Marxismo e Anarchismo

Le radici filosofiche del conflitto Marx-Bakunin


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Sono state fornite molte spiegazioni del conflitto tra Marx e Bakunin. C'è chi ha posto l'accento sul carattere intrattabile dei due filosofi, che precluse ogni accordo. Tuttavia ad un'analisi più attenta, come quella sviluppata in questo articolo (pubblicato sul sito In defence of Marxism), si noterà che le differenze tra marxismo ed anarchia sono così profonde da rendere le analogie più apparenti che reali.
 
“Ancora una volta affermo che, non essendo un fedele discepolo di Marx, non ho l’autorità per esprimere un giudizio. La mia impressione, per quello che può valere, è che il primo Marx fosse espressione del tardo Illuminismo, divenuto col tempo un’attivista piuttosto autoritario e un’analista critico del capitalismo, che aveva poco da dire rispetto ad alternative di tipo socialista. Ma queste sono appunto solo impressioni.” Noam Chomsky.

I tempestosi rapporti tra Marx e Bakunin sono un lascito della storia del socialismo occidentale. Entrambi membri dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, sembra che abbiano impiegato le stesse energie utilizzate contro il nemico comune, il sistema capitalista, per farsi la guerra tra loro, culminata con l’espulsione di Bakunin dall’organizzazione propugnata da Marx stesso. Benché mantenessero talvolta cordiali rapporti, non lesinavano mutui attestati poco cordiali. Secondo Marx, Bakunin era “un uomo privo di conoscenze teoriche” e “sostanzialmente un intrigante”, [1] mentre Bakunin sosteneva che “…[Marx] non conosce l’istinto di libertà; rimane un autoritario dalla testa ai piedi.” [2]

Per alcuni l’intensità dello scontro fu imbarazzante, considerando che i fini dei due autori sembrano combaciare. Convinti che il capitalismo trovi fondamento nello sfruttamento dei lavoratori da parte dei capitalisti, entrambi lottavano per una società socialista senza classi, in cui ogni individuo avesse l’opportunità di sviluppare le proprie capacità creative. Il socialismo è per loro eliminazione della divisione tra lavoro manuale e intellettuale e tra uomini e donne. In altre parole, il sistema doveva essere trasformato in modo che ogni lavoratore avesse una parte attiva nell’organizzazione, nella pianificazione e nell’ottimizzazione del processo lavorativo. Inoltre, per entrambi, gli oppressi dovevano liberarsi da soli – non ci si poteva attendere alcuna benevolenza da parte dei membri della classe dominante; e per avere successo, la rivoluzione doveva assumere un carattere internazionale. Infine concordavano sul fatto che lo Stato fosse uno strumento dell’oppressione di classe, e non un organo neutrale che rappresenta con equità gli interessi di tutti, e dovesse perciò, in ultima analisi, essere abolito. La Comune di Parigi del 1871 era, secondo loro, il modello da emulare.

Tuttavia c’era un punto di conflitto profondo inerente due diverse concezioni dello Stato. Mentre Marx prevedeva uno stadio intermedio tra capitalismo e comunismo maturo, uno stato sotto forma di dittatura del proletariato (cioè uno stato operaio), Bakunin aborriva qualunque sistema statale, sia pure operaio. Ecco il principio generatore dell’idea anarchica, termine che significa letteralmente “nessun governo”. Per Bakunin l’unica seria opzione rivoluzionaria doveva prevedere l’immediato passaggio ad una società comunista matura che, e qui i due autori tornavano in accordo, si sarebbe distinta per l’assenza di stato. Corollario di questa divergenza era che Marx sostenesse i tentativi delle organizzazioni operaie indipendenti di perseguire i propri scopi di classe facendo pressioni per riforme quali la riduzione dell’orario di lavoro, sostenendo che eventuali successi avrebbero favorito lo sviluppo di una coscienza di classe, mentre Bakunin contestava questa linea. Per lui ogni coinvolgimento politico avrebbe costituito una distorsione del processo rivoluzionario, non si doveva assolutamente frequentare l’arena politica borghese. C’era dissenso anche sulle forme più adatte all’organizzazione rivoluzionaria. Bakunin creava con entusiasmo società segrete che dovevano servire da catalizzatori della rivolta rivoluzionaria mentre Marx rigettava totalmente quest’idea. Anche il ruolo dei contadini nel movimento rivoluzionario era infine in discussione. Secondo Bakunin poteva essere determinante, per Marx solo il proletariato era in grado di condurre l’azione rivoluzionaria.

Considerata la preponderanza dei punti d’accordo, alcuni commentatori hanno caratterizzato l’interminabile diatriba che caratterizzò il loro rapporto come il risultato di differenti inclinazioni personali. Ad esempio Bakunin è stato accusato di essere contemporaneamente antisemita e antitedesco, mentre Marx sarebbe stato vittima di un’incurabile e rigida tendenza all’autoritarismo. In ogni caso un più attento esame delle irriducibili differenze deve muovere da una ricerca approfondita sulle strutture filosofiche divergenti che stanno alla base delle rispettive analisi politiche. Come vedremo, i concetti fondamentali di ognuno sono talmente differenti tra loro da rendere gli stessi punti di convergenza più illusori che sostanziali.

Le posizioni filosofiche di Bakunin

I più importanti concetti filosofici alla base dell’approccio di Bakunin alla realtà umana provengono dall’Illuminismo europeo, in particolare dalla scuola empirista di questa tradizione, dei cui principi tracceremo ora una breve descrizione.

Essendo stati testimoni degli enormi successi ottenuti nell’approccio alle scienze naturali da studiosi del calibro di Newton e Galileo tra gli altri, molti filosofi illuministi furono tentati di trasporne sia il metodo che gli assunti principali nel dominio delle scienze umane. Ciò portò all’elaborazione di concetti quali l’idea che specie differenti d’ oggetti naturali contengano ognuno un’unica, definita e immutabile essenza; o che gli oggetti interagiscano tra di loro secondo leggi meccaniche fisse di causa ed effetto e che quindi anche le interazioni tra individui siano regolate da leggi identificabili e codificabili tramite l’attenta osservazione diretta. Conseguentemente i pensatori illuministi considerarono gli esseri umani creature naturali tra le altre, con un’essenza permanente loro propria e comportamenti interamente determinati da cause naturali.  Questo approccio  era sintetizzato dal popolare ricorso al concetto di “stato di natura”, cioè precedente, in senso letterale o figurato, alla nascita di società organizzate, immagine che richiamava una condizione “immacolata” della natura umana, prima dei cambiamenti imposti dall’impatto con la società. I filosofi dell’epoca, in pieno sviluppo capitalistico, consideravano gli uomini come individui autonomi, indipendenti e individualisti, fortemente inclini a perseguire i propri interessi personali, seguendo i dettami borghesi vigenti.

In qualche modo Bakunin si allontanò da questa tradizione filosofica rifiutando la descrizione essenzialmente individualistica degli uomini. Per esempio derideva l’idea che la società nascesse da contratti stipulati tra singoli individui indipendenti, definendola una “finzione” filosofica, sostenendo al contrario che gli uomini fossero naturalmente sociali ed avessero sempre vissuto in comunità. Ma sottoscrisse pienamente l’approccio secondo cui l’uomo dovrebbe, da un punto di vista teorico, essere considerato alla stregua di qualunque altro oggetto naturale, con un comportamento totalmente governato da leggi naturali meccaniche. Le seguenti citazioni offrono un esempio di questa visione:

“Ci sono molte leggi che, nonostante la nostra inconsapevolezza, fanno muovere [la società]; si tratta di leggi naturali, inerenti il corpo sociale…Esse hanno governato la società umana sin dalla sua nascita indipendentemente dalle opinioni e dalla volontà degli uomini ad essa appartenenti.” [3]

“[Le leggi naturali]…fanno parte della nostra essenza nel senso più generale, fisicamente, intellettualmente, moralmente; solamente tramite queste leggi  noi possiamo vivere, respirare, agire, pensare e desiderare.” [4]

“Storia e statistiche ci dimostrano che il corpo sociale, come ogni altro oggetto naturale, nelle sue trasformazioni evolutive obbedisce a leggi generali necessarie tanto quanto quelle che regolano il mondo fisico.” [5]

“L’uomo non è nient’altro che Natura… E la Natura avvolge, permea, forma la sua intera esistenza.” [6]

L’etica di Bakunin appare a prima vista come una logica conseguenza del suo generale approccio naturalistico nel momento in cui fa coincidere moralità e naturalità:

“La legge morale…ha senza dubbio fondamenti reali…perché emana direttamente dalla vera natura della società umana, le cui radici non vanno ricercate in Dio ma nell’animalità.” [7]

“Parlo di quella giustizia basata esclusivamente sulla coscienza umana, il senso di giustizia che ognuno di noi, anche da bambino, sente nel profondo del suo essere, che si traduce semplicemente nel concetto d’ uguaglianza.” [8]

In altre parole, c’è un sentimento umano naturale di giustizia insito e immutabile nella natura umana.

Il concetto che Bakunin ha del male non è affatto solido. Da un lato sembra seguire la tradizione empirista che lo identifica comunque con qualcosa di naturale: “Sappiamo bene, in ogni caso, che Bene e Male non sono nient’altro che risultati conseguenti da cause naturali, e che quindi sono entrambi inevitabili.” [9] Dall’altro, forse trovandolo politicamente conveniente, egli considera il Male non come un impulso o sentimento naturale, ma come qualcosa di “innaturale” , esterno al campo di applicazione delle leggi naturali, che con la sua esistenza crea un sistema duale. Per sua natura ciò che non è governato da queste leggi è innaturale, artificiale, e può essere dominato solo con il continuo ricorso a forza e coercizione: “Dobbiamo saper distinguere molto bene le leggi naturali dalle leggi autoritarie, arbitrarie, politiche, religiose, criminali e civili instaurate dalle classi privilegiate…”[10]

Un’ultima importante componente dell’arsenale ideologico di Bakunin è la nozione di libertà. Quando Marx e Bakunin menzionano questo termine, hanno in mente due concetti completamente differenti. L’idea di Bakunin contiene elementi importanti. Per esempio egli ritiene che agire liberamente significhi prima di tutto agire “naturalmente”, in accordo con i propri impulsi naturali: “La libertà dell’uomo consiste esclusivamente in questo: egli obbedisce a leggi naturali che egli stesso riconosce come tali e non come imposte da una qualunque volontà esterna, divina, umana, collettiva o individuale che sia.” [11] In altri termini siamo al concetto di uomini come creature naturali dominate da leggi naturali. Agire naturalmente significa semplicemente essere spontanei, essere “sé stessi”: “Ancora una volta, è la Vita, non la scienza, che crea la vita stessa; l’agire spontaneo delle masse, da solo, può creare libertà”. [12]

L’identificazione tra libertà e spontaneità, o comportamento impulsivo, conduce ad un secondo aspetto della definizione bakuniana. Egli sostiene che la libertà possa essere esercitata da un singolo, isolato individuo all’interno di una comunità umana, che sia possibile agire spontaneamente in totale solitudine, senza alcuna capacità mentale speciale acquisita. Quindi per Bakunin il concetto di libertà è individuale, non fa riferimento a tutti gli uomini costituenti una comunità.

“La libertà…consiste nell’ avere la possibilità, come uomo, di non obbedire a nessun altro e di agire solo sulla base del proprio giudizio personale.” [13]

“Libertà è il diritto assoluto di uomini e donne adulte a rispondere delle proprie azioni solo al cospetto della propria coscienza e della propria  ragione, a essere i soli a determinare le proprie libere volontà, e conseguentemente ad essere responsabili di sé stessi verso sé stessi, prima di tutto, e poi nei confronti della società, di cui fanno parte, ma solo fino a quando acconsentono ad appartenervi.” [14]

Comunque, ritenendo che gli uomini tendessero naturalmente alla socialità, a volte cercò di dimostrare che questo concetto di libertà operava coerentemente nella comunità umana:

“Mi considero un fanatico della libertà…Non parlo della libertà formale dispensata, misurata e controllata dallo Stato…e nemmeno di quella individuale, egoista, vile e fraudolenta magnificata dai seguaci di Jean Jacques Rosseau e da ogni altra scuola di pensiero del liberalismo borghese, che considera i diritti di tutti, rappresentati dallo Stato, come un limite al diritto di ognuno…No, io intendo l’unica libertà degna di questo nome, quella che implica lo sviluppo di tutte le capacità materiali, morali ed intellettuali latenti in ognuno di noi; la libertà che non conosce confini, se non quelli imposti dalle leggi della propria natura, né conseguentemente restrizioni, poiché queste leggi non ci sono imposte da nessun legislatore esterno. Esse sono soggettive, proprie appunto della nostra natura, costituenti fondamentali della nostra essenza…La libertà di ogni uomo che non considera quella di un suo simile come frontiera ma come conferma ed estensione della propria; libertà per mezzo di solidarietà, nell’ uguaglianza.” [15]

Lasciando perdere eventuali questioni di coerenza con le sue prime formulazioni, Bakunin sostiene che è nella nostra natura vivere uniti in uguaglianza, cooperando gli uni con gli altri, senza sfruttatori né sfruttati. Per cui, agendo naturalmente e quindi liberamente, di certo non danneggerò il mio vicino, piuttosto consentirò anche a lui di vivere secondo natura. In questo modo la libertà del singolo serve a confermare ed estendere la propria. Ma, ancora, questa concezione di libertà è incentrata sull’individuo: “…libertà e prosperità collettive esistono solo come sommatoria di libertà e prosperità individuali.” [16]

Per riassumere: Bakunin agisce, per sommi capi,  in un contesto di pensiero naturalistico dominato dalla corrente empirista dell’Illuminismo. Gli esseri umani fanno parte di un ambiente naturale dato, nel quale i comportamenti sono determinati in base a leggi naturali. Questa condizione è identificata con il Bene. Ma nel momento in cui la coercizione entra nelle relazioni tra gli individui, ci si sposta nel regno dell’innaturale. Alienati dalla nostra condizione naturale ci troviamo a perdere la nostra libertà.

La filosofia di Marx

Mentre le principali asserzioni teoriche di Bakunin erano saldamente radicate nella filosofia materialista dell’Illuminismo, Marx si confrontò con questa tradizione solo dopo che, per merito di Hegel, questa aveva subito significative trasformazioni. In primo luogo Hegel rigettò l’idea di genere umano come specie sottoposta alle medesime ed immutabili leggi governanti il resto del mondo naturale. Piuttosto postulò l’idea di un’umanità coinvolta in un processo evolutivo, in continua e tumultuosa trasformazione nel suo percorso tendente ad una razionalità sempre maggiore. Inoltre quest’ impresa era concepita come grande sforzo collettivo poiché la razionalità, in ultima analisi, è un attributo che richiede, dal momento della sua comparsa e nel suo continuo esercizio, il contributo dell’intera specie. Per esempio, ogni generazione si trova a costruire sulle realizzazioni razionali di quelle precedenti, ed in questo modo l’umanità progredisce nella conoscenza scientifica della realtà circostante. Alla fine, secondo Hegel, il processo troverà la fine in uno stato di perfetta razionalità in cui l’umanità avrà acquisito auto-coscienza e i suoi membri saranno capaci di regolare i rapporti tra loro secondo canoni condivisi e razionali, avendo raggiunto la consapevolezza di sé stessi come specie razionale in senso comunitario.

Marx condivise la visione hegeliana di un’umanità alle prese con un’intrapresa collettiva, ma argomentò a favore di una logica differente alla base del processo. Per Hegel lo sviluppo storico procedeva in parallelo al grado di presa di coscienza raggiunto dell’uomo, mentre Marx lo faceva dipendere da una base materiale. In particolare, riteneva che il modo in cui gli uomini ricercano la soddisfazione dei propri bisogni primari imprima un marchio sul tipo di società costruita, sui rapporti tra le persone e sulle idee che formulano riguardo sé stesse e il mondo che le circonda:

“ Nella produzione sociale della loro esistenza gli uomini vengono a trovarsi in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, cioè in rapporti di produzione corrispondenti ad un determinato livello di sviluppo delle forze produttive materiali. Il complesso di tali rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, la base reale su cui si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e a cui corrispondono determinate forme di coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale è ciò che condiziona il processo sociale, politico e spirituale. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma, al contrario, è il loro essere sociale che determina la loro coscienza.” [17]

Inoltre questa concezione economica ha una logica che spiana la strada ad un processo storico:

“…Dobbiamo cominciare con il constatare che il primo presupposto di ogni esistenza umana, dunque anche di ogni storia, è che gli uomini, per potere «fare storia», debbano essere in grado di vivere. Ma al vivere si addice, innanzi tutto, il mangiare e bere, l’abitazione, il vestiario e altre cose ancora. Il primo fatto storico dunque la produzione di mezzi per la soddisfazione di questi bisogni, la produzione della vita materiale stessa. (…)

Il secondo punto è che il primo bisogno soddisfatto, (…) porta a nuovi bisogni – e questa produzione di nuovi bisogni è il primo fatto storico.” [18]

Come per Hegel, anche per Marx questo sviluppo storico ha carattere collettivo dato che gli uomini dipendono gli uni dagli altri sia per la soddisfazione dei bisogni primari che per l’acquisizione di necessità più elevate:

“Ciò che abbiamo di fronte, da cui dobbiamo partire, è la produzione materiale. Gli individui producono in società – quindi la produzione individuale socialmente determinata è, senza dubbio, il punto di partenza.

Il cacciatore o il pescatore isolati dal contesto, da cui sono partiti Smith e Ricardo, sono presunzioni prive d’immaginazione tipiche del diciottesimo secolo. cose da Robinson Crusoe che in nessun modo però esprimono unicamente una reazione contro l’ultra-sofisticazione ed il ritorno ad una incompresa vita naturale, come immaginano gli storici della cultura. Anche il contratto sociale di Rousseau, che prevede soggetti naturalmente autonomi ed indipendenti legati tra loro appunto per contratto, poggia su un naturalismo di questo tipo.” [19]

Mentre Bakunin supponeva un’essenza umana fissa e naturale, Marx, sul sentiero tracciato da Hegel, credeva che la natura umana stessa fosse coinvolta in un processo evolutivo in cui si dispiegano i tratti caratteristici di ogni epoca storica in modo da generare un continuo movimento di ricostruzione della natura stessa. Mentre gli uomini inventano strumenti sempre più elaborati da utilizzare nei processi produttivi, contemporaneamente essi trasformano sé stessi in individui più razionali e universali. Inizialmente la razza umana era difficilmente distinguibile dal resto del regno animale; gli uomini agivano in modo impulsivo, con scarsa coscienza di sé e dell’ambiente circostante. In altre parole, nella prospettiva di Marx, l’immagine bakuniana di un’umanità come specie naturale immutabile, ha una parvenza di validità solo nei primi momenti storici.

“Questo principio di coscienza animale tanto quanto la vita sociale di questo stadio stesso, è semplice coscienza da gregge e l’uomo si differenzia qui dal montone soltanto perché la sua coscienza supplisce l’istinto ovvero il suo è un istinto cosciente. Questa coscienza da montone o tribale ha un suo ulteriore sviluppo e perfezionamento grazie all’accresciuta produttività, all’accrescimento dei bisogni e all’incremento della popolazione che sta alla base di entrambi.” [20]

Ma nel corso di una rivoluzione comunista, avviene un’importante trasformazione: la classe operaia prende il controllo dei mezzi produttivi e, per la prima volta, li dirige secondo un piano cosciente e razionale:

“La dipendenza universale, questa forma naturale della cooperazione degli individui sul piano storico-universale, viene trasformata dalla rivoluzione comunista nel controllo, nel dominio cosciente di queste potenze che, prodotte dall’interazione degli uomini, si sono fino ad oggi imposte loro e li hanno dominati.” [21]

A questo punto gli uomini hanno abbandonato il loro vivere animalesco e impulsivo a favore di un deliberato e razionale controllo dei propri interessi. Ma il pieno e consapevole controllo delle forze produttive può essere raggiunto solo se gli uomini lavoreranno in cooperazione ed armonia reciproca, traguardo impossibile da raggiungere finché regnano divisioni di classe e sfruttamento, che precludono la possibilità di controllare razionalmente le forze produttive:

“In primo luogo, le forze produttive appaiono del tutto indipendenti e sganciate dagli individui, un mondo vero e proprio accanto agli individui, che ha il suo fondamento in questo, che gli individui di cui esse sono le forze, esistono frazionati e in contrapposizione reciproca, mentre queste forze, d’altra parte, sono forze reali solo nel rapporto e nel collegamento di questi individui.” [22]

Ecco perché il coinvolgimento di ogni individuo nel controllo consapevole dell’economia è un prerequisito assoluto:

“In tutte le appropriazioni sino ad oggi una massa di individui restò sottomessa ad un unico strumento di produzione; nell’appropriazione da parte dei proletari, una massa di strumenti di produzione viene sottomessa a ciascun individuo e la proprietà viene sottomessa a tutti. Le relazioni universali moderne non vengono sottomesse agli individui altrimenti che con l’essere sottomesse a tutti.” [23]

In palese contrasto con Bakunin, secondo Marx una rivoluzione vittoriosa non avrebbe significato il ritorno ad un’ originaria essenza naturale soffocata dall’avvento dello Stato e dalle differenziazioni di classe, ma la vera e propria nascita di un nuovo genere umano:

“Sia per la produzione di massa di questa coscienza comunistiche per il successo della cosa stessa, è necessaria una trasformazione di massa degli uomini, che può avvenire solo in un movimento pratico, in una rivoluzione; che dunque la rivoluzione non è necessaria soltanto perché la classe dominante non può essere rovesciata in nessun altro modo, ma anche perché la classe rovesciante può riuscire solo in una rivoluzione a togliersi di dosso tutto l’antico sudiciume e a diventare capace di una rifondazione della società.” [24]

Quindi, tramite il processo rivoluzionario, il proletariato si trasforma da classe passiva, sottomessa alla borghesia, in agente indipendente capace di prendere in mano le redini della storia e dirigere gli eventi secondo un piano cosciente. Siamo all’alba di una nuova epoca in cui gli individui agiscono secondo logiche collettive e consapevoli nel determinare le politiche sociali: “Soltanto a questo stadio l’attività personale coincide con la vita materiale, cosa che corrisponde allo sviluppo degli individui come individui totali e alla liberazione da ogni naturalità.” [25]

Vediamo perciò come Marx e Bakunin abbiano sviluppato due visioni drammaticamente divergenti dell’umanità. Per Bakunin la natura umana è statica e legata a ciò che è fisicamente naturale, mentre per Marx l’umanità si trasforma, lasciandosi alle spalle atteggiamenti animaleschi e raggiungendo livelli sempre più elevati di razionalità e autocoscienza.

Le loro dottrine etiche conseguentemente riflettono questi contesti concettuali differenti. Bakunin identifica “bene” e “naturale”, Marx relativizza storicamente questi termini giacché nuovi modi di produzione produrranno nuovi parametri etici:

“La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza è innanzitutto direttamente intrecciata  all’attività materiale e allo scambio materiale tra gli uomini, linguaggio della vita reale. La rappresentazione, il pensiero, lo scambio spirituale tra uomini appaiono qui ancora come un’estrinsecazione diretta del loro comportamento materiale. Per la produzione spirituale, come si presenta nel linguaggio delle leggi, della politica, della morale, della religione, della metafisica, ecc., delle loro rappresentazioni, delle loro idee, ecc., ma gli uomini reali, che operano, sono, come loro condizionati da uno sviluppo determinato delle loro forze produttive e dello scambio ad esse corrispondente fino alle sue formazioni più ampie.” [26]

Criticando le posizioni di Gilbart, storico dell’economia inglese che nel 19° secolo sostenne che ricavare profitto dal denaro tramite l’interesse era “naturalmente” giusto, Marx sostenne che non c’è giustizia naturale, vale a dire una giustizia valida per sempre:

“È assurdo parlare qui di giustizia naturale,come fa Gilbart (…). La giustizia delle operazioni che avvengono tra agenti della produzione dipende da ciò, che queste operazioni derivano come conseguenza naturale delle condizioni della produzione. Le forme giuridiche in cui queste operazioni economiche. Appaiono come atti di volontà di quelli che vi partecipano, come manifestazioni della loro volontà comune, e come contratti di cui il potere giudiziario può esigere l’esecuzioni rispetto alle singole parti, non possono in quanto semplici forme, determinare questo contenuto stesso. Esse non fanno che esprimerlo. Questo contenuto giusto quando corrisponde al modo di produzione, gli è adeguato. È ingiusto quando si trova in contraddizione con esso.” [27]

In Marx la nozione di libertà subisce uno spostamento paradigmatico rispetto a quella di Bakunin e della corrente empirista dell’Illuminismo. Ci sono due punti cruciali che Marx mette in gioco partendo da questa tradizione, in entrambi i casi ispirandosi all’analisi hegeliana.

In primo luogo, per Marx, libertà non significa seguire i propri impulsi o gareggiare in spontaneità. Gli impulsi fanno parte della propria costituzione naturale – non sono il risultato di scelte. Quando agiamo in modo impulsivo, siamo “naturali” e inconsapevoli. Tuttavia quando ci comportiamo razionalmente e consapevolmente siamo noi, attraverso decisioni ben ponderate, a  determinare il corso delle nostre azioni. Conseguentemente Marx si allinea a quei settori illuministi rappresentati, tra gli altri, da Kant e Rousseau, che approvavano entrambi l’autonomia del soggetto:

“Il lavoro veramente libero, creativo, coincide con lo sforzo più intenso, necessita della massima serietà. La produzione materiale può raggiungere questo stadio solo (1) quando è dato il suo carattere sociale, (2) quando abbia carattere non solo scientifico ma generale, non attività umana come pura forza naturale imbrigliata alla bisogna, ma vero e proprio soggetto del processo produttivo che agisce governando tutte le forze della natura.” [28]

Secondariamente, e in conseguenza di ciò, per Marx la libertà non è una capacità fondamentalmente individuale, ma principalmente un’impresa  attuabile da una comunità di uomini, in accordo con le sue analisi basate sulle idee di Kant e Rousseau. La scienza, per esempio, non può essere creata od utilizzata da un individuo isolato. Gli uomini hanno vissuto per migliaia d’ anni prima di poter iniziare ad abbozzare un pensiero scientifico, e ancora più a lungo prima di poter elaborare e formalizzare vere e proprie teorie scientifiche. Ma nessun progresso in questa direzione sarebbe stato possibile se l’uomo non avesse imparato a costruire sulle fondamenta lasciate dai suoi predecessori.

Siccome gli uomini dipendono, fisicamente e psicologicamente, l’uno dall’altro per il soddisfacimento dei propri bisogni, sono costretti a lavorare a stretto contatto. Nella società regolata dal capitalismo questa cooperazione è forzata a diventare competizione tra individui, piuttosto che collaborazione, ed ognuno decide come comportarsi in base al proprio interesse personale. Ciò non permette una riflessione critica sulla struttura in cui gli individui stessi si trovano ad operare perché, dal punto di vista del singolo isolato dal contesto, essa risulta inalterabile. Da questa prospettiva la società appare tanto rigida quanto la forza di gravità. Scopo di una società socialista è ribaltare questa relazione. Invece di individui impotenti di fronte alle proprie istituzioni sociali, avremo persone in grado di cambiare queste istituzioni al mutare di bisogni e valori tramite discussioni comunitarie organizzate. E questo stadio può essere raggiunto solo operando come una forza coordinata, in cui ad ognuno sia data la possibilità di partecipare, discutere, dibattere, votare sulle opzioni possibili. Quindi una società socialista mette in gioco un nuovo, e più avanzato secondo Marx, concetto di libertà: la determinazione razionale e collettiva delle politiche sociali. “La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo scambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da essa dominati come da una forza cieca.” [29]

Di conseguenza, Marx ritiene che la definizione individualistica bakuniana di libertà rimanga invischiata nella struttura concettuale della filosofia borghese generando solamente confusione se trasportata pari pari in un contesto socialista:

“La libertà [nella concezione borghese] è dunque il diritto di fare ed esercitare tutto ciò che non danneggia nessun altro. I limiti entro i quali ognuno si può muovere senza danneggiare un altro sono stabiliti per legge, così come i confini tra due campi sono determinati mediante un palo. Si tratta della libertà dell’uomo come monade isolata e ripiegata su sé stessa (…) Ma il diritto [borghese] dell’uomo alla libertà non si basa sull’unione dell’uomo con l’uomo, quanto piuttosto sull’isolamento dell’uomo dall’uomo. E’ il diritto a tale isolamento, il diritto dell’individuo limitato, limitato a sé stesso.” [30]

Nei fatti, questa concezione borghese di libertà, se comparata ad un più avanzato concetto socialista, non è nient’altro che un’altra forma di schiavitù:

 “Precisamente la schiavitù della società civile appare come la più grande libertà perché rappresenta, ad un primo approccio, l’indipendenza individuale al suo massimo grado di sviluppo, quando ognuno considera come propria libertà il movimento senza regole, perché libero da vincoli di qualunque tipo, dei fattori alienati dalla sua vita come proprietà, industria, religione, ecc…mentre in questa condizione sono schiavitù e disumanità ad essere pienamente dispiegate.” [31]

In ultima analisi quindi le differenze tra le concezioni di libertà di Marx e Bakunin originano da presupposti filosofici opposti. Per Bakunin, essendo l’uomo una specie naturale, è conseguente definirla come l’agire naturale, mentre per Marx, che vede l’umanità coinvolta in un processo di innalzamento al di sopra delle forze naturali, la libertà si identifica con un’azione collettiva e razionale.

Altra pietra miliare della costruzione filosofica di Marx è la sua analisi delle leggi che regolano la storia. Come abbiamo visto, il suo approccio materialista allo studio della disciplina lo porta ad enfatizzare il ruolo delle condizioni economiche nel determinare il corso del suo sviluppo. Mentre Bakunin argomentava che le leggi storiche potevano essere ricondotte a leggi naturali, ammettendo implicitamente che gli uomini non possono controllare il proprio destino meglio di qualunque altro oggetto naturale, Marx ipotizzò l’esistenza di una relazione tra intenzioni umane e ambiente economico circostante:

“Gli uomini fanno la propria storia, ma non fa fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione.” [32]

“Si nota come le circostanze facciano l’uomo molto più di quanto l’uomo faccia le circostanze.” [33]

Ecco come il contesto materiale e le intenzioni degli uomini possano, secondo i casi, andare a braccetto con la storia o scagliarla con violenza in una direzione particolare.

Secondo Marx questo rapporto scaturisce dai processi produttivi di base attraverso cui gli uomini si relazionano l’uno con l’altro e, contemporaneamente, con la natura stessa:

“In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra l’uomo e la natura, nel quale l’uomo, per mezzo della propria azione, media , regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi i materiali della natura in forma usabile per la propria vita. Operando mediante tale moto sulla natura fuori di sé e cambiandola, egli cambia allo stesso tempo la natura sua propria. Sviluppa le facoltà che in questa sono assopite e assoggetta il giuoco delle loro forze al proprio potere Qui non abbiamo da trattare delle prime forme di lavoro, di tipo animalesco e primitive. (…) Noi supponiamo il lavoro in una forma nella quale esso appartenga esclusivamente all’uomo. Il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare certi architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin dal principio distingue il peggior architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera” .[34]

In altre parole, le fondamenta economiche su cui poggia la storia nel sistema marxiano comprendono, come elemento imprescindibile, il ruolo della coscienza umana.

Per cui il materialismo di Marx non lo costringe ad una spiegazione meccanicistica in cui ogni evento storico è interamente determinato da un insieme di condizioni preesistenti, come nelle scienze naturali. Piuttosto le condizioni economiche del contesto muovono certi parametri all’interno dei quali operano le intenzioni umane, imprimendo loro un senso di marcia logico senza tuttavia determinarle completamente. E’ impossibile, ad esempio, costruire un computer con utensili di pietra, ma non si è costretti a costruirlo neanche disponendo delle tecnologie necessarie.

Per questa ragione Marx insiste nel marcare nettamente la differenza tra natura da un alto e storia dall’altro.:

“La natura non produce da una parte possessori di denaro o di merci e dall’altra puri e semplici possessori della propria forza lavorativa. Questo rapporto non è un rapporto risultante dalla storia naturale e neppure un rapporto sociale che sia comune a tutti i periodi della storia. Esso stesso è evidentemente il risultato di uno svolgimento storico precedente, il prodotto di molti rivolgimenti economici, del tramonto di tutta una serie di formazione più antiche della produzione sociale.” [35]

Ecco perché criticava anche i tentativi di dipingere la storia come ulteriore branca delle scienze naturali:

“Non merita eguale attenzione la storia della formazione degli organi produttivi dell’uomo sociale[leggi tecnologia], base materiale di ogni organizzazione sociale particolare?  E non sarebbe più facile da fare[rispetto alla storia degli organismi animali e vegetali] poiché, come dice il Vico, la storia dell’umanità si distingue dalla storia naturale per il fatto che noi abbiamo fatto l’una e non abbiamo fatto l’altra?...I difetti del materialismo astrattamente modellato sulle scienze naturali, che esclude il processo storico, si vedono già nelle concezioni astratte ed ideologiche dei suoi portavoce appena s’arrischiano al di là della loro specialità.” [36]

Giugno 2006

(Prima pubblicazione: What’s Next, dicembre2003)

Vorrei ringraziare Bill Leumer, Paul Colvin e Fred Newhouser per i loro preziosi suggerimenti riguardanti quest’articolo.

 Note

1. Marx, Karl and Engels, Frederick, Selected Correspondence (Moscow, 1975), p.254.

2. Kenafick, K.J., Michael Bakunin and Karl Marx (Melbourne, 1948), p.40.

3. Dolgoff, Sam, ed., Bakunin on Anarchy (New York, 1972), p.129.

4. Bakunin, Michael, ‘God and State', in The Essential Works of Anarchism, ed. by Shatz, Marshall (New York/Chicago, 1972), p.139.

5. Maximoff, G.P., ed., The Political Philosophy of Bakunin: Scientific Anarchism (Glencoe, Ill., 1953), p.75.

6. Ibid., p.263.

7. Ibid., p.156.

8. Dolgoff, Sam, ed., Bakunin on Anarchy, p.125.

9. Bakunin, Michael, Marxism, Freedom and the State, ed. by Kenafick, K.J. (London, 1950), p.22.

10. Maximoff, G.P., ed., The Political Philosophy of Bakunin: Scientific Anarchism, pp.263-4.

11. Bakunin, Michael, "God and State," p.141.

12. Ibid., p.153.

13. Citato in Eltzbacker, Paul, Anarchism, Exponents of the Ancient Philosophy (New York, 1960), p.85.

14. Lehning, Arthur, ed., Michael Bakunin, Selected Writings (London, 1973), p.64.

15. Dolgoff, Sam, ed., Bakunin on Anarchy, pp.261-2.

16. Bakunin, "God and State," p.147.

17. Marx, Karl, Per la critica dell’economia politica (Newton Compton Editori, Roma 1976), pag. 31.

18. Marx, Karl and Engels, Frederick, L’ideologia tedesca (da “Karl Marx –Opere”, Newton Compton Editori, Roma, 1978), pagg. 217-218.

19. Marx, Karl, Grundrisse (Middlesex, England, 1973), p.83.

20. Marx, Karl and Engels, Frederick, , L’ideologia tedesca (da “Karl Marx –Opere”, Newton Compton Editori, Roma, 1978), pag. 220.

21. Ibid., pag. 224.

22. Ibid., pag. 243.

23. Ibid., pag. 244.

24. Ibid., pag. 245-246.

25. Ibid., p.245.

26. Ibid., pag. 216.

27. Marx, Karl, Il Capitale, Terzo Volume (Editori riuniti, Roma 1980), pag. 405.

28. Marx, Karl, Grundrisse, pp.611-12.

29. Marx, Karl, Il Capitale, Terzo Volume, pag. 933.

30. Marx, Karl, ‘La questione ebraica’ , (Massari editore, Bolsena, 2003), pag. 77.

31. Marx, Karl, ‘Holy Family’, Collected Works, Volume 4 (New York, 1975), p.116.

32. Marx, Karl, ‘Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte’ (Editori riuniti, Roma1991), pag. 7.

33. Marx, Karl and Engels, Frederick, L’ideologia tedesca, pag. 224.

34. Marx, Karl, Il Capitale, Primo Volume (Editori riuniti, Roma 1980), pag. 212.

35. Ibid., pag. 202.

36. Ibid., pag. 414-5.

Anarchismo e Marxismo

Da http://ita.anarchopedia.org/anarchismo_e_marxismo

Anche se il comunismo libertario e il marxismo sono due filosofie politiche molto differenti, le similitudini rinvenibili nella metodologia e nel pensiero di alcuni anarchici e marxisti non devono indurre a fraintendimenti.

L'Associazione internazionale dei lavoratori, alla sua fondazione, era un'alleanza di numerosi gruppi socialisti, inclusi anarchici e marxisti. Le due parti avevano uno scopo comune: il superamento dello Stato borghese e delle ideologie dei comuni avversari politici (conservatori, protofascisti ed altri politicanti di destra). Ma ciascuno era critico nei confronti dell'altro ed il relativo conflitto ha in seguito preso corpo nelle diverse argomentazioni tra Bakunin, come esponente delle idee anarchiche e Karl Marx. Nel 1872, un conflitto nella Prima Internazionale conduce all'espulsione di Bakunin e dei “bakunisti”, decisa da parte di Marx al Congresso di Hague nel 1872.

Argomenti intorno alle sorti dello Stato.

Gli Stati-nazione si sono originati in Europa in seguito al trattato di Westfalia del 1649. Gli studiosi di politica moderna descrivono lo Stato come «una comunità di uomini, stabiliti su di un proprio territorio e possedenti una organizzazione dalla quale scaturisca [...] una potenza suprema d'azione, di comando e di coercizione» . Ne deriva che lo Stato si definisce come un territorio, una popolazione chiamata “nazione” ed un'autorità che si esercita su di essa. Lo Stato è normalmente centralizzato e gerarchico. Esso governa attraverso le sue istituzioni e «apparirebbe come un'istituzione che, su un dato territorio, dispone del monopolio sull'uso legittimo della forza fisica», per utilizzare i termini proposti dal sociologo tedesco Max Weber nel suo saggio del 1918, La Vocazione del politico . Ciò significa che gli individui riconoscono l'autorità dello Stato accettando di obbedirgli: questa autorità è fondata sulla tradizione, il carisma del dirigente o, nella società moderna, sulla razionalità messa in opera da legalità e burocrazia. Sul piano giuridico, il criterio principale dello Stato è quello dell'esercizio della sovranità, che è un potere incondizionato, da cui derivano tutti gli altri poteri. Ciò significa che nell'ambito del proprio territorio lo Stato dispone delle sue competenze e dei propri esecutori. La sovranità si definisce ugualmente, nel diritto, come la detenzione dell'autorità suprema, vale a dire di un potere assoluto (a cui tutti sono sottomessi) e incondizionato (che non dipende da chicchessia).

Queste definizioni sono accettate da un po' tutte le correnti ad eccezione del marxismo.

In effetti questa concezione di Stato è stato oggetto di critica da parte di Karl Marx, per il quale la Nazione è secondaria rispetto al rapporto delle classi sociali e l'esistenza che ne deriva dei rapporti di produzione. L'approccio dello Stato fatto da Marx è puramente economico. Lo Stato è definito come l'organo della repressione di una classe sociale su tutte le altre.
Lo Stato appare nelle differenze della società civile ed il suo ruolo, nel sistema capitalista, è di permettere il mantenimento dei rapporti di sfruttamento. Lo Stato è innanzitutto considerato come un apparato di violenza e d'oppressione che conviene far sparire dopo un periodo di transizione (la dittatura del proletariato). In questa definizione, l'idea di dittatura del proletariato può prendere numerosi significati secondo l'interlocutore marxista: dell'utilizzazione legittima della forza fisica da parte del consiglio degli operai/ie armati/e fino al monopolio della forza da una parte composta da intellettuali dichiaratesi come “capi del proletariato”. Nella teoria marxista con l'eliminazione della suddivisione della società in classi sociali, anche lo Stato si estingue.

Il marxismo ha una definizione unica di Stato: esso è l'organo della repressione di una classe sociale su tutte le altre. Per i marxisti tutto lo Stato è intrinsecamente una dittatura di una classe sulle altre. Nella teoria marxista, se le differenze tra le classi sparissero, sparirebbe anche lo Stato. Gli anarchici stimano irrilevante l'identità dell'élite politica o economica, perché si tratta pur sempre di un organo di dominazione al servizio di una classe. Al contrario, i marxisti ritengono che l'abbattimento di una classe dominante richiede inevitabilmente una repressione superiore. Bakunin scrisse nel suo saggio Stato e Anarchia : «Loro (i marxisti) sostengono che solo la dittatura – la loro evidentemente – può creare la volontà del popolo, allorché la nostra risposta a tale questione è: tutte le dittature non possono avere altro obiettivo che la propria perpetuazione e ciò non può che generare la schiavitù del popolo tollerante; la libertà può essere creata solo a partire dalla libertà, cioè da una ribellione universale di una parte del popolo e la libera organizzazione di masse laboriose dal basso in alto».

In seguito agli scritti di Marx, proclamanti che lo Stato sarebbe il mezzo più sicuro per arrivare alla creazione di una società senza Stato, poiché lo Stato stesso sarebbe destinato ad estinguersi, egli aggiunge: «L'anarchismo o la libertà, che significa libera organizzazione dei lavoratori\lavoratrici, è l'obiettivo finale dello sviluppo della società [...] loro (i marxisti, N.d.R.) affermano che la dittatura è la fase di transizione necessaria verso la liberazione del popolo: l'anarchismo sarebbe il fine e la dittatura del proletariato il mezzo, di conseguenza per liberare il popolo bisognerebbe iniziare con l'asservirlo!».

Il processo di transizione

Per gli anarchici, l'ideologia rivendicata dai differenti tipi di Stato – che siano capitalisti, fascisti o comunisti – non è pertinente poiché tutti gli Stati sono fondamentalmente violenti e reprimono la maggioranza lavoratrice in nome del profitto della minoranza dirigente. Inoltre, gli anarchici sostengono che lo “Stato operaio” difeso dai marxisti è una contraddizione (impossibilità) logica, poiché non appena una qualunque “avanguardia” autoproclamata prende il potere statale essa cessa di fare parte del proletariato (semmai ne abbia fatto mai parte) e diviene membro della “classe coordinante”. Gli anarchici deducono che tutti gli Stati sono illegittimi poiché fanno tutti ricorso alla violenza sistematica e alla repressione della maggioranza dei lavoratori\lavoratrici a favore della minoranza dirigente.

La "teoria sullo Stato", precedentemente evocata, porta ad interrogarsi sulla necessità del processo di transizione che conduca alla fine alla creazione di una società "senza Stato", sulla quale tanto i marxisti che gli anarchici sono d'accordo (fermo restando il concetto marxista di Stato sopra riportato). I marxisti pensano che la transizione, per poter essere efficace (per arrivare a quello che Marx chiama “vero comunismo”), richieda la repressione della reazione capitalista, poiché altrimenti ristabilirebbe il proprio potere, e la creazione di uno Stato diretto dagli operai.

Inoltre, gli anarchici sostengono che lo "Stato operaio", difeso dai marxisti, è una contraddizione in termini, poiché qualunque «avanguardia», auto-proclamatasi tale, che prende il potere statale, cessa di far parte del proletariato (se mai ne ha fatto parte) e diviene membro della «classe dominante». L'idea della dittatura del proletariato è ugualmente criticata dalla maggior parte degli anarchici, sia sul piano teorico che su quello storico. È abbastanza evidente che non è una classe intera a prendere il potere, ma una sua minoranza, un partito, secondo l'ottica leninista, che dunque non fa altro che imporre una "dittatura sul proletariato" e non una "dittatura del proletariato".

Gli anarchici illustrano le loro proposte mettendo in evidenza le misure repressive messe in atto da Lenin, Trotsky e Stalin, sin dal principio della rivoluzione russa. Essi avanzano ugualmente l'argomento che l'ex-URSS non era affatto democratica, così come anche tutti gli altri Stati auto-proclamatisi “marxisti”. Al contrario i marxisti mettono in evidenza il presunto “fallimento” (essi propongono l'esempio della Rivoluzione spagnola), delle rivoluzioni in cui hanno preso parte gli anarchici.

Marxisti e anarchici non perseguono il medesimo scopo: gli anarchici vogliono l'abolizione di ogni forma di Stato (una «sciocchezza», secondo lo stesso Engels), i marxisti ritengono, invece, che lo Stato si autoestinguerà, o meglio «non ci sarà uno Stato nel significato politico attuale» (Stato classista). I marxisti, contrariamente agli anarchici, mirano a cambiare (non ad abolire) lo Stato: in un primo tempo, lo Stato muta la sua classe dirigente, diventando uno “Stato operaio”, in cui la classe dominante è il proletariato; essi considerano quindi la repressione della borghesia come un fatto necessario e preliminare all'estinzione dello Stato borghese. In seguito, lo "Stato operaio", venuti a cessare gli antagonismi tra le classi, si estinguerà, trasformandosi in uno Stato senza dominio di classe (ossia in una forma di democrazia diretta): «lo Stato politico e con lui l'autorità politica scompariranno in conseguenza della prossima rivoluzione sociale [...] cioè [...] le funzioni pubbliche perderanno il loro carattere politico e si cangeranno in semplici funzioni amministrative, veglianti ai veri interessi sociali»[ (dunque, non si tratta della scomparsa dello Stato tout court, ma dello Stato marxianamente inteso, ossia dello Stato retto da una classe dominante).

Gli anarchici ritengono che la creazione di qualsiasi nuovo Stato metterà comunque il potere nelle mani di una minoranza, e che lo Stato, con le sue capacità repressive e i suoi apparati burocratici massivi, avrà la tendenza a perpetrarsi, piuttosto che ad «estinguersi». In pratica, la creazione di un nuovo Stato, anche se qualificato come “operaio”, sarebbe controrivoluzionario, per cui, per eliminarlo, sarebbe necessaria una seconda rivoluzione. Gli anarchici preferiscono quindi sostituire allo "Stato borghese" i consigli operai (vedi Consigli ed occupazioni di fabbrica in Italia (1919-20)), i sindacati o comunque qualsiasi struttura organizzativa decentralizzata e non-gerarchica.

Per illustrare i limiti dell'approccio marxista, gli anarchici ricordano che dopo la caduta dell'URSS i movimenti popolari che chiesero l'abolizione della dittatura statale furono duramente repressi. Ciò dimostra che una seconda rivoluzione è praticamente impossibile.

Differenze esistono anche all'interno degli stessi "schieramenti": gli anarchici non sono d'accordo tra loro riguardo al fatto se i consigli operai costituiscano o non uno Stato; i marxisti non sono d'accordo tra loro riguardo alla forma che dovrebbe assumere la dittatura del proletariato. Tuttavia, soprattutto gli argomenti marxisti si prestano alle critiche, poiché essi nella pratica hanno limitato l'autonomia dei consigli operai, oltre a ripristinare, contraddittoriamente, la polizia segreta, il terrorismo di Stato come strategia rivoluzionaria[ e l'uso di una giustizia ambigua e poco trasparente.

I partiti politici

I marxisti e gli anarchici si distinguono riguardo al ruolo attribuito ai partiti politici rivoluzionari.

La maggior parte dei marxisti vedono nei partiti l'"avanguardia" del proletariato, ovvero uno strumento utile per fronteggiare lo "Stato borghese" e impadronirsi del potere, per fronteggiare l'eventuale reazione della borghesia capitalista e per giungere all'"estinzione" dello Stato. I marxisti però si dividono riguardo alla partecipazione dei partiti rivoluzionari alle elezioni e sulla loro organizzazione dopo la presa del potere. Tra questi, i luxemburghisti pensano che il partito debba avere una funzione guida delle masse ma non debba gerarchizzarsi e burocratizzarsi.

Gli anarchici rifiutano l'idea del partito intesa come organizzazione centralizzata, gerarchica e parlamentarista, perché un'organizzazione del genere contiene il "germe" dell'autoritarismo. Tuttavia per i comunisti anarchici il Partito (termine usato da Malatesta) altro non è che l'organizzazione politica (organizzazione specifica) dei comunisti anarchici, il cui scopo è quello di sviluppare la coscienza di classe, a partire dal soddisfacimento dei bisogni primari e immediati dell'individuo, alimentare lo scontro con la borghesia e guidare - come un corpo interno al proletariato e non come un'avanguardia che si eleva al di sopra delle masse - gli sfruttati nel loro percorso rivoluzionario.

Violenza e rivoluzione

La violenza, come mezzo rivoluzionario, è giustificabile? E sino a che punto è lecito spingersi? Anarchici e marxisti, su questi aspetti, si dividono ancora.

Gli anarchici (esclusa la fazione pacifista) ritengono legittimo rispondere alla violenza dello Stato con la violenza popolare: alcuni (soprattutto gli individualisti) ritengono utile e necessaria la violenza su piccola scala (es. l'assassinio di elementi dell'élite al potere); altri (per es. i comunisti anarchici) vedono nella violenza rivoluzionaria l'unico mezzo per rovesciare le classi dominanti. Tuttavia, tutte le correnti dell'anarchismo ritengono inaccettabile la violenza massiva e pianificata, come quella praticata da Lenin e Trotskij a Kronstadt, dai bolscevichi durante rivoluzione russa e dai rivoluzionari comunisti durante la rivoluzione cinese e cubana.

La maggior parte dei marxisti ritiene lecita la violenza su larga scala quando le circostanze impongono l'autodifesa collettiva (es. contro la reazione borghese o contro un'invasione di stampo imperialista). Molti marxisti ritengono legittima anche la violenza più feroce, se questa servisse a giungere al fine preposto: la dittatura del proletariato e il comunismo.

Secondo molti marxisti, gli anarchici, per via della loro reticenza ad organizzarsi concretamente, per il loro rifiuto della violenza proletaria e del “terrorismo di Stato”, possono essere tacciati di attività controrivoluzionaria. In questo modo essi giustificano la repressione subita dai libertari in Spagna, Ucraina, Russia, Cuba ecc. (molti marxisti confondono l'organizzazione con l'autoritarismo: l'esperienza spagnola e ucraina, tanto per fare degli esempi, dimostrano invece la possibilità di organizzarsi in maniera non gerarchica).

Le classi

Per la maggioranza dei marxisti le classi sono due: da un lato, coloro (la borghesia) che detengono i beni di produzione (capitali, strutture, mezzi di produzione, ecc.) e che in base a questa proprietà ne ricavano dei privilegi; dall'altro, coloro (il proletariato) che detengono solo la loro capacità di lavoro ("forza-lavoro") e la vendono al primo gruppo (gli imprenditori) per ottenerne in cambio un salario che consenta a loro e alla loro famiglia di sopravvivere e riprodursi (generare quella prole che dà loro il nome).

Altre classi come il "ceto medio" sono destinate ad essere assorbite dal proletariato, mentre i disoccupati ("sottoproletariato") non hanno nemmeno un'identità di classe e servono solo a mantenere bassi i salari degli occupati per via della concorrenza che fanno agli occupati.

Per gran parte degli anarchici la società è più complessa: da un lato, il proletariato produce i beni di consumo con il proprio lavoro e ne viene espropriato in virtù dell'assetto proprietario della società capitalistica, dall'altro, il fronte padronale che opera l'espropriazione grazie alla proprietà dei beni di produzione.
Attorno a queste due classi principali orbitano altre classi sociali con un ruolo ugualmente importante: i contadini, che detengono i propri mezzi di produzione, ma vengono espropriati di gran parte della ricchezza che producono dal meccanismo della distribuzione i cui canali sfuggono loro; i ceti medi, che svolgono funzioni essenziali alla riproduzione capitalistica e che ne vengono ripagati con privilegi effimeri e irrisori, ma che vengono percepiti in modo tali da confondere loro quali siano i loro veri interessi; i disoccupati, la cui sete disperata di un salario, li contrappone fittiziamente ai loro naturali alleati.

Per alcuni anarchici (anarchici aclassisti), soprattutto alcuni individualisti, le classi sono un'invenzione marxista, per cui non ha senso nemmeno questa divisione della società.
Per molti anarchici (soprattutto i comunisti, ma non solo) non solo le classi esistono ma occorre anche ricomporre gli interessi di tutti coloro che subiscono lo sfruttamento dell'assetto sociale capitalistico.

Questa concezione differente sulla società divisa in classi comporta che i marxisti releghino la lotta di classe allo scontro tra capitalisti e proletariato, mentre gli anarchici allargano tale conflitto a tutti gli sfruttati. Altro punto di disaccordo come conseguenza di queste differente visioni è la relazione tra la condizione di classe e la coscienza di classe: per una parte dei marxisti i due termini (di classe e di coscienza di classe) finiranno in una maniera deterministica prima o poi a coincidere; per altri marxisti la coscienza di classe non è necessaria a tutta la “classe”, ma a solo una parte “illuminata”, l'avanguardia, ovverosia il partito (nella versione leninista, addirittura, esterno al movimento operaio, perché quest'ultimo appesantito dai suoi bisogni quotidiani non può comprendere i suoi bisogni storici e futuri).

Per gli anarchici, soprattutto per i comunisti anarchici, invece, il rapporto tra classe e coscienza di classe è certamente mediato dall'avanguardia, che però agisce come corpo interno del proletariato e del variegato mondo degli sfruttati, fungendo da punto di riferimento e non da guida che si eleva al di sopra delle masse sfruttate. Per gli anarchici solo un proletariato unito e cosciente della propria condizione può fare una rivoluzione veramente libertaria e senza delegare alcuno a questo compito.

Materialismo storico e materialismo dialettico

Il materialismo storico è «la concezione materialista della storia», cioè non una teoria astratta, ma una metodologia di analisi della storia che individua nelle condizioni materiali (cioè economiche) la causa principale degli avvenimenti storici. Il materialismo storico trovò concordi tanto Marx quanto Bakunin (attualmente sono soprattutto i comunisti anarchici a trovarsi in accordo con tale metodologia di analisi).

Invece il materialismo dialettico, che Karl Marx "abbraccia" in una fase successiva all'elaborazione del materialismo storico, reinterpreta la dialettica hegeliana, considerando l'evoluzione della materia e non dell'idea (come faceva Hegel). Il materialismo dialettico non solo reinterpreta la realtà, ma ha la pretesa di offrire una visione scientifica e deterministica degli avvenimenti storici, prevedendo la crisi del capitalismo e il conseguente arrivo del comunismo[8]. In questo modo il marxismo, soprattutto nell'interpretazione di Lenin ed Engels, sviluppa un materialismo definibile metafisico, che gran parte dell'anarchismo, a parte il comunismo kropotkiniano, rifiuta e ha sempre rifiutato, poiché in questo modo l'individuo verrebbe a perdere il suo ruolo centrale di trasformatore della realtà, divenendo un elemento di una serie di forze a lui estranee.

La maggior parte degli anarchici rifiuta la visione deterministica, (pesudo)scientifica ed esclusivamente economicista della storia, considerando invece il materialismo storico come un mezzo utile per la valutazione degli avvenimenti, senza però ritenerlo l'unico ed esclusivo metodo d'indagine, ma attribuendo grande importanza anche alle contraddizioni ambientali, quelli di genere ecc. Per gran parte degli anarchici il materialismo dialettico non fa altro che disumanizzare l'analisi sociale e politica della realtà, portando come conseguenza i risultati drammaticamente osservati per esempio durante la rivoluzione russa.

Altri punti di disaccordo: movimenti di liberazione, famiglia, educazione, amore e religione

Per i marxisti i movimenti di liberazione delle donne, degli omosessuali, delle minoranze etniche ecc., hanno sicuramente una loro intrinseca valenza ma soprattutto vanno inseriti nell'ambito del processo che porterà alla lotta di classe e alla dittatura del proletariato. Per gli anarchici la lotta contro ogni forma di oppressione è centrale, al di là delle dinamiche deterministiche dei marxisti, purché queste si inseriscano in un quadro rivoluzionario e non meramente riformistico.

Riguardo alla famiglia per gli anarchici i rapporti di parentela e di discendenza genetica devono essere sostituiti dai rapporti d'amore e di solidarietà tra le singole individualità. In questo modo diverse figure, e non necessariamente i genitori, possono partecipare all'educazione dei bambini. Così si intende eliminare la contrapposizione fra gli esseri umani e le disuguaglianze. Quindi, alla famiglia naturale, l'anarchismo contrappone un nucleo sociale "aperto" costituito da libere individualità tra loro associate. Un tale modo di intendere l'organizzazione sociale non può che sostituire l'amore libero e l'unione libera e non vincolante al matrimonio, rompendo così le stantie e ipocrite convenzioni sociali.

I marxisti, pur mantenendo nella forma una certa apertura mentale verso nuclei famigliari alternativi ai modelli dominanti, nella pratica hanno talvolta considerato queste rivendicazioni come frutto dell'ideologia borghese. Durante la rivoluzione russa e in altre esperienze, i marxisti si sono spesso sforzati di ricondurre "alla legalità" della famiglia di diritto, la strutturazione dei rapporti interpersonali, pur mantenendo alcuni "istituti borghesi" di salvaguardia delle libertà individuali, quali per esempio il divorzio.

Anche sulla religione anarchici e marxisti hanno punti di vista differenti. L'anarchismo propugna l'idea di estirpare qualsiasi causa che determini lo sviluppo del pensiero religioso. Per i marxisti l'"ateismo di Stato" e la repressione sono i mezzi necessari atti ad impedire la diffusione della religione, considerato che quest'ultima è ritenuta un ostacolo al “naturale” decorso degli avvenimenti storici che dovrebbero condurre al comunismo[9]. Gli anarchici, pur agendo in maniera tale da eliminare ogni elemento strutturale e sovrastrutturale (fattori educativi, culturali ecc.) che permettono il consolidamento della religione, ritengono che la libertà religiosa individuale e associativa debba essere tutelata (come tutte le libertà individuali), purché questa non comporti privilegi per alcuni o limiti la libertà di altri.

Marx e Bakunin: Comunismo e Anarchia

da http://www.webalice.it/gangited/_A/Anarchismo.html

 Tutte le volte che ci si pone il problema di modificare  in senso democratico  il sistema politico degli Stati borghesi, ci si trova di fronte ad una  scelta di metodo : l'alternativa tra la linea politica sostanzialmente marxista e quella sostanzialmente anarchista. Questo contrasto, a distanza di oltre un secolo, è ancora di scottante attualità.

L'evidente fallimento dei governi socialisti di alcuni Stati e dei partiti "socialisti" o "comunisti" nei Paesi dell'area capitalista sono esperienze storiche che oggi permettono una riflessione, alla quale non ci si può sottrarre senza rischiare di cadere nel ridicolo o, peggio ancora, nella malafede.

Marx e Bakunin (spesso conosciuti solo di nome), occupano ancora la mente, o meglio il "cuore" di tutti i democratici sinceri. Qui si tenta un esame obiettivo delle loro teorie essenziali, nella convinzione che tale esame è indispensabile per affrontare costruttivamente i problemi delle attuali "democrazie" occidentali, ridotte ormai ad una parodia del concetto stesso di democrazia.

Precedenti

Verso la fine del Settecento si verificano in Europa tre svolte decisive e irreversibili:
Protagonista di questi cambiamenti è la borghesia, cioè la classe che possiede i mezzi di produzione. Il valore "etico" essenziale di questa classe è la proprietà.

Con la Dichiarazione dei diritti dell'uomo (1789) la rivoluzione francese aveva proclamato che i diritti naturali e imprescrittibili sono la libertà,  la proprietà,  la sicurezza e la resistenza all'oppressione.

"Diritti dell'uomo" erano, ovviamente,  i diritti dell'uomo borghese:  basta considerare che la proprietà poteva avere come oggetto anche altri esseri umani (schiavitù) e che nello stesso periodo furono approvate leggi che riconoscevano il diritto di voto solo al 15% dei cittadini e che proibivano i sindacati e gli scioperi.

Il divieto di associarsi in sindacati era giustificato dall'esigenza di tutelare  la libertà dei datori di lavoro  di contrattare "in condizioni di parità" le retribuzioni e gli orari di lavoro. Non risulta però che fossero vietate le associazioni padronali.

Basta un dato per dare l'idea delle disumane condizioni di vita dei lavoratori: a Manchester, nel cuore dell'Inghilterra industriale, la speranza di vita degli operai era di  17 anni : cominciavano a lavorare a 5 anni e morivano a 17.

Ad un tale stato di cose si opposero da una parte le prime organizzazioni di lavoratori (operai e artigiani), dall'altra le correnti di pensiero del  socialismo utopistico  e dell'anarchismo:

    1793: William Godwin pubblica l'Inchiesta sulla giustizia politica
    1797: fallisce la Congiura degli Uguali di Gracco Babeuf, che vorrebbe fondare una società comunista
    1808: Charles Fourier pubblica la Teoria dei quattro movimenti, imperniata sul concetto che le passioni umane non debbono essere represse, ma incanalate costruttivamente per creare uno Stato "sociale". Nella stessa opera Fourier teorizza le comunità agricole dei "falansteri".
    1822: Claude Saint Simon teorizza un'organizzazione sociale retta da uomini di scienza e da industriali illuminati. Nel 1825 pubblica "Il nuovo Cristianesimo ", in cui teorizza un sistema basato sulla fratellanza tra gli uomini.
    1834: Robert Owen fonda in Inghilterra le prime organizzazioni sindacali (Trade Unions)
    1836: nasce in Germania la Lega dei Giusti, prima associazione rivoluzionaria a carattere  internazionalista  che si diffonde in Francia, Svizzera, Inghilterra e Svezia
    1838: in Inghilterra William Lovett pubblica la “carta del popolo”, da cui nasce il primo movimento politico operaio (movimento "cartista", people's Charter), che rivendica la "democrazia per tutto il popolo" e nel 1842 raccoglierà 3 milioni di adesioni
    1841: Pierre Proudhon pubblica Che cos'è la proprietà?, in cui è contenuta la celebre definizione:  "la proprietà è un furto"
    1844: Michail Bakunin pubblica la sua prima opera, La reazione in Germania
    1847: sotto l’influenza di Marx ed Engels, la Lega dei Giusti si trasforma in Lega dei Comunisti (sede a Londra). Nello stesso periodo nascono diverse organizzazionei analoghe, che si ispirano a principi di  internazionalismo:  i Fraternal Democrats (UK), l'Associazione internazionale della democrazia socialista (USA), la Famiglia internazionale fondata da Bakunin, la Lega della pace e della Libertà (Italia), l'Alleanza repubblicana universale fondata da Mazzini e molte altre
    1848: Marx ed Engels pubblicano il Manifesto del partito comunista
    1849: Henry Thoreau pubblica il saggio Disobbedienza civile, testo fondamentale nelle teorie della lotta non-violenta, a cui si ispirerranno, fra gli altri, Tolstoj, Gandhi e Martin Luther King
    1864: fondazione a Londra della Prima Internazionale (International Workingmen's Association). Il programma e lo statuto vengono elaborati da Marx

Nell'Internazionale le due principali correnti furono quella comunista, capeggiata da Marx. e quella anarchista, rappresentata da Bakunin. Il conflitto tra queste due fazioni determinò lo scioglimento dell'associazione.

Comunismo marxiano

Col nome generico di comunismo vengono indicate alcune dottrine politico-sociali elaborate fin dai tempi più antichi (a cominciare da Platone, circa 400 aC), che hanno in comune l'idea della proprietà collettiva dei beni come strumento di uguaglianza sociale e di giustizia. La più attuale di queste dottrine (ed ormai il "comunismo" per antonomasia) è quella che deriva dal marxismo ed è un programma politico nato con il Manifesto del partito comunista (1848) e diretto alla presa di potere da parte del proletariato. Qui va segnalata l'opportunità di distinguerlo dal comunismo anarchico (o anarco-comunismo), che è una delle correnti di pensiero dell'anarchismo.

* * *

Si deve chiarire subito che, in sostanza,  non esistono  nella storia esempi di Stati comunisti. Esperienze di comunismo sono state tentate da piccoli gruppi di persone, ma un gruppo di persone non è uno Stato.

Queste persone hanno realizzato  tra loro  qualche forma di comunismo; però sono restate  all'interno dello Stato  in cui vivevano. Il successo (o il fallimento) di tali esperienze non può dimostrare (o confutare) la validità del comunismo come modello ideale di società.

Marx aveva immaginato la società comunista come  la fase finale  di una trasformazione che doveva partire dalla società capitalista (non dalla società feudale, come poi avvenne in Russia e in Cina); le fasi intermedie dovevano essere prima la rivoluzione e poi la dittatura del proletariato (cioè il socialismo). Ma tutti i sistemi politici statali fondati sul marxismo  si sono fermati al socialismo:  l'URSS era l'Unione delle Repubbliche  Socialiste  Sovietiche. Erroneamente, o a scopi di propaganda, tali sistemi sono stati chiamati "comunisti".

Oggi è possibile una critica storica degli Stati socialisti, ma il comunismo, che è rimasto un'utopia, può essere criticato solo sul piano logico, teorico o filosofico, allo stesso modo delle creazioni teoriche del socialismo utopistico e dell'anarchismo.

* * *

Nell'analisi storica di Marx, la società borghese (cioè capitalista) è divisa in due classi: borghesia e proletariato. Il borghese è proprietario dei mezzi di produzione: quindi sfrutta il proletario, che possiede solo se stesso e può solo vendere il proprio lavoro.  Lo Stato è secondario:  non è altro che uno strumento, di cui la borghesia si serve per proteggere i propri interessi e di cui il proletariato si servirà per difendere i propri.

Nel comunismo immaginato da Marx, abolita la proprietà privata dei mezzi di produzione, la società non sarebbe più divisa in classi e lo Stato si estinguerebbe automaticamente. In questa società ciascuno contribuirebbe al bene comune secondo le proprie  capacità  e riceverebbe contributi secondo i propri  bisogni.  La proprietà privata sarebbe ancora possibile, ma solo sulle cose di uso personale.

Nel Manifesto del PC si legge che nella fase di transizione (socialismo) il proletariato "userà il suo dominio politico per strappare a poco a poco alla borghesia tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato"; con il comunismo "il capitale viene trasformato in proprietà collettiva, appartenente a tutti i membri della società".
Quando le differenze di classe saranno scomparse e tutta la produzione sarà concentrata in mano agli "individui associati", il potere pubblico perderà il suo carattere politico. Alla vecchia società borghese subentrerà una "associazione" in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti.

Secondo Marx, si arriverà a questo per due ragioni:

    la borghesia è "fatalmente" destinata, per sua stessa natura, ad auto-distruggersi in una cieca corsa a produrre sempre di più, generando una serie di crisi economiche in cui ogni crisi sarà superata conquistando nuovi mercati e nuove aree di sfruttamento, quindi creando ogni volta le premesse di una crisi più grave della precedente
    si può immaginare un mondo senza padroni, ma non un mondo senza lavoratori.  Il proletariato è indispensabile, la borghesia no.  Quando il proletariato prenderà coscienza di questa elementare realtà, la rivoluzione proletaria sarà in un certo senso una "necessità storica": infatti tutte le azioni umane sono determinate,  in ultima analisi,  dagli interessi. Il proletariato farà la rivoluzione perchè è suo interesse farla.

"In ultima analisi" vuol dire che le azioni umane sono determinate anche da fattori "culturali" (la religione, le saggezza tradizionale, la morale ecc.) che resistono per qualche tempo ai mutamenti della realtà ma che "alla lunga" ne vengono modificati. Questo processo può essere ritardato dalla propaganda conservatrice, o affrettato dalla propaganda rivoluzionaria.

Ma il proletariato non si ribellerà prima di aver preso coscienza e non vincerà prima di essersi organizzato sotto una guida capace di condurlo alla vittoria: la guida del partito comunista, che viene descritto sinteticamente nel Manifesto:

    i comunisti fanno parte del proletariato e non hanno interessi distinti dagli interessi di tutto il proletariato.
    lo scopo immediato dei comunisti è lo stesso di tutti gli altri proletari; ma essi hanno il vantaggio sulla restante massa di comprendere meglio le condizioni generali del movimento

Fourier, Marx ed Engels, in contrasto con le idee utopistiche di Owen e Saint-Simon, affermavano che il comunismo non poteva emergere da piccole comunità isolate ma solo globalmente, dal corpo dell'intera società. Anzi: dato che il capitalismo si espandeva nel mondo, superando i confini nazionali, il comunismo avrebbe dovuto avere un carattere internazionale: le ultime parole del Manifesto sono "proletari di tutti i Paesi, unitevi!". E infatti il primo passo nell'attuazione del programma fu la fondazione dell'Internazionale.

Anarchismo

L'anarchismo (dal greco anarkos, "senza governo") è la teoria secondo la quale l'uguaglianza e la giustizia debbono essere conquistate abolendo lo Stato e sostituendolo con un sistema di liberi accordi tra uomini liberi.

Anche le origini lontane dell'idea anarchica, come quelle dell'idea comunista, risalgono all'antica filosofia greca (Zenone di Cizio, circa 300 aC), passando attraverso alcuni movimenti religiosi del Medio evo (intorno al 1300) ed alla setta protestante degli Anabattisti, che nella città di Munster tentarono un esperimento di "comunismo".

Di poche dottrine e movimenti l'opinione pubblica si è fatta un'idea tanto confusa; e pochi hanno offerto, nella propria varietà di atteggiamenti intellettuali e d'azione, tante scuse per una simile confusione
Woodcock

Si ritiene che il padre del pensiero anarchico moderno sia stato  Proudhon;  ma il suo primo teorico fu  Godwin  ed il maggior divulgatore delle idee anarchiche fu  Bakunin.  E' considerato anarchico anche Lev Tolstoj, uno dei più grandi scrittori russi, il quale, essendo cristiano, considerava l'abolizione dello Stato come una coerente applicazione dell'insegnamento evangelico. Tolstoj però rifiutò sempre (come Godwin) di definirsi anarchico: la sua dottrina della rivoluzione non-violenta gli sembrava incompatibile con le teorie degli altri anarchisti.

Gli anarchisti condividevano l'analisi marxiana della società borghese, ma rifiutavano radicalmente ogni forma di organizzazione gerarchica e perfino il principio di democrazia fondata sulla volontà della maggioranza (la tirannia del numero), nel senso che nessuno – nemmeno la maggioranza – doveva avere il potere di limitare la libertà dei singoli individui.

Alla base dell'ideologia anarchica si trova la fede nell'uomo come animale spontaneamente sociale e naturalmente libero, capace di creare un  ordine,  fondato sull'uguaglianza e la fraternità, che avrebbe preso il posto del disordine creato dal potere. Liberi dalle imposizioni del potere, gli uomini avrebbero costituito tante piccole comunità di base, cementate dalla loro libera scelta. Altrettanto liberamente, queste comunità avrebbero potuto stabilire tra loro dei rapporti di collaborazione per raggiungere qualche scopo comune; federazioni via via più vaste avrebbero conseguito obiettivi via via più generali.

La società immaginata dagli anarchisti è descritta in modo chiaro, lineare e coerente in una delle più belle pagine delle Memorie di un rivoluzionario di Kropotkin, uno dei massimi esponenti del pensiero anarchico.

Si poteva cominciare subito, come infatti avvenne, a costruire pacificamente il nuovo ordine per mezzo di "società di mutuo soccorso", di cooperative, di comunità agricole che furono create anche con l'aiuto economico di borghesi progressisti. Era anche la teoria della  "propaganda con i fatti"  (verso la fine del secolo arrivò ad alcuni casi di fatti violenti) che si affiancava alla propaganda con le parole.

Gli anarchisti, in generale, svolsero l'attività politica come una forma di apostolato, senza proporsi come "capi", non per guidare il popolo ma per illuminarlo ed offrirgli un esempio, coerentemente con il loro principio anti-autoritario.

La loro elaborazione teorica si articolò in diverse correnti di pensiero: mutualismo, collettivismo, comunismo anarchico, anarco-sindacalismo e infine quella particolare interpretazione dell'individualismo  che alla fine dell'Ottocento condusse ad una serie di azioni violente ed auto-distruttive. Una delle idee centrali era quella dello sciopero generale, come forma di rivoluzione non violenta che avrebbe determinato il crollo definitivo dello Sato borghese.

L'eventualità di una rivoluzione cruenta, che non poteva essere esclusa, era vista come violenza in risposta alla violenza del potere, e comunque come un male. Perfino Bakunin, che fu il più barricadero tra i grandi esponenti del pensiero anarchico, scriveva che

"le rivoluzioni cruente sono spesso necessarie a causa della stupidità umana, ma sono sempre un male mostruoso e un grande disastro, non solo per quanto riguarda le vittime, ma anche per quanto riguarda la purezza e la perfezione dell'idea nel cui nome avvengono"

Il senso è chiaro: non la forza delle armi, ma la forza della ragione permette di conservare la "purezza dell'idea" cioè le migliori probabilità di realizzare l'obiettivo finale. Che poi l'eventuale rivoluzione dovesse o potesse essere comandata da un partito (come Marx prevedeva) e sfociare in una nuova forma di governo, era escluso in radice:

Tutti i partiti, senza eccezione, nella misura in cui si propongono la conquista del potere sono varietà dell'assolutismo
Proudhon

Le rivoluzioni non le fanno nè individui nè società segrete. Nascono in una certa misura automaticamente. Le producono la forza delle cose, la corrente degli eventi e dei fatti.
Bakunin

L'evoluzione non è lenta e uniforme. Evoluzione e rivoluzione si alternano, e le rivoluzioni – cioè i periodi di evoluzione accelerata – appartengono all'unità della natura esattamente come i periodi in cui l'evoluzione è più lenta
Kropotkin

Ciò non toglie che in alcuni casi (per es. in Italia) gli anarchisti potessero giungere a progettare piccole insurrezioni locali a scopo dimostrativo (altre varianti della "propaganda con l'esempio"): per esempio conquistare il municipio di un paesetto, fare un falò con i registri delle proprietà ed esporre la bandiera anarchica per qualche giorno, prima che arrivassero i soldati. Alcune di queste azioni furono ispirate o capeggiate dallo stesso Bakunin; tutte fallirono, tra il comico e il patetico, per l'ingenuità e la disorganizzazione dei congiurati.

E' significativo l'episodio (1877) di una dozzina di anarchisti, già da qualche giorno inseguiti dalla polizia e persi in una bufera di neve sulle montagne del Matese, quasi morti di freddo e di fame. Quando requisirono la capretta di una famiglia di contadini (rilasciando regolare ricevuta ai fini dell'indennizzo), la bambina della famiglia si mise a piangere perchè la capretta era sua. Allora i feroci rivoluzionari gliela restituirono e proseguirono in mezzo alla bufera finchè, stremati dal freddo e dalla fame, si lasciarono catturare senza fare resistenza.

La linea politica

La più ampia elaborazione teorica del pensiero anarchico è dovuta a Bakunin che, da buon massone, sul piano organizzativo restò sempre fedele all'idea della clandestinità. Il suo modello di rivoluzione era fondato su due elementi centrali: le masse contadine e una specie di "avanguardia" di intellettuali.

Per Marx, invece, la posizione centrale era occupata dal proletariato industriale, cioè dagli operai delle fabbriche; e per questo pensava che le condizioni pre-rivoluzionarie esistessero soprattutto nei Paesi industriali, specialmente in Inghilterra. Se fosse vissuto abbastanza, la rivoluzione russa lo avrebbe sorpreso.

Secondo Marx, sarebbe stata la classe operaia ad abbattere lo Stato borghese, ma anche dopo la rivoluzione le classi avrebbero continuato ad esistere: infatti la borghesia, anche se sconfitta, non si sarebbe facilmente rassegnata ed avrebbe continuato a combattere per riconquistare il potere.

Precisamente ciò che avvenne subito dopo la rivoluzione russa, quando gli Stati capitalisti mandarono un esercito (l'Armata Bianca) ad invadere la Russia; e l'Armata Rossa sarebbe stata probabilmente sconfitta se non avesse avuto l'aiuto del grande partigiano anarchico  Machno,  un contadino ucraino dotato di uno straordinario genio militare.

Dunque il proletariato doveva tenersi pronto a difendere le proprie conquiste anche con la forza, per non essere ricacciato indietro da una controrivoluzione; cioè ad organizzare un apparato repressivo, un nuovo tipo di Stato.

Marx considerava la conquista del potere da parte della classe operaia come il superamento della società borghese e della divisione della società in classi. La dittatura del proletariato, cioè la distruzione dello Stato borghese e la sua sostituzione con lo Stato proletario era considerata da Marx come la necessaria  fase intermedia  per realizzare il comunismo, cioè la società senza classi e quindi senza Stato.

A Bakunin non era sfuggita la debolezza di questo punto del pensiero marxiano: cioè che qualunque Stato, per il solo fatto di esistere, esercita il suo potere su tutti; e che quindi la dittatura  del  proletariato avrebbe esercitato il potere anche  sul  proletariato (come infatti avvenne puntualmente nella rivoluzione russa e poi in quella cinese).

Bakunin accusava i comunisti di essere "nemici delle istituzioni politiche esistenti perché tali istituzioni escludono la possibilità di realizzare la propria dittatura"; li accusava di essere "gli amici più ardenti del potere statale" perchè volevano costruire una società dominata e programmata dall'alto.

Agli anarchici italiani, nel 1872, Bakunin scriveva:

Marx è un comunista autoritario e centralista. Egli vuole ciò che noi vogliamo: il trionfo completo dell'eguaglianza economica e sociale, però nello Stato e attraverso la potenza dello Stato, attraverso la dittatura di un governo molto forte e per così dire dispotico, cioè attraverso la negazione della libertà.

Lo Stato, secondo Bakunin, dovunque ed in qualunque forma sia presente (borghese, socialista o comunista), non è altro che "sinonimo di costrizione, di dominazione attraverso la forza, camuffata, se possibile, ma, al bisogno, brutale e nuda". Scartata l'idea della dittatura del proletariato, all'abbattimento dello Stato borghese sarebbe seguita una prima fase di  "confusione",  un caos da cui sarebbe nata la fase dell'ordine  quando gli individui avrebbero capito la possibilità e la necessità di auto-organizzarsi sulla base della collaborazione reciproca.

Da parte sua, Marx criticava Bakunin soprattutto per il fatto che "la volontà, non le condizioni economiche, è il fondamento della sua rivoluzione sociale". In altre parole:  non lo Stato, ma la borghesia capitalista  (della quale lo Stato è solo uno strumento)  è per Marx il nemico da annientare.  La scomparsa dello Stato sarà quindi una conseguenza naturale della scomparsa della divisione in classi.

Nella prima Internazionale Marx e Bakunin furono i leader di due opposte correnti e Marx ebbe la possibilità di dimostrare quanto fosse fondata l'accusa di autoritarismo che Bakunin gli aveva rivolto: infatti, quando la corrente marxista si trovò in minoranza, preferì distruggere l'associazione piuttosto che accettare le decisioni della maggioranza.

Conclusioni

Torniamo ora alla polemica Marx-Bakunin. Come si è visto Marx era convinto che il proletariato non si sarebbe ribellato prima di aver preso coscienza e non avrebbe vinto prima di essersi organizzato sotto la guida del partito comunista.

Marx afferma che i membri del partito "non hanno  interessi  distinti dagli interessi di tutto il proletariato" e che "il loro  scopo  è lo stesso di tutti gli altri proletari". Queste affermazioni si potrebbero accettare solo supponendo che il partito fosse composto esclusivamente di proletari: cioè (dal punto di vista di Marx) di operai. Ma l'esperienza smentirebbe una tale ipotesi, sia sotto il profilo storico (ciò che effettivamente avvenne) sia sotto il profilo logico (ciò che era possibile o impossibile logicamente):
A queste ultime domande, Marx avrebbe forse risposto che la burocrazia, le forze armate e il governo avrebbero spontaneamente ceduto il potere perché, nati dalla rivoluzione, sarebbero rimasti fedeli alle idee ed al programma rivoluzionario; ma in questo caso avrebbe meritato la stessa critica che egli stesso rivolgeva a Bakunin: che la volontà, non le condizioni concrete erano il fondamento della sua prospettiva rivoluzionaria.

Altrimenti, avrebbe dovuto teorizzare un sistema per tenere tali forze (la cui importanza determinante non può sfuggire neanche al più sprovveduto osservatore) sotto il controllo effettivo delle masse. Un'impresa piuttosto difficile, anche soltanto sul piano teorico. Un tentativo in questo senso poteva essere (o forse fu) la "rivoluzione culturale" cinese (1966), ma su questa si dovrebbe scrivere un capitolo a parte.

Un'altra questione di essenziale importanza è la seguente: chi e come avrebbe impedito agli Stati capitalisti di aggredire un nuovo Stato socialista? Marx aveva una risposta: il proletariato degli altri Stati si sarebbe opposto all'aggressione.

Questo, in sostanza, significava che la rivoluzione proletaria avrebbe dovuto necessariamente cominciare – contemporaneamente o quasi – in tutti i Paesi capitalisti o  almeno  che i partiti socialisti nazionali fossero abbastanza forti da paralizzare i rispettivi governi (per es. con una serie di scioperi generali). Questo doveva bastare a comprendere l'enorme importanza dell'internazionalismo (e Marx l'aveva ben capita); questa era la ragione per cui l'intero movimento dei lavoratori aveva concentrato i suoi sforzi organizzativi nella prima Internazionale.

Ma questo rende  assolutamente ingiustificabile ed equivalente ad un tradimento della causa del proletariato  il comportamento di Marx e dei suoi seguaci, che preferirono uccidere l'Internazionale piuttosto che lasciarsi mettere in minoranza dagli anarchisti.

* * *

Bakunin, con la sua teoria della "fase di confusione" dalla quale sarebbe sorta spontaneamente la società anarchica, aveva semplicemente eluso una serie di problemi: in qualunque modo, violento o no, in cui  lo Stato  borghese fosse stato abbattuto,  la classe  borghese avrebbe conservato capacità di controllo assolutamente superiori a quelle del proletariato: burocrazia, intellettuali, mezzi d'informazione, esercito, servizi segreti, organizzazioni terroristiche ecc. sarebbero rimasti nelle sue mani. Nulla poteva autorizzare la speranza che dal "caos" previsto dagli anarchisti non sorgesse una dittatura borghese ancora più feroce dello Stato "democratico" appena abbattuto.

Ricordare per es. gli anni 1920-30, quando la rivoluzione tedesca fu stroncata dalle organizzazioni criminali (le bande para-militari) e in Europa il movimento socialista fu fisicamente soppresso dai regimi nazi-fascisti al tentativo di instaurare con la forza una nuova dittatura borghese, solo un partito proletario bene organizzato e bene armato avrebbe potuto opporsi: proprio ciò che Bakunin non voleva; e comunque, all'ipotesi di un tale partito si potevano opporre tutte le obiezioni che già lo stesso Bakunin aveva opposto a Marx, oltre a quelle che abbiamo appena visto in sintesi
   
La filosofia che "il morto insegna a piangere", cioè che  intanto  le masse faranno la rivoluzione, e poi impareranno, lungo il cammino, a difendere le proprie conquiste, sembra un po' troppo semplice. Le masse non partoriscono miracolosamente, dall'oggi al domani, capi politici, dirigenti, economisti, legislatori, burocrati e capi militari; e  intanto  gli eserciti della borghesia sparano cannonate vere, e non chiacchiere.

Una componente della tendenza spontaneista, che ha le sue radici nell'anarchismo "individualista" di fine Ottocento, è quella che vede nel sottoproletariato e nella piccola delinquenza un "potenziale rivoluzionario" che si sposa felicemente (guarda caso!) con lo spirito di trasgressione e di illegalità della piccola borghesia "di sinistra". Tale componente ha continuato e continua ad affiorare, qua e là, fino ai tempi attuali ed è stata espressa nel pamphlet "L'insurrection qui vient", pubblicato in Francia nel 2007, un'opera sotto molti aspetti esemplare.

Oggi come allora, realisticamente, il problema si pone proprio nei termini in cui tanto Marx quanto Bakunin avevano evitato di porselo: data per inevitabile la necessità di un'organizzazione, si tratta di trovare il modo in cui tale organizzazione non diventi un partito e rimanga sempre controllabile "dal basso"

E' ragionevole temere che attualmente qualunque "partito", per sua stessa natura, non potrebbe essere migliore dei partiti già esistenti, o magari peggiore.

Certamente non è facile (se fosse facile qualcuno l'avrebbe già fatto); ma alla luce delle recenti esperienze storiche non è ammissibile nessun tentativo, conscio o inconscio, di eludere un tale problema.