La critica di un “reazionario” al mondo moderno


Il pensiero politico di Charles Maurras in un libro recente*

Piero Venturelli
www.bibliomanie.it

Università di Bologna


1. Domenico Fisichella interprete di Charles Maurras

Domenico Fisichella cominciò ad interessarsi precocemente agli scritti e alle concezioni di Charles Maurras (1868-1952). Sotto la guida di uno degli indiscussi maestri della filosofia del diritto in Italia, Sergio Cotta, egli decise di laurearsi in Giurisprudenza – con scelta coraggiosa – sul pensiero politico di questo autore provenzale che, all’epoca, il mondo accademico – in Italia come all’estero – tendeva a marginalizzare a causa sia delle sue idee radicali ed intransigenti, “reazionarie”, sia del suo sostegno attivo agli occupanti nazisti in Francia e alla Repubblica di Vichy durante la Seconda guerra mondiale.

Dopo la discussione della tesi di laurea, avvenuta nel 1960 presso l’Università “La Sapienza” di Roma, Fisichella intraprese un lungo lavoro di approfondimento del contesto in cui le concezioni di Maurras maturarono e del pensiero dei filosofi che costituirono i suoi principali punti di riferimento teorici, a partire da Joseph de Maistre (1753-1821) ed Auguste Comte (1798-1857)[1]. Pur non arrivando mai a pubblicare la propria tesi, lo studioso seguitò sempre a considerare Maurras uno dei suoi autori, e a lui non mancò di consacrare – in tempi diversi – letture e analisi[2].

Di recente, alla vigilia della conclusione della sua lunga carriera accademica istituzionalmente intesa, Fisichella ha fatto uscire una densa monografia dedicata a questo “scomodo” intellettuale transalpino. Nel volume, egli risolve di soffermarsi prevalentemente sulla teoria della politica elaborata da Maurras nel corso di mezzo secolo, tra l’ultimo decennio dell’Ottocento e la fine della Seconda guerra mondiale, giudicando – tutto sommato – assai meno significativo, oltre che più contingente e caduco, il suo contributo di militante nazionalista.


2. Maurras di fronte alla deriva economicistica

Come si diceva, Fisichella prende in esame quasi esclusivamente la dimensione teorica degli scritti dell’autore francese. Su questo terreno, il libro tocca molti degli argomenti cari a Maurras, spaziando dalla funzione riconosciuta alla monarchia ereditaria tradizionale, dall’ineguaglianza tra gli uomini vista come dato “naturale” e dalla critica all’“astrattezza” dell’Illuminismo e della rivoluzione del 1789, alla messa in guardia contro il sentimentalismo in politica e il materialismo in filosofia, alla condanna della “mentalità” giudea e al ruolo di primo piano conferito allo Stato-nazione.

Limitandoci in questa sede a dar conto solo di alcuni aspetti del pensiero politico maurrassiano affrontati nella ricca monografia di Fisichella, riteniamo indispensabile, per cominciare, porre in risalto le argomentazioni svolte dallo scrittore provenzale intorno allo sviluppo, in epoca moderna, di un inedito paradigma teorico: quello che vede assolutizzata la dimensione economica dell’esistenza umana[3].

Secondo l’intellettuale transalpino, la cecità e l’irresolutezza degli uomini moderni sta cagionando il radicarsi di quest’inquietante Weltanschauung, che gli sembra ormai destinata a spazzar via due millenni e mezzo di civiltà occidentale. Mentre la tradizione ha consegnato ai popoli europei un mondo nel quale, da una parte, era la politica a rappresentare la dimensione della generalità e, dall’altra, veniva riconosciuta una funzione fondamentale alla sfera della trascendenza, dal XVIII secolo in poi è andata progressivamente crescendo senza controllo, nella visione di Maurras, un’economia finanziaria il cui potere investe non soltanto l’ambito “temporale”, ma anche quello “simbolico”. A suo avviso, dunque, si sta diffondendo una vera e propria plutocrazia, che tende al declassamento della sfera spirituale e finanche alla marginalizzazione dell’economia produttiva e della proprietà terriera, cioè di tutti quegli elementi che – a vario titolo – si frappongono al successo internazionale della Finanza pura. Come sintetizza Fisichella, ciò crea «forti concentrazioni di risorse finanziarie difficilmente controllabili anche in termini di allocazione territoriale», e «interferisce pesantemente non soltanto nella competizione politica ed elettorale, ma altresì nell’intero sistema dei mezzi di comunicazione di massa, a loro volta influenti sui processi elettorali e sulla vita politica generale»[4].

Maurras individua altri preoccupanti esiti di quest’espansione planetaria della Finanza: il moltiplicarsi degli attacchi contro l’economia produttiva da parte dei mezzi d’informazione, i quali si dimostrano sempre di più in balìa del dio Denaro; l’allignare di atteggiamenti politici di stampo demagogico; la diffusione del culto, ostentatamente laico e mondano, del “progresso”; la nascita di una nuova specie di homo oeconomicus, che l’autore provenzale definisce «meteco». Su quest’ultimo punto, è opportuno notare come Maurras riprenda e aggiorni il termine greco “métoikos”, trasformando l’antico uomo libero che svolgeva attività prevalentemente commerciali e professionali all’interno della pólis, e la cui condizione di forestiero non gli permetteva di godere della cittadinanza politica (ma lo obbligava a pagare talune tasse), in una sorta di «apolide economico, un senza patria e senza cittadinanza che si muove nei vasti mercati del globo non avendo altro interesse che il proprio particolare interesse, il profitto come misura di tutte le cose, e altro bersaglio principale che le culture e le strutture tradizionali»[5].

Secondo il pensatore francese, insomma, è in atto il tragico capovolgimento della tradizione occidentale: laddove un tempo l’economia era definita e considerata come il regno dei mezzi, oggigiorno essa sta diventando l’unico fine della storia. E ad aggravare la situazione, egli sottolinea, è l’«invisibilità» della ricchezza finanziaria, che approfitta di tale suo subdolo carattere per concentrarsi smisuratamente senza incontrare sul proprio cammino gravi disturbi o limitazioni.

Insieme col disprezzo di ogni identità culturale e civile, questo tentacolare reticolo di apolidi (con la sua coorte di tecnocrati, bancocrati e opinion makers) rivela un’indomita propensione a sfruttare la politica – e con essa lo Stato – per i propri scopi, nonché una singolare avversione per la religione cattolica, in quanto i meteci moderni – nell’interpretazione di Maurras – sono ben consapevoli che essa costituisce il principale tra i poteri effettivamente capaci di tener testa alle plutocrazie e al culto del dio Denaro.

Il teorico di Provenza ritiene che quello che oppone apolidi e cattolicesimo sia uno scontro decisivo tra la forza materiale e la forza spirituale, da cui uscirà vincitore l’uomo-bestia ovvero l’uomo tradizionale, l’individuo abbruttito e livellato verso il basso ovvero l’individuo che reca ancora con sé alti valori morali, estetici e intellettuali. Questa sua veemente difesa del cattolicesimo passa anche attraverso una serie di duri attacchi all’ebraismo, religione che egli accusa di aver propugnato per secoli una concezione del mondo cosmopolita e un modello umano dedito essenzialmente alle speculazioni affaristiche. Come sottolinea Vincenza Petyx, Maurras, al pari di molti francesi dell’epoca, «vede nel semita, che non conosce la proprietà della terra ma soltanto quella dell’oro, il pericoloso dissolvitore dei vincoli nazionali. L’oro, cioè il capitalismo finanziario, ha infatti il mondo intero come suo campo d’azione»[6], quindi non ha patria. Anche per questo, l’autore transalpino accusa questa forma degenerata di capitalismo di essere un prodotto dell’intelligenza astratta, deracinée, tipica degli ebrei di ogni tempo. E, a suo avviso, la Finanza internazionale arriverà a spadroneggiare allorquando le nazioni saranno popolate di «uomini “universali” che contratt[eranno] la convivenza sulla base del solo vincolo che conosc[eranno], quello dell’utile»[7]. Dal punto di vista del pensatore provenzale, afferma Daniele Rocca, essere antisemiti significa non tanto teorizzare superiorità ed inferiorità di “razza”, quanto piuttosto «reagire contro un processo di dissoluzione, secondo una prospettiva storica»[8].

Maurras è convinto che la stessa formazione delle “eresie” protestanti e del diffondersi del deismo debba molto all’assolutizzazione di questi aspetti anarchici e internazionalistici connaturati alla mentalità giudea. Egli non nutre dubbi, a questo proposito: l’aver pervicacemente puntato a scindere, almeno a partire dal XVI secolo, la felice combinazione tra sentimento cristiano e disciplina ricevuta dal mondo greco e romano, sta comportando la progressiva distruzione dell’ordine naturale dell’umanità. Viceversa, a suo giudizio, uno dei meriti grandi del cattolicesimo tradizionale consiste nell’aver saputo organizzare l’idea dell’Essere divino: infatti, come osserva Fisichella, «[s]ul cammino che conduce a Dio, il cattolico trova legioni di intermediari: terrestri o sovrannaturali, santi o beati o figure esemplari, la catena dagli uni agli altri è continua»; in questo modo, rimanendo all’interno d’una prospettiva monoteistica, l’universo conserva «il suo carattere naturale di molteplicità, di armonia, di composizione»[9]. Anche se «Dio parla nel segreto di un cuore cattolico, le [S]ue parole sono controllate e come convalidate dai dottori, guidati a loro volta da un’autorità superiore, la sola che sia senza appello, conservatrice infallibile della dottrina: e tale legame complesso, con le sue mediazioni, feconda la tradizione»[10]. Questa è, appunto, la Tradizione, nel tempo e nello spazio, secondo il teorico francese: «Lo spirito di fantasia e di divagazione, la follia del senso proprio si trovano così ridotti al minimo»[11].

3. La restaurazione del primato della politica

Maurras ritiene che sia sbagliato dare una risposta alla crisi del paradigma tradizionale esclusivamente sul piano religioso: egli, infatti, propone anche il ripristino della centralità della politica. In che senso è da intendersi questo recupero? Innanzitutto, a suo parere, non può darsi alcuna società, vale a dire aggregazione organizzata, senza regole di ordine politico, senza sovranità. Non è un contratto tra singole volontà individuali a fondare una società, bensì «un idem sentire che ha la sua proiezione nel riconoscimento di un comune interesse politico»[12]. Entro tale quadro, «[l]o Stato è una delle forme istituzionali in cui si è espressa nel tempo questa convergenza della società e del suo nucleo costitutivo di ordine sovrano»[13]. La mano pubblica dev’essere limitata al proprio ruolo specifico, a ben definite competenze e attribuzioni: «Vi è una divisione del lavoro che riconosce autonomia costitutiva alla società civile nelle sue plurime e pluralizzate articolazioni e nei suoi meccanismi sia decisionali sia di selezione delle rispettive dirigenze»[14].

Come si vede, Maurras si fa portabandiera di un primato esclusivamente regolativo della politica, attribuendo a quest’ultima la funzione di ordinare la comunità e, allo stesso tempo, di riconoscere e annoverare tra le proprie regole l’autonomia tendenziale della società civile. Tale posizione mette in luce la distanza dello scrittore francese dal panpoliticismo, secondo cui tutto è politica, tutto è politico: allo Stato, infatti, egli non esita a proscrivere l’intervento in prima persona nei diversi campi in cui si esprime la vita individuale e collettiva[15].
 
4. Stato e società civile

Nella sua ricostruzione della prospettiva teorica maurrassiana, Fisichella riserva largo spazio ai caratteri peculiari dello Stato e della società che l’intellettuale francese pone in rilievo nei propri scritti. Ancora una volta, le prese di posizione e i punti di vista illustrati contrastano nettamente con le dottrine e le rivendicazioni care al pensiero rivoluzionario. Secondo Maurras, la società si basa sulla famiglia, sua prima unità, e risulta articolata in diversi altri gruppi più complessi, senza i quali ogni vita umana sarebbe soffocata: i comuni, le associazioni professionali e confessionali, e una varietà infinita di corpi e di compagnie. In quest’orizzonte dottrinale, come sottolinea Fisichella, «[l]o Stato non è che un organo, indispensabile e primordiale, della società: lo Stato, quale che sia, è il funzionario della società»[16]. Il vero Stato, quindi, riconosce l’autonomia della società e non ha quasi nulla a che fare con gli individui privati: esso, piuttosto, esercita le proprie attribuzioni soltanto sui corps compresi entro il perimetro statuale e soprattutto sulle loro reciproche interazioni, limitandosi a salvaguardare le supreme esigenze dell’ordine, della sicurezza e della difesa, ambiti nei quali la sua iniziativa è prioritaria e inopponibile.

Nella visione maurrassiana, pertanto, la libertà dell’uomo è riconducibile all’articolazione pluralizzata della società, costituita più di distinzioni e specificità che di uguaglianze ed uniformità. Ma non solo: il pensatore francese concentra l’attenzione anche sul rapporto tra i concetti di libertà e di autorità, mettendo in luce come non si possa spiegare l’essenza dell’uno senza considerare l’altro. Egli spiega, a questo proposito:
Chi dice libertà reale dice autorità. La libertà di testare crea l’autorità del capo-famiglia. La libertà comunale o provinciale crea il potere reale delle autorità sociali che vivono e risiedono sul posto. La libertà religiosa riconosce l’autorità delle leggi spirituali e della gerarchia interna d’una religione. La libertà sindacale e professionale consacra l’autorità delle discipline e dei regolamenti all’interno delle corporazioni e compagnie di mestieri[17].
In questo senso, si può affermare che l’idea di autorità è ben lungi dal contraddire l’idea di libertà: piuttosto, la completa e ne è compimento. A giudizio di Maurras, dunque, nel momento in cui una libertà umana perviene al punto più alto, trovando oggetti umani sui quali applicarsi e imporsi, prende il nome di autorità.

Come si diceva, lo scrittore provenzale è persuaso che il compito precipuo dello Stato consista nel mantenimento dell’ordine politico. In mancanza di quest’ultimo, a suo avviso, non è pensabile alcuna seria azione dello spirito o della materia. In sede economica, ad esempio, l’ordine politico consente un sano sviluppo dell’attività produttiva, un’armoniosa fusione delle varie forze del lavoro e quel rispetto della proprietà privata che Maurras considera salvaguardia naturale dell’uomo, possibilità di resistere alle pretese altrui e di affrontare le mutevoli vicende dell’esistenza. E, non diversamente da tanti altri dati personali, sociali e professionali, anche la proprietà si trasmette ampiamente per via dell’eredità.

Una volta garantito l’ordine politico, lo Stato deve arrestare la propria azione, è tenuto a non ingerirsi nelle libertà-autorità particolari presenti nella società. Anzi, esse gli servono per delimitare con chiarezza i propri compiti precipui, fissando nettamente i termini entro i quali – secondo le condizioni storiche e la tradizione nazionale, nonché la configurazione geografica – l’autorità sovrana si dispiega. Dall’uomo allo Stato e ai gruppi intermedi, ciascuno deve fruire di quella parte di autorità-libertà che il naturale ordine delle cose gli permette, senza livellanti forzature ugualitarie e prendendo realisticamente atto delle ineludibili gradazioni di gerarchia sociale.
 

5. Democrazia e derive economicistiche

Maurras è convinto che solo un tipo di regime politico possa confarsi all’emergente mondo dei meteci, all’epoca materialista e cosmopolita che sta instaurandosi in Europa ai suoi tempi: la democrazia. Essa viene descritta come una sorta di “luogo naturale” dell’irresponsabilità, della confusione e dell’irragionevolezza, dove non esistono argini alla passionalità e alle pretese degli elementi peggiori della comunità; tutto è continuamente dibattuto e messo in discussione, rileva il pensatore francese, senza che venga riconosciuto un terreno valoriale condiviso, onde è impossibile dar vita ad una pace interna che risulti duratura. Nell’ambito del quadro teorico maurrassiano, questa condizione d’instabilità, nella quale «lo Stato non ha mai tregua, il governo non ha mai serenità»[18], è la conseguenza necessaria di un sistema che prevede non solo che tutti comandino e tutti obbediscano, ma pure che i cittadini vengano sovente chiamati ad esprimere un’opinione attraverso il voto su questioni che essi avvertono come lontanissime o che ignorano.

Non c’è bisogno di spingersi oltre nell’analisi di questo regime, secondo il teorico transalpino, per avvedersi che gli ideali della sovranità popolare, del governo dei cittadini e della maggioranza numerica sono fallaci. A parere di Maurras, un osservatore attento capisce subito che la democrazia incarna la resa di fatto della politica nella sua forma più autentica: proprio perché privo di veri principî, nemico della gerarchia e passionale per definizione, questo regime si rivela terreno fertile per quelle derive oligarchico-economicistiche che, se non arrestate in tempo, finiscono con l’instaurare il ferreo dispotismo dell’Oro. La democrazia, infatti, rifiuta di attribuire alcun valore e alcuna legittimità a ciò che non è stato votato, scelto dalla maggioranza, dimostrando – così – di essere assoggettata al doppio governo materialista del Numero e del Denaro; dapprima, entrambi questi elementi, di natura quantitativa, si combinano alimentando la demagogia, ma col tempo il secondo tende a prevalere sul primo, dimodoché la democrazia va trasformandosi progressivamente in oligarchia plutocratica tout court: presto, della democrazia rimarranno solo (fino a quando?) i suoi riti, ormai ridotti a cerimoniali senza significato ed effetti rilevanti.
 

6. Democrazia come «tradizione della morte»

In quest’orizzonte teorico, Maurras recupera la distinzione greca tra civiltà e barbarie, trasferendola nell’esperienza europea del proprio tempo. A suo avviso, chi inneggia all’uguaglianza democratica apre la strada, scientemente o no, al ritorno del caos, della violenza, della morte. E, a tale proposito, il caso della Francia gli sembra emblematico: nella storia recente di questo grande Paese, avrebbe preso corpo una vera e propria «tradizione della morte», incentrata sulle istituzioni e sulla mentalità democratiche. Secondo l’autore provenzale, infatti, la democrazia tende a spazzar via tutto ciò che trova sul proprio cammino, disprezzando indiscriminatamente tutti i lasciti morali, intellettuali, istituzionali ed economici ereditati dal passato e resistiti alla prova del tempo. Il regime democratico malcela un animus dissolvente e annientatore, ed è sprovvisto di qualsivoglia visione della costruttiva continuità: anzi, si potrebbe dire, di ogni minima traccia di spirito aggregante. Ecco, allora, la «tradizione della morte», fonte inesausta di dissipazione e imbarbarimento della comunità. Alla democrazia, insomma, è imputata da Maurras la doppia incapacità di porre e far agire i membri della nazione in spirito di solidarietà, e di garantire il necessario legame tra le generazioni: il che spalanca le porte, a suo dire, ad un nichilismo inumano e lacerante.

Nell’interpretazione del teorico francese, i sostenitori e anche i precursori ideologici della rivoluzione del 1789, avvenimento che egli considera l’atto di nascita ufficiale di questa distruttiva «tradizione della morte», hanno insegnato la scienza atea non solo contro le religioni, ma anche contro i governi. Se nelle fasi iniziali la negazione del rivelato e del miracoloso poteva prestarsi a un certo progresso generale nella conoscenza del mondo fisico, alla lunga ciò è andato ad incoraggiare la contestazione dell’origine ultraterrena, sovrannaturale, dell’autorità e della disuguaglianza, critica rabbiosa sulla quale – afferma Maurras – si appoggia per essenza la democrazia. L’intellettuale di Provenza accusa i difensori di questo regime – e, già prima, i philosophes – di aver intrapreso una battaglia di ordine metafisico e di aver basato le proprie convinzioni su un insieme di fantasticherie e di impulsi soggettivi. In questo senso, egli considera la dottrina democratica sorta non dalla vera scienza, bensì da una religione falsa e “astratta”, al punto che né la storia degli uomini né lo studio della loro natura permettono di aderire al democratismo come ad un principio superiore. Rileva Fisichella:
Ciò che Maurras rifiuta, e con lui e prima di lui tanta parte della cultura di destra, è l’astrattezza dei philosophes che nel secolo XVIII hanno prodotto, in nome della ragione individuale e contro i dettami della maistriana raison universelle, i principî alimentatori dello spirito rivoluzionario, principî astratti impugnati come clave contro la concretezza della storia e delle istituzioni e credenze da essa prodotte e sedimentate nel corso dei secoli[19].
A chi crede che lo spirito democratico testimoni di un abuso della logica e della ragione, il pensatore provenzale risponde che gli uomini del Settecento sono stati inebriati non tanto dalla meditazione solitaria e dalla speculazione teorica a priori, quanto piuttosto dall’«impulso sentimentale che li ha condotti a proporre come assunzioni dottrinali mere associazioni di immagini senza consistenza né coscienza, dunque senza verità»[20]. Maurras non ha dubbi al riguardo: «il male del mondo moderno deriva dall’avere l’élite intellettuale di Francia sdegnato la ragione facendo quasi esclusivamente appello alle passioni e ai sentimenti»[21].

Ma l’autore transalpino si spinge oltre. Da Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) in poi, a suo modo di vedere, una porzione non trascurabile del pensiero e della retorica rivoluzionari, pur rifacendosi esplicitamente ai miti e ai modelli dell’antichità greca e romana, non compartecipa affatto dell’anima autentica del mondo classico. Maurras mette anche in guardia contro gli scrittori della grande generazione letteraria della Restaurazione, i quali per primi assunsero in Francia l’etichetta di “romantici”: lungi dall’incarnare i paladini armati della monarchia legittima e i poeti evocatori del Medioevo cattolico, essi risultavano ben lontani dallo spirito classico. Anzi, a suo parere, vi è una coincidenza profonda tra Romanticismo e Rivoluzione, dal momento che in entrambi si possono individuare figli carnali di quel movimento della Riforma che ha rappresentato una sedizione sistematica dell’individuo contro la specie. Secondo Maurras, le tradizioni elleno-latine e il genio cattolico romano medioevale non hanno nulla a che fare con lo spirito sovversivo e antimetafisico posto alla base sia della Rivoluzione sia del Romanticismo. Mentre questi ultimi non gli appaiono altro che tragiche parodie della classicità propriamente detta, l’intellettuale di Provenza crede che l’autentico spirito classico sia in senso proprio l’essenza delle dottrine dell’alta umanità, in quanto esso è andato modellandosi sulla filosofia di Aristotele ed appropriandosi dei metodi della politica romana. Nella visione maurrassiana, insomma, quello classico coincide con l’unico vero spirito di autorità e di tradizione.

Il pensatore francese identifica i padri della Rivoluzione nei protestanti cinquecenteschi di Wittenberg e di Ginevra, tutti eredi – a suo modo di vedere – dello spirito giudeo e delle varietà del cristianesimo “separato” imperversanti nei deserti orientali e nella foresta germanica, cioè in quelli che egli ritiene i principali punti-chiave della barbarie. Non adeguatamente permeato dall’umanesimo cattolico, il mondo tedesco (ma anche quello anglosassone, accusato da Maurras di essere il peggiore focolaio delle infezioni liberale e massonica) è stato penetrato dall’ebraismo, ossia dalla cultura vetero-testamentaria, biblismo senza freno (o letto come tale) che alimenta il tumulto interiore scatenato, sconvolgendo «quella disciplina mentale, morale, estetica, quella ragione, quel diritto, quella legge, quell’ordine, quel gusto che costituivano tutto il capitale civilizzatore dello spirito classico»[22].

Ostile alla razionalità classica e cattolica, l’atteggiamento intellettuale plasmatosi nell’Europa centro-settentrionale privilegia sentimenti e passioni individuali, sfociando in quel volontarismo tipico del XVIII secolo e in quelle estremizzazioni sfacciatamente irrazionaliste e nichiliste che sono venute dopo. Che cosa pretendono gli scrittori romantici non meno degli alfieri della Rivoluzione? Che il genere umano ceda alle manifestazioni più incontrollate delle passioni, che vengano sovvertiti gli assunti della natura e della ragione, secondo i quali la società preesiste alla volontà di associarsi e i diritti dell’uomo non sono immaginabili prima dell’esistenza della società. Tanto i sostenitori della Rivoluzione quanto i romantici, a parere di Maurras, risultano sempre insofferenti verso l’ordine e tendono a legittimare ogni possibile rivolta contro sacerdozî ed imperi.

Il teorico transalpino accusa gli interpreti di non aver capito che le pretese novità del Romanticismo – vale a dire la rivendicazione del primato del sentimento e della sensibilità individuale – esistevano ben prima di esso. Tutta la storia della cultura, da Omero in poi, ne fa fede. L’opera degli autori romantici è consistita nel dare alle passioni la prima o persino l’unica importanza, nel trasformare l’attenzione alle passioni nell’eccesso delle passioni; e ciò porta, non da ultimo, ad intendere il principio di libertà come anarchia e a perseguire un livellamento ugualitaristico tra gli uomini. Maurras ritiene, invece, che il ritorno alla verità non consista nel proscrivere sentimenti ed emozioni, ma nel ricollocarli al loro rango. Affinché non degenerino, affinché non divengano perversi, volontà e sentimento vanno temperati, disciplinati, limitati dalla ragione[23]. A giudizio dello scrittore francese, per questo motivo, «[a]l pari dell’autorità, la ragione va ricondotta in alto, in consonanza con i dettami dello spirito classico, che è insieme spirito di progresso e di ordine»[24]. Ciò significa, innanzitutto, recuperare le esperienze dell’antica Ellade. Furono i greci, infatti, a inventare e condurre alla perfezione l’estetica dell’armonia: il loro ideale di bellezza scaturì dalla ricerca dell’ordine. Quest’ultimo, spiega Maurras, è un rapporto di convenienza e di equilibrio tra le diverse parti guidato da una gerarchia di valori cui presiede l’autorità della ragione.

Ai moderni, barbari nei gusti e nei costumi, poco o nulla è rimasto della saggezza antica che metteva d’accordo l’uomo con la natura. Basta osservare le opere d’arte romantiche, afferma il pensatore francese: lì trionfa una natura selvaggia, senza freni, che non reca traccia dell’intervento armonizzatore dell’uomo. All’intelligenza “maschia” dei greci è andata via via sostituendosi la mollezza sentimentale femminile, che si abbandona alle proprie emozioni. Questo è un importante sintomo, sottolinea Maurras, della metecizzazione del mondo. A suo avviso, nessuno può mettere in dubbio che il gusto romantico abbia innescato un generale processo di effeminatezza chiaramente individuabile in alcuni poeti e scrittori, come dimostrano i casi emblematici di Jean-Jacques Rousseau, Madame de Staël (1766-1817), François-René de Chateaubriand (1768-1848), Paul-Marie Verlaine (1848-1896). Secondo il teorico transalpino, i moderni hanno dimenticato ancora una volta l’insegnamento degli antichi: infatti, egli rileva che, mentre ad Atene i meteci erano stranieri che non godevano dei diritti politici, in Francia i meteci della cultura hanno avuto e hanno ancora pieni diritti e mano libera per corrompere la tradizione culturale del Paese. E il meteco “letterato”, “intellettuale”, oltre a palesare un’irrefrenabile vocazione per la debolezza e l’imperfezione, vanta molto spesso un’origine germanica. Di nuovo, pertanto, il cerchio si chiude.

Se in campo letterario è l’egocentrica sensiblerie femminile ad imporsi, l’ambito politico vede il predominio del particolare sul generale, del privato sul pubblico. Non è un mistero che le cose andassero proprio così nelle foreste della Germania, osserva Maurras, anche se questa constatazione non deve far trascurare – a suo giudizio – il rilievo che riveste, nella degenerazione dello spirito tradizionale dell’Occidente, l’influenza dello spirito juif sulla cultura e sulla religione. Mentre nei tempi antichi fu indubbiamente Gerusalemme il principale focolaio delle idee devastatrici della classicità, negli ultimi secoli il punto di raccolta delle infezioni di mezzo mondo si è dimostrata Ginevra, che – non a caso, per Maurras – corrisponde alla patria di Rousseau. Quest’ultimo viene descritto dall’intellettuale francese come un irriducibile avventuriero nutrito di ribellismo ebraico, un subdolo fautore della bellezza della natura primitiva senza ordine e senza legge, un ciarliero apostolo della virtù della sauvagérie, un pericoloso teorico delle dottrine democratiche e rivoluzionarie, un sinistro antesignano dei principî dell’Ottantanove: ciò spiega, a suo avviso, perché l’autore del Contratto sociale e dell’Emilio (entrambi usciti nel 1762) debba essere considerato uno dei nemici per eccellenza dello spirito classico e della tradizione europea[25].
 

7. Democrazia e ugualitarismo

Come si accennava, tra i più grandi ed esiziali errori delle dottrine rivoluzionarie e dello spirito romantico – due rami dello stesso tronco, nella visione di Maurras –, figura il tentativo d’instaurare un’uguaglianza radicale. Ovviamente, rileva il teorico di Provenza, il regime che meglio degli altri favorisce questa condizione sociale e politica priva di distinzioni e preminenze è quello democratico. Egli accusa la democrazia di non aver fondamento scientifico proprio perché si basa non sull’accertamento di un fatto, ma piuttosto sull’uguaglianza, la quale rappresenta uno dei frutti più pericolosi dell’immaginazione umana, una costruzione mentale fuorviante che non ha riscontri solidi nella realtà e che determina impetuosi eccitamenti negli uomini. Al contrario, sottolinea il pensatore francese, è la disuguaglianza ad essere la legge dello sviluppo sociale e unicamente il rispetto di questa legge assicura con l’ordine anche il progresso. Come scrive Fisichella, non solo la disuguaglianza costituisce «un dato di partenza», ma «è osservazione comune che la capacità di innovazione rinvia piuttosto alle minoranze guidatrici che ai grandi numeri sociali, così come la concentrazione delle risorse è condizione (non esclusiva, ma necessaria) per produrre benessere e sviluppo sociale»[26]. Da un lato, Maurras considera aristocratico il vero progresso; dall’altro, egli prende fermamente partito contro la proclamazione di uguaglianze che non esistono, in quanto è persuaso che tali rivendicazioni «determin[i]no illusioni e spropositate aspettative destinate a infrangersi contro la realtà o a diventare oggetto di manipolazione ora di questo ora di quel potente di turno»[27].

Per quello che concerne il primo punto, Maurras fa notare che, se nessuno può mettere in dubbio che lo sviluppo materiale abbia dato maggiori agi e ricchezze agli uomini, è però altrettanto vero che tale sviluppo non definisce affatto il progresso; quest’ultimo si accompagna, piuttosto, a un corso eroico-aristocratico, cioè spirituale, della storia. Ciò spiega perché i moderni non siano all’altezza degli antichi: gli individui e le società, dalla Rivoluzione in poi, hanno interrotto questo ciclo per cadere nelle volgare materialità democratica. Entro tale quadro, gli uomini “superiori” risultano e risulteranno sempre gli unici in grado di produrre cultura, mentre gli individui “inferiori” devono essere tenuti ben lontani da essa, perché la sua democratizzazione, che costituisce uno dei presupposti della concezione democratico-liberale del progresso, non può che promuovere – secondo Maurras – l’ozio e la rivolta delle classi subalterne.

L’autore provenzale, nondimeno, e veniamo così a fare doverose precisazioni intorno al secondo aspetto a cui si è dianzi accennato, non crede nell’immutabilità di tutte le forme concrete di disuguaglianza. A suo avviso, il rischio è che, se troppo perpetuate, le eccessive disuguaglianze rendano sterili i beni: la storia insegna, infatti, che pigrizia e dissipazione sono figlie dell’abbondanza. La povertà, al contrario, è un pungolo energico e salutare che stimola l’uomo ad ingegnarsi e, in questo modo, ad allontanarsi dalle forme più gravi di indigenza. Da tutto ciò, nella prospettiva maurrassiana, derivano compensazioni e oscillazioni naturali, il cui effetto di bilanciamento e di mitigazione è indubbio, sino al risultato finale di far regnare una misura di equilibrio. Di conseguenza, a parere del teorico transalpino, occorre stigmatizzare l’irresistibile vocazione della democrazia all’eliminazione delle disuguaglianze senza procedere ad una distinzione realistica tra queste. Infatti, come sintetizza Fisichella, Maurras è convinto che alcune delle disuguaglianze incardinate nella realtà possano e debbano essere eliminate:
la pratica politicamente e culturalmente più ragionevole è per un verso quella di temperare le disuguaglianze, per un altro verso di distribuirle o di impedire che si cumulino, in modo da non gravarne e penalizzare un singolo soggetto (individuale o collettivo: ceto, confessione, classe, etnia, categoria) rispetto agli altri, per un ulteriore verso di equilibrarle tra loro. In tal modo le disuguaglianze “negative” risultano attenuate e depotenziate, quelle “positive” producono benefici effetti, e la società grazie a tale complessa calibratura realizza in misura apprezzabile l’uguaglianza possibile nel rispetto delle distinzioni[28].
Accanto a ciò, lo studioso italiano fa notare la prossimità tra le concezioni di Maurras e quelle di Vilfredo Pareto (1848-1923). Per entrambi, la società europea non è caratterizzata da caste chiuse, ma
in essa opera la “circolazione delle élites”, che più o meno rapidamente immette nei ranghi superiori del sistema sociale forze (persone, gruppi) provenienti dai livelli subalterni, senza peraltro che possa essere modificato l’assetto fondamentale della società, contraddistinto sempre dalla presenza di una classe dirigente, composta da quanti, nelle svariate categorie, sanno ascendere ai gradini più elevati del sistema sociale[29].
Anche se nella storia le aristocrazie s’indeboliscono e soccombono, vi è sempre nella società una «classe eletta», cioè la classe superiore: in questo senso, «l’aristocrazia» è un dato ineludibile della realtà storica. Il pensatore provenzale non si nasconde che, ai suoi tempi, porzioni consistenti dell’antica nobiltà e della vecchia borghesia si sono ormai gravemente «imbastardite», onde è molto probabile – a suo avviso – che importanti posti di potere arrivino ad essere occupati da uomini provenienti da classi più vitali ed energiche, come quell’emergente «aristocrazia del lavoro» costituita da operai meccanici, elettricisti, capimastri ecc.
 
8. Repubblica e parlamentarismo

Uno dei bersagli polemici preferiti di Maurras è il parlamentarismo. Fisichella sintetizza come segue le tesi espresse in merito dall’autore provenzale:
il parlamentarismo è il regno dell’“instabilità obbligatoria”, è il cedimento alle influenze delle forze economico-finanziarie nei processi legislativo e governamentale, è l’indebolimento costante della funzione esecutiva costretta a snervanti giochi di compromesso e a polemiche infruttuose, è l’affanno decisionale elevato a regola di vita, è l’incapacità di operare scelte politiche in maniera insieme tempestiva e consapevole, è la sottomissione a ogni particolarismo e a ogni tatticismo[30].
Il sistema parlamentare, inoltre, ha il gravissimo limite di essere fondato sui partiti, cioè su vere e proprie fazioni che sono costitutivamente incapaci di trascendere gli interessi parziali di cui si fanno portatrici: in questo modo, risulta loro impossibile concorrere alla delineazione e alla composizione del bene generale. La vita parlamentare delle grandi nazioni europee, in primis di quella francese, dimostra che gli autentici uomini di Stato sono pressoché assenti, mentre spadroneggiano dappertutto schiere esagitate e vocianti di uomini di partito. La situazione non è grave soltanto se questi ultimi sono disonesti, e pensano – dunque – esclusivamente ad arricchirsi e ad estendere la loro rete di potere: i parlamentari galantuomini, infatti, sognano di conseguire unicamente gli obiettivi programmatici del proprio partito, ignorando l’interesse nazionale. Comunque si guardi la realtà francese dei decenni precedenti e a lui coeva, Maurras ritiene che non si possa che concludere che il governo della repubblica equivale al governo dei partiti.

Secondo l’autore di Provenza, i partiti costituiscono una sorta di Stato nello Stato e mirano a spartirsi i beni e le ricchezze comuni, a fare a brani ogni ideale e principio avito in nome di interessi settarî, e a controllare minutamente la vita degli individui (di qui, lo strapotere della burocrazia). Nel funzionamento normale del regime, nessun risultato politico si ottiene se non attraverso tale operazione di divisione e tale lotta intestina. E il gioco dei partiti permette di farsi ascoltare solo a chi è in qualche modo loro asservito. Leviatano dei nostri tempi, il partito sacrifica così le intelligenze di coloro che non vi sono intruppati, preferendo i mediocri accondiscendenti e favorendo la proliferazione di un incontrollabile parassitismo di Stato, il cui unico scopo consiste nel premiare le “clientele” dei deputati.

Contrario al Parlamento e ai partiti, Maurras è – però – tutt’altro che ostile alla rappresentanza. A suo avviso, l’idea di rappresentanza ha molto a che vedere con il pluralismo sociale, con il rapporto tra sovrano e domande, con le aspettative e le esigenze della società civile nell’articolata molteplicità dei suoi gruppi e categorie. Per questo motivo, egli si fa promotore di regimi che siano antiparlamentari, ma rappresentativi; in particolare, come si dirà meglio più avanti, la sua intenzione è quella di delineare uno Stato monarchico ove sia presente «un re che regna e che governa», ove – cioè – venga assicurata l’indipendenza del potere centrale. Quest’ultimo ha bisogno di quell’unità di vedute e di forze che, sola, consente la stabilità e la durata: perciò, esso va affrancato dalla dominazione irresponsabile, indiscreta e tumultuosa delle assemblee tendenzialmente anarchiche, talvolta addirittura orientate contro il sentimento o l’interesse della nazione.
 

9. Il rimedio monarchico: tratti peculiari

Condannata senz’appello la democrazia, Maurras ripone nella monarchia, specialmente nella sua versione ereditaria, molte delle sue speranze di salvare la fisionomia tradizionale dell’Occidente. Quali sono i caratteri che, a suo avviso, rendono il regime monarchico superiore a quello democratico?

In primo luogo, il teorico provenzale riscontra nella democrazia – come abbiamo osservato – il trionfo del disordine e dell’emotività, del volontarismo libertario e incontrollato, mentre vede nella monarchia gli encomiabili caratteri dell’efficienza (perché sa valorizzare tutte le risorse della nazione) e dell’autonomia (in quanto essa impersona una vera autorità). In secondo luogo, nel regime monarchico, pur in presenza dell’ineliminabile scontro tra istanze particolari a livello della società civile,
l’interesse generale trova un suo spazio garantito e protetto in una istituzione che, non dipendendo dal voto, evita l’intersecazione tra le linee di competizione o addirittura conflitto tra le parti attive nella realtà socio-politica e la linea di competizione o persino conflitto che inevitabilmente si manifesta periodicamente per la designazione elettiva del Capo dello Stato[31].
In terzo luogo, rileva Maurras, la monarchia è non solo più «attenta alla dinamica di processi sociali e politici», ma anche «in grado di [...] attivare procedure di correzione e anche autocorrezione [...] per mantenere o ricondurre, mediante meccanismi di feedback, contrasti e deviazioni e conflitti entro limiti della tollerabilità sistemica»[32]. In quarto luogo, il regime monarchico «consente che le condizioni di travaglio siano affrontate a costi minori per la comunità, non foss’altro perché esclude a priori una linea di conflitto e quindi mantiene un’arena super partes o comunque extra partes, vale a dire quella relativa alla designazione al vertice dello Stato e alla sua successione»[33].

In quinto e ultimo luogo, qualora si profilino quei passaggi assolutamente cruciali della vita pubblica che Carl Schmitt definisce «stati di eccezione», la presenza della monarchia permette di affrontare simili casi estremi in modo «meno traumatico, meno rischioso, meno giuridicamente lacerante, meno imprevedibile nei suoi esiti»; a giudizio del pensatore francese, ciò è reso possibile dal fatto che «pure in un momento di tale e tanta drammaticità e sbandamento le strutture della statualità, militari e civili, hanno comunque nella sovranità regia un punto di riferimento percettibile e un simbolo di continuità istituzionale immediatamente riconoscibile»[34].
 

10. La «monarchia tradizionale»

Il modello monarchico appena delineato ha un nome per Maurras, che punta l’occhio – ancora una volta – soprattutto sul contesto e sulla storia francesi: «monarchia tradizionale». Quando egli utilizza questa formula, è sua intenzione mettere in rilievo la necessità, come dichiara Fisichella, di «collegare (ricollegare) l’istituzione regia alla tradizione nazionale, cioè alle realtà autentiche della storia, alla natura delle cose, alla costituzione intrinseca della patria, non alle fantasie della ragione astratta, individuale e individualista»[35]. E, secondo l’autore di Provenza, esclusivamente attraverso questo recupero consapevole è possibile porre rimedio a tutte quelle abitudini e a quegli errori che hanno cominciato a radicarsi durante la stagione repubblicana. C’è da tenere presente, poi, che nella storia di ogni Paese sono necessari di tanto in tanto modifiche e cambiamenti; e queste riforme, per essere coerenti e durevoli, devono prevedere un punto fisso al quale appoggiarsi, altrimenti la nazione cade nel disordine. Di fronte agli abusi del recente passato e del suo tempo, quindi, Maurras ritiene occorra ripristinare con tempestività la forma monarchica tradizionale, l’unico ordinamento che nella storia gli pare essere sempre stato in grado di garantire la pace pubblica e di correggere gli errori, di incoraggiare le riforme idonee a produrre fatti nuovi e di mettere un freno robusto al disordine e alle sue cause, senza però indulgere all’inerzia, all’immobilismo, all’apatia; e, anzi, il teorico francese è convinto che alla monarchia siano indispensabili le riforme, se essa vuole conservarsi[36]. Alla luce di ciò, Fisichella segnala la prossimità tra la chiave di lettura di Maurras e quella avanzata da Edmund Burke (1729-1797), giacché per entrambi «[s]pirito conservatore e spirito riformatore non sono alternativi ma cooperativi, nella stabilità, nell’equilibrio e nella continuità garantiti dalla monarchia»[37].

Un altro elemento che rende superiore l’istituzione regia rispetto alle democrazie repubblicane, a parere del teorico di Provenza, consiste nella capacità della prima di combinare le due idee di comando e di eredità. Come osserva Fisichella, ciò permette alla «monarchia nazionale»,
rimanendo se stessa e in una logica di equilibrio, di calibrare la sua guida nazionale talvolta più in chiave di autorità talaltra più in chiave di libertà, a seconda delle circostanze e delle necessità, dei rischi e delle opportunità, dei costi e dei benefic[î], dei profitti e delle perdite, sapendo che in ogni caso, appena concluso lo stato di pericolo, la monarchia a differenza della dittatura, tende a riaprire gli spazî della libertà[38].
Nell’interpretazione del pensatore francese, questo avvicendamento di autorità e libertà, esattamente proporzionate ai tempi, costituisce la storia di Francia.

Fisichella si sofferma a lungo sulle concezioni maurrassiane riguardanti la pace interna alle nazioni e la pace internazionale. La storia dimostra, per l’autore transalpino, che la monarchia è quasi sempre un’istituzione ragionevole, prudente e umana, costitutivamente avversa alle imprese militari. Secondo lo studioso italiano, Maurras ha ben presente che, «[t]ra l’altro, una guerra perduta comporta il rischio della caduta della monarchia, che perciò ha un suo interesse diretto ad evitare finché possibile la sconfitta bellica e, prima ancora, la guerra stessa»[39]. Infatti, osserva Fisichella,
quando si sono combattute, le monarchie europee per secoli non hanno spinto la virulenza delle loro reciproche contese belliche fino a un livello di distruzione del nemico capace di annientarne la legittimità politica, perché tale distruzione avrebbe contemporaneamente comportato l’annientamento della propria legittimità politica e del proprio fondamento di legittimazione politica, comune ai regni dell’epoca. Tutto ciò, anche a prescindere dai fitti rapporti di parentela tra le dinastie del Vecchio Continente, altro fattore di temperamento dello scontro bellico[40].
Anche per quello che riguarda la pace e l’ordine interni alla nazione, la monarchia tradizionale riesce a garantire buoni risultati, certamente migliori di quelli assicurati dalle democrazie repubblicane. Maurras ritiene che l’istituzione regia ereditaria renda minimi i pericoli di contrasti interni, scandali politici e finanziari, sbandamenti morali, difficoltà economiche anche gravi. Questo accade, a suo giudizio, perché il vertice della comunità nazionale, quindi pure dello Stato, è esentato dalla periodica elezione (popolare o parlamentare), a motivo del carattere ereditario della sua designazione e della sua regolata successione. Ciò significa che lo Stato, come rileva Fisichella, «è [...] sottratto ai vuoti di potere, alle defatiganti e spesso lunghe mandate elettorali, nonché al gioco turbolento dei protagonisti delle lotte intestine, delle crisi economiche, delle contese finanziarie, degli scontri culturali e religiosi», dal momento che il monarca sta in posizione distaccata, superiore, e riesce così a salvaguardare «l’istituzione suprema della nazione dalle suggestioni di fazione, quali che siano gli interessi e le motivazioni comportamentali delle fazioni, dei gruppi particolari, e in tal modo assicurando la continuità istituzionale dello Stato al servizio dell’interesse generale»[41].  
 

11. Monarchia ereditaria e rappresentativa, ma non parlamentare

In quanto autorità indipendente, la monarchia è – nell’orizzonte maurrassiano – un’istituzione in grado di utilizzare ogni forza nazionale secondo il suo valore, praticamente senza dispersioni, allo scopo di ottenere il massimo del rendimento. Funzione sinergica, capace di coalizzare grazie alla sua autorità tutti i poteri sociali e politici in vista del bene comune, la monarchia alimenta in se stessa l’attenzione all’interesse generale in ragione dell’ereditarietà. Il pensatore francese, tuttavia, non intende seguire coloro che ai suoi tempi ritengono che questa legge politica implichi un principio di selezione per eredità carnale. A giudizio di Maurras, sarebbe sbagliato avere una fede mistico-scientifica in una “costante” personale di capacità governamentale legata al sangue, tanto che egli si limita ad affermare che il sovrano ereditario è nella migliore delle posizioni per ben governare. Secondo il teorico di Provenza, rileva Fisichella, «[p]oiché la monarchia ereditaria si esprime in e attraverso una famiglia, una dinastia, essa è in coerenza profonda con la società, che è primariamente – pur se non esclusivamente – comunità di famiglie»[42]. Ciò non implica di necessità che si tratti di ereditarietà fisiologica. L’autore transalpino è persuaso che l’elemento cruciale da tenere in considerazione sia, piuttosto,
l’eredità del mestiere, l’eredità professionale e funzionale quella che arricchisce il patrimonio di saggezza, di esperienza e di moderazione del reggitore dei popoli. E questa attitudine funzionale e professionale (il mestiere di re) si alimenta ampiamente attraverso l’educazione. Ecco l’aspetto più autentico, essenzialmente intellettuale e morale, del criterio ereditario; l’educazione al comando come responsabilità del comando, come consapevolezza di doveri, come coscienza dei limiti da non superare, come equilibrio tra prudenza e fermezza, come riferimento costante alle leggi fondanti dello Stato e della nazione[43].
Per questo motivo, sottolinea Maurras, se l’educazione è indirizzata fin dalla nascita – come accade per il principe ereditario, di generazione in generazione – sui binari dell’imparzialità e del benessere comune (il suo mestiere), allora si creano le condizioni comparativamente più favorevoli per una composta e fruttuosa azione politica. Egli dichiara, pertanto, che l’alto valore personale del monarca è un’eventualità che, quando si presenta, conferisce alla nazione innumerevoli vantaggi. Nel caso in cui s’insediasse un re poco atto al comando, tuttavia, ciò non produrrebbe danni di grande entità, poiché la storia ha plasmato così felicemente il sistema istituzionale e politico della monarchia tradizionale che gli abusi vengono smorzati con efficacia ed ogni membro della nazione – compreso il vertice dello Stato – è incoraggiato ad agire per il bene comune.

Che cosa accade, invece, nei regimi repubblicani? Maurras attira l’attenzione sul fondamento psicologico della democrazia, che consiste nell’affidare il potere al migliore, e mostra come sia in realtà difficile scoprire chi è effettivamente la persona più adatta ad un determinato incarico o compito. Il teorico provenzale sostiene che, per selezionare di volta in volta il migliore, bisognerebbe allestire dappertutto commissioni d’esame e scrutini destinati a valutare permanentemente le attitudini di ciascun singolo cittadino, affinché nelle profondità della popolazione non rimanga nascosto colui che è davvero il più conforme ad ogni ruolo: ma, così facendo, il Paese perderebbe la propria serenità. Come pone in evidenza Maurras, infatti, il sistema elettivo è
l’immenso antagonismo, furioso o latente, ma incessante, tra milioni dei nostri “io” o dei delegati dei nostri “io”. Tutto deve dunque trasformarsi in beghe, discussioni, esami, votazioni, contestazioni, battaglie che non cesseranno più di squassare lo Stato allo stesso modo che di disfare l’unità nazionale[44].
Il sistema elettivo provocherebbe nello Stato, insomma, un moto perpetuo al quale corrisponderebbero un’emotività e una trepidazione continui, ed esiziali verrebbero ad essere in breve tempo i danni arrecati all’unità e all’integrità della nazione.

Tale (presunta) inferiorità “naturale” dei regimi repubblicani offre all’autore francese il destro per continuare la perorazione della causa monarchica. Maurras è convinto che occorra ad ogni Paese un governo nominativo, personale, responsabile, guidato dal re, il quale per storia, educazione e status è specializzato nell’arte politica, troppo difficile e complessa perché tutti possano interferirvi indiscriminatamente. I suoi ministri e i suoi Consigli sovrintendono e sorvegliano le amministrazioni, e a loro volta sono controllati dalle rappresentanze, federate e confederate, degli interessi locali e professionali. Solo in questo modo, nell’orizzonte teorico del pensatore transalpino, è possibile che tutta la nazione sia compartecipe della conservazione e del rafforzamento del bene generale. Sovrano nel suo ordine, lo Stato va dunque liberato dal giogo dei deputati: controllare lo Stato, infatti, non significa asservirlo. Mentre nella democrazia non è prevista una netta distinzione tra le funzioni di rappresentanza e di governo, la monarchia tradizionale respinge a priori l’idea contraddittoria secondo cui il medesimo essere considera se stesso, contro ogni ragione, governante e governato, sovrano e suddito. Nella prospettiva maurrassiana, come si è detto più sopra, l’istituzione regia di carattere nazionale s’accompagna necessariamente all’elezione di una o più Camere da effettuarsi su base “corporativa”, professionale, non già politica. Rileva Fisichella, a questo proposito: «Un voto, dunque, connesso al mestiere, in una società dove, dal più semplice al più complesso, l’articolazione dei mestieri è il grande reticolo produttivo che tiene in piedi e fa crescere la nazione»[45]. E, sempre a parere dello studioso, «nel motivo antiparlamentare si avvertono le influenze del nazionalismo, [...] il richiamo ai “nostri padri”, con i loro Consigli e i loro Stati, rinvia a rimembranze d’antico regime»[46].

Come indica Fisichella, la visione di Maurras si situa anche qui all’interno del tipico quadro concettuale del pensiero tradizionalista, secondo cui «[l]a Libertà in generale al singolare e in maiuscola, è astratta (nel senso di astrattezza, e più specificamente di astrattezza rivoluzionaria)»[47]. Al contrario, «[l]e libertà al plurale, particolari e in minuscola, sono le libertà concrete, reali, storiche, maturate nel tempo e da esso certificate, non esito e prodotto di un momento breve e violento di rottura della continuità storica»[48]. Infatti, abbiamo già osservato che, a giudizio dell’autore francese, la società risulta articolata nella famiglia, nel comune e nei più disparati corpi e associazioni; in ognuno di questi ambiti, l’uomo vive in senso pieno ed è realmente libero. Il vero Stato, ossia quello che riconosce l’autonomia della società, ha ben poco a che fare con gli individui privati, in quanto esercita le proprie attribuzioni unicamente sui corps compresi entro il perimetro statuale e soprattutto sulle loro reciproche interazioni, limitandosi a salvaguardare le supreme esigenze dell’ordine, della sicurezza e della difesa. Ciò significa che la libertà umana, nella prospettiva teorica maurrassiana, esiste soltanto all’interno e nell’ambito dell’articolazione pluralizzata della società. Proprio per questa centralità dei vari collegi e associazioni nella vita degli individui e dell’intera nazione, lo scrittore transalpino reputa necessario prevedere forme di rappresentanza di tipo corporativo per un miglior perseguimento del bene generale da parte della monarchia tradizionale.

Maurras osserva che il mito dell’ugualitarismo sta distruggendo il patrimonio comune della Francia ed eliminando i corpi intermedi tra individuo e Stato (famiglia, corporazioni, ordini ecc.). Queste perversioni “moderne”, se non contrastate immediatamente e in maniera decisa, renderanno l’individuo sempre più solo e in balìa dello Stato. Il Leviatano, lo Stato-mostro di Hobbes, appare dunque al teorico di Provenza l’inevitabile conseguenza del presupposto ugualitaristico. Commentando tali posizioni maurrassiane, scrive la Petyx:
La bella favola delle libertà individuali che si limiterebbero reciprocamente è [...] miseramente fallita, rivelando esatta l’ipotesi hobbesiana dello stato di natura. Andando dietro a questa favola, la Francia si è mutata in un campo di battaglia tra deboli e forti. Il pregiudizio giuridico della libertà e dell’[u]guaglianza ha accresciuto poi lo squilibrio che la grande industria porta con sé. Disfatta la collaborazione gerarchica tra gli ordini, si sono costituite le classi in guerra dichiarata tra loro: il capitale si è trasformato in capitalismo. E con buona pace della tradizione liberale, che decantava la superiorità dei moderni sugli antichi con lo [S]tato-borsa, sono mancate le sole forze capaci di togliere al capitale il suo “ismo” dispotico impedendogli di spadroneggiare, ovvero governo ereditario, corporazioni, religione[49].
Il vero interesse nazionale, l’autentica forza della comunità e una duratura pace interna, quindi, possono essere garantiti – nell’orizzonte teorico dell’autore transalpino – soltanto dalla compresenza istituzionale di un re e di una più o meno vasta rappresentanza degli ordini e dei corpi intermedi della società. Maurras non ha dubbi in proposito: è possibile scongiurare il pericolo dell’avvento del Leviatano, rischio costante dopo la rivoluzione del 1789, unicamente restaurando la monarchia tradizionale – rappresentativa, ma non parlamentare.
 

12. Monarchia decentrata

C’è un altro importante aspetto da porre in rilievo del modello monarchico delineato dal pensatore provenzale: il decentramento[50]. Quest’ultima proprietà costituisce la condizione necessaria delle libertà civili, senza le quali – come abbiamo appena visto – non vi è vita e nemmeno, a maggior ragione, vita prospera per una grande comunità. Nella lettura maurrassiana, la storia recente del suo Paese mostra come la Rivoluzione, il Consolato, l’Impero e la Repubblica costituiscano altrettanti passaggi nel travolgente processo di centralizzazione dello Stato e della nazione francesi. In merito a tali concezioni, osserva Fisichella:
Centralizzare significa, secondo Maurras, incaricare il potere centrale di tutte le responsabilità: per fare fronte a queste, il potere deve assorbire tutte le libertà e reclamare per sé tutte le autorità. Va posta fine a questo stato di cose: è necessario tornare a distinguere tra le funzioni dello Stato – che deve occuparsi delle alte questioni politiche – e le funzioni che privati e governi locali possono più fruttuosamente esercitare. Tuttavia la repubblica democratica, elettiva, non è in grado di decentrare. Una catena di interessi, influenze, opportunità connette centralismo e repubblica elettiva[51].
Il teorico transalpino riconosce sia che esistono repubbliche decentrate, come la Svizzera e gli Stati Uniti, sia che tra i repubblicani vi sono fautori sinceri del decentramento; tuttavia, egli è persuaso che, dalla condizione di centralismo, una repubblica, che sia parlamentare oppure plebiscitaria, non riesca a passare a un ordinamento statuale decentrato. Quest’impossibilità deriva, a suo giudizio, dall’essere elettivi, in tutte le forme repubblicane, i grandi poteri dello Stato:
Il governo, quale che sia, ha dunque interesse, per farsi rieleggere, a conservare nelle sue mani, più che può, le amministrazioni dei servizi pubblici, cioè ha un interesse a centralizzare. [In realtà], il momento finale d’una repubblica democratica è il socialismo di Stato democratico: il capolavoro del centralismo e del funzionariato. D’altra parte, qualora una repubblica democratica fosse in grado di decentrare, ciò risulterebbe esiziale per la coesione nazionale[52].
Come sintetizza Fisichella, Maurras ritiene che la monarchia possa (quindi, debba) decentrare per due ragioni fondamentali:
Perché è un’autorità forte, e ciò costituisce garanzia, assolutamente indispensabile, di conservazione e salvaguardia dell’unità nazionale. Perché non è elettiva, e dunque non ha bisogno di incapsulare tutta la società nello statalismo e nel burocratismo allo scopo di disporre delle immense risorse di controllo sociale necessarie ad accaparrarsi i favori del voto popolare[53].
E decentramento, per l’intellettuale di Provenza, significa
sia restituzione di funzioni all’iniziativa privata, sia ricomposizione su nuove basi territoriali e funzionali delle istituzioni locali (comuni in prima fila), sia restituzione di autonome competenze alle organizzazioni professionali, sia infine “decentramento morale”, che consiste non soltanto nella riduzione del numero e dell’importanza dei funzionari, ma nell’educare e abituare i cittadini a non rivolgersi continuamente allo Stato e nel sostituire, entro i limiti del possibile, l’organizzazione spontanea all’organizzazione meccanica[54].
Maurras è in linea, dunque, con l’antica massima del diritto francese secondo cui «Sub rege, respublica»: il re incarna la più alta autorità politica, l’arbitro e il protettore delle «repubbliche» che si giustappongono, si congiungono e si intersecano nella complessità del reame di Francia. Nella sua proposta, la società può evitare la frammentazione e la disarticolazione – divenendo ordinata, ricca, forte e coesa – solo se a capo di tutte le forze armate e di tutti i grandi servizi nazionali vi è il re, e se – al medesimo tempo – nessuna delle piccole «repubbliche» locali o professionali costituisce un circolo chiuso. A proposito di questo secondo aspetto, il teorico provenzale afferma che è bene che ciascuna di tali «repubbliche» venga compenetrata con le organizzazioni vicine, in modo che ogni cittadino abbia l’effettiva possibilità di appartenere a gruppi assai diversi tra di loro (ha luogo, così, quel fenomeno che la scienza politica contemporanea definisce come «appartenenze multiple»).
 

13. Una monarchia autoritaria?

Alla luce di quanto abbiamo fin qui esposto, si può notare come nel disegno teorico di Maurras, nella sua dottrina politica, non vi sia spazio per la rappresentanza politica con la connessa funzione di controllo politico. Se l’ordinamento descritto dal pensatore francese esclude la presenza dei partiti, e con essi – dunque – il pluralismo politico, è invece previsto il pluralismo sociale, con una sua ampia articolazione e con un sistema di rappresentanza di tipo corporativo, tecnico, professionale e territoriale. Al vertice del quadro istituzionale della nazione – come detto – è collocata la sovranità regia, che l’autore di Provenza identifica con lo Stato. Quest’ultimo, però, deve intendersi come ente limitato nelle sue funzioni, competenze, attribuzioni: se, nella lettura maurrassiana, le piaghe politiche dell’Ottocento sono state l’anarchia di Stato e una burocrazia padrona di tutto, favorire il ritorno alla monarchia tradizionale significa provocare il crollo della democrazia scaturita dalla rivoluzione del 1789, impedendo – allo stesso tempo – che si apra la strada a qualsivoglia dittatura personale o collegiale. Nel complesso, il modello politico delineato dall’intellettuale transalpino (per la sua Francia, in particolare) può essere iscritto nella categoria dei regimi autoritari senza partiti. A tali elementi va aggiunto che manca sia la dittatura personale sia la dittatura collegiale. Infine, il re regna, ma non solo: governa, più o meno direttamente, secondo le circostanze. Allorché ci si trova in una situazione di emergenza, spetta a lui agire senza intermediarî nella plenitudo della sua potestas; non appena la crisi ritorna sotto controllo, la monarchia riapre gli spazî della libertà. Maurras è convinto che questo meccanismo di autocorrezione sia del tutto assente nei regimi dittatoriali. Del resto, a suo avviso, la storia insegna: quando in una situazione di pericolo il re è posto nelle condizioni di svolgere la funzione sovrana nella pienezza della sua potestà, il popolo non avverte il bisogno della dittatura ed essa non può ascendere al governo nazionale; viceversa, se il monarca è ostacolato dai partiti (ossia dalle fazioni che – come precisato poco sopra – trascurano il perseguimento del bene generale), dai loro veti, dalle loro divisioni e lotte, un’eventuale fase di emergenza rischia di condurre al successo della dittatura, personale o collegiale.

«In breve, per il regime politico auspicato da Maurras – afferma Fisichella – si può parlare di autoritarismo attenuato, di regime autoritario, ma non dittatoriale, retto a monarchia temperata»[55]. Alla luce di ciò, grande e sostanziale risulta la differenza tra la monarchia nazionale descritta e propugnata dall’autore francese, da una parte, e i totalitarismi storici, dall’altra: questi ultimi, infatti, «sono regimi a partito unico rivoluzionario, e tale partito prevale sullo Stato»; essi, inoltre, «si caratterizzano per l’assenza di un principio di risoluzione pacifica dei conflitti interni e per una radicale pulsione antipluralistica sia sul piano politico sia sul piano sociale»[56].

Di notevole importanza sono le considerazioni svolte da Fisichella intorno all’ipotesi che l’ordinamento delineato da Maurras possa essere ricondotto alla categoria del «governo misto e temperato». Con questa formula lo studioso intende alludere al governo «capace di coniugare quelle che già l’antico pensiero greco definiva le due matrici dalle quali tutti gli altri regimi derivano: monarchia e democrazia»[57]. Egli ritiene che, nel caso del teorico provenzale, si debba parlare semplicemente di «governo temperato», cioè
“limitato” dalle leggi fondamentali del regno, dall’interesse del monarca e della dinastia al perseguimento del bene pubblico, dall’ordinamento giuridico (certezza del diritto e ordinamento giuridico non sono esclusi dai caratteri autoritari di un regime politico, specie se si tratta di un autoritarismo attenuato, come nel caso in questione), dal quadro vasto e articolato del pluralismo sociale, con le rispettive rappresentanze tecnico-professionali e territoriali, dall’influenza del magistero culturale e morale del cattolicesimo, dal costume nazionale e dai suoi precetti tradizionali, dal ruolo stesso della famiglia[58].
Come mette in rilievo Fisichella, infatti, anche se il governo misto «[p]resenta [...] il vantaggio della inclusività», perché «[n]on cancella ma coopta e integra istituzioni e culture, cercandone il punto di equilibrio»[59], risulta estremamente difficile calibrarlo; e quest’assenza di equilibrio istituzionale non può non «dar luogo a inconvenienti anche seri, ad esempio sul fronte della capacità e tempestività decisionali»[60]. Inoltre, appunta lo studioso italiano, Maurras sembra avere ben chiaro il fatto che «è stata la Rivoluzione a distruggere per il suo vantaggio la possibilità – non solo pratica ma anche teorica – del governo misto, pur ventilata in una fase iniziale del processo rivoluzionario, sia esaurendo la sua fonte di legittimazione nel voto popolare sia abbattendo la monarchia e con essa il quadro delle istituzioni storiche»[61]. Infine, allo scrittore provenzale non sfugge che, al di là della costitutiva
incompatibilità di principio tra democrazia e monarchia, il livello della crisi democratica è ormai così alto, il palleggiamento di quel bene prezioso che è la sovranità tra popolo [e] parlamentari [...] è così devastante, da rendere oltremodo difficile che [il regime repubblicano moderno riesca a] fornire un contributo positivo all’emergenza e al successo di un governo misto e temperato: può solo sfociare nell’oligarchia, passando per l’anarchia e la demagogia[62].
Maurras teorizza, quindi, una monarchia «temperata» e – allo stesso tempo – «forte», il che «significa superamento e “abrogazione” dello statalismo come ideologia e prassi dell’interventismo statale per recuperare invece la cultura della statualità, significa lotta al burocratismo e all’elefantiasi legislativa»[63]. Egli è dell’avviso che esclusivamente l’istituzione regia tradizionale possa garantire una stabilità governativa autentica e un freno durevole alle pressioni dei poteri finanziari, nonché il recupero delle reali aspirazioni di libertà del cittadino, attraverso la conservazione dell’autonomia dei molteplici corpi, associazioni e collegi di cui si compone la società.
 

14. Conclusione

Non pochi aspetti delle tesi maurrassiane su cui si è voluto in questa sede attirare l’attenzione, dimostrano come l’autore di Provenza sia a tal punto proiettato verso il superamento del dato congiunturale, che appare innegabile che spesso i suoi sforzi analitici gli consentano effettivamente di travalicare la mera predisposizione di argomenti per la lotta di parte. Maurras vivente, questo aspetto risultava già chiaro, ma esso è divenuto ancora più palese – ci sembra – negli ultimi decenni, in un’epoca di incertezze nella quale la profonda crisi delle democrazie post-moderne sta mettendo a nudo le loro intime contraddizioni e la crescente incapacità di resistere a molti degli urti interni ed esterni a cui sono soggette.

 

Note

* Nota a DOMENICO FISICHELLA, La democrazia contro la realtà. Il pensiero politico di Charles Maurras, Roma, Carocci, 2006.

[1] Ad uno dei massimi esponenti del cosiddetto “tradizionalismo cattolico”, Joseph-Marie de Maistre, lo studioso italiano ha dedicato le seguenti monografie: DOMENICO FISICHELLA, Giusnaturalismo e teoria della sovranità in Joseph de Maistre, Messina-Firenze, D’Anna, 1963 (poi inserito nella sua raccolta Politica e mutamento sociale, Lungro di Cosenza, Marco, 2002, pp. 191-243); Id., Il pensiero politico di de Maistre, Roma-Bari, Laterza, 1993 (con antologia di testi); Id., Joseph de Maistre pensatore europeo, Roma-Bari, Laterza, 2005. Intorno a quest’ultimo libro e – in generale – a proposito di Fisichella interprete di Maistre, ci permettiamo di rinviare alla nota (priva d’intitolazione), a cura di chi scrive, apparsa in «Recensioni filosofiche», n.s., a. VIII (2005-2006), n. 6 [aprile 2006] (< http://www.recensionifilosofiche.it/crono/2006-04/fisichella.htm >); tale intervento, accresciuto e migliorato, è poi uscito (sempre senza titolo) nella versione digitale della rivista «Araucaria» [20.3.2008], all’indirizzo < http://www.institucional.us.es/araucaria/otras_res/resegna_4.htm >.

Sul caposcuola dei sociologi e dei positivisti sociali, Isidore-Auguste-Marie-Xavier Comte (e pure sul suo maestro, Claude-Henri de Rouvroy de Saint-Simon [1760-1825]), Fisichella ha mandato alle stampe Il potere nella società industriale. Saint-Simon e Comte, Napoli, Morano, 1965 (poi: Roma-Bari, Laterza, 1995).

Naturalmente, Maurras si rivela tributario anche delle riflessioni di Louis-Gabriel-Ambroise de Bonald, sul quale ci si limita a rimandare qui di seguito soltanto ad alcuni degli studi più significativi pubblicati negli ultimi due decenni: LUIS FERNANDO MÚGICA, Tradición y revolución: filosofía y sociedad en el pensamiento de Louis de Bonald, Pamplona, EUNSA, 1988; PAOLO PASTORI, Rivoluzione e potere in Louis de Bonald, Firenze, Olschki, 1990; SANDRO CHIGNOLA, Società e costituzione. Teologia e politica nel sistema di Bonald, Milano, Angeli, 1993; DAVID KLINCK, The French Counterrevolutionary Theorist Louis de Bonald (1754-1840), New York - Washington - Paris, Lang, 1996; JESÚS MARÍA OSÉS GORRAIZ, Bonald o lo absurdo de toda revolución, Pamplona, Universidad Pública de Navarra, 1997; MICHEL TODA, Louis de Bonald. Théoricien de la contre-révolution, Paris, Clovis, 1997; JACQUES ALIBERT, Les triangles d’or d’une société catholique. Louis de Bonald théoricien de la Contre-Révolution, Paris, Téqui, 2002; TERESA SERRA, La critica della democrazia in Joseph de Maistre e Louis de Bonald, Roma, Aracne, 2005; GIORGIO BARBERIS, Louis de Bonald. Potere e ordine tra sovversione e Provvidenza, Brescia, Morcelliana, 2007.

[2] Per una sintesi di queste informazioni bio-bibliografiche sullo studioso italiano, cfr. DOMENICO FISICHELLA, “Premessa” a Id., Joseph de Maistre pensatore europeo, cit., pp. IX-X.

[3] Questo, peraltro, costituisce da tempo uno degli oggetti di indagine più frequentati da Fisichella. Su tale vastissima tematica, che è strettamente intrecciata a quelle della nascita della tecnocrazia contemporanea, della crisi della politica e del primato della “competenza” sull’“elezione”, lo studioso italiano ha recentemente dato alle stampe un libro: DOMENICO FISICHELLA, Crisi della politica e governo dei produttori, Roma, Carocci, 2007. Nell’impossibilità di segnalare la gran messe di contributi su questi argomenti, ci limitiamo a citare solo due testi da poco pubblicati che, pur nella loro sostanziale diversità, offrono analisi e spunti di riflessione di prim’ordine: DIMITRI D’ANDREA, L’incubo degli ultimi uomini. Etica e politica in Max Weber, Roma, Carocci, 2005 (sul volume, ci sia consentito rimandare alla nostra nota, dal titolo “La traiettoria della modernità in Max Weber e gli spazi della politica dopo le rivoluzioni”, apparsa in «Bibliomanie», a. III [2007], n. 10 [< http://www.bibliomanie.it/traiettoria_modernita_max_weber_venturelli.htm >]); GIOVANNI GRANDI, “Dopo i ‘tecnici’ arriveranno ancora i ‘politici’?”, «SIFP» [26.1.2006], < http://www.sifp.it/cantiere.php?idMess=450 >.

[4] DOMENICO FISICHELLA, La democrazia contro la realtà. Il pensiero politico di Charles Maurras, Roma, Carocci, 2006, p. 160 (d’ora in poi: Democrazia).

[5] Democrazia, p. 160. Nella visione maurrassiana, si può definire métèque anche – e più propriamente – lo straniero che proviene dalle colonie francesi: come tale, egli è membro di uno dei «quattro Stati confederati», ossia di uno dei quattro gruppi di individui che, servendo interessi esterni alla società transalpina, la corrodono via via. Secondo l’autore provenzale, gli altri elementi esogeni organizzati sono l’ebreo, il protestante e il massone. Per fronteggiare la loro attività dissolutrice, egli mette a punto quattro coordinate di quella «monarchia nazionale» che – come vedremo in seguito – rappresenta il cuore della sua proposta “reazionaria”: ereditarietà, decentramento, antiparlamentarismo e tradizione. Ci sembra che l’analisi di Fisichella intorno ai «quattro Stati confederati» sia da integrare con le accurate argomentazioni svolte in un articolo pubblicato di recente: cfr. DANIELE ROCCA, “La Teoria dei Quattro Stati nel pensiero di Charles Maurras”, «Teoria politica», a. XXIV (2008), fasc. 1, pp. 157-172.

[6] VINCENZA PETYX, Dimenticare la Rivoluzione. La cultura di destra nella Francia di fine Ottocento, Napoli, La Città del Sole, 1995, p. 176.

[7] VINCENZA PETYX, Dimenticare la Rivoluzione, cit., p. 176.

[8] DANIELE ROCCA, “La Teoria dei Quattro Stati nel pensiero di Charles Maurras”, cit., p. 164.

[9] Democrazia, pp. 61-62.

[10] Democrazia, p. 62. È da segnalare che, almeno fino alla prima metà degli anni Trenta del secolo scorso, molte di queste posizioni favorevoli al cattolicesimo romano del Sillabo (1864) e ostili al mondo moderno, al cosmopolitismo e all’ebraismo sono sostanzialmente condivise da Jacques Maritain (1882-1973), che tra il 1920 e il 1927 è la firma più prestigiosa dell’organo ufficiale de facto dell’Action Française di Maurras, «La Revue Universelle» (periodico diretto da Jacques Bainville e il cui caporedattore è Henri Massis). Su tali questioni, cfr. – tra gli ultimi – RUGGERO TARADEL, “Jacques Maritain e il mistero d’Israele. I”, «Dialegesthai», a. VIII (2006), § 4: < http://mondodomani.org/dialegesthai/rta01.htm >.

[11] CHARLES MAURRAS, Œuvres Capitales. Essais Politiques, Paris, Flammarion, 1973, p. 89 (Trois idées politiques: Chateaubriand, Michelet, Sainte-Beuve, 1898).

[12] Democrazia, p. 49.

[13] Democrazia, p. 49.

[14] Democrazia, p. 140.

[15] Una delle prime tappe – se non già quella di esordio – della linea di pensiero secondo cui le sfere di competenza dello Stato e della società civile debbono conservarsi ben distinte, è rappresentata dal dibattito etico-politico fiorentino del primo Cinquecento, come dimostrano in maniera inequivocabile il capitolo XXI del Principe (1513) di Machiavelli (cfr. NICCOLÒ MACHIAVELLI, Il Principe, a cura di Giorgio Inglese, con un saggio di Federico Chabod, Torino, Einaudi, 1995, pp. 152-153) e i “ricordi” B 94 e C 93 di Guicciardini (cfr. FRANCESCO GUICCIARDINI, Ricordi. Con il saggio “L’uomo del Guicciardini” di Francesco De Sanctis, a cura di Sergio Marconi, Milano, Feltrinelli, 1983, rispettivamente p. 133 e p. 75; si noti che, in questo volume, la versione B – del 1528 – è posposta alla C – risalente al 1530). Ci si consenta di segnalare che, su tali aspetti, hanno appena focalizzato l’attenzione Paolo Prodi e il sottoscritto: cfr. PAOLO PRODI, Lessico per un’Italia civile, a cura di Piero Venturelli, Reggio Emilia, Diabasis, 2008, pp. 231-237 (trattasi della voce “Pubblico e privato”). 

[16] Democrazia, p. 44.

[17] CHARLES MAURRAS, Mes idées politiques (1937), Paris, Fayard, 1948, p. 51.

[18] Democrazia, p. 120.

[19] Democrazia, p. 41. Sulla raison universelle nell’orizzonte dottrinale del celebre autore savoiardo e sulla contrapposizione tra questo concetto e quello di raison individuelle, cfr. DOMENICO FISICHELLA, Joseph de Maistre pensatore europeo, cit., passim (specie pp. 70-82). Ci si permetta, poi, di rimandare al nostro articolo “Tradizione e Modernità in Joseph de Maistre”, «SIFP» [25.10.2006], all’indirizzo < http://www.sifp.it/articoli.php?idTem=3&idMess=521 >, passim (specie cap. II, §§ 2-3 e 5-6).

[20] Democrazia, p. 57.

[21] Democrazia, pp. 57-58. In questo e simili punti di vista, Maurras si mostra assai vicino alle concezioni di Maistre, il quale esalta il magistero della «ragione calma» (Œuvres complètes de Joseph de Maistre, 14 tt., Vitte et Perrussel, Lyon, 1884-1886, t. VI, p. 456 [Examen de la philosophie de Bacon, 2 tt., 1836 – postumo]). Più in generale, sull’opposizione tra raison universelle e raison individuelle in Maistre, cfr. supra, nota 19.

[22] CHARLES MAURRAS, Œuvres Capitales, cit., p. 33 (Romantisme et révolution, 1922)

[23] Risulta pressoché totale, ancora una volta, l’aderenza tra queste tesi di Maurras e le posizioni che Maistre esprime sui medesimi argomenti. Per approfondimenti sulle concezioni del filosofo savoiardo intorno alla raison, cfr. supra, note 19 e 21.  

[24] Democrazia, pp. 60-61. Il teorico provenzale definisce – alla lettera – «spirito di progresso e di ordine» lo spirito classico, e lo fa in un luogo di Trois idées politiques: Chateaubriand, Michelet, Sainte-Beuve: cfr. CHARLES MAURRAS, Œuvres Capitales, cit., p. 88.

[25] È quasi superfluo segnalare che Rousseau è uno dei bersagli polemici preferiti degli autori anti-illuministi di tutte le generazioni, compreso naturalmente Maistre, i cui punti di vista sul filosofo svizzero – peraltro – si discostano ben poco da quelli di Maurras (a parte il riferimento che quest’ultimo fa all’“impronta” giudea da lui rinvenuta nelle concezioni del Ginevrino, richiamo assente negli scritti del gentiluomo savoiardo). Sull’interpretazione maistriana delle opere di Rousseau, cfr. ERNEST SEILLIÈRE, “Joseph de Maistre et Rousseau”, «Séances et travaux de l’Academie des sciences morales et politiques. Compte rendu», vol. CXCIV (1920), pp. 321-363; RICHARD ALLEN LEBRUN, “Joseph de Maistre and Rousseau”, «Studies on Voltaire and the Eighteenth Century», vol. LXXXVIII (1972), pp. 881-898; VINCENZA PETYX, “Stato di natura e società civile nel pensiero della Restaurazione”, «Rivista di filosofia», vol. LXXVII (1986), fasc. 1, pp. 173-204; Id., I selvaggi in Europa. La Francia rivoluzionaria di Maistre e Bonald, Napoli, Bibliopolis, 1987, pp. 115 e segg., 174-177; MARCO RAVERA, Joseph de Maistre pensatore dell’origine, Milano, Mursia, 1986, pp. 69 e segg.; Id., Introduzione al tradizionalismo francese, Roma-Bari, Laterza, 1991, pp. 21 e segg.; GRAEME GARRARD, “Rousseau, Maistre, and the Counter-Enlightenment”, «History of Political Thought», a. XV (1994), fasc. 1, pp. 97-120; DOMENICO FISICHELLA, Joseph de Maistre pensatore europeo, cit., passim.

[26] Democrazia, p. 69.

[27] Democrazia, p. 70.

[28] Democrazia, p. 71.

[29] Democrazia, p. 71.

[30] Democrazia, p. 131.

[31] Democrazia, p. 111.

[32] Democrazia, p. 112.

[33] Democrazia, p. 112.

[34] Democrazia, p. 112.

[35] Democrazia, p. 126.

[36] Su questi temi scrive – fra l’altro – il pensatore transalpino: «La monarchia è la pace pubblica. Questa pace rende tutte le riforme possibili. Che dico? Le rende necessarie in nome del suo stesso mantenimento» (CHARLES MAURRAS, Enquête sur la monarchie 1900-1909, Paris, Nouvelle Librairie Nationale, 19115, pp. 23-24).

[37] Democrazia, p. 127. Per ampliare lo sguardo su questi aspetti, cfr. MAURO LENCI, “Montesquieu, Burke e l’illuminismo”, in Domenico Felice (a cura di), Montesquieu e i suoi interpreti, 2 tt., Pisa, ETS, 2005, t. I, pp. 433-459.

[38] Democrazia, p. 150.

[39] Democrazia, p. 109.

[40] Democrazia, p. 110.

[41] Democrazia, pp. 110-111.

[42] Democrazia, pp. 118-119.

[43] Democrazia, p. 119.

[44] CHARLES MAURRAS, Œuvres Capitales, cit., p. 471 (Vingt-cinq ans de monarchisme, 1909-1924).

[45] Democrazia, pp. 133-134.

[46] Democrazia, p. 134.

[47] Democrazia, p. 169.

[48] Democrazia, p. 169.

[49] VINCENZA PETYX, Dimenticare la Rivoluzione, cit., pp. 160-161.

[50] Focalizza l’attenzione su questo aspetto del pensiero maurrassiano anche DANIELE ROCCA, nell’articolo “La Teoria dei Quattro Stati nel pensiero di Charles Maurras”, cit., pp. 166-168. 

[51] Democrazia, pp. 134-135.

[52] CHARLES MAURRAS, Mes idées politiques, cit., pp. 178-179.

[53] Democrazia, p. 135.

[54] Democrazia, pp. 135-136.

[55] Democrazia, p. 152.

[56] Democrazia, p. 153.

[57] Democrazia, p. 164.

[58] Democrazia, p. 164.

[59] Democrazia, p. 164.

[60] Democrazia, p. 164.

[61] Democrazia, p. 164.

[62] Democrazia, p. 165. Per approfondire la storia e i caratteri costitutivi del governo misto, ci limitiamo a indicare i due libri seguenti: ALOIS RIKLIN, Machtteilung. Geschichte der Mischverfassung, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 2006; DOMENICO TARANTO, La miktè politéia tra antico e moderno. Dal “quartum genus” alla monarchia limitata, Milano, Angeli, 2006. Su questa seconda opera, ci si permetta di rimandare alla nostra nota (priva di titolo), apparsa nel n. XII (2007) della rivista telematica annuale «Cromohs»: cfr. < http://www.cromohs.unifi.it/12_2007/venturelli_taranto.html >.

[63] Democrazia, p. 131.