1. Domenico Fisichella interprete di Charles Maurras
Domenico Fisichella cominciò ad interessarsi precocemente
agli scritti e alle concezioni di Charles Maurras (1868-1952). Sotto
la guida di uno degli indiscussi maestri della filosofia del diritto
in Italia, Sergio Cotta, egli decise di laurearsi in Giurisprudenza
– con scelta coraggiosa – sul pensiero politico di questo autore
provenzale che, all’epoca, il mondo accademico – in Italia come
all’estero – tendeva a marginalizzare a causa sia delle sue idee
radicali ed intransigenti, “reazionarie”, sia del suo sostegno
attivo agli occupanti nazisti in Francia e alla Repubblica di Vichy
durante la Seconda guerra mondiale.
Dopo la discussione della tesi di laurea, avvenuta nel 1960 presso
l’Università “La Sapienza” di Roma, Fisichella intraprese un
lungo lavoro di approfondimento del contesto in cui le concezioni di
Maurras maturarono e del pensiero dei filosofi che costituirono i
suoi principali punti di riferimento teorici, a partire da Joseph de
Maistre (1753-1821) ed Auguste Comte (1798-1857)[1]. Pur non
arrivando mai a pubblicare la propria tesi, lo studioso
seguitò sempre a considerare Maurras uno dei suoi autori, e a
lui non mancò di consacrare – in tempi diversi – letture e
analisi[2].
Di recente, alla vigilia della conclusione della sua lunga carriera
accademica istituzionalmente intesa, Fisichella ha fatto uscire una
densa monografia dedicata a questo “scomodo” intellettuale
transalpino. Nel volume, egli risolve di soffermarsi prevalentemente
sulla teoria della politica elaborata da Maurras nel corso di mezzo
secolo, tra l’ultimo decennio dell’Ottocento e la fine della Seconda
guerra mondiale, giudicando – tutto sommato – assai meno
significativo, oltre che più contingente e caduco, il suo
contributo di militante nazionalista.
2. Maurras di fronte alla deriva economicistica
Come si diceva, Fisichella prende in esame quasi esclusivamente la
dimensione teorica degli scritti dell’autore francese. Su questo
terreno, il libro tocca molti degli argomenti cari a Maurras,
spaziando dalla funzione riconosciuta alla monarchia ereditaria
tradizionale, dall’ineguaglianza tra gli uomini vista come dato
“naturale” e dalla critica all’“astrattezza” dell’Illuminismo e
della rivoluzione del 1789, alla messa in guardia contro il
sentimentalismo in politica e il materialismo in filosofia, alla
condanna della “mentalità” giudea e al ruolo di primo piano
conferito allo Stato-nazione.
Limitandoci in questa sede a dar conto solo di alcuni aspetti del
pensiero politico maurrassiano affrontati nella ricca monografia di
Fisichella, riteniamo indispensabile, per cominciare, porre in
risalto le argomentazioni svolte dallo scrittore provenzale intorno
allo sviluppo, in epoca moderna, di un inedito paradigma teorico:
quello che vede assolutizzata la dimensione economica dell’esistenza
umana[3].
Secondo l’intellettuale transalpino, la cecità e
l’irresolutezza degli uomini moderni sta cagionando il radicarsi di
quest’inquietante Weltanschauung, che gli sembra ormai destinata a
spazzar via due millenni e mezzo di civiltà occidentale.
Mentre la tradizione ha consegnato ai popoli europei un mondo nel
quale, da una parte, era la politica a rappresentare la dimensione
della generalità e, dall’altra, veniva riconosciuta una
funzione fondamentale alla sfera della trascendenza, dal XVIII
secolo in poi è andata progressivamente crescendo senza
controllo, nella visione di Maurras, un’economia finanziaria il cui
potere investe non soltanto l’ambito “temporale”, ma anche quello
“simbolico”. A suo avviso, dunque, si sta diffondendo una vera e
propria plutocrazia, che tende al declassamento della sfera
spirituale e finanche alla marginalizzazione dell’economia
produttiva e della proprietà terriera, cioè di tutti
quegli elementi che – a vario titolo – si frappongono al successo
internazionale della Finanza pura. Come sintetizza Fisichella,
ciò crea «forti concentrazioni di risorse finanziarie
difficilmente controllabili anche in termini di allocazione
territoriale», e «interferisce pesantemente non soltanto
nella competizione politica ed elettorale, ma altresì
nell’intero sistema dei mezzi di comunicazione di massa, a loro
volta influenti sui processi elettorali e sulla vita politica
generale»[4].
Maurras individua altri preoccupanti esiti di quest’espansione
planetaria della Finanza: il moltiplicarsi degli attacchi contro
l’economia produttiva da parte dei mezzi d’informazione, i quali si
dimostrano sempre di più in balìa del dio Denaro;
l’allignare di atteggiamenti politici di stampo demagogico; la
diffusione del culto, ostentatamente laico e mondano, del
“progresso”; la nascita di una nuova specie di homo oeconomicus, che
l’autore provenzale definisce «meteco». Su quest’ultimo
punto, è opportuno notare come Maurras riprenda e aggiorni il
termine greco “métoikos”, trasformando l’antico uomo libero
che svolgeva attività prevalentemente commerciali e
professionali all’interno della pólis, e la cui condizione di
forestiero non gli permetteva di godere della cittadinanza politica
(ma lo obbligava a pagare talune tasse), in una sorta di
«apolide economico, un senza patria e senza cittadinanza che
si muove nei vasti mercati del globo non avendo altro interesse che
il proprio particolare interesse, il profitto come misura di tutte
le cose, e altro bersaglio principale che le culture e le strutture
tradizionali»[5].
Secondo il pensatore francese, insomma, è in atto il tragico
capovolgimento della tradizione occidentale: laddove un tempo
l’economia era definita e considerata come il regno dei mezzi,
oggigiorno essa sta diventando l’unico fine della storia. E ad
aggravare la situazione, egli sottolinea, è
l’«invisibilità» della ricchezza finanziaria, che
approfitta di tale suo subdolo carattere per concentrarsi
smisuratamente senza incontrare sul proprio cammino gravi disturbi o
limitazioni.
Insieme col disprezzo di ogni identità culturale e civile,
questo tentacolare reticolo di apolidi (con la sua coorte di
tecnocrati, bancocrati e opinion makers) rivela un’indomita
propensione a sfruttare la politica – e con essa lo Stato – per i
propri scopi, nonché una singolare avversione per la
religione cattolica, in quanto i meteci moderni –
nell’interpretazione di Maurras – sono ben consapevoli che essa
costituisce il principale tra i poteri effettivamente capaci di
tener testa alle plutocrazie e al culto del dio Denaro.
Il teorico di Provenza ritiene che quello che oppone apolidi e
cattolicesimo sia uno scontro decisivo tra la forza materiale e la
forza spirituale, da cui uscirà vincitore l’uomo-bestia
ovvero l’uomo tradizionale, l’individuo abbruttito e livellato verso
il basso ovvero l’individuo che reca ancora con sé alti
valori morali, estetici e intellettuali. Questa sua veemente difesa
del cattolicesimo passa anche attraverso una serie di duri attacchi
all’ebraismo, religione che egli accusa di aver propugnato per
secoli una concezione del mondo cosmopolita e un modello umano
dedito essenzialmente alle speculazioni affaristiche. Come
sottolinea Vincenza Petyx, Maurras, al pari di molti francesi
dell’epoca, «vede nel semita, che non conosce la
proprietà della terra ma soltanto quella dell’oro, il
pericoloso dissolvitore dei vincoli nazionali. L’oro, cioè il
capitalismo finanziario, ha infatti il mondo intero come suo campo
d’azione»[6], quindi non ha patria. Anche per questo, l’autore
transalpino accusa questa forma degenerata di capitalismo di essere
un prodotto dell’intelligenza astratta, deracinée, tipica
degli ebrei di ogni tempo. E, a suo avviso, la Finanza
internazionale arriverà a spadroneggiare allorquando le
nazioni saranno popolate di «uomini “universali” che
contratt[eranno] la convivenza sulla base del solo vincolo che
conosc[eranno], quello dell’utile»[7]. Dal punto di vista del
pensatore provenzale, afferma Daniele Rocca, essere antisemiti
significa non tanto teorizzare superiorità ed
inferiorità di “razza”, quanto piuttosto «reagire
contro un processo di dissoluzione, secondo una prospettiva
storica»[8].
Maurras è convinto che la stessa formazione delle “eresie”
protestanti e del diffondersi del deismo debba molto
all’assolutizzazione di questi aspetti anarchici e
internazionalistici connaturati alla mentalità giudea. Egli
non nutre dubbi, a questo proposito: l’aver pervicacemente puntato a
scindere, almeno a partire dal XVI secolo, la felice combinazione
tra sentimento cristiano e disciplina ricevuta dal mondo greco e
romano, sta comportando la progressiva distruzione dell’ordine
naturale dell’umanità. Viceversa, a suo giudizio, uno dei
meriti grandi del cattolicesimo tradizionale consiste nell’aver
saputo organizzare l’idea dell’Essere divino: infatti, come osserva
Fisichella, «[s]ul cammino che conduce a Dio, il cattolico
trova legioni di intermediari: terrestri o sovrannaturali, santi o
beati o figure esemplari, la catena dagli uni agli altri è
continua»; in questo modo, rimanendo all’interno d’una
prospettiva monoteistica, l’universo conserva «il suo
carattere naturale di molteplicità, di armonia, di
composizione»[9]. Anche se «Dio parla nel segreto di un
cuore cattolico, le [S]ue parole sono controllate e come convalidate
dai dottori, guidati a loro volta da un’autorità superiore,
la sola che sia senza appello, conservatrice infallibile della
dottrina: e tale legame complesso, con le sue mediazioni, feconda la
tradizione»[10]. Questa è, appunto, la Tradizione, nel
tempo e nello spazio, secondo il teorico francese: «Lo spirito
di fantasia e di divagazione, la follia del senso proprio si trovano
così ridotti al minimo»[11].
3. La restaurazione del primato della politica
Maurras ritiene che sia sbagliato dare una risposta alla crisi del
paradigma tradizionale esclusivamente sul piano religioso: egli,
infatti, propone anche il ripristino della centralità della
politica. In che senso è da intendersi questo recupero?
Innanzitutto, a suo parere, non può darsi alcuna
società, vale a dire aggregazione organizzata, senza regole
di ordine politico, senza sovranità. Non è un
contratto tra singole volontà individuali a fondare una
società, bensì «un idem sentire che ha la sua
proiezione nel riconoscimento di un comune interesse
politico»[12]. Entro tale quadro, «[l]o Stato è
una delle forme istituzionali in cui si è espressa nel tempo
questa convergenza della società e del suo nucleo costitutivo
di ordine sovrano»[13]. La mano pubblica dev’essere limitata
al proprio ruolo specifico, a ben definite competenze e
attribuzioni: «Vi è una divisione del lavoro che
riconosce autonomia costitutiva alla società civile nelle sue
plurime e pluralizzate articolazioni e nei suoi meccanismi sia
decisionali sia di selezione delle rispettive dirigenze»[14].
Come si vede, Maurras si fa portabandiera di un primato
esclusivamente regolativo della politica, attribuendo a quest’ultima
la funzione di ordinare la comunità e, allo stesso tempo, di
riconoscere e annoverare tra le proprie regole l’autonomia
tendenziale della società civile. Tale posizione mette in
luce la distanza dello scrittore francese dal panpoliticismo,
secondo cui tutto è politica, tutto è politico: allo
Stato, infatti, egli non esita a proscrivere l’intervento in prima
persona nei diversi campi in cui si esprime la vita individuale e
collettiva[15].
4. Stato e società civile
Nella sua ricostruzione della prospettiva teorica maurrassiana,
Fisichella riserva largo spazio ai caratteri peculiari dello Stato e
della società che l’intellettuale francese pone in rilievo
nei propri scritti. Ancora una volta, le prese di posizione e i
punti di vista illustrati contrastano nettamente con le dottrine e
le rivendicazioni care al pensiero rivoluzionario. Secondo Maurras,
la società si basa sulla famiglia, sua prima unità, e
risulta articolata in diversi altri gruppi più complessi,
senza i quali ogni vita umana sarebbe soffocata: i comuni, le
associazioni professionali e confessionali, e una varietà
infinita di corpi e di compagnie. In quest’orizzonte dottrinale,
come sottolinea Fisichella, «[l]o Stato non è che un
organo, indispensabile e primordiale, della società: lo
Stato, quale che sia, è il funzionario della
società»[16]. Il vero Stato, quindi, riconosce
l’autonomia della società e non ha quasi nulla a che fare con
gli individui privati: esso, piuttosto, esercita le proprie
attribuzioni soltanto sui corps compresi entro il perimetro statuale
e soprattutto sulle loro reciproche interazioni, limitandosi a
salvaguardare le supreme esigenze dell’ordine, della sicurezza e
della difesa, ambiti nei quali la sua iniziativa è
prioritaria e inopponibile.
Nella visione maurrassiana, pertanto, la libertà dell’uomo
è riconducibile all’articolazione pluralizzata della
società, costituita più di distinzioni e
specificità che di uguaglianze ed uniformità. Ma non
solo: il pensatore francese concentra l’attenzione anche sul
rapporto tra i concetti di libertà e di autorità,
mettendo in luce come non si possa spiegare l’essenza dell’uno senza
considerare l’altro. Egli spiega, a questo proposito:
Chi dice libertà reale dice autorità. La
libertà di testare crea l’autorità del capo-famiglia.
La libertà comunale o provinciale crea il potere reale delle
autorità sociali che vivono e risiedono sul posto. La
libertà religiosa riconosce l’autorità delle leggi
spirituali e della gerarchia interna d’una religione. La
libertà sindacale e professionale consacra l’autorità
delle discipline e dei regolamenti all’interno delle corporazioni e
compagnie di mestieri[17].
In questo senso, si può affermare che l’idea di
autorità è ben lungi dal contraddire l’idea di
libertà: piuttosto, la completa e ne è compimento. A
giudizio di Maurras, dunque, nel momento in cui una libertà
umana perviene al punto più alto, trovando oggetti umani sui
quali applicarsi e imporsi, prende il nome di autorità.
Come si diceva, lo scrittore provenzale è persuaso che il
compito precipuo dello Stato consista nel mantenimento dell’ordine
politico. In mancanza di quest’ultimo, a suo avviso, non è
pensabile alcuna seria azione dello spirito o della materia. In sede
economica, ad esempio, l’ordine politico consente un sano sviluppo
dell’attività produttiva, un’armoniosa fusione delle varie
forze del lavoro e quel rispetto della proprietà privata che
Maurras considera salvaguardia naturale dell’uomo,
possibilità di resistere alle pretese altrui e di affrontare
le mutevoli vicende dell’esistenza. E, non diversamente da tanti
altri dati personali, sociali e professionali, anche la
proprietà si trasmette ampiamente per via
dell’eredità.
Una volta garantito l’ordine politico, lo Stato deve arrestare la
propria azione, è tenuto a non ingerirsi nelle
libertà-autorità particolari presenti nella
società. Anzi, esse gli servono per delimitare con chiarezza
i propri compiti precipui, fissando nettamente i termini entro i
quali – secondo le condizioni storiche e la tradizione nazionale,
nonché la configurazione geografica – l’autorità
sovrana si dispiega. Dall’uomo allo Stato e ai gruppi intermedi,
ciascuno deve fruire di quella parte di
autorità-libertà che il naturale ordine delle cose gli
permette, senza livellanti forzature ugualitarie e prendendo
realisticamente atto delle ineludibili gradazioni di gerarchia
sociale.
5. Democrazia e derive economicistiche
Maurras è convinto che solo un tipo di regime politico possa
confarsi all’emergente mondo dei meteci, all’epoca materialista e
cosmopolita che sta instaurandosi in Europa ai suoi tempi: la
democrazia. Essa viene descritta come una sorta di “luogo naturale”
dell’irresponsabilità, della confusione e
dell’irragionevolezza, dove non esistono argini alla
passionalità e alle pretese degli elementi peggiori della
comunità; tutto è continuamente dibattuto e messo in
discussione, rileva il pensatore francese, senza che venga
riconosciuto un terreno valoriale condiviso, onde è
impossibile dar vita ad una pace interna che risulti duratura.
Nell’ambito del quadro teorico maurrassiano, questa condizione
d’instabilità, nella quale «lo Stato non ha mai tregua,
il governo non ha mai serenità»[18], è la
conseguenza necessaria di un sistema che prevede non solo che tutti
comandino e tutti obbediscano, ma pure che i cittadini vengano
sovente chiamati ad esprimere un’opinione attraverso il voto su
questioni che essi avvertono come lontanissime o che ignorano.
Non c’è bisogno di spingersi oltre nell’analisi di questo
regime, secondo il teorico transalpino, per avvedersi che gli ideali
della sovranità popolare, del governo dei cittadini e della
maggioranza numerica sono fallaci. A parere di Maurras, un
osservatore attento capisce subito che la democrazia incarna la resa
di fatto della politica nella sua forma più autentica:
proprio perché privo di veri principî, nemico della
gerarchia e passionale per definizione, questo regime si rivela
terreno fertile per quelle derive oligarchico-economicistiche che,
se non arrestate in tempo, finiscono con l’instaurare il ferreo
dispotismo dell’Oro. La democrazia, infatti, rifiuta di attribuire
alcun valore e alcuna legittimità a ciò che non
è stato votato, scelto dalla maggioranza, dimostrando –
così – di essere assoggettata al doppio governo materialista
del Numero e del Denaro; dapprima, entrambi questi elementi, di
natura quantitativa, si combinano alimentando la demagogia, ma col
tempo il secondo tende a prevalere sul primo, dimodoché la
democrazia va trasformandosi progressivamente in oligarchia
plutocratica tout court: presto, della democrazia rimarranno solo
(fino a quando?) i suoi riti, ormai ridotti a cerimoniali senza
significato ed effetti rilevanti.
6. Democrazia come «tradizione della morte»
In quest’orizzonte teorico, Maurras recupera la distinzione greca
tra civiltà e barbarie, trasferendola nell’esperienza europea
del proprio tempo. A suo avviso, chi inneggia all’uguaglianza
democratica apre la strada, scientemente o no, al ritorno del caos,
della violenza, della morte. E, a tale proposito, il caso della
Francia gli sembra emblematico: nella storia recente di questo
grande Paese, avrebbe preso corpo una vera e propria
«tradizione della morte», incentrata sulle istituzioni e
sulla mentalità democratiche. Secondo l’autore provenzale,
infatti, la democrazia tende a spazzar via tutto ciò che
trova sul proprio cammino, disprezzando indiscriminatamente tutti i
lasciti morali, intellettuali, istituzionali ed economici ereditati
dal passato e resistiti alla prova del tempo. Il regime democratico
malcela un animus dissolvente e annientatore, ed è sprovvisto
di qualsivoglia visione della costruttiva continuità: anzi,
si potrebbe dire, di ogni minima traccia di spirito aggregante.
Ecco, allora, la «tradizione della morte», fonte
inesausta di dissipazione e imbarbarimento della comunità.
Alla democrazia, insomma, è imputata da Maurras la doppia
incapacità di porre e far agire i membri della nazione in
spirito di solidarietà, e di garantire il necessario legame
tra le generazioni: il che spalanca le porte, a suo dire, ad un
nichilismo inumano e lacerante.
Nell’interpretazione del teorico francese, i sostenitori e anche i
precursori ideologici della rivoluzione del 1789, avvenimento che
egli considera l’atto di nascita ufficiale di questa distruttiva
«tradizione della morte», hanno insegnato la scienza
atea non solo contro le religioni, ma anche contro i governi. Se
nelle fasi iniziali la negazione del rivelato e del miracoloso
poteva prestarsi a un certo progresso generale nella conoscenza del
mondo fisico, alla lunga ciò è andato ad incoraggiare
la contestazione dell’origine ultraterrena, sovrannaturale,
dell’autorità e della disuguaglianza, critica rabbiosa sulla
quale – afferma Maurras – si appoggia per essenza la democrazia.
L’intellettuale di Provenza accusa i difensori di questo regime – e,
già prima, i philosophes – di aver intrapreso una battaglia
di ordine metafisico e di aver basato le proprie convinzioni su un
insieme di fantasticherie e di impulsi soggettivi. In questo senso,
egli considera la dottrina democratica sorta non dalla vera scienza,
bensì da una religione falsa e “astratta”, al punto che
né la storia degli uomini né lo studio della loro
natura permettono di aderire al democratismo come ad un principio
superiore. Rileva Fisichella:
Ciò che Maurras rifiuta, e con lui e prima di lui tanta parte
della cultura di destra, è l’astrattezza dei philosophes che
nel secolo XVIII hanno prodotto, in nome della ragione individuale e
contro i dettami della maistriana raison universelle, i
principî alimentatori dello spirito rivoluzionario,
principî astratti impugnati come clave contro la concretezza
della storia e delle istituzioni e credenze da essa prodotte e
sedimentate nel corso dei secoli[19].
A chi crede che lo spirito democratico testimoni di un abuso della
logica e della ragione, il pensatore provenzale risponde che gli
uomini del Settecento sono stati inebriati non tanto dalla
meditazione solitaria e dalla speculazione teorica a priori, quanto
piuttosto dall’«impulso sentimentale che li ha condotti a
proporre come assunzioni dottrinali mere associazioni di immagini
senza consistenza né coscienza, dunque senza
verità»[20]. Maurras non ha dubbi al riguardo:
«il male del mondo moderno deriva dall’avere l’élite
intellettuale di Francia sdegnato la ragione facendo quasi
esclusivamente appello alle passioni e ai sentimenti»[21].
Ma l’autore transalpino si spinge oltre. Da Jean-Jacques Rousseau
(1712-1778) in poi, a suo modo di vedere, una porzione non
trascurabile del pensiero e della retorica rivoluzionari, pur
rifacendosi esplicitamente ai miti e ai modelli
dell’antichità greca e romana, non compartecipa affatto
dell’anima autentica del mondo classico. Maurras mette anche in
guardia contro gli scrittori della grande generazione letteraria
della Restaurazione, i quali per primi assunsero in Francia
l’etichetta di “romantici”: lungi dall’incarnare i paladini armati
della monarchia legittima e i poeti evocatori del Medioevo
cattolico, essi risultavano ben lontani dallo spirito classico.
Anzi, a suo parere, vi è una coincidenza profonda tra
Romanticismo e Rivoluzione, dal momento che in entrambi si possono
individuare figli carnali di quel movimento della Riforma che ha
rappresentato una sedizione sistematica dell’individuo contro la
specie. Secondo Maurras, le tradizioni elleno-latine e il genio
cattolico romano medioevale non hanno nulla a che fare con lo
spirito sovversivo e antimetafisico posto alla base sia della
Rivoluzione sia del Romanticismo. Mentre questi ultimi non gli
appaiono altro che tragiche parodie della classicità
propriamente detta, l’intellettuale di Provenza crede che
l’autentico spirito classico sia in senso proprio l’essenza delle
dottrine dell’alta umanità, in quanto esso è andato
modellandosi sulla filosofia di Aristotele ed appropriandosi dei
metodi della politica romana. Nella visione maurrassiana, insomma,
quello classico coincide con l’unico vero spirito di autorità
e di tradizione.
Il pensatore francese identifica i padri della Rivoluzione nei
protestanti cinquecenteschi di Wittenberg e di Ginevra, tutti eredi
– a suo modo di vedere – dello spirito giudeo e delle varietà
del cristianesimo “separato” imperversanti nei deserti orientali e
nella foresta germanica, cioè in quelli che egli ritiene i
principali punti-chiave della barbarie. Non adeguatamente permeato
dall’umanesimo cattolico, il mondo tedesco (ma anche quello
anglosassone, accusato da Maurras di essere il peggiore focolaio
delle infezioni liberale e massonica) è stato penetrato
dall’ebraismo, ossia dalla cultura vetero-testamentaria, biblismo
senza freno (o letto come tale) che alimenta il tumulto interiore
scatenato, sconvolgendo «quella disciplina mentale, morale,
estetica, quella ragione, quel diritto, quella legge, quell’ordine,
quel gusto che costituivano tutto il capitale civilizzatore dello
spirito classico»[22].
Ostile alla razionalità classica e cattolica, l’atteggiamento
intellettuale plasmatosi nell’Europa centro-settentrionale
privilegia sentimenti e passioni individuali, sfociando in quel
volontarismo tipico del XVIII secolo e in quelle estremizzazioni
sfacciatamente irrazionaliste e nichiliste che sono venute dopo. Che
cosa pretendono gli scrittori romantici non meno degli alfieri della
Rivoluzione? Che il genere umano ceda alle manifestazioni più
incontrollate delle passioni, che vengano sovvertiti gli assunti
della natura e della ragione, secondo i quali la società
preesiste alla volontà di associarsi e i diritti dell’uomo
non sono immaginabili prima dell’esistenza della società.
Tanto i sostenitori della Rivoluzione quanto i romantici, a parere
di Maurras, risultano sempre insofferenti verso l’ordine e tendono a
legittimare ogni possibile rivolta contro sacerdozî ed imperi.
Il teorico transalpino accusa gli interpreti di non aver capito che
le pretese novità del Romanticismo – vale a dire la
rivendicazione del primato del sentimento e della sensibilità
individuale – esistevano ben prima di esso. Tutta la storia della
cultura, da Omero in poi, ne fa fede. L’opera degli autori romantici
è consistita nel dare alle passioni la prima o persino
l’unica importanza, nel trasformare l’attenzione alle passioni
nell’eccesso delle passioni; e ciò porta, non da ultimo, ad
intendere il principio di libertà come anarchia e a
perseguire un livellamento ugualitaristico tra gli uomini. Maurras
ritiene, invece, che il ritorno alla verità non consista nel
proscrivere sentimenti ed emozioni, ma nel ricollocarli al loro
rango. Affinché non degenerino, affinché non divengano
perversi, volontà e sentimento vanno temperati, disciplinati,
limitati dalla ragione[23]. A giudizio dello scrittore francese, per
questo motivo, «[a]l pari dell’autorità, la ragione va
ricondotta in alto, in consonanza con i dettami dello spirito
classico, che è insieme spirito di progresso e di
ordine»[24]. Ciò significa, innanzitutto, recuperare le
esperienze dell’antica Ellade. Furono i greci, infatti, a inventare
e condurre alla perfezione l’estetica dell’armonia: il loro ideale
di bellezza scaturì dalla ricerca dell’ordine. Quest’ultimo,
spiega Maurras, è un rapporto di convenienza e di equilibrio
tra le diverse parti guidato da una gerarchia di valori cui presiede
l’autorità della ragione.
Ai moderni, barbari nei gusti e nei costumi, poco o nulla è
rimasto della saggezza antica che metteva d’accordo l’uomo con la
natura. Basta osservare le opere d’arte romantiche, afferma il
pensatore francese: lì trionfa una natura selvaggia, senza
freni, che non reca traccia dell’intervento armonizzatore dell’uomo.
All’intelligenza “maschia” dei greci è andata via via
sostituendosi la mollezza sentimentale femminile, che si abbandona
alle proprie emozioni. Questo è un importante sintomo,
sottolinea Maurras, della metecizzazione del mondo. A suo avviso,
nessuno può mettere in dubbio che il gusto romantico abbia
innescato un generale processo di effeminatezza chiaramente
individuabile in alcuni poeti e scrittori, come dimostrano i casi
emblematici di Jean-Jacques Rousseau, Madame de Staël
(1766-1817), François-René de Chateaubriand
(1768-1848), Paul-Marie Verlaine (1848-1896). Secondo il teorico
transalpino, i moderni hanno dimenticato ancora una volta
l’insegnamento degli antichi: infatti, egli rileva che, mentre ad
Atene i meteci erano stranieri che non godevano dei diritti
politici, in Francia i meteci della cultura hanno avuto e hanno
ancora pieni diritti e mano libera per corrompere la tradizione
culturale del Paese. E il meteco “letterato”, “intellettuale”, oltre
a palesare un’irrefrenabile vocazione per la debolezza e
l’imperfezione, vanta molto spesso un’origine germanica. Di nuovo,
pertanto, il cerchio si chiude.
Se in campo letterario è l’egocentrica sensiblerie femminile
ad imporsi, l’ambito politico vede il predominio del particolare sul
generale, del privato sul pubblico. Non è un mistero che le
cose andassero proprio così nelle foreste della Germania,
osserva Maurras, anche se questa constatazione non deve far
trascurare – a suo giudizio – il rilievo che riveste, nella
degenerazione dello spirito tradizionale dell’Occidente, l’influenza
dello spirito juif sulla cultura e sulla religione. Mentre nei tempi
antichi fu indubbiamente Gerusalemme il principale focolaio delle
idee devastatrici della classicità, negli ultimi secoli il
punto di raccolta delle infezioni di mezzo mondo si è
dimostrata Ginevra, che – non a caso, per Maurras – corrisponde alla
patria di Rousseau. Quest’ultimo viene descritto dall’intellettuale
francese come un irriducibile avventuriero nutrito di ribellismo
ebraico, un subdolo fautore della bellezza della natura primitiva
senza ordine e senza legge, un ciarliero apostolo della virtù
della sauvagérie, un pericoloso teorico delle dottrine
democratiche e rivoluzionarie, un sinistro antesignano dei
principî dell’Ottantanove: ciò spiega, a suo avviso,
perché l’autore del Contratto sociale e dell’Emilio (entrambi
usciti nel 1762) debba essere considerato uno dei nemici per
eccellenza dello spirito classico e della tradizione europea[25].
7. Democrazia e ugualitarismo
Come si accennava, tra i più grandi ed esiziali errori delle
dottrine rivoluzionarie e dello spirito romantico – due rami dello
stesso tronco, nella visione di Maurras –, figura il tentativo
d’instaurare un’uguaglianza radicale. Ovviamente, rileva il teorico
di Provenza, il regime che meglio degli altri favorisce questa
condizione sociale e politica priva di distinzioni e preminenze
è quello democratico. Egli accusa la democrazia di non aver
fondamento scientifico proprio perché si basa non
sull’accertamento di un fatto, ma piuttosto sull’uguaglianza, la
quale rappresenta uno dei frutti più pericolosi
dell’immaginazione umana, una costruzione mentale fuorviante che non
ha riscontri solidi nella realtà e che determina impetuosi
eccitamenti negli uomini. Al contrario, sottolinea il pensatore
francese, è la disuguaglianza ad essere la legge dello
sviluppo sociale e unicamente il rispetto di questa legge assicura
con l’ordine anche il progresso. Come scrive Fisichella, non solo la
disuguaglianza costituisce «un dato di partenza», ma
«è osservazione comune che la capacità di
innovazione rinvia piuttosto alle minoranze guidatrici che ai grandi
numeri sociali, così come la concentrazione delle risorse
è condizione (non esclusiva, ma necessaria) per produrre
benessere e sviluppo sociale»[26]. Da un lato, Maurras
considera aristocratico il vero progresso; dall’altro, egli prende
fermamente partito contro la proclamazione di uguaglianze che non
esistono, in quanto è persuaso che tali rivendicazioni
«determin[i]no illusioni e spropositate aspettative destinate
a infrangersi contro la realtà o a diventare oggetto di
manipolazione ora di questo ora di quel potente di turno»[27].
Per quello che concerne il primo punto, Maurras fa notare che, se
nessuno può mettere in dubbio che lo sviluppo materiale abbia
dato maggiori agi e ricchezze agli uomini, è però
altrettanto vero che tale sviluppo non definisce affatto il
progresso; quest’ultimo si accompagna, piuttosto, a un corso
eroico-aristocratico, cioè spirituale, della storia.
Ciò spiega perché i moderni non siano all’altezza
degli antichi: gli individui e le società, dalla Rivoluzione
in poi, hanno interrotto questo ciclo per cadere nelle volgare
materialità democratica. Entro tale quadro, gli uomini
“superiori” risultano e risulteranno sempre gli unici in grado di
produrre cultura, mentre gli individui “inferiori” devono essere
tenuti ben lontani da essa, perché la sua democratizzazione,
che costituisce uno dei presupposti della concezione
democratico-liberale del progresso, non può che promuovere –
secondo Maurras – l’ozio e la rivolta delle classi subalterne.
L’autore provenzale, nondimeno, e veniamo così a fare
doverose precisazioni intorno al secondo aspetto a cui si è
dianzi accennato, non crede nell’immutabilità di tutte le
forme concrete di disuguaglianza. A suo avviso, il rischio è
che, se troppo perpetuate, le eccessive disuguaglianze rendano
sterili i beni: la storia insegna, infatti, che pigrizia e
dissipazione sono figlie dell’abbondanza. La povertà, al
contrario, è un pungolo energico e salutare che stimola
l’uomo ad ingegnarsi e, in questo modo, ad allontanarsi dalle forme
più gravi di indigenza. Da tutto ciò, nella
prospettiva maurrassiana, derivano compensazioni e oscillazioni
naturali, il cui effetto di bilanciamento e di mitigazione è
indubbio, sino al risultato finale di far regnare una misura di
equilibrio. Di conseguenza, a parere del teorico transalpino,
occorre stigmatizzare l’irresistibile vocazione della democrazia
all’eliminazione delle disuguaglianze senza procedere ad una
distinzione realistica tra queste. Infatti, come sintetizza
Fisichella, Maurras è convinto che alcune delle
disuguaglianze incardinate nella realtà possano e debbano
essere eliminate:
la pratica politicamente e culturalmente più ragionevole
è per un verso quella di temperare le disuguaglianze, per un
altro verso di distribuirle o di impedire che si cumulino, in modo
da non gravarne e penalizzare un singolo soggetto (individuale o
collettivo: ceto, confessione, classe, etnia, categoria) rispetto
agli altri, per un ulteriore verso di equilibrarle tra loro. In tal
modo le disuguaglianze “negative” risultano attenuate e
depotenziate, quelle “positive” producono benefici effetti, e la
società grazie a tale complessa calibratura realizza in
misura apprezzabile l’uguaglianza possibile nel rispetto delle
distinzioni[28].
Accanto a ciò, lo studioso italiano fa notare la
prossimità tra le concezioni di Maurras e quelle di Vilfredo
Pareto (1848-1923). Per entrambi, la società europea non
è caratterizzata da caste chiuse, ma
in essa opera la “circolazione delle élites”, che più
o meno rapidamente immette nei ranghi superiori del sistema sociale
forze (persone, gruppi) provenienti dai livelli subalterni, senza
peraltro che possa essere modificato l’assetto fondamentale della
società, contraddistinto sempre dalla presenza di una classe
dirigente, composta da quanti, nelle svariate categorie, sanno
ascendere ai gradini più elevati del sistema sociale[29].
Anche se nella storia le aristocrazie s’indeboliscono e soccombono,
vi è sempre nella società una «classe
eletta», cioè la classe superiore: in questo senso,
«l’aristocrazia» è un dato ineludibile della
realtà storica. Il pensatore provenzale non si nasconde che,
ai suoi tempi, porzioni consistenti dell’antica nobiltà e
della vecchia borghesia si sono ormai gravemente
«imbastardite», onde è molto probabile – a suo
avviso – che importanti posti di potere arrivino ad essere occupati
da uomini provenienti da classi più vitali ed energiche, come
quell’emergente «aristocrazia del lavoro» costituita da
operai meccanici, elettricisti, capimastri ecc.
8. Repubblica e parlamentarismo
Uno dei bersagli polemici preferiti di Maurras è il
parlamentarismo. Fisichella sintetizza come segue le tesi espresse
in merito dall’autore provenzale:
il parlamentarismo è il regno dell’“instabilità
obbligatoria”, è il cedimento alle influenze delle forze
economico-finanziarie nei processi legislativo e governamentale,
è l’indebolimento costante della funzione esecutiva costretta
a snervanti giochi di compromesso e a polemiche infruttuose,
è l’affanno decisionale elevato a regola di vita, è
l’incapacità di operare scelte politiche in maniera insieme
tempestiva e consapevole, è la sottomissione a ogni
particolarismo e a ogni tatticismo[30].
Il sistema parlamentare, inoltre, ha il gravissimo limite di essere
fondato sui partiti, cioè su vere e proprie fazioni che sono
costitutivamente incapaci di trascendere gli interessi parziali di
cui si fanno portatrici: in questo modo, risulta loro impossibile
concorrere alla delineazione e alla composizione del bene generale.
La vita parlamentare delle grandi nazioni europee, in primis di
quella francese, dimostra che gli autentici uomini di Stato sono
pressoché assenti, mentre spadroneggiano dappertutto schiere
esagitate e vocianti di uomini di partito. La situazione non
è grave soltanto se questi ultimi sono disonesti, e pensano –
dunque – esclusivamente ad arricchirsi e ad estendere la loro rete
di potere: i parlamentari galantuomini, infatti, sognano di
conseguire unicamente gli obiettivi programmatici del proprio
partito, ignorando l’interesse nazionale. Comunque si guardi la
realtà francese dei decenni precedenti e a lui coeva, Maurras
ritiene che non si possa che concludere che il governo della
repubblica equivale al governo dei partiti.
Secondo l’autore di Provenza, i partiti costituiscono una sorta di
Stato nello Stato e mirano a spartirsi i beni e le ricchezze comuni,
a fare a brani ogni ideale e principio avito in nome di interessi
settarî, e a controllare minutamente la vita degli individui
(di qui, lo strapotere della burocrazia). Nel funzionamento normale
del regime, nessun risultato politico si ottiene se non attraverso
tale operazione di divisione e tale lotta intestina. E il gioco dei
partiti permette di farsi ascoltare solo a chi è in qualche
modo loro asservito. Leviatano dei nostri tempi, il partito
sacrifica così le intelligenze di coloro che non vi sono
intruppati, preferendo i mediocri accondiscendenti e favorendo la
proliferazione di un incontrollabile parassitismo di Stato, il cui
unico scopo consiste nel premiare le “clientele” dei deputati.
Contrario al Parlamento e ai partiti, Maurras è – però
– tutt’altro che ostile alla rappresentanza. A suo avviso, l’idea di
rappresentanza ha molto a che vedere con il pluralismo sociale, con
il rapporto tra sovrano e domande, con le aspettative e le esigenze
della società civile nell’articolata molteplicità dei
suoi gruppi e categorie. Per questo motivo, egli si fa promotore di
regimi che siano antiparlamentari, ma rappresentativi; in
particolare, come si dirà meglio più avanti, la sua
intenzione è quella di delineare uno Stato monarchico ove sia
presente «un re che regna e che governa», ove –
cioè – venga assicurata l’indipendenza del potere centrale.
Quest’ultimo ha bisogno di quell’unità di vedute e di forze
che, sola, consente la stabilità e la durata: perciò,
esso va affrancato dalla dominazione irresponsabile, indiscreta e
tumultuosa delle assemblee tendenzialmente anarchiche, talvolta
addirittura orientate contro il sentimento o l’interesse della
nazione.
9. Il rimedio monarchico: tratti peculiari
Condannata senz’appello la democrazia, Maurras ripone nella
monarchia, specialmente nella sua versione ereditaria, molte delle
sue speranze di salvare la fisionomia tradizionale dell’Occidente.
Quali sono i caratteri che, a suo avviso, rendono il regime
monarchico superiore a quello democratico?
In primo luogo, il teorico provenzale riscontra nella democrazia –
come abbiamo osservato – il trionfo del disordine e
dell’emotività, del volontarismo libertario e incontrollato,
mentre vede nella monarchia gli encomiabili caratteri
dell’efficienza (perché sa valorizzare tutte le risorse della
nazione) e dell’autonomia (in quanto essa impersona una vera
autorità). In secondo luogo, nel regime monarchico, pur in
presenza dell’ineliminabile scontro tra istanze particolari a
livello della società civile,
l’interesse generale trova un suo spazio garantito e protetto in una
istituzione che, non dipendendo dal voto, evita l’intersecazione tra
le linee di competizione o addirittura conflitto tra le parti attive
nella realtà socio-politica e la linea di competizione o
persino conflitto che inevitabilmente si manifesta periodicamente
per la designazione elettiva del Capo dello Stato[31].
In terzo luogo, rileva Maurras, la monarchia è non solo
più «attenta alla dinamica di processi sociali e
politici», ma anche «in grado di [...] attivare
procedure di correzione e anche autocorrezione [...] per mantenere o
ricondurre, mediante meccanismi di feedback, contrasti e deviazioni
e conflitti entro limiti della tollerabilità
sistemica»[32]. In quarto luogo, il regime monarchico
«consente che le condizioni di travaglio siano affrontate a
costi minori per la comunità, non foss’altro perché
esclude a priori una linea di conflitto e quindi mantiene un’arena
super partes o comunque extra partes, vale a dire quella relativa
alla designazione al vertice dello Stato e alla sua
successione»[33].
In quinto e ultimo luogo, qualora si profilino quei passaggi
assolutamente cruciali della vita pubblica che Carl Schmitt
definisce «stati di eccezione», la presenza della
monarchia permette di affrontare simili casi estremi in modo
«meno traumatico, meno rischioso, meno giuridicamente
lacerante, meno imprevedibile nei suoi esiti»; a giudizio del
pensatore francese, ciò è reso possibile dal fatto che
«pure in un momento di tale e tanta drammaticità e
sbandamento le strutture della statualità, militari e civili,
hanno comunque nella sovranità regia un punto di riferimento
percettibile e un simbolo di continuità istituzionale
immediatamente riconoscibile»[34].
10. La «monarchia tradizionale»
Il modello monarchico appena delineato ha un nome per Maurras, che
punta l’occhio – ancora una volta – soprattutto sul contesto e sulla
storia francesi: «monarchia tradizionale». Quando egli
utilizza questa formula, è sua intenzione mettere in rilievo
la necessità, come dichiara Fisichella, di «collegare
(ricollegare) l’istituzione regia alla tradizione nazionale,
cioè alle realtà autentiche della storia, alla natura
delle cose, alla costituzione intrinseca della patria, non alle
fantasie della ragione astratta, individuale e
individualista»[35]. E, secondo l’autore di Provenza,
esclusivamente attraverso questo recupero consapevole è
possibile porre rimedio a tutte quelle abitudini e a quegli errori
che hanno cominciato a radicarsi durante la stagione repubblicana.
C’è da tenere presente, poi, che nella storia di ogni Paese
sono necessari di tanto in tanto modifiche e cambiamenti; e queste
riforme, per essere coerenti e durevoli, devono prevedere un punto
fisso al quale appoggiarsi, altrimenti la nazione cade nel
disordine. Di fronte agli abusi del recente passato e del suo tempo,
quindi, Maurras ritiene occorra ripristinare con tempestività
la forma monarchica tradizionale, l’unico ordinamento che nella
storia gli pare essere sempre stato in grado di garantire la pace
pubblica e di correggere gli errori, di incoraggiare le riforme
idonee a produrre fatti nuovi e di mettere un freno robusto al
disordine e alle sue cause, senza però indulgere all’inerzia,
all’immobilismo, all’apatia; e, anzi, il teorico francese è
convinto che alla monarchia siano indispensabili le riforme, se essa
vuole conservarsi[36]. Alla luce di ciò, Fisichella segnala
la prossimità tra la chiave di lettura di Maurras e quella
avanzata da Edmund Burke (1729-1797), giacché per entrambi
«[s]pirito conservatore e spirito riformatore non sono
alternativi ma cooperativi, nella stabilità, nell’equilibrio
e nella continuità garantiti dalla monarchia»[37].
Un altro elemento che rende superiore l’istituzione regia rispetto
alle democrazie repubblicane, a parere del teorico di Provenza,
consiste nella capacità della prima di combinare le due idee
di comando e di eredità. Come osserva Fisichella, ciò
permette alla «monarchia nazionale»,
rimanendo se stessa e in una logica di equilibrio, di calibrare la
sua guida nazionale talvolta più in chiave di autorità
talaltra più in chiave di libertà, a seconda delle
circostanze e delle necessità, dei rischi e delle
opportunità, dei costi e dei benefic[î], dei profitti e
delle perdite, sapendo che in ogni caso, appena concluso lo stato di
pericolo, la monarchia a differenza della dittatura, tende a
riaprire gli spazî della libertà[38].
Nell’interpretazione del pensatore francese, questo avvicendamento
di autorità e libertà, esattamente proporzionate ai
tempi, costituisce la storia di Francia.
Fisichella si sofferma a lungo sulle concezioni maurrassiane
riguardanti la pace interna alle nazioni e la pace internazionale.
La storia dimostra, per l’autore transalpino, che la monarchia
è quasi sempre un’istituzione ragionevole, prudente e umana,
costitutivamente avversa alle imprese militari. Secondo lo studioso
italiano, Maurras ha ben presente che, «[t]ra l’altro, una
guerra perduta comporta il rischio della caduta della monarchia, che
perciò ha un suo interesse diretto ad evitare finché
possibile la sconfitta bellica e, prima ancora, la guerra
stessa»[39]. Infatti, osserva Fisichella,
quando si sono combattute, le monarchie europee per secoli non hanno
spinto la virulenza delle loro reciproche contese belliche fino a un
livello di distruzione del nemico capace di annientarne la
legittimità politica, perché tale distruzione avrebbe
contemporaneamente comportato l’annientamento della propria
legittimità politica e del proprio fondamento di
legittimazione politica, comune ai regni dell’epoca. Tutto
ciò, anche a prescindere dai fitti rapporti di parentela tra
le dinastie del Vecchio Continente, altro fattore di temperamento
dello scontro bellico[40].
Anche per quello che riguarda la pace e l’ordine interni alla
nazione, la monarchia tradizionale riesce a garantire buoni
risultati, certamente migliori di quelli assicurati dalle democrazie
repubblicane. Maurras ritiene che l’istituzione regia ereditaria
renda minimi i pericoli di contrasti interni, scandali politici e
finanziari, sbandamenti morali, difficoltà economiche anche
gravi. Questo accade, a suo giudizio, perché il vertice della
comunità nazionale, quindi pure dello Stato, è
esentato dalla periodica elezione (popolare o parlamentare), a
motivo del carattere ereditario della sua designazione e della sua
regolata successione. Ciò significa che lo Stato, come rileva
Fisichella, «è [...] sottratto ai vuoti di potere, alle
defatiganti e spesso lunghe mandate elettorali, nonché al
gioco turbolento dei protagonisti delle lotte intestine, delle crisi
economiche, delle contese finanziarie, degli scontri culturali e
religiosi», dal momento che il monarca sta in posizione
distaccata, superiore, e riesce così a salvaguardare
«l’istituzione suprema della nazione dalle suggestioni di
fazione, quali che siano gli interessi e le motivazioni
comportamentali delle fazioni, dei gruppi particolari, e in tal modo
assicurando la continuità istituzionale dello Stato al
servizio dell’interesse generale»[41].
11. Monarchia ereditaria e rappresentativa, ma non parlamentare
In quanto autorità indipendente, la monarchia è –
nell’orizzonte maurrassiano – un’istituzione in grado di utilizzare
ogni forza nazionale secondo il suo valore, praticamente senza
dispersioni, allo scopo di ottenere il massimo del rendimento.
Funzione sinergica, capace di coalizzare grazie alla sua
autorità tutti i poteri sociali e politici in vista del bene
comune, la monarchia alimenta in se stessa l’attenzione
all’interesse generale in ragione dell’ereditarietà. Il
pensatore francese, tuttavia, non intende seguire coloro che ai suoi
tempi ritengono che questa legge politica implichi un principio di
selezione per eredità carnale. A giudizio di Maurras, sarebbe
sbagliato avere una fede mistico-scientifica in una “costante”
personale di capacità governamentale legata al sangue, tanto
che egli si limita ad affermare che il sovrano ereditario è
nella migliore delle posizioni per ben governare. Secondo il teorico
di Provenza, rileva Fisichella, «[p]oiché la monarchia
ereditaria si esprime in e attraverso una famiglia, una dinastia,
essa è in coerenza profonda con la società, che
è primariamente – pur se non esclusivamente – comunità
di famiglie»[42]. Ciò non implica di necessità
che si tratti di ereditarietà fisiologica. L’autore
transalpino è persuaso che l’elemento cruciale da tenere in
considerazione sia, piuttosto,
l’eredità del mestiere, l’eredità professionale e
funzionale quella che arricchisce il patrimonio di saggezza, di
esperienza e di moderazione del reggitore dei popoli. E questa
attitudine funzionale e professionale (il mestiere di re) si
alimenta ampiamente attraverso l’educazione. Ecco l’aspetto
più autentico, essenzialmente intellettuale e morale, del
criterio ereditario; l’educazione al comando come
responsabilità del comando, come consapevolezza di doveri,
come coscienza dei limiti da non superare, come equilibrio tra
prudenza e fermezza, come riferimento costante alle leggi fondanti
dello Stato e della nazione[43].
Per questo motivo, sottolinea Maurras, se l’educazione è
indirizzata fin dalla nascita – come accade per il principe
ereditario, di generazione in generazione – sui binari
dell’imparzialità e del benessere comune (il suo mestiere),
allora si creano le condizioni comparativamente più
favorevoli per una composta e fruttuosa azione politica. Egli
dichiara, pertanto, che l’alto valore personale del monarca è
un’eventualità che, quando si presenta, conferisce alla
nazione innumerevoli vantaggi. Nel caso in cui s’insediasse un re
poco atto al comando, tuttavia, ciò non produrrebbe danni di
grande entità, poiché la storia ha plasmato
così felicemente il sistema istituzionale e politico della
monarchia tradizionale che gli abusi vengono smorzati con efficacia
ed ogni membro della nazione – compreso il vertice dello Stato –
è incoraggiato ad agire per il bene comune.
Che cosa accade, invece, nei regimi repubblicani? Maurras attira
l’attenzione sul fondamento psicologico della democrazia, che
consiste nell’affidare il potere al migliore, e mostra come sia in
realtà difficile scoprire chi è effettivamente la
persona più adatta ad un determinato incarico o compito. Il
teorico provenzale sostiene che, per selezionare di volta in volta
il migliore, bisognerebbe allestire dappertutto commissioni d’esame
e scrutini destinati a valutare permanentemente le attitudini di
ciascun singolo cittadino, affinché nelle profondità
della popolazione non rimanga nascosto colui che è davvero il
più conforme ad ogni ruolo: ma, così facendo, il Paese
perderebbe la propria serenità. Come pone in evidenza
Maurras, infatti, il sistema elettivo è
l’immenso antagonismo, furioso o latente, ma incessante, tra milioni
dei nostri “io” o dei delegati dei nostri “io”. Tutto deve dunque
trasformarsi in beghe, discussioni, esami, votazioni, contestazioni,
battaglie che non cesseranno più di squassare lo Stato allo
stesso modo che di disfare l’unità nazionale[44].
Il sistema elettivo provocherebbe nello Stato, insomma, un moto
perpetuo al quale corrisponderebbero un’emotività e una
trepidazione continui, ed esiziali verrebbero ad essere in breve
tempo i danni arrecati all’unità e all’integrità della
nazione.
Tale (presunta) inferiorità “naturale” dei regimi
repubblicani offre all’autore francese il destro per continuare la
perorazione della causa monarchica. Maurras è convinto che
occorra ad ogni Paese un governo nominativo, personale,
responsabile, guidato dal re, il quale per storia, educazione e
status è specializzato nell’arte politica, troppo difficile e
complessa perché tutti possano interferirvi
indiscriminatamente. I suoi ministri e i suoi Consigli sovrintendono
e sorvegliano le amministrazioni, e a loro volta sono controllati
dalle rappresentanze, federate e confederate, degli interessi locali
e professionali. Solo in questo modo, nell’orizzonte teorico del
pensatore transalpino, è possibile che tutta la nazione sia
compartecipe della conservazione e del rafforzamento del bene
generale. Sovrano nel suo ordine, lo Stato va dunque liberato dal
giogo dei deputati: controllare lo Stato, infatti, non significa
asservirlo. Mentre nella democrazia non è prevista una netta
distinzione tra le funzioni di rappresentanza e di governo, la
monarchia tradizionale respinge a priori l’idea contraddittoria
secondo cui il medesimo essere considera se stesso, contro ogni
ragione, governante e governato, sovrano e suddito. Nella
prospettiva maurrassiana, come si è detto più sopra,
l’istituzione regia di carattere nazionale s’accompagna
necessariamente all’elezione di una o più Camere da
effettuarsi su base “corporativa”, professionale, non già
politica. Rileva Fisichella, a questo proposito: «Un voto,
dunque, connesso al mestiere, in una società dove, dal
più semplice al più complesso, l’articolazione dei
mestieri è il grande reticolo produttivo che tiene in piedi e
fa crescere la nazione»[45]. E, sempre a parere dello
studioso, «nel motivo antiparlamentare si avvertono le
influenze del nazionalismo, [...] il richiamo ai “nostri padri”, con
i loro Consigli e i loro Stati, rinvia a rimembranze d’antico
regime»[46].
Come indica Fisichella, la visione di Maurras si situa anche qui
all’interno del tipico quadro concettuale del pensiero
tradizionalista, secondo cui «[l]a Libertà in generale
al singolare e in maiuscola, è astratta (nel senso di
astrattezza, e più specificamente di astrattezza
rivoluzionaria)»[47]. Al contrario, «[l]e libertà
al plurale, particolari e in minuscola, sono le libertà
concrete, reali, storiche, maturate nel tempo e da esso certificate,
non esito e prodotto di un momento breve e violento di rottura della
continuità storica»[48]. Infatti, abbiamo già
osservato che, a giudizio dell’autore francese, la società
risulta articolata nella famiglia, nel comune e nei più
disparati corpi e associazioni; in ognuno di questi ambiti, l’uomo
vive in senso pieno ed è realmente libero. Il vero Stato,
ossia quello che riconosce l’autonomia della società, ha ben
poco a che fare con gli individui privati, in quanto esercita le
proprie attribuzioni unicamente sui corps compresi entro il
perimetro statuale e soprattutto sulle loro reciproche interazioni,
limitandosi a salvaguardare le supreme esigenze dell’ordine, della
sicurezza e della difesa. Ciò significa che la libertà
umana, nella prospettiva teorica maurrassiana, esiste soltanto
all’interno e nell’ambito dell’articolazione pluralizzata della
società. Proprio per questa centralità dei vari
collegi e associazioni nella vita degli individui e dell’intera
nazione, lo scrittore transalpino reputa necessario prevedere forme
di rappresentanza di tipo corporativo per un miglior perseguimento
del bene generale da parte della monarchia tradizionale.
Maurras osserva che il mito dell’ugualitarismo sta distruggendo il
patrimonio comune della Francia ed eliminando i corpi intermedi tra
individuo e Stato (famiglia, corporazioni, ordini ecc.). Queste
perversioni “moderne”, se non contrastate immediatamente e in
maniera decisa, renderanno l’individuo sempre più solo e in
balìa dello Stato. Il Leviatano, lo Stato-mostro di Hobbes,
appare dunque al teorico di Provenza l’inevitabile conseguenza del
presupposto ugualitaristico. Commentando tali posizioni
maurrassiane, scrive la Petyx:
La bella favola delle libertà individuali che si
limiterebbero reciprocamente è [...] miseramente fallita,
rivelando esatta l’ipotesi hobbesiana dello stato di natura. Andando
dietro a questa favola, la Francia si è mutata in un campo di
battaglia tra deboli e forti. Il pregiudizio giuridico della
libertà e dell’[u]guaglianza ha accresciuto poi lo squilibrio
che la grande industria porta con sé. Disfatta la
collaborazione gerarchica tra gli ordini, si sono costituite le
classi in guerra dichiarata tra loro: il capitale si è
trasformato in capitalismo. E con buona pace della tradizione
liberale, che decantava la superiorità dei moderni sugli
antichi con lo [S]tato-borsa, sono mancate le sole forze capaci di
togliere al capitale il suo “ismo” dispotico impedendogli di
spadroneggiare, ovvero governo ereditario, corporazioni,
religione[49].
Il vero interesse nazionale, l’autentica forza della comunità
e una duratura pace interna, quindi, possono essere garantiti –
nell’orizzonte teorico dell’autore transalpino – soltanto dalla
compresenza istituzionale di un re e di una più o meno vasta
rappresentanza degli ordini e dei corpi intermedi della
società. Maurras non ha dubbi in proposito: è
possibile scongiurare il pericolo dell’avvento del Leviatano,
rischio costante dopo la rivoluzione del 1789, unicamente
restaurando la monarchia tradizionale – rappresentativa, ma non
parlamentare.
12. Monarchia decentrata
C’è un altro importante aspetto da porre in rilievo del
modello monarchico delineato dal pensatore provenzale: il
decentramento[50]. Quest’ultima proprietà costituisce la
condizione necessaria delle libertà civili, senza le quali –
come abbiamo appena visto – non vi è vita e nemmeno, a
maggior ragione, vita prospera per una grande comunità. Nella
lettura maurrassiana, la storia recente del suo Paese mostra come la
Rivoluzione, il Consolato, l’Impero e la Repubblica costituiscano
altrettanti passaggi nel travolgente processo di centralizzazione
dello Stato e della nazione francesi. In merito a tali concezioni,
osserva Fisichella:
Centralizzare significa, secondo Maurras, incaricare il potere
centrale di tutte le responsabilità: per fare fronte a
queste, il potere deve assorbire tutte le libertà e reclamare
per sé tutte le autorità. Va posta fine a questo stato
di cose: è necessario tornare a distinguere tra le funzioni
dello Stato – che deve occuparsi delle alte questioni politiche – e
le funzioni che privati e governi locali possono più
fruttuosamente esercitare. Tuttavia la repubblica democratica,
elettiva, non è in grado di decentrare. Una catena di
interessi, influenze, opportunità connette centralismo e
repubblica elettiva[51].
Il teorico transalpino riconosce sia che esistono repubbliche
decentrate, come la Svizzera e gli Stati Uniti, sia che tra i
repubblicani vi sono fautori sinceri del decentramento; tuttavia,
egli è persuaso che, dalla condizione di centralismo, una
repubblica, che sia parlamentare oppure plebiscitaria, non riesca a
passare a un ordinamento statuale decentrato.
Quest’impossibilità deriva, a suo giudizio, dall’essere
elettivi, in tutte le forme repubblicane, i grandi poteri dello
Stato:
Il governo, quale che sia, ha dunque interesse, per farsi
rieleggere, a conservare nelle sue mani, più che può,
le amministrazioni dei servizi pubblici, cioè ha un interesse
a centralizzare. [In realtà], il momento finale d’una
repubblica democratica è il socialismo di Stato democratico:
il capolavoro del centralismo e del funzionariato. D’altra parte,
qualora una repubblica democratica fosse in grado di decentrare,
ciò risulterebbe esiziale per la coesione nazionale[52].
Come sintetizza Fisichella, Maurras ritiene che la monarchia possa
(quindi, debba) decentrare per due ragioni fondamentali:
Perché è un’autorità forte, e ciò
costituisce garanzia, assolutamente indispensabile, di conservazione
e salvaguardia dell’unità nazionale. Perché non
è elettiva, e dunque non ha bisogno di incapsulare tutta la
società nello statalismo e nel burocratismo allo scopo di
disporre delle immense risorse di controllo sociale necessarie ad
accaparrarsi i favori del voto popolare[53].
E decentramento, per l’intellettuale di Provenza, significa
sia restituzione di funzioni all’iniziativa privata, sia
ricomposizione su nuove basi territoriali e funzionali delle
istituzioni locali (comuni in prima fila), sia restituzione di
autonome competenze alle organizzazioni professionali, sia infine
“decentramento morale”, che consiste non soltanto nella riduzione
del numero e dell’importanza dei funzionari, ma nell’educare e
abituare i cittadini a non rivolgersi continuamente allo Stato e nel
sostituire, entro i limiti del possibile, l’organizzazione spontanea
all’organizzazione meccanica[54].
Maurras è in linea, dunque, con l’antica massima del diritto
francese secondo cui «Sub rege, respublica»: il re
incarna la più alta autorità politica, l’arbitro e il
protettore delle «repubbliche» che si giustappongono, si
congiungono e si intersecano nella complessità del reame di
Francia. Nella sua proposta, la società può evitare la
frammentazione e la disarticolazione – divenendo ordinata, ricca,
forte e coesa – solo se a capo di tutte le forze armate e di tutti i
grandi servizi nazionali vi è il re, e se – al medesimo tempo
– nessuna delle piccole «repubbliche» locali o
professionali costituisce un circolo chiuso. A proposito di questo
secondo aspetto, il teorico provenzale afferma che è bene che
ciascuna di tali «repubbliche» venga compenetrata con le
organizzazioni vicine, in modo che ogni cittadino abbia l’effettiva
possibilità di appartenere a gruppi assai diversi tra di loro
(ha luogo, così, quel fenomeno che la scienza politica
contemporanea definisce come «appartenenze multiple»).
13. Una monarchia autoritaria?
Alla luce di quanto abbiamo fin qui esposto, si può notare
come nel disegno teorico di Maurras, nella sua dottrina politica,
non vi sia spazio per la rappresentanza politica con la connessa
funzione di controllo politico. Se l’ordinamento descritto dal
pensatore francese esclude la presenza dei partiti, e con essi –
dunque – il pluralismo politico, è invece previsto il
pluralismo sociale, con una sua ampia articolazione e con un sistema
di rappresentanza di tipo corporativo, tecnico, professionale e
territoriale. Al vertice del quadro istituzionale della nazione –
come detto – è collocata la sovranità regia, che
l’autore di Provenza identifica con lo Stato. Quest’ultimo,
però, deve intendersi come ente limitato nelle sue funzioni,
competenze, attribuzioni: se, nella lettura maurrassiana, le piaghe
politiche dell’Ottocento sono state l’anarchia di Stato e una
burocrazia padrona di tutto, favorire il ritorno alla monarchia
tradizionale significa provocare il crollo della democrazia
scaturita dalla rivoluzione del 1789, impedendo – allo stesso tempo
– che si apra la strada a qualsivoglia dittatura personale o
collegiale. Nel complesso, il modello politico delineato
dall’intellettuale transalpino (per la sua Francia, in particolare)
può essere iscritto nella categoria dei regimi autoritari
senza partiti. A tali elementi va aggiunto che manca sia la
dittatura personale sia la dittatura collegiale. Infine, il re
regna, ma non solo: governa, più o meno direttamente, secondo
le circostanze. Allorché ci si trova in una situazione di
emergenza, spetta a lui agire senza intermediarî nella
plenitudo della sua potestas; non appena la crisi ritorna sotto
controllo, la monarchia riapre gli spazî della libertà.
Maurras è convinto che questo meccanismo di autocorrezione
sia del tutto assente nei regimi dittatoriali. Del resto, a suo
avviso, la storia insegna: quando in una situazione di pericolo il
re è posto nelle condizioni di svolgere la funzione sovrana
nella pienezza della sua potestà, il popolo non avverte il
bisogno della dittatura ed essa non può ascendere al governo
nazionale; viceversa, se il monarca è ostacolato dai partiti
(ossia dalle fazioni che – come precisato poco sopra – trascurano il
perseguimento del bene generale), dai loro veti, dalle loro
divisioni e lotte, un’eventuale fase di emergenza rischia di
condurre al successo della dittatura, personale o collegiale.
«In breve, per il regime politico auspicato da Maurras –
afferma Fisichella – si può parlare di autoritarismo
attenuato, di regime autoritario, ma non dittatoriale, retto a
monarchia temperata»[55]. Alla luce di ciò, grande e
sostanziale risulta la differenza tra la monarchia nazionale
descritta e propugnata dall’autore francese, da una parte, e i
totalitarismi storici, dall’altra: questi ultimi, infatti,
«sono regimi a partito unico rivoluzionario, e tale partito
prevale sullo Stato»; essi, inoltre, «si caratterizzano
per l’assenza di un principio di risoluzione pacifica dei conflitti
interni e per una radicale pulsione antipluralistica sia sul piano
politico sia sul piano sociale»[56].
Di notevole importanza sono le considerazioni svolte da Fisichella
intorno all’ipotesi che l’ordinamento delineato da Maurras possa
essere ricondotto alla categoria del «governo misto e
temperato». Con questa formula lo studioso intende alludere al
governo «capace di coniugare quelle che già l’antico
pensiero greco definiva le due matrici dalle quali tutti gli altri
regimi derivano: monarchia e democrazia»[57]. Egli ritiene
che, nel caso del teorico provenzale, si debba parlare semplicemente
di «governo temperato», cioè
“limitato” dalle leggi fondamentali del regno, dall’interesse del
monarca e della dinastia al perseguimento del bene pubblico,
dall’ordinamento giuridico (certezza del diritto e ordinamento
giuridico non sono esclusi dai caratteri autoritari di un regime
politico, specie se si tratta di un autoritarismo attenuato, come
nel caso in questione), dal quadro vasto e articolato del pluralismo
sociale, con le rispettive rappresentanze tecnico-professionali e
territoriali, dall’influenza del magistero culturale e morale del
cattolicesimo, dal costume nazionale e dai suoi precetti
tradizionali, dal ruolo stesso della famiglia[58].
Come mette in rilievo Fisichella, infatti, anche se il governo misto
«[p]resenta [...] il vantaggio della
inclusività», perché «[n]on cancella ma
coopta e integra istituzioni e culture, cercandone il punto di
equilibrio»[59], risulta estremamente difficile calibrarlo; e
quest’assenza di equilibrio istituzionale non può non
«dar luogo a inconvenienti anche seri, ad esempio sul fronte
della capacità e tempestività decisionali»[60].
Inoltre, appunta lo studioso italiano, Maurras sembra avere ben
chiaro il fatto che «è stata la Rivoluzione a
distruggere per il suo vantaggio la possibilità – non solo
pratica ma anche teorica – del governo misto, pur ventilata in una
fase iniziale del processo rivoluzionario, sia esaurendo la sua
fonte di legittimazione nel voto popolare sia abbattendo la
monarchia e con essa il quadro delle istituzioni
storiche»[61]. Infine, allo scrittore provenzale non sfugge
che, al di là della costitutiva
incompatibilità di principio tra democrazia e monarchia, il
livello della crisi democratica è ormai così alto, il
palleggiamento di quel bene prezioso che è la
sovranità tra popolo [e] parlamentari [...] è
così devastante, da rendere oltremodo difficile che [il
regime repubblicano moderno riesca a] fornire un contributo positivo
all’emergenza e al successo di un governo misto e temperato:
può solo sfociare nell’oligarchia, passando per l’anarchia e
la demagogia[62].
Maurras teorizza, quindi, una monarchia «temperata» e –
allo stesso tempo – «forte», il che «significa
superamento e “abrogazione” dello statalismo come ideologia e prassi
dell’interventismo statale per recuperare invece la cultura della
statualità, significa lotta al burocratismo e all’elefantiasi
legislativa»[63]. Egli è dell’avviso che esclusivamente
l’istituzione regia tradizionale possa garantire una
stabilità governativa autentica e un freno durevole alle
pressioni dei poteri finanziari, nonché il recupero delle
reali aspirazioni di libertà del cittadino, attraverso la
conservazione dell’autonomia dei molteplici corpi, associazioni e
collegi di cui si compone la società.
14. Conclusione
Non pochi aspetti delle tesi maurrassiane su cui si è voluto in questa sede attirare l’attenzione, dimostrano come l’autore di Provenza sia a tal punto proiettato verso il superamento del dato congiunturale, che appare innegabile che spesso i suoi sforzi analitici gli consentano effettivamente di travalicare la mera predisposizione di argomenti per la lotta di parte. Maurras vivente, questo aspetto risultava già chiaro, ma esso è divenuto ancora più palese – ci sembra – negli ultimi decenni, in un’epoca di incertezze nella quale la profonda crisi delle democrazie post-moderne sta mettendo a nudo le loro intime contraddizioni e la crescente incapacità di resistere a molti degli urti interni ed esterni a cui sono soggette.
Note
* Nota a DOMENICO FISICHELLA, La democrazia contro la realtà. Il pensiero politico di Charles Maurras, Roma, Carocci, 2006.
[1] Ad uno dei massimi esponenti del cosiddetto “tradizionalismo cattolico”, Joseph-Marie de Maistre, lo studioso italiano ha dedicato le seguenti monografie: DOMENICO FISICHELLA, Giusnaturalismo e teoria della sovranità in Joseph de Maistre, Messina-Firenze, D’Anna, 1963 (poi inserito nella sua raccolta Politica e mutamento sociale, Lungro di Cosenza, Marco, 2002, pp. 191-243); Id., Il pensiero politico di de Maistre, Roma-Bari, Laterza, 1993 (con antologia di testi); Id., Joseph de Maistre pensatore europeo, Roma-Bari, Laterza, 2005. Intorno a quest’ultimo libro e – in generale – a proposito di Fisichella interprete di Maistre, ci permettiamo di rinviare alla nota (priva d’intitolazione), a cura di chi scrive, apparsa in «Recensioni filosofiche», n.s., a. VIII (2005-2006), n. 6 [aprile 2006] (< http://www.recensionifilosofiche.it/crono/2006-04/fisichella.htm >); tale intervento, accresciuto e migliorato, è poi uscito (sempre senza titolo) nella versione digitale della rivista «Araucaria» [20.3.2008], all’indirizzo < http://www.institucional.us.es/araucaria/otras_res/resegna_4.htm >.
Sul caposcuola dei sociologi e dei positivisti sociali, Isidore-Auguste-Marie-Xavier Comte (e pure sul suo maestro, Claude-Henri de Rouvroy de Saint-Simon [1760-1825]), Fisichella ha mandato alle stampe Il potere nella società industriale. Saint-Simon e Comte, Napoli, Morano, 1965 (poi: Roma-Bari, Laterza, 1995).
Naturalmente, Maurras si rivela tributario anche delle riflessioni di Louis-Gabriel-Ambroise de Bonald, sul quale ci si limita a rimandare qui di seguito soltanto ad alcuni degli studi più significativi pubblicati negli ultimi due decenni: LUIS FERNANDO MÚGICA, Tradición y revolución: filosofía y sociedad en el pensamiento de Louis de Bonald, Pamplona, EUNSA, 1988; PAOLO PASTORI, Rivoluzione e potere in Louis de Bonald, Firenze, Olschki, 1990; SANDRO CHIGNOLA, Società e costituzione. Teologia e politica nel sistema di Bonald, Milano, Angeli, 1993; DAVID KLINCK, The French Counterrevolutionary Theorist Louis de Bonald (1754-1840), New York - Washington - Paris, Lang, 1996; JESÚS MARÍA OSÉS GORRAIZ, Bonald o lo absurdo de toda revolución, Pamplona, Universidad Pública de Navarra, 1997; MICHEL TODA, Louis de Bonald. Théoricien de la contre-révolution, Paris, Clovis, 1997; JACQUES ALIBERT, Les triangles d’or d’une société catholique. Louis de Bonald théoricien de la Contre-Révolution, Paris, Téqui, 2002; TERESA SERRA, La critica della democrazia in Joseph de Maistre e Louis de Bonald, Roma, Aracne, 2005; GIORGIO BARBERIS, Louis de Bonald. Potere e ordine tra sovversione e Provvidenza, Brescia, Morcelliana, 2007.
[2] Per una sintesi di queste informazioni bio-bibliografiche sullo studioso italiano, cfr. DOMENICO FISICHELLA, “Premessa” a Id., Joseph de Maistre pensatore europeo, cit., pp. IX-X.
[3] Questo, peraltro, costituisce da tempo uno degli oggetti di indagine più frequentati da Fisichella. Su tale vastissima tematica, che è strettamente intrecciata a quelle della nascita della tecnocrazia contemporanea, della crisi della politica e del primato della “competenza” sull’“elezione”, lo studioso italiano ha recentemente dato alle stampe un libro: DOMENICO FISICHELLA, Crisi della politica e governo dei produttori, Roma, Carocci, 2007. Nell’impossibilità di segnalare la gran messe di contributi su questi argomenti, ci limitiamo a citare solo due testi da poco pubblicati che, pur nella loro sostanziale diversità, offrono analisi e spunti di riflessione di prim’ordine: DIMITRI D’ANDREA, L’incubo degli ultimi uomini. Etica e politica in Max Weber, Roma, Carocci, 2005 (sul volume, ci sia consentito rimandare alla nostra nota, dal titolo “La traiettoria della modernità in Max Weber e gli spazi della politica dopo le rivoluzioni”, apparsa in «Bibliomanie», a. III [2007], n. 10 [< http://www.bibliomanie.it/traiettoria_modernita_max_weber_venturelli.htm >]); GIOVANNI GRANDI, “Dopo i ‘tecnici’ arriveranno ancora i ‘politici’?”, «SIFP» [26.1.2006], < http://www.sifp.it/cantiere.php?idMess=450 >.
[4] DOMENICO FISICHELLA, La democrazia contro la realtà. Il pensiero politico di Charles Maurras, Roma, Carocci, 2006, p. 160 (d’ora in poi: Democrazia).
[5] Democrazia, p. 160. Nella visione maurrassiana, si può definire métèque anche – e più propriamente – lo straniero che proviene dalle colonie francesi: come tale, egli è membro di uno dei «quattro Stati confederati», ossia di uno dei quattro gruppi di individui che, servendo interessi esterni alla società transalpina, la corrodono via via. Secondo l’autore provenzale, gli altri elementi esogeni organizzati sono l’ebreo, il protestante e il massone. Per fronteggiare la loro attività dissolutrice, egli mette a punto quattro coordinate di quella «monarchia nazionale» che – come vedremo in seguito – rappresenta il cuore della sua proposta “reazionaria”: ereditarietà, decentramento, antiparlamentarismo e tradizione. Ci sembra che l’analisi di Fisichella intorno ai «quattro Stati confederati» sia da integrare con le accurate argomentazioni svolte in un articolo pubblicato di recente: cfr. DANIELE ROCCA, “La Teoria dei Quattro Stati nel pensiero di Charles Maurras”, «Teoria politica», a. XXIV (2008), fasc. 1, pp. 157-172.
[6] VINCENZA PETYX, Dimenticare la Rivoluzione. La cultura di destra nella Francia di fine Ottocento, Napoli, La Città del Sole, 1995, p. 176.
[7] VINCENZA PETYX, Dimenticare la Rivoluzione, cit., p. 176.
[8] DANIELE ROCCA, “La Teoria dei Quattro Stati nel pensiero di Charles Maurras”, cit., p. 164.
[9] Democrazia, pp. 61-62.
[10] Democrazia, p. 62. È da segnalare che, almeno fino alla prima metà degli anni Trenta del secolo scorso, molte di queste posizioni favorevoli al cattolicesimo romano del Sillabo (1864) e ostili al mondo moderno, al cosmopolitismo e all’ebraismo sono sostanzialmente condivise da Jacques Maritain (1882-1973), che tra il 1920 e il 1927 è la firma più prestigiosa dell’organo ufficiale de facto dell’Action Française di Maurras, «La Revue Universelle» (periodico diretto da Jacques Bainville e il cui caporedattore è Henri Massis). Su tali questioni, cfr. – tra gli ultimi – RUGGERO TARADEL, “Jacques Maritain e il mistero d’Israele. I”, «Dialegesthai», a. VIII (2006), § 4: < http://mondodomani.org/dialegesthai/rta01.htm >.
[11] CHARLES MAURRAS, Œuvres Capitales. Essais Politiques, Paris, Flammarion, 1973, p. 89 (Trois idées politiques: Chateaubriand, Michelet, Sainte-Beuve, 1898).
[12] Democrazia, p. 49.
[13] Democrazia, p. 49.
[14] Democrazia, p. 140.
[15] Una delle prime tappe – se non già quella di esordio – della linea di pensiero secondo cui le sfere di competenza dello Stato e della società civile debbono conservarsi ben distinte, è rappresentata dal dibattito etico-politico fiorentino del primo Cinquecento, come dimostrano in maniera inequivocabile il capitolo XXI del Principe (1513) di Machiavelli (cfr. NICCOLÒ MACHIAVELLI, Il Principe, a cura di Giorgio Inglese, con un saggio di Federico Chabod, Torino, Einaudi, 1995, pp. 152-153) e i “ricordi” B 94 e C 93 di Guicciardini (cfr. FRANCESCO GUICCIARDINI, Ricordi. Con il saggio “L’uomo del Guicciardini” di Francesco De Sanctis, a cura di Sergio Marconi, Milano, Feltrinelli, 1983, rispettivamente p. 133 e p. 75; si noti che, in questo volume, la versione B – del 1528 – è posposta alla C – risalente al 1530). Ci si consenta di segnalare che, su tali aspetti, hanno appena focalizzato l’attenzione Paolo Prodi e il sottoscritto: cfr. PAOLO PRODI, Lessico per un’Italia civile, a cura di Piero Venturelli, Reggio Emilia, Diabasis, 2008, pp. 231-237 (trattasi della voce “Pubblico e privato”).
[16] Democrazia, p. 44.
[17] CHARLES MAURRAS, Mes idées politiques (1937), Paris, Fayard, 1948, p. 51.
[18] Democrazia, p. 120.
[19] Democrazia, p. 41. Sulla raison universelle nell’orizzonte dottrinale del celebre autore savoiardo e sulla contrapposizione tra questo concetto e quello di raison individuelle, cfr. DOMENICO FISICHELLA, Joseph de Maistre pensatore europeo, cit., passim (specie pp. 70-82). Ci si permetta, poi, di rimandare al nostro articolo “Tradizione e Modernità in Joseph de Maistre”, «SIFP» [25.10.2006], all’indirizzo < http://www.sifp.it/articoli.php?idTem=3&idMess=521 >, passim (specie cap. II, §§ 2-3 e 5-6).
[20] Democrazia, p. 57.
[21] Democrazia, pp. 57-58. In questo e simili punti di vista, Maurras si mostra assai vicino alle concezioni di Maistre, il quale esalta il magistero della «ragione calma» (Œuvres complètes de Joseph de Maistre, 14 tt., Vitte et Perrussel, Lyon, 1884-1886, t. VI, p. 456 [Examen de la philosophie de Bacon, 2 tt., 1836 – postumo]). Più in generale, sull’opposizione tra raison universelle e raison individuelle in Maistre, cfr. supra, nota 19.
[22] CHARLES MAURRAS, Œuvres Capitales, cit., p. 33 (Romantisme et révolution, 1922)
[23] Risulta pressoché totale, ancora una volta, l’aderenza tra queste tesi di Maurras e le posizioni che Maistre esprime sui medesimi argomenti. Per approfondimenti sulle concezioni del filosofo savoiardo intorno alla raison, cfr. supra, note 19 e 21.
[24] Democrazia, pp. 60-61. Il teorico provenzale definisce – alla lettera – «spirito di progresso e di ordine» lo spirito classico, e lo fa in un luogo di Trois idées politiques: Chateaubriand, Michelet, Sainte-Beuve: cfr. CHARLES MAURRAS, Œuvres Capitales, cit., p. 88.
[25] È quasi superfluo segnalare che Rousseau è uno dei bersagli polemici preferiti degli autori anti-illuministi di tutte le generazioni, compreso naturalmente Maistre, i cui punti di vista sul filosofo svizzero – peraltro – si discostano ben poco da quelli di Maurras (a parte il riferimento che quest’ultimo fa all’“impronta” giudea da lui rinvenuta nelle concezioni del Ginevrino, richiamo assente negli scritti del gentiluomo savoiardo). Sull’interpretazione maistriana delle opere di Rousseau, cfr. ERNEST SEILLIÈRE, “Joseph de Maistre et Rousseau”, «Séances et travaux de l’Academie des sciences morales et politiques. Compte rendu», vol. CXCIV (1920), pp. 321-363; RICHARD ALLEN LEBRUN, “Joseph de Maistre and Rousseau”, «Studies on Voltaire and the Eighteenth Century», vol. LXXXVIII (1972), pp. 881-898; VINCENZA PETYX, “Stato di natura e società civile nel pensiero della Restaurazione”, «Rivista di filosofia», vol. LXXVII (1986), fasc. 1, pp. 173-204; Id., I selvaggi in Europa. La Francia rivoluzionaria di Maistre e Bonald, Napoli, Bibliopolis, 1987, pp. 115 e segg., 174-177; MARCO RAVERA, Joseph de Maistre pensatore dell’origine, Milano, Mursia, 1986, pp. 69 e segg.; Id., Introduzione al tradizionalismo francese, Roma-Bari, Laterza, 1991, pp. 21 e segg.; GRAEME GARRARD, “Rousseau, Maistre, and the Counter-Enlightenment”, «History of Political Thought», a. XV (1994), fasc. 1, pp. 97-120; DOMENICO FISICHELLA, Joseph de Maistre pensatore europeo, cit., passim.
[26] Democrazia, p. 69.
[27] Democrazia, p. 70.
[28] Democrazia, p. 71.
[29] Democrazia, p. 71.
[30] Democrazia, p. 131.
[31] Democrazia, p. 111.
[32] Democrazia, p. 112.
[33] Democrazia, p. 112.
[34] Democrazia, p. 112.
[35] Democrazia, p. 126.
[36] Su questi temi scrive – fra l’altro – il pensatore transalpino: «La monarchia è la pace pubblica. Questa pace rende tutte le riforme possibili. Che dico? Le rende necessarie in nome del suo stesso mantenimento» (CHARLES MAURRAS, Enquête sur la monarchie 1900-1909, Paris, Nouvelle Librairie Nationale, 19115, pp. 23-24).
[37] Democrazia, p. 127. Per ampliare lo sguardo su questi aspetti, cfr. MAURO LENCI, “Montesquieu, Burke e l’illuminismo”, in Domenico Felice (a cura di), Montesquieu e i suoi interpreti, 2 tt., Pisa, ETS, 2005, t. I, pp. 433-459.
[38] Democrazia, p. 150.
[39] Democrazia, p. 109.
[40] Democrazia, p. 110.
[41] Democrazia, pp. 110-111.
[42] Democrazia, pp. 118-119.
[43] Democrazia, p. 119.
[44] CHARLES MAURRAS, Œuvres Capitales, cit., p. 471 (Vingt-cinq ans de monarchisme, 1909-1924).
[45] Democrazia, pp. 133-134.
[46] Democrazia, p. 134.
[47] Democrazia, p. 169.
[48] Democrazia, p. 169.
[49] VINCENZA PETYX, Dimenticare la Rivoluzione, cit., pp. 160-161.
[50] Focalizza l’attenzione su questo aspetto del pensiero maurrassiano anche DANIELE ROCCA, nell’articolo “La Teoria dei Quattro Stati nel pensiero di Charles Maurras”, cit., pp. 166-168.
[51] Democrazia, pp. 134-135.
[52] CHARLES MAURRAS, Mes idées politiques, cit., pp. 178-179.
[53] Democrazia, p. 135.
[54] Democrazia, pp. 135-136.
[55] Democrazia, p. 152.
[56] Democrazia, p. 153.
[57] Democrazia, p. 164.
[58] Democrazia, p. 164.
[59] Democrazia, p. 164.
[60] Democrazia, p. 164.
[61] Democrazia, p. 164.
[62] Democrazia, p. 165. Per approfondire la storia e i caratteri costitutivi del governo misto, ci limitiamo a indicare i due libri seguenti: ALOIS RIKLIN, Machtteilung. Geschichte der Mischverfassung, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 2006; DOMENICO TARANTO, La miktè politéia tra antico e moderno. Dal “quartum genus” alla monarchia limitata, Milano, Angeli, 2006. Su questa seconda opera, ci si permetta di rimandare alla nostra nota (priva di titolo), apparsa nel n. XII (2007) della rivista telematica annuale «Cromohs»: cfr. < http://www.cromohs.unifi.it/12_2007/venturelli_taranto.html >.
[63] Democrazia, p. 131.