DBI
di Dussler
Nacque il 6 marzo 1475 a Caprese nel Casentino da Ludovico di
Leonardo Buonarroti Simoni e da Francesca di Neri di Miniato del
Sera.
Il padre era di modeste condizioni, ma di carattere fiero; della
madre, morta precocemente nel 1481, non si hanno altre notizie. Il
principale biografo di Michelangelo, il Condivi, faceva risalire le
origini della famiglia ai conti di Canossa: discendenza fittizia,
questa, che del resto dovette suscitare scetticismo già ai
tempi del B., se il Vasari ne parla con un prudenziale "si dice",
mentre le altre fonti addirittura ne tacciono.
Dopo un breve apprendistato presso Francesco di Urbino, il B.
entrò, nonostante l'opposizione del padre, nella bottega del
pittore allora più in vista a Firenze, Domenico Ghirlandaio,
dove venne introdotto alla pratica della pittura murale e di quella
a olio (Vasari, a cura di P. Barocchi, I, p. 6; II, pp. 68-70). Dopo
un anno, assieme all'amico e condiscepolo F. Granacci, passò
alla scuola del giardino di S. Marco, fondata da Lorenzo de' Medici
e guidata dal vecchio Bertoldo di Giovanni. Questa sorta di
accademia fu assai stimolante per il B., poiché vi erano
raccolti in gran numero antichità, modelli e gessi, e nello
stesso tempo gli offrì un ambiente di giovani che
condividevano le sue aspirazioni. È perciò assai
probabile che proprio nel giardino mediceo il B. abbia compiuto la
sua formazione di scultore. Grave di conseguenze fu l'incidente
occorsogli nella scuola stessa, quando, durante una lite, P.
Torrigiani gli ruppe l'osso del naso procurandogli una deformazione
per la quale Michelangelo ebbe a patire tutta la sua vita (Vasari,
I, p. 12; II, pp. 114 s.).
Sempre al tempo in cui frequentava il "giardino", il B. venne
attratto nella prestigiosa cerchia di Lorenzo il Magnifico, nella
quale ebbe modo di conoscere il mondo degli umanisti fiorentini e in
particolare il Poliziano, che gli rese familiari i temi figurativi
dell'antichità. I rapporti con i Medici si mantennero anche
dopo la morte di Lorenzo (1492): non solo, infatti, il figlio di
questo, Piero, proteggeva il giovane B., ma questi, nel 1496,
poté anche avvalersi a Roma delle raccomandazioni di Lorenzo
di Piero (lettera del B. da Roma del 2 luglio 1496, in Carteggio, I,
pp. 1 s.).
Della produzione del B. in questo periodo giovanile restano tre
opere conservate nella casa Buonarroti a Firenze: il piccolo rilievo
a "stiacciato" della Madonna della scala; il rilievo della Lotta dei
centauri con i Lapiti, geniale sia per tecnica sia per movimento ed
espressione; il nobile Crocefisso in legno di S. Spirito, nel cui
ospedale fu consentito al B. di intraprendere i suoi primi studi di
anatomia (Condivi, p. 30; Vasari, I, p. 13; II, pp. 118-120; M.
Lisner, Il Crocifisso di S. Spirito, in Atti..., 1966, pp. 295-316).
Nello stesso periodo (1493) suscitò profonda impressione su
di lui la predicazione del Savonarola; impressione così
duratura che sarà ancora percepibile, nel pensiero e nelle
forme, negli anni maturi (M. Cali, La Madonna della Scala di
Michelangelo, il Savonarola e la crisi dell'Umanesimo, in Boll.
d'arte, LII [1967], pp. 152-166).
Nell'autunno del 1494, poco prima della cacciata dei Medici, il B.
fuggì da Firenze recandosi prima a Venezia, per trascorrere
infine un intero anno a Bologna, dove trovò ospitalità
in casa di G. F. Aldrovandi, uomo di grande cultura (Barocchi, in
Vasari, II, pp. 135 s.). Questo soggiorno ebbe un duplice risultato:
il B. creò per l'Arca di s. Domenico le statuette, ancora
mancanti, di S. Petronio e di un Angelo portacandelabro (per il S.
Procolo, vedi Barocchi, in Vasari, II, pp. 137-139); inoltre rimase
così profondamente colpito dalle grandiose figurazioni
scolpite sulla facciata di S. Petronio da Iacopo della Quercia -
gotico, ma a lui idealmente affine - da richiamarsi ad esse ancora
nella Sistina. Forte di questa preparazione, nel 1495 fece ritorno a
Firenze, dove eseguì, per incarico di Pierfrancesco de'
Medici, una statuetta di S. Giovannino che è da considerare
perduta. Non è, infatti, possibile identificare con
l'originale né la scultura del Museo di Berlino-Dahlem,
né quella della Pierpont Morgan Library di New York (per
altri tentativi di attribuzione, vedi Barocchi, in Vasari, II, pp.
142 ss.). A Firenze peraltro trascorse solo un anno, poiché
dal giugno 1495 trasferì il campo della sua attività a
Roma, dove si trattenne fino al 1500.
Seppure in quel momento la "città eterna" non era ancora il
centro e il punto cruciale di quella fase culturale che si suole
definire come Rinascimento maturo, per il B. ventenne il mutamento
di ambiente ebbe importanza determinante sotto più di un
profilo. Si presentarono nuovi aspetti, nuovi rapporti si
intrecciarono; davanti agli occhi aveva il mondo
dell'antichità con i suoi monumenti, nuovi autorevoli
mecenati presero a proteggerlo e gli impegni che gli si
prospettavano erano per lui incitamento a rivelarsi nel campo della
scultura.
All'inizio il B. trovò ospitale accoglienza presso il
cardinale Raffaello Riario, che aveva raccolto nel suo nuovo palazzo
(della Cancelleria) una collezione eccellente di statue antiche; non
sappiamo con certezza se dal Riario egli abbia avuto un particolare
incarico. Al cardinale il B. era certamente già noto per un
Cupido dormiente che gli era stato venduto, come scultura antica, da
un mercante.
Questa statua era stata scolpita a Firenze, come informano sia
Condivi (pp. 33 s.) sia Vasari (I, pp. 13, 115). Non sono apparsi
convincenti i tentativi di identificarla con il Cupido del Museo di
Torino (K. Lange, Der Cupido des Michelangelo in Turin, in
Zeitschrift für bildende Kunst, XVIII [1883], pp. 233 ss., 274
ss.). Su una versione venuta recentemente in luce in una collezione
privata di Bologna riferisce esaurientemente A. Parronchi, Il Cupido
dormiente di Michelangelo, Firenze 1971.
Rapporti positivi si stabilirono fra il B. e un altro romano assai
illustre, Iacopo Galli, ricco e appassionato mercante d'arte che nel
giardino del suo palazzo, nei pressi della Cancelleria, custodiva un
considerevole numero di opere d'arte antica: fu proprio lui il
committente del Bacco (Firenze, Museo nazionale) eseguito dal B. nel
1497 (Condivi, pp. 34 s.; Vasari, I, p. 16; II, pp. 161 s.). Il B.,
senza seguire l'antica tipologia che dava del dio una
rappresentazione gioiosa, volle piuttosto, nella posizione, renderne
lo stato di ebbrezza; quest'opera ha comunque importanza in quanto
è la prima statua a tutto tondo completamente condotta a
termine, che esige quindi di esser guardata da ogni parte. Un'altra
scultura celebre, la Pietà di S. Pietro, fu commissionata al
giovane artista dal cardinale francese Jean Bilheres de Lagraulas
(ora nella prima cappella della navata laterale destra, ma in
origine collocata nella chiesa di S. Petronilla adiacente all'antica
basilica). In quest'occasione il B., con lettera commendatizia del
18 nov. 1497 indirizzata dal cardinale agli Anziani di Lucca, si
recò alle cave di marmo di Carrara; vi si trattenne sino ai
primi di marzo 1498 (v. G. Poggi, in M. B., IV centenario del
Giudizio Univ., Firenze 1942, p. 120); e di nuovo, poco dopo, si
trovava alle cave, come risulta da una lettera del cardinale al
marchese A. Malaspina (perduta; ma v. Barocchi, in Vasari, II, p.
171 n. 145; K. Frey, Michelagniolo B. ..., 1907, p. 140). Concluso
il contratto il 27 agosto del 1498, si pose immediatamente al
lavoro: questo fu condotto a termine nella seconda metà del
1499, poco tempo dopo la morte del cardinale (Condivi, pp. 35 s.;
Vasari, I, p. 17; II, pp. 170-190).
Nella stupenda composizione sono certamente da riconoscere
suggestioni leonardesche, sia per l'espressione pacata e gli
atteggiamenti composti, sia per la bellezza della testa del Cristo:
essa suscitò immediatamente grandissima ammirazione, e il B.
dovette avere piena coscienza, in quest'occasione, della propria
grandezza, dal momento che, per la prima e ultima volta, appose
all'opera la sua firma, sul nastro che attraversa il busto della
Madonna: "Michael Agelus Bonarotus Florent. Faciebat".
L'eco di questo successo raggiunse ben presto la sua città,
come dimostra l'imponente serie di commissioni che egli ricevette al
suo ritorno a Firenze nella primavera del 1501; a venticinque anni
era ormai consacrato come il primo scultore del suo tempo. Non si
trattava più, ora, di committenti privati, ma di istituzioni
religiose e laiche, come le corporazioni, che facevano di tutto per
averlo al loro servizio. Venne infatti, tra l'altro, incaricato di
condurre a termine l'altare Piccolomini nel duomo di Siena (ma non
tutte le statuette sono autografe: v. E. Carli, Michelangelo a
Siena, Roma 1964, Mancusi-Ungaro, 1971). Il 16 ag. 1501 l'Opera del
duomo lo incaricò di eseguire una colossale statua di David:
lavoro questo estremamente complesso perché il B., dovendo
creare la statua da un blocco di marmo già affrontato, e poi
abbandonato, da Agostino di Duccio nel 1464, era in ogni senso
vincolato a dimensioni obbligate.
Quando l'opera venne consegnata nel 1504, restava solo il problema
della collocazione del "gigante" (alto tre metri e mezzo). Fu
nominata una apposita commissione, della quale fece parte, tra gi
artisti fiorentini, anche Leonardo da Vinci (G. Gaye, Carteggio
ined. d'artisti, II, Firenze 1840, p. 355, e, in particolare, C.
Neumann, Die Wahl des Platzes für Michelangelos David in
Florenz im Jahr 1504, in Repertorium für Kunstwissenschaft,
XXXVIII [1916], pp. 1-27). La commissione e il Gran consiglio
deliberarono di collocare la statua dinanzi a Palazzo Vecchio, e
già in questa decisione era evidente il significato di
simbolo politico annesso al giovane eroe del Vecchio Testamento
(Vasari, I, p. 20: "sì come egli aveva difeso il suo popolo e
governatolo con giustizia, così chi governava quella
città dovesse animosamente difenderla e giustamente
governarla"). E in effetti la statua, così come si
presentava, si adattava perfettamente a questa interpretazione: il
suo aspetto reso imponente dall'assoluta nudità e dalle
dimensioni colossali, la vigile compostezza della posa e della testa
non lasciavano dubbi sul suo significato di personificazione della
Fortitudo che doveva ricordare gli ideali di libertà della
Repubblica. Rispetto alle interpretazioni dello stesso tema, date da
un Donatello o da un Verrocchio, questa del B. rappresenta una
totale novità di concezione nei confronti del Quattrocento:
con la monumentale figura, caratterizzata da un vigoroso tratto
romano e animata da un accentuato spirito dell'antico, si opponeva
un definitivo rifiuto al primo Rinascimento fiorentino. Non
v'è dubbio che il ricordo dei Dioscuri di Monte Cavallo a
Roma è stato determinante per il B.; già in Vasari,
del resto, lo si avverte, quando paragona il "gigante" con varie
sculture romane, tra le quali appunto "i giganti di Montecavallo"
(I, p. 22).
Oltre al grande David in marmo, il B. aveva fatto anche una figura
più piccola, in bronzo, dell'eroe biblico; era stata
richiesta dal maresciallo francese Pierre de Rohan alla Signoria che
lo aveva proposto come esecutore. L'opera, scomparsa, fu collocata
nel castello di Bury e, dopo il 1650, nel castello di Villeroy
(Mennecy).
Dopo il David, motivi di novità in senso cinquecentesco si
riconoscono anche in una scultura di soggetto religioso, la
cosiddetta Madonna di Bruges (Bruges, St.-Sauveur), che,
commissionatagli dal mercante fiammingo Alexander Mosaren
immediatamente dopo il suo ritorno, fu tuttavia terminata solo nel
1506 L'opera si differenzia dai tipi aggraziati del Quattrocento
(per es. la Madonna del duomo di Prato di Benedetto da Maiano) non
solo per la nobiltà e dignità della Vergine, ma anche
per la figura del Bambino, in piedi, con lo sguardo abbassato in una
espressione di gravità. Anche in questa scultura, come nella
Pietà di S. Pietro, l'artista ha rielaborato suggerimenti di
Leonardo (specie nel volto della Madonna), ma per il resto l'ha
concepita secondo il suo proprio ideale figurativo.
Un eguale mutamento si avverte nei due bei tondi con Madonna, il
Bambino e s. Giovannino, eseguiti attorno al 1503-04 rispettivamente
per Bartolomeo Pitti (Firenze, Museo naz.) e per Taddeo Taddei
(Londra, Royal Academy). Ambedue sono già menzionati
nell'edizione del 1550 del Vasari (I, p. 23), ma non in Condivi.
Benché non manchino, in questi due rilievi, motivi di genere,
l'impressione determinante è data dall'atteggiamento maestoso
della Madonna, che nel tondo Pitti prelude sensibilmente ai tratti
sibillini delle figure femminili del soffitto della Sistina.
Di grandissimo onore fu per il B. l'incarico di eseguire, nella sala
del Consiglio di Palazzo Vecchio, un affresco monumentale con la
Battaglia di Cascina, a fianco del più anziano conterraneo e
rivale Leonardo, che doveva dipingere la Battaglia d'Anghiari. I
preparativi dell'impresa si protrassero dalla fine del 1504 sino al
1506, ma né Leonardo né il B. passarono all'esecuzione
dell'opera (Condivi, p. 44; Vasari, I, pp. 24 s.; II, pp. 248-271;
Gaye, Carteggio, II, pp. 88 s.: molto importante per la questione
della collocazione, H. Grohn, Die Schule der Welt. Zu Michelangelos
Karton der Schlacht bei Cascina, in Il Vasari, XXIV [1963], pp. 63
ss.; e, più recente: R. Salvini, La battaglia di Cascina, in
Studi di storia dell'arte in onore di Valerio Mariani, Napoli 1971,
pp. 131 ss.). Solamente una copia ridotta del cartone
(proprietà Earl of Leicester, Holkham Hall) e incisioni
frammentarie possono darci una idea della grandiosa composizione
concepita dal B. come pura accademia di nudi nelle posizioni e nei
movimenti più disparati. Il cartone ebbe un'eccezionale
funzione didattica per i giovani artisti fiorentini: ne troviamo
un'eloquente testimonianza nel Vasari (I, pp. 26 s.).
Come l'affresco per Palazzo Vecchio, anche una serie di Apostoli,
commissionata al B. nel 1503 dall'arte della lana e dall'Opera del
duomo per S. Maria del Fiore, era destinata a non essere compiuta;
infatti egli iniziò solo la statua di S. Matteo (Firenze,
Accademia), rimasta appena abbozzata nel blocco marmoreo. A
giudicare da essa è lecito supporre che, se la serie fosse
stata condotta a termine, avrebbe costituito per Firenze un ciclo di
figure eroiche nel quale, in ricca varietà di aspetti,
avrebbero trovato espressione, forse più che lo spirito
religioso, la virtus, l'energia, il forte volere degli apostoli
cristiani. L'unico dipinto su tavola del B., il grande tondo con la
Sacra Famiglia (Uffizi), fu commissionato nel 1503-04, in occasione
delle nozze di Agnolo Doni e Maddalena Strozzi; ma è
probabile che il compimento dell'opera si sia protratto sino al 1505
(Vasari, I, pp. 13-15, 23 s.: per la datazione del quadro vedi
Barocchi, ibid., II, p. 240).
Nel 1505 si verificò nella vita del B. una svolta decisiva,
quando, nel marzo, Giulio II gli propose di eseguire la propria
tomba monumentale. Egli fece il progetto e gli venne fissato un
compenso di 10.000 ducati pagabili in cinque anni. Già in
aprile si recava alle cave di Carrara, dove rimase per scegliere i
marmi sino alla fine dell'anno; nel gennaio 1506 ne attendeva
l'arrivo nella sua bottega a Roma presso S. Caterina, non lontano da
piazza S. Pietro. Indubbiamente il papa intendeva porre il monumento
nel nuovo S. Pietro, in fase di progettazione, ma non sappiamo
esattamente dove. All'inizio del 1506 si accordava con il Bramante,
per dare inizio alla costruzione. Poco dopo avveniva il primo
scontro tra il B. e il pontefice, che dichiarò di rinunciare
al progetto; l'artista attribuì a un intrigo del Bramante la
causa di questo malevolo atteggiamento, e il 17 aprile fuggì
a Firenze dove si trattenne sette o otto mesi (Condivi, pp. 38 ss.,
e Vasari, I, pp. 31-33; II, pp. 370-380).
In questo periodo molti tentativi furono fatti, da parte della corte
pontificia, per indurlo a tornare a Roma, ma tutti gli interventi
fallirono, compreso quello del podestà Soderini. In novembre,
infine, Giulio II lo convocò a Bologna e gli ordinò la
propria statua in bronzo alta quattro metri, che fu posta nel
febbraio del 1508 sulla facciata di S. Petronio (Condivi, p. 46, e
Vasari, I, pp. 33-35; II, pp. 389-395, 398-401). L'importante opera,
preludio ai Profeti della Sistina, venne distrutta nel dicembre 1511
dai partigiani dei Bentivoglio. La commissione bolognese era prova,
da parte del papa, di un desiderio di riconciliazione con l'artista,
sicché questi, nel marzo 1508, fece ritorno a Roma, con animo
placato, per mettere in atto la proposta di Giulio II di dipingere
il soffitto della cappella Sistina. L'idea del pontefice di
rappresentarvi i dodici apostoli parve al B. "chosa povera"
(Maurenbrecher, 1938, p. 69) e quando egli fece presente al papa
questa obiezione, gli venne lasciata carta bianca per la stesura
tematica.
Non è ora il caso di addentrarsi nell'esposizione, sia pure
solo approssimativa, dell'ordine strutturale tanto perspicuo quanto,
per altro verso, raffinato che presiede alla intelaiatura
architettonica del soffitto: dei riquadri rettangolari al centro e
della loro differente misura, della loro prosecuzione su ambedue i
fianchi, del sistema di pennacchi, lunette e archi di scarico sui
quattro lati. Di tutto questo complesso organismo quel che
più conta è il raggiunto carattere unitario della
superficie pittorica, e l'affermazione, ovunque dominante,
dell'elemento figura: due aspetti, questi, che non erano propri
della pittura del Quattrocento. Entro questo sistema il B. ha
inserito il suo grandioso programma iconografico: nei nove riquadri
rettangolari (procedendo dall'entrata fino alla parete del coro ad
ovest), sono le Scene della creazione e la Storia dei primi uomini
fino al Diluvio universale; negli adiacenti scomparti verticali,
sette Profeti e cinque Sibille, e, nei quattro grandi pennacchi
d'angolo, altrettanti drammatici episodi biblici (David e Golia,
Giuditta e Oloferne, il Serpente di bronzo, Punizione di Aman). Ma
non si limitò a questo programma che si presentava già
di per sé tanto complesso: il B., infatti, estese la
superficie del soffitto, fino a invadere parte delle pareti, come si
vede nelle otto vele e nelle sottostanti quattordici lunette. Nelle
pitture di questi ultimi riquadri, la tensione degli avvenimenti
narrati nel soffitto si allenta in un mondo di quiete ove
l'esistenza nomade degli antichi israeliti (i Predecessori e gli
Antenati di Cristo) viene descritta in scene domestiche e idilliache
anche con qualche concessione di tono gradevolmente descrittivo.
Denso di significati appare, in tutta la sua audacia, il motivo dei
cosiddetti Ignudi: venti figure di giovani seduti, che coronano, a
due a due, i pilastri dei troni dei Veggenti e reggono festoni di
foglie di quercia (allusione a Giulio II e alla famiglia Della
Rovere). Le tante e svariate interpretazioni proposte per questi
Ignudi, specialmente come riferimenti a Eros, non sembrano
plausibili; assai più illuminante appare la supposizione
secondo la quale il B. doveva ritenere indispensabile questa
presenza della figura umana, perché la trama decorativa non
accusasse discordanze. Certo fu un ardimento inaudito il fatto,
assolutamente senza precedenti, di servirsi, a questo scopo,
esclusivamente del tema del nudo in movimento, tanto più in
un luogo sacro. In ciò l'artista deve dunque aver dato libero
corso alla propria fantasia, e tuttavia è improbabile che,
seppure dobbiamo riconoscere in lui un attento e illuminato lettore
della Bibbia, l'intero programma iconografico sia stato concepito
senza un consulente ecclesiastico (proveniente quasi certamente
dall'ambiente che circondava il papa). Alcune fra le più
recenti indagini si sono addentrate in un ordine di interpretazioni
estremamente complesso e troppo sottile, fondato sul pensiero
neoplatonico. A una verifica spassionata, non v'è uno solo,
di questi tentativi di lettura, che convinca e, giustamente, gli
studiosi italiani li hanno evitati (V. Mariani, 1964, pp. 45 ss.; E.
Camesasca, in La cappella Sistina in Vaticano, Milano 1965, pp. 174
ss.: anche K. Clark, 1964, ha rifiutato questo orientamento
interpretativo).
Il B. venne a capo della gigantesca impresa, senza aiuti, in appena
quattro anni, con qualche rara e breve interruzione: nel gennaio
1509 egli iniziò a dipingere il soffitto, a mezzo agosto del
1511 venne scoperta la prima parte e nel settembre 1512 l'intera
opera era compiuta. Alla vigilia della festa di Ognissanti, la
cappella Sistina fu aperta al pubblico (P. de Grassis, Diario, in E.
Steinmann, Die Sixtinische Kapelle, II, München 1905, Regesta,
n. 108, pp. 735 s.: "Vesperae in vigilia omnium sanctorum... Hodie
primum capella nostra, pingi finita, aperta est. ...". Per la
cronologia vedi R. Salvini, in La Capp. Sistina, cit., pp. 95-97).
Il B. non aveva mai abbandonato con il pensiero, nemmeno mentre
lavorava al soffitto, quella prima commissione del papa, relativa
alla sua tomba, alla quale Giulio II aveva soprasseduto in favore
della decorazione della Sistina; in realtà Michelangelo, che
sempre si sentì scultore e non pittore, avrebbe tenuto assai
di più a intraprendere questo lavoro. Esso assunse un
carattere di urgenza subito dopo la morte del papa (avvenuta nella
notte tra il 20 e il 21 febbr. 1513), quando gli esecutori
testamentari di Giulio II, il cardinale Aginense, Leonardo Grosso
Della Rovere e il cardinale Lorenzo Pucci, presero contatto con
l'artista per concludere, il 6 maggio 1511 il nuovo contratto per il
monumento (per il tenore del contratto, vedi S. Prete, The original
written contract with Michelangelo for the tomb of Pope Julius
II..., New York 1963, pp. 19-22).
La struttura di monumento isolato, prevista nel primitivo progetto,
dovette essere ridotta a quella di tomba murale, sicché la
facciata posteriore veniva a essere annullata; ciò
nonostante, l'opera era ancora piuttosto costosa, perché
veniva mantenuta, anche nella nuova versione per la fronte e per i
due fianchi, la zona inferiore decorata, su ciascun lato, con due
Vittorie entro nicchie, fiancheggiate rispettivamente da due Schiavi
incatenati, più grandi del naturale; e lo stesso si dica per
il registro superiore con sei figure sedute in luogo delle otto
previste in precedenza. Dei sei rilievi in bronzo "dove si poteva
vedere i fatti di tanto pontefice" di cui parla il Condivi (p. 41)
non appaiono sul progetto che i relativi campi vuoti rettangolari
sopra le nicchie delle Vittorie.
Solo il sarcofago con il papa defunto subiva un cambiamento rispetto
al progetto originario, dal momento che veniva a cadere l'idea del
mausoleo in posizione centrale. La trasformazione del monumento in
sepolcro murale rendeva necessaria una adeguata articolazione della
parete: il B. ideò una nicchia gigantesca (la "capelletta")
contenente, al centro, sospesa, la figura della Madonna col Bambino,
mentre su ciascun lato dovevano apparire rispettivamente due figure
in piedi (vedi il secondo contratto in Milanesi, 1875, p. 637).
Perciò sul piano quantitativo - se si considera la parte
superiore della facciata di cui si è detto - in nessun modo
il nuovo progetto si rivelava riduttivo. Fatto, questo, che peraltro
risulta chiaro dal testo del contratto: il compenso veniva infatti
elevato, dai 10.000 ducati di un tempo, a 16.500 e il compimento
fissato alla scadenza di sette anni (De Tolnay, IV, 1954, passim, e
Pope Hennessy, 1966, pp. 316 ss.; sono inoltre utili le osservazioni
e le ricostruzioni di E. Panofski, 1964, pp. 88-90, ill. 417-422).
Concluso il contratto, il B. si pose immediatamente al lavoro.
Trasferì allora la casa e la bottega presso il Macello dei
Corvi, nelle vicinanze di S. Maria di Loreto (vedi F. M. Apollonj
Ghetti, Le case di Michelangelo, in L'Urbe, XXXI [1968], pp. 17 ss.)
e là fece trasportare, da piazza S. Pietro, i blocchi di
marmo fino allora lasciati in deposito. In primo luogo si
dedicò con lena alla statua di Mosé, che doveva essere
collocata, come nel primo progetto, nel registro superiore
all'angolo destro; contemporaneamente vennero eseguiti i celebri
Schiavi: il cosiddetto "dormiente" e il "ribelle" (Parigi, Louvre).
Se si considera che queste tre figure colossali impegnarono
l'artista per tre anni - salvo brevi interruzioni - è da
ritenere che fin da allora il B. dovette rendersi conto che non gli
sarebbe stato possibile mantenere il contratto. E infatti un accordo
stabilito con gli eredi Della Rovere l'8 luglio 1516 (Milanesi,
1875, pp. 644-648) riduce il monumento al puro e semplice sepolcro
murale, eliminando tutto il complesso di statue delle fiancate e
restringendo a due il numero delle figure sedute nella zona
superiore.
A questo cambiamento si aggiunse anche una circostanza esterna: il
successore di Giulio II, Leone X (Medici), venuto in conflitto con
il principale esponente della famiglia Della Rovere, il duca
Francesco Maria di Urbino, cercò, dal 1516, di assicurarsi i
servigi del B. (contatti in questo senso iniziarono sin dai primi di
ottobre di quell'anno: v. lettera di Baccio d'Agnolo al B. alla
quale è allegato uno scritto di D. Boninsegni del 7 ottobre,
riguardante i progetti di facciata per S. Lorenzo del cardinale
Giulio de' Medici, in Carteggio, I, pp. 204 s.). Era desiderio del
papa far erigere una facciata monumentale per S. Lorenzo - la chiesa
della famiglia Medici a Firenze - e il B., fiorentino autentico qual
era, non poteva certamente sottrarsi a un incarico così
prestigioso. Di nuovo - come già ai tempi del sepolcro di
Giulio II - fu invaso da fervore creativo e, in una vera e propria
esaltazione della fantasia, progettò un'opera che presentava
caratteri di assoluta, sovvertitrice novità dal punto di
vista della struttura architettonica e nello stesso tempo risultava
senza precedenti per la ricchezza della decorazione plastica. Che
questa fosse sua precisa intenzione ci è confermato dalle sue
stesse parole: "farò la più bella opera che si sia mai
facta in Italia" (Carteggio, I, p. 83); e in un'altra lettera:
"d'architectura e di schultura, lo spechio di tucta Italia" (ibid.,
I, p. 277). Non è possibile in questa sede, tranne che per
brevi cenni, rendere conto dell'intensa attività che
assorbì il B. in questi anni 1516-1520, nei quali, a un
continuo avvicendarsi di soggiorni a Roma e a Firenze,
alternò numerose soste presso le cave di Carrara, Pietrasanta
e Serravezza, anche per assoldare operai. Nel contratto gli erano
stati concessi otto anni, a partire dal 1518, per condurre a termine
l'impresa, che gli sarebbe stata pagata 40.000 ducati (per le
uscite, le entrate e per tutta l'attività del B. relativa
alla facciata di S. Lorenzo, vedi Maurenbrecher, 1938, pp. 38-66, e
I ricordi; pp. 14 ss.). Erano ancora in pieno corso tutti i
preparativi, quando Leone X annullò il contratto e si
dovettero smettere i lavori (vedi la lettera indirizzata da Roma al
B. dal cardinale Giulio de' Medici il 28 nov. 1520, in Frey, 1899,
pp. 161 s.). Al B. la revoca del contratto e lo spreco di fatica
parvero "vitupero grandissimo" (Carteggio, II, p. 270). Ma
benché l'accantonamento del progetto architettonico fosse
giustificato con difficoltà economiche, fin dal 1519 il
cardinale Giulio de' Medici (dal 1523 papa Clemente VII) aveva
intrapreso trattative per erigere un mausoleo (la Sagrestia Nuova) a
gloria della famiglia, da costruire sul lato destro della crociera
di S. Lorenzo, come pendant alla Sagrestia Vecchia.
Come per la tomba di Giulio II, anche per il nuovo monumento vari
progetti si sovrapposero, come risulta evidente dai disegni dello
stesso B., e in parte dalla corrispondenza. Se il committente
pensò in un primo momento a un sepolcro strutturalmente
autonomo da collocarsi al centro della cappella, quest'idea dovette
essere abbandonata per mancanza di spazio; in suo luogo vennero
progettate due tombe, addossate rispettivamente alle due pareti
laterali, l'una per Lorenzo de' Medici duca di Urbino(mortonel 1519)
e l'altra per Giuliano de' Medici duca di Nemours (morto nel 1516),
le cui statue sono in una nicchia al di sopra di ciascuno dei due
sarcofagi; su questi sono collocate le figure allegoriche del
Crepuscolo e dell'Aurora (Lorenzo), della Notte e del Giorno
(Giuliano). Non fu mai realizzato il monumento ai Magnifici (Lorenzo
e Giuliano), che era stato previsto, in connessione con la Madonna
in trono e con i patroni dei Medici, S. Cosma e S. Damiano, di
fronte all'altare: furono eseguite soltanto le tre statue, fra le
quali la grandiosa Madonna occupa un posto di primo piano. Allo
stato attuale, la cappella medicea può darci soltanto un'idea
frammentaria, poiché del progetto non furono compiuti, fra
l'altro, né i Fiumi ai piedi delle tombe né le pitture
delle lunette (il Serpente di bronzo, la Resurrezione di Cristo).
Ciò nonostante, anche in queste condizioni, l'opera è
una testimonianza della visione formale del B. nel decennio
1520-1530: qui per la prima volta assistiamo a quella indissolubile
compenetrazione della scultura con la struttura architettonica;
nello stesso tempo, nella forma e nelle proporzioni di questo
insieme si esprime un abbandono totale dell'osservanza dei
principî di euritmia del Rinascimento, con il sopravvento di
un tono aspro di oppressione e di inquietudine.
Gli stessi elementi, ma ancor più accentuati e addirittura
agganciati al manierismo, sono presenti nella sala della Biblioteca
Laurenziana (per la quale il B. aveva fornito progetti già
dal 1524, su richiesta di Clemente VII) e nel connesso vestibolo.
Questo complesso e la cappella Medicea impegnarono l'artista per
tutto il terzo decennio e per qualche anno anche del quarto, se si
eccettua il 1529, anno di crisi politica, che fu anche per il B. un
anno drammatico. Di sentimenti repubblicani, l'artista salutò
con favore il rovesciamento della situazione politica nella sua
città e la nomina del gonfaloniere Niccolò Capponi (21
maggio 1527). All'inizio dell'anno venne eletto nel collegio dei
Nove di milizia per le opere di fortificazione e, dopo che il 6 apr.
1529 fu nominato governatore generale e procuratore delle
fortificazioni, si impegnò con dedizione in questa
incombenza, eseguendo i geniali disegni di fortificazioni conservati
nella casa Buonarroti. In relazione a questo incarico, egli si
recò, all'inizio di agosto, alla corte di Ferrara, per avere
consigli dal duca Alfonso, famoso esperto nell'arte delle
fortificazioni. Il duca lo accolse con la massima cortesia, ma non
si fece sfuggire l'occasione di chiedergli un lavoro; il B.
acconsentì, ma il dipinto con la Leda, terminato nel 1530,
non entrò mai nella collezione ducale (l'artista lo
regalò ad Antonio Mini che se lo portò l'anno dopo in
Francia: per l'originale scomparso e per le copie che ne furono
fatte, vedi Vasari, I, p. 68; III, pp. 1101-1122). Verso il 9
settembre il B. era di nuovo a Firenze, ma il 21 settembre,
avvertendo il tradimento incombente di Malatesta Baglioni,
fuggì a Venezia, dove arrivò prima del 25 sett. (sua
lettera a G. B. della Palla a Firenze, in Frey, 1907, pp. 134 s.).
Benché a quel tempo avesse intenzione di andare in Francia,
convinto dalle autorità di Firenze che gli fecero ponti
d'oro, rientrò in patria poco dopo il 19 novembre per
riprendere l'antico ufficio. Il 12 ag. 1530 la città
capitolò e il B., di nuovo preso dalla paura, si nascose in
casa di un amico finché non ottenne, il perdono di Clemente
VII. Subito dopo (settembre-ottobre) diede esecuzione all'ordine del
papa di proseguire i lavori per le tombe medicee.
Non gli dava requie intanto, nonostante la dispensa di Clemente VII,
l'antico impegno di portare avanti la tomba di Giulio II, per la
quale premevano gli eredi Della Rovere. Il maestrointendeva ridurre
ulteriormente l'opera, e nel contratto del 29 apr. 1532 (Milanesi,
1875, pp. 702-707, e Barocchi, in Vasari, III, pp. 1179-1182) gli
eredi e l'artista si accordarono per erigere il monumento in S.
Pietro in Vincoli e per limitare a sei il numero delle figure
nell'ambito del sepolcro. Si vedrà in seguito come anche
questo accordo doveva subire un ulteriore cambiamento nel 1542.
Non appare molto convincente la supposizione secondo la quale doveva
far parte di questa sistemazione il grandioso gruppo del Vincitore,
oggi in Palazzo Vecchio a Firenze, poiché allora stavano
ancora nella bottega del maestro le due statue del Morente e del
Ribelle; potrebbe anche non essere errato datare quella scultura ai
primi anni dopo il 1520, mentre la splendida statua del cosiddetto
David-Apollo (Firenze, Museo nazionale), destinata a Baccio Valori,
deve essere del 1530-31 circa.
Negli anni 1532-33, in cui fu da una parte occupato nella
prosecuzione della cappella Medicea e della Biblioteca Laurenziana e
dall'altra fu impegnato nella ripresa del monumento di Giulio II, il
B. fu costretto a frequenti viaggi fra Firenze e Roma.
Tutto l'inverno 1532-33 lo trascorse a Roma e, in questa occasione,
ebbe luogo l'incontro memorabile con il giovane nobile romano
Tommaso de' Cavalieri, incontro che, alla stessa maniera
dell'amicizia - seguita a distanza di pochi anni - con Vittoria
Colonna, rappresenta, per così dire, una pietra miliare nella
vita del B. (è di pochi anni prima, invece, l'altra amicizia
con Antonio Mini, l'aiuto che ebbe in regalo fra le altre opere sue
il dipinto della Leda commissionato da Alfonso d'Este).
Per la sua intensità di esperienza, l'incontro con Cavalieri
rappresenta un fenomeno unico nella vita del Buonarroti. Non
soltanto per il fatto che il maestro fece dono al giovane di una
serie di incantevoli disegni di argomento mitologico, appositamente
eseguiti (Fetonte, Tizio, Ganimede), che avevano tutti un valore di
quadro compiuto e furono molto ammirati dagli amatori d'arte romani
(tutti i fogli, citati dal Vasari come in possesso del Cavalieri [I,
p. 118; IV, pp. 1898-1906], passarono poi nella collezione del
cardinale Alessandro Farnese; gli originali si trovano attualmente
nel British Museum di Londra e nella Royal Library di Windsor:
Dussler, 1959, pp. 144 s., 146 s., 199 s. e ad Indicem), né
per lo spontaneo riflesso di questa amicizia presente nella poesia
del B., quanto piuttosto per l'entusiasmo quasi esaltato
dell'artista che - come testimoniano le prime lettere al Cavalieri
-, al culmine della sua fama, si annulla letteralmente nella
dedizione al giovane. Non sono mancati tentativi di dare a questa
dedizione un significato sensuale e, anche ultimamente, si è
voluto interpretare questo rapporto come omosessuale (Clements,
1963, pp. 92 ss.). Non v'è tuttavia alcun indizio a favore di
tale ipotesi: come in altri casi, queste professioni d'amore erano
del tutto platoniche. Il Cavalieri rimase fedele al maestro fino
alla morte.
Senza dubbio il legame con il Cavalieri fu anche uno dei motivi che
spinse il B. ad abbandonare la residenza fiorentina e a trasferirsi
definitivamente a Roma (dal settembre 1534: lettera a Febo di Poggio
che giustamente Ramsden, 1963, I, p. 187 n. 198, e pp. 302 ss., data
alla metà di settembre del 1534), ma è pur vero che
questa decisione fu accompagnata da una serie di circostanze.
Già i sentimenti di libertà del B. lo rendevano
insofferente del tirannico regime mediceo, e ancor più lo
teneva legato a Roma la prosecuzione della tomba di Giulio II, ma
più di ogni altra cosa fu determinante il progetto del papa
di far affrescare la parete del coro nella cappella Sistina con il
Giudizio universale. È vero che Clemente VII morì poco
dopo che il B. si stabilisse a Roma, ma ancor meno questi
poté sottrarsi al servizio del nuovo pontefice Paolo III
(Farnese) che, nel suo sentimento di ardente entusiasmo per il
maestro e nel suo spirito autoritario, accampava diritti esclusivi
su tutta la sua attività. E infatti le commissioni farnesiane
durante il pontificato di Paolo III furono decisive per la
definizione dello stile tardo dell'artista e per la celebrità
da lui raggiunta in vecchiaia: il Giudizio universale a cui
lavorò dal 1536 al 1541, anno in cui l'affresco fu scoperto,
le grandiose pitture murali con la Conversione di s. Paolo e il
Martirio di s. Pietro nella cappella Paolina (1542-1550),
quell'imponente monumento di famiglia che è il palazzo
Farnese (già iniziato nel 1517 sotto la direzione di Antonio
da Sangallo il Giovane) e - di particolare importanza - il riassetto
urbanistico della piazza del Campidoglio; e infine l'opera
più cara, in assoluto, all'artista, la prosecuzione e il
compimento del nuovo S. Pietro, della cui Fabbrica egli era stato
nominato primo architetto dal gennaio 1547, dopo che Paolo III,
già nel 1535, gli aveva assegnato la sovrintendenza dei
palazzi apostolici (breve di Paolo III, in Gotti, 1875, 113 pp. 123
s., 133 s.).
Nonostante questa enorme mole di lavoro - si consideri che anche in
questa età più avanzata il maestro portò a
termine senza aiuti i faticosi affreschi - il B. nel quarto e quinto
decennio del secolo visse, come mai prima di allora, in relazione
con una cerchia di amici, e anzi egli stesso ebbe a dichiarare di
ritenere questi anni romani i più felici della sua esistenza
(Steinmann, 1930, pp. 17 ss.).
Poco dopo che egli ebbe iniziato il Giudizio universale -
all'incirca nel 1537 - comparve sul suo orizzonte Vittoria Colonna,
la cui amicizia, al pari di quella con il Cavalieri, doveva
rappresentare l'esperienza più significativa della sua
vecchiaia. Vittoria Colonna, vedova di Ferrante d'Avalos marchese di
Pescara, animata da quello spirito severamente religioso che si
esprime nelle sue rime, mise il B. in contatto con quell'ambiente
romano che aspirava vivamente a una riforma del cattolicesimo, non
però nel senso di un avvicinamento al luteranesimo del quale
più volte si è cercato di accusare la marchesa e la
sua cerchia di amici, bensì piuttosto nel senso di una decisa
trasformazione di forme di culto ormai svuotate di contenuto in un
sincero modo di vita interiore. È sufficiente ricordare nomi
come quelli di Juan de Valdés e dei cardinali G. Contarini,
Giovanni Morone e Reginald Pole, che fu il consigliere spirituale di
Vittoria, per esser certi delle linearità e schiettezza di
questi intenti; cosa che del resto fu certamente chiara allo stesso
B., il quale, nonostante le riserve mentali su certi aspetti
negativi della Chiesa - espresse in molte delle sue composizioni
poetiche -, non ha mai rinnegato la sua adesione alla dottrina
ortodossa. La relazione dell'artista con l'amica si svolse in parte
attraverso lettere e poesie, ma anche attraverso gli incontri
domenicali nell'oratorio di S. Silvestro al Quirinale, ai quali,
oltre a frate Ambrogio da Siena (Lancillotto Politi), in
qualità di esegeta biblico, probabilmente prendeva parte
anche il senese Claudio Tolomei. Di queste conversazioni spirituali
ci ha lasciato un efficace ricordo il portoghese Francisco de
Holanda nei suoi Diálogos de Roma, pubblicati a Lisbona nel
1548 (Dialoghi romani, a cura di E. Spina Barelli, Milano 1964),
anche se l'attendibilità delle espressioni del B. in essi
citate sia da considerare con estremo scetticismo (C. Aru, I
dialoghi romani di Francisco de Hollanda, in L'Arte, XXXI [1928],
pp. 117-128). I disegni offerti in dono all'amica venerata -
Crocifissione (Londra, British Museum), Pietà (Boston, museo
Gardner) e Cristo e la Samaritana (conosciuto solo attraverso copie)
- sono la testimonianza evidente di quelli che per Vittoria e il B.
erano i pensieri fondamentali: la speranza nella grazia derivata dal
sacrificio della Croce, che in misura sempre crescente ha ispirato
Michelangelo sia nella sue ultime creazioni artistiche sia nelle sue
poesie.
Con il Cavalieri, e con Vittoria Colonna, il B. frequentava romani
di nascita, ma il resto del gruppo, non tanto ristretto, di amici,
comprendeva quasi esclusivamente fuorusciti fiorentini, fra i quali
Luigi del Riccio, procuratore della banca di Ruberto Strozzi, e
Donato Giannotti, segretario del cardinale Niccolò Ridolfi,
anch'egli antimediceo. I rapporti con Luigi del Riccio, che erano
già stabiliti attorno al 1535 e durarono fino alla morte di
questo (1546), sono una toccante testimonianza del sentimento
affettuoso che lo legava all'illustre conterraneo (cfr. E.
Steinmann, Michelangelo e L. del Riccio, in Rivista storica degli
archivi toscani, III [1931], n. 4 [vedi l'estratto], pubblicato a
Firenze nel 1932). Quando il B. fu gravemente ammalato nel 1544 e
ancora alla fine del 1545 (lettere al nipote Leonardo, del luglio
1544 e del 6 febbraio successivo, in Milanesi, 18753 pp. 174, 187),
egli ricevette ogni cura da parte del Riccio che lo aveva fatto
alloggiare nel palazzo del suo padrone Ruberto Strozzi. L'artista fu
così commosso da queste attenzioni che per gratitudine fece
dono allo Strozzi, che trascorreva l'esilio in Francia, dei due
straordinari Prigioni (Parigi, Louvre), un tempo destinati alla
tomba di Giulio II. Né poté negare al Riccio, quando
questi nel 1544 perse il nipote quindicenne Cecchino Bracci, di
scriverne epitaffi poetici e di fare un progetto per la sua tomba in
Aracoeli (E. Steinmann, Das Grabmal des Cecchino Bracci, in
Monatshefte für Künstwissenschaft, I [1908], pp. 963-974).
Il Riccio, assieme al Giannotti, preparò un'edizione delle
poesie del B. (Firenze, Archivio Buonarroti, cod. XIV 1 e cod. XIV
2; cod. Vat. lat. 3211), che non fu stampata; e il Giannotti, che
era un erudito e storico di spirito universale quanto perspicace,
acquista anche un particolare interesse, all'interno della cerchia
del B., per i suoi Dialogi nei quali l'artista è celebrato
come "gran dantista" e viene messa in evidenza, nel suo ruolo di
conduttore del dialogo, la sua considerevole conoscenza del poeta. E
fu il Giannotti, ancor prima della redazione dei Dialogi (vedi D.
Redig de Campos, in Dialogi di D. Giannotti..., Firenze 1939, pp.
3-34 per la datazione, le edizioni e l'esame critico), a chiedere al
B., probabilmente nel 1539-40, di scolpire quel busto di Bruto
(Firenze, Museo nazionale), che è sempre stato interpretato
come simbolo della libertà, e al quale certamente lo spunto
era stato dato dall'uccisione, nel 1537, del tiranno Alessandro de'
Medici da parte di Lorenzino. La testa, così incisiva e piena
di espressione, la cui "terribilità" riceve una particolare
impronta proprio dal procedimento tecnico del "non finito", era
destinata dal Giannotti al cardinale Niccolò Ridolfi che,
come il suo segretario e come il B., aveva salutato, in Lorenzino,
il "Bruto nuovo".
Il B. era quindi d'accordo con gli espatriati fiorentini
nell'avversare il tirannico regime mediceo: tuttavia, preoccupato
per i parenti rimasti a Firenze, era abbastanza prudente da non
apparire nemico dichiarato di quel governo; e più volte
infatti Cosimo de' Medici tentò, attraverso intermediari, di
riavere il B. a Firenze. Tra questi incaricati furono, nel 1552,
Benvenuto Cellini e, nel 1554 e nel 1557, il Vasari; e infine, alle
insistenze dirette del duca (8 maggio 1557), l'artista rispose
chiedendo una dilazione perché i lavori in corso a S. Pietro
lo obbligavano a restare a Roma. Tra gli impegni presi in precedenza
con i Medici, manteneva ancora quello del vestibolo (ricetto), non
terminato, della Bibl. Laurenziana, per il quale si dichiarò
disposto a inviare a Bartolomeo Ammannati un modello in terracotta
della scala, che fu spedito a Firenze il 13 genn. 1559 (vedi, per
tutta la storia della scala, Barocchi, in Vasari, III, pp. 883-887;
IV, pp. 1598-1604; la sala di lettura, non ancora cominciata prima
che il B. si stabilisse a Roma, nel 1534, fu eseguita fedelmente sui
suoi disegni).
La disponibilità del B. nei confronti, dei suoi compatrioti
si rivela tra l'altro nell'impegno a eseguire dei progetti per S.
Giovanni dei Fiorentini a Roma.
Gli inizi di questa fabbrica risalgono a Leone X, ma dopo la morte
di questo la costruzione venne interrotta, e quando nel 1550, su
suggerimento di Bindo Altoviti, si pensò di riprendere i
lavori, anche allora l'impresa andò a monte. Solo nel 1559 si
poté pensare di mettere l'opera in esecuzione, e a questo
punto i procuratori richiesero il consiglio del Buonarroti. Questi
subordinava la sua collaborazione al consenso del duca Cosimo e, una
volta avutolo, preparò un certo numero di disegni (Firenze,
casa Buonarroti): purtroppo non venne realizzato nessuno di questi
progetti che prevedevano, tutti, un edificio a pianta centrale, e la
chiesa ebbe in seguito un impianto basilicale (H. Siebenhüner,
S. Giov. dei Fiorentini..., in Kunstgeschichtliche Studien für
Hans Kauffmann, Berlin 1956, pp. 172-191; D. Gioseffi, S. Giov. dei
Fior., in Michel. arch., 1964, pp. 653-680; H. Gottschalk,
Michelangelo's Entwürfe für die Kirche..., Den Haag 1968).
Nel gruppo di amici ben presto - cioè almeno dal 1516 -
occupò un posto importante Sebastiano del Piombo, divenuto
ormai completamente romano. Tra il pittore veneziano ed il B.
intercorse una corrispondenza abbastanza frequente e se a questo
doveva riuscire gradito ricevere assidui rapporti (G. Milanesi, Les
correspondants de Michel-Ange, I, Sebastiano del Piombo, Paris 1890)
e poter dare disposizioni per lo più sull'andamento dei suoi
affari romani, altrettanto desiderabile dovette d'altra parte
apparire a Sebastiano avere protezione, pareri e - non ultimi -
eventuali disegni per i suoi dipinti. Ma le deboli raccomandazioni
del B. al cardinal Bernardo Dovizi (giugno 1520: Carteggio, II, p.
232), quando Sebastiano doveva subentrare a Raffaello in Vaticano,
mostrano il punto limite di questa amicizia, il punto cioè in
cui Michelangelo ha sostenuto, sì, l'amico, ma solo, per
così dire, sottovoce. Egli apprezzava veramente gli
eccellenti ritratti di Sebastiano del Piombo, mentre non sembra
avere avuto un'opinione troppo alta delle altre sue composizioni.
Dopo che il B. ebbe iniziato l'affresco del Giudizio universale
(1536), il veneziano giunse a proporre di eseguire l'opera ad olio,
ma il maestro respinse indignato questa richiesta, osservando "che
colorire a olio era arte da donna e da persone agiate e infingarde
come fra' Bastiano" (Vasari, III, pp. 1384-1386).
Benché da questo momento in poi non si abbia più
notizia sui rapporti fra i due, l'ardente e sincera ammirazione di
Sebastiano per il genio del B. restò inalterata fino alla
morte.
Oscure esperienze - forse le più sconcertanti della sua vita
- derivarono al B. dall'incontro con Pietro Aretino. Lo scrittore,
geniale quanto indiscreto e temuto, tentò più volte di
approfittare di lui, riuscì ad averne dei disegni, ma senza
essere soddisfatto dei doni, ed ebbe persino l'ardire di sottoporre
al B. proposte per la composizione del Giudizio universale. Quando
il maestro non aderì ad altre richieste contenute nelle sue
lettere, l'Aretino volle bassamente vendicarsi, come testimonia una
lettera oltraggiosa del novembre 1545 nella quale Michelangelo viene
denigrato nel modo più infame non solo come pittore, ma anche
come uomo. Naturalmente, sotto la pressione sempre crescente della
Controriforma, non mancarono, in seguito, critiche al programma
iconologico del B., e infatti già dal 1558, per ordine di
Paolo IV, tutti i nudi furono rivestiti per opera di un amico del
B., Daniele da Volterra (B. Biagetti, in D. Redig de Campos-B.
Biagetti, Il Giudizio universale di Michelangelo, Milano 1944, pp.
143-147).
La tomba di Giulio II, la "tragedia della sepoltura", secondo
l'espressione spesso usata dal maestro, ebbe termine dopo l'ultimo
contratto del 1542. Quella che oggi vediamo, in S. Pietro in
Vincoli, è il risultato di un'ulteriore riduzione dei
progetti precedenti (1532). Al posto dei due Prigioni, ai lati del
Mosè vennero collocate nelle nicchie le nobili figure di
Rachele e Lia, allegorie della vita contemplativa e della vita
attiva (Dante, Purgat., XXVII). Solo questa parte inferiore,
compresa la struttura architettonica, è opera del B.: tutto
il resto - la Madonna, le due Figure sedute e il Papa giacente nel
registro superiore - fu fatto eseguire da allievi. Dopo questa
soluzione di compromesso di un'impresa che era stata progettata in
proporzioni gigantesche, il vecchio artista non accettò
più alcun incarico pubblico nel campo, che gli era più
congeniale, della scultura; fece ancora soltanto opere che sono
traduzioni plastiche di un suo personale pensiero e che hanno a
soggetto quasi esclusivamente il tema sepolcrale.
La più antica di queste opere tarde è il gruppo della
Pietà, dal 1722 nel duomo fiorentino, che in origine il B.
aveva destinato alla propria tomba da collocarsi in S. Maria
Maggiore a Roma: il Cristo in grembo alla madre, dinanzi alla quale
è inginocchiata la Maddalena, mentre al culmine è la
suggestiva figura, pacatamente assorta, di Giuseppe di Arimatea, il
cui volto riflette i tratti del maestro. Siccome nel corso della
lavorazione durata parecchi anni (dal 1548 circa al, 1555), il marmo
subì dei danni e la gamba del Cristo si era staccata, il B.
fece a pezzi l'opera e l'abbandonò nelle mani del suo aiuto
T. Calcagni, il quale la ricompose (la Maddalena è in gran
parte una sua aggiunta: vedi anche, per le successive collocazioni,
Barocchi, in Vasari, IV, pp. 1670-1676). Le cose andarono
diversamente per la Pietà Rondanini (dal 1952 a Milano, Museo
del Castello Sforzesco) alla quale il B. lavorava contemporaneamente
alla Pietà del duomo di Firenze e della quale possiamo
seguire il processo creativo attraverso disegni conservati a Oxford
(Ashmolean Museum). A questo gruppo statuario il B. lavorò
sino ai suoi ultimi giorni: se in esso riconosciamo, nelle tracce di
frammentarismo e nell'applicazione del più vigoroso "non
finito", motivi di accentuazione espressionistica come anche di
riecheggiamenti medioevali per la struttura colonnare, nella
ricostruzione del concetto disegnativo troviamo i segni
dell'originaria ideazione che non manifestava affatto - né
nella composizione né nell'espressione - tendenze eversive
nei confronti degli ideali del Rinascimento. Eppure proprio questo
rifiuto di quelle norme - come proporzione, armonia, concretezza
fisica e bellezza ideale - che ancora vengono osservate nella
Pietà del duomo fiorentino divenne visibilmente predominante
nell'arte del B. nell'ultimo decennio di attività.
Estremamente chiarificatore, a questo proposito, è il
confronto del disegno con il Crocifisso per Vittoria Colonna
(Londra, British Museum) con quei singolari "concetti" disegnati a
gessetto o a penna, che raffigurano il Cristo morto con Maria e
Giovanni, dove niente altro importa al vecchio artista se non
esprimere il fondamentale mistero della redenzione e dove il B.,
come nella sua tarda poesia, conduce una preghiera-monologo,
distaccato da ogni rapporto con l'esterno (i fogli si trovano a
Londra, British Museum; Oxford, Ashmolean Museum; Parigi, Louvre;
Roma, Bibl. Vaticana; Windsor, Royal Library). Anche dal punto di
vista tecnico, questi preziosi disegni recano la sigla dell'irreale:
il contorno perde la sua solidità e il modellato la sua
definitezza e vi subentra una sorta di fluttuazione che conferisce
alle immagini un carattere di trascendenza e di spiritualità
(il più bell'esempio è nel disegno di una Madre con
bambino, nel British Museum di Londra, eseguito certamente negli
ultimi anni), e ciò in perfetta coincidenza con tutta la
concezione di vita del B. e soprattutto con le sue poesie tarde.
Da quando, nel 1547, si assunse, per desiderio di Paolo III,
l'incarico di altissima responsabilità, di sovrintendere alla
fabbrica di S. Pietro, il B. non fu in grado di sottrarsi al ritmo
fervido di avvenimenti che caratterizzava l'ambiente romano e che
gli arrecò non poche angustie, dispiaceri, noie. L'impresa
che, ormai vecchio, ha affrontato e diretto ha del sovrumano, e solo
il suo elevato idealismo, nutrito del più autentico
sentimento religioso e sostenuto da un non meno forte senso di
responsabilità, gli permise di far fronte a questo gravoso
impegno.
Già l'opposizione - aperta o nascosta - che gli venne mossa
dalle maestranze della "setta sangallesca" e dell'astioso e mediocre
architetto fiorentino Nanni di Baccio Bigio procurò al
maestro gravi crucci; a ciò si aggiunse la necessità
di porre rimedio a errori e negligenze della costruzione e infine
quella che era per il B. la massima preoccupazione, cioè di
riuscire a mettere a punto tutti i piani preliminari per la
gigantesca opera, in modo da garantire, anche dopo la sua morte,
l'unitarietà del progetto. Basta considerare la posizione del
B. nei confronti del suo geniale predecessore, il Bramante, per
rendersi conto della molteplice complessità di tali compiti.
Egli ammirava senza riserve il progetto bramantesco e fin
dall'inizio della costruzione si considerò impegnato a
portarlo avanti e a perfezionarlo, ma i mutamenti di gusto e la sua
stessa personale concezione comportavano, di necessità,
radicali innovazioni sia nella pianta e nell'alzato sia nella
copertura dell'edificio. Il problema più bruciante restava
sempre quello della cupola, per la quale dalla morte del Bramante
(1514) erano in discussione diversi progetti, oltre a un modello in
legno dell'ultimo capomastro della fabbrica di S. Pietro, Antonio da
Sangallo. Quanto il B. sia andato al di là di questi antichi
progetti, pervenendo a originali soluzioni definitive, è
attestato da alcuni disegni (Haarlem, Teylers Museum) e soprattutto,
nella maniera più evidente, dal grande modello in legno
(Città del Vaticano, già Museo Petriano, ora Musei
Vaticani, sala del dogma dell'Immacolata), che venne eseguito con la
sua supervisione tra il 1558 e il 1561 e che fu normativo per la
costruzione (la calotta esterna fu aggiunta da Giacomo della Porta
[1586 c.]).
"Por devotión sola" (lettera di s. Ignazio a Didaco Hurtado
de Mendoza del 21 luglio 1554: vedi P. Pirri, La topografia del
Gesù..., in Arch. Soc. Jesu, X [1941], p. 201 nota 88) il B.
si occupò anche del progetto per la chiesa del Gesù
(per l'attribuzione o meno del disegno Arch. 1819 D.518 degli
Uffizi, vedi Dussler, 1959, p. 240 n. 518, ma anche Ackermann, 1968,
pp. 281 s.). Nel 1561 forniva progetti per la trasformazione del
tepidarium delle terme di Diocleziano in chiesa (S. Maria degli
Angeli: Ackermann, 1968, pp. 105-109, 272-277). Allo stesso anno
è datato il progetto per la cappella Sforza nella basilica di
S. Maria Maggiore (realizzata da Tiberio Calcagni). L'età
ormai avanzata non gli impedì di presentare, su richiesta del
papa, proposte per porta Pia, mirabilmente documentate dagli
straordinari "concetti" conservati in casa Buonarroti, a Haarlem
(Teylers Museum) e a Windsor (Royal Library). In questo periodo
tardo gli venne ancora, di lontano, una commissione di grandissimo
prestigio: Caterina de' Medici, poco dopo la morte di Enrico II re
di Francia (luglio 1559), chiese a Ruberto Strozzi di fare da
intermediario presso il B. perché facesse una statua equestre
del marito.
Il maestro dovette proporre per il monumento il suo allievo e amico
Daniele da Volterra, ma s'impegnò a dirigere il lavoro
(disegno nel Rijksmuseum di Amsterdam: Dussler, 1959, n. 244, ill.
146). Poiché Daniele morì nel 1566, fu eseguito solo
il cavallo (distrutto nel 1793: Barocchi, in Vasari, IV, pp.
1946-1952, e A. Gotti, I, pp. 349 s.; II, pp. 144-148).
Non bisogna trascurare, tra gli aspetti della personalità del
B., il suo atteggiamento verso il mondo che lo circondava e, in
particolare, verso la gente semplice.
Nonostante, infatti, le sue esigenze spirituali e la sua amicizia
con persone di grandissima cultura, egli amava anche circondarsi di
artisti modesti come A. Mini, Bugiardini, Condivi, ecc., ai quali
prestava il suo aiuto; e aveva inoltre forti legami affettivi con i
domestici e con i parenti. Quando, alla fine del 1555, morì
Francesco Amadori detto l'Urbino, che era stato per lunghi anni suo
servitore, il B. rimase profondamente sconvolto, come prova la
lettera al nipote Leonardo (4 dic. 1555: Milanesi, 1875, pp. 314
s.); anche la corrispondenza con la vedova Cornelia che era
ritornata a Casteldurante, sua patria, con i due figli è
testimonianza di un caldo sentimento di umanità (Milanesi,
1875, pp. 542, 556 s.; Frey, pp. 351-354, 360-70).
La morte di Michelangelo, lungamente attesa, avvenne, dopo una breve
malattia, il 18 febbr. 1564, verso sera; assieme ai due medici erano
presenti Tommaso de' Cavalieri e Daniele da Volterra: proprio due
giorni prima aveva espresso il desiderio di essere sepolto a
Firenze. Il 10 marzo le sue spoglie giunsero nella sua città
e vennero portate alla compagnia dell'Assunta e quindi a S. Croce
(la tomba è del Vasari, ed altri, 1570). Le esequie solenni,
organizzate dagli artisti fiorentini, ebbero luogo in S. Lorenzo il
14 luglio e B. Varchi pronunciò l'orazione funebre; una
minuziosa descrizione fu pubblicata nello stesso anno presso Iacopo
Giunti (Esequie del divino Michelagnolo Buonarroti..., Firenze 1564;
edizione in facsimile, con traduz. ingl. a fronte, in R. e M.
Wittkower, The divine Michelangelo..., London 1964, pp. 49-133-9 cui
si rimanda anche per la ricostruzione della morte del B.
nonché delle decorazioni in S. Lorenzo).
Già dal quarto decennio del Cinquecento la fama del genio
fiorentino aveva travalicato i confini d'Italia e non c'è
forse altro artista che sia stato, in vita, glorificato in uguale
misura. A livello locale, un contributo rilevante a questa
glorificazione, era stato già portato da Benedetto Varchi con
le Due lezioni tenute nel 1547 nell'Accademia fiorentina nelle quali
celebrava il poeta e affrontava il paragone tra pittura e scultura.
Ma l'opera dei due biografi, Giorgio Vasari ed Ascanio Condivi, ebbe
una risonanza che oltrepassò i limiti del territorio
fiorentino: essi misero ogni cura nel fissare per iscritto la vita e
le opere del maestro e nel renderle note prima ancora della sua
morte. La Vita del Condivi apparve nel 1553, frutto dello stretto
contatto personale con il maestro: è legittima anzi l'ipotesi
che essa sia stata compilata sotto gli occhi stessi del B. e abbia
il carattere di relazione ufficiale. La Vita del Vasari invece,
pubblicata nel 1550 nell'ambito della sua monumentale serie di Vite,
non ha questo colore di immediatezza.
Ma se nella biografia dello scrittore aretino si fa sentire questa
mancanza, è importante tuttavia che nella sua opera - la
prima storia dell'arte italiana da Cimabue in poi - il B. sia
l'amico artista vivente, del quale, in questo panorama, non solo si
parla diffusamente, ma che viene celebrato come il culmine di uno
sviluppo secolare; sicché si fanno avvertiti i contemporanei
che nel genio del B. l'arte ha raggiunto la perfezione. Nella
seconda edizione delle Vite (1568) il Vasari ha rielaborato lo
scritto del Condivi e registra un buon numero di notizie che nel
1550 gli erano sfuggite.
Non pare che il B. si sia occupato di poesia prima del 1503-04,
allorché, come attesta il Condivi, "se ne stette alquanto
tempo senza far niuna cosa [nell'arte scultoria]... essendosi dato
alla lezione de' poeti ed oratori volgari; ed a far sonetti per suo
diletto". Quali siano stati quei poeti e oratori volgari si
può ricavare abbastanza facilmente dalle prime poesie che di
lui ci sono pervenute, ove motivi stilnovistici, danteschi e
petrarcheschi si alternano a motivi e temi realistici o religiosi o
platonici che rivelano una certa familiarità con la
letteratura fiorentina dell'età del Magnifico e del
Savonarola. Tra esse sono particolarmente notevoli, dal punto di
vista biografico, i sonetti Signor, se è vero, del 1506, ove
si lamenta che il papa (Giulio II) abbia prestato orecchio alle
calunnie degli invidiosi, rendendo vano il suo lavoro e le sue
speranze; Quanto si gode (1507), ispirato all'amore per una donna
bolognese; I' ho già fatto un gozzo, in cui rappresenta se
stesso in atto di dipingere la Sistina, penosamente rovesciato
all'indietro; Qua si fa elmi, ove denuncia il bellicismo e
l'affarismo dominante nella Roma di papa Giulio nei primi mesi del
1512; mentre altri, meno legati a riconoscibili momenti di vita,
indicano già la presenza di alcuni dei più
caratteristici temi della meditazione esistenziale del B.: il
rapporto tra amore, arte e bellezza, il potere alienante dell'amore,
la solitudine, il tema del peccato, e infine lo stesso tema,
precocissimo, della vecchiaia.
Con il terzo e quarto decennio del secolo, il numero delle poesie si
fa via via più nutrito, rivelando nel B. un sempre più
vivo interesse a questa attività. Sono di questo periodo le
canzoni Che fie di me e Oilmé, oilmé, i concetti
poetici sulla fama e sul "dì e la notte" ispirati ai sepolcri
medicei, le terzine sulla morte del fratello Buonarroto (1528) e le
stanze in lode della vita rustica Novo piacere; ma è solo con
il suo trasferimento a Roma che la poesia del B. perde ogni
carattere occasionale e dilettantesco per divenire strumento di una
ricerca assidua e relativamente sistematica.
Appartengono a questo secondo periodo, che va dal 1532-34 alla morte
di Vittoria Colonna (1547), circa duecento delle trecento liriche di
cui si compone l'intero canzoniere buonarrotiano: quasi tutte
composizioni brevi, per lo più sonetti e madrigali,
riconducibili da un lato alla esperienza erotico-artistica del
platonismo e dall'altro al dramma cristiano del peccato e della
grazia, tradotto in termini di esperienza autobiografica. Nate in
parte anche come modo di corrispondenza o piuttosto come rapporto di
sentimenti e di pensieri con gli amici (V. Colonna, il Cavalieri,
Luigi del Riccio, Donato Giannotti), esse si possono distinguere in
gruppi relativamente omogenei.
Un primo gruppo, comprendente le poesie ispirate all'amicizia per
Tommaso de' Cavalieri, costituisce anche cronologicamente l'anello
di congiunzione tra l'immediatezza, il realismo e quella certa
effusività patetica che sono propri delle poesie del periodo
precedente e il linguaggio più intellettuale, più
contenuto e sobrio di questo secondo. La più evidente
caratteristica di questi sonetti è infatti una singolare
intensità affettiva, che s'esprime non soltanto mediante le
più comuni nozioni del fuoco, dell'ardore, del consumarsi per
amore o del nutrirsi di lacrime (vedi i sonetti I' piango, i' ardo;
Sento d'un foco; Al cor di zolfo; ecc.), ma anche col motivo del
desiderio di contatto fisico e di una perfetta identificazione con
la persona amata (sonetti Se nel volto; Veggio co' be' vostr'occhi;
D'altrui pietoso; ecc.), dando luogo a un linguaggio spesso
vivacemente realistico, se pure di chiaro significato spirituale.
Poco meno rilevante, in queste poesie per il Cavalieri, la nota
moralistica, che nasce dal bisogno di sottolineare il carattere
casto della relazione con il gentiluomo romano, sia con espressioni
come "casta voglia", "casto amor", "foco onesto" sia toccando
esplicitamente l'argomento (sonetti Tu sa' ch'i' so; Non vider gli
occhi miei), o contrapponendo all'opinione del "vulgo malvagio", che
vede negli altri la propria bassezza, la dottrina platonica
dell'amore, che è propria delle "persone accorte".
Un secondo gruppo comprende i sonetti e i madrigali dedicati o
variamente ispirati a Vittoria Colonna. Essi si distinguono da
quelli del gruppo precedente non tanto per i temi, spesso analoghi,
quanto per l'affettività più contenuta, che in alcune
poesie, forse le prime della serie, sa di compassata galanteria, per
il linguaggio e il tono più elevati, e per l'afflato di vita
interiore che è proprio delle ultime poesie, documento di un
vero colloquio spirituale tra il B. e la nobile signora. Così
Vittoria è chiamata per lo più con gli appellativi
variamente solenni di "donna alta e degna", "divina donna", "alta
signora"; i suoi occhi sono "santi" e la sua beltà "superna";
al poeta appare come cinta da un diadema di luce (A l'alta tuo
lucente diadema), la sua parola è come quella di un dio (Un
uomo in una donna), onde per lei il B. si sente come elevato "sopra
se stesso" (Tanto sopra me stesso). È insomma l'antico tema
stilnovistico dell'esperienza del divino fatta per tramite della
donna, mediato attraverso la conoscenza della letteratura sull'amor
platonico, e svolto con un linguaggio in gran parte dantesco.
Frequenti vi sono anche il paragone con l'esperienza dell'arte
scultoria e pittorica, intesa anch'essa come attuazione di cose
"divine", "eterne", nella materia o con la materia (Non ha l'ottimo
artista; Sì come per levar; ecc.), e, nei componimenti
più tardi, la meditazione religiosa della morte.
In vivace contrasto con le poesie per la Colonna si pone invece il
terzo gruppo di componimenti, ispirati all'amore di una giovane
"donna bella e crudele", "aspra e fera", "indomita e selvaggia",
apostrofata spesso con uno spiccio "costei": tratti che, con la nota
della giovinezza, non sembra possano adattarsi alla stessa Colonna.
Essi costituiscono la parte, in un certo senso, più frivola
del canzoniere: il platonismo vi è del tutto assente e vi
dominano invece motivi d'amore contrastato e un gioco di antitesi
sia tra la bellezza e la crudeltà della donna, sia tra la
bellezza e la giovinezza di lei e la bruttezza e la vecchiezza del
poeta, secondo un gusto drammatico in cui è facilmente
riconoscibile l'influsso delle "petrose" di Dante.
Artificiosità più accentuata e ispirazione tanto meno
viva si riconoscono poi nel quarto gruppo, comprendente i
componimenti scritti per Luigi del Riccio, tra cui si distinguono i
cinquanta epitaffi per il sepolcro di Cecchino Bracci, nipote dello
stesso Ricci, morto quindicenne nel 1544. Essi costituiscono
l'aspetto più bizzarramente concettistico dell'esperienza
poetica buonarrotiana, ove intorno al tema centrale della morte sono
adunati, in una serie infinita di variazioni, tutti i motivi tipici
del poeta: il sentimento pessimistico del mondo, la meditazione su
gioventù e vecchiaia, il rapporto cielo-terra, il desiderio
di eternità della bellezza, il corpo come carcere, il corpo
come veste gloriosa al dì del giudizio, il reciproco scambio
di personalità nell'amore, l'immortalità dell'anima,
la morte come vera vita, il concetto che è meglio non esser
nati, o che è meglio morir giovani, la bellezza celeste come
modello alla natura. Né mancano, tra questi epitaffi, come in
quello scritto per la morte di Faustina Mancini Attavanti, "motti
ambigui", cioè veri e propri giochi di parole.
Ad un quinto ed ultimo gruppo possiamo infine ascrivere le rimanenti
poesie di questa età, dai due sonetti su Dante esule, vittima
dell'ingratitudine dei Fiorentini, ai quattro sonetti sul motivo del
dì e della notte, a tutte le altre composizioni, ove diversi
temi di meditazione e di confessione sono svolti senza particolare
riferimento ad altra persona, o quanto meno in modo che i
riferimenti sono del tutto secondari rispetto all'argomento stesso.
Tra essi meritano particolare menzione le non molte poesie che
svolgono alcuni fondamentali pensieri del B. sulla bellezza e
sull'arte: sulla essenza spirituale e trascendente della bellezza
(Per fido esemplo), sulla caducità dell'opera scultoria, ma
non della bellezza che ne è l'oggetto (Molto diletta),
sull'arte come espressione di maturità conquistata attraverso
lunghe prove e ricerche (Negli anni molti).
La forte impronta personale che il B. mostra soprattutto in queste
poesie del secondo periodo, e che non trova paragone nella lirica
del suo secolo, non impedisce di riconoscere che il Petrarca resta
tuttavia anche per lui il primo e principale maestro. Si tratta
però non del Petrarca morbido e musicale, naturalista ed
edonista delle più note composizioni; ma del Petrarca
più riflessivo e concettoso, spirituale e simbolico, che
elabora i motivi di un essenziale dualismo imperniandoli su
espressioni come "mezzo rimango", "duo contrari", "un'anima in due
corpi", che identifica, i termini della sua inquietudine e delle sue
aspirazioni morali nei simboli del "poggio faticoso e alto", dei
"contrari venti", delle "crudeli stelle", di Medusa e della Fenice;
per il quale si continua e sviluppa la linea intellettualistica ed
ermetica della più antica lirica italiana. Così il
petrarchismo buonarrotiano è altra cosa da quello della linea
bembesca e dellacasiana. Per costoro, l'imitazione del Petrarca
è imitazione d'anima, cioè psicologica, di contegno,
di "voce"; essi sono imitatori non solo della poesia, ma della
persona del Petrarca. Il B. invece non è attratto dalla
persona, ma solo dall'opera, dalla poesia del Petrarca, che utilizza
scorporandola della sua soggettività, in ciò
ch'è più essenziale e universale, in ciò che
più conviene al suo gusto riflessivo e costruttivo; e ad essa
riconosce non già una funzione esclusiva o limitativa
rispetto ai poeti della tradizione, ma una semplice preminenza
organizzativa, una funzione di raccordo e di mediazione. Così
il B. riesce originale anche in quei componimenti che, all'analisi,
risultano costruiti quasi per intero con materiale petrarchesco,
perché il modo di costruire è soltanto suo, ovvero
perché la sua personalità poetica consiste tutta nella
costruzione e strutturazione simbolica dei dati della propria
esperienza e della propria cultura.
Solo quando, con la morte di Vittoria Colonna e con la vecchiaia,
vengono meno nel B. il gusto e l'impegno per questo difficile e
chiuso "trobar", solo allora le sue rime perdono in parte ciò
che più hanno di caratteristico, e vi si torna a sentire
distinta, come nelle prime canzoni, anche la "voce" del Petrarca: il
tono patetico, musicalmente disteso. È appunto questo il tono
dell'ultima fase poetica buonarrotiana: dal 1547 alla morte. Aperta
dal famoso capitolo "burchiellesco" I' sto rinchiuso, dove il poeta
definisce bambocci le sue sculture e fa carico all'arte di averlo
ridotto in quello stato di desolazione morale e fisica su cui
indugia con amaro gusto d'autocaricatura per quasi tutto il
componimento, questa fase comprende una trentina di sonetti, tra cui
alcuni di corrispondenza (al Vasari, nel '55; al Beccadelli, nel
'56), nei quali ritornano con particolare insistenza, accompagnati
al pensiero della morte, quei motivi di pentimento e di preghiera
che compaiono qua e là anche tra le prime poesie, e che per
essere spesso incentrati sul motivo della meditazione del Crocifisso
come fondamento di salvezza (Giunto è già 'l corso;
Scarco d'un'importuna; Non fur men lieti) hanno indotto alcuni a
supporre, senza molto fondamento, un'adesione del B. alla dottrina
protestante della giustificazione per sola fede. Documento, in ogni
caso, di una religiosità severa e profonda, che anela ad
esprimersi in cospetto della morte non più per la terrestre
mediazione della bellezza e dell'arte compiuta, ma direttamente,
come nelle scabre forme della Pietà Rondanini, queste ultime
poesie convogliano nella più consueta e distesa sintassi del
petrarchismo religioso la nota, pur sempre nettamente rilevata, di
una energia intensa e rude, anche nella preghiera, di una
intelligenza presente e chiara, anche nell'abbandono. Non c'è
più la ricerca dell'arte, ce n'è anzi il rifiuto, ma
l'arte vive ormai in lui, perfettamente posseduta, e presiede alla
stessa espressione del rifiuto.
Se le Rime sono testimonianza di un interesse letterario
relativamente autonomo rispetto alle ragioni umane di uno sfogo ed a
quelle professionali di una riflessione sui temi dell'arte, le
lettere del B. non rivelano generalmente alcuna preoccupazione che
vada oltre le esigenze pratiche dell'uomo e dell'artista. Ciò
peraltro non significa che egli non scriva volentieri, con amore e
cura di efficacia (certe affermazioni in contrario: "Lo scrivere
m'è di grande affanno, perché non è mia,
arte... Lo scrivere m'è di gran noia e fastidio", si trovano
soltanto nelle lettere degli ultimi anni, al nipote Leonardo, e si
riferiscono evidentemente solo a fatica e noia fisica), o che
rinunci all'occasione che il rapporto epistolare gli offre di
innalzare il tono e allargare l'orizzonte oltre i limiti
dell'immediato e del quotidiano, manifestando così una
magnanimità di pensieri, una forza intrinseca di accenti, una
consapevolezza del proprio valore e della propria posizione sociale
che in pratica assicurano all'epistolario una fisionomia unitaria,
come specchio di una personalità di eccezionale rilievo,
analoga a quella delle Rime.
Quale a tutt'oggi si presenta nella ristampa papiniana della vecchia
edizione del Milanesi (di una nuova, monumentale edizione del
carteggio buonarrotiano, a cura di Paola Barocchi, sotto gli auspici
dell'Ist. naz. di studi sul Rinascimento, sono usciti finora i primi
tre volumi, comprendenti le lettere fino al 1523 [Firenze 1965-67],
l'epistolario comprende poco meno di cinquecento lettere, scritte
tra il 1486 e il 1563.
Di esse il numero più cospicuo è costituito dalle
lettere ai familiari: il padre Ludovico (32), i fratelli Buonarroto
(56), Giovansimone (9), Gismondo (3), e il nipote Leonardo (130).
Meglio che "familiari" si possono definire "di governo familiare":
il B. vi appare infatti in linea con quella ideologia e letteratura
fiorentina di famiglia che ispira i Dialoghi dell'Alberti come i
Ricordi guicciardiniani, come il capo indiscusso di una casa,
responsabile della sua fortuna sociale ed economica, e al tempo
stesso del bene spirituale e materiale dei singoli membri. Le
lettere sono così il mezzo normale con il quale da Bologna,
da Carrara o da Roma egli governa la famiglia fiorentina, facendosi
presente ai parenti con l'esempio della propria vita e con
l'autorità del proprio giudizio: assiduo nel consiglio, si
tratti di comperare una casa o di scegliere una moglie; perentorio
nel comando, severo nel rimbrotto, veemente nello sdegno e nella
minaccia; sempre, nel fondo, affettuoso; e sempre preoccupato che
essi ispirino la loro condotta non al gretto tornaconto o al timore
di perdere l'eredità ch'egli ha loro riserbato (è il
caso di Leonardo), ma al buon nome e all'interesse della casa. In
questa luce si spiega uno dei temi più insistenti e curiosi
di queste lettere: la rivendicazione della nobiltà della
famiglia: "Noi siam pure cittadini discesi di nobilissima stirpe...
Un dì ch'io abbi tempo, v'aviserò dell'origine nostra,
e donde venimo e quando a Firenze, che forse nol sapete voi:
però non si vuol torsi quello che Dio ci ha dato" (a
Leonardo, 1546). Per questo è pronto a rimproverare il padre
e i fratelli quando trattino troppo familiarmente con persone di
rango inferiore, e la nobiltà è tra le condizioni cui
deve rispondere la futura sposa di Leonardo: "A te sta il torla o
non la torre... purché sia nobile e ben allevata... Hai aver
l'occhio a la nobiltà, a la sanità, e più a la
bontà, che a altro... Perché si sa che noi siamo
antichi cittadini fiorentini". Una nobiltà che, del resto,
s'accompagna con la semplicità della vita (tra le doti della
sposa di Leonardo dovrebb'essere anche quella di saper rigovernare),
con lo spirito di povertà ("gli uomini vagliono più
che e' denari", "della roba non facciate stima, perché
è cosa fallace"), con l'umiltà che riferisce a Dio
ogni bene anche materiale ("Però fà di riconoscer da
Dio il grado in che tu se'"). Con gli insegnamenti di religione, una
religione schietta e semplice, fedele alla pratica e alle opere di
carità, ma senza pietismi e complicazioni, sono anche
frequenti i consigli di saggezza economica o genericamente pratica,
che fanno pensare, appunto, al Guicciardini: "Non far mai cosa a
stanza di nessuno, che interamente non ti contenti"... "Quello che
voi fate, fatelo senza passione, perché non è
sì gran faccenda che facendola senza passione non paia
piccola"... "E' non si trova chi voglia meglio a altri che a
sé"... "Nell'andare adagio si fa manco errori". Pronto anche
al sarcasmo amaro, allo sdegno iroso, alla minaccia, egli riesce in
tali casi a toccare il segno di un'alta e commossa eloquenza: "Io
son ito da dodici anni in qua - scrive allo scapestrato Giovansimone
- tapinando per tutta Italia; sopportato ogni vergognia, patito ogni
stento, lacerato il corpo mio in ogni fatica; messa la vita propria
a mille pericoli, solo per aiutar la casa mia e ora che io ho
cominciato a rilevarla un poco, tu solo voglia esser quello che
scompigli e rovini in una ora quel ch'i' ho fatto in tanti anni e
con tante fatiche; al corpo di Cristo che non sarà vero! che
sio sono per iscompigliare diecimila tuoi pari, quando e'
bisognierà".
A questa magnanimità posseduta, senza pose, ci riconduce
anche il gruppo delle lettere "di lavoro". Inviate a familiari,
specialmente al prediletto Buonarroto, a committenti come il
cardinal Giulio de' Medici e Paolo III, ad amici come Sebastiano del
Piombo, e più spesso a maestri d'arte, garzoni, scalpellini,
procuratori, esse non contengono che raramente riferimenti di teorie
o di pratica d'arte ad alto livello. Si tratti di riferire sulla
fusione della statua di Giulio II a Bologna, o di rievocare le
interminabili vicende della lite con gli eredi del papa, di esporre
i contrattempi che lo trattengono nel territorio apuano per la cava
e il trasporto dei marmi, o di lamentare l'infedeltà di
garzoni, l'infingardaggine di operai, le ruberie di capimastri; si
direbbe che, indipendentemente dalla necessità dello
scriverne, egli ami rappresentarsi proprio in questi aspetti minori,
quasi a ricavare anche da questo suo quotidiano combattere con
l'insufficienza degli uomini e con la dura materialità delle
cose un significato universale: l'idea stessa dell'attività
umana, colta non già nel momento vittorioso, quale s'esprime
nella bellezza dell'opera compiuta, ma nella umana e religiosa
dimensione del suo limite, nella sua essenziale insufficienza e
irrimediabile incompiutezza e connaturata fallibilità. Il B.
talora scherza su questo suo destino di Sisifo: "Del fare o del non
fare le cose che s'hanno a fare che voi dite che hanno a soprastare,
è meglio lasciarle fare a chi l'ha' fare, ch'i' arò
tanto da fare ch'i' non mi curo più di fare" (a F. Fattucci,
1525); ma tal altra vi si ribella: "La pittura e la scultura, la
fatica e la fede m'han rovinato, e va tuttavia di male in peggio.
Meglio m'era ne' primi anni che io mi fussi messo a fare zolfanelli,
ch'i' non sarei in tanta passione!"; "Io mi truovo aver perduta
tutta la mia giovinezza, legato a questa sepoltura... Così
vuole la mia fortuna! Io veggo molti con dumila e tremila scudi
d'entrata starsi nel letto, et io con grandissima fatica m'ingegnio
d'impoverire". Pur tra il lamento della fatica si riaffaccia di
tanto in tanto la consapevolezza del proprio valore: "A me basta
l'animo far questa opera della facciata di San Lorenzo, che sia
d'architettura e di scultura lo specchio di tutta Italia...", senza
che mai tra le righe si celi pur l'ombra del compiacimento e
dell'enfasi.
A un terzo gruppo che potremmo chiamare "di convenienza" si possono
aggiudicare sia le lettere al re di Francia, al duca Cosimo,
all'Aretino, al Varchi, che furono scritte dal B. per lo più
per disimpegnarsi da richieste o proposte di vario genere (il Varchi
gli proponeva il quesito della superiorità della scultura o
della pittura, "dispute", risponde il B., che è meglio
"lasciare", perché "vi va più tempo che a far le
figure"), ove il rango o la fama letteraria dei destinatari
suggeriscono al mittente un "decoro" che tuttavia non altera la
naturale semplicità dello stile; sia le poche al Cavalieri e
alla Colonna che invece appaiono quanto mai complimentose e
lambiccate; sia infine le lettere degli ultimi anni, a Luca Martini,
al Cellini e soprattutto al Vasari, che svolgono, talora con le
stesse parole, i temi della vecchiaia e dell'approssimarsi della
morte che troviamo nelle poesie dello stesso periodo. E in
realtà tutte queste lettere di convenienza rappresentano nel
complesso una fase intermedia tra l'immediatezza tutta cose che
è propria della maggior parte dell'epistolario e la nobile
letterarietà delle rime.
E. N. Girardi
Fonti e Bibl.: Oltre alla prima rassegna bibl. michelangiolesca, L.
Passerini, La bibliografia di M. B. e gli incisori delle sue opere,
Firenze 1875, si veda, per una dettagliata bibl. fino al 1930: E.
Steinmann-R. Wittkower, Michelangelo. Bibliographie 1510-1926,
Leipzig 1927, e Nachtrag und Fortsetzung der Michelangelo
Bibliographie von Steinmann-Wittkower bis 1930, a cura di H. W.
Schmidt, pubbl. in appendice a E. Steinmann, Michelangelo im Spiegel
seiner Zeit, Leipzig 1930.
Meno particolareggiato il Supplemento alla bibliografia
michelangiolesca (1931-1942), a cura di P. Cherubelli, in M. B. nel
IV centenario del Giudizio Universale, Firenze 1942, pp. 270-304,
dal quale prende esplicitamente le mosse, per integrarlo e
continuarlo, P. Barocchi, in G. Vasari, Vita di Michelangelo, I,
Milano-Napoli 1962, pp. 341-376; ulteriori integrazioni si trovano
nella recens. di H. von Einem, in Zeitschrift für
Kunstgeschichte, XXVIII (1965), pp. 362 s.; nella stessa rivista,
alle pp. 307-352 si veda Ch. A. Isermeyer, Das Michelangelo - Jahr
1964 und die Forschungen zu Michelangelo als Maler und Bildhauer von
1959 bis 1965 (bibliogr. purtroppo non completata dalla parte
riguardante l'architettura che pure era annunciata). Un ulteriore
aggiornamento della bibl. michelangiolesca sino al 1970 è
affidato alle cure di L. Dussler (in corso di stampa).
Ma inoltre e in particolare, si veda: G. Milanesi. Le lettere di M.
B. ... coi ricordi ed i contratti artistici, Firenze 1875; K. Frey,
Sammlung ausgewälter Briefe an Michelagniolo B., Berlin 1899;
Id., Die Briefe des Michelagniolo, Berlin 1907 (nuova ediz., 1961);
Il Carteggio di Michelangelo, ediz. postuma di G. Poggi, a cura di
P. Barocchi e R. Ristori, I, Firenze 1965; II, ibid. 1967; I ricordi
di Michelangelo, a cura di L. Bardeschi Ciulich e P. Barocchi,
Firenze 1970; G. Vasari, La vita di Michelangelo nelle redazioni del
1550 e del 1568, a cura di P. Barocchi, I (testo, bibl.), II-IV
(commento), V (indici), Milano-Napoli 1962 (che è l'edizione
citata nel corso della voce; nell'ediz. delle Vite del Vasari, a
cura di G. Milanesi, la vita di Michelangelo è nel volume
VII, Firenze 1881, pp. 135-317); A. Condivi, Vita di M. B. ...
(1553), a cura di E. Spina Barelli, Milano 1964; R. Duppa, The life
of M. B., London 1806; A. Chr. Quatremère de Quincy, Histoire
de la vie et des ouvrages de Michel-Ange B., Paris 1835; H. Grimm,
Leben Michelangelos, Hannover 1860-63 (nuova ediz., Leipzig 1940;
trad. ital. di A. di Cossilla, Milano 1875); A. Gotti, Vita di M.
B., Firenze 1875; J. A. Symonds, The life of M. B., London 1893; K.
Frey, Michelagnolo B. Sein Leben und seine Werke, I, Michelagniolos
Jugendjare, Berlin 1907; R. Rolland, La vie de Michel-Ange, Paris
1907 (trad. ital. di B. Enriques, Firenze 1921); H. Mackowsky,
Michelangelo, Berlin 1909 (8 ediz., Stuttgart 1947); E. Steinmann,
Michelangelo im Spiegel seiner Zeit, Leipzig 1930; P. Toesca, in
Encicl. Ital., XXIII, Milano-Roma 1934, pp. 165-191; W.
Maurenbrecher, Die Aufzeichnungen des M. B., Leipzig 1938; G.
Papini, Vita di Michelangiolo nella vita del suo tempo, Milano 1949;
L. Dussler, Die Zeichnungen des Michelangelo, Berlin 1959; P.
Barocchi, Michelangelo e la sua scuola, Firenze 1962-64, I-II, I
disegni di casa Buonarroti e degli Uffizi; III, I disegni
dell'archivio Buonarroti; Ch. De Tolnay, in Encicl. univ. dell'arte,
IX, Venezia-Roma 1963, coll. 263-306; E. H. Ranisden, The letters of
Michelangelo, London 1963; R. J. Clements, Michelangelo, a self
portrait, New York 1963; Michelangelo architetto, Torino 1964 (con
catal. delle opere e bibl. a cura di F. Barbieri e L. Puppo); V.
Mariani, Michelangelo pittore, Milano 1964; K. Clark, Michelangelo
pittore, in Apollo, LXXX (1964), pp. 436-445 (testo del discorso di
chiusura delle celebrazioni del centenario dell'Accademia
Fiorentina); E. Panofsky, Tomb sculpture, London 1964, ad Indicem;
Atti del Convegno di studi michelangioleschi, Firenze-Roma 1964,
Roma 1966 (particolarmente interessante per la ricostruzione della
personalità del B. il contributo di G. Spini,
Politicità di Michelangelo, a pp. 110-170); J. Pove Hennessy,
La scultura ital., Il Cinquecento e il Barocco, I-II, Milano 1966,
pp. 11-45, 303-344; J. Ackermann, L'architettura di Michelangelo,
Torino 1968; L. Steinberg, Michelangelo's Madonna Medici and related
works, in The Burlington Magazine, XCIII (1971), pp. 145 ss.; P.
Joannides, A note on the Julius tomb…, ibid., pp. 149 s.; M.
Brusantin, La cupola di S. Pietro..., in Controspazio, III (1971),
n. 3, pp. 20-32; N. Vian, Una casa nella vita di Michelangelo, in
Strenna dei Romanisti, 1971, pp. 380-386; P. Fehl, Michelangelo's
Crucifixion of st. Peter…, in The Art Bulletin, LIII (1971), pp. 327
ss.; H. R. Mancusi-Ungaro, Michelangelo: The Bruges Madonna and the
Piccolomini Altar, London 1971. Si tengano presenti inoltre i cinque
volumi di Ch. De Tolnay, Michelangelo, Princeton 1945-1960, I, The
Youth..., II, The Sistine Ceiling; III, The Medici Chapel; IV, The
Tomb of Julius II; V, The Final Period.
I manoscritti buonarrotiani permettono di supporre che il B. verso
il 1546 intendesse procurare una edizione delle sue poesie; progetto
sfumato forse a causa della morte (avvenuta alla fine di quell'anno)
di colui che lo aiutava a preparare e a ordinare le belle copie da
mandare alla stampa, Luigi del Riccio. L' "editio princeps" comparve
nel 1623 in Firenze, presso i Giunti, Per cura del pronipote
Michelangelo Buonarroti il Giovane; incompleta e assai infedele, fu
più volte ristampata e servì di base ad altre edizioni
finché C. Guasti nel 1863 non ne diede la prima edizione
completa e ricavata dai manoscritti: Le rime di M. B., Firenze 1863.
Altre edizioni critiche: Die Dichtungen des M. B. …, a cura di K.
Frey, Berlin 1897; M. B., Rime, a cura di E. N. Girardi, Bari 1960.
Per le lettere, oltre alle edizioni citate, si vedano i due volumi:
Lettere, a cura di G. Papini, Lanciano 1910. Sulla produzione
letteraria del B. si veda poi U. Foscolo, Michel Angelo (1822), e
Poems of M.A.B., (1826), in Opere, Ediz. naz., X, pp. 447-59,
469-91; W. Pater, The poetry of Michelangelo, in Fortnightly Review,
ott. 1571, poi in Studies on the history of the Renaissance, London
1873 (trad. it. Il Rinascimento, Napoli 1925); J. A. Symonds, The
sonnets of M. B. and Campanella, London 1878; G. Klaczko, Causeries
florentines, Paris 1880 (trad. it., Bari 1925); C. Boito, Leonardo,
Michelangelo, A. Palladio. Studi artistici, Milano 1883, pp. 119
ss.; A. Farinelli, Michelangelo poeta, in Raccolta di studi dedicata
ad Alessandro D'Ancona, Firenze 1901 (ultima edizione in
Michelangelo e Dante. Michelangelo poeta, Torino 1943); T. Parodi,
M. B., in Poesia e letteratura, Bari 1916; G. Bertoni, La prosa di
Michelangelo, in Lingua e pensiero, Firenze 1932; G. C. Ferrero, Il
petrarchismo del Bembo e le rime di Michelangelo, Torino 1935; G.
Contini, Il senso delle cose nella poesia di Michelangelo, in
Rivista rosminiana, XXXI (1937), poi in Esercizi di lettura, Firenze
1947; V. Mariani, Poesia di Michelangelo, Roma 1941; H. Sckommodau,
Die Dichtungen Michelangiolos, in Romanische Forschungen, LVI
(1942), pp. 49-104; T. Mann, La concezione dell'amore nella poesia
di Michelangelo, in Letterature moderne, I (1959), pp. 427 ss. (ora
in Scritti minori, Milano 1958); L. Baldacci, Lineamenti della
poesia di Michelangelo, in Paragone, VI (1955), n. 72, pp. 27-45; G.
Di Pino, Le rime di Michelangelo, in Umanità e stile, Firenze
1957; E. N. Girardi, Studi sulle Rime di Michelangiolo, Milano 1964;
Id., Michelangelo scrittore: le lettere e le rime, in Michelangelo
artista, pensatore, scrittore, II, Novara 1965, pp. 543-568; Id.,
Introduzione all'ediz. delle Rime, Bari 1967, pp. VII-XXVII; Id., La
critica letteraria su Michelangiolo, in Atti del Convegno di studi
michelangioleschi, cit., pp. 81-109. F. Figurelli, Sulla poesia di
Michelangelo, in Pubblic. d. Univ. di Bari, Annali d. Facoltà
di lettere e filosofia, (1965), pp. 81-105; U. Bosco, Michelangelo
Poeta, in Saggi sul Rinasc. ital., Roma 1970, pp. 52-76; W. Binni,
Michelangelo scrittore, Roma 1965; U. Bosco, Non ha l'ottimo
artista, in Studi in onore di A. Schiaffini, in Riv. di cultura
classica e medievale, VII (1965), pp. 181 ss.; R. J. Clements, The
poetry of Michelangelo, New York 1965 (trad. ital., Milano 1966).
L. Dussler-E. N. Girardi