Pietro Mignosi

 

www.treccani.it

Pensatore e letterato italiano (Palermo 1895 - Milano 1937). Fondò e diresse a Palermo La tradizione, battagliera rivista di filosofia e letteratura, che aveva intenti fondamentalmente cattolici e riconduceva ogni problema, da quello della conoscenza a quello della poesia, a un principio religioso. La sua copiosa produzione comprende opere di filosofia (Critica dell'identità, 1926; Conoscenza e trascendenza, 1927; Ragione e rivelazione, 1930; ecc.), di critica letteraria (L'eredità dell'Ottocento, 1925; La poesia italiana di questo secolo, 1929; Il segreto di Pirandello, 1937; ecc.), di narrativa (Gioia d'agave, romanzo, 1934; ecc.) e di poesia.

*

DBI

di Alessandra Tarquini

MIGNOSI, Pietro.

Nacque a Palermo il 28 giugno 1895 da Giacomo, funzionario pubblico, e da Carolina Fileti. Frequentò il ginnasio nel capoluogo siciliano e trascorse la giovinezza con lo zio, il valente matematico Gaspare Mignosi, mentre la famiglia seguiva il padre, spesso costretto a cambiare residenza per lavoro. Quando era ancora uno studente, il M. aderì alla Gioventù cattolica italiana divenendone subito un militante impegnato.

Ottenuta la licenza liceale, il M. si iscrisse alla facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Palermo. Seguì le lezioni del filosofo fenomenista C. Guastella e lavorò prima come cancelliere di pretura a Taormina e poi presso la corte d’appello del capoluogo siciliano. Nel 1915 partecipò alla prima guerra mondiale. Soldato semplice a Piacenza, fu allievo ufficiale a Modena, sottotenente sul Carso e in Trentino, e infine, ferito da una granata che nel giugno del 1916 gli danneggiò un timpano e una gamba, venne promosso capitano di fanteria e decorato con la croce al merito.

Nel dopoguerra il M. divenne un intellettuale cattolico impegnato nella rinascita culturale e politica del Mezzogiorno. Nel 1918 sposò Maria Travali, una sua compagna di università, lasciò il lavoro di funzionario pubblico e, prima ancora di aver vinto il concorso a cattedra, cominciò a insegnare filosofia nelle scuole superiori. Vicepresidente della giunta diocesana di Palermo, attivo nel movimento democratico cristiano, nel 1919 entrò a far parte del Partito popolare italiano (PPI) e nel 1920 fu nominato redattore capo di Battaglie popolari, l’organo della federazione provinciale palermitana del partito, e segretario politico di una sezione del PPI. Sempre nel 1920 si laureò in filosofia teoretica.

Fra i fondatori della rivista letteraria Audax, diretta da G. Marino, nel 1922 il M. divenne redattore capo di Sicania, fondata da S. Raccuglia, nel 1923 fondò la Rivista del Sud e nel 1924 fu direttore di Nuovo Romanticismo. L’attività di insegnante lo portò a Petralia Sottana nel 1920, a Corleone nel 1921 e a Caltanissetta nel 1922. Alla fine del 1923, dopo un primo tentativo non riuscito, vinse il concorso per la cattedra di filosofia e prese servizio nel liceo Vittorio Emanuele di Palermo, dove rimase fino al 1936. Verso la fine del 1921 cominciò ad allontanarsi dal PPI e nel 1923 aderì al Partito nazionale fascista (PNF).

Personaggio eclettico e penna instancabile, nella prima metà degli anni Venti il M. si dedicò, come filosofo, letterato e pubblicista, a promuovere la vita culturale siciliana: fondò lo Studio palermitano, un istituto superiore presieduto da L. Lavitrano (cardinale dal 1929), che nei suoi intenti doveva rappresentare il primo tentativo di creare un’università cattolica in Sicilia, e fu tra i promotori dell’Associazione cattolica italiana per l’Oriente cristiano, anche questa organizzata sotto l’egida di Lavitrano e del gesuita M. d’Herbigny (vescovo dal 1926). Non si trattò di iniziative rivolte esclusivamente al mondo cattolico. Al contrario, in quei primi anni Venti, il M. era convinto che per rilanciare la cultura cattolica occorresse costruire un dialogo con la filosofia moderna. Per questo collaborò con riviste come Bylichnis, Coscientia e Rivoluzione liberale, dove, nell’ottobre 1925, pubblicò un articolo contro la mafia, che provocò il sequestro del giornale, per la polemica del M. contro l’intervento del prefetto C. Mori.

Lo stesso M. spiegò la ragione di questa sua attenzione alla cultura moderna ricordando il fascino dell’insegnamento di G. Gentile sui giovani cattolici e sul clero del Mezzogiorno, dopo l’esaurirsi del movimento democratico cristiano da un lato e della cultura positivistica dall’altro. E in effetti, la volontà di conciliare pensiero cristiano e idealismo caratterizzò i suoi saggi filosofici di quel periodo, L’unità filosofica (Palermo 1920) e Introduzione alla dialettica (ibid. 1925). Questi saggi, peraltro, non rappresentano le sue opere migliori, perché in esse il M. oscillò fra istanze diverse in uno sforzo speculativo fragile e contraddittorio. Due sue raccolte di versi, Levamen (ibid. 1922) e Dialettica (ibid. 1924) mostrarono assai più chiaramente degli studi filosofici la direzione della sua ricerca. A proposito di questi lavori lo stesso M. sottolineò che è possibile scorgervi i motivi più autentici della sua «redenzione», e cioè di quando, «scontento di quella triste uniformità egocentristica dell’eticismo degli idealisti», comprese come l’individuo «solo non possa sperare» (Il ragguaglio dell’attività culturale e letteraria dei cattolici in Italia, a cura di E. Lucatello et al., Firenze 1931, p. 15).

La seconda metà degli anni Venti segnò l’inizio di una nuova fase della biografia intellettuale del M., che abbandonò le suggestioni idealistiche della giovinezza e sviluppò la sua riflessione critica sull’attualismo di Gentile.

Nel saggio L’idealismo (Milano 1927) scrisse: «Noi contestiamo all’idealismo la possibilità di trascendere l’atto per cui si afferma l’io, e se avessimo dimostrato che il passaggio dall’io empirico all’io puro e quello dall’io puro all’io assoluto importa trascendenza dell’atto, resterebbe implicitamente dimostrato che l’io di cui parla l’idealismo è l’io personale o empirico, e che ogni idealismo sia in fondo un solipsismo cioè una dialettica apparente» (p. 134).

Da allora il M. divenne uno degli avversari più severi della filosofia moderna e andò ad aggiungersi al coro dei critici di Gentile, che alla fine degli anni Venti raccoglieva buona parte degli intellettuali italiani. Con questo obiettivo nel 1928 il M. fondò La Tradizione, una rivista di storia, filosofia e letteratura, che all’idealismo di Gentile oppose il tomismo. Nel primo numero, con l’articolo Responsabilità d’essere cattolici, il M. illustrò il proprio programma antimoderno, «un programma di valorizzazione di quelle idee che paiono oggi le più repellenti ed incomunicabili con la cultura critica e idealistica» (I, [1928], 1, p. 1).

La volontà del M. e dei suoi collaboratori era chiara: i cattolici avrebbero dovuto evitare il misticismo irragionevole e il criticismo razionalista, liberandosi dall’intellettualismo della filosofia moderna, rivendicando la propria vocazione universalistica e portando il loro messaggio evangelico nel mondo. In effetti, sin dai primi anni, La Tradizione non si limitò a ospitare le riflessioni filosofiche e le analisi letterarie di chi vi collaborava, ma divenne il centro di una serie di iniziative rivolte a organizzare e promuovere nuove realtà culturali: il Circolo di studi per l’Oriente cristiano, il Circolo di cultura missionaria, il Gruppo di amici del vero e del bene, a cui aggiunse un’intensa attività editoriale, aggregando intorno a sé intellettuali noti e sconosciuti, e riuscendo a ritagliarsi un ruolo autonomo all’interno del panorama culturale cattolico degli anni Trenta. Proprio per questo finì al centro di diverse polemiche, come quella del 1934-35 con gli intellettuali cattolici della rivista Frontespizio, che il M. accusò di esprimere «dilettantismo religioso», rimanendo fuori dalla realtà spirituale e dalle problematiche dei dibattiti filosofici.

In quegli anni il M. pubblicò le sue opere più impegnative. In Ragione e rivelazione (Palermo 1930) tentò di porre i principî della rivelazione cristiana a fondamento di una dottrina della conoscenza, proponendo una «filosofia perenne» sulla base della verità cristiana, e più specificatamente cattolica. Anche nei suoi studi di estetica, dominati dall’idea della trascendenza, ben evidente in Arte e rivelazione (ibid. 1933), il M. si fece promotore di un’arte intesa come espressione del soprannaturale. Con Problema del romanzo italiano (Milano 1934) sostenne invece che il romanzo era in grado di rispondere alla crisi della filosofia idealistica nel momento in cui l’artista avesse superato la distinzione fra verosimile e non verosimile e avesse parlato del vero intendendolo come creazione di Dio. In realtà, però, il M. migliore fu il prosatore, quello del romanzo Perfetta letizia (Pistoia 1931) e del lungo racconto L’Azzalora (Catania 1931), esempi di come dal primitivismo di G. Verga egli approdasse a traguardi ontologici (Bertacchini, p. 149) e fosse in grado di raccontare la mentalità contadina siciliana con una tensione religiosa autentica (Sciascia, p. 275).

Per problemi di salute nel 1934 il M. lasciò la direzione de La Tradizione al sacerdote catanese V. Schiliro. Tuttavia, l’anno successivo fu ancora protagonista del dibattito culturale italiano. Nell’opera Il segreto di Pirandello (Palermo 1935) il M. polemizzò con B. Croce, che aveva definito ingenua la filosofia del grande drammaturgo, e sostenne che L. Pirandello non doveva essere letto in modo intellettualistico, e quindi cercando una filosofia che ne spiegasse le scelte stilistiche, bensì come un artista che nascondeva una profonda religiosità.

Nel 1936 il M. si trasferì a Milano, dove insegnò nell’istituto magistrale C. Tenca ed ebbe un incarico all’Università cattolica. Morì a Milano il 15 luglio 1937.