Marxismo e Anarchismo
Le radici filosofiche del conflitto
Marx-Bakunin
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Sono state fornite molte spiegazioni del conflitto tra Marx e
Bakunin. C'è chi ha posto l'accento sul carattere
intrattabile dei due filosofi, che precluse ogni accordo. Tuttavia
ad un'analisi più attenta, come quella sviluppata in questo
articolo (pubblicato sul sito In defence of Marxism), si
noterà che le differenze tra marxismo ed anarchia sono
così profonde da rendere le analogie più apparenti che
reali.
“Ancora una volta affermo che, non essendo un fedele discepolo di
Marx, non ho l’autorità per esprimere un giudizio. La mia
impressione, per quello che può valere, è che il primo
Marx fosse espressione del tardo Illuminismo, divenuto col tempo
un’attivista piuttosto autoritario e un’analista critico del
capitalismo, che aveva poco da dire rispetto ad alternative di tipo
socialista. Ma queste sono appunto solo impressioni.” Noam Chomsky.
I tempestosi rapporti tra Marx e Bakunin sono un lascito della
storia del socialismo occidentale. Entrambi membri dell’Associazione
Internazionale dei Lavoratori, sembra che abbiano impiegato le
stesse energie utilizzate contro il nemico comune, il sistema
capitalista, per farsi la guerra tra loro, culminata con
l’espulsione di Bakunin dall’organizzazione propugnata da Marx
stesso. Benché mantenessero talvolta cordiali rapporti, non
lesinavano mutui attestati poco cordiali. Secondo Marx, Bakunin era
“un uomo privo di conoscenze teoriche” e “sostanzialmente un
intrigante”, [1] mentre Bakunin sosteneva che “…[Marx] non conosce
l’istinto di libertà; rimane un autoritario dalla testa ai
piedi.” [2]
Per alcuni l’intensità dello scontro fu imbarazzante,
considerando che i fini dei due autori sembrano combaciare. Convinti
che il capitalismo trovi fondamento nello sfruttamento dei
lavoratori da parte dei capitalisti, entrambi lottavano per una
società socialista senza classi, in cui ogni individuo avesse
l’opportunità di sviluppare le proprie capacità
creative. Il socialismo è per loro eliminazione della
divisione tra lavoro manuale e intellettuale e tra uomini e donne.
In altre parole, il sistema doveva essere trasformato in modo che
ogni lavoratore avesse una parte attiva nell’organizzazione, nella
pianificazione e nell’ottimizzazione del processo lavorativo.
Inoltre, per entrambi, gli oppressi dovevano liberarsi da soli – non
ci si poteva attendere alcuna benevolenza da parte dei membri della
classe dominante; e per avere successo, la rivoluzione doveva
assumere un carattere internazionale. Infine concordavano sul fatto
che lo Stato fosse uno strumento dell’oppressione di classe, e non
un organo neutrale che rappresenta con equità gli interessi
di tutti, e dovesse perciò, in ultima analisi, essere
abolito. La Comune di Parigi del 1871 era, secondo loro, il modello
da emulare.
Tuttavia c’era un punto di conflitto profondo inerente due diverse
concezioni dello Stato. Mentre Marx prevedeva uno stadio intermedio
tra capitalismo e comunismo maturo, uno stato sotto forma di
dittatura del proletariato (cioè uno stato operaio), Bakunin
aborriva qualunque sistema statale, sia pure operaio. Ecco il
principio generatore dell’idea anarchica, termine che significa
letteralmente “nessun governo”. Per Bakunin l’unica seria opzione
rivoluzionaria doveva prevedere l’immediato passaggio ad una
società comunista matura che, e qui i due autori tornavano in
accordo, si sarebbe distinta per l’assenza di stato. Corollario di
questa divergenza era che Marx sostenesse i tentativi delle
organizzazioni operaie indipendenti di perseguire i propri scopi di
classe facendo pressioni per riforme quali la riduzione dell’orario
di lavoro, sostenendo che eventuali successi avrebbero favorito lo
sviluppo di una coscienza di classe, mentre Bakunin contestava
questa linea. Per lui ogni coinvolgimento politico avrebbe
costituito una distorsione del processo rivoluzionario, non si
doveva assolutamente frequentare l’arena politica borghese. C’era
dissenso anche sulle forme più adatte all’organizzazione
rivoluzionaria. Bakunin creava con entusiasmo società segrete
che dovevano servire da catalizzatori della rivolta rivoluzionaria
mentre Marx rigettava totalmente quest’idea. Anche il ruolo dei
contadini nel movimento rivoluzionario era infine in discussione.
Secondo Bakunin poteva essere determinante, per Marx solo il
proletariato era in grado di condurre l’azione rivoluzionaria.
Considerata la preponderanza dei punti d’accordo, alcuni
commentatori hanno caratterizzato l’interminabile diatriba che
caratterizzò il loro rapporto come il risultato di differenti
inclinazioni personali. Ad esempio Bakunin è stato accusato
di essere contemporaneamente antisemita e antitedesco, mentre Marx
sarebbe stato vittima di un’incurabile e rigida tendenza
all’autoritarismo. In ogni caso un più attento esame delle
irriducibili differenze deve muovere da una ricerca approfondita
sulle strutture filosofiche divergenti che stanno alla base delle
rispettive analisi politiche. Come vedremo, i concetti fondamentali
di ognuno sono talmente differenti tra loro da rendere gli stessi
punti di convergenza più illusori che sostanziali.
Le posizioni filosofiche di Bakunin
I più importanti concetti filosofici alla base dell’approccio
di Bakunin alla realtà umana provengono dall’Illuminismo
europeo, in particolare dalla scuola empirista di questa tradizione,
dei cui principi tracceremo ora una breve descrizione.
Essendo stati testimoni degli enormi successi ottenuti
nell’approccio alle scienze naturali da studiosi del calibro di
Newton e Galileo tra gli altri, molti filosofi illuministi furono
tentati di trasporne sia il metodo che gli assunti principali nel
dominio delle scienze umane. Ciò portò
all’elaborazione di concetti quali l’idea che specie differenti d’
oggetti naturali contengano ognuno un’unica, definita e immutabile
essenza; o che gli oggetti interagiscano tra di loro secondo leggi
meccaniche fisse di causa ed effetto e che quindi anche le
interazioni tra individui siano regolate da leggi identificabili e
codificabili tramite l’attenta osservazione diretta.
Conseguentemente i pensatori illuministi considerarono gli esseri
umani creature naturali tra le altre, con un’essenza permanente loro
propria e comportamenti interamente determinati da cause
naturali. Questo approccio era sintetizzato dal popolare
ricorso al concetto di “stato di natura”, cioè precedente, in
senso letterale o figurato, alla nascita di società
organizzate, immagine che richiamava una condizione “immacolata”
della natura umana, prima dei cambiamenti imposti dall’impatto con
la società. I filosofi dell’epoca, in pieno sviluppo
capitalistico, consideravano gli uomini come individui autonomi,
indipendenti e individualisti, fortemente inclini a perseguire i
propri interessi personali, seguendo i dettami borghesi vigenti.
In qualche modo Bakunin si allontanò da questa tradizione
filosofica rifiutando la descrizione essenzialmente individualistica
degli uomini. Per esempio derideva l’idea che la società
nascesse da contratti stipulati tra singoli individui indipendenti,
definendola una “finzione” filosofica, sostenendo al contrario che
gli uomini fossero naturalmente sociali ed avessero sempre vissuto
in comunità. Ma sottoscrisse pienamente l’approccio secondo
cui l’uomo dovrebbe, da un punto di vista teorico, essere
considerato alla stregua di qualunque altro oggetto naturale, con un
comportamento totalmente governato da leggi naturali meccaniche. Le
seguenti citazioni offrono un esempio di questa visione:
“Ci sono molte leggi che, nonostante la nostra inconsapevolezza,
fanno muovere [la società]; si tratta di leggi naturali,
inerenti il corpo sociale…Esse hanno governato la società
umana sin dalla sua nascita indipendentemente dalle opinioni e dalla
volontà degli uomini ad essa appartenenti.” [3]
“[Le leggi naturali]…fanno parte della nostra essenza nel senso
più generale, fisicamente, intellettualmente, moralmente;
solamente tramite queste leggi noi possiamo vivere, respirare,
agire, pensare e desiderare.” [4]
“Storia e statistiche ci dimostrano che il corpo sociale, come ogni
altro oggetto naturale, nelle sue trasformazioni evolutive obbedisce
a leggi generali necessarie tanto quanto quelle che regolano il
mondo fisico.” [5]
“L’uomo non è nient’altro che Natura… E la Natura avvolge,
permea, forma la sua intera esistenza.” [6]
L’etica di Bakunin appare a prima vista come una logica conseguenza
del suo generale approccio naturalistico nel momento in cui fa
coincidere moralità e naturalità:
“La legge morale…ha senza dubbio fondamenti reali…perché
emana direttamente dalla vera natura della società umana, le
cui radici non vanno ricercate in Dio ma nell’animalità.” [7]
“Parlo di quella giustizia basata esclusivamente sulla coscienza
umana, il senso di giustizia che ognuno di noi, anche da bambino,
sente nel profondo del suo essere, che si traduce semplicemente nel
concetto d’ uguaglianza.” [8]
In altre parole, c’è un sentimento umano naturale di
giustizia insito e immutabile nella natura umana.
Il concetto che Bakunin ha del male non è affatto solido. Da
un lato sembra seguire la tradizione empirista che lo identifica
comunque con qualcosa di naturale: “Sappiamo bene, in ogni caso, che
Bene e Male non sono nient’altro che risultati conseguenti da cause
naturali, e che quindi sono entrambi inevitabili.” [9] Dall’altro,
forse trovandolo politicamente conveniente, egli considera il Male
non come un impulso o sentimento naturale, ma come qualcosa di
“innaturale” , esterno al campo di applicazione delle leggi
naturali, che con la sua esistenza crea un sistema duale. Per sua
natura ciò che non è governato da queste leggi
è innaturale, artificiale, e può essere dominato solo
con il continuo ricorso a forza e coercizione: “Dobbiamo saper
distinguere molto bene le leggi naturali dalle leggi autoritarie,
arbitrarie, politiche, religiose, criminali e civili instaurate
dalle classi privilegiate…”[10]
Un’ultima importante componente dell’arsenale ideologico di Bakunin
è la nozione di libertà. Quando Marx e Bakunin
menzionano questo termine, hanno in mente due concetti completamente
differenti. L’idea di Bakunin contiene elementi importanti. Per
esempio egli ritiene che agire liberamente significhi prima di tutto
agire “naturalmente”, in accordo con i propri impulsi naturali: “La
libertà dell’uomo consiste esclusivamente in questo: egli
obbedisce a leggi naturali che egli stesso riconosce come tali e non
come imposte da una qualunque volontà esterna, divina, umana,
collettiva o individuale che sia.” [11] In altri termini siamo al
concetto di uomini come creature naturali dominate da leggi
naturali. Agire naturalmente significa semplicemente essere
spontanei, essere “sé stessi”: “Ancora una volta, è la
Vita, non la scienza, che crea la vita stessa; l’agire spontaneo
delle masse, da solo, può creare libertà”. [12]
L’identificazione tra libertà e spontaneità, o
comportamento impulsivo, conduce ad un secondo aspetto della
definizione bakuniana. Egli sostiene che la libertà possa
essere esercitata da un singolo, isolato individuo all’interno di
una comunità umana, che sia possibile agire spontaneamente in
totale solitudine, senza alcuna capacità mentale speciale
acquisita. Quindi per Bakunin il concetto di libertà è
individuale, non fa riferimento a tutti gli uomini costituenti una
comunità.
“La libertà…consiste nell’ avere la possibilità, come
uomo, di non obbedire a nessun altro e di agire solo sulla base del
proprio giudizio personale.” [13]
“Libertà è il diritto assoluto di uomini e donne
adulte a rispondere delle proprie azioni solo al cospetto della
propria coscienza e della propria ragione, a essere i soli a
determinare le proprie libere volontà, e conseguentemente ad
essere responsabili di sé stessi verso sé stessi,
prima di tutto, e poi nei confronti della società, di cui
fanno parte, ma solo fino a quando acconsentono ad appartenervi.”
[14]
Comunque, ritenendo che gli uomini tendessero naturalmente alla
socialità, a volte cercò di dimostrare che questo
concetto di libertà operava coerentemente nella
comunità umana:
“Mi considero un fanatico della libertà…Non parlo della
libertà formale dispensata, misurata e controllata dallo
Stato…e nemmeno di quella individuale, egoista, vile e fraudolenta
magnificata dai seguaci di Jean Jacques Rosseau e da ogni altra
scuola di pensiero del liberalismo borghese, che considera i diritti
di tutti, rappresentati dallo Stato, come un limite al diritto di
ognuno…No, io intendo l’unica libertà degna di questo nome,
quella che implica lo sviluppo di tutte le capacità
materiali, morali ed intellettuali latenti in ognuno di noi; la
libertà che non conosce confini, se non quelli imposti dalle
leggi della propria natura, né conseguentemente restrizioni,
poiché queste leggi non ci sono imposte da nessun legislatore
esterno. Esse sono soggettive, proprie appunto della nostra natura,
costituenti fondamentali della nostra essenza…La libertà di
ogni uomo che non considera quella di un suo simile come frontiera
ma come conferma ed estensione della propria; libertà per
mezzo di solidarietà, nell’ uguaglianza.” [15]
Lasciando perdere eventuali questioni di coerenza con le sue prime
formulazioni, Bakunin sostiene che è nella nostra natura
vivere uniti in uguaglianza, cooperando gli uni con gli altri, senza
sfruttatori né sfruttati. Per cui, agendo naturalmente e
quindi liberamente, di certo non danneggerò il mio vicino,
piuttosto consentirò anche a lui di vivere secondo natura. In
questo modo la libertà del singolo serve a confermare ed
estendere la propria. Ma, ancora, questa concezione di
libertà è incentrata sull’individuo: “…libertà
e prosperità collettive esistono solo come sommatoria di
libertà e prosperità individuali.” [16]
Per riassumere: Bakunin agisce, per sommi capi, in un contesto
di pensiero naturalistico dominato dalla corrente empirista
dell’Illuminismo. Gli esseri umani fanno parte di un ambiente
naturale dato, nel quale i comportamenti sono determinati in base a
leggi naturali. Questa condizione è identificata con il Bene.
Ma nel momento in cui la coercizione entra nelle relazioni tra gli
individui, ci si sposta nel regno dell’innaturale. Alienati dalla
nostra condizione naturale ci troviamo a perdere la nostra
libertà.
La filosofia di Marx
Mentre le principali asserzioni teoriche di Bakunin erano saldamente
radicate nella filosofia materialista dell’Illuminismo, Marx si
confrontò con questa tradizione solo dopo che, per merito di
Hegel, questa aveva subito significative trasformazioni. In primo
luogo Hegel rigettò l’idea di genere umano come specie
sottoposta alle medesime ed immutabili leggi governanti il resto del
mondo naturale. Piuttosto postulò l’idea di un’umanità
coinvolta in un processo evolutivo, in continua e tumultuosa
trasformazione nel suo percorso tendente ad una razionalità
sempre maggiore. Inoltre quest’ impresa era concepita come grande
sforzo collettivo poiché la razionalità, in ultima
analisi, è un attributo che richiede, dal momento della sua
comparsa e nel suo continuo esercizio, il contributo dell’intera
specie. Per esempio, ogni generazione si trova a costruire sulle
realizzazioni razionali di quelle precedenti, ed in questo modo
l’umanità progredisce nella conoscenza scientifica della
realtà circostante. Alla fine, secondo Hegel, il processo
troverà la fine in uno stato di perfetta razionalità
in cui l’umanità avrà acquisito auto-coscienza e i
suoi membri saranno capaci di regolare i rapporti tra loro secondo
canoni condivisi e razionali, avendo raggiunto la consapevolezza di
sé stessi come specie razionale in senso comunitario.
Marx condivise la visione hegeliana di un’umanità alle prese
con un’intrapresa collettiva, ma argomentò a favore di una
logica differente alla base del processo. Per Hegel lo sviluppo
storico procedeva in parallelo al grado di presa di coscienza
raggiunto dell’uomo, mentre Marx lo faceva dipendere da una base
materiale. In particolare, riteneva che il modo in cui gli uomini
ricercano la soddisfazione dei propri bisogni primari imprima un
marchio sul tipo di società costruita, sui rapporti tra le
persone e sulle idee che formulano riguardo sé stesse e il
mondo che le circonda:
“ Nella produzione sociale della loro esistenza gli uomini vengono a
trovarsi in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro
volontà, cioè in rapporti di produzione corrispondenti
ad un determinato livello di sviluppo delle forze produttive
materiali. Il complesso di tali rapporti di produzione costituisce
la struttura economica della società, la base reale su cui si
eleva una sovrastruttura giuridica e politica e a cui corrispondono
determinate forme di coscienza sociale. Il modo di produzione della
vita materiale è ciò che condiziona il processo
sociale, politico e spirituale. Non è la coscienza degli
uomini che determina il loro essere, ma, al contrario, è il
loro essere sociale che determina la loro coscienza.” [17]
Inoltre questa concezione economica ha una logica che spiana la
strada ad un processo storico:
“…Dobbiamo cominciare con il constatare che il primo presupposto di
ogni esistenza umana, dunque anche di ogni storia, è che gli
uomini, per potere «fare storia», debbano essere in
grado di vivere. Ma al vivere si addice, innanzi tutto, il mangiare
e bere, l’abitazione, il vestiario e altre cose ancora. Il primo
fatto storico dunque la produzione di mezzi per la soddisfazione di
questi bisogni, la produzione della vita materiale stessa. (…)
Il secondo punto è che il primo bisogno soddisfatto, (…)
porta a nuovi bisogni – e questa produzione di nuovi bisogni
è il primo fatto storico.” [18]
Come per Hegel, anche per Marx questo sviluppo storico ha carattere
collettivo dato che gli uomini dipendono gli uni dagli altri sia per
la soddisfazione dei bisogni primari che per l’acquisizione di
necessità più elevate:
“Ciò che abbiamo di fronte, da cui dobbiamo partire, è
la produzione materiale. Gli individui producono in società –
quindi la produzione individuale socialmente determinata è,
senza dubbio, il punto di partenza.
Il cacciatore o il pescatore isolati dal contesto, da cui sono
partiti Smith e Ricardo, sono presunzioni prive d’immaginazione
tipiche del diciottesimo secolo. cose da Robinson Crusoe che in
nessun modo però esprimono unicamente una reazione contro
l’ultra-sofisticazione ed il ritorno ad una incompresa vita
naturale, come immaginano gli storici della cultura. Anche il
contratto sociale di Rousseau, che prevede soggetti naturalmente
autonomi ed indipendenti legati tra loro appunto per contratto,
poggia su un naturalismo di questo tipo.” [19]
Mentre Bakunin supponeva un’essenza umana fissa e naturale, Marx,
sul sentiero tracciato da Hegel, credeva che la natura umana stessa
fosse coinvolta in un processo evolutivo in cui si dispiegano i
tratti caratteristici di ogni epoca storica in modo da generare un
continuo movimento di ricostruzione della natura stessa. Mentre gli
uomini inventano strumenti sempre più elaborati da utilizzare
nei processi produttivi, contemporaneamente essi trasformano
sé stessi in individui più razionali e universali.
Inizialmente la razza umana era difficilmente distinguibile dal
resto del regno animale; gli uomini agivano in modo impulsivo, con
scarsa coscienza di sé e dell’ambiente circostante. In altre
parole, nella prospettiva di Marx, l’immagine bakuniana di
un’umanità come specie naturale immutabile, ha una parvenza
di validità solo nei primi momenti storici.
“Questo principio di coscienza animale tanto quanto la vita sociale
di questo stadio stesso, è semplice coscienza da gregge e
l’uomo si differenzia qui dal montone soltanto perché la sua
coscienza supplisce l’istinto ovvero il suo è un istinto
cosciente. Questa coscienza da montone o tribale ha un suo ulteriore
sviluppo e perfezionamento grazie all’accresciuta
produttività, all’accrescimento dei bisogni e all’incremento
della popolazione che sta alla base di entrambi.” [20]
Ma nel corso di una rivoluzione comunista, avviene un’importante
trasformazione: la classe operaia prende il controllo dei mezzi
produttivi e, per la prima volta, li dirige secondo un piano
cosciente e razionale:
“La dipendenza universale, questa forma naturale della cooperazione
degli individui sul piano storico-universale, viene trasformata
dalla rivoluzione comunista nel controllo, nel dominio cosciente di
queste potenze che, prodotte dall’interazione degli uomini, si sono
fino ad oggi imposte loro e li hanno dominati.” [21]
A questo punto gli uomini hanno abbandonato il loro vivere
animalesco e impulsivo a favore di un deliberato e razionale
controllo dei propri interessi. Ma il pieno e consapevole controllo
delle forze produttive può essere raggiunto solo se gli
uomini lavoreranno in cooperazione ed armonia reciproca, traguardo
impossibile da raggiungere finché regnano divisioni di classe
e sfruttamento, che precludono la possibilità di controllare
razionalmente le forze produttive:
“In primo luogo, le forze produttive appaiono del tutto indipendenti
e sganciate dagli individui, un mondo vero e proprio accanto agli
individui, che ha il suo fondamento in questo, che gli individui di
cui esse sono le forze, esistono frazionati e in contrapposizione
reciproca, mentre queste forze, d’altra parte, sono forze reali solo
nel rapporto e nel collegamento di questi individui.” [22]
Ecco perché il coinvolgimento di ogni individuo nel controllo
consapevole dell’economia è un prerequisito assoluto:
“In tutte le appropriazioni sino ad oggi una massa di individui
restò sottomessa ad un unico strumento di produzione;
nell’appropriazione da parte dei proletari, una massa di strumenti
di produzione viene sottomessa a ciascun individuo e la
proprietà viene sottomessa a tutti. Le relazioni universali
moderne non vengono sottomesse agli individui altrimenti che con
l’essere sottomesse a tutti.” [23]
In palese contrasto con Bakunin, secondo Marx una rivoluzione
vittoriosa non avrebbe significato il ritorno ad un’ originaria
essenza naturale soffocata dall’avvento dello Stato e dalle
differenziazioni di classe, ma la vera e propria nascita di un nuovo
genere umano:
“Sia per la produzione di massa di questa coscienza comunistiche per
il successo della cosa stessa, è necessaria una
trasformazione di massa degli uomini, che può avvenire solo
in un movimento pratico, in una rivoluzione; che dunque la
rivoluzione non è necessaria soltanto perché la classe
dominante non può essere rovesciata in nessun altro modo, ma
anche perché la classe rovesciante può riuscire solo
in una rivoluzione a togliersi di dosso tutto l’antico sudiciume e a
diventare capace di una rifondazione della società.” [24]
Quindi, tramite il processo rivoluzionario, il proletariato si
trasforma da classe passiva, sottomessa alla borghesia, in agente
indipendente capace di prendere in mano le redini della storia e
dirigere gli eventi secondo un piano cosciente. Siamo all’alba di
una nuova epoca in cui gli individui agiscono secondo logiche
collettive e consapevoli nel determinare le politiche sociali:
“Soltanto a questo stadio l’attività personale coincide con
la vita materiale, cosa che corrisponde allo sviluppo degli
individui come individui totali e alla liberazione da ogni
naturalità.” [25]
Vediamo perciò come Marx e Bakunin abbiano sviluppato due
visioni drammaticamente divergenti dell’umanità. Per Bakunin
la natura umana è statica e legata a ciò che è
fisicamente naturale, mentre per Marx l’umanità si trasforma,
lasciandosi alle spalle atteggiamenti animaleschi e raggiungendo
livelli sempre più elevati di razionalità e
autocoscienza.
Le loro dottrine etiche conseguentemente riflettono questi contesti
concettuali differenti. Bakunin identifica “bene” e “naturale”, Marx
relativizza storicamente questi termini giacché nuovi modi di
produzione produrranno nuovi parametri etici:
“La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza
è innanzitutto direttamente intrecciata
all’attività materiale e allo scambio materiale tra gli
uomini, linguaggio della vita reale. La rappresentazione, il
pensiero, lo scambio spirituale tra uomini appaiono qui ancora come
un’estrinsecazione diretta del loro comportamento materiale. Per la
produzione spirituale, come si presenta nel linguaggio delle leggi,
della politica, della morale, della religione, della metafisica,
ecc., delle loro rappresentazioni, delle loro idee, ecc., ma gli
uomini reali, che operano, sono, come loro condizionati da uno
sviluppo determinato delle loro forze produttive e dello scambio ad
esse corrispondente fino alle sue formazioni più ampie.” [26]
Criticando le posizioni di Gilbart, storico dell’economia inglese
che nel 19° secolo sostenne che ricavare profitto dal denaro
tramite l’interesse era “naturalmente” giusto, Marx sostenne che non
c’è giustizia naturale, vale a dire una giustizia valida per
sempre:
“È assurdo parlare qui di giustizia naturale,come fa Gilbart
(…). La giustizia delle operazioni che avvengono tra agenti della
produzione dipende da ciò, che queste operazioni derivano
come conseguenza naturale delle condizioni della produzione. Le
forme giuridiche in cui queste operazioni economiche. Appaiono come
atti di volontà di quelli che vi partecipano, come
manifestazioni della loro volontà comune, e come contratti di
cui il potere giudiziario può esigere l’esecuzioni rispetto
alle singole parti, non possono in quanto semplici forme,
determinare questo contenuto stesso. Esse non fanno che esprimerlo.
Questo contenuto giusto quando corrisponde al modo di produzione,
gli è adeguato. È ingiusto quando si trova in
contraddizione con esso.” [27]
In Marx la nozione di libertà subisce uno spostamento
paradigmatico rispetto a quella di Bakunin e della corrente
empirista dell’Illuminismo. Ci sono due punti cruciali che Marx
mette in gioco partendo da questa tradizione, in entrambi i casi
ispirandosi all’analisi hegeliana.
In primo luogo, per Marx, libertà non significa seguire i
propri impulsi o gareggiare in spontaneità. Gli impulsi fanno
parte della propria costituzione naturale – non sono il risultato di
scelte. Quando agiamo in modo impulsivo, siamo “naturali” e
inconsapevoli. Tuttavia quando ci comportiamo razionalmente e
consapevolmente siamo noi, attraverso decisioni ben ponderate,
a determinare il corso delle nostre azioni. Conseguentemente
Marx si allinea a quei settori illuministi rappresentati, tra gli
altri, da Kant e Rousseau, che approvavano entrambi l’autonomia del
soggetto:
“Il lavoro veramente libero, creativo, coincide con lo sforzo
più intenso, necessita della massima serietà. La
produzione materiale può raggiungere questo stadio solo (1)
quando è dato il suo carattere sociale, (2) quando abbia
carattere non solo scientifico ma generale, non attività
umana come pura forza naturale imbrigliata alla bisogna, ma vero e
proprio soggetto del processo produttivo che agisce governando tutte
le forze della natura.” [28]
Secondariamente, e in conseguenza di ciò, per Marx la
libertà non è una capacità fondamentalmente
individuale, ma principalmente un’impresa attuabile da una
comunità di uomini, in accordo con le sue analisi basate
sulle idee di Kant e Rousseau. La scienza, per esempio, non
può essere creata od utilizzata da un individuo isolato. Gli
uomini hanno vissuto per migliaia d’ anni prima di poter iniziare ad
abbozzare un pensiero scientifico, e ancora più a lungo prima
di poter elaborare e formalizzare vere e proprie teorie
scientifiche. Ma nessun progresso in questa direzione sarebbe stato
possibile se l’uomo non avesse imparato a costruire sulle fondamenta
lasciate dai suoi predecessori.
Siccome gli uomini dipendono, fisicamente e psicologicamente, l’uno
dall’altro per il soddisfacimento dei propri bisogni, sono costretti
a lavorare a stretto contatto. Nella società regolata dal
capitalismo questa cooperazione è forzata a diventare
competizione tra individui, piuttosto che collaborazione, ed ognuno
decide come comportarsi in base al proprio interesse personale.
Ciò non permette una riflessione critica sulla struttura in
cui gli individui stessi si trovano ad operare perché, dal
punto di vista del singolo isolato dal contesto, essa risulta
inalterabile. Da questa prospettiva la società appare tanto
rigida quanto la forza di gravità. Scopo di una
società socialista è ribaltare questa relazione.
Invece di individui impotenti di fronte alle proprie istituzioni
sociali, avremo persone in grado di cambiare queste istituzioni al
mutare di bisogni e valori tramite discussioni comunitarie
organizzate. E questo stadio può essere raggiunto solo
operando come una forza coordinata, in cui ad ognuno sia data la
possibilità di partecipare, discutere, dibattere, votare
sulle opzioni possibili. Quindi una società socialista mette
in gioco un nuovo, e più avanzato secondo Marx, concetto di
libertà: la determinazione razionale e collettiva delle
politiche sociali. “La libertà in questo campo può
consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato,
cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo
scambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune
controllo, invece di essere da essa dominati come da una forza
cieca.” [29]
Di conseguenza, Marx ritiene che la definizione individualistica
bakuniana di libertà rimanga invischiata nella struttura
concettuale della filosofia borghese generando solamente confusione
se trasportata pari pari in un contesto socialista:
“La libertà [nella concezione borghese] è dunque il
diritto di fare ed esercitare tutto ciò che non danneggia
nessun altro. I limiti entro i quali ognuno si può muovere
senza danneggiare un altro sono stabiliti per legge, così
come i confini tra due campi sono determinati mediante un palo. Si
tratta della libertà dell’uomo come monade isolata e
ripiegata su sé stessa (…) Ma il diritto [borghese] dell’uomo
alla libertà non si basa sull’unione dell’uomo con l’uomo,
quanto piuttosto sull’isolamento dell’uomo dall’uomo. E’ il diritto
a tale isolamento, il diritto dell’individuo limitato, limitato a
sé stesso.” [30]
Nei fatti, questa concezione borghese di libertà, se
comparata ad un più avanzato concetto socialista, non
è nient’altro che un’altra forma di schiavitù:
“Precisamente la schiavitù della società civile
appare come la più grande libertà perché
rappresenta, ad un primo approccio, l’indipendenza individuale al
suo massimo grado di sviluppo, quando ognuno considera come propria
libertà il movimento senza regole, perché libero da
vincoli di qualunque tipo, dei fattori alienati dalla sua vita come
proprietà, industria, religione, ecc…mentre in questa
condizione sono schiavitù e disumanità ad essere
pienamente dispiegate.” [31]
In ultima analisi quindi le differenze tra le concezioni di
libertà di Marx e Bakunin originano da presupposti filosofici
opposti. Per Bakunin, essendo l’uomo una specie naturale, è
conseguente definirla come l’agire naturale, mentre per Marx, che
vede l’umanità coinvolta in un processo di innalzamento al di
sopra delle forze naturali, la libertà si identifica con
un’azione collettiva e razionale.
Altra pietra miliare della costruzione filosofica di Marx è
la sua analisi delle leggi che regolano la storia. Come abbiamo
visto, il suo approccio materialista allo studio della disciplina lo
porta ad enfatizzare il ruolo delle condizioni economiche nel
determinare il corso del suo sviluppo. Mentre Bakunin argomentava
che le leggi storiche potevano essere ricondotte a leggi naturali,
ammettendo implicitamente che gli uomini non possono controllare il
proprio destino meglio di qualunque altro oggetto naturale, Marx
ipotizzò l’esistenza di una relazione tra intenzioni umane e
ambiente economico circostante:
“Gli uomini fanno la propria storia, ma non fa fanno in modo
arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle
circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé,
determinate dai fatti e dalla tradizione.” [32]
“Si nota come le circostanze facciano l’uomo molto più di
quanto l’uomo faccia le circostanze.” [33]
Ecco come il contesto materiale e le intenzioni degli uomini
possano, secondo i casi, andare a braccetto con la storia o
scagliarla con violenza in una direzione particolare.
Secondo Marx questo rapporto scaturisce dai processi produttivi di
base attraverso cui gli uomini si relazionano l’uno con l’altro e,
contemporaneamente, con la natura stessa:
“In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra
l’uomo e la natura, nel quale l’uomo, per mezzo della propria
azione, media , regola e controlla il ricambio organico fra se
stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze
della natura, alla materialità della natura. Egli mette in
moto forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia
e gambe, mani e testa, per appropriarsi i materiali della natura in
forma usabile per la propria vita. Operando mediante tale moto sulla
natura fuori di sé e cambiandola, egli cambia allo stesso
tempo la natura sua propria. Sviluppa le facoltà che in
questa sono assopite e assoggetta il giuoco delle loro forze al
proprio potere Qui non abbiamo da trattare delle prime forme di
lavoro, di tipo animalesco e primitive. (…) Noi supponiamo il lavoro
in una forma nella quale esso appartenga esclusivamente all’uomo. Il
ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore,
l’ape fa vergognare certi architetti con la costruzione delle sue
cellette di cera. Ma ciò che fin dal principio distingue il
peggior architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha
costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera”
.[34]
In altre parole, le fondamenta economiche su cui poggia la storia
nel sistema marxiano comprendono, come elemento imprescindibile, il
ruolo della coscienza umana.
Per cui il materialismo di Marx non lo costringe ad una spiegazione
meccanicistica in cui ogni evento storico è interamente
determinato da un insieme di condizioni preesistenti, come nelle
scienze naturali. Piuttosto le condizioni economiche del contesto
muovono certi parametri all’interno dei quali operano le intenzioni
umane, imprimendo loro un senso di marcia logico senza tuttavia
determinarle completamente. E’ impossibile, ad esempio, costruire un
computer con utensili di pietra, ma non si è costretti a
costruirlo neanche disponendo delle tecnologie necessarie.
Per questa ragione Marx insiste nel marcare nettamente la differenza
tra natura da un alto e storia dall’altro.:
“La natura non produce da una parte possessori di denaro o di merci
e dall’altra puri e semplici possessori della propria forza
lavorativa. Questo rapporto non è un rapporto risultante
dalla storia naturale e neppure un rapporto sociale che sia comune a
tutti i periodi della storia. Esso stesso è evidentemente il
risultato di uno svolgimento storico precedente, il prodotto di
molti rivolgimenti economici, del tramonto di tutta una serie di
formazione più antiche della produzione sociale.” [35]
Ecco perché criticava anche i tentativi di dipingere la
storia come ulteriore branca delle scienze naturali:
“Non merita eguale attenzione la storia della formazione degli
organi produttivi dell’uomo sociale[leggi tecnologia], base
materiale di ogni organizzazione sociale particolare? E non
sarebbe più facile da fare[rispetto alla storia degli
organismi animali e vegetali] poiché, come dice il Vico, la
storia dell’umanità si distingue dalla storia naturale per il
fatto che noi abbiamo fatto l’una e non abbiamo fatto l’altra?...I
difetti del materialismo astrattamente modellato sulle scienze
naturali, che esclude il processo storico, si vedono già
nelle concezioni astratte ed ideologiche dei suoi portavoce appena
s’arrischiano al di là della loro specialità.” [36]
Giugno 2006
(Prima pubblicazione: What’s Next, dicembre2003)
Vorrei ringraziare Bill Leumer, Paul Colvin e Fred Newhouser per i
loro preziosi suggerimenti riguardanti quest’articolo.
Note
1. Marx, Karl and Engels, Frederick, Selected Correspondence
(Moscow, 1975), p.254.
2. Kenafick, K.J., Michael Bakunin and Karl Marx (Melbourne, 1948),
p.40.
3. Dolgoff, Sam, ed., Bakunin on Anarchy (New York, 1972), p.129.
4. Bakunin, Michael, ‘God and State', in The Essential Works of
Anarchism, ed. by Shatz, Marshall (New York/Chicago, 1972), p.139.
5. Maximoff, G.P., ed., The Political Philosophy of Bakunin:
Scientific Anarchism (Glencoe, Ill., 1953), p.75.
6. Ibid., p.263.
7. Ibid., p.156.
8. Dolgoff, Sam, ed., Bakunin on Anarchy, p.125.
9. Bakunin, Michael, Marxism, Freedom and the State, ed. by
Kenafick, K.J. (London, 1950), p.22.
10. Maximoff, G.P., ed., The Political Philosophy of Bakunin:
Scientific Anarchism, pp.263-4.
11. Bakunin, Michael, "God and State," p.141.
12. Ibid., p.153.
13. Citato in Eltzbacker, Paul, Anarchism, Exponents of the Ancient
Philosophy (New York, 1960), p.85.
14. Lehning, Arthur, ed., Michael Bakunin, Selected Writings
(London, 1973), p.64.
15. Dolgoff, Sam, ed., Bakunin on Anarchy, pp.261-2.
16. Bakunin, "God and State," p.147.
17. Marx, Karl, Per la critica dell’economia politica (Newton
Compton Editori, Roma 1976), pag. 31.
18. Marx, Karl and Engels, Frederick, L’ideologia tedesca (da “Karl
Marx –Opere”, Newton Compton Editori, Roma, 1978), pagg. 217-218.
19. Marx, Karl, Grundrisse (Middlesex, England, 1973), p.83.
20. Marx, Karl and Engels, Frederick, , L’ideologia tedesca (da
“Karl Marx –Opere”, Newton Compton Editori, Roma, 1978), pag. 220.
21. Ibid., pag. 224.
22. Ibid., pag. 243.
23. Ibid., pag. 244.
24. Ibid., pag. 245-246.
25. Ibid., p.245.
26. Ibid., pag. 216.
27. Marx, Karl, Il Capitale, Terzo Volume (Editori riuniti, Roma
1980), pag. 405.
28. Marx, Karl, Grundrisse, pp.611-12.
29. Marx, Karl, Il Capitale, Terzo Volume, pag. 933.
30. Marx, Karl, ‘La questione ebraica’ , (Massari editore, Bolsena,
2003), pag. 77.
31. Marx, Karl, ‘Holy Family’, Collected Works, Volume 4 (New York,
1975), p.116.
32. Marx, Karl, ‘Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte’ (Editori riuniti,
Roma1991), pag. 7.
33. Marx, Karl and Engels, Frederick, L’ideologia tedesca, pag. 224.
34. Marx, Karl, Il Capitale, Primo Volume (Editori riuniti, Roma
1980), pag. 212.
35. Ibid., pag. 202.
36. Ibid., pag. 414-5.
Anarchismo e Marxismo
Da http://ita.anarchopedia.org/anarchismo_e_marxismo
Anche se il comunismo libertario e il marxismo sono due filosofie
politiche molto differenti, le similitudini rinvenibili nella
metodologia e nel pensiero di alcuni anarchici e marxisti non devono
indurre a fraintendimenti.
L'Associazione internazionale dei lavoratori, alla sua fondazione,
era un'alleanza di numerosi gruppi socialisti, inclusi anarchici e
marxisti. Le due parti avevano uno scopo comune: il superamento
dello Stato borghese e delle ideologie dei comuni avversari politici
(conservatori, protofascisti ed altri politicanti di destra). Ma
ciascuno era critico nei confronti dell'altro ed il relativo
conflitto ha in seguito preso corpo nelle diverse argomentazioni tra
Bakunin, come esponente delle idee anarchiche e Karl Marx. Nel 1872,
un conflitto nella Prima Internazionale conduce all'espulsione di
Bakunin e dei “bakunisti”, decisa da parte di Marx al Congresso di
Hague nel 1872.
Argomenti intorno alle sorti dello Stato.
Gli Stati-nazione si sono originati in Europa in seguito al trattato
di Westfalia del 1649. Gli studiosi di politica moderna descrivono
lo Stato come «una comunità di uomini, stabiliti su di
un proprio territorio e possedenti una organizzazione dalla quale
scaturisca [...] una potenza suprema d'azione, di comando e di
coercizione» . Ne deriva che lo Stato si definisce come un
territorio, una popolazione chiamata “nazione” ed un'autorità
che si esercita su di essa. Lo Stato è normalmente
centralizzato e gerarchico. Esso governa attraverso le sue
istituzioni e «apparirebbe come un'istituzione che, su un dato
territorio, dispone del monopolio sull'uso legittimo della forza
fisica», per utilizzare i termini proposti dal sociologo
tedesco Max Weber nel suo saggio del 1918, La Vocazione del politico
. Ciò significa che gli individui riconoscono
l'autorità dello Stato accettando di obbedirgli: questa
autorità è fondata sulla tradizione, il carisma del
dirigente o, nella società moderna, sulla razionalità
messa in opera da legalità e burocrazia. Sul piano giuridico,
il criterio principale dello Stato è quello dell'esercizio
della sovranità, che è un potere incondizionato, da
cui derivano tutti gli altri poteri. Ciò significa che
nell'ambito del proprio territorio lo Stato dispone delle sue
competenze e dei propri esecutori. La sovranità si definisce
ugualmente, nel diritto, come la detenzione dell'autorità
suprema, vale a dire di un potere assoluto (a cui tutti sono
sottomessi) e incondizionato (che non dipende da chicchessia).
Queste definizioni sono accettate da un po' tutte le correnti ad
eccezione del marxismo.
In effetti questa concezione di Stato è stato oggetto di
critica da parte di Karl Marx, per il quale la Nazione è
secondaria rispetto al rapporto delle classi sociali e l'esistenza
che ne deriva dei rapporti di produzione. L'approccio dello Stato
fatto da Marx è puramente economico. Lo Stato è
definito come l'organo della repressione di una classe sociale su
tutte le altre.
Lo Stato appare nelle differenze della società civile ed il
suo ruolo, nel sistema capitalista, è di permettere il
mantenimento dei rapporti di sfruttamento. Lo Stato è
innanzitutto considerato come un apparato di violenza e
d'oppressione che conviene far sparire dopo un periodo di
transizione (la dittatura del proletariato). In questa definizione,
l'idea di dittatura del proletariato può prendere numerosi
significati secondo l'interlocutore marxista: dell'utilizzazione
legittima della forza fisica da parte del consiglio degli operai/ie
armati/e fino al monopolio della forza da una parte composta da
intellettuali dichiaratesi come “capi del proletariato”. Nella
teoria marxista con l'eliminazione della suddivisione della
società in classi sociali, anche lo Stato si estingue.
Il marxismo ha una definizione unica di Stato: esso è
l'organo della repressione di una classe sociale su tutte le altre.
Per i marxisti tutto lo Stato è intrinsecamente una dittatura
di una classe sulle altre. Nella teoria marxista, se le differenze
tra le classi sparissero, sparirebbe anche lo Stato. Gli anarchici
stimano irrilevante l'identità dell'élite politica o
economica, perché si tratta pur sempre di un organo di
dominazione al servizio di una classe. Al contrario, i marxisti
ritengono che l'abbattimento di una classe dominante richiede
inevitabilmente una repressione superiore. Bakunin scrisse nel suo
saggio Stato e Anarchia : «Loro (i marxisti) sostengono che
solo la dittatura – la loro evidentemente – può creare la
volontà del popolo, allorché la nostra risposta a tale
questione è: tutte le dittature non possono avere altro
obiettivo che la propria perpetuazione e ciò non può
che generare la schiavitù del popolo tollerante; la
libertà può essere creata solo a partire dalla
libertà, cioè da una ribellione universale di una
parte del popolo e la libera organizzazione di masse laboriose dal
basso in alto».
In seguito agli scritti di Marx, proclamanti che lo Stato sarebbe il
mezzo più sicuro per arrivare alla creazione di una
società senza Stato, poiché lo Stato stesso sarebbe
destinato ad estinguersi, egli aggiunge: «L'anarchismo o la
libertà, che significa libera organizzazione dei
lavoratori\lavoratrici, è l'obiettivo finale dello sviluppo
della società [...] loro (i marxisti, N.d.R.) affermano che
la dittatura è la fase di transizione necessaria verso la
liberazione del popolo: l'anarchismo sarebbe il fine e la dittatura
del proletariato il mezzo, di conseguenza per liberare il popolo
bisognerebbe iniziare con l'asservirlo!».
Il processo di transizione
Per gli anarchici, l'ideologia rivendicata dai differenti tipi di
Stato – che siano capitalisti, fascisti o comunisti – non è
pertinente poiché tutti gli Stati sono fondamentalmente
violenti e reprimono la maggioranza lavoratrice in nome del profitto
della minoranza dirigente. Inoltre, gli anarchici sostengono che lo
“Stato operaio” difeso dai marxisti è una contraddizione
(impossibilità) logica, poiché non appena una
qualunque “avanguardia” autoproclamata prende il potere statale essa
cessa di fare parte del proletariato (semmai ne abbia fatto mai
parte) e diviene membro della “classe coordinante”. Gli anarchici
deducono che tutti gli Stati sono illegittimi poiché fanno
tutti ricorso alla violenza sistematica e alla repressione della
maggioranza dei lavoratori\lavoratrici a favore della minoranza
dirigente.
La "teoria sullo Stato", precedentemente evocata, porta ad
interrogarsi sulla necessità del processo di transizione che
conduca alla fine alla creazione di una società "senza
Stato", sulla quale tanto i marxisti che gli anarchici sono
d'accordo (fermo restando il concetto marxista di Stato sopra
riportato). I marxisti pensano che la transizione, per poter essere
efficace (per arrivare a quello che Marx chiama “vero comunismo”),
richieda la repressione della reazione capitalista, poiché
altrimenti ristabilirebbe il proprio potere, e la creazione di uno
Stato diretto dagli operai.
Inoltre, gli anarchici sostengono che lo "Stato operaio", difeso dai
marxisti, è una contraddizione in termini, poiché
qualunque «avanguardia», auto-proclamatasi tale, che
prende il potere statale, cessa di far parte del proletariato (se
mai ne ha fatto parte) e diviene membro della «classe
dominante». L'idea della dittatura del proletariato è
ugualmente criticata dalla maggior parte degli anarchici, sia sul
piano teorico che su quello storico. È abbastanza evidente
che non è una classe intera a prendere il potere, ma una sua
minoranza, un partito, secondo l'ottica leninista, che dunque non fa
altro che imporre una "dittatura sul proletariato" e non una
"dittatura del proletariato".
Gli anarchici illustrano le loro proposte mettendo in evidenza le
misure repressive messe in atto da Lenin, Trotsky e Stalin, sin dal
principio della rivoluzione russa. Essi avanzano ugualmente
l'argomento che l'ex-URSS non era affatto democratica, così
come anche tutti gli altri Stati auto-proclamatisi “marxisti”. Al
contrario i marxisti mettono in evidenza il presunto “fallimento”
(essi propongono l'esempio della Rivoluzione spagnola), delle
rivoluzioni in cui hanno preso parte gli anarchici.
Marxisti e anarchici non perseguono il medesimo scopo: gli anarchici
vogliono l'abolizione di ogni forma di Stato (una
«sciocchezza», secondo lo stesso Engels), i marxisti
ritengono, invece, che lo Stato si autoestinguerà, o meglio
«non ci sarà uno Stato nel significato politico
attuale» (Stato classista). I marxisti, contrariamente agli
anarchici, mirano a cambiare (non ad abolire) lo Stato: in un primo
tempo, lo Stato muta la sua classe dirigente, diventando uno “Stato
operaio”, in cui la classe dominante è il proletariato; essi
considerano quindi la repressione della borghesia come un fatto
necessario e preliminare all'estinzione dello Stato borghese. In
seguito, lo "Stato operaio", venuti a cessare gli antagonismi tra le
classi, si estinguerà, trasformandosi in uno Stato senza
dominio di classe (ossia in una forma di democrazia diretta):
«lo Stato politico e con lui l'autorità politica
scompariranno in conseguenza della prossima rivoluzione sociale
[...] cioè [...] le funzioni pubbliche perderanno il loro
carattere politico e si cangeranno in semplici funzioni
amministrative, veglianti ai veri interessi sociali»[ (dunque,
non si tratta della scomparsa dello Stato tout court, ma dello Stato
marxianamente inteso, ossia dello Stato retto da una classe
dominante).
Gli anarchici ritengono che la creazione di qualsiasi nuovo Stato
metterà comunque il potere nelle mani di una minoranza, e che
lo Stato, con le sue capacità repressive e i suoi apparati
burocratici massivi, avrà la tendenza a perpetrarsi,
piuttosto che ad «estinguersi». In pratica, la creazione
di un nuovo Stato, anche se qualificato come “operaio”, sarebbe
controrivoluzionario, per cui, per eliminarlo, sarebbe necessaria
una seconda rivoluzione. Gli anarchici preferiscono quindi
sostituire allo "Stato borghese" i consigli operai (vedi Consigli ed
occupazioni di fabbrica in Italia (1919-20)), i sindacati o comunque
qualsiasi struttura organizzativa decentralizzata e non-gerarchica.
Per illustrare i limiti dell'approccio marxista, gli anarchici
ricordano che dopo la caduta dell'URSS i movimenti popolari che
chiesero l'abolizione della dittatura statale furono duramente
repressi. Ciò dimostra che una seconda rivoluzione è
praticamente impossibile.
Differenze esistono anche all'interno degli stessi "schieramenti":
gli anarchici non sono d'accordo tra loro riguardo al fatto se i
consigli operai costituiscano o non uno Stato; i marxisti non sono
d'accordo tra loro riguardo alla forma che dovrebbe assumere la
dittatura del proletariato. Tuttavia, soprattutto gli argomenti
marxisti si prestano alle critiche, poiché essi nella pratica
hanno limitato l'autonomia dei consigli operai, oltre a
ripristinare, contraddittoriamente, la polizia segreta, il
terrorismo di Stato come strategia rivoluzionaria[ e l'uso di una
giustizia ambigua e poco trasparente.
I partiti politici
I marxisti e gli anarchici si distinguono riguardo al ruolo
attribuito ai partiti politici rivoluzionari.
La maggior parte dei marxisti vedono nei partiti l'"avanguardia" del
proletariato, ovvero uno strumento utile per fronteggiare lo "Stato
borghese" e impadronirsi del potere, per fronteggiare l'eventuale
reazione della borghesia capitalista e per giungere all'"estinzione"
dello Stato. I marxisti però si dividono riguardo alla
partecipazione dei partiti rivoluzionari alle elezioni e sulla loro
organizzazione dopo la presa del potere. Tra questi, i
luxemburghisti pensano che il partito debba avere una funzione guida
delle masse ma non debba gerarchizzarsi e burocratizzarsi.
Gli anarchici rifiutano l'idea del partito intesa come
organizzazione centralizzata, gerarchica e parlamentarista,
perché un'organizzazione del genere contiene il "germe"
dell'autoritarismo. Tuttavia per i comunisti anarchici il Partito
(termine usato da Malatesta) altro non è che l'organizzazione
politica (organizzazione specifica) dei comunisti anarchici, il cui
scopo è quello di sviluppare la coscienza di classe, a
partire dal soddisfacimento dei bisogni primari e immediati
dell'individuo, alimentare lo scontro con la borghesia e guidare -
come un corpo interno al proletariato e non come un'avanguardia che
si eleva al di sopra delle masse - gli sfruttati nel loro percorso
rivoluzionario.
Violenza e rivoluzione
La violenza, come mezzo rivoluzionario, è giustificabile? E
sino a che punto è lecito spingersi? Anarchici e marxisti, su
questi aspetti, si dividono ancora.
Gli anarchici (esclusa la fazione pacifista) ritengono legittimo
rispondere alla violenza dello Stato con la violenza popolare:
alcuni (soprattutto gli individualisti) ritengono utile e necessaria
la violenza su piccola scala (es. l'assassinio di elementi
dell'élite al potere); altri (per es. i comunisti anarchici)
vedono nella violenza rivoluzionaria l'unico mezzo per rovesciare le
classi dominanti. Tuttavia, tutte le correnti dell'anarchismo
ritengono inaccettabile la violenza massiva e pianificata, come
quella praticata da Lenin e Trotskij a Kronstadt, dai bolscevichi
durante rivoluzione russa e dai rivoluzionari comunisti durante la
rivoluzione cinese e cubana.
La maggior parte dei marxisti ritiene lecita la violenza su larga
scala quando le circostanze impongono l'autodifesa collettiva (es.
contro la reazione borghese o contro un'invasione di stampo
imperialista). Molti marxisti ritengono legittima anche la violenza
più feroce, se questa servisse a giungere al fine preposto:
la dittatura del proletariato e il comunismo.
Secondo molti marxisti, gli anarchici, per via della loro reticenza
ad organizzarsi concretamente, per il loro rifiuto della violenza
proletaria e del “terrorismo di Stato”, possono essere tacciati di
attività controrivoluzionaria. In questo modo essi
giustificano la repressione subita dai libertari in Spagna, Ucraina,
Russia, Cuba ecc. (molti marxisti confondono l'organizzazione con
l'autoritarismo: l'esperienza spagnola e ucraina, tanto per fare
degli esempi, dimostrano invece la possibilità di
organizzarsi in maniera non gerarchica).
Le classi
Per la maggioranza dei marxisti le classi sono due: da un lato,
coloro (la borghesia) che detengono i beni di produzione (capitali,
strutture, mezzi di produzione, ecc.) e che in base a questa
proprietà ne ricavano dei privilegi; dall'altro, coloro (il
proletariato) che detengono solo la loro capacità di lavoro
("forza-lavoro") e la vendono al primo gruppo (gli imprenditori) per
ottenerne in cambio un salario che consenta a loro e alla loro
famiglia di sopravvivere e riprodursi (generare quella prole che
dà loro il nome).
Altre classi come il "ceto medio" sono destinate ad essere assorbite
dal proletariato, mentre i disoccupati ("sottoproletariato") non
hanno nemmeno un'identità di classe e servono solo a
mantenere bassi i salari degli occupati per via della concorrenza
che fanno agli occupati.
Per gran parte degli anarchici la società è più
complessa: da un lato, il proletariato produce i beni di consumo con
il proprio lavoro e ne viene espropriato in virtù
dell'assetto proprietario della società capitalistica,
dall'altro, il fronte padronale che opera l'espropriazione grazie
alla proprietà dei beni di produzione.
Attorno a queste due classi principali orbitano altre classi sociali
con un ruolo ugualmente importante: i contadini, che detengono i
propri mezzi di produzione, ma vengono espropriati di gran parte
della ricchezza che producono dal meccanismo della distribuzione i
cui canali sfuggono loro; i ceti medi, che svolgono funzioni
essenziali alla riproduzione capitalistica e che ne vengono ripagati
con privilegi effimeri e irrisori, ma che vengono percepiti in modo
tali da confondere loro quali siano i loro veri interessi; i
disoccupati, la cui sete disperata di un salario, li contrappone
fittiziamente ai loro naturali alleati.
Per alcuni anarchici (anarchici aclassisti), soprattutto alcuni
individualisti, le classi sono un'invenzione marxista, per cui non
ha senso nemmeno questa divisione della società.
Per molti anarchici (soprattutto i comunisti, ma non solo) non solo
le classi esistono ma occorre anche ricomporre gli interessi di
tutti coloro che subiscono lo sfruttamento dell'assetto sociale
capitalistico.
Questa concezione differente sulla società divisa in classi
comporta che i marxisti releghino la lotta di classe allo scontro
tra capitalisti e proletariato, mentre gli anarchici allargano tale
conflitto a tutti gli sfruttati. Altro punto di disaccordo come
conseguenza di queste differente visioni è la relazione tra
la condizione di classe e la coscienza di classe: per una parte dei
marxisti i due termini (di classe e di coscienza di classe)
finiranno in una maniera deterministica prima o poi a coincidere;
per altri marxisti la coscienza di classe non è necessaria a
tutta la “classe”, ma a solo una parte “illuminata”, l'avanguardia,
ovverosia il partito (nella versione leninista, addirittura, esterno
al movimento operaio, perché quest'ultimo appesantito dai
suoi bisogni quotidiani non può comprendere i suoi bisogni
storici e futuri).
Per gli anarchici, soprattutto per i comunisti anarchici, invece, il
rapporto tra classe e coscienza di classe è certamente
mediato dall'avanguardia, che però agisce come corpo interno
del proletariato e del variegato mondo degli sfruttati, fungendo da
punto di riferimento e non da guida che si eleva al di sopra delle
masse sfruttate. Per gli anarchici solo un proletariato unito e
cosciente della propria condizione può fare una rivoluzione
veramente libertaria e senza delegare alcuno a questo compito.
Materialismo storico e materialismo dialettico
Il materialismo storico è «la concezione materialista
della storia», cioè non una teoria astratta, ma una
metodologia di analisi della storia che individua nelle condizioni
materiali (cioè economiche) la causa principale degli
avvenimenti storici. Il materialismo storico trovò concordi
tanto Marx quanto Bakunin (attualmente sono soprattutto i comunisti
anarchici a trovarsi in accordo con tale metodologia di analisi).
Invece il materialismo dialettico, che Karl Marx "abbraccia" in una
fase successiva all'elaborazione del materialismo storico,
reinterpreta la dialettica hegeliana, considerando l'evoluzione
della materia e non dell'idea (come faceva Hegel). Il materialismo
dialettico non solo reinterpreta la realtà, ma ha la pretesa
di offrire una visione scientifica e deterministica degli
avvenimenti storici, prevedendo la crisi del capitalismo e il
conseguente arrivo del comunismo[8]. In questo modo il marxismo,
soprattutto nell'interpretazione di Lenin ed Engels, sviluppa un
materialismo definibile metafisico, che gran parte dell'anarchismo,
a parte il comunismo kropotkiniano, rifiuta e ha sempre rifiutato,
poiché in questo modo l'individuo verrebbe a perdere il suo
ruolo centrale di trasformatore della realtà, divenendo un
elemento di una serie di forze a lui estranee.
La maggior parte degli anarchici rifiuta la visione deterministica,
(pesudo)scientifica ed esclusivamente economicista della storia,
considerando invece il materialismo storico come un mezzo utile per
la valutazione degli avvenimenti, senza però ritenerlo
l'unico ed esclusivo metodo d'indagine, ma attribuendo grande
importanza anche alle contraddizioni ambientali, quelli di genere
ecc. Per gran parte degli anarchici il materialismo dialettico non
fa altro che disumanizzare l'analisi sociale e politica della
realtà, portando come conseguenza i risultati drammaticamente
osservati per esempio durante la rivoluzione russa.
Altri punti di disaccordo: movimenti di liberazione, famiglia,
educazione, amore e religione
Per i marxisti i movimenti di liberazione delle donne, degli
omosessuali, delle minoranze etniche ecc., hanno sicuramente una
loro intrinseca valenza ma soprattutto vanno inseriti nell'ambito
del processo che porterà alla lotta di classe e alla
dittatura del proletariato. Per gli anarchici la lotta contro ogni
forma di oppressione è centrale, al di là delle
dinamiche deterministiche dei marxisti, purché queste si
inseriscano in un quadro rivoluzionario e non meramente
riformistico.
Riguardo alla famiglia per gli anarchici i rapporti di parentela e
di discendenza genetica devono essere sostituiti dai rapporti
d'amore e di solidarietà tra le singole individualità.
In questo modo diverse figure, e non necessariamente i genitori,
possono partecipare all'educazione dei bambini. Così si
intende eliminare la contrapposizione fra gli esseri umani e le
disuguaglianze. Quindi, alla famiglia naturale, l'anarchismo
contrappone un nucleo sociale "aperto" costituito da libere
individualità tra loro associate. Un tale modo di intendere
l'organizzazione sociale non può che sostituire l'amore
libero e l'unione libera e non vincolante al matrimonio, rompendo
così le stantie e ipocrite convenzioni sociali.
I marxisti, pur mantenendo nella forma una certa apertura mentale
verso nuclei famigliari alternativi ai modelli dominanti, nella
pratica hanno talvolta considerato queste rivendicazioni come frutto
dell'ideologia borghese. Durante la rivoluzione russa e in altre
esperienze, i marxisti si sono spesso sforzati di ricondurre "alla
legalità" della famiglia di diritto, la strutturazione dei
rapporti interpersonali, pur mantenendo alcuni "istituti borghesi"
di salvaguardia delle libertà individuali, quali per esempio
il divorzio.
Anche sulla religione anarchici e marxisti hanno punti di vista
differenti. L'anarchismo propugna l'idea di estirpare qualsiasi
causa che determini lo sviluppo del pensiero religioso. Per i
marxisti l'"ateismo di Stato" e la repressione sono i mezzi
necessari atti ad impedire la diffusione della religione,
considerato che quest'ultima è ritenuta un ostacolo al
“naturale” decorso degli avvenimenti storici che dovrebbero condurre
al comunismo[9]. Gli anarchici, pur agendo in maniera tale da
eliminare ogni elemento strutturale e sovrastrutturale (fattori
educativi, culturali ecc.) che permettono il consolidamento della
religione, ritengono che la libertà religiosa individuale e
associativa debba essere tutelata (come tutte le libertà
individuali), purché questa non comporti privilegi per alcuni
o limiti la libertà di altri.
Marx e Bakunin: Comunismo e
Anarchia
da http://www.webalice.it/gangited/_A/Anarchismo.html
Tutte le volte che ci si pone il problema di modificare
in senso democratico il sistema politico degli Stati borghesi,
ci si trova di fronte ad una scelta di metodo : l'alternativa
tra la linea politica sostanzialmente marxista e quella
sostanzialmente anarchista. Questo contrasto, a distanza di oltre un
secolo, è ancora di scottante attualità.
L'evidente fallimento dei governi socialisti di alcuni Stati e dei
partiti "socialisti" o "comunisti" nei Paesi dell'area capitalista
sono esperienze storiche che oggi permettono una riflessione, alla
quale non ci si può sottrarre senza rischiare di cadere nel
ridicolo o, peggio ancora, nella malafede.
Marx e Bakunin (spesso conosciuti solo di nome), occupano ancora la
mente, o meglio il "cuore" di tutti i democratici sinceri. Qui si
tenta un esame obiettivo delle loro teorie essenziali, nella
convinzione che tale esame è indispensabile per affrontare
costruttivamente i problemi delle attuali "democrazie" occidentali,
ridotte ormai ad una parodia del concetto stesso di democrazia.
Precedenti
Verso la fine del Settecento si verificano in Europa tre svolte
decisive e irreversibili:
- sul piano culturale, la diffusione
dell'Illuminismo, che contrappone la ragione alla fede,
critica il potere fondato sul "diritto divino" ed afferma i
valori di libertà ed uguaglianza di tutti gli uomini
- sul piano economico, la rivoluzione
industriale, cominciata in Inghilterra e scatenata
dall'invenzione delle macchine a vapore
- sul piano politico la rivoluzione
francese, che abbatte le monarchie assolute aprendo la
strada alle rivoluzioni liberali dell'Ottocento.
Protagonista di questi cambiamenti è la borghesia,
cioè la classe che possiede i mezzi di produzione. Il valore
"etico" essenziale di questa classe è la proprietà.
Con la Dichiarazione dei diritti dell'uomo (1789) la rivoluzione
francese aveva proclamato che i diritti naturali e imprescrittibili
sono la libertà, la proprietà, la
sicurezza e la resistenza all'oppressione.
"Diritti dell'uomo" erano, ovviamente, i diritti dell'uomo
borghese: basta considerare che la proprietà poteva
avere come oggetto anche altri esseri umani (schiavitù) e che
nello stesso periodo furono approvate leggi che riconoscevano il
diritto di voto solo al 15% dei cittadini e che proibivano i
sindacati e gli scioperi.
Il divieto di associarsi in sindacati era giustificato dall'esigenza
di tutelare la libertà dei datori di lavoro di
contrattare "in condizioni di parità" le retribuzioni e gli
orari di lavoro. Non risulta però che fossero vietate le
associazioni padronali.
Basta un dato per dare l'idea delle disumane condizioni di vita dei
lavoratori: a Manchester, nel cuore dell'Inghilterra industriale, la
speranza di vita degli operai era di 17 anni : cominciavano a
lavorare a 5 anni e morivano a 17.
Ad un tale stato di cose si opposero da una parte le prime
organizzazioni di lavoratori (operai e artigiani), dall'altra le
correnti di pensiero del socialismo utopistico e
dell'anarchismo:
1793: William Godwin pubblica l'Inchiesta sulla
giustizia politica
1797: fallisce la Congiura degli Uguali di Gracco
Babeuf, che vorrebbe fondare una società comunista
1808: Charles Fourier pubblica la Teoria dei
quattro movimenti, imperniata sul concetto che le passioni umane non
debbono essere represse, ma incanalate costruttivamente per creare
uno Stato "sociale". Nella stessa opera Fourier teorizza le
comunità agricole dei "falansteri".
1822: Claude Saint Simon teorizza
un'organizzazione sociale retta da uomini di scienza e da
industriali illuminati. Nel 1825 pubblica "Il nuovo Cristianesimo ",
in cui teorizza un sistema basato sulla fratellanza tra gli uomini.
1834: Robert Owen fonda in Inghilterra le prime
organizzazioni sindacali (Trade Unions)
1836: nasce in Germania la Lega dei Giusti, prima
associazione rivoluzionaria a carattere
internazionalista che si diffonde in Francia, Svizzera,
Inghilterra e Svezia
1838: in Inghilterra William Lovett pubblica la
“carta del popolo”, da cui nasce il primo movimento politico operaio
(movimento "cartista", people's Charter), che rivendica la
"democrazia per tutto il popolo" e nel 1842 raccoglierà 3
milioni di adesioni
1841: Pierre Proudhon pubblica Che cos'è
la proprietà?, in cui è contenuta la celebre
definizione: "la proprietà è un furto"
1844: Michail Bakunin pubblica la sua prima
opera, La reazione in Germania
1847: sotto l’influenza di Marx ed Engels, la
Lega dei Giusti si trasforma in Lega dei Comunisti (sede a Londra).
Nello stesso periodo nascono diverse organizzazionei analoghe, che
si ispirano a principi di internazionalismo: i Fraternal
Democrats (UK), l'Associazione internazionale della democrazia
socialista (USA), la Famiglia internazionale fondata da Bakunin, la
Lega della pace e della Libertà (Italia), l'Alleanza
repubblicana universale fondata da Mazzini e molte altre
1848: Marx ed Engels pubblicano il Manifesto del
partito comunista
1849: Henry Thoreau pubblica il saggio
Disobbedienza civile, testo fondamentale nelle teorie della lotta
non-violenta, a cui si ispirerranno, fra gli altri, Tolstoj, Gandhi
e Martin Luther King
1864: fondazione a Londra della Prima
Internazionale (International Workingmen's Association). Il
programma e lo statuto vengono elaborati da Marx
Nell'Internazionale le due principali correnti furono quella
comunista, capeggiata da Marx. e quella anarchista, rappresentata da
Bakunin. Il conflitto tra queste due fazioni determinò lo
scioglimento dell'associazione.
Comunismo marxiano
Col nome generico di comunismo vengono indicate alcune dottrine
politico-sociali elaborate fin dai tempi più antichi (a
cominciare da Platone, circa 400 aC), che hanno in comune l'idea
della proprietà collettiva dei beni come strumento di
uguaglianza sociale e di giustizia. La più attuale di queste
dottrine (ed ormai il "comunismo" per antonomasia) è quella
che deriva dal marxismo ed è un programma politico nato con
il Manifesto del partito comunista (1848) e diretto alla presa di
potere da parte del proletariato. Qui va segnalata
l'opportunità di distinguerlo dal comunismo anarchico (o
anarco-comunismo), che è una delle correnti di pensiero
dell'anarchismo.
* * *
Si deve chiarire subito che, in sostanza, non esistono
nella storia esempi di Stati comunisti. Esperienze di comunismo sono
state tentate da piccoli gruppi di persone, ma un gruppo di persone
non è uno Stato.
Queste persone hanno realizzato tra loro qualche forma
di comunismo; però sono restate all'interno dello
Stato in cui vivevano. Il successo (o il fallimento) di tali
esperienze non può dimostrare (o confutare) la
validità del comunismo come modello ideale di società.
Marx aveva immaginato la società comunista come la fase
finale di una trasformazione che doveva partire dalla
società capitalista (non dalla società feudale, come
poi avvenne in Russia e in Cina); le fasi intermedie dovevano essere
prima la rivoluzione e poi la dittatura del proletariato
(cioè il socialismo). Ma tutti i sistemi politici statali
fondati sul marxismo si sono fermati al socialismo:
l'URSS era l'Unione delle Repubbliche Socialiste
Sovietiche. Erroneamente, o a scopi di propaganda, tali sistemi sono
stati chiamati "comunisti".
Oggi è possibile una critica storica degli Stati socialisti,
ma il comunismo, che è rimasto un'utopia, può essere
criticato solo sul piano logico, teorico o filosofico, allo stesso
modo delle creazioni teoriche del socialismo utopistico e
dell'anarchismo.
* * *
Nell'analisi storica di Marx, la società borghese
(cioè capitalista) è divisa in due classi: borghesia e
proletariato. Il borghese è proprietario dei mezzi di
produzione: quindi sfrutta il proletario, che possiede solo se
stesso e può solo vendere il proprio lavoro. Lo Stato
è secondario: non è altro che uno strumento, di
cui la borghesia si serve per proteggere i propri interessi e di cui
il proletariato si servirà per difendere i propri.
Nel comunismo immaginato da Marx, abolita la proprietà
privata dei mezzi di produzione, la società non sarebbe
più divisa in classi e lo Stato si estinguerebbe
automaticamente. In questa società ciascuno contribuirebbe al
bene comune secondo le proprie capacità e
riceverebbe contributi secondo i propri bisogni. La
proprietà privata sarebbe ancora possibile, ma solo sulle
cose di uso personale.
Nel Manifesto del PC si legge che nella fase di transizione
(socialismo) il proletariato "userà il suo dominio politico
per strappare a poco a poco alla borghesia tutto il capitale, per
accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello
Stato"; con il comunismo "il capitale viene trasformato in
proprietà collettiva, appartenente a tutti i membri della
società".
Quando le differenze di classe saranno scomparse e tutta la
produzione sarà concentrata in mano agli "individui
associati", il potere pubblico perderà il suo carattere
politico. Alla vecchia società borghese subentrerà una
"associazione" in cui il libero sviluppo di ciascuno è
condizione del libero sviluppo di tutti.
Secondo Marx, si arriverà a questo per due ragioni:
la borghesia è "fatalmente" destinata, per
sua stessa natura, ad auto-distruggersi in una cieca corsa a
produrre sempre di più, generando una serie di crisi
economiche in cui ogni crisi sarà superata conquistando nuovi
mercati e nuove aree di sfruttamento, quindi creando ogni volta le
premesse di una crisi più grave della precedente
si può immaginare un mondo senza padroni,
ma non un mondo senza lavoratori. Il proletariato è
indispensabile, la borghesia no. Quando il proletariato
prenderà coscienza di questa elementare realtà, la
rivoluzione proletaria sarà in un certo senso una
"necessità storica": infatti tutte le azioni umane sono
determinate, in ultima analisi, dagli interessi. Il
proletariato farà la rivoluzione perchè è suo
interesse farla.
"In ultima analisi" vuol dire che le azioni umane sono determinate
anche da fattori "culturali" (la religione, le saggezza
tradizionale, la morale ecc.) che resistono per qualche tempo ai
mutamenti della realtà ma che "alla lunga" ne vengono
modificati. Questo processo può essere ritardato dalla
propaganda conservatrice, o affrettato dalla propaganda
rivoluzionaria.
Ma il proletariato non si ribellerà prima di aver preso
coscienza e non vincerà prima di essersi organizzato sotto
una guida capace di condurlo alla vittoria: la guida del partito
comunista, che viene descritto sinteticamente nel Manifesto:
i comunisti fanno parte del proletariato e non
hanno interessi distinti dagli interessi di tutto il proletariato.
lo scopo immediato dei comunisti è lo
stesso di tutti gli altri proletari; ma essi hanno il vantaggio
sulla restante massa di comprendere meglio le condizioni generali
del movimento
Fourier, Marx ed Engels, in contrasto con le idee utopistiche di
Owen e Saint-Simon, affermavano che il comunismo non poteva emergere
da piccole comunità isolate ma solo globalmente, dal corpo
dell'intera società. Anzi: dato che il capitalismo si
espandeva nel mondo, superando i confini nazionali, il comunismo
avrebbe dovuto avere un carattere internazionale: le ultime parole
del Manifesto sono "proletari di tutti i Paesi, unitevi!". E infatti
il primo passo nell'attuazione del programma fu la fondazione
dell'Internazionale.
Anarchismo
L'anarchismo (dal greco anarkos, "senza governo") è la teoria
secondo la quale l'uguaglianza e la giustizia debbono essere
conquistate abolendo lo Stato e sostituendolo con un sistema di
liberi accordi tra uomini liberi.
Anche le origini lontane dell'idea anarchica, come quelle dell'idea
comunista, risalgono all'antica filosofia greca (Zenone di Cizio,
circa 300 aC), passando attraverso alcuni movimenti religiosi del
Medio evo (intorno al 1300) ed alla setta protestante degli
Anabattisti, che nella città di Munster tentarono un
esperimento di "comunismo".
Di poche dottrine e movimenti l'opinione pubblica si è fatta
un'idea tanto confusa; e pochi hanno offerto, nella propria
varietà di atteggiamenti intellettuali e d'azione, tante
scuse per una simile confusione
Woodcock
Si ritiene che il padre del pensiero anarchico moderno sia
stato Proudhon; ma il suo primo teorico fu
Godwin ed il maggior divulgatore delle idee anarchiche
fu Bakunin. E' considerato anarchico anche Lev Tolstoj,
uno dei più grandi scrittori russi, il quale, essendo
cristiano, considerava l'abolizione dello Stato come una coerente
applicazione dell'insegnamento evangelico. Tolstoj però
rifiutò sempre (come Godwin) di definirsi anarchico: la sua
dottrina della rivoluzione non-violenta gli sembrava incompatibile
con le teorie degli altri anarchisti.
Gli anarchisti condividevano l'analisi marxiana della società
borghese, ma rifiutavano radicalmente ogni forma di organizzazione
gerarchica e perfino il principio di democrazia fondata sulla
volontà della maggioranza (la tirannia del numero), nel senso
che nessuno – nemmeno la maggioranza – doveva avere il potere di
limitare la libertà dei singoli individui.
Alla base dell'ideologia anarchica si trova la fede nell'uomo come
animale spontaneamente sociale e naturalmente libero, capace di
creare un ordine, fondato sull'uguaglianza e la
fraternità, che avrebbe preso il posto del disordine creato
dal potere. Liberi dalle imposizioni del potere, gli uomini
avrebbero costituito tante piccole comunità di base,
cementate dalla loro libera scelta. Altrettanto liberamente, queste
comunità avrebbero potuto stabilire tra loro dei rapporti di
collaborazione per raggiungere qualche scopo comune; federazioni via
via più vaste avrebbero conseguito obiettivi via via
più generali.
La società immaginata dagli anarchisti è descritta in
modo chiaro, lineare e coerente in una delle più belle pagine
delle Memorie di un rivoluzionario di Kropotkin, uno dei massimi
esponenti del pensiero anarchico.
Si poteva cominciare subito, come infatti avvenne, a costruire
pacificamente il nuovo ordine per mezzo di "società di mutuo
soccorso", di cooperative, di comunità agricole che furono
create anche con l'aiuto economico di borghesi progressisti. Era
anche la teoria della "propaganda con i fatti" (verso la
fine del secolo arrivò ad alcuni casi di fatti violenti) che
si affiancava alla propaganda con le parole.
Gli anarchisti, in generale, svolsero l'attività politica
come una forma di apostolato, senza proporsi come "capi", non per
guidare il popolo ma per illuminarlo ed offrirgli un esempio,
coerentemente con il loro principio anti-autoritario.
La loro elaborazione teorica si articolò in diverse correnti
di pensiero: mutualismo, collettivismo, comunismo anarchico,
anarco-sindacalismo e infine quella particolare interpretazione
dell'individualismo che alla fine dell'Ottocento condusse ad
una serie di azioni violente ed auto-distruttive. Una delle idee
centrali era quella dello sciopero generale, come forma di
rivoluzione non violenta che avrebbe determinato il crollo
definitivo dello Sato borghese.
L'eventualità di una rivoluzione cruenta, che non poteva
essere esclusa, era vista come violenza in risposta alla violenza
del potere, e comunque come un male. Perfino Bakunin, che fu il
più barricadero tra i grandi esponenti del pensiero
anarchico, scriveva che
"le rivoluzioni cruente sono spesso necessarie a causa della
stupidità umana, ma sono sempre un male mostruoso e un grande
disastro, non solo per quanto riguarda le vittime, ma anche per
quanto riguarda la purezza e la perfezione dell'idea nel cui nome
avvengono"
Il senso è chiaro: non la forza delle armi, ma la forza della
ragione permette di conservare la "purezza dell'idea" cioè le
migliori probabilità di realizzare l'obiettivo finale. Che
poi l'eventuale rivoluzione dovesse o potesse essere comandata da un
partito (come Marx prevedeva) e sfociare in una nuova forma di
governo, era escluso in radice:
Tutti i partiti, senza eccezione, nella misura in cui si propongono
la conquista del potere sono varietà dell'assolutismo
Proudhon
Le rivoluzioni non le fanno nè individui nè
società segrete. Nascono in una certa misura automaticamente.
Le producono la forza delle cose, la corrente degli eventi e dei
fatti.
Bakunin
L'evoluzione non è lenta e uniforme. Evoluzione e rivoluzione
si alternano, e le rivoluzioni – cioè i periodi di evoluzione
accelerata – appartengono all'unità della natura esattamente
come i periodi in cui l'evoluzione è più lenta
Kropotkin
Ciò non toglie che in alcuni casi (per es. in Italia) gli
anarchisti potessero giungere a progettare piccole insurrezioni
locali a scopo dimostrativo (altre varianti della "propaganda con
l'esempio"): per esempio conquistare il municipio di un paesetto,
fare un falò con i registri delle proprietà ed esporre
la bandiera anarchica per qualche giorno, prima che arrivassero i
soldati. Alcune di queste azioni furono ispirate o capeggiate dallo
stesso Bakunin; tutte fallirono, tra il comico e il patetico, per
l'ingenuità e la disorganizzazione dei congiurati.
E' significativo l'episodio (1877) di una dozzina di anarchisti,
già da qualche giorno inseguiti dalla polizia e persi in una
bufera di neve sulle montagne del Matese, quasi morti di freddo e di
fame. Quando requisirono la capretta di una famiglia di contadini
(rilasciando regolare ricevuta ai fini dell'indennizzo), la bambina
della famiglia si mise a piangere perchè la capretta era sua.
Allora i feroci rivoluzionari gliela restituirono e proseguirono in
mezzo alla bufera finchè, stremati dal freddo e dalla fame,
si lasciarono catturare senza fare resistenza.
La linea politica
La più ampia elaborazione teorica del pensiero anarchico
è dovuta a Bakunin che, da buon massone, sul piano
organizzativo restò sempre fedele all'idea della
clandestinità. Il suo modello di rivoluzione era fondato su
due elementi centrali: le masse contadine e una specie di
"avanguardia" di intellettuali.
Per Marx, invece, la posizione centrale era occupata dal
proletariato industriale, cioè dagli operai delle fabbriche;
e per questo pensava che le condizioni pre-rivoluzionarie
esistessero soprattutto nei Paesi industriali, specialmente in
Inghilterra. Se fosse vissuto abbastanza, la rivoluzione russa lo
avrebbe sorpreso.
Secondo Marx, sarebbe stata la classe operaia ad abbattere lo Stato
borghese, ma anche dopo la rivoluzione le classi avrebbero
continuato ad esistere: infatti la borghesia, anche se sconfitta,
non si sarebbe facilmente rassegnata ed avrebbe continuato a
combattere per riconquistare il potere.
Precisamente ciò che avvenne subito dopo la rivoluzione
russa, quando gli Stati capitalisti mandarono un esercito (l'Armata
Bianca) ad invadere la Russia; e l'Armata Rossa sarebbe stata
probabilmente sconfitta se non avesse avuto l'aiuto del grande
partigiano anarchico Machno, un contadino ucraino dotato
di uno straordinario genio militare.
Dunque il proletariato doveva tenersi pronto a difendere le proprie
conquiste anche con la forza, per non essere ricacciato indietro da
una controrivoluzione; cioè ad organizzare un apparato
repressivo, un nuovo tipo di Stato.
Marx considerava la conquista del potere da parte della classe
operaia come il superamento della società borghese e della
divisione della società in classi. La dittatura del
proletariato, cioè la distruzione dello Stato borghese e la
sua sostituzione con lo Stato proletario era considerata da Marx
come la necessaria fase intermedia per realizzare il
comunismo, cioè la società senza classi e quindi senza
Stato.
A Bakunin non era sfuggita la debolezza di questo punto del pensiero
marxiano: cioè che qualunque Stato, per il solo fatto di
esistere, esercita il suo potere su tutti; e che quindi la
dittatura del proletariato avrebbe esercitato il potere
anche sul proletariato (come infatti avvenne
puntualmente nella rivoluzione russa e poi in quella cinese).
Bakunin accusava i comunisti di essere "nemici delle istituzioni
politiche esistenti perché tali istituzioni escludono la
possibilità di realizzare la propria dittatura"; li accusava
di essere "gli amici più ardenti del potere statale"
perchè volevano costruire una società dominata e
programmata dall'alto.
Agli anarchici italiani, nel 1872, Bakunin scriveva:
Marx è un comunista autoritario e centralista. Egli vuole
ciò che noi vogliamo: il trionfo completo dell'eguaglianza
economica e sociale, però nello Stato e attraverso la potenza
dello Stato, attraverso la dittatura di un governo molto forte e per
così dire dispotico, cioè attraverso la negazione
della libertà.
Lo Stato, secondo Bakunin, dovunque ed in qualunque forma sia
presente (borghese, socialista o comunista), non è altro che
"sinonimo di costrizione, di dominazione attraverso la forza,
camuffata, se possibile, ma, al bisogno, brutale e nuda". Scartata
l'idea della dittatura del proletariato, all'abbattimento dello
Stato borghese sarebbe seguita una prima fase di
"confusione", un caos da cui sarebbe nata la fase
dell'ordine quando gli individui avrebbero capito la
possibilità e la necessità di auto-organizzarsi sulla
base della collaborazione reciproca.
Da parte sua, Marx criticava Bakunin soprattutto per il fatto che
"la volontà, non le condizioni economiche, è il
fondamento della sua rivoluzione sociale". In altre parole:
non lo Stato, ma la borghesia capitalista (della quale lo
Stato è solo uno strumento) è per Marx il nemico
da annientare. La scomparsa dello Stato sarà quindi una
conseguenza naturale della scomparsa della divisione in classi.
Nella prima Internazionale Marx e Bakunin furono i leader di due
opposte correnti e Marx ebbe la possibilità di dimostrare
quanto fosse fondata l'accusa di autoritarismo che Bakunin gli aveva
rivolto: infatti, quando la corrente marxista si trovò in
minoranza, preferì distruggere l'associazione piuttosto che
accettare le decisioni della maggioranza.
Conclusioni
Torniamo ora alla polemica Marx-Bakunin. Come si è visto Marx
era convinto che il proletariato non si sarebbe ribellato prima di
aver preso coscienza e non avrebbe vinto prima di essersi
organizzato sotto la guida del partito comunista.
Marx afferma che i membri del partito "non hanno
interessi distinti dagli interessi di tutto il proletariato" e
che "il loro scopo è lo stesso di tutti gli altri
proletari". Queste affermazioni si potrebbero accettare solo
supponendo che il partito fosse composto esclusivamente di
proletari: cioè (dal punto di vista di Marx) di operai. Ma
l'esperienza smentirebbe una tale ipotesi, sia sotto il profilo
storico (ciò che effettivamente avvenne) sia sotto il profilo
logico (ciò che era possibile o impossibile logicamente):
- i capi "naturali" del movimento (e quindi
del nascente partito) erano quelli che avevano teorizzato il
comunismo e la rivoluzione: non operai, ma filosofi,
intellettuali, borghesi e perfino nobili; ed erano i soli a
possedere gli strumenti culturali necessari per guidare il
partito.
- i proletari che, formandosi la cultura
necessaria, avrebbero potuto diventare capi del movimento non
avrebbero più fatto il lavoro di prima, quindi sarebbero
usciti dalla classe proletaria
- quali sarebbero gli interessi
comuni tra i proletari e i non-proletari?
- è ragionevole che un movimento
operaio sia guidato da non-operai, o da ex-operai, con i quali
forse il proletariato non ha (o non ha più) interessi
comuni?
- abbattuta la borghesia, da chi sarebbe
stato governato lo Stato proletario, se non dagli stessi
intellettuali che avevano guidato la rivoluzione?
- allora, il nuovo governo sarebbe stato una
"dittatura del proletariato" o piuttosto una dittatura dei
capi del proletariato?
- durante la dittatura del proletariato,
come si sarebbe creata la burocrazia (che certamente
non è fatta di operai) e da chi sarebbe stata
controllata?
- chi avrebbe avuto le armi?
- se è vero che le azioni sono
determinate dagli interessi (e proprio per questo la
rivoluzione proletaria era inevitabile), quale sarebbe stato poi
l'interesse, la ragione per cui questa dittatura, la burocrazia
e le forze armate avrebbero rinunciato ai propri poteri?
A queste ultime domande, Marx avrebbe forse risposto che la
burocrazia, le forze armate e il governo avrebbero spontaneamente
ceduto il potere perché, nati dalla rivoluzione, sarebbero
rimasti fedeli alle idee ed al programma rivoluzionario; ma in
questo caso avrebbe meritato la stessa critica che egli stesso
rivolgeva a Bakunin: che la volontà, non le condizioni
concrete erano il fondamento della sua prospettiva rivoluzionaria.
Altrimenti, avrebbe dovuto teorizzare un sistema per tenere tali
forze (la cui importanza determinante non può sfuggire
neanche al più sprovveduto osservatore) sotto il controllo
effettivo delle masse. Un'impresa piuttosto difficile, anche
soltanto sul piano teorico. Un tentativo in questo senso poteva
essere (o forse fu) la "rivoluzione culturale" cinese (1966), ma su
questa si dovrebbe scrivere un capitolo a parte.
Un'altra questione di essenziale importanza è la seguente:
chi e come avrebbe impedito agli Stati capitalisti di aggredire un
nuovo Stato socialista? Marx aveva una risposta: il proletariato
degli altri Stati si sarebbe opposto all'aggressione.
Questo, in sostanza, significava che la rivoluzione proletaria
avrebbe dovuto necessariamente cominciare – contemporaneamente o
quasi – in tutti i Paesi capitalisti o almeno che i
partiti socialisti nazionali fossero abbastanza forti da paralizzare
i rispettivi governi (per es. con una serie di scioperi generali).
Questo doveva bastare a comprendere l'enorme importanza
dell'internazionalismo (e Marx l'aveva ben capita); questa era la
ragione per cui l'intero movimento dei lavoratori aveva concentrato
i suoi sforzi organizzativi nella prima Internazionale.
Ma questo rende assolutamente ingiustificabile ed equivalente
ad un tradimento della causa del proletariato il comportamento
di Marx e dei suoi seguaci, che preferirono uccidere
l'Internazionale piuttosto che lasciarsi mettere in minoranza dagli
anarchisti.
* * *
Bakunin, con la sua teoria della "fase di confusione" dalla quale
sarebbe sorta spontaneamente la società anarchica, aveva
semplicemente eluso una serie di problemi: in qualunque modo,
violento o no, in cui lo Stato borghese fosse stato
abbattuto, la classe borghese avrebbe conservato
capacità di controllo assolutamente superiori a quelle del
proletariato: burocrazia, intellettuali, mezzi d'informazione,
esercito, servizi segreti, organizzazioni terroristiche ecc.
sarebbero rimasti nelle sue mani. Nulla poteva autorizzare la
speranza che dal "caos" previsto dagli anarchisti non sorgesse una
dittatura borghese ancora più feroce dello Stato
"democratico" appena abbattuto.
Ricordare per es. gli anni 1920-30, quando la rivoluzione tedesca fu
stroncata dalle organizzazioni criminali (le bande para-militari) e
in Europa il movimento socialista fu fisicamente soppresso dai
regimi nazi-fascisti al tentativo di instaurare con la forza una
nuova dittatura borghese, solo un partito proletario bene
organizzato e bene armato avrebbe potuto opporsi: proprio ciò
che Bakunin non voleva; e comunque, all'ipotesi di un tale partito
si potevano opporre tutte le obiezioni che già lo stesso
Bakunin aveva opposto a Marx, oltre a quelle che abbiamo appena
visto in sintesi
La filosofia che "il morto insegna a piangere", cioè
che intanto le masse faranno la rivoluzione, e poi
impareranno, lungo il cammino, a difendere le proprie conquiste,
sembra un po' troppo semplice. Le masse non partoriscono
miracolosamente, dall'oggi al domani, capi politici, dirigenti,
economisti, legislatori, burocrati e capi militari; e
intanto gli eserciti della borghesia sparano cannonate vere, e
non chiacchiere.
Una componente della tendenza spontaneista, che ha le sue radici
nell'anarchismo "individualista" di fine Ottocento, è quella
che vede nel sottoproletariato e nella piccola delinquenza un
"potenziale rivoluzionario" che si sposa felicemente (guarda caso!)
con lo spirito di trasgressione e di illegalità della piccola
borghesia "di sinistra". Tale componente ha continuato e continua ad
affiorare, qua e là, fino ai tempi attuali ed è stata
espressa nel pamphlet "L'insurrection qui vient", pubblicato in
Francia nel 2007, un'opera sotto molti aspetti esemplare.
Oggi come allora, realisticamente, il problema si pone proprio nei
termini in cui tanto Marx quanto Bakunin avevano evitato di porselo:
data per inevitabile la necessità di un'organizzazione, si
tratta di trovare il modo in cui tale organizzazione non diventi un
partito e rimanga sempre controllabile "dal basso"
E' ragionevole temere che attualmente qualunque "partito", per sua
stessa natura, non potrebbe essere migliore dei partiti già
esistenti, o magari peggiore.
Certamente non è facile (se fosse facile qualcuno l'avrebbe
già fatto); ma alla luce delle recenti esperienze storiche
non è ammissibile nessun tentativo, conscio o inconscio, di
eludere un tale problema.