si oppongono al ‘sistema’ e si propongono di costruire un nuovo ordine sociale lo fanno affermando che “un altro mondo è possibile”, poiché devono anzitutto corrodere la credenza generalizzata che l’attuale sistema sia inamovibile in quanto espressione della razionalità. Ma a questi diversi gruppi ‘alternativi’ manca ancora una nuova e superiore concezione scientifica, capare di organizzare e potenziare un nuovo progetto autonomo. Mancano cioè di una indispensabile nuova struttura della conoscenza e della progettazione.


 

Con la critica complessiva delle scienze sociali (delle sociologie) inizia l’elaborazione della scienza della storia e della politica.

 

Parte seconda

 

LA SCIENZA DELLA STORIA E DELLA POLITICA.



Capitolo 5. Dalla esperienza alla filologia ed alla scienza.

 

La critica delle sociologie è l’avviamento della scienza della storia e della politica. In effetti ogni scienza si costituisce come critica delle elaborazioni scientifiche precedenti: la marxiana scienza dell’economia si presenta come critica dell’economia politica. L’avviamento della critica presuppone il possesso di un punto di vista teorico superiore, autonomo rispetto alle teorie che costituiscono il soggetto della critica. La distinzione tra il momento polemico ed il momento positivo ha un valore puramente espositivo, dal momento che il carattere costituente della scienza è dato dalla criticità. Tuttavia nel concreto strutturarsi di una scienza è possibile individuare un passaggio dall’implicito all’esplicito, cioè un processo di progressiva autonomizzazione della nuova scienza dai materiali teorici antecedenti. Processo questo che si svolge nell’intreccio di tre momenti di ulteriore elaborazione: elaborazione allargata del nucleo teorico originario, analisi concreta delle novità, espansione della nuova scienza come coscienza teorica collettiva.


Attualizzazione. Il paragrafo precedente, riletto oggi, ci pare confuso. Prima di tutto, abbiamo mostrato nella prima parte di questo libro che Marx non ha raggiunto il punto di vista necessario per elaborare una nuova scienza e che la sua critica dell’economia politica rimane nel quadro teorico della scienza economica del suo tempo (vedi pagine 51-2). Inoltre, sebbene resti vero che la critica delle scienze date è parte della costruzione di una nuova scienza, occorre distinguere il momento polemico dal momento positivo, cioè la fase iniziale dell’antagonismo da quella dell’autonomia pienamente raggiunta. Che si tratti di un processo progressivo della elaborazione scientifica e non di una distinzione che abbia un valore puramente espositivo è testimoniato dal processo stesso di questa nostra ricerca, nella quale – come si vedrà di seguito – la distinzione teorica tra i due momenti viene raggiunta progressivamente, realizzando un superamento di queste affermazioni iniziali.


Ci proponiamo ora di esplicitare gli elementi costitutivi fondamentali coi i quali Gramsci inizia la scienza della storia e della politica, già contenuti ‘in germe’ nella precedente esposizione della critica delle sociologie. Torniamo ai due paragrafi dei Quaderni dai quali siamo partiti.

 

Immediatamente dopo la proposizione di apertura del paragrafo Riduzione della filosofia della praxis a una sociologia, nella quale critica la “cristallizzazione della tendenza deteriore consistente nel ridurre una concezione del mondo a un formulario meccanico che dà l’impressione di avere tutta la storia in tasca”, Gramsci esplicita il punto di vista teorico che, stando alla base di quella critica, avviava la nuova scienza della storia e della politica: “L’esperienza su cui si basa la filosofia della praxis non può essere schematizzata; essa è la storia stessa nella sua infinita varietà e molteplicità il cui studio può dar luogo alla nascita della ‘filologia’ come metodo dell’erudizione nell’accertamento dei fatti particolari e alla nascita della filosofia intesa come metodologia generale della storia.” (Q, 1428-9)

 

Per Gramsci la conoscenza scientifica dei processi storico-politici non prende l’avvio da alcuna concezione generale del mondo e della storia, bensì dall’esperienza. Il contrario, cioè partire da una filosofia, produce necessariamente una subordinazione che impedisce il raggiungimento dell’autonomia della nuova scienza. Come abbiamo visto nella critica delle sociologie, la caduta teorica del marxismo – il suo deterioramento – è contenuta nella assunzione del materialismo filosofico come fondamento dell’analisi ‘scientifica’ dei processi storici e naturali. Ma cosa è questa ‘esperienza’ che fonda il processo conoscitivo? Non si tratta certamente dei dati empirici, poiché questi sono già ordinamenti della realtà elaborati sulla base di concezioni teoriche determinate esplicite o implicite. Per esperienza Gramsci intende i processi storici concreti, ‘la storia stessa nella sua infinita varietà e molteplicità’; esperienza che ‘non può essere schematizzata’ proprio per il fatto che non è costituita di ‘dati’ (classificabili), ma di azioni, di processi complessi singolari. In tal modo Gramsci si oppone simultaneamente tanto ad una fondazione di carattere speculativo, quanto ad una fondazione di carattere empirista della conoscenza scientifica.

 

Lo studio di questi processi concreti apre due forme di conoscenza a cui Gramsci riconosce validità: la filologia e la filosofia. Il che non vuol dire che l’analisi dei processi storici costruisce due metodi. Alla base della conoscenza sta una attività specifica: “lo studio”, lo svolgimento di una indagine relativa ad un insieme di processi determinati. Il metodo è la struttura di questa attività concreta, e non invece un sistema normativo elaborato indipendentemente. (Ogni ‘metodologia’ scissa da una pratica conoscitiva si presenta infatti come una etica normativa.) L’analisi dei processi storici si organizza in due strutture fondamentali, che sono appunto la filologia e la filosofia.

 

Sui concetti di ‘filologia’ e ‘filologia vivente’.


Per filologia è da intendersi la struttura dell’attività di ricognizione degli accadimenti storici in quanto accertabili nella propria determinata individualità. Questa attività si presenta dunque come una prima organizzazione dell’esperienza storica che produce ciò che di solito è denominato ‘dati empirici’. Questi ‘dati’ però non sono dati ma costruiti, in quanto non costituiscono il materiale originario della conoscenza ma già un risultato di essa. Il dato empirico è l’esperienza filologicamente organizzata.

 

Questo metodo conoscitivo che è la filologia configura nel proprio sviluppo storico e nell’interna articolazione logica tre progressivi momenti.

 

Il primo momento della filologia è dato dalla filologia come semplice constatazione dei fatti storici particolari, vale a dire dalla storiografia descrittiva (histoire événementielle).

 

Il secondo momento della filologia è dato da una attività che organizza quei fatti storici particolari secondo categorie compilative. Questa attività produce aggregazioni di ‘dati’ e corrisponde a quell’ambito della conoscenza storico sociale comunemente designato come sociologia empirica o statistica. La critica delle sociologie “non significa che non si possa costruire una compilazione empirica di osservazioni pratiche che allarghino la sfera della filologia come è intesa tradizionalmente. Se la filologia è l’espressione metodologica dell’importanza che i fatti particolari siano accertati e precisati nella loro inconfondibile ‘individualità’, non si può escludere l’utilità pratica di identificare certe ‘leggi di tendenza’ più generali che corrispondono nella politica alle leggi statistiche o dei grandi numeri che hanno servito a far progredire alcune scienze naturali”. (Q, 1429) Questo secondo momento della filologia, come di seguito Gramsci mostra in un passaggio che già abbiamo preso in esame, mantiene una certa validità solo all’interno del primo tipo di situazioni pratiche, caratterizzato dalla relativa passività delle masse.

 

Il terzo momento della filologia, in un certo senso sostitutivo del secondo nelle situazioni pratiche definite dall’attività organizzata delle moltitudini, è denominato da Gramsci ‘filologia vivente’. Questo tipo di attività conoscitiva si realizza nel rapporto tra le grandi masse, il partito, i gruppi dirigenti. Il partito si pone come nuovo soggetto di conoscenza che struttura le attività conoscitive in modo da organizzare l’esperienza storica particolare come conoscenza (e giudizio) continua e molecolare. Conoscenza che “non avviene più da parte dei capi”, e da parte dei singoli ‘filologi’, “per intuizione sorretta dalla identificazione di leggi statistiche, cioè per via razionale e intellettuale, troppo spesso fallace, - che il capo traduce in idee-forza, in parole-forza – ma avviene da parte dell’organismo collettivo per ‘compartecipazione attiva e consapevole’, per ‘compassionalità’, per esperienza dei particolari immediati, per un sistema che si potrebbe dire di ‘filologia vivente’. Così si forma un legame stretto tra grande massa, partito, gruppo dirigente e tutto il complesso, bene articolato, si può muovere come un ‘uomo-collettivo’ ”. (Q, 1430)

 

Attualizzazione. La precedente formulazione della ‘filologia’ come sequenza di momenti preliminari necessari per accedere alla costruzione di una nuova scienza della storia e della politica, merita alcune spiegazioni e precisazioni importanti le quali, nel preparare questa edizione critica, ci sono più chiare di quando abbiamo scritto il testo originario. Dobbiamo intendere questa formulazione come il processo intellettuale che percorre Gramsci nel tentativo di risolvere la questione fondamentale che si presentava a lui nella situazione in cui si trovava. Sconfitto politicamente, aveva individuato la causa della propria sconfitta (che prevedeva si sarebbe estesa a tutto il movimento comunista) nella mancanza di una cultura scientifica indispensabile per guidare il processo storico-politico di sostituzione del vecchio mondo con uno nuovo (che concepisce come la creazione di una nuova civiltà). Aveva realizzato la critica delle teorie esistenti (il marxismo e le sociologie) e aveva identificato il bisogno di una nuova scienza. Come costruirla? Da dove prendere le mosse?

 

Il punto di partenza non si poteva trovare in nessuna filosofia esistente, e ancor meno la nuova scienza poteva trarsi deduttivamente da una concezione i cui fondamenti teorici e metodologici aveva già criticato. La conclusione a cui giunge è chiara: l’unico punto di partenza possibile è “la storia stessa nella sua infinita varietà e molteplicità” .

 

Però, nel fare questa affermazione, si rende immediatamente conto che c’è un problema, e cioè che l’esperienza storico-sociale nella sua infinita varietà e molteplicità non è disponibile né raggiungibile – nella sua interezza, ma soltanto in modo frammentario - da alcun individuo o gruppo particolare. Si accorge che tale esperienza richiede di essere prima elaborata intellettualmente ad un certo livello per poter essere trattata scientificamente, perché si costituisca come oggetto di studio dal quale passare al livello scientifico. Ma Gramsci non è empirista nel senso in cui lo era la sociologia del suo tempo (‘frammento subordinato del positivismo’), di modo che non considera i ‘dati’ empirici processati statisticamente come espressione congrua di quella necessaria esperienza. E tuttavia non può disconoscere che le sociologie abbiano fornito certe conoscenze utili, identificato certe tendenze statistiche, dimostrato una certa capacità di riassumere i criteri di arte politica e anche di prevedere certi fatti a venire in quelle situazioni pratiche in cui predominano i comportamenti (‘automatismi’) indotti dai gruppi dominanti. Questi sono dunque elementi di conoscenza che – sottoposti alla corrispondente critica - possono essere impiegati e servire alla costruzione della nuova scienza.

 

Non sono però sufficienti, specialmente in quanto lasciano fuori dell’orizzonte di visione ciò che per Gramsci è più importante: le ‘iniziative’, e cioè le esperienze politiche emergenti capaci di alterare lo svolgimento regolare della storia e della politica, e far nascere il nuovo. È questa la esperienza, nuova e anche espressiva della “infinita varietà e molteplicità” storica e politica, la quale deve essere raccolta e posta alla base della nuova scienza. In questa nuova esperienza Gramsci crede di scoprire ‘la base sociale e politica’ – che non è altro dall’espressione dello ‘spirito popolare creativo’ – di una conoscenza nuova in grado di elaborare scientificamente quella complessa esperienza. La chiama ‘filologia vivente’ e, conforme alla sua esperienza politica particolare e del suo tempo, la identifica nell’azione delle masse, dei partiti e dei gruppi dirigenti.

 

Oggi non sono le grandi masse, né i partiti e i loro dirigenti le fonti delle nuove iniziative in grado di creare una ‘nuova situazione pratica’. Sono le associazioni politico-culturali, i gruppi e i movimenti alternativi, le comunità solidali, le reti informatiche, e in generale le persone e le organizzazioni sociali che sperimentano nuovi modi di vivere, relazionarsi, consumare, comunicare ad esprimere il nuovo ‘spirito popolare creativo’, e che possono essere i soggetti della ‘filologia vivente’ attuale.


 

La filologia, nell’insieme dei suoi momenti, è una struttura conoscitiva che non raggiunge da sé il livello della conoscenza scientifica. È una organizzazione dell’esperienza che può attingere un alto grado di precisione nell’accertamento empirico dei fatti storico-sociali, che produce ‘dati’, ‘leggi di tendenza’, consapevolezza pratica dei processi collettivi immediati; non elabora però concetti e teorie scientifiche, e perciò non giunge alla interpretazione e spiegazione dei processi che constata.


Sul concetto di ‘scienza della storia e della politica’.


È la scienza della storia e della politica la struttura conoscitiva che permette di attingere la spiegazione teorica dei processi storici, attraverso l’elaborazione di ‘concetti’.

 

Gramsci adopera le espressioni ‘filosofia della praxis’ e ‘scienza della storia e della politica’ come interscambiabili, almeno entro certi limiti. Con ambedue le espressioni egli identifica indistintamente quella che abbiamo definito come “seconda struttura conoscitiva fondamentale”. Tuttavia, nell’insieme dei Quaderni, l’espressione ‘filosofia della praxis’ designa un ambito teorico dai confini indecisi; talvolta si allarga a comprendere l’insieme della teoria e persino della cultura marxista, talaltra si propone più restrittivamente in sostituzione dell’espressione ‘materialismo storico’ (a volte come semplice sostituto terminologico, ma nella maggior parte dei casi come espressione criticamente alternativa). L’espressione ‘scienza della storia e della politica’ designa invece sempre un definito ambito teorico, la proposta di una struttura esplicativa scientifica dei processi storici. È da rilevare che questa seconda espressione s’impone progressivamente nei Quaderni, e che tende sempre più ad acquisire autonomia e più precisi contenuti in quanto proposta di una nuova scienza. Ma il fatto che le due espressioni restino intercambiabili rivela che Gramsci non aveva compiutamente definito il rapporto tra la teoria marxista e la propria elaborazione. Non è però ancora il momento di affrontare il problema di questo rapporto; occorre ancora esaminare più da vicino questa ‘seconda struttura conoscitiva’.

 

Questa scienza della storia e della politica non prende le mosse da princìpi o assiomi pre-costituiti (categorie filosofiche generali), e neppure direttamente dai ‘dati empirici’ (dai prodotti della filologia), ma dall’esperienza storica stessa. Quando nei processi storici concreti si manifestano situazioni problematiche, cioè determinate difficoltà storicamente decisive la cui soluzione non può emergere dallo sviluppo lineare degli automatismi predominanti, ma richiede la creazione di una razionalità storica nuova, matura la necessità di un tipo di conoscenza critica e creativa superiore alla semplice elaborazione filologica. Non solo: queste situazioni problematiche esigono la formazione di una scienza nuova in quanto fuoriescono dall’ambito teorico delle scienze date, vale a dire allorquando i nuovi problemi denunciano l’insufficienza delle risposte che si possono ottenere attraverso l’analisi di essi con gli strumenti teorici di cui dispone la struttura conoscitiva data. Insufficienza delle risposte nel senso che l’azione organizzabile mediante i concetti propri di una determinata scienza non permette di risolvere praticamente le difficoltà concentrate e annodate in situazioni di crisi.

 

Da questo punto di vista l’affermazione marxiana che “l’umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione” {K. Marx, Prefazione a Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma, 1974, pp. 5-6.} va “svolta criticamente e depurata da ogni residuo di meccanicismo e fatalismo” (Q, 1774). Se è vero che un problema diviene reale e attuale quando esistono le forze sociali che possono affrontarlo, ciò non vuol dire che queste siano da sé in condizione di risolverlo, poiché per ciò è necessario costruire anche una struttura conoscitiva in grado di organizzare la soluzione. Le situazioni storiche di crisi sono precisamente quelle in cui si verifica la contraddizione per cui da una parte esistono le forze sociali che possono avviare il passaggio ad una nuova superiore organizzazione sociale, mentre dall’altra non esiste ancora la struttura conoscitiva in grado di comprendere la crisi stessa e di progettarne il superamento, omogeneizzando, potenziando e rendendo efficienti in tutti i suoi elementi quelle forze sociali. Ecco perché la situazione di crisi organica è data secondo Gramsci dalla contraddizione tra la ‘struttura’ e la ‘sovrastruttura’; ed ecco perché essa può prolungarsi irrisolta per decenni.

 

Da queste situazioni di crisi organica si esce con svolte storiche di segno regressivo o progressivo, attraverso cioè il ripristino coatto di razionalità sorpassate o mediante la costruzione di una nuova razionalità. Condizione dell’avviamento di una svolta storica progressiva è appunto la fondazione di una nuova scienza e la sua espansione nella coscienza collettiva; difatti “si può escludere che, di per se stesse, le crisi economiche immediate producano eventi fondamentali; solo possono creare un terreno più favorevole alla diffusione di certi modi di pensare, di impostare e risolvere le quistioni che coinvolgono tutto l’ulteriore sviluppo della vita statale” (Q, 1587), cioè di una nuova scienza della storia e della politica.

 

“Ecco perché il problema della identità di teoria e pratica si pone specialmente in certi momenti storici così detti di transizione, cioè di più rapido movimento trasformativo, quando realmente le forze pratiche scatenate domandano di essere giustificate per essere più efficienti ed espansive, o si moltiplicano i programmi teorici che domandano di essere anch’essi giustificati realisticamente in quanto dimostrano di essere assimilabili dai movimenti pratici che solo così diventano più pratici e reali.” (Q, 1780)

 

Dalle precedenti considerazioni viene fuori un nuovo concetto di scienza (della storia e della politica): la scienza è l’insieme delle attività teorico-pratiche tese a riorganizzare l’esperienza ed a fondare una nuova razionalità storico-politica. I conflitti sociali e politici propri di un dato ordinamento sociale (le contraddizioni della razionalità storico-politica data) sono colti nella coscienza scientifica e risolti teoricamente nella individuazione degli elementi necessari alla realizzazione del passaggio ad una nuova superiore razionalità. La scienza è una impresa di creazione di una nuova razionalità teorico-scientifica, critica della razionalità storico-politica data e inizio di una razionalità nuova. Ecco perché la scienza è sempre rivoluzionaria; ed ecco perché le attività ‘teoriche’ di riproduzione della razionalità data sono delle ‘tecniche di contenimento e di controllo’ (come le sociologie). Naturalmente la scienza non produce da se stessa la nuova razionalità storico-politica concreta, la quale si costruisce nella lotta politica dalla scienza guidata.

 

Ora, da questo punto di vista, quali rapporti intercorrono tra le rivoluzioni teorico-scientifiche (la costituzione di una nuova scienza) e le rivoluzioni storico-politiche (l’organizzazione di nuovi comportamenti collettivi razionali)? Abbiamo visto che il terreno sul quale si è costituita la scienza della storia e della politica fu la ‘grande crisi’ degli anni Venti come parte della crisi organica mondiale. Quella situazione storica cruciale portò alla ristrutturazione dei sistemi politico-economici dei quali tratteremo nel prossimo capitolo. È questa l’esperienza (complessa e multiforme) su cui si radica la scienza della storia e della politica.

 

(Vedi Nota teorica VII)


Capitolo 6. Teoria della crisi organica.

 

Attualizzazione. Invitiamo i lettori a considerare se i concetti e le analisi seguenti della crisi organica di quel tempo mantengano validità per comprendere aspetti essenziali della attuale crisi. 


 

La scienza della storia e della politica ha come premessa storica lo sviluppo della ‘grande crisi’ organica, e la sua analisi produce i primi contenuti teorici di questa scienza. Ci soffermiamo perciò sulla crisi, sulla teoria gramsciana della crisi organica, per individuare insieme le condizioni storiche in cui si forma questa scienza, i problemi intorno ai quali lavora, ed i suoi primi concetti.

 

Esaminiamo quei passi dei Quaderni dove più direttamente ed esplicitamente Gramsci analizza tale situazione critica problematica. Prendiamo in esame il paragrafo La crisi. In esso Gramsci fissa alcuni elementi fondamentali per una ‘teoria della crisi organica’.

 

Primo elemento della teoria della crisi organica. Con il concetto di ‘crisi’ Gramsci individua una fase storica complessa di lunga durata e di carattere mondiale, e non uno o più eventi, particolari manifestazioni di essa. Il concetto di crisi definisce difatti ciò che solitamente è denominato ‘periodo di transizione’, cioè un processo cruciale nel quale si manifestano le contraddizioni tra la razionalità storico-politica dominante e l’emergenza di nuovi soggetti storici portatori di inediti comportamenti collettivi.

 

“Si tratta di un processo – scrive Gramsci - che ha molte manifestazioni e in cui cause ed effetti si complicano e si accavallano. [...] Si può dire che della crisi come tale non vi è data d’inizio, ma solo di alcune ‘manifestazioni’ più clamorose che vengono identificate con la crisi, erroneamente e tendenziosamente. [...] Tutto il dopoguerra è crisi, con tentativi di ovviarla, che a volta a volta hanno fortuna in questo o quel paese, niente altro. Per alcuni (e forse non a torto) la guerra stessa è una manifestazione della crisi, anzi la prima manifestazione; appunto la guerra fu la risposta politica ed organizzativa dei responsabili.” (Q, 1755-6)

 

Intanto è da notare che la ‘grande guerra’, cioè la prima guerra mondiale, date le sue dimensioni, manifesta il carattere mondiale della crisi stessa, e con questo Gramsci corrobora la sua critica “di quelli che nell’ ‘americanismo’ vogliono trovare l’origine e la causa della crisi” (Q, 1755). Il carattere mondiale della crisi è rimarcato da Gramsci in quel passaggio dove afferma che, sebbene alcuni paesi “hanno sentito più la crisi”, è una “illusione” immaginare di poter sfuggire ad essa; illusione che discende dal fatto che “non si comprende che il mondo è una unità, si voglia o non si voglia, e che tutti i paesi, rimanendo in certe condizioni di struttura, passeranno per certe ‘crisi’ ” (Q, 1757). In quale senso la guerra sia stata prima manifestazione della crisi e prima risposta politica ed organizzativa ad essa, lo esamineremo più avanti.

 

Il secondo elemento della teoria della crisi organica consiste nella individuazione di essa come processo che coinvolge l’insieme della vita sociale, ragione per cui non può essere ridotta ai suoi aspetti particolari: crisi finanziaria, crisi d’autorità, crisi commerciale, crisi produttiva ecc. “È difficile nei fatti separare la crisi economica dalle crisi politiche, ideologiche ecc., sebbene ciò sia possibile scientificamente, cioè con un lavoro di astrazione.” (Q, 1756)

 

È con il concetto di crisi organica che Gramsci definisce una crisi storica complessiva. Egli contrappone il concetto di crisi organica al concetto di crisi di congiuntura; una crisi congiunturale “non è di vasta portata storica [...] e si presenta come occasionale, immediata, quasi accidentale” (Q, 1579), ed è determinata da fattori “variabili e in sviluppo” (Q, 1077). Una crisi di carattere organico invece “investe i grandi aggruppamenti, di là dalle persone immediatamente responsabili e di là dal personale dirigente” (Q, 1579); in questo caso “si verifica una crisi, che talvolta si prolunga per decine di anni. Questa durata eccezionale significa che nella struttura si sono rivelate (sono venute a maturità) contraddizioni insanabili e che le forze politiche operanti positivamente alla conservazione e difesa della struttura stessa si sforzano tuttavia di sanare entro certi limiti e di superare”(Q, 1579-80).

 

Le crisi (congiunturali o organiche) si manifestano sul terreno del mercato determinato; ora, come abbiamo visto, Gramsci intende per mercato determinato “determinato rapporto di forze sociali in una determinata struttura dell’apparato di produzione’, rapporto garantito (cioè reso permanente) da una determinata superstruttura politica, morale, giuridica”. (Q, 1477)

 

“Ma cos’è il ‘mercato determinato’ e da che cosa appunto è determinato? Sarà determinato dalla struttura fondamentale della società in quistione e allora occorrerà analizzare questa struttura e identificarne quegli elementi che, (relativamente) costanti, determinano il mercato ecc., e quegli altri ‘variabili e in sviluppo’ che determinano le crisi congiunturali fino a quando anche gli elementi (relativamente) costanti ne vengono modificati e si ha la crisi organica.” (Q, 1077)

 

Scrivendo specificamente sulla ‘grande crisi’ Gramsci segnala che “sempre più la vita economica si è venuta incardinando su una serie di produzioni di grande massa e queste sono in crisi: controllare questa crisi è impossibile appunto per la sua ampiezza e profondità, giunte a tale misura che la quantità diviene qualità, cioè crisi organica e non di congiuntura”. (Q, 1077-8)

 

Quando Gramsci sottolinea il carattere organico della crisi prende le distanze dal comune accostamento del concetto di crisi storica complessiva a situazioni di stagnazione o depressione economica. “Altra quistione connessa alle precedenti – scrive – è quella di vedere se le crisi storiche fondamentali sono determinate immediatamente dalle crisi economiche. [...] Si può escludere che, di per se stesse, le crisi economiche immediate producano eventi fondamentali.” (Q, 1586-7)

 

A queste considerazioni Gramsci fa seguire l’esempio della grande crisi del 1789 in Francia: essa si svolgeva in un periodo in cui “la situazione economica era piuttosto buona immediatamente, per cui non si può dire che la catastrofe dello Stato assoluto sia dovuta a una crisi di immiserimento. [...] La rottura dell’equilibrio delle forze non avvenne per cause meccaniche immediate di immiserimento del gruppo sociale che aveva interesse a rompere l’equilibrio e di fatto lo ruppe (la classe borghese), ma avvenne nel quadro di conflitti superiori al mondo economico immediato, connessi al ‘prestigio’ di classe (interessi economici avvenire), ad una esasperazione del sentimento di indipendenza, di autonomia e di potere. La quistione particolare del malessere o benessere economico come causa di nuove realtà storiche è un aspetto parziale della quistione dei rapporti di forza nei loro vari gradi” (Q, 1587-8).

 

La crisi organica non è dunque né una crisi puramente economica né una crisi specificamente politica; essa consiste proprio nella contraddizione tra i dati rapporti economici e gli emergenti rapporti politici, tra economia e politica, tra ‘condizioni’ e ‘iniziative’, tra ‘struttura’ e ‘superstruttura’.

 

In stretto rapporto con questo secondo elemento ecco il terzo elemento della teoria della crisi organica: “Una delle contraddizioni fondamentali è questa: che mentre la vita economica ha come premessa necessaria l’internazionalismo o meglio il cosmopolitismo, la vita statale si è sempre più sviluppata nel senso del ‘nazionalismo’, ‘del bastare a se stessi’ ecc. Uno dei caratteri più appariscenti della ‘attuale crisi’ è niente altro che l’esasperazione dell’elemento nazionalistico (statale nazionalistico) nell’economia: contingentamenti, clearing, restrizione al commercio delle divise, commercio bilanciato tra due soli Stati ecc.” (Q, 1756)

 

La crisi si presenta nel periodo in cui il capitalismo aveva formato un mercato di dimensioni mondiali e quindi si era creata la possibilità che i gruppi economici dominanti nelle singole nazioni ricavassero il profitto sottraendo ricchezza ad altre nazioni capitalistiche; in queste condizioni il mercato economico internazionale si costituisce come luogo di competizione tra gruppi economici dominanti nazionali.

 

Essendo il mercato un ‘determinato rapporto di forze sociali in una determinata struttura dell’apparato di produzione’, il costituirsi del mercato mondiale significa: a) che le forze sociali cominciano ad operare su scala mondiale, in una struttura dell’apparato di produzione che presenta una crescente interdipendenza delle singole strutture produttive nazionali; b) che le forze sociali le quali affrontandosi costituiscono il mercato sono a questo punto tutte le classi dei diversi paesi, e che perciò il problema dei rapporti di forza si fa molto più complicato, per la sostanziale moltiplicazione dei contendenti.

 

In queste condizioni, i gruppi economici dominanti rispettivamente unificati nei diversi Stati nazionali si difendono gli uni dagli altri attraverso politiche economiche nazionaliste, protezioniste. “Mi pare – scrive Gramsci – che facendo un’analisi [della crisi] si dovrebbe cominciare dall’elencare gli impedimenti posti dalle politiche nazionali (o nazionalistiche) alla circolazione: 1) delle merci; 2) dei capitali; 3) degli uomini (lavoratori e fondatori di nuove industrie e nuove aziende commerciali) [...]. La premessa maggiore in questo caso è il nazionalismo, che non consiste solo nel tentativo di produrre nel proprio territorio tutto ciò che vi si consuma (il che significa che tutte le forze sono indirizzate nella previsione dello stato di guerra), ciò che si esprime nel protezionismo tradizionale, ma nel tentativo di fissare le principali correnti di commercio con determinati paesi, o perché alleati (perché quindi li si vuol sostenere e li si vuol foggiare in un modo più acconcio allo stato di guerra) o perché li si vuol stroncare già prima della guerra militare (e questo nuovo tipo di politica economica è quello dei ‘contingentamenti’ che parte dall’assurdo che tra due paesi vi debba essere ‘bilancia pari’ negli scambi, e non che ogni paese può bilanciare alla pari solo commerciando con tutti gli altri paesi indistintamente).” (Q, 1715-6)

 

Questo nazionalismo della vita statale era dunque risultato diretto dell’internazionalismo della vita economica (internazionalismo contraddittorio e parziale, in quanto espressione dell’allargamento del raggio d’azione dei gruppi economici che si unificavano soltanto a livello nazionale). Ecco perché la prima guerra mondiale fu la “prima risposta dei responsabili” della crisi (e la seconda guerra mondiale mostrerà di seguito l’insufficienza delle risposte a questa crisi).

 

La contraddizione tra il cosmopolitismo della vita economica ed il nazionalismo della vita statale è dunque all’origine della guerra, in quanto i rapporti di forza a livello internazionale (tra le classi dominanti unificate nei singoli Stati nazionali) non trovavano un luogo di confronto politico, quindi di mediazione e ricomposizione, quale una istituzione statale sovranazionale; in mancanza di una dialettica politica dei rapporti di forza internazionali il momento militare (dei rapporti di forza) s’impone. In questo senso la guerra costituì un surrogato di uno Stato multinazionale, cioè un complesso di attività pratiche e teoriche militari (che definiscono la guerra, lo Stato come guerra) al posto di quel complesso di attività pratiche e teoriche politiche – mancante sul piano internazionale – che definiscono lo Stato. In questo senso è da intendersi la concezione della guerra come continuazione della politica con altri mezzi. (‘Continuazione’ come acutizzazione dei conflitti politici interni ai singoli Stati – le guerre civili -, ma anche come allargamento del campo della lotta – le guerre tra gli Stati, le guerre mondiali -, come internazionalizzazione del conflitto.)

 

In questo senso va riesaminata la spiegazione leniniana della guerra – fatta propria in parte da Gramsci nel paragrafo Sull’origine delle guerre (Q, 1631) -, secondo la quale la guerra è la lotta inter-imperialistica per il dominio dei mercati coloniali, “per una suddivisione e nuova ripartizione delle colonie” {Nikolaj Lenin, Opere scelte, edizioni ‘Progress’, Mosca, p. 168}. La ‘grande guerra’ fu piuttosto lotta per la ristrutturazione del mercato nei paesi industrializzati.

 

Il quarto elemento della teoria della crisi organica è implicito nei tre elementi già esposti, e consiste nella individuazione dell’origine della crisi in un mutamento complessivo dei rapporti di forza tra le classi e fra gli Stati.

 

“La crisi ha origine nei rapporti tecnici, cioè nelle posizioni di classi rispettive, o in altri fatti? Legislazioni, torbidi, ecc.? Certo pare dimostrabile che la crisi ha origini ‘tecniche’ cioè nei rapporti rispettivi di classe, ma che ai suoi inizi, le prime manifestazioni o previsioni dettero luogo a conflitti di vario genere e a interventi legislativi, che misero più in luce la ‘crisi’ stessa, non la determinarono, o ne aumentarono alcuni fattori.” (Q, 1756)

Questa non è la semplice riaffermazione del criterio teorico-metodologico generale secondo il quale ogni processo storico è prodotto dal – e può essere spiegato come – conflitto tra le classi; essa piuttosto riassume una specifica analisi storica concreta della ‘grande crisi’ e delle sue particolari manifestazioni. In particolare, Gramsci fornisce una originale spiegazione dei fenomeni di inflazione e deflazione – della “perturbazione dell’equilibrio dinamico fra la quota consumata e la quota risparmiata del reddito nazionale e il ritmo della produzione” (Q, 793) – come espressioni di mutamenti dei rapporti di forza tra le classi e fra gli Stati.

 

Sui fenomeni ‘monetari’ della crisi: “Quando in uno Stato la moneta varia (inflazione o deflazione) avviene una nuova stratificazione di classi nel paese stesso, ma quando varia una moneta internazionale (esempio la sterlina, e, meno, il dollaro ecc.) avviene una nuova gerarchia fra gli Stati, ciò che è più complesso e porta ad arresto nel commercio (e spesso a guerre), cioè c’è passaggio ‘gratuito’ di merci e servizi tra un paese e l’altro e non solo tra una classe e l’altra della popolazione. La stabilità della moneta è una rivendicazione, all’interno, di alcune classi e, all’estero (per le monete internazionali, per cui si sono presi gli impegni) di tutti i commercianti; ma perché esse variano? Le ragioni sono molte, certamente: 1. perché lo Stato spende troppo, cioè non vuol far pagare le sue spese a certe classi, direttamente, ma indirettamente ad altre e, se è possibile, a paesi stranieri; 2. perché non si vuole diminuire un costo ‘direttamente’ (esempio il salario) ma solo indirettamente e in un tempo prolungato, evitando attriti pericolosi ecc. In ogni caso, anche gli effetti monetari sono dovuti all’opposizione dei gruppi sociali, che bisogna intendere nel senso non sempre del paese stesso dove il fatto avviene ma di un paese antagonista.” (Q, 1758)

 

Sul problema dello squilibrio tra il consumo, il risparmio, la produzione nella ‘grande crisi’, Gramsci coglie inoltre che, alle sue radici, più che di uno squilibrio nei rapporti tra salari e profitti si tratta del fatto che “è avvenuto che nella distribuzione del reddito nazionale attraverso specialmente il commercio e la borsa, si sia introdotta, nel dopoguerra (o sia aumentata in confronto del periodo precedente), una categoria di ‘prelevatori’ che non rappresenta nessuna funzione produttiva necessaria e indispensabile, mentre assorbe una quota di reddito imponente” (Q, 793). Si tratta cioè della formazione (o dell’allargamento oltre certi limiti) di un gruppo sociale ‘parassitario’, ciò che comporta la strutturazione di una composizione demografica irrazionale. Insorge una crisi quando crescono forze del consumo in confronto a quelle della produzione; ma non si tratta solo di una questione quantitativa. La crisi esiste quando “una funzione parassitaria intrinsecamente si dimostri necessaria date le condizioni esistenti: ciò rende ancor più grave tale parassitismo. Appunto quando un parassitismo è ‘necessario’, il sistema che crea tali necessità è condannato in se stesso” (Q, 1343).

 

Questi processi non dipendono naturalmente dallo svolgimento dei meccanismi economici, ma risultano da progetti politici che hanno alla propria base il problema dei rapporti di forza tra le classi: “Il saggio del risparmio o di capitalizzazione era basso perché i capitalisti avevano voluto mantenere tutta l’eredità di parassitismo del periodo precedente, affinché non venisse meno la forza politica della loro classe e dei loro alleati.” (Q, 1994)

 

Ancora: “Che non si vogliano (o non si possa) mutare i rapporti interni (e neppure rettificarli razionalmente) appare dalla politica del debito pubblico, che aumenta continuamente il peso della passività ‘demografica’, proprio quando la parte attiva della popolazione è ristretta dalla disoccupazione e dalla crisi. Diminuisce il reddito nazionale, aumentano i parassiti, il risparmio si restringe ed è disinvestito dal processo produttivo e viene riversato nel debito pubblico, cioè fatto causa di nuovo parassitismo assoluto e relativo.” (Q, 1991)

 

Il quinto elemento della teoria della crisi organica consiste nella individuazione della rottura degli automatismi dati e nella emergenza di nuovi comportamenti collettivi, i quali tuttavia non arrivano ad espandersi fino a sostituire i precedenti. Questa è una “situazione di contrasto tra ‘rappresentanti e rappresentati’ [il cui] contenuto è la crisi di egemonia della classe dirigente, che avviene o perché la classe dirigente ha fallito in qualche sua grande impresa per cui ha domandato o imposto con la forza il consenso delle grandi masse (come la guerra) o perché vaste masse (specialmente di contadini e di piccoli borghesi intellettuali) sono passati di colpo dalla passività politica a una certa attività e pongono rivendicazioni che nel loro complesso disorganico costituiscono una rivoluzione. Si parla di ‘crisi di autorità’ e ciò è appunto la crisi di egemonia, o crisi dello Stato nel suo complesso” (Q, 1603).

 

Questo è l’elemento decisivo della teoria gramsciana della crisi organica; esso permette di individuare il ruolo della crisi economica all’interno della crisi organica: “Si può escludere che, di per se stesse, le crisi economiche immediate producano eventi fondamentali; solo possono creare un terreno più favorevole alla diffusione di certi modi di pensare, di impostare e risolvere le quistioni che coinvolgono tutti l’ulteriore sviluppo della vita statale.” (Q, 1587)

 

Una crisi economica consiste in effetti in uno squilibrio dei rapporti di forza nel mercato determinato tale da incrinare gli automatismi dominanti nei comportamenti collettivi, e cioè tali da fare emergere comportamenti deteriori, anomali (speculazione, accaparramento, tesaurizzazione ecc.). Questi comportamenti sono di carattere regressivo, tuttavia l’incrinatura degli ‘automatismi dati’ è ciò che rende possibile che nuovi comportamenti collettivi si elaborino e diffondano, che cioè di fronte ai nuovi problemi nuove risposte teoriche e pratiche maturino all’interno di certi gruppi e ne organizzino l’attività.

 

Più in concreto si tratta di processi di mobilitazione sociale e di attivazione politica di determinate classi, le quali passano dalla passività alla attività, dal consenso passivo all’autonomia politica, dalla fase economico-corporativa alla organizzazione in partiti, e che insomma si pongono l’obiettivo della ‘conquista’ dello Stato affinché i nuovi comportamenti di cui sono portatrici si generalizzino all’intera società. La crisi organica sta dunque nel fatto che determinate classi non si riconoscono più nella vita statale, si staccano dai gruppi dirigenti dati ma nello stesso tempo ancora non riescono ad imporsi come nuove classi egemoni.


Sulla grande crisi in Unione Sovietica.


L’analisi gramsciana della ‘grande crisi’ identifica gli elementi fondamentali che permettono di coglierne il carattere organico, e si svolge nello studio storico-concreto delle sue manifestazioni particolari in Occidente e nell’Unione Sovietica.

 

I cinque elementi della teoria gramsciana della crisi organica ci permettono di riconoscere come i processi che nell’Unione Soveitica condussero al stalinismo sono da spiegare in connessione con la grande crisi mondiale. La mancanza di una interpretazione teorica soddisfacente del fenomeno stalinista ci sembra che in parte dipenda appunto dalla non-individuazione del fatto che la crisi mondiale coinvolse anche quell’insieme di paesi. Solitamente difatti la grande crisi è intesa come ‘crisi del capitalismo’; il risultato è che da una parte non si colgono i rapporti storici che intercorsero fra le tre grandi risposte alla crisi – stalinismo, americanismo, fascismo -, e dall’altra parte che dello stalinismo si offrono spiegazioni le quali si limitano ad una messa in evidenza delle condizioni storiche, culturali e politiche ‘nazionali’.

 

Allo stesso modo che in Occidente, nell’Unione Sovietica la crisi consistette in un lungo e complesso processo storico. Abbiamo mostrato che datare la crisi (come convenzionalmente si fa) negli anni 1929-30 è il risultato della riduzione di essa a crisi economico-finanziaria del capitalismo; limitare a quegli stessi anni la crisi che interessò l’Unione Sovietica, in coincidenza con i processi di collettivizzazione nell’agricoltura e di industrializzazione accelerata, comporterebbe l’assunzione di analoghi criteri riduttivi di interpretazione. Se invece la guerra è da considerarsi manifestazione della – e prima risposta alla – crisi mondiale, compresa dunque la crisi nell’Unione Sovietica, l’inizio dei processi che approdarono al fenomeno stalinista è da anticipare ad una situazione antecedente la stessa rivoluzione russa. Ma, allora, la rivoluzione richiede di essere compresa e spiegata come avvenimento prodottosi all’interno della crisi e lo stalinismo in connessione con essa.

 

Le interpretazioni (da parte marxista) della rivoluzione russa e dei suoi sviluppi solitamente separano il processo rivoluzionario russo dal concreto processo di sviluppo della crisi mondiale, e adoperano come criterio interpretativo l’ideologia dei protagonisti della rivoluzione stessa, cioè la concezione con la quale i gruppi sociali che la produssero furono unificati, mobilitati, diretti. Tale procedimento interpretativo discende dall’idea che il successo rivoluzionario sia la conferma teorico-pratica della scientificità della ideologia rivoluzionaria: la rivoluzione russa è la dimostrazione de Il Capitale di Karl Marx. Il risultato è la confusione tra la concezione ideologica che costituisce la componente ideale dell’azione rivoluzionaria – e che quindi ne costituisce una parte – e i criteri teorico-metodologici di interpretazione storica del processo complessivo.

 

Come in Occidente, nell’Unione Sovietica la guerra significò lo spostamento di grandi masse (specialmente di contadini), il livellamento delle condizioni di vita dell’insieme delle classi subordinate, la concentrazione di esse e la loro organizzazione disciplinata in vista di un fine comune (all’esperienza della disciplina di fabbrica degli operai si aggiunge l’esperienza della disciplina militare – economica e di guerra, cioè politica – dell’insieme delle classi subalterne), l’esperienza di momenti di vita intensamente collettiva (sviluppo di una volontà e di una coscienza di massa), e insomma l’elaborazione pratica, ancora confusa e istintiva, di nuovi comportamenti collettivi. Questi elementi sono da considerarsi essenziali per una interpretazione della rivoluzione russa e dei suoi sviluppi; ma a noi interessa piuttosto considerarli in quanto processi che individuano lo sviluppo della ‘grande crisi’ nell’Unione Sovietica.

 

La guerra era stata già l’espressione ed il luogo di un mutamento complessivo dei rapporti di forza tra le classi nell’Unione Sovietica. Questo mutamento continuò attraverso le complesse vicende degli anni successivi, essendo la rivoluzione appunto il momento di giudizio e di arrovesciamento dei rapporti di forza precedenti (fatto che costituisce la differenza riguardo ciò che avvenne nei paesi capitalistici, dove il mutamento dei rapporti di forza fu a favore delle classi dominanti); la rivoluzione però non portò con sé immediatamente una fase di equilibrio e di stabilità organica, poiché i rapporti di forza continuarono a mutare significativamente negli anni seguenti (il periodo della ‘Nuova Politica Economica’ – NEP -, ad esempio) a conferma che si era ancora all’interno della crisi.

 

Questi problemi sono esaminati particolarmente da Gramsci in due paragrafi nei quali sono messi in evidenza i rapporti tra la guerra, i nuovi comportamenti collettivi che ne risultano, la rivoluzione, i problemi della razionalizzazione della produzione e del lavoro, l’industrializzazione accelerata e lo stalinismo. Questi paragrafi, i quali a prima vista possono sembrare osservazioni teoriche generali sui problemi che si presentano nel passaggio e nella costruzione del socialismo, diventano compiutamente intellegibili solo se intesi come analisi storico-critiche di quella fase storica concreta.

 

Il soggetto del primo paragrafo – Animalità e industrialismo – è il mutamento complessivo dei comportamenti collettivi che avviene nel mondo intero a partire dagli inizi della crisi, e nel contesto dei processi di industrializzazione; tale processo, inteso come periodo di passaggio ad una nuova civiltà, è caratterizzato dallo sviluppo di “nuove, più complesse e rigide norme e abitudini di ordine, di esattezza, di precisione che rendano possibili le forme sempre più complesse di vita collettiva che sono la conseguenza necessaria dello sviluppo dell’industrialismo” (Q, 2160-1). Ma la espansione di questi nuovi comportamenti collettivi non è stata il prodotto di una elaborazione consapevole di massa d’una razionalità funzionale alle esigenze dei processi di produzione, bensì è stata “imposta dall’esterno e finora i risultati ottenuti, sebbene di grande valore pratico immediato, sono puramente meccanici in gran parte, non sono diventati una ‘seconda natura’. Ma ogni nuovo modo di vivere, nel periodo in cui si impone la lotta contro il vecchio, non è sempre stato per un certo tempo il risultato di una compressione meccanica?” (Q, 2161)

 

A questa ultima domanda Gramsci risponde richiamando l’esperienza storica passata di mutamenti epocali in cui non furono spezzati i rapporti di dominazione: “Finora tutti i mutamenti del modo di essere e di vivere sono avvenuti per coercizione brutale, cioè attraverso il dominio di un gruppo sociale su tutte le forze produttive della società: la selezione o ‘educazione’ dell’uomo adatto ai nuovi tipi di civiltà, cioè alle nuove forme di produzione e di lavoro, è avvenuta con l’impiego di brutalità inaudite, gettando nell’inferno delle sottoclassi i deboli e i refrattari o eliminandoli del tutto.” (Q, 2161)

 

Ora, “quando la pressione coercitiva viene esercitata su tutto il complesso sociale [...] si sviluppano ideologie puritane che dànno la forma esteriore della persuasione e del consenso all’intrinseco uso della forza: ma una volta che il risultato è stato raggiunto, almeno in una certa misura, la pressione si spezza [...] e avviene la crisi di libertinismo” (Q, 2161-2). Questo processo di ‘libertinismo’ riguarda le classi dominanti, non “tocca altro che superficialmente le masse lavoratrici [...]: queste masse infatti o hanno già acquisito le abitudini e i costumi necessari ai nuovi sistemi di vita e di lavoro oppure continuano a sentire la pressione coercitiva per le necessità elementari della loro esistenza”. (Q, 2162)

 

Dopo queste osservazioni, Gramsci arriva all’analisi particolare della ‘grande crisi’ considerata in rapporto a questi problemi del passaggio a nuovi tipi di civiltà, a nuove forme di produzione e di lavoro, a nuovi modi di pensare e di operare: “A ogni avvento di nuovi tipi di civiltà, o nel corso del processo di sviluppo, ci sono state delle crisi.” (Q, 2161)

 

Di nuovo Gramsci riparte dalla guerra mondiale. “Nel dopoguerra si è verificata una crisi dei costumi di estensione e profondità inaudite, ma si è verificata contro una forma di coercizione che non era stata imposta per creare le abitudini conformi a una nuova forma di lavoro, bensì per le necessità, già concepite come transitorie, della vita di guerra e di trincea [...]. La crisi [“che si è scatenata al momento del ritorno della vita normale”] è stata (ed è ancora) resa più violenta dal fatto che ha toccato tutti gli strati della popolazione ed è entrata in conflitto con le necessità dei nuovi metodi di lavoro che intanto si sono venuti imponendo (taylorismo e razionalizzazione in generale).” (Q, 2162)

 

Lo specifico di questo processo di formazione di nuovi comportamenti collettivi consiste nel fatto che essi si espandono all’insieme delle classi e sono imposti attraverso una compressione esterna estremamente rigida, sulla base delle esigenze della pratica militare e non soltanto del lavoro produttivo (le attività produttive stesse sono militarizzate). La crisi dei costumi che si manifesta nel dopoguerra non è perciò conseguente ad un allentamento della pressione coercitiva derivante dall’acquisizione da parte delle masse delle abitudini e dei costumi necessari ai nuovi sistemi di vita e di lavoro, ma piuttosto dalla fine della guerra. Ciò che mette in evidenza Gramsci relativamente a questa crisi è il fatto che i nuovi modi di vita, di pensare e di operarecorrispondenti alla nuova fase dell’industrialismo, che si erano formati ed espansi nella guerra, una volta finita la situazione costrittiva del regime di guerra e di trincea, non si mantennero, così determinando l’inadeguatezza dei comportamenti collettivi ai bisogni della produzione. Le risposte a questo aspetto della crisi che furono approntate nel periodo successivo (taylorismo e razionalizzazione del lavoro, ecc.) le esamineremo più avanti.

 

Gramsci passa di seguito all’esame della situazione in Russia: “Questo elemento diventa tanto più grave se in uno Stato le masse lavoratrici non subiscono più la pressione coercitiva di una classe superiore, se le nuove abitudini e attitudini psicofisiche connesse ai nuovi metodi di produzione e di lavoro devono essere acquistate per via di persuasione reciproca o di convinzione individualmente proposta ed accettata. Può venirsi creando una situazione a doppio fondo, un conflitto intimo tra l’ideologia ‘verbale’ che riconosce le nuove necessità e la pratica reale ‘animalesca’ che impedisce ai corpi fisici l’effettiva acquisizione delle nuove attitudini. Si forma in questo caso quella che si può chiamare una situazione di ipocrisia sociale totalitaria. Perché totalitaria? Nelle altre situazioni gli strati popolari sono costretti a osservare la ‘virtù’; chi la predica non la osserva, pur rendendole omaggio verbale, e quindi l’ipocrisia è di strati, non totale; ciò non può durare, certo, e porterà a una crisi di libertinismo; ma quando già le masse avranno assimilato la ‘virtù’ in abitudini permanenti o quasi, cioè con oscillazioni sempre minori. Nel caso invece in cui non esiste pressione coercitiva di una classe superiore, la ‘virtù’ viene affermata genericamente, ma non osservata né per convinzione né per coercizione e pertanto non ci sarà l’acquisizione delle attitudini psicofisiche necessarie per i nuovi metodi di lavoro. La crisi può diventare ‘permanente’, cioè a prospettiva catastrofica, poiché solo la coercizione potrà definirla, una coercizione di tipo nuovo, in quanto esercitata dalla élite di una classe sulla propria classe, non può essere che un’autocoercizione, cioè un’autodisciplina.” (Q, 2163)

 

È da osservare in primo luogo come per Gramsci il problema del passaggio ad una nuova civiltà non consista soltanto nell’avvento al potere delle classi subalterne e nella eliminazione delle classi sfruttatrici, ma piuttosto nella elaborazione di nuovi comportamenti collettivi stabilmente assimilati dalla generalità degli uomini.

 

La rivoluzione russa non significò il superamento della crisi, né l’inizio di una fase di stabilità organica. Tuttavia essa segnò l’inizio di una divaricazione negli sviluppi ulteriori della crisi, nel senso che la crisi seguì strade diverse nell’Occidente e nell’Unione Sovietica. In Unione Sovietica caddero le classi dominanti, ciò non portò tuttavia ad una generale crisi dei costumi (come conseguenza della fine della guerra) poiché i nuovi comportamenti collettivi che si erano costituiti e diffusi nella guerra furono sviluppati da parte delle classi subalterne nella lotta e nella organizzazione rivoluzionaria; dopo l’Ottobre la situazione di guerra permane sia all’interno (il pericolo controrivoluzionario e l’estensione della rivoluzione alle altre repubbliche dell’Impero) che nei confronti degli altri Stati (il pericolo dell’aggressione ed il progetto di internazionalizzazione della rivoluzione). Il problema si presenta allorquando i nuovi comportamenti dovevano informare le attività produttive – che richiedevano una rigorosa disciplina. Le classi lavoratrici dovevano responsabilizzarsi della produzione e dirigere il proprio lavoro senza più la costrizione – diretta e indiretta – delle classi proprietarie, ciò che comportava una assunzione consapevole e consensuale della disciplina economica; ma questi nuovi comportamenti formatisi nella guerra erano invece stati assunti meccanicamente (specialmente da parte delle masse contadine). Il risultato fu quella ‘situazione di ipocrisia sociale totalitaria’ di cui parla Gramsci, cioè l’affermazione di una etica (e di una ideologia) non intimamente assimilata e acquisita nelle abitudini: si stabilisce così una crisi permanente, poiché la prospettiva catastrofica è evitata soltanto attraverso la rigida coercizione esercitata dalla élite delle classi subordinate sulle masse.

 

Queste osservazioni di Gramsci sono la constatazione di un fatto, cioè l’analisi storico-critica di quei processi storico-politici concreti; che non costituiscano invece una giustificazione dei risultati e dei mezzi a cui tali processi approdarono, sulla base di una qualche ‘inevitabilità’ della corcizione sulle masse nei processi rivoluzionari, si vede nel paragrafo immediatamente successivo, intitolato Razionalizzazione della produzione e del lavoro. In esso il problema è affrontato in riferimento alla discussione svoltasi all’interno del gruppo dirigente del Partito Comunista dell’Unione Sovietica - PCUS, che dal punto di vista gramsciano acquista una inedita dimensione:

 

“La tendenza di Leone Davidovi [Trotskij] era strettamente connessa a questa serie di problemi, ciò che non mi pare sia stato messo bene in luce. Il suo contenuto essenziale, da questo punto di vista, consisteva nella ‘troppo’ risoluta (quindi non razionalizzata) volontà di dare la supremazia, nella vita nazionale, all’industria e ai metodi industriali, di accelerare, con mezzi coercitivi esteriori, la disciplina e l’ordine nella produzione, di adeguare i costumi alle necessità del lavoro. Data l’impostazione generale di tutti i problemi connessi alla tendenza, questa doveva sboccare necessariamente in una forma di bonapartismo, quindi la necessità inesorabile di stroncarla. Le sue preoccupazioni erano giuste, ma le soluzioni pratiche erano profondamente errate: in questo squilibrio tra teoria e pratica era insito il pericolo, che del resto si era già manifestato precedentemente, nel 1921. Il principio della coercizione, diretta e indiretta, nell’ordinamento della produzione e del lavoro è giusto (cfr. il discorso pronunciato contro Martov e riportato nel volume sul Terrorismo) ma la forma che esso aveva assunto era errata: il modello militare era diventato un pregiudizio funesto e gli eserciti del lavoro fallirono. Interesse di Leone Davidovi per l’americanismo; suoi articoli, sue inchieste sul ‘byt’ e sulla letteratura, queste attività erano meno sconnesse tra loro di quanto poteva sembrare, poiché i nuovi metodi di lavoro sono indissolubili da un determinato modo di vivere, di pensare e di sentire la vita: non si possono ottenere successi in un campo senza ottenere risultati tangibili nell’altro.” (Q, 2164)

 

La novità dell’analisi gramsciana (del 1934) sta nella individuazione dei rapporti concreti tra le scelte economiche e le scelte politiche nella spiegazione del fenomeno stalinista. Gramsci individua nella politica di industrializzazione accelerata – proposta prima da Trotskij e di seguito realizzata da Stalin – una risposta alla crisi non corrispondente al livello dell’acquisizione da parte delle masse operaie e contadine di quei comportamenti collettivi (“complesse e rigide norme e abitudini di ordine, di esattezza, di precisione”) che sono funzionali ai nuovi metodi produttivi. Così stando le cose, l’industrializzazione accelerata comportava l’impiego diretto (nelle fabbriche) ed indiretto (al livello statale) di mezzi coercitivi esteriori, che imponessero autoritariamente la disciplina nella produzione e adeguassero i costumi alle necessità del lavoro. Al livello della vita statale tale contraddizione comporta il pericolo della riduzione della politica alla attività repressiva, a ciò che Gramsci qui denomina ‘una forma di bonapartismo’ (il cui contenuto si può desumere dal riferimento gramsciano alle sue prime manifestazioni nel 1921: prima epurazione nel partito, drastica restrizione della dialettica politica interna).

 

L’attenzione con cui Gramsci seguì lo sviluppo del problema si riflette in una significativa correzione dalla prima alla seconda stesura. Nella prima (Quaderno 4, degli anni 1930-32) scrive che “la ‘volontà’ di dare la supremazia all’industria e ai metodi industriali, di accelerare con mezzi coercitivi la disciplina e l’ordine nella produzione, di adeguare i costumi alle necessità del lavoro [...] sarebbe sboccata necessariamente in una forma di bonapartismo, perciò fu necessario stroncarla inesorabilmente” (Q, 489). Confrontando questa prima stesura con la seconda (Quaderno 22, del 1934) – già riportata – si può notare come Gramsci dapprima parla di una avvenuta stroncatura di una tendenza che altrimenti sarebbe sboccata in una forma di bonapartismo, dopo pone al presente la necessità di stroncare la tendenza che intanto era sboccata nello stalinismo.

 

Il problema individuato da Gramsci della imposizione coatta dei nuovi comportamenti collettivi funzionali ai nuovi rapporti e metodi di produzione, pone in luce la realtà di un inadeguato sviluppo della nuova cultura, di una coscienza scientifica di massa. Alla crescita accelerata sul terreno economico (industrializzazione, collettivizzazione, pianificazione) non corrispose un rapido accrescimento della soggettività collettiva, una riforma intellettuale e morale, ciò che abbiamo già definito nei termini più comprensivi di un aumento della divaricazione tra lo sviluppo della ‘struttura’ e della ‘superstruttura’. Quale la ragione di questo squilibrio? La risposta non può essere individuata in una mancata consapevolezza – del problema e della necessità di produrre un rapido sviluppo della cultura e della coscienza collettiva – nei dirigenti della rivoluzione, nel partito e nel sindacato. Agli inizi degli anni Venti si dispiegò una ampia discussione su questi temi: intervennero gli organizzatori del Proletkult, Lenin, Bucharin, Trotskij ecc. La ragione va piuttosto ricercata nel complesso dei problemi storico-politici che in precedenza abbiamo individuato e nelle risposte che ad esso fu dato. La scelta della industrializzazione e della militarizzazione della produzione e del lavoro fu la risposta pratica al problema culturale, come osserva Gramsci quando annota che “i metodi di lavoro sono indissolubili da un determinato modo di vivere, di pensare e di sentire la vita: non si possono ottenere successi in un campo senza ottenere risultati tangibili nell’altro”.

 

Intimamente connesso con questi problemi che mostrano la persistenza e la specifica direzione di sviluppo della ‘grande crisi’ nell’Unione Sovietica è il problema del conflitto tra il nazionalismo della vita statale ed il cosmopolitismo della vita economica. Questo elemento della crisi assume in Unione Sovietica specifiche connotazioni. La contraddizione attinge una estrema acutezza, date le condizioni create dai nuovi rapporti sociali instauratisi e dagli indirizzi politici del nuovo potere statale. La tendenza al cosmopolitismo era parte essenziale dei processi economici e politici: a) dato il carattere internazionale della classe salita al potere; b) dato l’internazionalismo dell’ideologia che guidava il processo rivoluzionario; c) data l’esigenza di razionalizzazione economica mondiale derivante dai rapporti socialisti di produzione e dai nuovi metodi di regolazione dell’economia (la pianificazione). Tutti questi fattori erano attivamente operanti in quegli anni in Unione Sovietica; che la rivoluzione non si realizzasse anche in altri grandi paesi capitalisti era visto come il maggior pericolo per la sopravvivenza della stessa rivoluzione russa, ed il problema costituito da questa carenza restò drammaticamente aperto fino a quando non fu elaborata la concezione del ‘socialismo in un paese solo’. A questo bisogno di internazionalismo corrispose invece l’attivo isolamento dell’Unione Sovietica da parte dei paesi capitalisti, che portò l’Unione Sovietica alla chiusura nazionalistica come previsione dello stato di guerra e ad una esasperazione del sentimento di indipendenza, di autonomia e di potere. L’industrializzazione accelerata fu in questo contesto la risposta pratica alla contraddizione, che permise la sopravvivenza dei processi storico-politici aperti dalla rivoluzione russa. Questo tuttavia non costituì il superamento della crisi, ma piuttosto la sua stabilizzazione negli specifici indirizzi assunti da essa in Unione Sovietica.

 

Sulla grande crisi in Occidente.

 

Gli indirizzi assunti dalla crisi in Occidente Gramsci li esamina centrando il discorso sulla razionalizzazione capitalistica negli Stati Uniti. Seguitando la stesura del paragrafoRazionalizzazione della produzione e del lavoro, scrive: “In America la razionalizzazione del lavoro e il proibizionismo sono indubbiamente connessi: le inchieste degli industriali sulla vita intima degli operai, i servizi di ispezione creati da alcune aziende per controllare la ‘moralità’ degli operai sono necessità del nuovo metodo di lavoro. Chi irridesse a queste iniziative (anche se andate fallite) e vedesse in esse solo una manifestazione ipocrita di ‘puritanismo’, si negherebbe ogni possibilità di capire l’importanza, il significato e la portata obbiettiva del fenomeno americano, che è anche il maggior sforzo collettivo verificatosi finora per creare con rapidità inaudita e con una coscienza del fine mai vista nella storia, un tipo nuovo di lavoratore e di uomo. La espressione ‘coscienza del fine’ può sembrare per lo meno spiritosa a chi ricorda la frase del Taylor sul ‘gorilla ammaestrato’. Il Taylor infatti esprime con cinismo brutale il fine della società americana: sviluppare nel lavoratore al massimo grado gli atteggiamenti macchinali ed automatici, spezzare il vecchio nesso psico-fisico del lavoro professionale qualificato che domandava una certa partecipazione attiva dell’intelligenza, della fantasia, dell’iniziativa del lavoratore e ridurre le operazioni produttive al solo aspetto fisico macchinale. Ma in realtà non si tratta di novità originali: si tratta solo della fase più recente di un lungo processo che si è iniziato col nascere dello stesso industrialismo, fase che è solo più intensa delle precedenti e si manifesta in forme più brutali, ma che essa pure verrà superata con la creazione di un nuovo nesso psico-fisico di un tipo differente da quelli precedenti e indubbiamente di un tipo superiore. Avverrà ineluttabilmente una selezione forzata, una parte della vecchia classe lavoratrice verrà spietatamente eliminata dal mondo del lavoro e forse dal mondo tout court.” (Q, 2164-5)

 

Intanto Gramsci pone subito in evidenza come anche negli Stati Uniti il problema centrale nello sviluppo della crisi stava nella costruzione di nuovi comportamenti collettivi funzionali allo sviluppo dei metodi di produzione e di lavoro propri della nuova fase della storia dell’industrialismo. Questo problema, a differenza che nell’Unione Sovietica, era negli Stati Uniti il problema di una classe dominante – la classe borghese – che in funzione della propria espansione doveva costruire tali comportamenti in altre classi, le classi lavoratrici. Da questo modo di impostare la questione risulta come il problema che si presentava alla classe borghese non era solo quello di conservare e riprodurre la subordinazione delle classi lavoratrici (che è l’aspetto generalmente rilevato da parte marxista), ma insieme quello di trasformare strutturalmente le classi lavoratrici; il problema non era quindi di mantenere cristallizzati i rapporti sociali dati, la posizione e la composizione delle classi sociali, bensì di dirigere i mutamenti delle classi sociali in modo tale da espandere la propria classe elaborando forme superiori di dominio. Posizione dunque non puramente conservatrice, ma corrispondente all’obiettivo di passare ad una nuova fase del capitalismo. Parimenti che in Unione Sovietica, negli Stati Uniti si poneva l’esigenza della elaborazione pratica di una nuova morale e di una nuova coscienza collettiva, ciò che mostra come il taylorismo e più in generale i metodi di razionalizzazione del lavoro non sono riducibili a processi puramente tecnici o comunque limitati settorialmente a parti della vita sociale (il lavoro nelle fabbriche, il lavoro burocratico), ma piuttosto sono processi che ristrutturano complessivamente la vita economica e politica, il modo di sentire, di volere, di pensare e di operare degli uomini e delle classi.

 

Il fenomeno americano è una risposta a questi problemi, una seconda risposta alla crisi, la cui importanza, significato e portata storica Gramsci riconosce come “il maggior sforzo collettivo verificatisi finora per creare con rapidità inaudita e con una coscienza del fine mai vista nella storia, un tipo nuovo di lavoratore e di uomo”.

 

Gramsci pone in evidenza che il fenomeno americano consiste in un complesso ed organico processo di razionalizzazione, che muta gli uomini e le classi in modo tale da coinvolgerli attivamente nella realizzazione del progetto e dei fini propri della classe borghese; ciò che non si esaurisce nella ricerca del consenso, ma che si svolge al livello di una trasformazione antropologica, ristrutturando ‘il nesso psico-fisico del lavoro’, e della costruzione di una nuova classe operaia, ristrutturando la vecchia classe lavoratrice. Ma questa grandiosa opera di razionalizzazione è indirizzata verso fini riduttivi delle potenzialità umane: sviluppando nei lavoratori i comportamenti macchinali ed automatici si limita e si controlla la partecipazione attiva della loro intelligenza, fantasia, iniziativa. La piena consapevolezza di questo fine da parte dei settori più avanzati della classe borghese, nel contesto del mantenimento e della intensificazione dei rapporti di sfruttamento, si manifesta nel cinismo brutale di una classe che dichiara senza ipocrisia i propri scopi.

 

Questa risposta americana alla crisi non ne costituisce un superamento, ma anche in questo caso una sua stabilizzazione. L’insufficienza di questa risposta ai problemi della crisi è rilevata da Gramsci nel primo paragrafo del Quaderno 22, intitolato Americanismo e fordismo, laddove scrive che “le risoluzioni di essi [problemi] sono necessariamente impostate e tentate nelle condizioni contraddittorie della società moderna, ciò che determina complicazioni, posizioni assurde, crisi economiche e morali a tendenza spesso catastrofica, ecc. Che un tentativo progressivo sia iniziato da una o altra forza sociale non è senza conseguenze fondamentali: le forze subordinate, che dovrebbero essere ‘manipolate’ e razionalizzate secondo i nuovi fini, resistono necessariamente. Ma resistono anche alcuni settori delle forze dominanti, o almeno alleate delle forze dominanti. Il proibizionismo, che negli Stati Uniti era una condizione necessaria per sviluppare il nuovo tipo di lavoratore conforme a un’industria fordizzata, è caduto per l’opposizione di forze marginali, ancora arretrate, non certo per l’opposizione degli industriali o degli operai ecc.” (Q, 2139) Non solo: la crisi prosegue specialmente in quanto allo sviluppo di nuovi comportamenti sul terreno economico non corrisponde una trasformazione culturale complessiva organica a quei comportamenti. La contraddizione data dal diseguale sviluppo della ‘struttura’ e della ‘superstruttura’ si manifesta nella espansione dei fenomeni di delinquenza organizzata, dei psico-farmaci, delle crisi morali delle nuove generazioni e, aggiunge Gramsci, nella “enorme diffusione nel dopoguerra” della psicoanalisi “come espressione dell’aumentata coercizione morale esercitata dall’apparato statale e sociale sui singoli individui e delle crisi morbose che tale coercizione determina” (Q, 2140).

 

Una terza risposta alla crisi, che segna una variante di stabilizzazione capitalistica di essa in alcuni Stati europei, è configurata dal fenomeno fascista. Ci limiteremo ad analizzare il fenomeno soltanto in relazione ai problemi prima considerati. Da questo punto di vista, il fenomeno fascista è analizzato da Gramsci come il modo assunto - dal processo di costruzione dei nuovi comportamenti collettivi adatti all’espansione dell’industrialismo – nei paesi europei in cui non c’è ciò che egli chiama ‘una composizione demografica razionale’.

 

“L’americanismo – scrive nel paragrafo intitolato Razionalizzazione della composizione demografica europea -, nella sua forma più compiuta, domanda una condizione preliminare, di cui gli americani che hanno trattato questi problemi non si sono occupati, perché essain America esiste ‘naturalmente’: questa composizione si può chiamare ‘una composizione demografica razionale’ e consiste in ciò che non esistano classi numerose senza una funzione essenziale nel mondo produttivo, cioè classi assolutamente parassitarie. La ‘tradizione’, la ‘civiltà’ europea è invece proprio caratterizzata dall’esistenza di classi simili, create dalla ‘ricchezza’ e ‘complessità’ della storia passata che ha lasciato un mucchio di sedimentazioni passive attraverso i fenomeni di saturazione e fossilizzazione del personale statale e degli intellettuali, del clero e della proprietà terriera, del commercio di rapina e dell’esercito prima professionale poi di leva, ma professionale per l’ufficialità.” (Q, 2141)

 

Ora, in America, “poiché esistevano queste condizioni preliminari, già razionalizzate dallo svolgimento storico, è stato relativamente facile razionalizzare la produzione e il lavoro combinando abilmente la forza (distruzione del sindacalismo operaio a base territoriale) con la persuasione (alti salari, benefizi sociali diversi, propaganda ideologica e politica abilissima) e ottenendo di imperniare tutta la vita del paese sulla produzione. L’egemonia nasce dalla fabbrica e non ha bisogno per esercitarsi che di una quantità minima di intermediari professionali della politica e dell’ideologia.” (Q, 2145-6)

 

Diversamente da quanto accade in America, “in Europa i diversi tentativi di introdurre alcuni aspetti dell’americanismo e del fordismo sono dovuti al vecchio ceto plutocratico, che vorrebbe conciliare ciò che, fino a prova contraria, pare inconciliabile, la vecchia e anacronistica struttura sociale-demografica europea con una forma modernissima di produzione e di modo di lavorare quale è offerta dal tipo americano più perfezionato, l’industria di Enrico Ford. Perciò l’introduzione del fordismo trova tante resistenze ‘intellettuali’ e ‘morali’ e avviene in forme particolarmente brutali e insidiose, attraverso la coercizione più estrema. La reazione europea all’americanismo è pertanto da esaminare con attenzione: dalla sua analisi risulterà più di un elemento necessario per comprendere l’attuale situazione di una serie di Stati del vecchio continente e gli avvenimenti politici del dopoguerra.” (Q, 2140-1) Il riferimento al fenomeno fascista è evidente. In questa analisi Gramsci coglie elementi di spiegazione del fenomeno fascista solitamente non considerati, la cui ‘necessarietà’ per una sua comprensione esplicitamente sottolinea.

 

L’interpretazione del fascismo come reazione difensiva delle classi dominanti dal pericolo rivoluzionario – fattosi più concreto a seguito della rivoluzione russa -, che coglie un elemento politico del processo, dimentica che il fascismo costituì anche un momento dello sviluppo capitalistico, in date condizioni. Il fascismo fu anche una risposta alle esigenze interne della espansione del capitalismo e delle sue classi dominanti. In effetti, l’approntamento negli Stati Uniti di nuove tecnologie e nuovi metodi di lavoro e la competizione tra gli Stati capitalistici per il controllo del mercato, ponevano ai paesi capitalistici meno sviluppati e aperti l’esigenza di cercare rapidamente e con ogni mezzo di ammodernarsi. Tale progetto di razionalizzazione capitalistica urta nella composizione demografica irrazionale, trova resistenza nei vecchi comportamenti e si avvia perciò attraverso la coercizione più estrema. D’altra parte, mentre negli Stati Uniti promotori del progetto furono i ceti imprenditoriali più avanzati, in una serie di Stati del vecchio continente “i diversi tentativi di introdurre alcuni aspetti dell’americanismo e del fordismo sono dovuti al vecchio ceto plutocratico”, il quale vorrebbe avere “tutti i benefizi che il fordismo produce nel potere di concorrenza, pur mantenendo il suo esercito di parassiti che divorando masse ingenti di plusvalore, aggravano i costi iniziali e deprimono il potere di concorrenza sul mercato internazionale” (Q, 2141). Il fenomeno fascista esprime di conseguenza una pretesa irrealistica, fallisce nel tentativo di superare la crisi e ne rappresenta un allargamento.

 

Le due varianti della stabilizzazione capitalistica della crisi - il fenomeno americano e il fenomeno fascista - affrontano anche quelle altre contraddizioni che, come abbiamo mostrato, costituiscono elementi della crisi mondiale. Alla contraddizione tra nazionalismo della vita statale e internazionalismo della vita economica la risposta più vistosa fu il “tentativo di dare una organizzazione giuridica stabile ai rapporti internazionali” (Q, 1824), espresso nella costituzione, ad esempio, della Società delle Nazioni; tentativo che andò presto incontro al fallimento. Agli squilibri del mercato (rapporti di forza tra le classi e tra gli Stati) la risposta fu il tentativo “di giungere all’organizzazione di un’economia programmatica” (Q, 2139), e di definire un nuovo modo d’intervento dello Stato nell’economia.


Sull’insufficienza delle tre risposte alla grande crisi.


È evidente che la stabilizzazione e l’allargamento della crisi prodotte da queste tre risposte non ha comportato l’arresto o il blocco dell’espansione economica; lo sviluppo delle forze produttive è andato avanti con rapidità inaudita sia in Unione Sovietica che in Occidente. Ma allora la crisi non trattenne lo sviluppo? Servì forse a stimolarlo? Per rispondere a queste domande occorre tener presente che le crisi definiscono fasi storiche di accelerato processo trasformativo: “Si potrebbe allora dire, e questo sarebbe il più esatto, che la ‘crisi’ non è altro che l’intensificazione quantitativa di certi elementi, non nuovi e originali, ma specialmente l’intensificazione di certi fenomeni, mentre altri che prima apparivano e operavano simultaneamente ai primi, immunizzandoli, sono divenuti inoperosi o sono scomparsi del tutto [...] un rapidissimo movimento di elementi che si equilibravano ed immunizzavano. Ad un certo punto, in questo movimento, alcuni elementi hanno preso il sopravvento, altri sono spariti o sono divenuti inetti nel quadro generale.” (Q, 1756-7)

 

Di fronte a ciò sta il mancato sviluppo di una teoria scientifica che fosse in condizione di comprendere la crisi e di elaborare una razionalità teorico-scientifica tale da fondare ed avviare una nuova razionalità storico-politica. La mancata elaborazione e diffusione della scienza della storia e della politica ridusse all’impotenza di fronte alla crisi ogni tentativo di costruire quelle attività pratiche e teoriche, quei nuovi comportamenti collettivi, quei nuovi modi di essere, di volere, di pensare e di operare che potevano significare l’effettivo superamento della crisi stessa e l’inizio di una nuova epoca politica. Le tre concrete strade che la crisi seguì segnarono la sconfitta del progetto e delle previsioni di Marx sullo sviluppo delle società capitalistiche più avanzate, del progetto di Lenin sulla costruzione del socialismo in Unione Sovietica, di Gramsci nella sua lotta teorica e pratica immediata.

 

Le risposte concretamente date alla crisi trovarono piuttosto espressione teorica in Unione Sovietica nella sociologia-tendenza deteriore del marxismo, in Occidente nella sociologia-scienza sociale come e alternativa al marxismo. (Negli Stati fascisti europei nel dopoguerra non furono elaborate risposte teoriche articolate. Tale carenza è supplita da una ideologia composita ed eclettica; nei confronti della sociologia poi il fascimo assume un atteggiamento contraddittorio, espressione delle limitazioni proprie del suo progetto di razionalizzazione.) In effetti fu tramite queste elaborazioni – delle quali nella prima parte del libro abbiamo delineato le caratteristiche e svolto la critica – che i gruppi dirigenti e le classi al potere nei diversi tipi di Stato acquistarono coscienza dei propri fini ed approntarono specifiche risposte ai compiti immediati che avevano di fronte: a) costruzione degli strumenti teorici per guidare la raccolta delle informazioni e l’approntamento delle decisioni statali; b) formazione degli intellettuali, dei tecnici e dei funzionari responsabili della organizzazione e realizzazione del progetto ai vari livelli; c) la diffusione di massa dei nuovi indirizzi e la costruzione del consenso.

 

(Vedi Nota teorica VIII)


Attualizzazione. I concetti della teoria della crisi organica che sono serviti a comprendere le manifestazioni della crisi d’inizio del Novecento e le tre risposte che ricevette questa crisi (stalinismo, americanismo, fascismo) paiono conservare validità e utilità per comprendere la situazione di crisi che stiamo vivendo attualmente. Questo richiede di essere spiegato, dal momento che nel secolo scorso si sono verificati grandi cambiamenti tecnologici, economici, politici e culturali.

 

La ragione di questa persistente validità può essere individuata nel fatto che questa scienza della storia e della politica è nata precisamente per comprendere e dare una risposta progressiva ad una crisi organica che lungo tutto il secolo ha ricevuto risposte regressive, insufficienti a superarla, e che soltanto hanno consentito il suo prolungamento nel corso delle sue decadi, e perciò continua e torna a presentarsi oggi irrisolta. In questo senso la validità e l’utilità di queste analisi derivano dal fatto che siamo in presenza dello stesso ‘presente storico’ come è inteso da questa stessa scienza - tutta quella situazione storico-politica caratterizzata da una medesima ‘situazione pratica’, e cioè dalla persistenza di determinati comportamenti regolari generalizzati.

 

Ciò non vuol dire che in tutto questo lungo periodo storico non ci siano stati cambiamenti e novità economiche, politiche e culturali, che dobbiamo analizzare e comprendere. Difatti, anzitutto c’è stata la Seconda Guerra Mondiale. Sono caduti uno dopo l’altro i fascismi, più tardi è crollato il sistema comunista, e finalmente si sta sgretolando il fenomeno americano. Abbiamo assistito dunque al logoramento progressivo delle ‘tre grandi risposte’ che furono date alla ‘grande crisi’. Con lo stesso impianto teorico col quale abbiamo analizzato la grande crisi e le tre risposte possiamo ora comprendere questi cambiamenti storici posteriori e la situazione attuale della crisi organica.

 

Sul significato della Seconda Guerra Mondiale in relazione alla grande crisi.

 

Il primo grande accadimento storico posteriore all’analisi gramsciana della crisi è stato la Seconda Guerra Mondiale. Gramsci, come abbiamo visto, aveva previsto negli anni 1933-4 che la guerra sarebbe stata l’inevitabile conseguenza: della ‘contraddizione tra il cosmopolitismo della vita economica ed il nazionalismo della vita statale’; della ‘competizione tra i gruppi economici dominanti nazionali’ negli Stati impegnati nelle tre risposte alla grande crisi; del cambiamento dei rapporti di forza nel mercato determinato mondiale; del ‘fallimento della Società delle Nazioni come tentativo di dare una organizzazione giuridica stabile alle relazioni internazionali’; della ‘mancanza di un luogo di confronto politico, mediazione e ricomposizione’ quale sarebbe potuta essere una istituzione statale sovranazionale’; della ‘mancanza di una dialettica politica dei rapporti di forza internazionali’, sicché ‘il momento militare (dei rapporti di forza) è ciò che si impone’.

 

Noi possiamo oggi analizzare e valutare le conseguenze della Seconda Guerra ed i suoi effetti. Della Seconda Guerra intesa come risposta alla crisi possiamo dire non che abbia significato il superamento della ‘crisi organica globale’, bensì la risoluzione della ‘grande crisi economico-finanziaria’ iniziata negli anni 1929-30, di modo che la crisi organica si stabilizzò e potè prolungarsi per decadi, mentre l’economia sperimentò una notevole crescita continua.

 

L’impressionante spinta economica che si osserva a partire dal secondo dopoguerra è da spiegarsi come effetto della guerra stessa e dell’economia di guerra, ciò che è rimasto abbastanza in ombra per ragioni ideologiche. In effetti la guerra pose le basi tecnologiche, sociali, istituzionali, politiche e demografiche che spiegano il grande balzo sperimentato dall’economia almeno nei trenta anni seguenti. Vanno sottolineati in particolare i seguenti sette effetti della Seconda Guerra, ognuno di essi condizione della crescita economica posteriore:

 

1.La guerra generò notevoli innovazioni tecnologiche (nei settori dell'energia, delle comunicazioni, della navigazione e del trasporto marittimo e terrestre, dell'aviazione, l’ingegneria di opere civili, l’ingegneria industriale, l’automazione, l’elettronica, l’industria chimica, la medicina, la produzione di alimenti, ecc.) le quali poi, applicate nella produzione e nell'economia, spinsero l'innovazione produttiva ed una incredibile espansione della produttività.

 

2.Produsse un grande accumulo di capitale, in gran parte concentrato nelle mani dello Stato, che consentì a questo di essere un attore decisivo della industrializzazione, della urbanizzazione, della tecnologia, dell’educazione, della sanità, ecc.

 

3.Diede luogo ad una efficiente e disciplinata classe lavoratrice, la quale era necessaria allo sviluppo industriale.

 

4.Permise di ottenere una sorprendente disciplina sociale, che ha facilitato il consolidamento di istituzioni fondamentali per lo sviluppo.

 

5.Diede legittimità allo Stato per implementare politiche fiscali (imposte elevate) e distributive (Stato del Benessere), che hanno consentito di mantenere lo Stato come un attore economico principale.

 

6.Creò le condizioni per mobilitare risorse naturali, sociali e demografiche in vista della realizzazione di grandi progetti nazionali.

 

7.Istituì e consolidò una divisione internazionale del mercato (con termini di scambio estremamente disuguali), la quale generò un sistematico trasferimento di risorse verso Stati Uniti e Europa, dall’America Latina, l’Asia, l’Africa e il resto del mondo, che sono rimasti nel sottosviluppo.

 

A tutto ciò dobbiamo aggiungere un'altra condizione, che non è stato effetto diretto della guerra, ma che ha avuto un impatto significativo sulla crescita economica nella seconda metà del secolo scorso: l’impressionante espansione della disponibilità di energia a basso costo, specialmente proveniente dagli idrocarburi.. In tal modo - come effetto immediato della guerra e come attore in grado di sfruttare le opportunità create nl corso di essa – lo Stato è potuto diventare, nei paesi sviluppati, un grande motore della crescita economica.


Sul keynesismo ed i suoi effetti.

 

Il keynesismo fu la concezione economica che accompagnò per trenta anni dopo la Seconda Guerra lo sviluppo economico, e a questa concezione di politica economica viene attribuito solitamente il merito di una distribuzione più equa della ricchezza, attraverso politiche sociali e di benessere. È molto diffusa la credenza di attribuire alle politiche keynesiane – semplificate nelle idee di un maggior intervento dello Stato nell’economia, della espansione del credito mediante l’incremento della emissione monetaria e la riduzione dei tassi di interesse, e di maggiori regolazioni tendenti a canalizzare l’azione dei privati nel mercato in vista del favorire l’occupazione, l’industrializzazione e le opere pubbliche – il superamento della ‘grande crisi’ finanziaria degli anni Trenta, così come l’aumento del consumo e del benessere sociale fino agli anni Settanta. Ma a queste credenze sul keynesismo diffuse e proclamate per l’intera seconda metà del secolo scorso occorre fare alcune importanti correzioni.


Anzitutto, occorre riconoscere che il New Deal messo in opera da Roosevelt tra il 1933 e il 1937, lungi dal salvare il mondo dalla grande depressione - come si crede - fece in realtà che la crisi finanziaria si prolungasse fino all’inizio della Seconda Guerra. Questa pose le basi per un grande incremento della produzione e della produttività del lavoro, del capitale e della tecnologia. Al termine della guerra la produzione deve essere riorientata complessivamente, non essendo tanto necessari i cannoni quanto il burro, vale a dire si riorienta verso il consumo degli individui e dei gruppi. Però questa aumentata e crescente produzione non trova predisposti la domanda ed il potere d’acquisto corrispondenti, di modo che lo Stato si pone da un lato come creatore dei mezzi di pagamento in possesso degli individui (attraverso la emissione monetaria e l’abbassamento dei tassi d’interesse) e dall’altro come grande domandante della nuova produzione (attraverso le politiche pubbliche di espansione dell’educazione, dei servizi di sanità e di previdenza sociale, della costruzione di case sociali e opere pubbliche, di centri di ricreazione ecc.)

 

J.M.Keynes fu il teorico di questa politica. Così come nella fase precedente della crisi organica occorreva costruire un nuovo tipo di lavoratore, in questa nuova fase diventava necessario costruire un nuovo tipo di consumatore (l’individuo consumista e lo Stato consumatore). Questo implica uno spostamento del centro di interesse teorico, che precedentemente era stato posto nella produzione, verso la distribuzione e il consumo. Erano le attività ed i comportamenti di consumo ciò che bisognava espandere rapidamente; ma questo urtava contro le credenze ortodosse dell’economia classica, e contro le idee di moderazione e di frugalità che si erano diffuse nella fase anteriore. Keynes è il teorico di questo spostamento, che risulta magistralmente illustrato in questo brano: “Quanto più virtuosi siamo, quanto più risolutamente frugali, e più ostinatamente ortodossi nelle nostre finanze personali e nazionali, tanto più tenderanno a diminuire i nostri redditi quando l’interesse salga relativamente all’efficienza marginale del capitale. La ostinazione può comportare soltanto una punizione e non una ricompensa, poiché il risultato è inevitabile. Pertanto, dopo tutto, i tassi reali di risparmio e di spesa totali non dipendono dalla precauzione, la previsione, il calcolo, il miglioramento, l’indipendenza, l’impresa, l’orgoglio o l’avarizia. La virtù e il vizio non hanno nulla a che vedere con quelli.” (J.M.Keynes, Teoria generale della occupazione, dell’interesse e della moneta, 1936, pagina 105) Keynes è abbondantemente reiterativo, e propone come illustrazione di questi concetti la favola dell’arnia rumorosa o la redenzione dei briganti i cui versi principali recitano così: “Ahi, ma in questo concerto / del commercio e l’onestà / il nido d’ape di antica ricchezza / va rimanendo deserto! / Poiché se il vizio a rubinetto aperto / sperperava milioni / alimentava tanti / che oggi restano senza ufficio / e rimpiangendo il vizio / emigrano ad altre regioni. / Poiché se ben si osserva/ l’incorruttibile virtù / non è pegno di salute...”

 

La creazione dei nuovi consumatori (privati e pubblici) – essendo un compito molto più facile di quello di creare un nuovo tipo di lavoratore richiesto dai nuovi metodi di produzione e di lavoro – ebbe successo e la domanda e il potere d’acquisto necessari in questa fase dello sviluppo capitalistico si espansero notevolmente nei tre decenni seguenti la Seconda Guerra.

 

Ma politiche neo-keynesiane irresponsabili sul piano monetario, un eccesso di regolamentazioni statali, tasse troppo alte, e una grande pressione politica e sociale tese a fare che lo Stato assolvesse a tutte le necessità collettive e / o alle domande corporative che abbiano attinto una certa notorietà, condussero a che in soli 30 - 35 anni, la dinamica economica si indebolisse, la moneta si degradasse, e si ripresentasse la crisi finanziaria alla fine degli anni settanta e l'inizio degli ottanta nella forma della crisi fiscale dello Stato.


La risposta a questa nuova fase della crisi fu guidata dal neo-liberismo e consistette in una forte riduzione delle dimensioni e delle funzioni dello Stato, in politiche di privatizzazione di imprese e di attivi pubblici per generare i redditi di cui lo Stato necessitava per sostenere la spesa pubblica, e la rivitalizzazione del mercato come principale assegnatore delle risorse e distributore della ricchezza. Al fine di mantenere gli elevati e crescenti livelli di domanda necessari a dare sbocco alla crescita della produzione si generarono forti politiche espansive dell’indebitamento privato, specialmente attraverso una generalizzata bancarizzazione degli individui, che diede luogo ad una notevole espansione del credito ipotecario e di consumo. Le istituzioni pubbliche e le comunicazioni di massa si posero al servizio dell’espansione del consumo, della spesa e dell’indebitamento privato.

 

Con il neo-keynesimo si promosse la spesa e l’indebitamento pubblico, con il neo-liberismo la spesa e l’indebitamento privato. Entrambe queste concezioni di politica economica, che sono solitamente intese come contrapposte, sono in realtà due momenti successivi di una medesima risposta al problema economico fondamentale consistente nella necessità di generare la domanda (consumo) che richieveva la crescita della produzione a partire dalla fine della Seconda Guerra. Questa crescita, come abbiamo visto, è stata effetto delle sette condizioni createsi nel corso della Seconda Guerra, ma, più profondamente, deve intendersi come la necessità (che viene da molto prima) di un ordine economico-politico in crisi organica, ordine che soltanto ha potuto sostenersi e prolungarsi in base alla crescita della produzione e del consumo, senza la quale non sarebbe stata possibile la stabilizzzazione politico-sociale della crisi organica. Di fatto, la passività delle masse, necessaria a mantenere la ‘situazione pratica del primo tipo’ che è in crisi, è stata possibile soltanto sulla base di questa crescita costante della produzione e del consumo.

 

Sulla crisi attuale e i suoi possibili esiti.


Sono passati altri trenta anni e ci troviamo oggi di fronte all’esaurimento di questa fase neo-liberista di risposta alla crisi. L’eccessivo indebitamento accumulativo che adesso investe sia gli Stati e le istituzioni pubbliche che gli individui e le imprese, non consente più di continuare con l’espansione del consumo, il che si ripercuote direttamente nella impossibilità di continuare con la crescita della produzione. Crescita della produzione che, a sua volta, sta incontrando i suoi propri limiti nell’esaurimento di certe risorse naturali, specialmente energetiche, e negli effetti negativi sull’ambiente (squilibri ecologici).

 

In questo nuovo contesto di crisi alcuni immaginano la possibilità di una nuova risposta di genere keynesiano che faccia riassurgere lo Stato a motore della produzione e del consumo. Questa idea nasce dalla errata considerazione del neo-liberismo come contrapposto al keynesismo. Si suppone che, esaurito il neo-liberismo, sia ora di tornare al keynesismo. L’errore risiede nel non rendersi conto che il keynesismo fu un modo di affrontare la necessità di creare domanda pubblica e privata per una produzione che poteva crescere acceleratamente. Oggi però questa crescita non può continuare, essendo limitata dalla scarsità di risorse energetiche e altre, mentre la crescita del consumo è limitata dall’eccessivo indebitamento privato.

 

Che resta oggi delle sette condizioni della crescita del secondo dopoguerra? In verità, lo Stato e il consumismo (pubblico e privato) sembrano averle sperperate. In effetti, quelle condizioni non esistono più e la situazione è completamente diversa. Vi era allora un evidente subconsumo, oggi stiamo uscendo dal superconsumo. Scarseggiava il denaro a causa degli alti tassi di interesse, oggi abbonnda la emissione monetaria, con tassi di interessi molto bassi per molto tempo. Vigeva il regime aureo, che forniva un eccessivo sostegno al denaro, oggi il denaro è creato ‘ex nulla’ ed è sostenuto soltanto dal credito. In quel tempo era fortemente premiato il risparmio, oggi viene punito dalla inflazione e dai bassi tassi di interesse.

 

A causa di tutto ciò non vediamo lo Stato come protagonista di una nuova fase di crescita della produzione e del consumo, poiché:

a) Non sembra capace di generare dinamiche consistenti di innovazione tecnologica. 
b) Lungi dal disporre di abbondanti capitali accumulati, la maggior parte degli Stati sperimentano un disavanzo elevato. 
c) Non sembra in grado di disciplinare e motivare i cittadini in un grande sforzo di sviluppo nazionale. 
d) Le istituzioni pubbliche sono indebolite, spesso anche eticamente corrotte, e hanno poca capacità di entusiasmare nella prospettiva di grandi progetti nazionali. 
e) L'eccessivo sfruttamento delle risorse naturali pone limiti (anche culturali) alla crescita, tenuto conto del problema ambientale e dell'ecologia. 
f) L'emergere economico e politico di grandi paesi che erano nel sottosviluppo, limita oggi il facile trasferimento delle loro risorse verso i paesi avanzati. 
g) La disponibilità di energia a basso costo è seriamente minacciata. 

Nessuna di quelle condizioni, che nel secondo dopoguerra hanno reso possibile allo Stato di affermarsi come il grande agente dello sviluppo, possono ora essere attivate da un nuovo conflitto militare. Al contrario, dalla guerra non ci si può aspettare oggi altro che l'accelerazione della distruzione di ricchezza e il declino economico, sociale e culturale. 

Se è così, come si potrà uscire da questa crisi? Se non saranno né il keynesismo né il liberismo, quale altra alternativa di risposta si può formulare? Per rispondere a queste domande dobbiamo ripercorrere la storia della ‘crisi organica’ e individuare in che momento di essa ci troviamo oggi.

 

La crisi organica comparve all’inizio del secolo scorso, quando le masse popolari iniziarono un processo di scissione e antagonismo rispetto l’ordine stabilito (primo tipo di situazione pratica), e si attivarono e organizzarono in sindacati, partiti e movimenti di massa. La prima risposta dei gruppi dominanti fu la prima guerra mondiale, e di seguito i fenomeni stalinista, americano e fascista. L’insufficienza di queste risposte portò alla seconda guerra mondiale, a seguito della quale la passività e il conformismo delle masse furono ottenuti attraverso la crescita costante della produzione e del consumo e lo sviluppo dello Stato del Benessere. L’esaurimento di queste risposte si manifesta nella attuale crisi detta finanziaria, la quale però in realtà non è altro che l’ultima manifestazione della crisi organica globale che ha segnato tutto un secolo della storia del mondo.

 

La questione che si presenta oggi è se possano i gruppi dominanti trovare e organizzare una nuova risposta alla crisi capace di prolungarla ancora per qualche tempo o sia questo la fine di un’epoca politica. Noi osserviamo nella realtà due tentativi di risposta.

 

Da un lato vediamo che i gruppi dominanti stanno organizzando in maniera più o meno consapevole una risposta regressiva, consistente nel mantenimento della passività delle grandi masse combinando: a) una diminuzione graduale e controllata del consumo; b) la creazione di un clima di insicurezza e timore; c) l’estensione di una ‘realtà virtuale’ che soddisfi artificialmente gli individui, li intontisca e li ponga come spettatori passivi di fronte agli schermi audiovisivi e negli eventi moltitudinari (sportivi, musicali, ludici, ecc.) Realizzandosi questa risposta si compirebbe il passaggio dall’ ‘uomo massa’ ad un tipo di uomo che chiameremo ‘uomo intontito’.

 

Da un altro lato vediamo numerosi piccoli gruppi, associazioni, comunita’ e reti indipendenti che tentano di sperimentare e trovare una soluzione progressiva alla crisi. L’affermazione di questa risposta farebbe sorgere un nuovo tipo di uomo che chiameremo ‘uomo autonomo e solidale’.

 

Queste due risposte si stanno sviluppando simultaneamente e nel corso dei prossimi anni misureranno la propria forza e capacità, l’una nel suo intento di consolidare la passività della massa, l’altra nel suo proposito di dissolvere le masse come tali e dare luogo alle iniziative individuali e gruppali autonome orientate verso una nuova superiore civiltà.


Capitolo 7. Teoria della burocrazia moderna.

 

L’analisi storico-critica del problema della burocrazia è, nel suo rapporto col problema della crisi, uno dei soggetti a partire dai quali si costiuisce la scienza della storia e della politica. Gramsci riconosce infatti a questo problema un “significato primordiale” nella costruzione della nuova scienza. Così inizia il paragrafo Sulla burocrazia: “Il fatto che nello svolgimento storico delle forme politiche ed economiche si sia venuto formando il tipo del funzionario ‘di carriera’, tecnicamente addestrato al lavoro burocratico (civile e militare) ha un significato primordiale nella scienza politica e nella storia delle forme statali.” (Q, 1632)

 

Sulla centralità del problema della burocazia nella teoria dello Stato.

 

Questa centralità del problema della burocrazia nella costruzione della scienza della storia e della politica deriva appunto dalla sua centralità “nella storia delle forme statali”, nella questione dello Stato. L’analisi della burocrazia non si può svolgere cioè indipendentemente da una analisi dello Stato, ma questa a sua volta non si può realizzare scientificamente che ponendo il problema della burocrazia nel nucleo dell’analisi.

 

Questo punto di vista costituisce una vera svolta riguardo al modo in cui la teoria dello Stato si è affermata nella tradizione marxista, dove il problema dello Stato è esaminato lasciando ai margini il problema della burocrazia. La tendenza a separare il problema della burocrazia dal problema dello Stato è già in Marx, il quale nell’analisi dello Stato stabilisce una netta distinzione tra il ‘contenuto’ di classe dell’apparato statale – che determina l’essenza, il carattere dello Stato – e le ‘forme’ istituzionali, che dello Stato costituiscono l’aspetto accidentale, la “apparenza”.

 

È pur vero che il giovane Marx affronta il problema della burocrazia nella Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico (opera d’altronde rimasta a lungo inedita); ma in questo stesso testo è già espressa la tendenza all’emarginazione del problema. In effetti Marx nella critica della concezione hegeliana dello Stato definisce la burocrazia come la parte formale dello Stato e l’analisi hegeliana come “semplice descrizione della situazione empirica di alcuni paesi” {K. Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, in Opere filosofiche giovanili, a cura di Galvano della Volpe, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 53.}

 

Il nocciolo della critica marxiana consiste precisamente nel contestare che l’analisi hegeliana attinga il livello della spiegazione teorica proprio perché incentrata nell’analisi della burocrazia. “Ciò che Hegel dice del ‘potere governativo’ – scrive Marx – non merita il nome di spiegazione filosofica. La maggior parte dei paragrafi potrebbero stare, parola per parola, nel codice civile prussiano; e tuttavia l’amministrazione propriamente detta è il punto più difficile da spiegarsi. Poiché Hegel ha già rivendicato alla sfera della società civile il potere di ‘polizia’ e il potere ‘giudiziario’, il potere governativo non è niente altro che l’amministrazione, ch’egli sviluppa comeburocrazia.” {Ivi, p. 57}E più avanti: “Il ‘formalismo di Stato’, ch’è la burocrazia, è lo ‘Stato come formalismo’, e Hegel l’ha descritta come un tale formalismo. In quanto questo ‘formalismo di Stato’ si costituisce in potenza reale e diventa esso stesso il suo proprio contenuto materiale, s’intende da sé che la ‘burocrazia’ è un tessuto di illusionipratiche ossia l’ ‘illusione dello Stato’.” {Ivi, p. 59}

 

Scrivendo che “l’amministrazione propriamente detta è il punto più difficile da spiegarsi”, Marx rilevava la carenza di strumenti teorici adeguati allo scopo e nel contempo anticipava una difficoltà che doveva permanere irrisolta nell’insieme della propria opera. È da osservare inoltre che Marx coglie riduttivamente l’analisi hegeliana in quanto dal problema dello Stato vede esclusa l’analisi della polizia e del potere giudiziario, e la vede invece limitata all’esame dell’amministrazione. Hegel aveva invece scritto: “il potere governativo, nel quale sono compresi il potere giudiziario e quello di polizia” {G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Roma-Bari, 1974, p. 288. Passo d’altronde riportato da Marx stesso, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, cit. p. 53.}Che Marx avesse della burocrazia un concetto ristretto è testimoniato ancora dall’affermazione con la quale chiude la critica dell’analisi hegeliana del potere governativo: “Hegel esprime poi (§ 308, nota) lo spirito vero della burocrazia, quando lo caratterizza come ‘routine amministrativa’ e ‘orizzonte di una sfera limitata’.” {K.Marx, op. cit., p. 66.}

 

Anche l’analisi leniniana dello Stato non coglie il problema della burocrazia come problema essenziale. Lenin vede la burocrazia come un fenomeno di deterioramento dell’organizzazione, e nel burocrate un funzionario dominato da atteggiamenti di ‘routine’.

 

Il riconoscimento della centralità del problema della burocrazia nell’analisi dello Stato è in Gramsci parte di una rielaborazione complessiva della teoria dello Stato. Piuttosto che completare la teoria dello Stato di Marx e di Lenin – idea dai più ricavata dalla formula gramsciana “Stato = società politica + società civile” -, la ricostruisce. La convinzione diffusa che l’elaborazione gramsciana sul problema dello Stato riguardi specificamente gli Stati capitalistici avanzati, e che perciò essa non neghi la elaborazione marxiana e leniniana – le quali restano legittime e sufficienti per gli Stati a minor sviluppo della ‘società civile’ – non tiene conto del criterio metodologico generale secondo il quale l’analisi delle formazioni storiche più evolute permette di comprendere le formazioni storiche meno complesse, quel criterio fissato da Marx nell’espressione “l’anatomia dell’uomo è una chiave per l’anatomia della scimmia” {K.Marx, Introduzione a Per la critica, cit., p. 193}. Una teoria dello Stato basata sull’analisi delle formazioni statali più complesse costituisce una rielaborazione complessiva che si pone come superamento della teoria precedente, e fornisce gli strumenti per dare ragione di quella teoria e di quegli Stati meno complessi.


Sul concetto di Stato in Gramsci.


Il concetto gramsciano di Stato, nella sua forma più matura, compare nel paragrafo – già considerato – Machiavelli. Sociologia e scienza politica:

 

“Stato è tutto il complesso di attività pratiche e teoriche con cui la classe dirigente giustifica e mantiene il suo dominio non solo ma riesce a ottenere il consenso attivo dei governati.” (Q, 1765) Gli elementi di novità contenuti in questo concetto di Stato sono almeno tre:

 

a) lo Stato non viene definito come un ‘apparato’, una ‘macchina’, uno ‘strumento’, ma come un complesso di attività, come l’insieme delle attività delle classi dirigenti in quanto dirigenti. Questo significa che lo Stato non è più inteso come una fortezza da conquistare, come una macchina che possa essere alternativamente guidata da un personale politico o da un altro, come un apparato istituzionale che può essere posseduto da una classe o da un’altra, ma invece come insieme di azioni svolte da determinate classi, da determinate categorie sociali, da determinati gruppi dirigenti, da determinati uomini concreti;

 

b) le attività che costituiscono lo Stato sono attività “pratiche” e “teoriche”. Questo significa che lo Stato non è ridotto alle attività ‘amministrativa’, ‘giudiziaria’ e ‘di polizia’, cioè all’esercizio pratico del potere – attività che ne costituiscono una parte – ma comprende anche attività elaborative, produttive di ideologie, informazioni e conoscenze. Ciò vuol dire che lo Stato non è teso alla conservazione se non attraverso il concreto sviluppo di determinati modi di sentire, di comprendere, di agire; e vuol dire che la produzione, l’organizzazione e la diffusione delle conoscenze è una parte dello Stato e che gli intellettuali – una parte di essi – sono parte dello Stato (anche da questo punto di vista si comprende perché il problema della burocrazia è un problema centrale nella teoria dello Stato);

 

c) lo Stato non è ridotto alle attività di dominio (esercizio della coercizione) ma comprende le attività di direzione (costruzione del consenso); ma non si tratta semplicemente di questo, cioè del fatto di identificare una più complessa articolazione dello Stato. L’elemento di novità in Gramsci sta piuttosto in questo, che lo Stato non si presenta più come una entità separata dalla vita collettiva, come un organismo a sé che domina e dirige la società in quanto si pone al di sopra di essa, ma come il complesso di attività che organizzano e rendono omogenee le moltitudini, che stabiliscono i rapporti di rappresentanza dei diretti da parte dei dirigenti, che infine coinvolgono attivamente le masse nello Stato stesso. Mentre solitamente lo Stato è visto come l’organismo che dal di fuori domina e dirige, riproducendo l’estraneità da sé dei dominati e dei diretti, Gramsci coglie il fatto che le attività statali non sono attività volte a fissare la separazione esteriore tra dirigenti e diretti, ma piuttosto a costruire l’integrazione dei diretti nello Stato; ciò non vuol dire che i diretti divengano dirigenti, ma che in quanto diretti si integrano nel complesso di attività statali che appunto tendono a realizzare i fini ed i progetti delle classi dirigenti.


Sulla funzione e la formazione della burocrazia moderna.

 

Individuato così il problema dello Stato, il problema della burocrazia diviene fondamentale nella scienza della storia e della politica, e particolarmente nella teoria dello Stato. Ma cosa è più precisamente la burocrazia?

 

Un primo elemento della teoria gramsciana della burocrazia moderna sta nellaidentificazione della sua generale funzione di strutturazione e fissazione dei rapporti tra i dirigenti e i diretti. Gramsci, individuando la funzione della burocrazia nella organizzazione e nel mantenimento del collegamento dei diretti con i dirigenti, non intende identificare una funzione mediatrice di uno strato sociale intermedio – al modo di Hegel -, ma invece rilevare come le classi dirigenti affidano ad un personale specializzato, organicamente connesso ad esse, la gestione della dominanza dei dirigenti e della subordinazione dei diretti.

 

Che in tal modo sia da intendersi la funzione di collegamento della burocrazia è reso evidente dal fatto che essa, anche nel caso di uno Stato rappresentativo, non è, né ritiene di essere, rappresentativa dei diretti, eletta e controllata dal basso. Il personale burocratico dello Stato è nominato dall’alto, dai dirigenti politici dello Stato, ai quali risponde delle proprie attività, ed è selezionato sulla base della competenza tecnica, che appare come suo criterio di legittimazione. In questo modo, mentre le classi dirigenti richiedono ai burocrati fedeltà allo Stato (‘spirito di Stato’), cioè alla propria politica, le classi subordinate possono esigere da questi soltanto l’efficienza tecnica nell’esercizio delle loro funzioni.

 

Da questo deriva che la burocrazia rappresenta la continuità dello Stato, che garantisce dalle oscillazioni e dai rischi derivanti dalle lotte politiche di frazione all’interno delle classi dirigenti. Scrive Gramsci che la burocrazia è “la cristallizzazione del personale dirigente che esercita il potere coercitivo e che a un certo punto diventa casta. Onde la rivendicazione popolare della eleggibilità di tutte le cariche, rivendicazione che è estremo liberalismo e nel tempo stesso sua dissoluzione”. (Q, 752)

 

Per Hegel “I membri del governo e i funzionari dello Stato costituiscono la parte principale dello stato medio nel quale trovasi l’intelligenza educata e la coscienza giuridica della massa d’un popolo. Che essa non assuma la posizione isolata di un’aristocrazia, e che la cultura e la capacità non diventino mezzo di arbitrio e di dominazione, ciò è assicurato dalle istituzioni della sovranità, dall’alto, e dai diritti delle corporazioni, dal basso. [...] Nello stato medio, a cui appartengono i funzionari statali, risiedono la coscienza dello Stato e la cultura la più eminente. Perciò esso è anche la colonna basilare dello Stato in rapporto alla rettitudine e all’intelligenza. [...] Che questo stato medio si formi è interesse principale dello Stato.” {K.Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, cit., p. 57. Questa e le successive citazioni dai Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel sono tratte dalla traduzione di G. Della Volpe, “date le deficienze della ormai invecchiata traduzione del Messineo” (G.d.V.).} Come si vede, Hegel aveva impostato il problema della burocrazia al livello dei rapporti tra dirigenti e diretti, e individuata la sua centralità nel problema dello Stato.

 

Hegel aveva anche colto la situazione specifica dei burocrati in quanto delegati del potere politico e legittimati dalla competenza tecnica; questi due momenti – politico e tecnico – Hegel li denomina momento soggettivo e oggettivo: “Per la loro destinazione ai medesimi compiti di governo il momento oggettivo è la conoscenza e la dimostrazione della attitudine dei funzionari - dimostrazione che assicura allo Stato ciò che abbisogna. [...] Il lato soggettivo, per cui questo individuo tra molti è scelto e nominato a un ufficio ed è delegato alla gestione dei pubblici negozi; questa congiunzione dell’individuo e dell’ufficio, come due lati per sé l’uno verso l’altro sempre accidentali, spetta al potere del principe, in quanto potere statuale decidente e sovrano.” {G.W.F.Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, in K.Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, cit., p. 55.}

 

Tuttavia Hegel nell’indiduare questi elementi del problema della burocrazia non ne fa la critica, piuttosto razionalizza una pratica in termini positivi. La sociologia, soprattutto con Weber, sviluppa l’analisi della burocrazia in termini analoghi e andando poco oltre il contributo hegeliano. Gramsci invece riprende la problematica hegeliana sulla burocrazia, la ricostruisce criticamente e così si pone oltre Hegel, oltre Weber ed anche oltre Marx, che sul problema della burocrazia non coglie la decisività dei problemi posti da Hegel.

 

Un secondo elemento della teoria gramsciana della burocrazia moderna,intimamente legato al precedente, è l’individuazione del suo presentarsi simultaneamente come fatto politico e come fatto tecnico. Gramsci identifica questo doppio carattere della burocrazia a partire appunto dall’esame dei rapporti tra dirigenti e diretti. Egli scrive: “Primo elemento è che esistono davvero governati e governanti, dirigenti e diretti. Tutta la scienza e l’arte politica si basano su questo fatto primordiale, irriducibile (in certe condizioni generali). [...] Dato questo fatto sarà da vedere come si può dirigere nel modo più efficace (dati certi fini) e come pertanto preparare nel modo migliore i dirigenti (e in questo più precisamente consiste la prima sezione della scienza e arte politica), e come d’altra parte si conoscono le linee di minore resistenza o razionali per avere l’obbedienza dei diretti o governati. [...] Occorre tener chiaro tuttavia che la divisione di governati e governanti, seppure in ultima analisi risalga a una divisione di gruppi sociali, tuttavia esiste, date le cose così come sono, anche nel seno dello stesso gruppo, anche socialmente omogeneo; in un certo senso si può dire che essa divisione è una creazione della divisione del lavoro, è un fatto tecnico.” (Q, 1752)

 

Il duplice carattere – politico e tecnico – della burocrazia discende dal fatto che la stessa distinzione tra dirigenti e diretti, che costituisce il terreno nel quale la burocrazia si forma, risponde a esigenze politiche e tecniche della vita collettiva. La consapevolezza di ciò permette a Gramsci di comprendere come la separazione tra dirigenti e diretti, e quindi il terreno costituente della burocrazia, si riproduce anche laddove si realizzi una ‘società senza classi’, ed ancora all’interno di un gruppo sociale omogeneo, ed all’interno dei partiti. Precisamente l’esistenza di una burocrazia manifesta una situazione di scissione – tecnica e politica – tra dirigenti e diretti. Aggiunge Gramsci: “Su questa coesistenza di motivi speculano coloro che vedono in tutto solo ‘tecnica’, necessità ‘tecnica’ ecc. per non proporsi il problema fondamentale” (Q, 1752); che è questo: “Nel formare i dirigenti è fondamentale la premessa: si vuole che ci siano sempre governati e governanti, oppure si vogliono creare le condizioni in cui la necessità dell’esistenza di questa divisione sparisca?” (Q, 1752)

 

Il terzo elemento della teoria gramsciana della burocrazia moderna riguarda il processo di formazione della burocrazia e il problema della sua origine sociale. Riguardo al processo della formazione storica della burocrazia Gramsci individua un primo canale nella azione dei partiti: “Posto il principio che esistono dirigenti e diretti, governati e governanti, è vero che i partiti sono finora il modo più adeguato per elaborare i dirigenti e le capacità di direzione.” (Q, 1753)

 

Un secondo canale è dato dalla dissoluzione delle vecchie (precedenti) classi dominanti nella formazione di un nuovo Stato, vale a dire nel fatto che gli intellettuali ed i quadri di quelle classi diventano funzionari (amministratori, tecnici, organizzatori, ecc.) del nuovo potere statale. Gramsci coglie questo processo alla base della “nascita degli Stati moderni europei per piccole ondate riformistiche successive, ma non per esplosioni rivoluzionarie come quella originaria francese. [...] Il periodo della ‘Restaurazione’ è il più ricco di sviluppi da questo punto di vista: la restaurazione diventa la forma politica in cui le lotte sociali trovano quadri abbastanza elastici da permettere alla borghesia di giungere al potere senza rotture clamorose, senza l’apparato terroristico francese. Le vecchie classi feudali sono degradate da dominanti a ‘governative’, ma non eliminate, né si tenta di liquidarle come insieme organico: da classi diventano ‘caste’ con determinati caratteri culturali e psicologici, non più con funzioni economiche prevalenti.” (Q, 1358)

 

Proseguendo Gramsci si domanda se un processo analogo si può verificare nellaformazione di uno Stato socialista: “Questo ‘modello’ della formazione degli Stati moderni può ripetersi in altre condizioni? È ciò da escludere in senso assoluto, oppure può darsi che almeno in parte si possano avere sviluppi simili, sotto forma di avvento di economie programmatiche?” (Q, 1358)

 

Gramsci individua in questo canale di formazione della burocrazia moderna uno degli elementi che danno ragione sia del fatto che lo Stato diviene “ogni tentativo di cristallizzare permanentemente un determinato stadio di sviluppo, una determinata situazione”, sia di “un certo equilibrio instabile delle classi, determinato dal fatto che certe categorie d’intellettuali (al diretto servizio dello Stato, specialmente burocrazia civile e militare) sono ancora troppo legate alle vecchie classi dominanti” (Q, 751-2).

 

Questi due processi convergenti nella formazione della burocrazia riflettono e prolungano la distinzione gramsciana tra intellettuali organici e intellettuali tradizionali. Gramsci così precisa la questione: “Il problema dei funzionari coincide in parte col problema degli intellettuali. Ma se è vero che ogni nuova forma sociale e statale ha avuto bisogno di un nuovo tipo di funzionario, è vero anche che i nuovi gruppi dirigenti non hanno mai potuto prescindere, almeno per un certo tempo, dalla tradizione e dagli interessi costituiti, cioè dalle formazioni di funzionari già esistenti e precostituiti al loro avvento (ciò specialmente nella sfera ecclesiastica e in quella militare).” (Q, 1632)

 

L’analisi gramsciana della formazione storica della burocrazia moderna individua, oltre ai primi due, un terzo canale: un certo strato sociale diffuso per il quale la carriera burocratica, civile e militare, costituisce un elemento molto importante di vita economica e di affermazione politica. “Nell’Europa moderna questo strato si può identificare nella borghesia rurale media e piccola che è più o meno diffusa nei diversi paesi a seconda dello sviluppo delle forze industriali da una parte e della riforma agraria dall’altra. Certo la carriera burocratica (civile e militare) non è un monopolio di questo strato sociale, tuttavia essa gli è particolarmente adatta per la funzione sociale che questo strato svolge e per le tendenze psicologiche che la funzione determina o favorisce; questi due elementi danno all’insieme del gruppo sociale una certa omogeneità ed energia di direttive, e quindi un valore politico e una funzione spesso decisiva nell’insieme dell’organismo sociale. Gli elementi di questo gruppo sono abituati a comandare direttamente nuclei di uomini sia pure esigui e a comandare ‘politicamente’, non ‘economicamente’; cioè nella loro arte di comando non c’è attitudine a ordinare le ‘cose’, a ordinare ‘uomini e cose’ in un tutto organico, come avviene nella produzione industriale, perché questo gruppo non ha funzioni economiche nel senso moderno della parola. Esso ha un reddito perché giuridicamente è proprietario di una parte del suolo nazionale e la sua funzione consiste nel contendere ‘politicamente’ al contadino coltivatore di migliorare la propria esistenza, perché ogni miglioramento della posizione relativa del contadino sarebbe catastrofica per la sua posizione sociale. La miseria cronica e il lavoro prolungato del contadino, col conseguente abbrutimento, sono per esso una necessità primordiale. Perciò spiega la massima energia nella resistenza e nel contrattacco a ogni movimento culturale contadino che esca dai limiti della religione ufficiale. Questo gruppo sociale trova i suoi limiti e le ragioni della sua intima debolezza nella sua dispersione territoriale e nella ‘inomogeneità’ che è intimamente connessa a tale dispersione; ciò spiega anche altre caratteristiche: la volubilità, la molteplicità dei sistemi ideologici seguiti, la stessa stranezza delle ideologie talvolta seguite. La volontà è decisa verso un fine, ma essa è tarda e ha bisogno, di solito, di un lungo processo per centralizzarsi organizzativamente e politicamente. Il processo si accelera quando la ‘volontà’ specifica di questo gruppo coincide con la volontà e gli interessi immediati della classe alta; non solo il processo si accelera, ma si manifesta subito la ‘forza militare’ di questo strato, che talvolta, organizzatosi, detta legge alla classe alta, almeno per ciò che riguarda la ‘forma’ della soluzione, se non per il contenuto. [...] In questo senso deve intendersi la funzione direttiva di questo strato e non in senso assoluto; tuttavia non è piccola cosa. [...] È da notare come questo carattere ‘militare’ del gruppo sociale in quistione, che era tradizionalmente un riflesso spontaneo di certe condizioni di esistenza, viene ora consapevolmente educato e predisposto organicamente.” (Q, 1605-7)

 

Attraverso questa analisi delle origini sociali e dei canali di formazione della burocrazia, Gramsci affronta il problema dello Stato e della sua struttura di classe a un livello di concretezza diverso da quello dell’analisi marxiana, e della rielaborazione di questa sviluppata da Lenin. Per essi il problema era quello di definire il ‘carattere’ dello Stato, che veniva fissato nella corrispondenza tra il modo di produzione determinato (capitalista, socialista) e le classi dominanti (borghesia, proletariato); ne conseguiva la concettualizzazione del carattere dello Stato in termini di ‘dittatura borghese’ e di ‘dittatura del proletariato’. L’analisi di Gramsci conduce invece alla individuazione dei rapporti concreti tra le classi dirigenti e le classi subordinate e delle mediazioni (cioè delle attività volte a produrre la subordinazione delle seconde alle prime) attuate da particolari categorie sociali (intellettuali, burocrati, tecnici).

 

Il quarto elemento della teoria gramsciana della burocrazia moderna riguarda ilprocesso attraverso il quale la burocrazia si configura come ‘casta’ e concepisce se stessa come ‘corpo separato’. Un fattore decisivo per la comprensione di questo processo sta nella osservazione gramsciana sulla parziale sovrapposizione del problema della burocrazia e della questione degli intellettuali. In effetti nella analisi degli intellettuali Gramsci individua le ragioni sia del loro costituirsi come gruppo sociale che del loro concepire se stessi come distaccati dalle classi e dai loro interessi: “Siccome queste varie categorie di intellettuali tradizionali sentono con ‘spirito di corpo’ la loro ininterrotta continuità storica e la loro ‘qualifica’, così essi pongono se stessi come autonomi e indipendenti dal gruppo sociale dominante; questa auto-posizione non è senza conseguenze nel campo ideologico e politico, conseguenze di vasta portata storica (tutta la filosofia idealista si può facilmente connettere con questa posizione assunta dal complesso sociale degli intellettuali e si può definire l’espressione di questa utopia sociale per cui gli intellettuali si credono ‘indipendenti’, autonomi, rivestiti di caratteri loro propri ecc.” (Q, 1515)

 

Più specificamente sulla burocrazia, scrive: “Il gruppo portatore delle nuove idee non è il gruppo economico, ma il ceto degli intellettuali, e la concezione dello Stato di cui si fa la propaganda muta d’aspetto: esso è concepito come una cosa a sé, come un assoluto razionale. La quistione può essere impostata così: essendo lo Stato la forma concreta di un mondo produttivo ed essendo gli intellettuali l’elemento sociale da cui si trae il personale governativo, è proprio dell’intellettuale non ancorato fortemente a un forte gruppo economico, di presentare lo Stato come un assoluto: così è concepita come assoluta e preminente la stessa funzione degli intellettuali, è razionalizzata astrattamente la loro esistenza e la loro dignità storica. Questo motivo è basilare per comprendere storicamente l’idealismo filosofico moderno ed è connesso al modo di formazione degli Stati moderni nell’Europa continentale come ‘reazione-superamento nazionale’ della Rivoluzione francese che con Napoleone tendeva a stabilire una egemonia permanente.” (Q, 1360-1) Tale importanza attribuisce Gramsci a questo elemento della teoria della burocrazia moderna che lo adopera come espressione sintetica del fenomeno burocratico: “la burocrazia, cioè la cristallizzazione del personale dirigente che esercita il potere coercitivo e che a un certo punto diventa casta”. (Q, 752)

 

In questi due brani Gramsci rileva l’esistenza di un rapporto tra la posizione della burocrazia come categoria sociale separata e la concezione dello Stato come ente autonomo distaccato dalla vita delle classi. In tali condizioni lo ‘spirito di Stato’, del quale la burocrazia è il depositario, non consiste in un insieme di principi etici che lo Stato pone come norma a tutti i cittadini, e neppure nell’assunzione di punti di vista e criteri di carattere ‘universale’ (il bene comune, il patriottismo ecc.), ma nel cemento ideologico che rende omogenea e compatta la burocrazia stessa, cioè una ideologia particolare (di gruppo) che razionalizza la posizione da essa detenuta. In questo modo lo ‘spirito statale’ espresso dalla burocrazia non consiste nella assunzione dei fini generali da parte di funzionari statali (come riteneva Hegel), ma nel proporre i propri fini di gruppo come fini generali della collettività. Ecco perché il ‘potere governativo’ appare come corpo separato ed ecco perché “lo Stato era concepito come qualcosa di astratto dalla collettività dei cittadini, come un padre eterno che avrebbe pensato a tutto, provveduto a tutto ecc.; da ciò l’assenza di una democrazia reale, di una reale volontà collettiva nazionale e quindi, in questa passività dei singoli, la necessità di un dispotismo più o meno larvato della burocrazia”(Q, 750-1).


Sul concetto di burocrazia in Hegel e in Marx.


Questo elemento della teoria della burocrazia moderna è costruito da Gramsci in diretto riferimento all’analisi hegeliana della burocrazia dei Lineamenti della filosofia del diritto. (È da osservare che Gramsci non conosceva, perché ancora inedita, la interpretazione e la critica di questo testo di Hegel sviluppata da Marx nella Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico. Questo significò un rapporto diretto, senza mediazioni, con l’analisi hegeliana.)

 

Hegel affronta la questione della sussunzione ‘dei particolari interessi della società civile’ nella sfera ‘dell’universale in sé e per sé dello Stato’, in quanto compito e funzione della burocrazia, particolarmente nei paragrafi 287 e 289 dei Lineamenti. Nel primo scrive: “Questo compito della sussunzione in generale comprende in sé il potere governativo, in cui sono parimenti compresi il potere giudiziario e quello di polizia, che, più direttamente, hanno rapporto con la particolarità della società civile e fanno valere in questi fini l’interesse generale.” E nel secondo: “Il mantener fermo l’interesse generale dello Stato e la legalità in questi diritti particolari, e il ricondurre i medesimi a quello, esige una cura da parte dei delegati del potere governativo, dei funzionari statali esecutivi e delle superiori autorità consulenti in quanto costituite collegialmente. [...] Come la società civile è il campo di battaglia dell’interesse privato individuale di tutti contro tutti, così qui ha la sua sede il conflitto del medesimo con i comuni affari particolari, e di questi insieme a quello contro i più alti punti di vista e ordinamenti dello Stato. Lo spirito corporativo, che si genera nel diritto delle sfere particolari, si converte in sé stesso, ad un tempo, nello spirito dello Stato, giacché esso ha nello Stato il mezzo di conservazione dei fini particolari. Questo è il segreto del patriottismo dei cittadini da questo lato, che cioè essi conoscono lo Stato come loro sostanza, perché conserva le loro sfere particolari, il loro diritto e la loro autorità, come il loro benessere. Nello spirito corporativo, poiché esso contiene immediatamente il radicarsi del particolare nell’universale, è pertanto la profondità e la forza che lo Stato ha nel sentimento.” {G.W.F.Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, in K.Marx,Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, cit., p. 53-4.}

 

Da un lato Marx coglie da Hegel l’idea che lo Stato non rappresenta astrattamente gli interessi generali bensì interessi particolari. Dall’altro rimane al di sotto della analisi hegeliana, in quanto non coglie per intero la funzione sostanziale della burocrazia nello Stato.

 

Marx non vede che la ‘società civile’ per Hegel non è solo la sfera dell’interesse privato individuale, ma anche la sfera dei comuni interessi particolari, che quindi nell’analisi hegeliana la ‘società civile’ non sono solo i cittadini come soggetti economici privati, ma anche “le corporazioni delle comunità e degli altri mestieri e stati” come soggetti collettivi organizzati provvisti di una propria burocrazia particolare. Queste corporazioni e i loro propri funzionari “rientrano nella società civile” e “restano fuori dello Stato”. {Ivi, p. 53}

 

Due osservazioni ancora su questo punto. In primo luogo: la ‘società civile’ diviene in Marx la sfera delle attività puramente economiche, laddove in Hegel essa includeva organizzazioni sociali, norme giuridiche, apparati burocratici ecc. In secondo luogo: in Marx la lotta nella sfera economica, individuata come lotta tra classi, non trova momenti di mediazione all’interno della sfera della società civile ma solo nella sfera statale; in Hegel la lotta tra gli interessi opposti, individuata come conflitto tra singoli e tra corporazioni (concezione più primitiva in questo senso di quella marxiana), trova momenti di mediazione già nella sfera della società civile (concezione più evoluta in questo senso di quella marxiana).

 

Riguardo il concetto di Stato, Marx ripete la medesima operazione di esclusione della burocrazia dal quadro dell’analisi. Egli non vede che la sfera dello Stato per Hegel non è solo la sfera della ‘empirica esistenza’ dei governanti, cioè di determinati individui che si oppongono ad altri individui, in un astratto rapporto-opposizione tra Stato e cittadini, ma anche una concreta organizzazione del potere, “l’organizzazione delle autorità” {Ivi, p. 55}, l’attività della burocrazia.

 

Dato che Marx attribuisce a Hegel l’esclusione della burocrazia sia dalla sfera della società civile che dalla sfera dello Stato, interpreta la concezione hegeliana della burocrazia come se questa fosse fondata sulla separazione tra lo Stato e la società civile: “Hegel parte dalla separazione dello ‘Stato’ e della ‘società civile’, dei ‘particolari interessi’ e dell’ ‘universale che è in sé e per sé’ e senza dubbio fonda la burocrazia su questa separazione.” {Ivi, p. 58}

 

E dato che Marx non s’accorge che l’analisi hegeliana individua due concreti livelli di organizzazione burocratica (nella sfera della società civile e nella sfera dello Stato), e che il rapporto tra lo Stato e la società civile è – secondo Hegel – lo specifico compito di queste burocrazie, rivolge ad Hegel la critica di aver lasciato a mezz’aria la burocrazia, e di averne dato una rappresentazione speculativa. E gli fa il verso: “Le corporazioni sono il materialismo della burocrazia, e la burocrazia è lo spiritualismo delle corporazioni. La corporazione è la burocrazia della società civile; la burocrazia è la corporazione dello Stato. In realtà la burocrazia si contrappone perciò come ‘società civile dello Stato’ allo ‘Stato della società civile’, alle corporazioni. Là dove la ‘burocrazia’ è un nuovo principio, dove l’interesse generale dello Stato comincia a diventare un interesse ‘a parte’ e però un interesse ‘reale’, essa lotta contro le corporazioni come ogni conseguenza lotta contro l’esistenza dei suoi presupposti. Al contrario, tostoché la vita reale dello Stato si sveglia e la società civile, mossa da proprio istinto razionale, si libera dalle corporazioni, la burocrazia cerca di restaurarle; ché appena cade lo ‘Stato della società civile’, cade la ‘società civile dello Stato’. Lo spiritualismo scompare assieme al materialismo, suo contrapposto. La conseguenza lotta per l’esistenza dei suoi presupposti, tostoché un nuovo principio lotta non contro tale esistenza, ma contro ilprincipio di essa esistenza. Il medesimo spirito che crea, nella società, la corporazione, crea, nello Stato, la burocrazia.” {Ivi, p. 58}Cosicché solo alla fine del ragionamento Marx riconosce le burocrazie nella società civile enello Stato, ma nei termini dell’attribuzione a Hegel di una analisi speculativa.

 

Questa insufficienza della interpretazione e della critica di Marx del testo hegeliano non è senza conseguenze. Essa è in effetti alla base del modo in cui Marx imposta e risolve il problema dei rapporti tra economia e Stato e fra ‘struttura’ e ‘sovrastruttura’. Nella Prefazione a Per la critica dell’economia politica Marx parte proprio dal rapporto con Hegel: “Il primo lavoro intrapreso per sciogliere i dubbi che mi assalivano fu una revisione critica della filosofia del diritto di Hegel, lavoro di cui apparve l’introduzione nei Deutsch-Französische Jahrbücher pubblicati a Parigi nel 1844. La mia ricerca arrivò alla conclusione che tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere compresi né per se stessi, né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell’esistenza il cui complesso viene abbracciato da Hegel, seguendo l’esempio degli inglesi e dei francesi del secolo XVIII, sotto il termine di ‘società civile’; e che l’anatomia della società civile è da cercare nell’economia politica. [...] Il risultato generale al quale arrivai e che, una volta acquisito, mi serví da filo conduttore nei miei studi, può essere brevemente formulato cosí: nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita.” {K.Marx, Per la critica dell’economia politica, op. cit., pp. 4-5.}

 

Dal momento che Marx, sulla base di quella lettura di Hegel, riduce la società civile ai rapporti economici e toglie la burocrazia (e gli intellettuali) dalla società civile e dallo Stato, egli perde la possibilità di individuare i rapporti concreti tra economia e Stato. Tali rapporti sono in realtà attuati da specifiche categorie sociali (la burocrazia, gli intellettuali), sicché, non individuate queste categorie nella loro propria funzione, questi rapporti concreti sfuggono all’analisi e vengono quindi concepiti in modo astratto attraverso concetti speculativi: determinazione, corrispondenza, rispecchiamento, condizionamento ecc. Una insufficienza nella analisi concreta della organizzazione sociale e statale porta Marx ad una formulazione teorica speculativa su questi problemi.


Sul concetto gramsciano di blocco storico.

 

Gramsci, a partire da una propria lettura critica di Hegel e da una interpretazione critica di Marx, affronta questi problemi in modo diverso. Egli critica il carattere speculativo (“ ‘miracolo’ superstizioso” - Q, 1422) dei rapporti tra ‘struttura’ e ‘sovrastruttura’ e tra società civile e Stato, in quanto coglie la funzione di collegamento specificamente svolta dagli intellettuali (“funzionari della sovrastruttura”) e dalla burocrazia, e su questa base definisce i rapporti tra ‘struttura’ e ‘sovrastruttura’ col concetto di blocco storico, blocco sociale tra classi organizzative dell’economia e gruppi dirigenti dello Stato cementato dall’attività delle diverse categorie intellettuali; e definisce i rapporti tra dirigenti e diretti sulla base del concetto di Stato come società civile più società politica, organizzati dalla burocrazia.

 

Gramsci dà anche una spiegazione delle posizioni assunte da Hegel e da Marx sul problema, inquadrandole storicamente. In uno dei primi paragrafi del Quaderno 1intitolato Hegel e l’associazionismo, scrive: “La dottrina di Hegel sui partiti e le associazioni come trama ‘privata’ dello Stato. Essa derivò storicamente dalle esperienze politiche della Rivoluzione francese e doveva servire a dare una maggiore concretezza al costituzionalismo. Governo col consenso dei governati, ma col consenso organizzato, non generico e vago quale si afferma nell’istante delle elezioni: lo Stato ha e domanda il consenso, ma anche ‘educa’ questo consenso con le associazioni politiche e sindacali, che però sono organismi privati, lasciati all’iniziativa privata della classe dirigente. Hegel, in un certo senso, supera già, così, il puro costituzionalismo e teorizza lo Stato parlamentare col suo regime di partiti. La sua concezione dell’associazione non può essere che ancora vaga e primitiva, tra il politico e l’economico, secondo l’esperienza storica del tempo, che era molto ristretta e dava un solo esempio di organizzazione, quello ‘corporativo’ (politica innestata nell’economia). Marx non poteva avere esperienze storiche superiori a quelle di Hegel (almeno molto superiori), ma aveva il senso delle masse, per la sua attività giornalistica e agitatoria. Il concetto di Marx dell’organizzazione rimane ancora impigliato tra questi elementi: organizzazione di mestiere, clubs giacobini, cospirazioni segrete di piccoli gruppi, organizzazione giornalistica.” (Q, 56-7)

 

Gramsci sottolinea l’importanza dell’analisi hegeliana della società civile, che permette a Hegel di teorizzare lo Stato che organizza ed educa al consenso con le associazioni politiche e sindacali, oltreché coi propri mezzi. Ma insieme ne coglie il limite nel fatto che Hegel non poteva ancora avere l’esperienza dei partiti di massa, che è all’origine della critica delle sociologie e della scienza della storia e della politica, come abbiamo visto. Neanche Marx ebbe tale esperienza, tuttavia rispetto a Hegel aveva in più ‘il senso delle masse’, ma in meno la comprensione della complessità della vita e dell’organizzazione statale. (È da notare che questa critica di Gramsci a Marx era stata omessa nelle edizioni precedenti alla edizione critica dei Quaderni del carcere.)

 

Questa osservazione storico-critica di Gramsci è da collegare col problema della formazione dello spirito statale. Come abbiamo già visto, per Hegel lo spirito statale ha origine nelle corporazioni (“lo spirito corporativo, che si genera nel diritto delle sfere particolari, si converte in se stesso, ad un tempo, nello spirito dello Stato, giacché esso ha nello Stato il mezzo di conservazione dei fini particolari”). Gramsci sviluppa criticamente questo tema, ritenendolo cruciale: “lo spirito di partito è l’elemento fondamentale dello ‘spirito statale’. La dimostrazione che lo spirito di partito è l’elemento fondamentale dello spirito statale è uno degli assunti più cospicui da sostenere e di maggiore importanza.” (Q, 1755)

 

Laddove Hegel identificava la formazione dello spirito statale nelle corporazioni, Gramsci la individua nei partiti politici, con ciò cogliendo il passaggio storico a forme più evolute di organizzazione statale; non solo: laddove Hegel fondava il divenire dello spirito corporativo in spirito statale sul fatto che lo Stato garantiva la realizzazione dei fini delle corporazioni e dei diritti del cittadino, Gramsci fonda il divenire dello spirito di partito in spirito statale sul fatto che è nel partito che gli uomini ed i gruppi sociali acquistano una coscienza universale-nazionale (superando l’individualismo e l’interesse economico-corporativo di gruppo, ponendosi fini generali); è nel partito che si educano i dirigenti ed i funzionari statali; attraverso i partiti le classi divengono Stato.

 

Sul rapporto tra la burocrazia moderna e la crisi organica.

 

Quinto elemento della teoria gramsciana della burocrazia moderna è il carattere storicamente determinato del problema della burocrazia, e quindi il rapporto tra le burocrazie moderne e la ‘grande crisi’.

 

Gramsci a conclusione del paragrafo Self-government e burocrazia, prende in esame il caso inglese in rapporto al francese e al tedesco: “Si può dire che ogni forma di società ha una sua impostazione o soluzione del problema della burocrazia, e una non può essere uguale all’altra” (Q, 974). E nel paragrafo Sulla burocrazia scrive: “È certo che ogni forma sociale e statale ha avuto un suo problema dei funzionari, un suo modo di impostarlo e risolverlo, un suo sistema di selezione, un suo tipo di funzionario da educare. Ricostruire lo svolgimento di tutti questi elementi è di importanza capitale” (Q, 1632). L’affermazione del carattere storicamente determinato del problema della burocrazia non è per Gramsci soltanto un richiamo metodologico generale, ma un elemento della teoria della burocrazia al quale attribiusce ‘importanza capitale’, e questo perché in esso è racchiusa la critica specifica a tutte le teorie che nella burocrazia vedono un tratto tipico di tutte le società moderne e su questo fondano una analisi ‘sociologica’ generale e astratta, non storica.

 

La storicità del problema della burocrazia porta Gramsci a prendere in esame l’assetto delle burocrazie moderne nel contesto della grande crisi organica mondiale, in quanto tale crisi segna – come abbiamo visto – una riorganizzazione complessiva dei rapporti tra dirigenti e diretti. Nelle tre risposte alla crisi – fenomeno americano, fenomeno fascista, fenomeno stalinista – sul terreno della riorganizzazione dello Stato, Gramsci coglie l’imponente espansione ed il predominio acquisito dalla burocrazia come indice del mancato superamento della crisi. In una serie di paragrafi esamina il processo storico che conduce alla crisi del modello di organizzazione degli Stati europei contemporanei.

 

Gramsci prende le mosse dalla individuazione del progetto di organizzazione dello Stato sviluppato dalla classe borghese; nel paragrafo Lo Stato e la concezione del diritto scrive: “La rivoluzione portata dalla classe borghese nella concezione del diritto e quindi nella funzione dello Stato consiste specialmente nella volontà di conformismo (quindi eticità del diritto e dello Stato). Le classi dominanti precedenti erano essenzialmente conservatrici nel senso che non tendevano ad elaborare un passaggio organico dalle altre classi alla loro, ad allargare cioè la loro sfera di classe ‘tecnicamente’ e ideologicamente: la concezione di casta chiusa. La classe borghese pone se stessa come un organismo in continuo movimento, capace di assorbire tutta la società, assimilandola al suo livello culturale ed economico: tutta la funzione dello Stato è trasformata: lo Stato diventa ‘educatore’, ecc.” (Q, 937)

 

È il progetto di organizzare i rapporti tra i dirigenti e i diretti (la vita dello Stato) sulla base del consenso, cioè sulla base della conformazione dei governati ai fini dei governanti, che è il senso proprio della aspirazione universalistica – affidata allo Stato – della classe borghese. Questo progetto si struttura in due elementi, il principio di rappresentatività (come delega del potere) che si esprime nel regime parlamentare e dei partiti, e il principio di competenza tecnica che si esprime nel regime burocratico (nella divisione dei poteri dello Stato).

 

Identificato il progetto, Gramsci prende in esame le condizioni della sua realizzazione e le sue limitazioni strutturali, e dell’organizzazione statale che ne risulta fa la critica. Gramsci intende il progetto della classe borghese non come l’ideazione di un modello astratto di organizzazione della vita statale e la proposizione dei modi di attuarlo, ma come risultato dei conflitti reali e risposta (iniziativa) alle condizioni date che gli ideologi razionalizzano e rendono sistematicamente coerenti nella teoria.

 

Gramsci, iniziando il paragrafo Egemonia (società civile) e divisione dei poteri, scrive: “La divisione dei poteri e tutta la discussione avvenuta per la sua realizzazione e la dogmatica giuridica nata dal suo avvento, sono il risultato della lotta tra la società civile e la società politica di un determinato periodo storico, con un certo equilibrio instabile delle classi, determinato dal fatto che certe categorie d’intellettuali (al diretto servizio dello Stato, specialmente burocrazia civile e militare) sono ancora troppo legati alle vecchie classi dominanti.” (Q, 751)

 

La critica gramsciana allo Stato borghese non consiste nell’individuare contraddizioni astratte nel modello di Stato, e neanche nel contrapporre il modello astratto alla sua realizzazione concreta, bensì nell’analisi storico-critica della lotta tra le classi dalle quali risulta la conformazione di uno Stato che risente dell’equilibrio instabile dei rapporti tra le classi, di uno Stato che è ‘contraddittorio’ in quanto risultante da una lotta.

 

Più precisamente: il conflitto tra rappresentanza politica e competenza tecnica, tra regime parlamentare e regime burocratico, esprime il fatto che le categorie di intellettuali al diretto servizio dello Stato, specialmente burocrazia civile e militare, sono troppo legate alle vecchie classi dominanti, di modo che il progetto universalistico della borghesia s’infrange contro una burocrazia che diviene casta, stacca lo Stato dalla società civile e lo assolutizza. La classe borghese non riesce a produrre a sufficienza i propri intellettuali organici, non raggiunge la piena egemonia e deve ricorrere o alla violenza giacobina o alla utilizzazione – mediante compromesso – degli intellettuali tradizionali; da questo risulta che lo Stato borghese non può poggiare sulla sola rappresentanza – in quanto la sua attività di educazione al consenso è insufficiente e non riesce ad organizzare un conformismo di massa -, e di conseguenza la burocrazia (civile e militare) assolve sempre più funzioni politiche ed occupa spazi crescenti nella vita dello Stato.

 

La conclusione critica gramsciana viene di seguito nel medesimo paragrafo: “Importanza essenziale della divisione dei poteri per il liberismo politico ed economico: tutta l’ideologia liberale, con le sue forze e le sue debolezze, può essere racchiusa nel principio della divisione dei poteri e appare quale sia la fonte della debolezza del liberalismo: è la burocrazia, cioè la cristallizzazione del personale dirigente che esercita il potere coercitivo e che a un certo punto diventa casta. Onde la rivendicazione popolare della eleggibilità di tutte le cariche, rivendicazione che è estremo liberalismo e nel tempo stesso sua dissoluzione.” (Q, 752)

 

Molto più avanti, nel paragrafo Machiavelli. Lo Stato., Gramsci riprende il problema: “Quale fondamento hanno le accuse che si fanno al parlamentarismo e al regime dei partiti, che è inseparabile dal parlamentarismo? (fondamento obbiettivo, s’intende, cioè legato al fatto che l’esistenza dei Parlamenti, di per sé, ostacola e ritarda l’azione tecnicadel governo). Che il regime rappresentativo possa politicamente ‘dar noia’ alla burocrazia di carriera s’intende; ma non è questo il punto. Il punto è se il regime rappresentativo e dei partiti invece di essere un meccanismo idoneo a scegliere funzionari eletti che integrino ed equilibrino i burocratici nominati, per impedire di pietrificarsi, sia divenuto un inciampo e un meccanismo a rovescio e per quali ragioni.” (Q, 1708)

 

Lo sviluppo storico di queste ‘contraddizioni’ culmina nella crisi di rappresentanza e nella vittoria della burocrazia, processi che significano la crisi storica dello Stato liberale. Questa crisi manifesta il fallimento del progetto statale della classe borghese, in quanto essa non è riuscita a diventare classe generale che conforma a sé le altre classi: “Come avvenga un arresto e si ritorni alla concezione dello Stato come pura forza, ecc. La classe borghese è saturata: non solo non si diffonde, ma si disgrega; non solo non assimila nuovi elementi ma disassimila una parte di se stessa (o almeno le disassimilazioni sono enormemente più numerose delle assimilazioni).” (Q, 937) In ciò precisamente si manifesta la crisi organica.

 

Gramsci spiega il rapporto tra la crisi dell’organizzazione statale rappresentativa e il predominio della burocrazia (nell’organizzazione statale) nel paragrafo Osservazioni su alcuni aspetti della struttura dei partiti politici nei periodi di crisi organica: “A un certo punto della loro vita storica i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali, cioè i partiti tradizionali in quella data forma organizzativa, con quei determinati uomini che li costituiscono, li rappresentano e li dirigono non sono più riconosciuti come loro espressione dalla loro classe o frazione di classe.” (Q, 1602-3)


Sulla crisi di rappresentanza e la burocratizzazione dei partiti.


Un elemento individuato da Gramsci è che la crisi di rappresentanza si presenta innanzitutto come crisi dei partiti, cioè dei canali in cui si esprime la rappresentanza e si organizza il consenso; ciò vuol dire che non si tratta solo del fatto che le classi subordinate non si riconoscano nella data direzione statale, ma che le stesse classi dominanti percepiscono i propri organi partitici come inadeguati ai compiti che esse si pongono nel momento storico dato. Ciò accade perché, mentre le classi si evolvono, i partiti si cristallizzano, chiudendosi in un processo di burocratizzazione.

 

Prosegue Gramsci: “Quando queste crisi si verificano, la situazione immediata diventa delicata e pericola, perché il campo è aperto alle soluzioni di forza, all’attività di potenze oscure rappresentate dagli uomini provvidenziali o carismatici. Come si formano queste situazioni di contrasto tra rappresentanti e rappresentati, che dal terreno dei partiti (organizzazioni di partito in senso stretto, campo elettorale-parlamentare, organizzazione giornalistica) si riflette in tutto l’organismo statale, rafforzando la posizione relativa del potere della burocrazia (civile e militare), dell’alta finanza, della Chiesa e in generale di tutti gli organismi relativamente indipendenti dalle fluttuazioni dell’opinione pubblica? In ogni paese il processo è diverso, sebbene il contenuto sia lo stesso. E il contenuto è la crisi di egemonia della classe dirigente, che avviene o perché la classe dirigente ha fallito in qualche sua grande impresa politica per cui ha domandato o imposto con la forza il consenso delle grandi masse (come la guerra) o perché vaste masse (specialmente di contadini e di piccoli borghesi intellettuali) sono passati di colpo dalla passività politica a una certa attività e pongono rivendicazioni che nel loro complesso disorganico costituiscono una rivoluzione. Si parla di ‘crisi di autorità’ e ciò è appunto la crisi di egemonia, o crisi dello Stato nel suo complesso.” (Q, 1603)

 

È in questo passo la formulazione più compiuta del processo, che vede insieme il fallimento del progetto universalistico della classe borghese che si esprime nella perdita dell’egemonia, lo sviluppo dell’autonomia ideologica delle classi subordinate che si esprime nell’avvento dei partiti di massa, il rafforzamento della burocraziacome stabilizzazione dei rapporti di dominio tra le classi. Elemento caratterizzante di questo periodo storico è il rapporto tra la grande guerra e la mobilitazione e l’organizzazione di grandi masse, che in precedenza abbiamo analizzato.

 

Gramsci prosegue: “La crisi crea situazioni immediate pericolose, perché i diversi strati della popolazione non possiedono la stessa capacità di orientarsi rapidamente e di riorganizzarsi con lo stesso ritmo. La classe tradizionale dirigente, che ha un numeroso personale addestrato, muta uomini e programmi e riassorbe il controllo che le andava sfuggendo con una celerità maggiore di quanto avvenga nelle classi subalterne; fa magari dei sacrifizi, si espone a un avvenire oscuro con promesse demagogiche, ma mantiene il potere, lo rafforza per il momento e se ne serve per schiacciare l’avversario e disperderne il personale di direzione, che non può essere molto numeroso e molto addestrato. Il passaggio delle truppe di molti partiti sotto la bandiera di un partito unico che meglio rappresenta e riassume i bisogni dell’intera classe è un fenomeno organico e normale, anche se il suo ritmo sia rapidissimo e quasi fulmineo in confronto di tempi tranquilli: rappresenta la fusione di un intero gruppo sociale sotto un’unica direzione ritenuta sola capace di risolvere un problema dominante esistenziale e allontanare un pericolo mortale. Quando la crisi non trova questa soluzione organica, ma quella del capo carismatico, significa che esiste un equilibrio statico (i cui fattori possono essere disparati, ma in cui prevale l’immaturità delle forze progressive) che nessun gruppo, né quello conservativo né quello progressivo, ha la forza necessaria alla vittoria e che anche il gruppo conservativo ha bisogno di un padrone. (cfr. Il 18 brumaio di Luigi Napoleone).” (Q, 1603-4)

 

Nella situazione di una crisi di rappresentanza il problema immediato della classe dominante è quello di evitare la propria disgregazione e di riorganizzarsi come classe dominante; essa prende atto della sua crisi di egemonia e non è in condizione di perseguire il progetto di conformare a sé le altre classi, non utilizza più il regime rappresentativo ed i partiti come organizzazioni volte alla costruzione del consenso. Essa si unifica e si riorganizza intorno alla burocrazia (civile e militare) che emerge come il ‘partito unico’, il solo in condizione di assolvere i nuovi compiti della classe dominante. Si configura il predominio organico del regime burocratico.

 

Questo predominio non si manifesta solo nello Stato, ma coinvolge anche le organizzazioni sociali, i partiti, le istituzioni culturali (anche quelle delle classi subordinate, anche laddove siano diventate Stato): “Questo ordine di fenomeni è connesso a una delle quistioni più importanti che riguardano il partito politico, e cioè alla capacità del partito di reagire contro lo spirito di consuetudine, contro le tendenze a mummificarsi e a diventare anacronistico. I partiti nascono e si costituiscono in organizzazione per dirigere le situazioni in momenti storicamente vitali per le loro classi; ma non sempre essi sanno adattarsi ai nuovi compiti e alle nuove epoche, non sempre sanno svilupparsi secondo che si sviluppano i rapporti complessivi di forza (e quindi posizione relativa delle loro classi) nel paese determinato o nel campo internazionale. Nell’analizzare questi sviluppi dei partiti occorre distinguere: il gruppo sociale; la massa di partito; la burocrazia e lo stato maggiore del partito. La burocrazia è la forza consuetudinaria e conservatrice più pericolosa; se essa finisce col costituire un corpo solidale, che sta a sé e si sente indipendente dalla massa, il partito finisce col diventare anacronistico, e nei momenti di crisi acuta viene svuotato del suo contenuto sociale e rimane come campato in aria.” (Q, 1604)

 

La burocratizzazione nei partiti Gramsci la coglie anche a partire dalla individuazione dei compiti che si pongono le classi nel loro sviluppo. I partiti nascono per dirigere, per organizzare la espansione delle classi e realizzarne il progetto di universalizzazione; ma allorché esse non riescono a costruire l’egemonia o sono costrette a posizioni difensive, la burocrazia di partito, che assolve funzioni di dominio interno, prende il sopravvento con la conseguente separazione del partito dalla classe, lo rende anacronistico, politicamente settario e teoricamente dogmatico.

 

Di questo processo di burocratizzazione dello Stato e dei partiti Gramsci, nel paragrafoPassato e presente. Agitazione e propaganda., dà una analisi specifica riferita al caso italiano: la riportiamo per intero anche perché essa approfondisce e precisa alcuni concetti prima esposti: “La debolezza dei partiti politici italiani in tutto il loro periodo di attività, dal Risorgimento in poi (eccettuato in parte il partito nazionalista) è consistita in quello che si potrebbe chiamare uno squilibrio tra l’agitazione e la propaganda, e che in altri termini si chiama mancanza di principii, opportunismo, mancanza di continuità organica, squilibrio tra tattica e strategia ecc. La causa principale di questo modo di essere dei partiti è da ricercare nella deliquescenza delle classi economiche, nella gelatinosa struttura economica e sociale del paese, ma questa spiegazione è alquanto fatalistica: infatti se è vero che i partiti non sono che la nomenclatura delle classi, è anche vero che i partiti non sono solo una espressione meccanica e passiva delle classi stesse, ma reagiscono energicamente su di esse per svilupparle, assodarle, universalizzarle. Questo appunto non è avvenuto in Italia, e la manifestazione di questa ‘omissione’ è appunto questo squilibrio tra agitazione e propaganda o come altrimenti si voglia dire. Lo Stato-governo ha una certa responsabilità in questo stato di cose (si può chiamare responsabilità in quanto ha impedito il rafforzamento dello Stato stesso, cioè ha dimostrato che lo Stato-governo non era un fattore nazionale): il governo infatti ha operato come un ‘partito’, si è posto al disopra dei partiti non per armonizzarne gli interessi e l’attività nei quadri permanenti della vita e degli interessi statali nazionali, ma per disgregarli, per staccarli dalle grandi masse e avere ‘una forza di senza partito legati al governo con vincoli paternalistici di tipo bonapartistico-cesareo’: così occorre analizzare le così dette dittature di Depretis, Crispi, Giolitti e il fenomeno parlamentare deltrasformismo. Le classi esprimono i partiti, i partiti elaborano gli uomini di Stato e di governo, i dirigenti della società civile e della società politica. Ci deve essere un certo rapporto utile e fruttuoso in queste manifestazioni e in queste funzioni. Non può esserci elaborazione di dirigenti dove manca l’attività teorica, dottrinaria dei partiti, dove non sono sistematicamente ricercate e studiate le ragioni di essere e di sviluppo della classe rappresentata. Quindi scarsità di uomini di Stato, di governo, miseria della vita parlamentare, facilità di disgregare i partiti, corrompendone, assorbendone i pochi uomini indispensabili. Quindi miseria della vita culturale e angustia meschina dell’alta cultura: invece della storia politica, la erudizione scarnita, invece della religione la superstizione, invece dei libri e delle grandi riviste, il giornale quotidiano e il libello. Il giorno per giorno, con le sue faziosità e i suoi urti personalistici, invece della politica seria. Le università, tutte le istituzioni che elaboravano le capacità intellettuali e tecniche, non permeate dalla vita dei partiti, dal realismo vivente della vita nazionale, formavano quadri nazionali apolitici con formazione mentale puramente rettorica, non nazionale. La burocrazia così si estraniava dal paese, e attraverso le posizioni amministrative, diventava un vero partito politico, il peggiore di tutti, perché la gerarchia burocratica sostituiva la gerarchia intellettuale e politica: la burocrazia diventava appunto il partito statale-bonapartistico.” (Q, 386-8)

 

Sul passaggio dalla burocrazia tradizionale alla burocrazia tecnocratica.

 

Il predominio della burocrazia è il segno comune delle tre risposte che alla crisi organica furono date (americanismo, fascismo, stalinismo). Tali risposte non furono risolutive della crisi e l’affermazione stessa della burocrazia dà la misura della stabilizzazione della crisi, in quanto segna la cristallizzazione dei rapporti tra diretti e dirigenti.

 

Tuttavia, nella costruzione di quelle risposte alla crisi organica si produce un cambiamento nella struttura interna della burocrazia, fattosi necessario per il bisogno di organizzare e controllare i processi di formazione dei comportamenti collettivi connessi ai nuovi metodi di produzione ed alla razionalizzazione del lavoro. Emerge unaburocrazia tecnocratica, portatrice di criteri tecnici di gestione più conformi alle esigenze del processo di razionalizzazione, la quale si affianca prima e progressivamente si sostituisce poi alla burocrazia tradizionale; burocrazia tecnocratica non più legata alle vecchie classi dominanti ma organica alle nuove.

 

Gramsci analizza questo processo nel primo paragrafo del Quaderno 12, intitolatoAppunti e note sparse per un gruppo di saggi sulla storia degli intellettuali: “Nel mondo moderno, la categoria degli intellettuali, così intesa, si è ampliata in modo inaudito. Sono state elaborate dal sistema sociale democratico-burocratico masse imponenti, non tutte giustificate dalle necessità sociali della produzione, anche se giustificate dalle necessità politiche del gruppo fondamentale dominante.” (Q, 1520)

 

Poco più avanti puntualizza: “Nella civiltà moderna tutte le attività pratiche sono diventate così complesse e le scienze si sono talmente intrecciate alla vita che ogni attività pratica tende a creare una scuola per i propri dirigenti e specialisti e quindi a creare un gruppo di intellettuali specialisti di grado più elevato, che insegnino in queste scuole. [...] La crisi del programma e dell’organizzazione scolastica, cioè dell’indirizzo generale di una politica di formazione dei moderni quadri intellettuali, è in gran parte un aspetto e una complicazione della crisi organica più comprensiva e generale. [...] Lo sviluppo della base industriale sia in città che in campagna aveva un crescente bisogno del nuovo tipo di intellettuale urbano. [...] Si può anche osservare che sempre più gli organi deliberanti tendono a distinguere la loro attività in due aspetti ‘organici’, quella deliberativa che è loro essenziale e quella tecnico-culturale per cui le quistioni su cui occorre prendere risoluzioni sono prima esaminate da esperti ed analizzate scientificamente.” (Q, 1530-2)

 

Dalla individuazione delle condizioni da cui sorge l’intellettualità tecnica, delle esigenze pratiche – nella produzione e nelle istituzioni – che emergono nel processo di ammodernamento, Gramsci passa ad esaminare più specificamente i mutamenti riguardanti la burocrazia. Così prosegue: “Questa attività ha creato già tutto un corpo burocratico di una nuova struttura, poiché oltre agli uffici specializzati di competenti che preparano il materiale tecnico per i corpi deliberanti, si crea un secondo corpo di funzionari, più o meno ‘volontari’ e disinteressati, scelti volta a volta nell’industria, nella banca, nella finanza. È questo uno dei meccanismi attraverso cui la burocrazia di carriera aveva finito col controllare i regimi democratici e i parlamenti; ora il meccanismo si va estendendo organicamente ed assorbe nel suo circolo i grandi specialisti dell’attività pratica privata, che così controlla e regimi e burocrazia. Poiché si tratta di uno sviluppo organico necessario che tende a integrare il personale specializzato nella tecnica con personale specializzato nelle quistioni concrete di amministrazione delle attività pratiche essenziali delle grandi e complesse società nazionali moderne, ogni tentativo di esorcizzare queste tendenze dall’esterno, non produce altro risultato che prediche moralistiche e gemiti retorici. [...] Il tipo tradizionale del ‘dirigente’ politico, preparato solo per le attività giuridico-formali, diventa anacronistico e rappresenta un pericolo per la vita statale.” (Q, 1532)

 

Questo passaggio dalla burocrazia tradizionale alla burocrazia tecnocratica, se da una parte deriva dalle esigenze della razionalizzazione della produzione e del lavoro, costituisce un mutamento complessivo nei rapporti tra dirigenti e diretti. Si tratta del passaggio dal modello liberale di organizzazione di un regime rappresentativo-burocratico al modello tecnocratico di organizzazione di un regime burocratico-rappresentativo, un regime cioè in cui si tecnicizzano insieme i rapporti di rappresentanza e quelli burocratici; da ciò risulta il predominio delle competenze tecniche (del ‘mondo dei funzionari’) anche nel processo di rappresentanza e di formazione del consenso, col loro conseguente svuotamento ideologico. Si costruisce il consenso non più attraverso il discorso retorico bensì tramite l’induzione di stereotipi comportamentali che non evidenziano il contenuto ideologico del messaggio, utilizzando per ciò le complesse tecniche della comunicazione di massa.


Sui compiti futuri della scienza della storia e della politica.


La teria gramsciana della burocrazia moderna non si esaurisce nei termini generali considerati; essa si prolunga e si specifica nella teoria del partito moderno. Gramsci esamina il rapporto tra l’evoluzione dei partiti di massa e i processi di burocratizzazione, tenendo d’occhio particolarmente il problema del ‘centralismo burocratico’ (in rapporto al più generale fenomeno di centralizzazione della vita economica, istituzionale, culturale). Ma tale problematica costituisce piuttosto parte della teoria gramsciana del partito. E l’analisi di questa teoria rimanda ancora alla concezione gramsciana dellapolitica stessa, e del progetto di trasformazione complessiva della società umana che Gramsci, a conclusione del paragrafo Machiavelli. Lo Stato, imposta con l’interrogativo: “È da vedere se parlamentarismo e regime rappresentativo si identificano e se non sia possibile una diversa soluzione sia del parlamentarismo che del regime burocratico, con un nuovo tipo di regime rappresentativo.” (Q, 1708)

 

La crisi organica e la sua stabilizzazione nel predominio della burocrazia moderna sono le condizioni storico-politiche della costruzione della scienza della storia e della politica, cioè della iniziativa teorica che si propone di affrontarle e di risolverle attraverso l’avviamento di una nuova epoca politica. Per ciò tali condizioni costituiscono i primi fondamentali problemi che questa scienza si pone; la teoria della crisi organica e la teoria della burocrazia moderna sono quindi elementi costitutivi di questa scienza. Ma sono solo i suoi elementi introduttivi; essa dovrà dispiegarsi nello studio di una vasta problematica. Più concretamente, problemi da esaminare sono i seguenti:

 

Un primo complesso di problemi riguarda la politica, ed include l’analisi storico-critica dello Stato e dei partiti, dei rapporti tra economia e politica, e la progettazione di una nuova razionalità storico-politica.

 

Un secondo complesso di problemi riguarda la scienza, ed include l’analisi teoretica dei problemi dell’astrazione, della misura, del superamento dello storicismo e dello strutturalismo, delle relazioni fra teorie, metodi, dati ecc.

 

Un terzo complesso di problemi riguarda i rapporti tra scienza e politica, ed include l’esame dei rapporti fra teoria e pratica, razionalità storico-politica e razionalità teorico-scientifica, ‘struttura’ e ‘sovrastruttura’, sullo sfondo della successione delle fasi della vita dello Stato e delle epoche politiche.

 


NOTE TEORICHE.



Nota Teorica I. Sulle interpretazioni della attualità di Gramsci.


L’attualità di un sistema teorico è fondamentalmente data dalla persistenza dei problemi che esso ha individuato e teorizzato, cioè dal fatto che i problemi sui quali si struttura quella concezione teorica permangono irrisolti o che a un certo punto si ripropongono. La continuità del processo storico e teorico è da individuare nel fatto che restano importanti determinate difficoltà teoriche e pratiche il superamento incerto delle quali rende necessaria una alternativa.

 

Ora, l’attribuzione di attualità al pensiero di un autore è ciò che ne giustifica la rilettura; ogni interpretazione contiene quindi, implicitamente o esplicitamente, una determinata definizione di tale attualità. Il significato della attualità dell’opera di Antonio Gramsci è stato colto, dalla linea interpretativa marxista e nei vari momenti del suo sviluppo, in intima connessione con l’affermazione della ‘classicità’ della sua figura storica e del suo pensiero teorico-politico.

 

In una prima fase, dominata dalla figura di Palmiro Togliatti, il rapporto attualità - classicità è costruito nella ricerca di una fondazione teorica di una determinata prassi politica. Come ha scritto Eric Hobsbawm (Dall’Italia all’Europa, inserto ‘Il Contemporaneo’ della rivista ‘Rinascita’, 1975, n. 30): “Gramsci diventa un ‘classico’ del partito perché Togliatti e i suoi compagni lo considerano il fondamento teorico di una strategia di lotta e di una prospettiva di trasformazione socialista in Italia, che guida le attività del partito. Ma, identificando Gramsci con la politica del partito, lo hanno reso vulnerabile alle critiche rivolte a questa politica.”

 

Completamento funzionale alla definizione di Gramsci come ‘classico del partito comunista italiano’ è la proposta di Gramsci come ‘classico nazionale italiano’, in quanto erede e superatore dell’alta cultura italiana.

 

In una fase successiva si delinea una relazione meno diretta e più problematica del pensiero di Gramsci con la politica del Partito Comunista Italiano. Gramsci è proposto come intellettuale marxista di primo piano del movimento operaio in Occidente; a partire da tale collocazione più universale gli viene attribuita una generica classicità, diviene un ‘classico marxista’. L’attualità del suo pensiero è perciò ricercata, come tendenzialmente in ogni classico, più che nei risultati della sua riflessione nel metodo di questa.

 

Valentino Gerratana nella Prefazione all’edizione critica dei Quaderni porta avanti questa interpretazione del rapporto tra attualità e classicità dell’opera di Gramsci, definendo i Quaderni “una riflessione approfondita della propria esperienza politica e culturale e la costruzione teorica di una complessa metodologia critica per aggredire attivamente i processi in atto nel mondo contemporaneo” (Q, XXXIV). Questo privilegiamento del metodo in confronto ai risultati è fondato su ciò: che Gramsci “in nessun momento [...] ritiene di aver raggiunto la forma definitiva dei ‘saggi’ progettati: questi non saranno mai scritti, e rispetto ad essi tutte le note dei Quaderni, nelle diverse stesure rappresentano solo una raccolta di materiali preparatori” (Q, XXIV). Ma, è da chiedersi, non è proprio il rifiuto di rinchiudersi in una ‘forma definitiva’ un elemento essenziale della stessa struttura della scienza gramsciana?

 

Per spiegare il privilegiamento della elaborazione metodologica di Gramsci (alla quale viene riconosciuto il valore della classicità) rispetto ai risultati concreti della sua ricerca storico-politica (di fronte ai quali è formulato, “al di là del richiamo alla ‘discrezione’ e alla ‘cautela’, l’invito a una lettura maggiormente responsabilizzata, non limitata a una semplice ricezione passiva. Il che non vuol dire affatto una lettura aperta a qualsiasi possibilità d’interpretazione” – Q, XXXIV), Gerratana avanza l’argomento – riconosciuto valido dalla generalità degli interpreti di Gramsci – delle limitazioni oggettive che “l’isolamento del carcere” comportò alla ricerca gramsciana. Continua difatti: “Gramsci scriveva in un’epoca di profonde trasformazioni, per lettori che avrebbero dovuto affrontare nuove esperienze e sarebbero stati in possesso di nuovi elementi di giudizio che egli, nell’isolamento del carcere, poteva solo confusamente intravedere.” (Q, XXXIV)

 

Ora, è giusto portare l’attenzione sulla specificità delle condizioni e delle circostanze in cui i Quaderni furono pensati e scritti, ma non si può estendere oltre certi limiti la portata esplicativa di tale situazione. Ancora: la linea di ricerca sulla condizione carceraria dovrebbe portare non solo alla individuazione del condizionamento tecnico e psicologico che l’essere in carcere comportava, ma soprattutto al rilevamento del fatto che il carcere rappresentava un luogo privilegiato di osservazione della vita politica e statale in quella epoca. In effetti il carcere era una istituzione che esprimeva sinteticamente la situazione di sconfitta del movimento operaio, il momento repressivo delle attività statali, e una microorganizzazione sociale ‘totalitaria’; era cioè una istituzione in cui si concentravano e annodavano un insieme di esperienze e contraddizioni caratterizzanti un’epoca storica. (Torna al Testo)

 

Nota teorica II. Sulle interpretazioni marxiste dei Quaderni.

 

Più che esaminare particolarmente le interpretazioni date, conta qui osservare come generalmente siano articolate intorno alla proposta di un ‘concetto’ o di un altro (società civile, egemonia, moderno Principe, blocco storico, intellettuale organico, guerra di movimento e guerra di posizione ecc.) come centro organizzatore che permette di individuare la coerenza interna del pensiero gramsciano, dimodoché le interpretazioni si stratificano coincidendo raramente sul contenuto dei concetti e dando luogo a rari momenti di intersecazione. Tuttavia è possibile individuare alcune assunzioni generali comuni al grosso delle interpretazioni, che possono essere ricondotte schematicamente a una doppia coppia di questioni.

 

Riguardo la identificazione dell’oggetto della investigazione di Gramsci, alcuni affermano che egli sarebbe un ‘teorico della sovrastruttura’, ed in particolare dei rapporti tra società civile e società politica, degli intellettuali come funzionari della sovrastruttura, delle ideologie in funzione dell’egemonia. Questo oggetto teorico proprio dell’analisi gramsciana è posto in relazione con una determinata situazione storica: il capitalismo in Occidente, laddove lo Stato si mostrava più sviluppato e complesso che nel tempo di Marx e nella Russia di Lenin, e laddove il momento della direzione intellettuale e morale e gli stessi intellettuali avevano più decisiva importanza - data la grande tradizione culturale e lo sviluppo dei materiali e della struttura ideologica. Sarebbe la specifica problematica posta da quella situazione storica l’elemento in grado di spiegare l’orientamento dell’opera di Gramsci, ed in particolare il fatto che il soggetto della sua scienza non sia stata l’economia (rispetto alla quale egli avrebbe considerato che l’analisi e la critica fossero già compiutamente svolte nel Capitale), bensì la politica e le espressioni ideologiche della cultura e dell’arte. Così intesi l’oggetto e la problematica del pensiero gramsciano, si individua conseguentemente il livello di analisi nel quale si muoverebbe Gramsci come ‘meno generale’ rispetto a quello in cui si pone Marx, e più vicino ai bisogni della strategia politica. Gramsci avrebbe dato come già acquisite le proposizioni generali del materialismo storico (rispetto alle quali la sua preoccupazione sarebbe stata quella di ricostruirle nella purezza originaria recuperandone la dialetticità antidogmatica), e la sua ricerca si muoverebbe sul piano della applicazione di questi criteri teorici e metodologici alle particolari condizioni storiche dell’Italia.

 

Secondo altri Gramsci, svolgendo analisi storiografiche concrete (sul Risorgimento, sul Partito d’Azione, sulla formazione degli intellettuali italiani nell’Alto Medioevo ecc.) utilizzerebbe proprie categorie di scienza della politica (blocco storico, intellettuale organico, guerra di movimento e guerra di posizione ecc.) che posseggono una certa generalità. Concetti che, secondo una parte di questi interpreti, avrebbero una validità analoga a quella delle categorie sociologiche; e secondo un’altra parte, invece, devono essere pensate subordinate alle più generali categorie del materialismo storico.

 

Da questa identificazione del soggetto teorico e del livello di analisi si trae una interpretazione dei rapporti di Gramsci con Marx in termini di sviluppo accumulativo, d’impiego (e in certo modo di adattamento) del marxismo nell’analisi di nuove esperienze storiche e di altre sfere della realtà; ed insieme, e a causa di ciò, una considerazione del pensiero gramsciano come frammento subordinato del marxismo. (A questo riguardo sorge il problema del grado di coerenza del frammento subordinato rispetto al ‘contenente’ marxiano, e spesso si teorizza sulla contaminazione idealistica del pensiero di Gramsci derivata dall’influsso del Croce e del Gentile.)

 

In questo contesto siamo andati in un primo momento ai testi dei Quaderni; ma presto si sono presentate decisive difficoltà di comprensione: le proposizioni gramsciane, di fronte all’analisi filologica, solo in piccola parte potevano essere ricondotte a queste idee interpretative. Dal momento che era manifestamente arbitrario attribuire a priori ai testi gramsciani la responsabilità di ciò che si mostrava come oscuro ed incoerente, non restava che riprendere la lettura in un esplicito rapporto di criticità nei confronti di quelle interpretazioni. La critica di esse è progressivamente sviluppata nel corso dell’esposizione.

 

Detto questo, occorre precisare che ci sono interpretazioni di Gramsci che non possono essere ricondotte a quella linea interpretativa prevalente. Tra queste è quella di Nicola Badaloni che, nel suo saggio Il marxismo di Gramsci(Einaudi, Torino 1975), individua le insufficienze delle più diffuse interpretazioni di Gramsci nei seguenti termini: “A me sembra intanto che il non aver posto il problema della fusione delle fonti di Gramsci abbia indebolito la forza della sua analisi della società occidentale. Perso l’elemento della fusione di diverse esperienze storiche del marxismo, il pensiero di Gramsci ha avuto risonanza, soprattutto per merito di Togliatti, come punto di riferimento delle forme ‘che la stessa dittatura operaia assume nelle sue diverse fasi e può assumere in paesi diversi’. Poi questo grande e appassionante problema teorico si è ridotto nella misura del ‘filo rosso’ dell’egemonia e, più restrittivamente ancora, in quella di una particolare sensibilità che una certa accezione del leninismo ha dei problemi culturali e della questione della sovrastruttura. Indebolito il grande problema posto da Togliatti, tutto sembra convergere sulla questione dell’inversione del rapporto di predominanza tra struttura e sovrastruttura.” (p. 180)

 

Badaloni arriva alla critica a questa e altre precedenti interpretazioni del pensiero di Gramsci per via della ricognizione delle fonti teoriche dalle quali Gramsci avrebbe preso le mosse per ricomporre l’unità originaria del marxismo nelle concrete condizioni della transizione al socialismo. Per noi invece il riconoscimento dell’insufficienza di tali interpretazioni, compresa quella di Togliatti, è risultato di una specifica analisi filologica dei testi gramsciani. La diversità dell’approccio critico non è senza conseguenze, sia in rapporto alla radicalità della critica stessa, sia riguardo alla nuova proposizione interpretativa che da quella critica emerge.

 

Una prima considerazione riguardo il metodo di comprensione di un autore attraverso l’esame delle fonti del suo pensiero è già nei Quaderni: “Lo studio della cultura filosofica di un uomo come il fondatore della filosofia della praxis non solo è interessante ma è necessario purché tuttavia non si dimentichi che esso fa parte esclusivamente della ricostruzione della sua biografia intellettuale e che gli elementi di spinozismo, di feuerbachismo, di hegelismo, di materialismo francese ecc., non sono per nulla parti essenziali della filosofia della praxis né questa si riduce a quelli, ma che ciò che più interessa è appunto il superamento delle vecchie filosofie, la nuova sintesi o gli elementi di una nuova sintesi, il nuovo modo di concepire la filosofia i cui elementi sono contenuti negli aforismi o dispersi negli scritti del fondatore della filosofia della praxis e che appunto bisogna sceverare e sviluppare coerentemente. In sede teorica la filosofia della praxis non si confonde e non si riduce a nessun’altra filosofia: essa non è solo originale in quanto supera le filosofie precedenti, ma specialmente in quanto apre una strada completamente nuova, cioè rinnova da cima a fondo il modo di concepire la filosofia stessa.” (Q, 1436) Gramsci si riferisce a Marx; ma il medesimo criterio di analisi è da adoperare nei confronti dello stesso Gramsci, come mostra l’insieme della nostra ricerca.

 

Oltre a ciò occorre rilevare come la ricognizione che Badaloni fa delle fonti di Gramsci sia alquanto riduttiva, ciò che lo conduce a limitare la portata del pensiero di Gramsci. Difatti Badaloni interpreta Gramsci nell’orizzonte teorico definito da Labriola, Sorel, Croce e Gentile, e Lenin. La sua tesi è che Gramsci, prendendo criticamente le mosse da ciò che questi diversi autori avevano separato e considerato parzialmente del marxismo, lo ricompone in unità ad un livello più avanzato, rimanendo interamente nella prospettiva aperta da Marx ed elaborando “il più efficace strumento antirevisionistico che il marxismo occidentale abbia forgiato” (p. 178). Per noi invece, il pensiero di Gramsci non si fa compiutamente comprensibile che in una prospettiva di storia della cultura decisamente più ampia, che comprende la scienza della politica da Machiavelli a Hegel, l’economia politica e la sua critica, la sociologia da Comte a Michels, le diverse tendenze del marxismo contemporaneo. Di questo vastissimo arco culturale Gramsci svolge la critica, raccogliendo importanti elementi che subordina, non alla ricomposizione di un’unità precedente ma alla costruzione di una propria e nuova razionalità teorico-scientifica, alla proposta della scienza della storia e della politica. (Torna al Testo)


Nota teorica III. Su altri sviluppi del marxismo tra le due guerre mondiali.


Se tale fu la tendenza prevalente nel marxismo nel periodo tra le due guerre mondiali, contemporaneamente si svilupparono linee di interpretazione ed elaborazione marxiste che quella tendenza contrastavano. In Occidente tali elaborazioni, sviluppate da grandi intellettuali ed intorno a riviste e istituti di ricerca, non ebbero nell’immediato grande rilevanza politica; ma è a partire dall’insieme di quella produzione teorica che si rese possibile negli anni sessanta una rinascita del marxismo. Caratteristiche distintive di quella produzione teorica furono da una parte il prendere in considerazione e il confrontarsi criticamente con le discipline sociali non marxiste (sociologia, economia, statistica, psicologia, psicoanalisi, linguistica, filosofia ecc.), dall’altra l’analizzare le trasformazioni in corso e le novità storiche dello sviluppo delle economie e degli Stati contemporanei.

 

György Lukács e Karl Korsch pubblicano nel 1923 rispettivamente Storia e coscienza di classe e Marxismo e filosofia. Ripensano il marxismo specialmente nei suoi aspetti filosofici – con indirizzi diversi – criticando le semplificazioni affermatisi nel periodo precedente, tentando una critica della sociologia, proponendo nuovi rapporti con la cultura filosofica europea più avanzata. Lukács andrà concentrando la sua ricerca in determinati settori della storia della cultura (estetica, critica letteraria), Korsch articolerà la propria in più diretto rapporto con i problemi politici del movimento operaio.

Nell’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte, diretto da Max Horkheimer dagli inizi degli anni trenta e del quale facevano parte Herbert Marcuse, Theodor Adorno, Erich Fromm e altri, si sviluppano originali versioni di una ‘teoria critica della società’ che si richiama al pensiero di Marx. Distingue la produzione della Scuola di Francoforte da una parte il confronto del marxismo con diversi orientamenti teorici – specialmente la fenomenologia, la psicoanalisi, la sociologia (in particolare Weber)-, dall’altra l’analisi di determinati aspetti delle società capitalistiche avanzate: i fenomeni dell’alienazione dell’uomo, l’autoritarismo, le istituzioni, la critica delle ideologie, la riflessione sui problemi della libertà e dei rapporti tra le strutture e gli individui.

 

Un certo sviluppo teorico del marxismo si produce anche in Francia, sulla base di un confronto critico con determinate discipline scientifiche quali la psicologia, la linguistica, la biologia. Da segnalare tra gli altri Georges Politzer e il suo lavoro su Freud e Bergson (1928), Marcel Prenant (Biologia e marxismo, 1935) e Henri Wallon (Dall’atto al pensiero, 1942).

 

Nel campo della teoria economica i contributi marxisti di maggior rilievo sono quelli del tedesco Henryk Grossman (L’accumulazione e la legge del crollo del sistema capitalistico, 1929), dell’inglese Maurice Dobb (Economia politica e capitalismo, 1937 e Teoria economica e socialismo, 1923-54), del nordamericano Paul Sweezy (La teoria dello sviluppo capitalistico, 1942).

 

Un particolare sviluppo teorico-politico del marxismo è dato dal gruppo dirigente del Partito Comunista d’Italia durante il regime fascista, intorno alla rivista Lo Stato Operaio. Indirizzo caratterizzante di questa elaborazione teorica era l’esigenza della analisi differenziata della storia e della struttura sociale determinata (nazionale) come fondamento dell’iniziativa politica, e quindi in particolare lo studio delle radici sociali e dell’ideologia del fascismo.

 

Nell’America Latina il peruviano José Carlos Mariátegui nel suo lavoro Sette saggi di interpretazione della realtà peruviana(1928) svolge una originale analisi marxista sulla struttura sociale, la storia e la cultura nazionale.

 

Sviluppi nuovi della cultura e del pensiero marxista nel periodo considerato, progressivamente influenti in Occidente, furono dati specialmente da Vladimir Lenin, in particolare nei suoi ultimi scritti, ove svolge una riflessione critica sui problemi della costruzione dello Stato sovietico e della cultura; da Lev Trotsky che negli anni del suo esilio svolge una intensa attività teorica intorno ai temi della storia della rivoluzione russa, della struttura economica e di potere dello Stato sovietico e della lotta di classe in Europa; dal giovane Mao Tse-Tung nelle sue ricerche Analisi delle classi della società cinese (1926) e Rapporto d’inchiesta sul movimento contadino nello Hunan (1927), e nelle sue riflessioni sul marxismo nell’epoca di Yenan (1937-45).(Torna al Testo)


Nota teorica IV. Sui ´manuali’ e la formalizzazione scolastica del marxismo.

 

La ‘tendenza deteriore’ del marxismo ha avuto uno sviluppo storico molto complesso; essa si è manifestata in differenti tipi di produzione intellettuale e nei vari campi della conoscenza (filosofia, storia, economia, biologia, psicologia ecc.). La sua storia è da farsi; tuttavia la traccia del suo percorso fondamentale si può cogliere in una sua espressione particolare e caratteristica: la propensione alla manualizzazione, alla composizione di sintesi sistematiche convergenti alla formalizzazione scolastica del pensiero marxista come un tutto compiuto pronto per la sua diffusione e applicazione.

 

Il primo grande lavoro in cui è possibile cogliere questo indirizzo è l’Antidühring (1878) di Friedrich Engels. Questo libro, che ha svolto una funzione determinante nella formazione della ‘seconda generazione’ dei marxisti, è considerato criticamente da Gramsci come un diretto antecedente del Saggio buchariniano: “L’origine di molti spropositi contenuti nel Saggio è da ricercarsi nell’Antidühring e nel tentativo, troppo esteriore e formale, di elaborare un sistema di concetti, intorno al nucleo originario di filosofia della praxis, che soddisfacesse il bisogno scolastico di compiutezza. Invece di fare lo sforzo di elaborare questo nucleo stesso, si sono prese affermazioni già in circolazione nel mondo della cultura e sono state assunte come omogenee a questo nucleo originario, affermazioni che erano state già criticate ed espulse da forme di pensiero superiore, anche se non superiore alla filosofia della praxis.” (Q, 1786)

 

Tuttavia Engels, nella Prefazione alla prima edizione dell’opera, mostra una consapevolezza autocritica del risultato e spiega il fatto che l’esposizione abbia acquistato forma di sistema in quanto “ho dovuto seguire il signor Dühring in campi nei quali io posso muovermi tutt’al più con le pretese che può avere un dilettante”, ed ancora che “proprio la natura dell’oggetto stesso [il ‘sistema’ di Dühring] ha costretto la critica ad un’ampiezza che è assolutamente sproporzionata al contenuto scientifico di questo oggetto” (F. Engels, Antidühring, Edizioni Rinascita, Roma 1956, pp. 10-11).

 

Un secondo tentativo fu compiuto da Gheorghi Plekhanov con i Problemi fondamentali del marxismo (1908), manualizzazione filosofica del marxismo che diviene un classico della Seconda Internazionale. Gramsci ne svolge la critica in questi termini: “La tendenza dominante [nel marxismo] si è manifestata in due correnti principali: 1) Qualla cosidetta ortodossa, rappresentata da Plekhanov (cfr. i Problemi fondamentali) che in realtà, nonostante le sue affermazioni in contrario, ricade nel materialismo volgare. Non è stato bene impostato il problema delle ‘origini’ del pensiero del fondatore della filosofia della praxis: uno studio accurato della cultura filosofica del Marx (e dell’ambiente filosofico generale in cui egli si formò direttamente e indirettamente) è certo necessario, ma come premessa allo studio, ben più importante, della sua propria e ‘originale’ filosofia, che non può esaurirsi in alcune ‘fonti’ o nella ‘cultura sua personale’: occorre, prima di tutto, tener conto della sua attività creatrice e costruttrice. Il modo di porre il problema da parte del Plekhanov è tipicamente proprio del metodo positivistico e mostra le sue scarse facoltà speculative e storiografiche.” (Q, 1508)

 

Il terzo tentativo importante è il Manuale (1921) di Nikolaj Bucharin, che diviene un punto di riferimento teorico decisivo nel Partito Cominista dell’Unione Sovietica e nella prima fase della Terza Internazionale. L’importanza negativa di questa opera sta nel fatto che rappresenta la cristallizzazione della ‘tendenza deteriore’ proprio nel momento in cui si organizza il primo Stato socialista che si eleva a guida del movimento comunista mondiale e modello di costruzione del socialismo. La gravità di tale deterioramento della teoria è in rapporto al momento cruciale nel quale si produce, poiché “dal momento in cui un gruppo subalterno diventa realmente autonomo ed egemone suscitando un nuovo tipo di Stato, nasce concretamente l’esigenza di costruire un nuovo ordine intellettuale e morale, cioè un nuovo tipo di società e quindi l’esigenza di elaborare i concetti più universali, le armi ideologiche più raffinate e decisive. [...] Si può così porre la lotta per una cultura superiore autonoma.” (Q, 1508-9)

 

Infine abbiamo, di Josif Stalin, Il materialismo dialettico e il materialismo storico (1938), esposizione sistematica di ciò ch’egli ritiene “i tratti fondamentali del materialismo dialettico e storico”, opera che per tutta la seconda fase della Terza Internazionale “ha rappresentato l’insuperabile modello dell’elaborazione filosofica e sociologica nell’Unione Sovietica” (Predrag Vranicki, Storia del marxismo, Editori Riuniti, Roma 1973, volume II, p. 166). Questo scritto di Stalin impoverisce il marxismo a un punto tale che la teoria originale di Marx non è riconoscibile; eppura questa opera è un elemento fondamentale della cultura marxista, in quanto – insieme alleQuestioni del leninismo (1926) – costituì per tutta un’epoca il prisma attraverso cui furono interpretate le opere di Marx e Lenin.

 

Seguirà, fino ad oggi, la moltiplicazione di manuali che riproducono, con minore o maggiore dogmatismo, i tratti decisivi della ‘tendenza deteriore’, con l’aggravante della frammentazione disciplinare (manuali di filosofia, economia, sociologia, socialismo scientifico, storia, materialismo storico ecc.) in funzione di una organizzazione scolare dell’insegnamento del marxismo.(Torna al Testo)


Nota teorica V.
Sulle origini della sociologia e delle scienze politiche in relazione alla storia dello Stato.


Il problema della individuazione delle origini storiche e teoriche della sociologia è stato affrontato da Alessandro Pizzorno in un saggio intitolato Il pensiero sociologico (in Storia delle idee politiche economiche e sociali, UTET, Torino 1973, vol. IV).

 

Pizzorno indica in Auguste Comte e Karl Marx “i veri padri fondatori della nuova scienza” in quanto in entrambi “la categoria ‘società’ viene trattata in maniera autonoma e sistematica, distinguendosi specificamente dalla categoria fondamentale per il pensiero, quella di Stato” (pp. 609-10). Tra le condizioni del configuarsi del concetto di società e quindi del suo divenire oggetto della sociologia, Pizzorno pone il progresso tecnico e l’accrescersi delle ricchezze materiali, l’accresciuto controllo dell’uomo sulla natura attraverso la scienza, il rafforzarsi ed espandersi della classe borghese e l’esperienza del fallimento dei tentativi di riformare l’uomo e la società a partire dalle istituzioni politiche. Fenomeni che stanno alla base della sostituzione del concetto di Stato con quello di società, in quanto portano “a ricercare quali siano i rapporti sociali che veramente contano, quei rapporti sociali, cioè, i quali, essendo retti da leggi inaccessibili all’attività volontaria degli uomini, in qualsiasi posizione di potere questi si trovino, finiscono inevitabilmente per dare scacco a tutte le buone intenzioni di modificarli e regolarli programmaticamente. In altre parole, compito dei nuovi scienziati diventa quello di scoprire rapporti più duraturi e più forti dell’arbitrio mutevole dei politici; di scoprire cioè la necessità sociale. [...] È così che i rapporti che caratterizzano la società civile diventano i rapporti cosiddetti strutturali, cioè quelli retti da leggi che si possono conoscere ma non modificare ad arbitrio, e dai quali gli altri rapporti sociali più effimeri potranno venir dedotti. [...] Vero è che la scienza borghese per eccellenza non è la sociologia, ma l’economia. [...] Ma è chiaro che anche la sociologia è in rapporto con il formarsi della nuova classe. Questo rapporto però non è diretto. [...] Dovendole cioè trovare delle precise radici sociali converrà partire dall’ipotesi che essa è l’espressione di rapporti tra gruppi intellettuali e potere, piuttosto che partire dall’ipotesi che essa sia espressione degli interessi della nuova classe dominante.” (pp. 612-3)

 

Nell’analisi di Pizzorno ci sembra che osservazioni penetranti e valide s’impiglino in una confusa prospettiva di storia della cultura. Egli osserva che la sociologia emerge dalla crisi della vecchia scienza politica e del modo di fare politica corrispondente, e che essa mostra di differenziarsi nel porre come proprio oggetto la società anziché lo Stato. Ciò che gli sfugge è che alla radice di tale differenziazione non sta l’eterogeneitá dell’oggetto teorico, bensì una medesima problematica politica – l’organizzazione dei rapporti tra governanti e governati, cioè delle attività statali – in due diverse fasi di sviluppo degli Stati nazionali, in due distinte epoche politiche. Questo precisamente è ciò che gli impedisce di cogliere i rapporti in cui stanno l’economia politica, la scienza politica, Hegel, Comte, Marx, il marxismo e la sociologia.

 

Nel fare storia delle idee e delle discipline solitamente si procede alla ricerca dei rapporti tra le concezioni teoriche e gli interessi sociali o di classe che ne costituiscono la base, mancando con ciò la comprensione del fatto che le concezioni del mondo, le teorie e le discipline si spiegano fondamentalmente in rapporto alla vita dello Stato, cioè ai progetti e alle attività politiche dei grandi aggruppamenti sociali. (Si potrebbe dire che i rapporti tra classi sociali e idee sono mediati dalla politica e dallo Stato.)

 

Connessa a questo errore è la dimenticanza del fatto che, formandosi gli Stati moderni come Stati nazionali, ciò comporta lo sviluppo differenziato nazionale di concezioni e teorie che hanno contenuti fondamentali comuni, in quanto si formano nel terreno di una stessa cultura e affrontano gruppi di problemi affini relativi allo sviluppo di omologhe fasi della vita dello Stato. Da questo punto di vista perdono significato sia la distinzione ‘classista’ delle concezioni teoriche e delle scienze che quella ‘disciplinare’; entrambi vanno reinterpretate, in quanto le ‘differenziazioni classiste’ corrispondono in realtà a progetti politici di diversi blocchi sociali complessi, e le ‘differenziazioni disciplinari’ hanno alla propria origine linguaggi e tradizioni culturali nazionali differenti. (Riguardo a questo problema di grande importanza sono le note gramsciane sulla “traducibilità reciproca dei linguaggi scientifici”, nelle quali pone in rapporto la filosofia classica tedesca, l’economia politica inglese, il pensiero politico francese.)

 

Acquistano invece un valore essenziale le distinzioni realizzate – in termini di storia della cultura – secondo il criterio della corrispondenza tra sviluppo delle idee e fasi di formazione e sviluppo dello Stato. Schematicamente: nei periodi di formazione dei moderni Stati nazionali sorsero un insieme di scienze politiche quali la filosofia della storia e del diritto e la scienza dello Stato di Hegel, l’economia politica di Smith e Ricardo, la filosofia politica di Hobbes, la scienza politica di Montesquieau, la scienza della politica di Machiavelli. In una prima fase di disgregazione e di lotta per l’egemonia all’interno di quegli Stati sorgono il pensiero socialista, la filosofia positiva di Comte, il materialismo storico e la critica dell’economia politica di Marx. Nella fase dello Stato della crisi organica troviamo le sociologie. Per una nuova epoca politica Gramsci pone i fondamenti di una nuova scienza, la scienza della storia e della politica.(Torna al Testo)

 

Nota teorica VI. Sulla relazione tra storia, scienza e politica nel marxismo.

 

Il problema della ‘legalità’ storica è stato uno dei problemi nodali nella vicenda del movimento operaio internazionale, specialmente nella fase della Seconda Internazionale, ed intorno ad esso si sono imperniate le discussioni politiche fondamentali - radicalizzatesi fino alla divisione del movimento. È stato così non solo in quanto dal modo in cui s’intenda lo sviluppo storico dipende l’elaborazione della strategia e il modo in cui i partiti si definiscono e si organizzano, ma anche in quanto il concetto di legalità storica è stato sempre posto a fondamento della possibilità di costruire una scienza della storia e della società, e quindi della possibilità di fare una politica scientifica, e dello stesso ‘socialismo scientifico’.

 

In effetti nella cultura marxista si è andata affermando una tendenza che fissa un rapporto logico necessario tra le seguenti affermazioni: 1. la storia si svolge secondo leggi oggettive, 2. compito della scienza è l’individuazione di queste leggi e la loro applicazione all’analisi dei processi concreti, 3. funzione del partito è appropriarsi di questa scienza e guidare le masse in conformità a tali leggi. È utile considerare le posizioni espresse dai maggiori protagonisti di tale dibattito: Karl Kautsky, Eduard Bernstein, Rosa Luxemburg, Vladimir Lenin. Tutti condividono il concetto della storia soggetta a leggi; ciò che li differenzia è il modo in cui ne definiscono il rapporto con la scienza e con la politica, il che comporta l’attribuzione di significati diversi alla legalità stessa.

 

Segno distintivo del pensiero di Kautsky, pervenuto alla concezione materialistica della storia e della scienza fondamentalmente attraverso la lettura dell’Origine delle specie di Charles Darwin e dell’Antidühring di Engels, è la decisa accentuazione del determinismo economico e del carattere ‘legale’ del processo storico. È questo l’elemento che non muta nel suo percorso dalle posizioni ‘ortodosse’ a quelle ‘revisioniste’; anzi in questo è da ricercare la chiave del passaggio dalle une alle altre: mentre da ‘ortodosso’ sostiene la via rivoluzionaria al socialismo e critica i revisionisti in base alla legge che individua nell’acutizzazione delle contraddizioni oggettive del capitalismo la via al socialismo, da ‘revisionista’ affida la venuta del socialismo allo sviluppo naturale del capitalismo secondo le sue proprie leggi.

 

È sempre sulle basi dell’analisi delle leggi e dei meccanismi propri del capitalismo che egli prima ritiene imminente la rivoluzione, e conseguentemente la necessità di prepararsi ad essa, e poi sostiene che occorre attendere in modo piuttosto passivo l’avvento del socialismo, in quanto esso risulterà ineluttabilmente dallo sviluppo contraddittorio del capitalismo. Il rapporto tra leggi, scienza e partito in Kautsky è colto da Massimo Luigi Salvadori nei seguenti termini: “L’azione concreta della socialdemocrazia assumeva il carattere di adempimento ad un dettato prefissato dalle leggi dell’evoluzione storica; la scienza marxista ne diventava lo specchio razionalmente disposto; mentre l’organizzazione politica e il movimento pratico diventavano lo strumento per l’attuazione delle tendenze oggettive rispecchiate dalle ‘leggi scientifiche’.” (La concezione del processo rivoluzionario in Karl Kautsky – 1891/1922, in Storia del marxismo contemporaneo, Annali dell’Istituto Giangiacomo Feltrinelli, Milano 1973, p. 30). La biografia intellettuale di Kautsky illustra in modo paradigmatico come la concezione legalitaria della storia conduca alla subordinazione teorica e politica.

 

Il ‘revisionismo’ di Bernstein ha una struttura logica diversa e in certo modo opposta a quello di Kautsky. Bernstein ridimensiona il determinismo economico, in quanto “la società moderna è molto più ricca di ideologia non determinata dall’economia. [...] Il grado di sviluppo economico oggi raggiunto lascia ai fattori ideologici, e specialmente a quelli etici, un’autonomia molto più ampia che nel passato” (I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia, Laterza, Bari 1974, p. 38), e limita il campo di validità in quanto distingue nella storia due componenti diverse: un ambito regolato secondo leggi oggettive e necessarie ed un altro che rimane indeterminato e “incalcolabile”, quello dato dall’operare della volontà.

 

Egli però possiede un concetto di scienza come conoscenza di ciò che è secondo leggi (quindi sostanzialmente medesimo a quello kautskyano), col risultato che il terreno su cui opera la scienza è ridotto allo studio delle condizioni regolari del processo storico, ed esclude le attività che dipendono dalla volontà. Conseguenza di ciò è che non si può prevedere scientificamente l’avvento del socialismo “anche se si può dimostrare la desiderabilità, la possibilità e la probabilità. Quando in una teoria si introduce la nostra volontà, tale teoria cessa di essere una scienza pura.” (citato da Vernon L. Lidtke, Le premesse teoriche del socialismo in Bernstein, in Storia del marxismo contemporaneo, cit., p. 153 – da Bernstein, Idealismus, Kampftheorie und Wissenschaft, in ‘Sozialistische Monatshefte’, agosto 1901, a. V, n. 8, pp. 602-3).

 

Una scienza generale della storia non è possibile, poiché “il dato della volontà umana esclude la possibilità di predeterminare scientificamente su basi generali gli sviluppi storici. [...] E parimenti ogni predizione storica conterrà sempre un elemento ipotetico, perché in tutte le forze storiche calcolabili la volontà degli uomini introduce un elemento incalcolabile.” (ivi, da Bernstein, Der Kernpunkt des Streites. Ein Schlusswort zur Frage: Wie ist wissenschaftlicher Sozialismus möglich?, in ‘Sozialistische Monatshefte’, ottobre 1901, a. V, n. 10, p. 785). Una scienza della politica non è possibile, essendo la politica il terreno dell’azione della volontà organizzata, anche se “per giungere alle mete volute esso [il socialismo] ha bisogno di assumere come filo conduttore la conoscenza scientifica delle forze e dei rapporti esistenti all’interno dell’organismo sociale, nonché delle cause e degli effetti nella vita della società” (ivi, da Bernstein, cit., p. 35).

 

In questo contesto Bernstein stabilisce una relativa separazione tra scienza e partito, in quanto l’azione del partito solo in parte è guidata dalla conoscenza scientifica ed il partito stesso non è oggetto di scienza. L’iniziativa politica risulta in ogni momento dalla valutazione empirica delle situazioni e dal giudizio etico sulle prospettive possibili di sviluppo. L’azione del partito non è perciò scientificamente controllabile ed assume a guida il ‘criterio di opportunità’; la nota espressione di Bernstein secondo la quale “la meta, quale che sia, non è nulla per me, il movimento è tutto” sancisce, oltre alla incontrollabilità scientifica, quella più ampiamente teorica.

 

Con ciò anche le posizioni di Bernstein portano alla subordinazione teorica e politica, come pone in evidenza Gramsci nel paragrafo Il movimento e il fine: “È possibile mantenere vivo ed efficiente un movimento senza la prospettiva di fini immediati e mediati? L’affermazione di Bernstein secondo cui il movimento è tutto e il fine è nulla [...] nasconde una concezione meccanicistica della vita e del movimento storico: le forze umane sono considerate come passive e non consapevoli.” (Q, 1898-9) In effetti quando l’intervento umano – la volontà – non è finalizzato secondo un progetto consapevole (che prospetti obiettivi di medio e lungo termine), viene ricondotto a passività, non è riconosciuto “come iniziativa e spinta progressiva antagonista. [...] Non si tratta di altro che di una sofistica teorizzazione della passività.” (Q, 1899)

 

Rosa Luxemburg affronta il problema del rapporto tra leggi, scienza e azione politica in maniera originale. Ella sostiene ad un tempo la necessità oggettiva e l’intervento attivo nello svolgimento storico, accentuando ambo gli elementi ancor più di Bernstein, e la tensione del suo pensiero scaturisce dal tentativo di integrarli teoricamente e praticamente in una dimensione unitaria (diversamente da Bernstein, che crede di risolvere il problema nella loro separazione). È il tentativo di fondare l’elemento soggettivo nell’oggettività: lo svolgersi della storia secondo leggi oggettive si manifesta e si realizza attraverso l’attività consapevole delle masse.

 

La pratica politica della classe operaia è portatrice del senso della storia; ciò è già presente nell’azione spontanea delle masse e diviene consapevole nella maturazione della coscienza di classe, quando cioè le masse raggiungono la consapevolezza degli obiettivi (la rivoluzione e il socialismo). Contrariamente a Kautsky, la Luxemburg sottolinea il valore dell’attività politica spontanea delle masse, e contrariamente a Bernstein, l’importanza della consapevolezza dei fini. “Gli uomini – scrive – non fanno arbitrariamente la loro storia, ma essi la fanno da sé. Il proletariato dipende nella situazione dal grado di maturità raggiunto dallo sviluppo sociale, ma lo sviluppo sociale non può prescindere dal proletariato; esso è a un tempo la sua molla di propulsione e la sua causa, come pure il suo prodotto e la sua conseguenza. La sua azione stessa è un momento determinante della storia. E se non possiamo saltar sopra allo sviluppo storico, come l’uomo alla sua ombra, possiamo però affrettarlo o rallentarlo.”(citato da F. Tych, Masse, classe e partito in Rosa Luxemburg, in Storia del marxismo contemporaneo, cit., p. 288 – da Rosa Luxemburg, Wvbòr pism (Scritti scelti), Varsavia 1957, vol. II, p. 266). E ancora: “Il socialismo è il primo movimento popolare nella storia del mondo che si proponga, e vi sia chiamato dalla storia, di portare nell’agire sociale degli uomini un senso cosciente, un pensiero pianificato e con ciò il libero volere”. (Rosa Luxemburg,Scritti politici, a cura di L. Basso, Editori Riuniti, Roma 1967, pp. 446-7)

 

Secondo questa soluzione del problema risultano ridimensionati insieme il ruolo del partito e quello della scienza, in quanto le leggi agiscono e la loro consapevolezza diviene operante all’interno della classe, nel passaggio che in essa, nello svolgersi della propria pratica, si attua dalla spontaneità alla coscienza di classe. Come in Kautsky e in Bernstein, anche nelle posizioni della Luxemburg il raggiungimento dell’autonomia teorica e politica è compromesso: è vero che la classe operaia è ritenuta soggetto di azione e di coscienza autonoma, in quanto in sé e senza uscire da sé attua le leggi e si fissa i fini; ma tale autonomia, intesa come separazione e autosufficienza, è precaria e illusoria, poiché si fonda sulla affermazione aprioristica della superiorità ‘oggettiva’ della classe operaia, dimenticando che la situazione di subordinazione socio-politica e culturale può essere superata solo mediante la critica degli altrui e dei propri precedenti modi di pensare e di operare, e l’elaborazione di una nuova superiore razionalità teorico-scientifica.

 

Lenin compie il più notevole sforzo realizzatosi nell’intera cultura marxista di organizzare in una concezione unitaria e coerente i diversi elementi del problema, cioè di articolare legalità storica e attività politica consapevole senza diminuire né il valore della scienza né l’importanza del partito. Egli fonda la possibilità della scienza sociale rilevando nella struttura economica della società rapporti regolari e costanti. Già in Che cosa sono gli ‘amici del popolo’ e come lottano contro i socialdemocratici? (1894), in cui svolge una articolata critica della sociologia soggettivistica, così individua “la possibilità di un atteggiamento rigorosamente scientifico verso i problemi storici e sociali”: “separando i ‘rapporti di produzione’ come struttura della società e dando la possibilità di applicare a questi rapporti quel criterio scientifico generale della reiterabilità, la cui applicazione alla sociologia era negata dai soggettivisti. [...] L’analisi dei rapporti sociali materiali [...] ha subito reso possibile di rilevarne la reiterabilità e la regolabilità e di generalizzare gli ordinamenti di diversi paesi in modo da giungere ad un unico concetto fondamentale diformazione sociale. [...] Questa ipotesi creò per la prima volta la possibilità di una sociologia scientifica, perché soltanto riconducendo i rapporti sociali ai rapporti di produzione, e questi ultimi al livello delle forze produttive, si è ottenuta una base salda per rappresentare l’evoluzione delle formazioni sociali come un processo storico-naturale.” (Editori Riuniti, Roma 1972, pp. 19-20)

 

Individuando le leggi di sviluppo nella struttura economico-produttiva, egli stabilisce la ‘scienza economica’, ed in quanto riconduce la spiegazione dei processi sociali a quella regolarità stabilisce la ‘sociologia’, scienza dei rapporti sociali. Ed in quanto alla base dei processi sovrastrutturali – politici e culturali – agiscono sempre i medesimi rapporti economici e sociali, apre la possibilità ad una ‘scienza della politica’, il socialismo scientifico. È questa una scienza subordinata, poiché la sua possibilità non è data da regolarità specifiche del processo politico, ma dal fatto che i fenomeni sovrastrutturali sono analizzati e spiegati in quanto connessi ai fenomeni strutturali. La ‘scienza della politica’ – i cui elementi fondamentali sono in Lenin la teoria dello Stato, della rivoluzione, del partito – non è però elaborata deduttivamente a partire dai principi della scienza dei rapporti economici e sociali, bensì si costruisce nell’analisi dell’esperienza storica concreta, in particolare dei movimenti e delle lotte rivoluzionarie e dei processi di costruzione degli Stati. Difatti Lenin esige costantemente “l’analisi concreta dei processi e delle condizioni concrete”, che vengono ricondotti, nel processo esplicativo, alle loro radici strutturali. La teoria politica è una ‘sintesi della esperienza’, organizzata secondo i criteri del ‘materialismo storico’.

 

In Stato e rivoluzione quest’idea si ripresenta più volte, proposta come corretta interpretazione della teoria marxiana dello Stato e della rivoluzione: “Fedele alla sua filosofia, il materialismo dialettico, Marx prende come base l’esperienza storica dei grandi anni rivoluzionari 1848-1851. Qui, come sempre, la dottrina di Marx è il bilancio di un’esperienza, bilancio illuminato da una profonda concezione filosofica del mondo e da una vasta conoscenza della storia. Il problema dello Stato si pone in modo concreto: come è sorto storicamente lo Stato borghese, la macchina statale necessaria al dominio della borghesia? Quali trasformazioni, quali evoluzioni ha subìto nel corso delle rivoluzioni borghesi e di fronte ai mutamenti delle classi oppresse? Quali sono i compiti del proletariato rispetto a questa macchina statale?” (Editori Riuniti, Roma 1970, p. 88) A questo riconoscimento della specificità dei processi politici, e alla non riduzione della scienza della politica alla scienza dell’economia, si lega coerentemente la concezione leniniana del ‘primato della politica’ sull’economia nel processo rivoluzionario. L’affermazione di questo primato parte dal riconoscimento del fatto che la classe operaia da sé, nel terreno della lotta economica tra le classi, non supera il livello della coscienza e dell’organizzazione rivendicativa-tradunionista. Per ciò “la coscienza politica di classe può essere portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno della lotta economica, dall’esterno della sfera dei rapporti tra operai e padroni. Il solo campo dal quale è possibile attingere questa coscienza è il campo dei rapporti di tutte le classi e di tutti gli strati della popolazione con lo Stato e con il governo, il campo dei rapporti reciproci di tutte le classi.”(Che fare?, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 115-6) Il movimento rivoluzionario sarebbe la fusione del movimento operaio con la teoria scientifica.

 

La tesi del primato della politica si associa così alla tesi della necessità della scienza: senza teoria rivoluzionaria non c’è azione rivoluzionaria. Ragione di ciò sarebbe che la determinazione delle ideologie da parte dei rapporti economici e sociali è tale da portare all’occultamento e alla distorsione dei ‘veri’ rapporti, e cioè alla formazione di una ‘coscienza falsa’. Sarebbe l’analisi scientifica a svelare la reale logica dei processi, mediante la critica dei rapporti concreti esistenti e dei loro riflessi ideologici. Compito del partito sarebbe di appropriarsi e sviluppare queste scienze, e di guidare con queste le masse; il suo carattere di avanguardia della classe operaia risiederebbe precisamente nel fatto di essere la sua organizzazione politica che agisce scientificamente.

 

La soluzione leniniana del problema non è condivisa da Gramsci, in quanto egli critica la concezione che vede operare nella società leggi oggettive indipendenti dall’azione umana, e critica il concetto di scienza connesso a tale concezione. Ciò implica un nuovo modo di intendere la scienza, e la necessità di costituire una scienza della storia e della politica su diverse fondamenta. In tal modo il problema dei rapporti tra storia, scienza e politica diviene altro.(Torna al Testo)

 

Nota Teorica VII. Sulla possibilità di costruire una scienza a partire dall’esperienza.


Negli stessi anni in cui Gramsci si propone di fondare una scienza a partire dall’esperienza, Karl Popper pubblica un libro (Logica della scoperta scientifica, 1934) nel quale svolge una critica radicale dell’empirismo e propone come unico metodo valido per tutte le ‘scienze empiriche’ ciò che definisce come ‘metodo deduttivo dei controlli’. È opportuno esaminare qui l’argomentazione essenziale di questo autore, sia perché egli è divenuto un importante punto di riferimento del dibattito epistemologico odierno, sia in quanto la sua critica del ‘metodo induttivo’ intende riguardare ogni progetto di costruzione di una scienza che prenda l’avvio dallo studio dell’esperienza.

 

Il centro della critica popperiana dell’empirismo consiste nella critica della logica induttiva, cioè della possibilità di “stabilire la verità di asserzioni universali basate sull’esperienza”, problema che si pone in quanto “il resoconto di un’esperienza – di un’osservazione, o del risultato di un esperimento – può essere soltanto un’asserzione singolare e non un’asserzione universale” (K. Popper, Logica della scoperta scientifica, Einaudi, Torino 1974, p. 6). Tale critica si specifica in tre momenti”

 

a) non è giustificato inferire asserzioni universali da asserzioni singolari, per quanto numerose siano queste ultime, poiché “qualsiasi conclusione tratta in questo modo può sempre rivelarsi falsa: per quanto numerosi siano i casi di cigni bianchi che possiamo aver osservato, ciò non giustifica la conclusione che tutti i cigni sono bianchi” (p. 6);

b) d’altronde le stesse asserzioni singolari non sono puri resoconti o registrazioni di osservazioni o percezioni immediate, poiché in ogni asserzione singolare devono comparire concetti universali: “Ogni descrizione fa uso di nomi (o di simboli, o di idee) universali; ogni asserzione ha il carattere di una teoria, di un’ipotesi. La asserzione: ‘Questo è un bicchier d’acqua’ non può essere verificata da nessuna esperienza basata sull’osservazione. La ragione è che gli universali che compaiono in essa non possono essere messi in relazione con nessuna esperienza sensibile specifica. [...] Con la parola ‘bicchiere’, per esempio, denotiamo corpi chimici che esibiscono un certo comportamento regolare, e lo stesso vale per la parola ‘acqua’” (p. 87). A questo punto la critica dell’inferenza si connette alla critica dell’astrazione: “qualsiasi tentativo di definire i nomi universali con l’aiuto di nomi individuali è destinato a fallire. Questo fatto è stato spesso trascurato ed è largamente diffusa la credenza che sia possibile, mediante un processo chiamato ‘astrazione’, sollevarsi da concetti individuali a concetti universali. Questo punto di vista è parente stretto della logica induttiva, col suo passaggio da asserzioni singolari ad asserzioni universali. Questi due procedimenti sono egualmente impraticabili dalla logica” (p. 52);

c) ancora: i medesimi dati d’esperienza (le percezioni e le osservazioni immediate) sono impregnati di teorie, sono “esperienze soggettive” (p. 26). “Il mio punto di vista è che il nostro linguaggio ordinario è pieno di teorie; che l’osservazione è sempre osservazione alla luce delle teorie e che soltanto il pregiudizio induttivistico può farci pensare che possa esistere un linguaggio dei fenomeni, privo di teorie e distinguibile da un ‘linguaggio teorico’ (p. 43, in nota). Coloro i quali ritengono che alla base della scienza stiano esperienze empiriche irriducibili “non riescono ad accorgersi che, ogni qualvolta credono di aver scoperto un fatto, si sono limitati a proporre una convenzione” (pp. 36-7).

 

La critica popperiana di ogni metodo induttivo non comporta la negazione della possibilità di una scienza empirica, bensì la fondazione di questa nel metodo deduttivo dei controlli, cioè nel “punto di vista secondo cui un’ipotesi può essere soltantocontrollata empiricamente, e soltanto dopo che è stata proposta” (p. 9). “Le scienze empiriche sono sistemi di teorie. [...] Le teorie scientifiche sono asserzioni universali. [...] Le teorie sono reti gettate per catturare quello che noi chiamiamo il ‘mondo’: per razionalizzarlo, per spiegarlo, per dominarlo. Ci sforziamo di rendere la trama sempre più sottile” (p. 43). “Il metodo consistente nel sottoporre le teorie a controlli critici [...] procede sempre lungo le linee seguenti. Da una nuova idea, avanzata per tentativi e non ancora giustificata in alcun modo – una anticipazione, un’ipotesi, un sistema di teorie, o qualunque cosa si preferisca – si traggono conclusioni per mezzo della deduzione logica” (p. 12). Si ottengono in tal modo asserzioni di livello progressivamente meno universale, le quali vengono sottoposte ad un controllo preliminare di coerenza logica tra di esse. Queste asserzioni singolari sono caratterizzate dal fatto di poter essere controllate empiricamente. “Scopo di quest’ultimo tipo di controllo è di scoprire fino a qual punto le nuove conseguenze della teoria [...] vengano incontro alle richieste della pratica, sia a quelle sollevate da esperimenti puramente scientifici, sia a quelle che derivano da applicazioni tecnologiche pratiche. Anche qui la procedura dei controlli rivela il proprio carattere deduttivo. Con l’aiuto di altre asserzioni già accettate in precedenza si deducono dalla teoria certe asserzioni singolari che possiamo chiamare ‘predizioni’. [...] In seguito andiamo alla ricerca di una decisione riguardante queste (e altre) asserzioni derivate, confrontando queste ultime con i risultati delle applicazioni pratiche e degli esperimenti. Se questa decisione è positiva, cioè se le singole conclusioni si rivelano accettabili o verificate, la teoria ha temporaneamente superato il confronto: non abbiamo trovato alcuna ragione per scartarla. Ma se la decisione è negativa, o, in altre parole, se le conclusioni sono state falsificate, allora la loro falsificazione falsifica anche la teoria da cui le conclusioni sono state dedotte logicamente. È opportuno notare che una decisione positiva può sostenere la teoria soltanto temporaneamente, perché può sempre darsi che successive decisioni la scalzino. [...] Nel procedimento delineato qui non compare nulla che somigli alla logica induttiva. Io non presuppongo mai che si possa concludere dalla verità delle asserzioni singolari alla verità delle teorie” (pp. 12-3).

 

Riconosciamo senz’altro nelle posizioni espresse da Popper elementi indirizzati ad una valida prospettiva. Tra gli altri: una concezione aperta, non dogmatica, ‘criticista’, della scienza, che procede attraverso la falsificazione delle teorie date; ed uno dei momenti della sua critica all’empirismo, quello che coglie nei ‘dati’ l’impronta teorica.

 

Tuttavia sia la critica all’empirismo (nel suo complesso) che la proposta del metodo deduttivo dei controlli vanno criticate. La critica popperiana al metodo induttivo non è convincente, in quanto si fonda sulla richiesta ad esso di condizioni di logicità proprie del metodo deduttivo; in effetti specifico del metodo deduttivo è procedere da una proposizione all’altra stabilendo tra di esse nessi di necessità logica. Ora, ciò che si può chiedere al metodo induttivo è che le asserzioni più generali comprendano il complesso delle osservazioni realizzate (non di quelle logicamente possibili). In ciò consiste la generalizzazione induttiva. Le generalizzazioni non pretendono di essere universalizzazioni. Le generalizzazioni induttive sono del tipo: “Tutti i cigni osservati sono bianchi.” Ecco perché è legittimo il passaggio dall’esperienza alla filologia, vale a dire il primo tipo di struttura conoscitiva riconosciuto da Gramsci..

 

È piuttosto il metodo deduttivo dei controlli a non reggere alla argomentazione che Popper fa militare contro il metodo induttivo; in effetti l’eterogeneità tra asserzioni universali e asserzioni singolari – rilevata da Popper allo scopo di dimostrare impossibile il passaggio dalle ultime alle prime – evidenzia l’impossibilità di passare dalle prime alle ultime attraverso un processo puramente logico.

 

Il passaggio logico da un’asserzione universale ad una conclusione singolare richiede sempre la mediazione di un’altra asserzione singolare. Ciò non vuol dire negare validità nel lavoro scientifico al procedimento deduttivo, ma individuarne i limiti: con l’ausilio della logica deduttiva si possono costruire ad esempio ipotesi, ma esclusivamente con essa non è possibile attingere il livello della realtà concreta individuale. Queste osservazioni critiche mostrano che il problema è male impostato da Popper. Egli non riesce a divincolarsi dalla concezione positivistica della scienza come spiegazione della realtà attraverso la formulazione di leggi. Anche se non pretende che sia possibile fornire una prova scientifica dell’esistenza delle leggi – “i nostri tentativi di indovinare sono guidati dalla fede non-scientifica, metafisica (se pur biologicamente spiegabile) nelle leggi, nelle regolarità che possiamo svelare, scoprire” (p. 308) – egli sostiene che la scienza è per definizione, strutturalmente, costruzione di leggi. Dal momento che le asserzioni universali (esplicative) non possono avere che la forma di leggi universali, è già in partenza fissata l’impossibilità di salire dall’esperienza alle leggi, alla scienza. “Le leggi universali trascendono l’esperienza, se non altro perché sono universali e trascendono qualsiasi numero finito dei loro casi osservabili.” (p. 481)

 

Il problema va impostato in modo diverso allorquando si tratta di una scienza dei processi individuali in quanto individuali, cioè di una struttura conoscitiva che non utilizza leggi (senza che ciò ne pregiudichi il carattere scientifico). Ci limitiamo a questo punto a svolgere alcune considerazioni generali. È questa una scienza che concepisce il proprio oggetto come esperienza soggettiva; proprio perché l’esperienza iniziale è soggettiva, razionalmente disposta, è possibile passare da essa alla sua teorizzazione, è possibile cioè la costruzione di concetti – mediante un processo di astrazione che colgano la logica specifica dell’esperienza specifica (concetti che a loro volta possono essere teorizzati). In questo modo è fondata la possibilità di un passaggio dall’esperienza alla scienza, vale a dire al secondo tipo di struttura conoscitivariconosciuto da Gramsci.(Torna al Testo)

 

Nota teorica VIII.
Sulla relazione fra la teoria gramsciana della crisi organica e la teoria marxiana delle crisi del capitalismo.


A questo scopo faremo riferimento al lavoro di Paul Sweezy La teoria dello sviluppo capitalistico (1942), ove si trova una sintetica rigorosa esposizione della natura delle crisi capitalistiche secondo il punto di vista di Marx.

 

Sweezy inizia l’esposizione della teoria marxiana della crisi esaminando la possibilità e la natura delle crisi nella produzione mercantile semplice. Secondo la formula adoperata da Marx per rappresentare la razionalità economica specifica della produzione mercantile semplice (M – D – M), la crisi consiste in “una frattura nel processo di circolazione, che è causata dalla separazione dei due momenti della compera e della vendita” (Torino, Boringhieri, 1972, p. 159). “La formula della circolazione M – D – M contiene certamente la possibilità di una crisi, ma nello stesso tempo essa significa produzione per il consumo; e, poiché il consumo è fondamentalmente un processo continuo, è poco probabile che quella possibilità diventi realtà” (p. 161); a meno che “operino fattori esterni come le guerre e le deficienze di raccolto” (p. 161), nel qual caso i produttori repentinamente possono essere indotti a sospendere gli scambi.

 

Nella produzione capitalistica, invece, l’interruzione del processo di circolazione è un portato interno della razionalità specifica di questo sistema espressa nella formula D – M – D’. Dato che il capitalista è interessato unicamente a massimizzare il saggio del profitto, se questo sparisce o declina al di sotto del livello normale, “scompare [o declina] l’incentivo della produzione capitalistica” (p. 167).

 

“Quando il saggio del profitto scende al di sotto del livello normale, si verificherà un arresto delle operazioni da parte dei capitalisti. Non è difficile scoprirne le ragioni. Per la natura stessa del processo di circolazione, il singolo capitalista è continuamente chiamato a scegliere tra l’una o l’altra di due possibili condotte: o rimettere in circolazione il proprio capitale o trattenerlo nella sua forma monetaria. È bensì vero che a lunga scadenza questa alternativa non esiste perché, se il capitalista vuole continuare a operare nella sua qualità di capitalista, presto o tardi dovrà reinvestire il suo capitale. Ma ciò non significa che egli debba immediatamente reinvestire il suo capitale e neanche che egli debba continuare a reinvestirlo sempre nello stesso ramo di produzione. È principio generalmente accettato che, se il saggio del profitto va al di sotto del livello normale in una particolare industria, i capitalisti trasferiranno i loro capitali da quell’industria in un’altra. Quando ciò si verifica, i capitalisti non sono più spinti a continuare a reinvestire in quelle condizioni, che devono per forza essere da loro considerate sfavorevoli; essi possono rinviare il reinvestimento, finché le condizioni siano di nuovo favorevoli: vale a dire, finché il saggio del profitto sia tornato al livello normale o finché essi si siano rassegnati ad un nuovo e più basso livello del saggio di profitto. Nel frattempo, il rinvio del reinvestimento avrà interrotto il processo di circolazione e causato crisi e superproduzione. La crisi e la successiva depressione sono, infatti, parte del meccanismo mediante il quale il saggio del profitto è riportato completamente o parzialmente al suo livello precedente.” (pp. 168-9)

 

Così definite in generale le crisi capitalistiche, Sweezy prosegue alla ricerca delle cause, da individuare “esaminando le forze agenti sul saggio del profitto” (p. 172). Giunge in tal modo a distinguere due tipi di crisi: ‘crisi associate alla caduta tendenziale del saggio del profitto’ e ‘crisi di realizzo’. Nel primo caso la crisi dipende da una caduta del saggio del profitto attribuibile ad un aumento della composizione organica del capitale in relazione ad un aumento dei salari; nel secondo caso la crisi risulta da una caduta del saggio del profitto derivante dalla impossibiltà di realizzare le merci al proprio valore in relazione ad una generale carenza della domanda effettiva di merci. In entrambi i casi si tratta dell’operare di leggi economiche proprie del modo di produzione capitalistico, le quali ad un certo punto producono squilibri e si trasformano “in una forza antagonistica di questo metodo di produzione e che ha bisogno di crisi periodiche per essere vinta” (K. Marx, Il Capitale, vol. III, citato da Sweezy a p. 175).

 

Riguardo questa teoria marxiana della crisi Sweezy riconosce che essa considera soltanto i tratti essenziali del fenomeno e ad un alto livello di astrazione. “Le crisi – scrive – sono fenomeni particolarmente complicati, che sono regolati in maggiore o minore grado da una grande varietà di forze economiche. Come Marx ebbe ad esprimersi al riguardo, ‘la crisi reale può essere spiegata solamente con il reale movimento della produzione capitalistica, della concorrenza e del credito’ (Theorien über den Mehrwert, vol. II/2, p. 286). Per ‘concorrenza’ e ‘credito’ egli intendeva l’intera struttura dei mercati e del meccanismo finanziario che rende l’economia reale molto più complicata dei sistemi-modello analizzati nel Capitale. Per dirla in altre parole, la crisi, come complesso fenomeno concreto, non potrebbe essere completamente analizzata ove l’indagine fosse condotta a quel livello di astrazione, al quale si tiene il Capitale. Ciò che vi possiamo trovare sono tutti quegli aspetti del problema della crisi che emergono a un alto livello di astrazione.” (pp. 157-8)

 

È evidente che, nonostante l’allargamento del quadro analitico proposto qui da Sweezy per l’esame delle crisi, tutta l’analisi di queste svolta nei termini della teoria economica marxista consiste in un tentativo di spiegazione del fenomeno come prodotto dellamedesima razionalità economica del sistema di produzione capitalistico. Dalla interpretazione da noi proposta della teoria gramsciana della crisi organica risulta evidente una netta diversità d’impostazione del problema, tanto riguardo l’identificazione del fenomeno quanto riguardo la sua spiegazione. Occorre tuttavia rilevare come tale diversità d’impostazione non significa che le due teorie riguardino processi e problemi diversi, ma piuttosto che esse si presentano come analisi alternative di uno stesso processo storico, e come distinte risposte a similari questioni. Ciò è confermato dall’analisi del percorso compiuto da Gramsci nello studio di questo argomento cruciale.

 

Nel Quaderno 10, in alcuni paragrafi stesi nella seconda metà del 1932, Gramsci fa il tentativo di comprendere la crisi secondo i criteri e i concetti della teoria marxiana; interpreta questa teoria e cerca di svilupparla, rimanendo però al suo interno. Esaminando la questione della legge tendenziale del saggio di profitto, annota che “occorrerà forse meglio determinare il significato di legge ‘tendenziale’: poiché ogni legge in Economia politica non può non essere tendenziale, dato che si ottiene isolando un certo numero di elementi e trascurando quindi le forze controperanti, sarà forse da distinguere un grado maggiore o minore di tendenzialità e mentre di solito l’aggettivo ‘tendenziale’ si sottintende come ovvio, si insiste invece su di esso quando la tendenzialità diventa un carattere organicamente rilevante come in questo caso in cui la caduta del saggio di profitto è presentata come l’aspetto contraddittorio di un’altra legge, quella della produzione del plusvalore relativo, in cui una tende ad eliminare l’altra con la previsione che la caduta del saggio del profitto sarà prevalente. Quando si può immaginare che la contraddizione giungerà a un nodo di Gordio, insolubile normalmente, ma domandante l’intervento di una spada di Alessandro? Quando tutta l’economia mondiale sarà diventata capitalistica e di un certo grado di sviluppo: quando cioè la ‘frontiera mobile’ del mondo economico capitalistico avrà raggiunto le sue colonne d’Ercole. Le forze controperanti della legge tendenziale e che si riassumono nella produzione di sempre maggiore plusvalore relativo hanno dei limiti, che sono dati, per esempio, tecnicamente dall’estensione della resistenza elastica della materia e socialmente dalla misura sopportabile di disoccupazione in una determinata società. Cioè la contraddizione economica diventa contraddizione politica e si risolve politicamente in un rovesciamento della praxis.” (Q, 1279)

 

E poco più oltre, nel paragrafo Sulla caduta tendenziale del saggio di profitto, interpreta l’americanismo come un tentativo di “superare la legge tendenziale, eludendola col moltiplicare le variabili nelle condizioni dell’aumento progressivo del capitale costante” (Q, 1312); dove, a seguito di un’analisi particolareggiata di tale questione, conclude: “La legge tendenziale della caduta del profitto sarebbe quindi alla base dell’americanismo, cioè sarebbe la causa del ritmo accelerato nel progresso dei metodi di lavoro e di produzione e di modificazione del tipo tradizionale dell’operaio.” (Q, 1313)

 

Questo tentativo di spiegare la crisi dall’interno della specifica razionalità economica capitalistica è in diretto rapporto con il concetto di ‘mercato determinato’, che Gramsci a questo punto mostra di non aver ancora sufficientamente elaborato. Difatti poco sopra egli scrive: “Mercato determinato per l’economia critica [è] l’insieme delle attività economiche concrete di una forma sociale determinata assunte nelle loro leggi di uniformità, cioè ‘astratte’, ma senza che l’astrazione cessi di essere storicamente determinata. Si astrae la molteplicità individuale degli agenti economici della società moderna quando si parla di capitalisti, ma appunto l’astrazione è nell’ambito storico di una economia capitalistica.” (Q, 1276-7)

 

In questa formulazione del concetto Gramsci coglie già che il mercato determinato è un insieme di attività concrete (attività ‘economiche’, e in ciò sta una prima riduzione); mostra tuttavia di ritenere che tali attività concrete sono adeguatamente assunte, tramite l’astrazione determinata, in ‘leggi di uniformità’, come la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto. Ecco perché la spiegazione della crisi è ricercata sul terreno delle leggi, cioè su quel livello astratto in cui si ritiene sia radicata la razionalità interna del capitalismo.

 

Il decisivo superamento critico di tale concetto di mercato determinato è documentao nel Quaderno 11, nel paragrafo Regolarità e necessità, che abbiamo preso in esame nel testo. Gramsci svolge qui una precisa critica al procedimento attraverso il quale si astraggono dalle attività le leggi, e con queste si spiegano quelle: “Dopo aver rilevato queste forze decisive e permanenti e il loro spontaneo automatismo (cioè la loro relativa indipendenza dagli arbitrii individuali e dagli interventi arbitrari governativi) lo scienziato ha, come ipotesi, reso assoluto l’automatismo stesso, ha isolato i fatti meramente economici dalle combinazioni più o meno importanti in cui realmente si presentano, ha stabilito dei rapporti di causa ed effetto, di premessa e conseguenza e così ha dato uno schema astratto di una determinata società economica.” (Q, 1477-8)

 

Il nuovo concetto di mercato determinato – “ ‘mercato determinato’ equivale a dire ‘determinato rapporto di forze sociali in una determinata struttura dell’apparato di produzione’, rapporto garantito (cioè reso permanente) da una determinata superstruttura politica, morale, giuridica” (Q, 1477) – non comprende solo le attività economiche ma l’insieme organico delle attività concrete, non individua la razionalità del mercato nell’operare delle leggi ma nel concreto rapporto tra le forze sociali attive, non esprime soltanto la razionalità particolare dell’azione dei capitalisti (come in D – M – D’) ma il conflitto tra razionalità diverse. Sul terreno di questo nuovo concetto di mercato determinato tutta la problematica della crisi sarà conseguentemente riformulata; riformulazione che abbiamo esposto nel testo come teoria gramsciana della crisi organica. Ci limitiamo qui di seguito alla esplicitazione di alcuni elementi critici della teoria marxiana della crisi capitalistica contenuti nella nuova teoria.

 

Nel Quaderno 15, steso nella prima metà del 1933, nella nota Passato e presente. La crisi, la critica alla teoria che vede nella caduta del saggio del profitto la causa della crisi è molto esplicita: “Occorrerà combattere chiunque voglia di questi avvenimenti dare una definizione unica, o che è lo stesso, trovare una causa o una origine unica” (Q, 1755). È facile vedere come alle fondamenta di tale interpretazione (da Gramsci criticata) della crisi stia il presupposto ideologico, dedotto dalla concezione materialistica della storia, che il sistema capitalistico, al pari di tutti i precedenti, è condannato a cadere sotto il peso delle proprie contraddizioni. Tanto forte è questo condizionamento che, sebbene quella stessa analisi della crisi faccia intravedere in essa (crisi) un momento di controllo e di guida del processo economico da parte dei capitalisti (“la crisi e la successiva depressione sono, infatti, parte del meccanismo mediante il quale il saggio del profitto è riportato completamente o parzialmente al suo livello precedente” – Sweezy), predomina di fatto l’idea della crisi come processo incontrollato e passivamente subìto dai capitalisti. Ma il problema di fondo è un altro.

 

Se la razionalità capitalistica portasse nel proprio seno l’autodistruzione di questo modo di produzione, l’analisi di tale razionalità dovrebbe essere indirizzata alla individuazione delle sue proprie contraddizioni, e le crisi assumerebbero il significato di sintomi o manifestazioni di esse. È precisamente questo che ostacola la comprensione della specifica razionalità; questa razionalità viene presentata come una razionalità irrazionale, dove questo carattere irrazionale è desunto da un giudizio etico, cioè dal confronto dei fini specifici della produzione capitalistica (merci come valore di scambio) e dei capitalisti (il profitto) con i fini umanamente razionali dell’attività produttiva (prodotti come valore d’uso). Questo confronto consiste in realtà nel misurare i comportamenti dei capitalisti col metro di una razionalità economica precedente (M – D – M), propria della produzione mercantile semplice e che si prolunga nel comportamento economico delle classi subordinate:

 

“La formula della circolazione M – D – M non scompare affatto né diviene irrilevante coll’avvento della produzione capitalistica. Invero, per i lavoratori, che costituiscono la stragrande maggioranza della popolazione, la circolazione continua ad avere la formula M – D – M con tutto ciò che essa implica. Il lavoratore comincia con una merce, la forza-lavoro che, nella migliore delle ipotesi, ha per lui un ben limitato valore d’uso; egli converte la sua forza-lavoro in denaro; e da ultimo usa il denaro per acquistare beni necessari alla sussistenza. Questo è M – D – M e l’obiettivo è un aumento del valore d’uso. D – M – D’ è così estraneo al lavoratore, al pari che ai produttori in una produzione mercantile semplice. È, quindi, del tutto errato dipingere il lavoratore come dominato dal motivo del profitto e immaginare che egli condivida l’intenso desiderio del capitalista di un’appropriazione ‘sempre maggiore di ricchezza in astratto’ ” – Sweezy, pp. 164-5.

 

Proprio perché la critica della razionalità capitalistica è svolta dal punto di vista di una razionalità storicamente antecedente (la cui superiorità è rivendicata in base a un giudizio etico) la razionalità capitalista risulta incompresa e valutata come perversa e assurda, irrazionale appunto.

 

Come abbiamo cercato di mostrare, la questione va interamente reimpostata. Ogni razionalità è internamente coerente; la contraddittorietà nei processi storici concreti risulta dalla compresenza e dal conflitto di diverse razionalità (dominanti o subordinate, sorpassate o emergenti); una data razionalità dominante risulterà superata soltanto nell’espansione di una nuova, superiore, autonoma razionalità.(Torna al Testo)