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di Michelangelo Schipa
Tomaso Aniello, detto M., nacque in Napoli da Cicco (Francesco)
d'Amalfi e Antonia Gargano nel giugno 1620. Rimasto orfano,
analfabeta, fattosi garzone di un pescivendolo, sposò a
ventun anno Bernardina Pisa sedicenne.
Vizioso, dissoluto, orgoglioso, prepotente, ma gioviale, arguto,
destro nella necessità di sbarcare la giornata, nutriva e
ispirava, secondo i casi odî e rancori, simpatie e
benevolenza. Tale essendo l'uomo, rimarrebbe un enigma ciò
che egli fu poi, se non si tenesse conto di certe circostanze
speciali. Erano suoi cognati Ciommo (Girolamo) Donnarumma e Mase
Carrese: l'uno salumaio e fruttivendolo al Pendino; l'altro ortolano
di Pozzuoli. Era suo compagno Carlo Catania, ricco fornaio della
Duchesca; e suo amico un ex-capitano Micaro (Domenico) Perrone,
detto Abate, collega e compagno in contrabbandi dell'ex-capitano
Peppe Palumbo. Era "confidentissimo ,' di M., anzi (per le lingue
maligne) di Bernardina, un frate Savino Boccardo, converso e cuoco
dei monaci del Carmine, che per la festa della Madonna (16 luglio)
si assumeva di apparecchiare e dirigere la giostra degli Alarbi,
monelli dei dintorni, che, armati di canne, parte assaltavano, parte
difendevano un castelletto di legno che si erigeva in mezzo al
Mercato. In una delle sue permanenze nel carcere dell'Ammiragliato,
M. aveva avuto occasione di conoscere un altro prigioniero, il
dottore Marco Vitale, figlio del dottor Matteo, che una ventina
d'anni prima era stato amico di D. Giulio Genoino. Ciò che
più importa, quest'ultimo, quando vide in fermento la plebe
pel ristabilimento dell'odiata gabella sulle frutta, avvicinò
M. che ammaestrò a suo modo.
La notte del 6 giugno 1647 andò in fiamme il casotto della
gabella. Lo stesso M. dichiarerà poi aver lui bruciata la
baracca. Dieci giorni dopo, visto l'abate Perrone alla porta del
Carmine, gli parlò di vendette che intendeva eseguire e se ne
assicurò l'appoggio. Intanto da fra Savino si fece conferire
il comando degli Alarbi della giostra. Tra la fine di giugno e il
principio di luglio 1647, duecento monelli, armati di canne al
comando di M. andarono gridando "voler battere la rocca"; ma sotto
la reggia gridarono pure: "senza gabella", e indisturbati
provocarono anche la sbirraglia. Dopo ciò, M. suggerì
ai due cognati e ad altri bottegai, per la domenica 7 luglio, di
recarsi al Mercato e rifiutarsi di pagar la gabella. Ne consegui il
primo tafferuglio, tra venditori e compratori da un lato, e
gabellieri dall'altro. M. scagliò i suoi Alarbi
all'arrembaggio delle frutta, poi al lancio di frutta e di sassi sui
gabellieri e sui loro difensori. Il nucleo degli assalitori crebbe
in massa, armata di bastoni. M. l'arringò e comandò
che s'incendiassero tutti gli uffici daziarî; e a sera,
facendo dar l'allarme dalla campana del Carmine, sollevò a
rumore tutti i bassi quartieri popolari adiacenti al Mercato. Oltre
a lui, varî capi guidarono i tumultuanti a quell'opera
incendiaria e ad altre rovine successive. Nella chiesa del Carmine
stavano a impartire ordini i maggiori promotori dell'agitazione, e
primo fra loro il Genoino. Quindi fu invasa la reggia al grido che
si voleva il privilegio di Carlo V. Si forzarono le carceri,
disarmando i guardiani, liberando i prigionieri. Cresciuta in forza
di numero e di armi, la folla si sbrancò a vendicare le
sofferenze durate contro gli autori, i promotori e gli sfruttatori
delle gabelle. Poi gli altri capi per varî motivi e in diversa
maniera sparvero dalla scena. Padrone del campo rimase M.
Pronunziò sentenze, organizzò la milizia
rivoluzionaria, che inviò e guidò contro i soldati di
Filippo IV, riordinò a base popolare l'amministrazione
cittadina. Tutta quell'opera parve prodigio ai posteri, non
però ai contemporanei, che vedevano dietro di lui il Genoino
suggerirgli atti e parole, e accanto a lui il dottor Vitale servirlo
da segretario.
Il viceré, dopo aver tentato di corromperlo, dovette venire a
patti con lui. Un gruppo di banditi assoldati dalla nobiltà
cercò d'ammazzarlo il mercoledì 10 luglio. M., rimasto
i leso, vide cresciuto da questo attentato il suo prestigio, tanto
più che in pochi giorni fece del brigantaggio uno sterminio
per anni e anni non saputo fare dai viceré. Il giorno dopo,
accolto a Palazzo reale, fece sottoscrivere dal viceré la
capitolazione redatta dal Genoino e venne riconosciuto "Capitan
generale del fedelissimo popolo napoletano". Ma il dislivello fra il
fastigio a cui fu sbalzato e il basso grado della sua cultura, il
suo istinto natio, la sua vita passata, gli sconvolsero la mente.
Già il venerdì 12 luglio egli mostrò i segni
della sua infermità, che, crescendo nelle due giornate
successive, si rivelò pazzia furiosa. Gli stessi amici
decisero di sbarazzarsene. Fu ucciso nel monastero del Carmine il 16
luglio.
La testa, spiccata dal busto, fu portata trionfalmente alla reggia;
il resto del corpo fu abbandonato fra le lordure della Marina.
Generale fu il tripudio, ma di un giorno solo. L'indomani la
"palata" (di pane, a prezzo fisso) fu scemata di peso di un terzo; e
la bassa gente rifletté che con M. ciò non sarebbe
avvenuto, e tornò a tumultuare. A rabbonirla, gli stessi
autori del recente strazio ricercarono il corpo di M., lo
ricomposero, lo vestirono da generalissimo e in pompa solenne, lo
portarono a seppellire nella chiesa del Carmine.