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Ferdinando Martini
Confessioni e ricordi
FIRENZE
R. BEMPORAD & FIGLIO • EDITORI
MCMXXII
Indice
I.
Tommaso Cogo
II.
Fra tonache e gonelle
III.
Gente Illustre
IV.
Nel paese di Bengodi
V.
In Parnaso
VI.
Primi passi
VII.
Muse in faccende
VIII.
Dal faceto al serio
IX.
Nel “Bel Mondo”
X.
A Palazzo
XI.
Ludibria ventis
XII.
Le mie prigioni
XIII.
Enrico Nencioni
XIV.
Un granducato in extremis
XV.
Vigilia di rivoluzione
XVI.
Ventisette aprile
I.
Tommaso Cogo.
... le ses bords lointains l’enfance me
ramène
un souvenir dont vien ne peut me détacher.
SOULARY.
In che anno per l’appunto non so, ma certamente fra il 1805 e il
1808, in una fresca mattina sul finire di settembre, Sua Eccellenza
il Consigliere Vincenzo Martini un tempo Segretario del Regio
Diritto, più tardi Luogotenente generale di Pietro Leopoldo
nel governo dello stato e città di Siena, ora Ministro per
l’interno di S. M. la Regina d’Etruria agiatamente seduto in una
comoda berlina, partiva da Firenze per la villa di Monsummano
secolare abitazione dei suoi maggiori. Gli avrebbero rallegrato
colà le annuali vacanze, gaie conversazioni di amici, gare
poetiche di arcadi signorotti ed abati e, più gradito allora
d’ogni passatempo autunnale, la tesa del paretaio,
la caccia al raperin fatta e al fringuello,
che di lì a qualche anno un altro toscano a lui non ignoto,
il Pananti, torrà ad argomento di argute e facili rime.
Era la berlina prossima ad uscire dalla Porta a Prato quando il
cocchiere, colto da malore improvviso, stramazzò abbandonando
le redini; e i cavalli lasciati a se stessi, vellicati sulla groppa
dalle briglie non più freno ma pungolo, Dio sa dove si
sarebbero spinti a precipitare, se per fortuna del vecchio ministro
e (mi giova credere) della monarchia etrusca, non li avesse
coraggiosamente trattenuti e fermati un giovinetto che andava
ciondolando per quei paraggi.
La vita era salva, la berlina intatta; provveduto senza indugio alle
cure del cocchiere, lievemente indisposto ma non in grado di
proseguire il viaggio, bisognava ora trovarne un altro sano e
pronto; che all’Eccellenza Sua, stanca forse dello avere in undici
mesi di udienze settimanali inutilmente combattuto contro la
presuntuosa testardaggine di Maria Luisa, doleva il perdere dei
brevi sospirati villerecci riposi anche una mezza giornata.
Ma così come le disgrazie, le fortune qualche volta non
vengono sole; il giovinetto che ardiva fermare cavalli sfuriati,
sapeva anche guidarli; offertosi al Martini e accolto lì per
lì come una provvidenza, montò a cassetta e in quattro
o cinque ore lo condusse incolume a Monsummano.
Si chiamava Tommaso Cogo; e da un villaggio del Comasco dove era
nato venne con un fratello in Toscana per impratichirsi nell’arte
della seta, ancora fiorente in Toscana. Se lontani i tempi nei quali
Por Santa Maria primeggiava fra le arti maggiori e sola, in Europa
sapeva tessere i broccati d’oro e d’argento; andavano pur tuttavia
ancora famose le filande di Pescia, di Pistoia, di Siena; a Firenze
la spola correva su 1500 telai e le sete nere dei Matteoni si
smerciavano, braccate, sui maggiori mercati dell’Occidente. Il
fratello trovò collocamento in una di quelle manifatture;
Tommaso, o, fattone esperimento, il mestiere non gli piacesse, o di
collocarsi non gli riuscisse, aspettando di trovare o di trovar
meglio, si fermò a Firenze più mesi vagabondeggiando;
e intanto innamoratosi della città, intelligente com’era,
volle conoscere quanto potè della sua storia e dei suoi
monumenti; tutto quanto potè vide e osservò, lesse il
leggibile e rilesse con così bramosa attenzione, da ritenere
a mente di alcuni libri pagine intere. Se non che, tutto finisce in
questo terzo pianeta e molto rapidamente i danari dei vagabondi;
sebbene fosse partito da casa con un borsellino assai ben guarnito
per un uomo della sua condizione, Tommaso era quasi ridotto al verde
e stava per mettersi a fare la guida, o servitore di piazza come
allora dicevano, quando gli capitò l’occasione di entrare a
servizio in casa nostra.
Servo affezionato, volonteroso, d’onestà a tutta prova,
ricambiato dall’affetto di quattro generazioni, vi rimase
quarantacinque anni e vi morì a settantadue; per giunta fu
mio maestro, uno dei pochi miei buoni maestri: che alcune cose
insegnatemi più tardi da altri mi fu necessaria fatica il
disimparare, le imparate da lui mi restano tuttora utilmente nella
memoria.
*
Naturalmente io non me ne ricordo; ma so per la molto autorevole
testimonianza di mio padre che da bambino fui capricciosamente
irrequieto; non se ne aveva bene; non trovando il verso di farmi
stare tranquillo, mi mandarono a scuola compiuti da poco i trenta
mesi. La scuola in cui rimasi fino ai sette anni era tenuta da due
sorelle Marchionni, nubili per fortuna della razza e attempate: la
signora Gaetana e la signora Rosa. Di ciò che sapesse e
potesse insegnare la signora Gaetana non avemmo mai nè prova
nè notizia; anche lei salutavamo «maestra», ma in
sostanza l’ufficio suo era quello dell’aguzzino; appena la signora
Rosa faceva con uno di noi la voce grossa, la signora Gaetana, alta
secca allampanata, compariva sull’uscio e preso per un orecchio il
piccolo reo, secondo il misfatto, o gli amministrava con la mano
stecchita ripetuti colpi sulla parte più rotonda e carnosa
del corpo (quante parole per evitarne una!) o lo metteva nel
«cantuccio» dopo avergli coperto il capo con un
berrettone conico di cartone turchino, sul quale era disegnata da
mano inesperta una testa di somaro. La signora Rosa piccola,
grassetta, era la vera maestra; e un po’ per volta con paziente
pazienza ci insegnò tutto quanto sapeva: leggere, scrivere,
la tavola pitagorica, le prime operazioni dell’aritmetica, la
dottrina cristiana e poco più. A prendere tabacco senza
insudiciarsi laidamente la faccia, le mani, il vestito non ci
insegnò, perchè questo non riusciva neppure a lei.
Per ornare la mente di un tale corredo di dottrine tre anni
bastarono; trascorsi i quali io potei ancora in quella scuola
buscarmi frizzanti castighi dalle mani stecchite della signora
Gaetana, ma sperare nella erudizione della signora Rosa non
più.
Intanto al buon Tommaso prossimo alla settantina ed esonerato oramai
da ogni faccenda all’età sua incomportabile o grave, erano
affidate queste sole cure: condurmi a scuola, ricondurmene,
raccontarmi la sera qualche novella e all’ora debita mettermi a
letto.
Buon Tommaso! quanta amorevolezza la sua! Con quanta festevole
condiscendenza consentiva a ripetere la sera la novella di Belinda e
il mostro o delle Tre melarance, quasi il ripetere fosse più
per lui che per me rinnovato piacere; purchè, ben inteso, col
raccontare o col ripetere non s’andasse oltre l’ora canonica da mia
madre prescritta e che voleva rigidamente osservata. Giunta
quell’ora, non valevano preghiere e se la novella rimaneva a mezzo,
pazienza. Tommaso traeva dalla tasca un pezzo di carta, lo accendeva
alla lucernina (i fiammiferi erano di là da venire) e, tutte
le sere con le identiche parole: «le monachine — diceva —
vanno a letto, andremo a letto anche noi».
Una parentesi: per chi non lo sapesse le monachine sono, secondo i
vocabolaristi, «quelle scintille che vengono formandosi e
disparendo rapidamente lungo la carta bruciata; da sembrare tante
monache che col loro lume in mano scorrano per il dormitorio andando
a letto». E Lorenzo Lippi, intitolando il suo Malmantile al
Cardinale Leopoldo De Medici, gli scriveva così:
Mi basta sol se Vostra Altezza accetta
D’onorarmi d’udir questa mia storia
Scritta così come la penna getta
Per fuggir l’ozio e non per cercar gloria;
Se non le gusta, quando l’avrà letta
Tornerà bene il farne una baldoria
Chè le daranno almen qualche diletto
Le monachine quando vanno a letto.
Torniamo a Tommaso.
Uno solo di quei servizi lo faceva di mala voglia: il menarmi a
marcire ore e ore in una scuola dove non c’era più nulla da
apprendere lo impazientiva; e non si tratteneva dal farlo capire a
me e dal dirlo alle signore Marchionni, che credo lo avessero caro
come il fumo agli occhi. Alla fine dopo aver borbottato alquanto,
dal brontolìo passò alla ribellione; una bella
mattina: «che Marchionni e che scuola? Perdita di tempo e
scapito di salute. Niente scuola. Aria, aria»: in giro per le
vie e per le piazze a vedere quella statua di Donatello, quel
tabernacolo di Luca, a imparare qualche cosa davvero.
Ebbe per quelle scappate l’assentimento dei miei? Non era uomo da
indiscipline, e penso che sì; fatto sta che da quel giorno un
paio di volte la settimana la scappata si ripetè, e non ci fu
museo, galleria, chiesa, non ci fu angolo della città
testimone di qualche fatto notevole della sua storia ov’egli non mi
conducesse, raccontando, descrivendo, spiegando con pensiero e
parole adeguati alla mia intelligenza di fanciullo.
Di quando in quando si soffermava bensì innanzi a palazzi, si
studiava di mettermi in mente nomi che con la storia di Firenze non
avevano nulla che fare. Così, scendendo da San Miniato e
passando innanzi alle case de’ Serristori: «Qui è morto
Luigi re d’Olanda fratello di Napoleone» o uscendo da San
Marco nella via Larga (oggi Cavour) e indicandomi un palazzo sul
canto dell’altra via degli Alfani: «Qui abita il Principe di
Monfort, Girolamo re di Vestfalia, fratello di Napoleone». I
nomi di quei regni e di quei principi mi entravano da un orecchio e
uscivano dall’altro; quello di Napoleone, più facile a
ritenere e udito spesso pronunziare da mio padre, restava.
Perchè Tommaso Cogo aveva per il Bonaparte una ammirazione
che sapeva di idolatria: quando diceva: «L’ho veduto passare
la rivista delle truppe in Borgo Pinti fra la Porta e Candeli»
gli occhi gli si inumidivano; e l’ammirazione erompeva ora tanto
più fervida, quanto più dovè per alcuni anni
essere con cura guardinga dissimulata. Sua Eccellenza il Consigliere
Martini non gradiva di certo che in casa sua s’inneggiasse ai
francesi e, siamo giusti, qualche ragione l’aveva: a Siena,
governatore, l’Aram delegato del Direttorio lo minacciò di
morte; a Firenze ministro Elisa Baciocchi sbalzò di seggio la
sua sovrana e lui.
Napoleone era morto da un pezzo e il suo idoleggiatore non restava
dal difenderne la memoria o dall’educare a onorarla. Seppi da mio
padre di altercazioni avvenute diecine d’anni prima, delle quali
egli stesso dovè imporre la fine, fra Tommaso e il cuoco e la
cameriera di casa, coniugi devoti al trono e all’altare, che aretini
ambedue, con le bande reazionarie del ‘99 avevano, se non
scorrazzato, simpatizzato sicuramente e il bonapartista squadravano
con orrore, dandogli a tutto pasto dell’eretico e del giacobino.
Appena gli parve d’avermi bene inchiodato nella testa il nome di
Napoleone, esaltato ogni tanto come il più grand’uomo che mai
nascesse, e mi giudicò capace d’interessarmi a narrazioni
senza maghi e senza fate, cominciò a parlarmi di lui; e
fattomi così oltre che capace disposto, piano piano ogni sera
durante più mesi mi raccontò, sommariamente s’intende,
del gran Capitano le venture, le vicende, le glorie.
Non saprei oggi dire, perchè neppure oggi arrivo a
spiegarmelo, com’egli potesse con linguaggio adatto a un ragazzo
dell’età mia conseguire tale evidenza, tanto calda efficacia
da infiammarmi e ispirarmi precoci entusiasmi; fatto è che la
gesta di quell’uomo il quale traeva dietro a sè eserciti
dall’Europa in Affrica e in Asia, piombava sul nemico quando questi
lo credeva lontano le mille miglia e sempre lo sgominava, mi parve
anche più meravigliosa che i prodigi delle fate e dei maghi.
E poi questi eran favole e oramai lo sapevo.
C’è, bensì, questo da dire: che Tommaso non andava
immune dal difetto di tutti o quasi tutti gli storici: imparziale
non era. Secondo lui, Napoleone non s’era ingannato mai; la ragione
era stata sempre dalla parte sua; quanto aveva fatto, tutto a fin di
bene; i nemici suoi tutti malfattori; e il «canaglia»
l’«imbecille» il «brigante» erano nella
narrazione distribuiti con certa larghezza ai sovrani che lo
avversarono; di guisa che agli occhi miei appariva un Napoleone
alquanto diverso dal vero; non soltanto un eroe, ma una vittima di
implacabili invidie; e quei Franceschi, quei Giorgi, quegli
Alessandri, quei Federighi che lo perseguitavano io li odiavo come
avevo prima odiato l’Orco di Belinda, la Brutta delle Tre Melarance,
e sempre speravo, andando innanzi, di apprendere che erano cacciati
dal trono e i loro eserciti interamente distrutti.
Amico della famiglia, veniva spesso in casa nostra un colonnello
Gherardi, avanzo della campagna di Russia, al quale guardavo come a
un essere soprannaturale, beato delle sue carezze, orgoglioso di
sedergli sulle ginocchia. Di tanto in tanto mi regalava qualche
giocattolo. La vigilia di Natale il regalo fu più bello e
più gradito del solito; centinaia e centinaia di minuscoli
soldatini di piombo con relativi minuscoli carriaggi e artiglierie.
Avevano tutti la stessa divisa, ma Tommaso trovò non so
più quale spediente per distinguerli: e sopra una gran tavola
di marmo rosso delle nostre cave di Monsummano li disponemmo in
ordine di guerra: da un lato gli invincibili battaglioni del
Bonaparte, dall’altro le inique milizie della
«coalizione»; poi raccolti quanti tappi di sughero si
trovavano in casa fornimmo ai francesi quelle munizioni che
fulminavano annientandole, colpo per colpo, intere legioni prussiane
od austriache. Così al racconto d’ogni battaglia seguivano
manifesti i micidiali effetti della vittoria e le monachine andavano
a letto lasciando coperto
da cavalli e da fanti il terren.
Bisognò pur troppo, in omaggio alla storia, confessarsi
sconfìtti a Waterloo; ma prima di darsi per vinti, che
pioggia di turaccioli sulle schiere nemiche! che strage nelle
falangi britanniche, che sdruci nelle file del Blücher!
Trastulli puerili sì, ma indizi di quanto germogliava
nell’animo. Quando la sera l’«ora canonica»
sopraggiungeva con l’annunzio di una battaglia imminente, il giorno
dipoi accompagnavo Napoleone sul campo con tenera trepidezza, in
apprensione per timore d’una sconfitta. Waterloo fu un dolore, Sant’
Elena mi fece piangere le prime lacrime ch’io abbia dato a sciagure
altrui.
Sensazioni prime che non illanguidirono con l’andare del tempo,
nè illanguidirono i sentimenti. Quante ne ho sentite sul
conto di Napoleone! Molto ho letto che di più notevole si
scrisse contro di lui: lo Scott, la Staël, lo Chateaubriand, il
Gervinus, il Lanfrey, il Jung, il Michelet, il Taine, il Masson, il
Roseberg; e sempre leggendo mi sono ricordato di Enrico Heine e
delle sue conclusioni: «Immortale, eternamente ammirato,
eternamente rimpianto!» E chi nega le colpe, chi le follie? ma
innanzi a tanta grandezza, a una espiazione che la pareggia, ai
diritti imperiali del genio e della sventura nulla vale ad
affievolire i miei sentimenti, nulla ad attutire le ripugnanze e
peggio che alcuni dei suoi nemici mi ispirano: tali che (lo confesso
con compunzione di sbarazzino ravveduto) se venivo al mondo
cinquanta anni prima, non avrei degnato - tutt’altro - di
accompagnarmi con la masnada che nelle vie di Londra inserì
torsoli di cavolo fra gli allori del più celebre degli
Arturi, Lord Wellesley Duca di Wellington, o con coloro che
macchinarono di pigliare a ceffoni Sir Hudson Lowe, malauguratamente
impediti dalle polizie.
*
Il 1848 fu anche per me l’anno della libertà. Toltomi dalla
scuola delle signore Marchionni e aspettando convenisse di mandarmi
in un’altra, fu commesso a un pretonzolo di iniziarmi allo studio
dell’italiano e del latino e di condurmi seco alla passeggiata.
Per l’italiano bene, per il latino benissimo; ma dal secondo impegno
dopo un paio di settimane Don Antonio (tale il nome del Mentore)
chiese di essere dispensato. Tempi di rivoluzione, la città
spesso in subbuglio; v’era piovuta e pioveva da ogni parte d’Italia
gente tumultui assucta, come i Romani di San Bernardo e come quelli
immitis et intractabilis, vedeva i preti di mal occhio; lo stesso
Arcivescovo, mesi dopo costretto a fuggire, era sin d’allora
minacciato ed offeso. Don Antonio tanto più ammirava i
biografati da Cornelio Nipote, quanto più si conosceva fatto
di pasta diversa; di portare in mostra la propria tonaca in quei
pomeriggi quotidianamente sacrati agli scompigli e alle turbolenze
non se la sentiva, specie avendo in custodia un ragazzo. Che fare?
ch’io muffissi fra quattro pareti naturalmente non si voleva; mio
padre, segretario generale al Ministero delle Finanze e deputato per
Montecatini, non aveva tempo per le passeggiate; mia madre, che
(come poi seppi) le storie della rivoluzione francese avevano fatta
paurosa d’ogni sommossa, atterrita dalle notizie che giungevano da
Roma e in devota trepidazione per le sorti del Pontefice, s’era
tappata in casa aspettandosi il peggio e di rado ne usciva, anche
perchè le avevano nociuto alla salute i continui spaventi....
Che fare? Sempre pronto, Tommaso Cogo supplì.
Chiese, palazzi insigni, opere d’arte, non ce n’erano più da
vedere; c’erano invece, spettacolo nuovo, le dimostrazioni; e tanta
frettolosa premura poneva Don Antonio nello schivarle, tanta Tommaso
nell’andarle a cercare; e il trovarle del resto era facile,
perchè donde venissero, tutte sboccavano finalmente innanzi a
Palazzo Vecchio sede del Governo e della Camera dei deputati o
Consiglio legislativo, come allora in Toscana s’ intitolò
l’assemblea.
Veramente io avrei preferito di andare nel chiostro di San Marco a
far gli «esercizi» col Battaglione della Speranza
formato di ragazzi dai sette ai dodici anni se ben ricordo, ai quali
si insegnava il maneggio del fucile, il passo ordinario, il passo
accelerato e via dicendo; vi avrei fatto bella mostra di me, in
quanto che il maneggio del fucile, rappresentato da un bastone di
canna d’ India, Tommaso me lo aveva insegnato di già:
ventiquattro movimenti per arrivare a sparare una cartuccia, secondo
i riti dell’esercito toscano e le armi d’allora.
Per contentarmi, mi vi condusse una volta e anch’io cantai in coro
con i commilitoni:
Siamo piccini
Ma cresceremo
Combatteremo
Per la libertà;
dopo di che sentenziò che quelle erano
«giuccherie» e troncò ad arbitrio la mia carriera
militare.
Si tornò alle dimostrazioni: continuando nel suo metodo
educativo, il buon vecchio tentava spiegarmi che cosa quella gente
volesse con que’ vocii e quello sventolìo di bandiere; ma io
non capivo nè mi premeva di capire. Perchè mesi
innanzi gridavano «viva Gioberti» e que’ medesimi
«abbasso Gioberti» qualche mese dopo? E poi Napoleone
era morto, il resto non mi importava. Un giorno bensì presi
anch’io parte attiva alla dimostrazione, ma non precisamente per
esprimere una opinione politica: quando sotto la Loggia dell’Orcagna
un tale (ho imparato poi che si chiamava Francesco Trucchi)
schizzò di un salto presso alla Giuditta di Donatello e di
lassù con molto accalorato discorso e gesti analoghi
provocò più volte gli applausi della folla che lo
ascoltava.
Ho letto in seguito ne’ giornali e nelle cronache di quel tempo che
voleva si facesse «piazza pulita» e si mandassero via
Ministri e Granduca; ricordo che quando ebbe conchiuso, leggero
così com’era salito, in un salto discese; la folla
replicò gli applausi ed io ammirato di quella agilità
da scoiattolo, anch’io battei le mani. Tommaso mi rimproverò;
giustamente; per esordire nella vita pubblica scelsi male la
occasione, dappoichè i giornali e le cronache narrino
altresì che quel Trucchi, il quale voleva tolti i portafogli
ai Ministri, si dilettava nel far collezione di portafogli altrui.
Non capivo, ma non posso dire che non mi divertissi. Rammento che in
quelle dimostrazioni mi davano nell’occhio e li guardavo curioso
alcuni omaccioni riccamente baffuti e barbuti; e mi davano
nell’occhio non perchè più forte degli altri urlassero
i «viva» e gli «abbasso»; ma perchè
vestivano il nuovo abito all’italiana, bluse di velluto nero stretta
ai fianchi da una cintura di cuoio, calzoni della stessa stoffa e
colore, larghissimi al femore stretti alla caviglia; e sulla bluse,
dalle radici del collo scendenti per tutta la spalla enormi solini
rovesciati, sotto ai quali si nascondeva per uscire in lunghe ampie
cocche sul petto una cravatta nera o rossa, secondo i gusti, gli
umori, le opinioni del cittadino. In testa un cappello alla
calabrese ornato dell’umile spoglia di un gallinaceo.
Un di costoro (mi pare di vederlo, così presente m’è
la sua faccia) venne in casa nel febbraio del ‘49 a chiedere la
mancia per gli operai che avevano inalzato davanti alla chiesa di
San Remigio nostra parrocchia l’albero della libertà; e
chiese con così mal piglio che la mia povera madre subito
dette e con larghezza da colui certamente insperata. Vi tornò
nell’aprile ossequioso e scusandosi della importunità, a
chiedere un’altra mancia per gli operai che quell’albero avevano
finalmente - così diceva - atterrato.
E così grazie al servo amatissimo, correndo oggi l’anno di
grazia 1917, io sono una delle cento persone (se pure a tante si
arriva) che a Firenze ricordino di aver visto il Gioberti arringare
da una finestra del Lungarno Guicciardini e, avvenuta una prima
rivoluzione, dalle logge dell’Orcagna il Mazzini predicare la
repubblica; avvenuta di lì a due mesi la seconda, dal balcone
di Palazzo Vecchio Gino Capponi ammonire, placandola, una
moltitudine che voleva nelle proprie mani vivo o morto Francesco
Domenico Guerrazzi e piuttosto morto che vivo.
Il Guerrazzi! Fra le sue colpe, non tutte bilanciate dalle
benemerenze, ha anche questa: essere stato cagione sebbene remota
cagione della morte di Tommaso Cogo.
*
Il 1849 è lontano più che i molti anni trascorsi non
dicano, la cronaca minuta degli avvenimenti toscani di quel tempo
ignorata dai più. Riassumiamola brevemente.
Sopraffatto dalla rivoluzione, il Granduca Leopoldo aveva
abbandonato la Toscana e seguendo l’esempio del Papa chiesto asilo
in Gaeta al cognato Ferdinando de’ Borboni di Napoli. Fattasi
così necessaria la istituzione di un governo provvisorio, il
Guerrazzi ne fu anima e capo. Egli che per afferrare il potere
sollecitò gli aiuti di gente d’ogni risma, non seppe, dopo
averla sguinzagliata, mantenerla obbediente ai propri ordini, che
anzi parve l’avessero posto al comando soltanto per gusto di
disobbedirgli. Sconfitto intanto l’esercito piemontese a Novara, fu
facile prevedere la restaurazione dei vecchi principi e la Toscana
stanca di anarchia, che del Granduca, a dire il vero, non aveva sino
allora troppo a dolersi, si dimostrò per più segni
proclive ad affrettarne il ritorno. Soverchiato dalla demagogia e
minacciato dalla reazione, il Guerrazzi ordinò venisse a
Firenze di fretta un battaglione di volontari livornesi a lui fidi,
affinchè - fece dire - ristabilissero e mantenessero l’ordine
pubblico.
A malgrado del titolo, non di tutti livornesi si componeva: parecchi
ve n’erano d’altre parti della Toscana, ma tutti parimente e
tristamente famosi per soprusi violenze e ruberie commesse
nell’Appennino pistoiese, avvalorarono con nuove gesta in Firenze la
propria fama. Edotti della ragion vera della loro presenza nella
città, guardare, cioè, le spalle al dittatore di cui
erano oramai quasi unico sostegno e difesa, soprusi, violenze,
ruberie, ogni turpitudine crederono a sè lecite quegli
sciagurati. Arrivati la sera del 7 aprile, tante in poco più
di quarantotto ore, ne fecero, che levatosi lor contro il popolo, il
Municipio ottenne fossero rimandati onde vennero; e si
stabilì che nelle ore pomeridiane del giorno 11, movendo
dalla piazza Santa Maria Novella prossima alla stazione, la non
gloriosa coorte se ne andrebbe per via ferrata a Pistoia.
Uscimmo nelle prime ore del pomeriggio alla passeggiata; nel ritorno
Tommaso senza, credo, esserselo dapprima proposto, ma voglioso di
farmi vedere que’ livornesi de’ quali tanto in casa avevo sentito
parlare, dal Lungarno, per la via de’ Fossi mi condusse nella
piazza, dove parte del battaglione era già adunata e molta
folla venuta come noi a curiosare. Stavamo per entrare nella via
degli Avelli, allora angustissima, quando fu sparato un colpo di
fucile, da chi e contro chi non si seppe mai, seguito da altri colpi
che ora i livornesi sparavano.
Figurarsi il parapiglia che ne successe! Urla, strida, lamenti,
bestemmie. Chi fuggiva di qua chi di là e fuggimmo, diciamo
così, anche noi; ma è facile pensare quanto
velocemente possano fuggire un bambino di sette anni e un vecchio di
più che settanta, tra il serra serra di gente svelta e
paurosa altrettanto. Ci guadagnammo d’essere malmenati e pesti nella
calca e per giunta ributtati da uomini in arme che procedendo in
senso opposto si facevano largo con gli spintoni e col calcio dello
schioppo. Uscimmo finalmente anche noi nella prossima piazza: ma
dove rifugiarsi? Tutti i portoni sprangati. Fuggire per dove? Nella
via del Melarancio si sparava dalle finestre; dalla via
Sant’Antonino sbucava una torma di popolani con fucili, forche,
zappe, bastoni gridando morte e vendetta.... Eravamo nel bel mezzo
di una mischia in cui s’inferociva tutto un quartiere e le
pallottole fischiavano intorno a noi. Non ricordo più se non
questo: che Tommaso presomi in collo, dopo molti andirivieni,
infilammo una strada donde a corsa scendeva un forte drappello di
soldati. Passati che furono, scorgemmo ciò che le loro fila
serrate ci avevano nascosto: sul lastrico sanguinolento il cadavere
d’un livornese.
Pensate l’orrore. Mi trovavo per la prima volta in conspelto della
morte e quale! Un’anima buona ebbe compassione del nostro terrore:
una donna che adocchiava da un uscio socchiuso, ce l’aprì
tutto intero e ci offrì di ripararci e di riposare.
Riparati eravamo, ma forse Tommaso si angosciava nel pensare le
ansie dei miei. Ripigliammo il cammino. Dal quartiere di Santa Maria
Novella alla via de’ Rustici dov’io son nato e allora abitavamo,
è lungo il tragitto. Io non mi reggevo in piedi. Tommaso mi
riprese in collo per buon tratto di strada. Come Dio volle,
giungemmo al Duomo. Inorridito poco prima innanzi ad un morto,
inorridii nuovamente innanzi alla barbarie dei vivi. Ci passò
accanto un ragazzaccio che teneva eretto e poggiato sul ventre come
si suole l’asta della bandiera, uno stocco con infilzati brani di
cervello e di cuoio capelluto, e gridava: «Quando le vogliono
bisogna dargliele».
E furono trenta i morti e oltre cinquanta i feriti, i più
gravemente.
Arrivammo finalmente a casa; ne eravamo usciti alle due e tornavamo
alle sette.
*
In casa i domestici tutti sossopra; mio padre, mio fratello,
maggiore a me di dieci anni, supponendo ci fossimo rifugiati in
qualche famiglia di parenti, erano usciti a cercarci. Mia madre
sola, e da ore e ore in terribili angustie.
Quando entrammo nella sua stanza ci venne incontro accigliata e
forse Tommaso avrebbe dopo tante diecine di anni udito farglisi per
la prima volta un rimprovero, se ci fosse stato tempo a
pronunziarlo: ma fatti pochi passi, cadde accasciato sopra una sedia
e anzichè rimproverarlo bisognò sostenerlo con qualche
cordiale e confortarlo di parole amorevoli. Nella notte lo colse una
febbre ardentissima, annunzio di una malattia che lo condusse in fin
di vita e che i medici stimarono effetto delle fatiche e delle
commozioni di quella tremenda giornata. Si riebbe e potè
alzarsi, ma andar fuori non più. Abitava a terreno e quando
il cielo era limpido e l’aria tepida, sedeva nel cortile assolato,
col suo cilindro in testa e il suo tabarro color marrone (non
portò mai a tempo mio, nè cappello di diversa forma
nè vestito di colore diverso) aspettando ch’io passassi
nell’andare a scuola o nel tornarne, per salutarmi, domandarmi de’
maestri, dei compagni, che cosa avessi imparato e via dicendo,
colloqui che sempre si chiudevano con una carezza e una pasticca di
zucchero d’orzo. Se la stagione non gli permetteva uscire di camera,
mi aspettava dietro la finestra e mi chiamava picchiando con le dita
ne’ vetri. Una bella mattina di settembre, e il cielo era limpido e
tepida l’aria, non lo trovai nel cortile, non lo vidi dietro alla
finestra tornando, feci per entrare nella camera, una suora me lo
vietò. Era morto.
Trovarono in quella camera la copia di un testamento scritto di suo
pugno e depositato presso un notaro. Nei quarantacinque anni che fu
in casa nostra, aveva de’ propri risparmi messo da parte quattro o
cinquecento scudi. Li lasciava a mio padre.
II.
Fra tonache e gonnelle.
Tornato il granduca, Don Antonio si ripresentò: di bluse di
velluto, di cappelli alla Ciceruacchio neppur l’ombra per le vie di
Firenze; soldati austriaci montavano la guardia a Palazzo Vecchio e
di dimostrazioni clamorose e minacciose non c’era oramai più
pericolo. Morto Don Rodrigo, Don Abbondio aveva ripreso animo e ora
si offriva per l’ufficio di Mentore peripatetico, che la paura lo
aveva costretto a renunziare l’anno prima. Gli fui, ahimè!
novamente affidato.
Obbligo suo condurmi a spasso quattro volte la settimana, tutti i
giorni durante la villeggiatura, ripassare meco ogni tanto la
grammatica latina, insegnarmi la Storia Sacra.
L’ultima di queste diverse funzioni era la sola che non mi fosse
sgradita; non già per desiderio di apprendere, ma
perchè Don Antonio aveva frequentissimo nel discorso un
intercalare: «così tra una cosa e l’altra»; e a
me, sebbene ragazzo, non sfuggiva in quell’insegnamento la
comicità di certe locuzioni e mi ci spassavo: «nel
sesto giorno, Iddio, così fra una cosa e l’altra, creò
l’uomo».
Ma quelle passeggiate! Perchè bisogna sapere che Don Antonio
era una specie di procaccia liturgico sempre in caccia di messe, ora
per questa ora per quella parrocchia, ora per quella festa ora per
quel funerale. Di qui il cercare affannoso del tal prete e del tal
altro e le frequenti dimore e i lunghi bisbigli nelle sagrestie, mio
fastidio e tormento, che i compagni di scuola incrudivano,
descrivendomi le loro ricreazioni nel giardino, di Boboli, o
raccontandomi le loro gite fuori le porte della città. Io,
che mi compiaccio del non avere da uomo fatto odiato nessuno, Don
Antonio lo odiai da fanciullo di un odio implacabile.
Delle noie patite in città mi vendicavo bensì con acre
godimento in campagna. Al suo piccolo corpo grassottello, alla sua
pelle rosea, quel pretonzolo di trenta o trentacinque anni era
affezionatissimo, e fin qui si capisce: difficile invece, se non a
capire, a scusare in uomo sano e dell’età sua le perpetue
irragionevoli apprensioni, alle quali la rosea pelle e il
grassottello corpo lo condannavano. Per una leggera sudata, paura di
malattia; per un frutto mangiato fuor d’ora, paura di indigestione;
in carrozza di rado e quando non si potesse in altro modo per paura
di ribaltamenti, in barca non mai per paura di naufragio. Lo sapevo
e in campagna ne profittavo per conseguire due fini ad un tempo:
indispettirlo e star con lui quanto meno fosse possibile.
Nell’andare a zonzo ogni giorno con lui per i piani e i colli
valdinievolini, appena una occasione si presentasse subito la
coglievo: prossimo, per esempio, alla strada che percorrevamo, si
stendeva a traverso un viottolo uno stretto ponticello di legno
senza ripari laterali: subito piantavo in asso il mio Mentore,
balzavo d’un salto sul ponticello mal sicuro, e lanciato un ironico
«venga, venga», me ne andavo pe’ fatti miei; dall’orlo
di una selva per un molto ripido pendìo e tra le felci e le
stipe, si precipitava meglio che non si scendesse nel fondo di un
burrone e io giù per il pendìo. Don Antonio
imbestialiva, enunciava a gran voce le mie deficienze morali con
grande profusione di appellativi, ma quanto a inseguirmi sul
ponticello o tra le felci e le stipe, neanche se gli avessero
promesso il cappello cardinalizio.
Era dovere suo lo accompagnarmi, dovere mio non allontanarmi da lui.
Mancavamo per quelle mie scappate al nostro dovere ambedue; ma egli
non poteva denunziarle a mio padre senza accusare sè stesso
di timori ridicoli in un uomo giovine ben pasciuto e saldissimo in
gambe; e preferiva, quando mi perdeva d’occhio, andare ad aspettarmi
in qualche punto, donde tornando, era di necessità ch’io
passassi; sì che, giunti a casa, nessuno si accorgesse di
quanto era avvenuto; spediente ingegnosissimo per dire una bugia
senza aprir bocca, e fare sè complice delle mie
indisciplinatezze, me complice delle sue simulazioni.
La cosa finì male: in una di quelle mie scorrazzate, messo un
piede in fallo ruzzolai tra ‘l folto di arbusti spinosi e caddi
sull’alveo sassoso di un torrente a secco. Scalfitture, contusioni
un po’ dappertutto; la grave scorticatura d’uno stinco mi dava
dolore acutissimo e m’impediva di camminare. Per buona sorte un de’
nostri contadini (avevamo poderi a quel tempo!) venne in soccorso
del padroncino; e postomi sulle spalle a cavalluccio, per una
scorciatoia mi riportò a casa.
Dopo le cure di mia madre e la sgridata di mio padre vennero le
interrogazioni. — Come è accaduto? dove? e Don Antonio
dov’era? Arrivava in quel punto. Mi aveva a lungo ansiosamente
aspettato nel solito luogo, poi, non vedendomi e cadendo la sera,
s’era risoluto in grande costernazione a tornarsene solo. Nel
ritrovarmi così malconcio allibì. Stretto dalle
domande, nelle quali era implicito il rimprovero, rispose: — Creda,
caro signor Vincenzo, creda pure che questo ragazzo, così tra
una cosa e l’altra, è un demonio...; e per quanto le domande
si facessero via via più urgenti, non seppe dire altro, salvo
di mutarmi di demonio in versiera, e di versiera in terremoto.
Mentre con tali inefficaci argomenti s’industriava nella propria
difesa, s’accorse di avere dietro di sè una finestra aperta e
si mosse frettoloso per chiuderla....
Mio padre dette in una sonora risata e dopo avergli dimostrato che
quello di Mentore peripatetico non era mestiere per lui,
garbatamente lo licenziò.
Mi parve di molto addolcito il frizzìo della scorticatura.
*
Ma fu quello (lasciamo stare per una volta tanto Scilla e Cariddi)
un cascare dalla padella nella brace. Tornati a Firenze e mancando
l’accompagnatore, mancarono le passeggiate ed io fui affidato alla
vigilanza e alla compagnia delle donne di servizio. Tale era del
resto allora l’usanza (pessima usanza!) nelle famiglie di un certo
ceto e di una certa agiatezza: i figlioli fuori di casa col prete,
in casa con le cameriere; in casa nostra e in quel momento non c’era
altro partito da prendere: mia madre malazzata, mio padre
all’ufficio la massima parte del giorno; e furono scritte a danno
del riposo e del sonno le commedie che gli valsero gli applausi del
pubblico e le lodi dei contemporanei; lunghe veglie, delle quali
tutto l’organismo si risentì e la tomba si schiuse prima che
la vecchiezza giungesse.
Due nature diverse le due donne alle quali fui dato in custodia,
fisicamente e moralmente diverse: un’Adelaide senese, sulla
trentacinquina, personificava nel regno animale un’antitesi nel
vegetale impossibile; era secca e verde ad un tempo; una Margherita
sui venti o poco più, magnifico fior di ragazza cresciuta tra
le felici aure montane del Mugello nativo, rosea e robusta, era il
ritratto della salute: l’una fantastica e bigotta, l’altra gaia e
spregiudicata.
L’Adelaide era fidanzata a un sergente dei carabinieri (gendarmi,
veramente si chiamavano allora) e doveva sposarlo subito ch’egli
ottenesse il congedo. Avvenne che una bella mattina (era, ricordo,
di domenica ed io tornavo dalla messa insieme con le due fantesche)
entrata in casa vi trovò una lettera del suo Timoteo (il nome
non era poetico, ma l’amore passa sopra a tante cose!). Le aveva
scritto la notte in procinto di partire improvvisamente per
Orbetello. Scorrazzava nella Maremma una banda brigantesca che
scontratasi giorni innanzi e azzuffatasi con la gendarmeria era
riuscita a fugarla. Timoteo partiva con la sua compagnia, a
rinforzo, per aver ragione dei malfattori.
Leggere, cacciare un grido e cadere svenuta fu tutt’una. E non
valsero spruzzi d’acqua sulla faccia, boccette d’aceto sotto le
narici, per scuoterla da quel torpore. Chiamato un medico,
bisognò discingerla e verecondia impose ch’ io fossi
allontanato dallo scarno spettacolo.
Quella sentimentale trentacinquenne possedeva una piccola biblioteca
i cui volumi leggeva e rileggeva di continuo: vite di santi, romanzi
italiani o tradotti, famosi a quel tempo fra la gente del suo grado
e della sua coltura: i Misteri d’Udolfo della Ratcliff, Teresa e
Gianfaldoni, il Ritorno dalla Russia, Adelaide e Comingio, ovvero
gli amanti infelici, altri che non rammento, tutti del medesimo
conio; di quelli insomma che Napoleone a Sant’Elena definiva
«romans d’antichambre» (e metteva nel mazzo, Dio lo
perdoni, anche la Manon Lescaut): finalmente un vecchio
libricciattolo, nel quale si descrivevano con crudele minuzia di
particolari i castighi sofferti da peccatori impenitenti o da
eresiarchi. Ricordo un Leonzio cacciatore, che passando innanzi a un
tabernacolo sparò una fucilata contro l’imagine della
Vergine, e fu mangiato da serpenti. Sobrii a quanto pare,
perchè il supplizio durò un anno intero.
Nell’ottimo intendimento di contribuire alla mia educazione
spirituale, l’Adelaide ogni sera, prima di darmi la buona notte, mi
largiva il succo delle sue svariate letture: frammenti agiografici
ed episodi romanzeschi, tragedie sacre e drammi profani, spasimi di
martiri e disperazioni di innamorati. Io, per dirla col buon
Saccenti,
io morivo di voglia di dormire,
con tutto ciò . . . . . .
la sarei stata un secolo a sentire;
e non di rado me ne andavo a letto con gli occhi gonfi,
impressionato dal terrore o dalla pietà di quei casi.
La Margherita non leggeva, perchè nella sua gioconda
spensieratezza s’era scordata d’imparare a leggere; ma conferiva
anch’essa all’addottrinamento del mio giovine intelletto, e cantando
stornelli a perdifiato mi preparava a gustare le fresche
ingenuità della poesia popolare. Gli stornelli erano innocui;
non così quei racconti sebbene io li ascoltassi con attonito
compiacimento.
Impia sub dulci melle venena latent;
fra le paurose invenzioni della Ratclifif, Leonzio divorato dai
serpenti, Santa Verdiana che arringava le vipere, la omonima
Adelaide che spirava fra le braccia dell’adorato Comingio, estasi,
suicidi, fantasmi, supplizi, sortilegi ed altre diavolerie
rimuginate fra me e me senza tregua, mi ridussi a non dormire
più, o, addormentatomi, a svegliarmi in sussulto dopo sogni
affannosi: n’ebbi scossi i nervi e confuso il cervello: e
perchè deperivo a vista d’occhio, indagatene e conosciutene
le cagioni, mia madre, ormai avviata alla guarigione, risolse di
pigliarmi con sè.
A tempo! di lì a qualche settimana l’Adelaide parve, per
qualche segno, non aver più la testa a posto, la Margherita
fu licenziata su due piedi e cacciata intrafinefatta. Le ero
affezionato e mi rincrebbe. Domandai: perchè? come mai? che
ha fatto? ma nessuno mi rispose. Soltanto molti anni dopo, seppi che
la prosperosa contadinotta, indispettita forse del non poter leggere
romanzi, ne aveva fatto uno per conto suo: il quale, cominciato con
due personaggi, quando lo scacciamento avvenne stava per finire con
tre.
*
A distrarmi dalle orrende fantasticherie, giovò la stanza,
nella quale mia madre abilissima nel ricamo passava parte del
pomeriggio al telaio ed io vicino a lei sbrigavo i miei compiti,
prima trascurati per colpa di Leonzio e di Gianfaldoni;
quell’istesso salotto ove, sulla tavola di marmo rosso delle cave
monsummanesi, le invincibili armi napoleoniche debellarono
già gli eserciti della Russia e dell’Austria.
Sul parato di carta di Francia erano a vivi colori raffigurate
numerose specie di uccelli. Mi divertivo a guardarli, a
distinguerli; e il guardarli e il distinguerli alla lunga mi
incuriosì: mi venne voglia di sapere come si chiamassero,
dove nascessero, come vivessero. Di quella curiosità mio
padre si compiacque, mi venne in aiuto con una vecchia ornitologia;
ed io un po’ alla volta, con molta diligenza e pazienza, riuscii a
determinare degli ammirati volatili le specie ed i generi, a
conoscerne la vita e i costumi.
Lontano effetto di quelle ricerche sull’avifauna condotte da
fanciullo, o inclinazioni di origine atavica? (in casa mia tutti
cacciatori di padre in figlio per parecchie generazioni). Fatto sta
che la caccia di ogni forma e maniera: schioppo, rete,
pènera, vischio, fu in me per mezzo secolo passione
potentissima. Sui venti anni addirittura manìa; basti che mi
fece perfino oratore sacro.
Sicuro: prossima a Monsummano è una vasta tenuta; smaniavo
d’andarvi a caccia dei pispoloni (Anthus arboreus) in settembre; ma
ci voleva il permesso del fattore. Era col fattore in ottimi
termini, un giovine prete ambiziosetto, cui piaceva mettersi in
mostra e farsi credere di grande ingegno e coltura. In occasione di
nozze paesane avevamo lavorato insieme a un sonetto per gli sposi;
io lo scrissi ed egli lo sottoscrisse; pensai conveniente ricorrere
a lui. Non m’ ingannai: si sarebbe volentieri adoperato lietissimo
di farmi cosa gradita; se non che.... servizio per servizio, anch’io
potevo fargli cosa gradita e toglierlo da un imbarazzo. S’era
impegnato con i preti d’un paese vicino, per certa festa da
celebrarsi fra un paio di mesi, a recitare il panegirico del santo
protettore. Aveva già raccolto le idee; ma lui organista, lui
sagrestano, tra il breviario la messa e il coro, temeva con tante
faccende, non aver tempo di stenderlo. Lungo rigirìo di
frasi, la cui conclusione fu questa: egli avrebbe aiutato me nella
venatoria, io lui nell’oratoria, egli mi avrebbe ottenuto il
permesso, io gli avrei fatto il panegirico.
Lì per lì non mi parve vero, ma poi, riflettendoci, mi
accorsi che nell’imbarazzo c’ero io. Un panegirico! non sapevo dove
mettere le mani, da che parte rifarmi e oramai indietreggiare non si
poteva: non c’erano più di mezzo soltanto gli anthus arborei,
ma l’amor proprio e la parola data. Stavo così perplesso,
quando eccoti l’amico a crescere il prezzo della mediazione. Aveva
incontrato molte difficoltà, fatte molte gite inutilmente,
dovrebbe farne ancora molte, perchè senza lungamente
insistere non si riusciva a superare quelle difficoltà:
perdita di tempo che lo accorava, in quanto che non aveva saputo
esimersi da un nuovo impegno: un sermone da recitarsi alle monache
d’un altro paese. Ho detto che la caccia era a quel tempo per me una
manìa, mi par superfluo l’aggiungere: purchè l’aiuto
non mi mancasse, purchè il permesso venisse farei anche il
sermone.
Per fortuna nella villa di mio zio, rimanevano intatti da oltre un
secolo i libri di un antenato che fu parroco: ne scavai il Segneri e
lo Zappata, vi feci la conoscenza del Massillon e del Bourdaloue,
scartabellai, compulsai, lessi attentamente; e quando, scorso un
mese o poco più, il prete ambiziosetto mi porse la carta che
mi dava facoltà di stendere le reti nel prato di Mitico, io
gli consegnai a mia volta il panegirico del Santo e il Sermone sulla
modestia per le monache di Borgo a Buggiano.
E anch’io in un’afosa giornata di luglio, anch’io andai alla festa.
Il panegirico, egregiamente con bella voce detto dal pergamo,
strapiacque. I notabili, usciti dalla chiesa e passeggiando su e
giù per l’unica strada del villaggio per far l’ora dei fuochi
artificiali, sebbene così incompetenti in materia di sacra
eloquenza come di ortografia e scienze affini, non si stancavano di
levare a cielo l’ingegno e la dottrina dell’oratore novizio. Quali
speranze da quegli esordi! L’esattore comunale era addirittura
entusiasta: sfringuellava: «magnifico, magnifico» e
venutomi incontro, mi abbordò con un: «dica lei, dica
lei, se non è veramente magnifico».
Io che, quantunque sotto mentite spoglie, mi sentivo trattenuto dai
pudori della paternità — sì, sì, — risposi — ma
non bisogna poi esagerare.... — L’esattore mi dette un’occhiata a
stracciasacco che volle significare e significò: ecco
l’invidia!
*
Torniamo al salotto.
Il rivederlo con gli occhi della memoria mi riconduce, col pensiero,
fra molte ore liete che vi trascorsi, ad alcune duramente penose;
alla prima punizione avuta in iscuola, della quale molto mi afflissi
e adirai perchè era la prima e perchè mi parve e
poteva parermi ingiusta sebbene non fosse.
Vi restavamo ogni giorno una o due ore del dopo pranzo (si pranzava,
a quel tempo in Toscana, alle sei d’inverno e alle quattro
d’estate). Una sera alcuni amici di famiglia erano venuti a
prendervi il caffè, quando, accompagnato dal servitore,
entrò nella stanza un uomo di mezza età in abito
piuttosto dimesso e che avevo veduto altre volte perchè
abitava nella Via Nuova, oggi de’ Magalotti, in una casa rimpetto
alla nostra e la finestra della mia camera dava appunto su quella
via.
Veniva a chiedere non so più quale favore a mio padre e
intanto gli offriva un nuovo volume delle proprie poesie.
Mio padre che lo conosceva da un pezzo lo accolse festevolmente e lo
presentò: — il signor Gaspero Gozzi, poeta improvvisatore: —
quel volume conteneva le poesie da lui improvvisate in Accademie e
sui teatri della Toscana. Io che non sapevo ancora che cosa fosse un
endecasillabo, fui subito preso da ammirazione per il felice uomo
che scombiccherava versi a quel modo: ammirazione che si fece
più viva quando lo vidi alla prova.
Lo pregarono di improvvisare un sonetto con rime obbligate.
Consentì: dettarono chi una rima, chi un’altra. Invitato a
sedersi a scrivere se volesse, ricusò; e dritto con in mano
la carta ov’erano segnate le rime, sciorinò il sonetto in
minor tempo di quanto impiego io a raccontarlo. Per lui,
esercitazione consueta, per gli altri ascoltatori nulla di
straordinario; per me meraviglia e portento.
Qualche anno dopo una bella mattina il prete Chiti, maestro di
grammatica e di umanità nell’Istituto Rellini la grammatica e
la umanità corrispondevano al nostro corso ginnasiale) il
prete Chiti ci dettò un sermone da impararsi a memoria.
È, disse, di Gaspare Gozzi. Io, orgogliosetto della quasi
familiarità con un grand’uomo, sussurrai al compagno che mi
stava vicino: — L’ho conosciuto bene io, il signor Gozzi. —
Il Chiti udì e domandò:
— Che cosa ha detto?
Io — Che il signor Gozzi l’ho conosciuto bene.
Lui (con una scrollata di spalle) — Non dica sciocchezze.
Io (punto) — Eh! io l’ho conosciuto.
Lui (alzando la voce e accigliato) — Le ripeto di non dire
sciocchezze; Gaspare Gozzi è morto da mezzo secolo.
Io (convinto che di Gaspare Gozzi poeti non ce ne potesse essere al
mondo che uno) — Ma se venne tempo fa in casa mia.
Lui (incollerito, battendo col pugno sulla cattedra) — Puntiglioso e
sfacciato! Esca dalla scuola e copi per domattina due volte la tal
favola di Fedro. Esca e si vergogni! —
Uscii beffato dai condiscepoli, i quali credendo cocciuta
asinità quella mia, con lo scotere della testa o con cenni o
con smorfie, tutti mi davano, in silenzio, dell’imbecille. Uscii e
piansi e singhiozzai tutto il giorno di dolore e di stizza.
Il Gozzi era forse ancora lì vivo e verde e abitante in Via
Nuova. Dunque? Dunque il maestro aveva detto uno sproposito e
piuttosto che confessarlo, si accaniva contro di me che lo
correggevo. Ah! che afflizione e che rabbia!
Mio padre, pur rimproverandomi il tu per tu col maestro, mi
spiegò come qualmente maestro e scolaro avessimo ragione
ambedue: e dandomi quel tal volume di poesie da mostrarsi la mattina
dipoi, mi porse modo di giustificarmi.
Lo mostrai; il Chiti guardò il frontespizio e con un
«Questo non so chi sia» mi congedò.
Poichè la punizione non poteva oramai revocarsi, una parola
buona non sarebbe stata di troppo; non la disse probabilmente
perchè non ne fosse offeso il solito «prestigio
dell’autorità» il quale, come è noto,
esige che i superiori abbiano ragione sempre, e segnatamente quando
hanno torlo.
Ma se mantenne l’autorità sotto un aspetto, meco ne
scapitò sotto un altro; io durai lungamente a pensare: come
s’impanca costui a insegnare letteratura, quando ignora perfino il
nome di un poeta che schicchera sonetti senza mettersi neanche a
sedere?
III.
Gente illustre.
Io sopravvivo ad un mondo scomparso; e ove mi avvenga di domandare
ad alcuno: — ve ne ricordate? — mi guardano attoniti e mi
rispondono: — come è egli possibile che io me ne ricordi? —
Queste parole di Massimo Du Camp narrante episodi della sua
adolescenza mi tornano a mente nel rimuginare fra le memorie
dell’adolescenza mia; eventi solenni, innovazioni meravigliose hanno
mutato la faccia del mondo, e que’ tempi appaiono lontani più
di quanto siano in realtà; veramente remoti nel senso
etimologico della parola. Se ripenso di avere udito nel giugno del
‘48 il Gioberti da un terrazzino delle Isole britanniche ringraziare
i fiorentini delle festose accoglienze; nel marzo del ‘49 Gustavo
Modena dalla loggia dell’Orcagna incitarli alla ribellione: se
ripenso d’aver veduto di lì a un mese in quella istessa
Piazza del popolo tornata Piazza del Granduca per diventare Piazza
della Signoria dieci anni dopo, accamparsi gli Usseri austriaci,
allora allora entrati nella città per la porta San Gallo; se
finalmente ricordo di aver conosciuto il Muzzi, il Giusti, il
Guadagnoli, il Rossini mi par d’essere più vecchio d’un
patriarca.
*
Luigi Muzzi! chi, se non qualche studioso, ha in niente oggi questo
nome? Abitava al primo piano di una casa in via Santa Reparata; un
amico di mio padre che abitava al piano superiore volle condurmi da
lui, avvertendomi che si trattava nientemeno che di fare la
conoscenza del Principe dell’epigrafia. Con quanta trepida reverenza
me gli accostai! e sì che il brav’uomo non aveva nulla di
regale nell’aspetto e nell’abbigliamento; quasi ottantenne, piccolo
asciutto sdentato; avvolto in una veste da camera spelacchiata, le
parole gli uscivano dalle labbra accompagnate da un sibilo,
accompagnato a sua volta da spruzzi che schizzavano ad aspergere il
viso dell’ascoltatore vicino. Ma era il Principe dell’epigrafia e
quel titolo, appunto perchè non bene ne comprendevo il
significato, mi ispirava una timida, quasi paurosa venerazione.
Perchè era di ottimo animo prese a benvolermi; ma conviene
credere che alla bontà dell’animo fosse pari in lui la
vanità, se perdeva il tempo nello esporre a un bamberottolo
di dieci o undici anni i propri meriti e nel vantargli il proprio
imprescrittibile diritto alla gloria.
Raccontava: era stato amico del Muxtoxidi, del Pindemonte, del
Foscolo e di Matilde Bonaparte Demidoff, cui, anzi, intitolò
un suo libro; (e io naturalmente a domandargli chi fossero il
Muxtoxidi, il Pindemonte, il Foscolo e Matilde Bonaparte Demidoff,
de’ quali sino allora nulla sapevo). Aveva composto oltre mille
epigrafi; e mi regalava la Decima centuria che ancora conservo,
scrivendo sul frontespizio il suo nome ed il mio. Vanamente il
signor Pietro Giordani osò contendergli il primato: (e io: —
chi è, scusi, il signor Giordani?) nella concisione,
nell’armonia, nell’eleganza della forma epigrafica nessuno lo
vinceva. Per certi muraglioni costruiti a Venezia il Morcelli (e io:
— chi è, scusi, il Morcelli?) dettò questa iscrizione:
ausu romano aere veneto, la quale dissero per la concettosa
brevità insuperabile.
— Ma il Muzzi, sai? — soggiungeva fissandomi con gli occhi fattisi a
un tratto raggiosi — ma il Muzzi la superò,
— Romanamente i Veneti: il Morcelli quattro parole, il Muzzi tre.
E seguitava dolendosi degli invidiosi che tentavano menomare la sua
fama: ma v’era chi tenevalo in pregio altamente. Il Guerrazzi delle
sue epigrafi ne sapeva a mente diecine; e quando, egli, il Muzzi,
nel ‘49 nominato dal Governo provvisorio ministro di Toscana a
Costantinopoli, fu a ringraziarlo, il Guerrazzi gli andò
incontro ripetendogliene una: Cristina Sveca — più gloriosa —
per la rinuncia al trono — che tanti con l’usurparlo.
Quei colloqui, o piuttosto quei monologhi, sarebbero durati ore ed
ore se non veniva ad interromperli una massiccia giovinotta guercia
da un occhio, che irrompeva nella stanza e in tono di serva padrona
ammoniva:
— La faccia finita con coteste chiacchiere, che a momenti è
l’ora del desinare. —
Fra l’altro il Muzzi meditava una riforma dell’ortografia e me ne
dimostrava con lunghe argomentazioni l’opportunità. Di tutti
quei ragionamenti questo solo ricordo: che cuore dovevasi scrivere
non col c ma col q. Non è meraviglia che me ne ricordi; per
farmi bello di quella erudizione, ficcai subito nel primo compito il
cuore e lo scrissi con la nuova grafia. Non l’avessi mai fatto! Il
prete Chiti, maestro di grammatica, mi fece una ripassata numero uno
e mi svergognò innanzi ai condiscepoli, minacciando di
rimettermi a scrivere sotto dettatura. Mi provai a citare
l’autorità del Muzzi, ma nulla valse.
— Che Muzzi e non Muzzi! Cuore s’è sempre scritto col c e lei
deve scriverlo col c; e perchè s’avvezzi a non scriverlo col
q, farà grazia di copiare le prime quaranta ottave della
Gerusalemme . Un terribile misoneista quel Chiti!
Copiai; tutto il male non viene per nuocere: da quel giorno il buon
principe dell’epigrafia potè, nella mia memoria, imbrancarsi
fra altri principi: i Boemondi, i Guelfi, i Balduini e quanti ebbero
nel pensiero
ultimo segno
Espugnar di Sion le nobil mura.
*
Reverenza maggiore avrebbe dovuto ispirarmi il Giusti quando, e
un’unica volta, lo vidi, ma non fu così. Aveva pubblicato
allora allora il Congresso dei Birri e in casa ne sentivo spesso
recitare degli squarci: non capivo nulla s’intende, ma m’ero
convinto che quella per consenso di tutti era una bella cosa, e chi
l’aveva fatta un poeta co’ fiocchi. Smaniavo di vederlo,
quand’eccoti una bella sera capita tutto frettoloso nello studio di
mio padre; m’aspettavo dicesse Dio sa che; domandò (mi suona
ancora la voce negli orecchi):
— A pranzo in casa Cerini ci si va con la cravatta bianca o con la
cravatta nera? — Bianca — gli risposero: e allora, appoggiato al
caminetto, cominciò a tirarsi i baffi verso il labbro
inferiore, borbottò due o tre volte quasi piagnucolando:
«O Santo Iddio, o Dio Santo, la cravatta bianca!» poi
ammutolì, e di lì a cinque minuti se n’andò
frettoloso com’era venuto.
Non me ne seppi dar pace; che un celebre poeta discorresse
così poco e dicesse quel che avrei potuto dire anch’ io se
fossi pervenuto all’età della cravatta bianca, non mi ci
entrava: e fu impressione così viva e durevole quella, che in
me, il quale da giovanotto, a ragione o a torto, amai certi poeti,
il Grossi per esempio, come si ama una bella ragazza, le simpatie
per il Giusti non si destarono se non tardi; non potevo prendere in
mano il volume de’ suoi versi, senza riveder lui a quel caminetto
tirarsi muto i mustacchi, nè gli sapevo perdonare quella mia
delusione infantile.
*
Mi sbalordì invece di primo acchito e crebbe in seguito nella
mia più consapevole ammirazione Vincenzo Salvagnoli, che mi
parve ingegno veramente portentoso. Non alto, grasso, con un ciuffo
già grigio a quel tempo, specie di voluta che saliva dalla
tempia sinistra verso la destra a deporvi il proprio scartoccio,
occhi grandi fulgidi schizzanti dall’orbita, fu uno dei principi del
fòro toscano; parlatore possente, primeggiò nel
Parlamento toscano, e in qualsiasi parlamento sarebbe stato o il
più valente difensore o il più temuto avversario di un
ministero.
Lo udii la prima volta una sera in casa mia sostenere per burla e
con grave scandalo di un prete di Valdinievole che lo pigliava sul
serio, questa tesi: che il rubare i libri era non pur lecito, ma
commendevole: e fu tale il rapido abbondante fluire delle parole,
tale il lusso delle citazioni latine, italiane, francesi che mi
intontì: e non me solamente.
Aveva la innocua manìa di spacciarsi forte bevitore e
mangiatore pantagruelico, si vantava di stravizi vitelliani; alla
prova rosicchiava un’ala di pollo e bagnava a mala pena le labbra in
un bicchiere di vino.
labbra
Verrò, verrò domani, verrò alle quattro in
punto
E scenderò sul campo, appena sarò giunto.
Non un invito a pranzo, una sfida ricevo:
Ebben, dirò con Cesare: vengo, m’assido e bevo.
Chi è, chi è che ardisca di farsi emulo mio?
Venga domani a tavola, egli è già vinto. Addio.
Con questi versi, rispondeva a mio padre; paiono uno scherzo ma
furono scritti sul serio, che a furia di raccontarle s’era fatto
persuaso di quelle prodezze. A pranzo da noi veniva di quando in
quando; se anche gli offrissero venti qualità di vino, non
diceva mai no; schierava in bell’ordine i bicchierini innanzi a
sè e si alzava da tavola senza averli assaggiati, ma
figurandosi e glorificandosi di averli sgocciolati tutti quanti.
Tanto di guadagnato per i commensali; che non mangiando nè
bevendo, parlava; e come eloquente nel fòro, era nelle
conversazioni piacevole oltre ogni dire. Recitava epigrammi suoi
(alcuni sono tuttavia noti comunemente), raccontava aneddoti
gustosissimi, uno ne ricordo ancora. Aveva molti anni prima scritta
un’epigrafe, da apporsi sulla tomba di una Capponi, se non erro, e
vi si lamentava la morte immatura di quella gentile; poichè
per le epigrafi funerarie dovevasi ottenere l’approvazione del
censore, questi la negò; gentile aveva tra i suoi significati
anche quello di pagana e non poteva permettersi che alcuno pensasse
deposte in un cimitero cattolico le ceneri di una non battezzata.
Bisognò appellarsi al Rosini professore di letteratura nell’
Università di Pisa, e ricorrere con istanze a Don Neri
Corsini ministro di Stato. Di quella bestiale inibizione argutamente
narrata risero tutti e più avrebbero riso, s’io non ero
presente. Raccontava, tra l’altro, il Salvagnoli, di un colloquio
col censore, nel quale avevagli dimostrato in quanti modi possa
essere gentile una donna; ma quel dialogo, soggiungeva ammiccando a
mio padre, lo lasceremo nella penna. Allora non capii, ho capito
più tardi che il dialogo non era roba da ragazzi e volevansi
rispettate le mie ancora candide orecchie.
Altre volte, il Salvagnoli mi parve - e mi par tuttavia -
addirittura sbalorditoio. Una sera si trattava di confutare il
Gioberti; il solito prete, prete colto badiamo, non uno scagnozzo
qualsiasi, esaltava le dottrine del Primato; s’era, se non sbaglio,
nel ‘51, i tedeschi (come allora si diceva) montavano la guardia a
palazzo Pitti e il Salvagnoli aveva da due anni espresso nell’albo
di Eleonora de’ Pazzi il vaticinio famoso: «Oggi 10 maggio
1849 le milizie austriache entrano a Firenze: fra dieci anni il
figlio di Carlo Alberto sarà re d’Italia»; per
difendere il Primato era un po’ tardi, ma il prete ci si ostinava a
tutt’uomo. L’altro lo stette a sentire, poi affermò d’aver
appunto in que’ giorni condotto a termine un’opera in confutazione
delle teorie giobertiane; e lì in quattro e quattr’otto
espose la divisione del volume in libri e capitoli, di ogni capitolo
dicendo con chiara parola, con limpido ordine, con minuta diligenza
il contenuto. Quanti ascoltarono, crederono che davvero avesse
compiuto quel lavoro e fosse in procinto di darlo alla stampa; due
giorni dopo, quando un amico gliene riparlò, s’era già
scordato non solamente del libro cui non aveva pensato mai, ma
persino della controversia col prete di Valdinievole.
Subito che lo seppi, sebbene ragazzo, credei di trasecolare; tanto
mi aveva lasciato freddo il Giusti e tanto mi infiammai di
entusiasmo per il Salvagnoli; mi pareva che dopo Dante venisse
subito lui e Dante lo mettevo prima soltanto per un certo riguardo
all’antichità; che il Salvagnoli mi divertiva e l’Alighieri,
del quale m’avevano letto a scuola qualche terzina (perdono o gran
padre!), mi seccava a quel tempo come non si può dire.
Più innanzi con gli anni lo vidi, il Salvagnoli, arrischiarsi
in prova anche più ardua. Lo aveva per vizio: gli parlavano
di diritto, stava scrivendo un trattato così e così;
di storia, giusto si occupava di quel tale argomento, da svolgersi
in quel dato modo: e giù un fiume di parole e di dottrina.
Parlavano al solito in casa nostra di commedie, e lui subito; ne ho
scritta una anch’io, L’Invidia. Ricordo che c’erano delle
inverosimiglianze tali da dar nell’occhio anche a me: ma intanto
egli espose tutta quanta la tela, delineò i caratteri, li
condusse logicamente al lor fine, e sciolse l’ intreccio: non ne
sapeva una parola cinque minuti avanti, cinque minuti dopo non si
ricordava neanche, cred’io, il titolo inventato lì per
lì come il resto.
*
Altro oggetto della mia fanciullesca ammirazione, il Guadagnoli;
sebbene per colpa sua mi toccasse lasciare in tronco un divertimento
lungamente desiderato.
Nel ‘52 o ‘53 si rappresentò per la prima volta a Firenze il
Profeta del Meyerbeer. Com’è noto, sul finire del terzo atto,
quando Giovanni di Leida e i suoi anabattisti intonando l’inno
trionfale si preparano alla battaglia, le nebbie si diradano e si
leva il sole.
Lo ministro maggior della natura,
sorgente dietro al fondale a illuminare sul palcoscenico della
Pergola i dipinti baluardi di Münster, era per la Toscana
granducale così inusitato e mirabile spettacolo che non solo
i Fiorentini, ma gente venuta da ogni parte della provincia gremiva
il teatro. Quel sole creato dal professore Corridi direttore
dell’Istituto tecnico (le prime sere la creazione andò male e
i fredduristi dicevano: ridi, ridi ma di cor ridi) quel sole mandava
in visibilio gli spettatori.
Tali portenti fu promesso che sarebbe anche a me conceduto una sera
o l’altra ammirarli; e poichè forse mio padre non poteva
accompagnarmi alla Pergola e mia madre non andava al teatro che
raramente e di mala voglia, fu pregato un amico di accompagnarmici
lui. Di questo amico avrò più volte occasione a
parlare; e però sarà bene ch’io lo presenti fin d’ora.
Cesare Tellini di Pian Castagnaio era un mazziniano sfegatato: nel
1849 oratore di circoli, succede a Celestino Bianchi nel Nazionale
che sotto la sua direzione fu il portavoce dei democratici
più accesi. Ristaurata la dinastia granducale ed entrati gli
Austriaci in Toscana stimò prudente riparare a Marsiglia; ma
sia che gli atti suoi non meritassero carcere o esilio, sia che
profittasse dell’amnistia, fatto sta che potè tornare a
Firenze e dirigervi col Bianchi un giornale letterario il Genio il
quale ebbe redattori molti ed illustri, lettori pochi, la più
parte gratuiti e poco durò. Costretto a campare la onesta
vita altrimenti, s’arrabattò nel fare un po’ di tutto: tra
l’altro commedie e drammi poco meditati, poco pagati, presto
dimenticati. Da ultimo, fondò un giornale La Lente di cui ci
sarà tempo a discorrere. Era, come ho detto, amico di
famiglia e poichè ebbe messo su una tipografia, mio padre per
aiutarlo gli regalò il manoscritto di alcune fra le proprie
commedie ed egli le pubblicò raccolte in un volume che ebbe,
segnatamente in Toscana, spaccio fortunatissimo.
Fu come ho detto, pregato di menarmi lui a vedere il sole alla
Pergola. Stavamo in platea aspettando che l’opera incominciasse,
quando, data intorno un’occhiata, — guarda lassù — mi disse —
al quart’ordine. Lo vedi quel vecchietto? È il Guadagnoli. —
I suoi versi non li avevo letti, ma sentivo di continuo in
città i venditori ambulanti offrire a gran voce il Lunario
del Baccelli con le sestine del Guadagnoli; e in quel nome vociato
per le strade e per le piazze, consisteva, secondo il mio piccolo
cervello la gloria, anzi quanto della gloria è più
desiderabile. Saputo che il Tellini lo conosceva, non lo lasciai
più benavere: lo facesse conoscere anche a me; e tanto
implorai che nell’intervallo fra il secondo e il terzo atto mi ci
condusse.
Il poeta m’accarezzò, mi domandò dove e che cosa
studiassi, io risposi balbettando qualche parola, poi i due presero
a parlare fra di loro. Sulle prime la cosa andò liscia; ma s’
ingarbugliò maledettamente quando il Guadagnoli non so a che
proposito uscì a felicitarsi delle condizioni della Toscana
tornata in quiete dopo le convulsioni del ‘48. Il vecchio liberale
fra meravigliato e stizzito si accalorava nel ribattere, il poeta si
ostinava con pacatezza nel confermare il già detto: da ultimo
l’uno sussurrò irosamente:
— Ma ci sono i tedeschi, perdio!
E l’altro:
— Sì ma i galantuomini possono finalmente godere di un po’ di
pace. —
Il Tellini non replicò: presomi per un braccio mi
scaraventò fuori del palco, sbatacchiò la porta e
invece di tornare in platea, muto e fremente mi trascinò seco
nella strada più che di passo e mi ricondusse a casa.
Così mentre il sole agognato sorgeva sul palco scenico della
Pergola, io per le buie vie di Firenze trattenevo a stento le
lacrime. Chi può dire oggi che cosa allora pensassi?
probabilmente che, avesse pur torto il Guadagnoli, qualche cosa
bisognava pur perdonare a un poeta il cui nome suonava sulle labbra
di tutti i venditori ambulanti.
*
Ma dove lascio il Rossini che fu mio maestro di musica? Non ridete
che c’è poco da ridere: fu mio maestro di musica.
Veniva in casa spesso, tra ‘l 1846 e il 1847. S’era messo in capo di
scrivere insieme con mio padre (ho documenti che lo attestano) una
commedia: Il banchiere e il giornalista, e di porre in scena due
personaggi in Toscana notissimi. Se ne andò poi e la commedia
rimase alle prime scene.
Lo ritrovai quattro o cinque anni dopo alle mattinate di Monsignor
Ferdinando Minucci arcivescovo di Firenze e lontano parente della
mia famiglia. Monsignore era della musica appassionatissimo e
nell’arcivescovado capitavano quanti rinomati tenori o baritoni
passavano via via da Firenze. La domenica da mezzogiorno al tocco si
cantava: ci sentii l’ Ivanoff, ci sentii un terzetto (se non sbaglio
dell’Italiana in Algeri) cantato dal Donzelli che aveva più
di sessanta anni e una voce freschissima, da Monsignore e dal
Rossini stesso, il quale per giunta accompagnava al pianoforte.
Mi ricordo che una di quelle domeniche, proprio sul più bello
dell’accademia, entrò ratto e affannato un canonico Landi e
ad alta voce, interrompendo non so quale duetto buffo,
annunziò la morte di Silvio Pellico. Monsignore si
alzò e prese a enumerare con accento di grave rammarico i
meriti dell’estinto. Il panegirico andava per le lunghe e il Rossini
che non s’era mosso dal pianoforte, forse seccato, cominciò a
improvvisare lì per lì una marcia funebre. Non so se
fosse una bella cosa; so che tutti si affollarono intorno al
maestro, che l’arcivescovo segnò le battute con un
dondolìo della testa e del povero Pellico nessuno ne
parlò più.
Poco innanzi quel tempo mi menarono a far visita alla signora
Rossini, Olimpia Pellissier, seconda moglie del Maestro, di
meravigliosa bellezza trent’ anni prima, quando il Vernet la
ritrasse nella Giuditta del Museo di Versailles.
C’erano il Maestro, tre o quattro amici suoi e un cane barbone; un
cane intignato, schifoso, pestilenziale, delizia e cura della
padrona di casa; gli avrebbe sacrificato la fama del marito senza
neanche pensarci. Quella bestiaccia puzzolente e strinata si
strascicava dai ginocchi di questo ai ginocchi di quello; e questi e
quegli con sguardi saettanti l’odio e invocanti l’accalappiatore
municipale, ma con garbo carezzevole affinchè la signora non
si adirasse, se lo levavano d’attorno passandoselo l’un l’altro, per
modo che la pena dell’averla addosso fosse, così com’era
profonda, anche breve e comune.
Alla fine la fetida carcassa arrivò fino a me; ero accanto
alla signora, non potevo naturalmente dirle: se lo pigli lei. Non
ebbi il coraggio di rimetterlo in terra affinchè rifacesse il
giro; mi si accoccolò in grembo sbadigliando per la
beatitudine dell’insperato riposo e ci s’addormentò! Chi
può descrivere la tenerezza delle occhiate amorose che mi
lanciò la signora Rossini? S’io non avevo dodici anni e lei
sessanta a un bel circa, chi sa come sarebbe andata a finire. Vero
è che non me ne toccava più di mezza per volta;
cominciavano da me e finivano sul can barbone. E dopo le occhiate,
gli elogi della mia compostezza (sfido a muoversi), del mio ingegno,
della mia statura; non fu cosa che in me non lodasse.
— Tu en dois faire un musicien, — disse volta al Maestro che non
rispose; ma lei tre o quattro volte ripetè lo stesso invito
con la frase medesima, sempre interrompendo i discorsi ch’ei faceva
con alcuno degli ospiti. Per chetarla (mi accorsi benissimo che di
sentirmi cantare il Rossini non aveva nessun desiderio) si
alzò e mi chiamò al pianoforte. Una voce intima mi
diceva che non mi sarei fatto onore, nondimeno fui lietissimo di
quella chiamata che mi liberava dal miasma, il quale se fosse durato
mi avrebbe ucciso nel fiore dell’età.
Consegnai alla signora il dolce pegno; lei se lo riprese, se lo
accarezzò, gli chiese scusa di averlo svegliato, e forse si
rimproverò in cuor suo di non aver preveduto che per creare
l’artista bisognava disturbare il barbone.
Rossini canticchiò un motivo, una melopea, della quale non mi
ricordo, e se anche me ne ricordassi sarebbe tutt’una. Mi ricordo
bensì le parole:
Fra Martino campanaro
Suona bene le campane
Din, don, don.
Rossini seduto indicava le note sul pianoforte, io dietro, dietro.
Mi ci provai più volte; sentivo (per esser chiari: avevo il
sentimento) che non s’andava bene e mi vergognavo e maledicevo il
cane, cagione dell’ infausta prova; guai se lo avessi avuto fra le
mani o fra le ginocchia in quel punto. Ogni tanto il maestro
smetteva di toccare i tasti e mi guardava di sbieco stringendo le
labbra: alla fine s’impazientì: do, do, do, e picchiava sul
tasto e pareva volesse dire: Ci vuol tanto? Proviamo più
basso; e io una nota diversa, anzi una nota, credo, non inventata da
Guido Monaco. Proviamo più alto: mi usci di gola tale un
grido squarciato, come di pappagallo in furia, che il Rossini si
turò con le mani gli orecchi, e alzandosi:
— Tusatt (ragazzo, in bolognese), mi disse: spero che tu divenga un
brav’uomo! ma una nota giusta non l’azzeccherai se tu campassi cento
anni.
Grande contrassegno del genio la divinazione!
IV.
Nel paese di Bengodi.
Pietro Giordani lasciata nel luglio del 1824 Piacenza donde per
suggerimento «dei più vili avanzi di corda» lo
cacciava l’amante della svergognata vedova di Napoleone, riparava a
Firenze; di là scriveva agli amici, datando le lettere: dal
paradiso terrestre, e augurava agli amici stessi l’esilio
affinchè potessero godere di quel paradiso. Facevano a lui
delizioso il soggiorno nella capitale della Toscana, oltre che
«gli eccellenti e divini lavori delle arti», la
benevolenza del Ministro Fossombroni di cui era giocoforza
«innamorarsi», la compagnia di Gino Capponi «vero
mostro, unico nella razza dei signori», la dimestichezza con
«uomini bravi e donne amabili; il principe buono, il governo
buono, la moltitudine di uomini buoni».
Gli amici preferirono probabilmente rimanersene a casa loro
studiandosi di non cadere negli artigli delle polizie regie papali o
ducali, ma non per ciò mancarono forestieri a Firenze; che
là non soltanto esuli in cerca di tollerato rifugio, ma
convenivano, e per ragioni che il Giordani non disse, cittadini
d’ogni condizione e d’ogni parte d’Italia, anzi d’Europa.
Egli costretto dagli organi infelicissimi a ogni maniera piuttosto
di astinenze che di frugalità; contento per l’abitare
«ad una cameretta con suppellettile povera», egli, il
Giordani, non avvertì o non curò quanto v’era di
singolare in Firenze e in tutta la Toscana, singolare anche
più che la mitezza del governo e la bontà della
popolazione: e, cioè, la facilità del vivere, tale da
crederla oggi incredibile; che vi parve fatto realtà quel
paese di Bengodi, dove la fantasia popolare immaginò che le
vigne si legassero con le salsicce.
Giuseppe La Farina manda al padre nel settembre del 1837:
«Eccomi finalmente nella mia nuova abitazione. E questa in via
Borgognissanti, una delle più belle e centrali strade di
Firenze. Ci ho una camera da letto e un salotto da ricevere
mobiliati con tappeti, specchi, stufa di bronzo, ecc. Pago cinquanta
lire al mese, oltre sette lire a una donna di servizio che me le
pulisce, mi serve a tavola stando in casa dalle otto della mattina
fino a dopo le tre, ora del mio pranzo. Pago inoltre alla padrona di
casa altri tre paoli e mezzo al giorno ed essa mi fornisce un pranzo
composto di una zuppa in ottimo brodo, un lesso, un eccellente
arrosto o fritto, un piatto di verdura, uno di parmigiano ed un
altro di frutta».
La lira toscana equivaleva a ottantaquattro centesimi di moneta
decimale, il paolo a cinquantasei. Il computo è presto fatto,
e presto il ragguaglio. Le stanze lire italiane 42; la serva 5,88,
il pranzo 1,96 al giorno e per trenta giorni 58,80; così,
alloggiato in stanze signorili in una delle più belle strade
della città, puntualmente servito, largamente nutrito, il La
Farina nel 1837 spendeva al mese in Firenze, per tutta questa grazia
di Dio, centosei delle nostre lire.
Così a Firenze; in provincia, e s’intende, anche meno.
Il Leopardi al Vieusseux nel febbraio del ‘38: «Quanto alla
pensione vi dirò ch’io qui in Pisa ho: 1° una camera con
tenue biancheria da letto e da tavola, 2° pranzo in camera
all’ora che mi piace, consistente in zuppa, tre piatti, pane e acqua
(non frutta nè vino), 3° colazione consistente in
caffè e cioccolata con tre buoni biscotti, 4°
imbiancatura e stiratura, 5° fuoco nel caldano tutto il giorno e
fuoco la sera nel letto: e tutto ciò mi costa undici monete
al mese».
Ossia (la moneta valeva dieci paoli) lire italiane 61,60!
*
Trenta e più anni dopo la dimora del Giordani, il paradiso
terrestre non era più quello; vi si scontavano i peccati del
‘48 e del ‘49 e se non vi roteavano come nel biblico le
fiammeggianti spade dei cherubini a custodire l’albero della vita,
contro ai rei di quei peccati custodivano le porte della
città il Landucci ministro e il Petri prefetto, dei quali il
profugo piacentino non si sarebbe innamorato, come già del
Fossombroni, di certo; ma le condizioni economiche della Toscana si
serbavano quali al tempo suo e per la facilità del vivere
Firenze era un Eden ancora. Senza andare a mendicare testimonianze
negli epistolari, posso asseverarlo e provarlo io medesimo.
Nel 1857 mi presentai all’esame di preparazione al baccellierato:
corrispondeva su per giù alla nostra licenza liceale.... Un
momento: al ricordo conviene preceda questa volta la confessione.
Uscito da una scuola privata dove tranne il latino bene, e
l’italiano mediocremente, poco s’insegnava e quel poco assai male;
in seguito scolare infrequente e disattento alle lezioni di fisica e
filosofia nell’istituto dei Padri Scolopi, ero a quindici anni
quanto può dirsi ignorantissimo. Già, prima che
l’esperienza scuola obbligatoria ma pur troppo non gratuita mi
apprendesse quanta verità si contenga nei versi del
Tallemant des Réaux:
O le grand don de Dieu que d’aimer la lecture!
Avecque ce secours jamais le tenips ne dure.
Io la lettura, la odiavo: essa che fu il continuo e il solo
indisturbato godimento della mia vita. Salvo i libri di scuola, le
commedie del Goldoni, le Mille e una notte, la Storia di Napoleone
del Norvins, la Capanna dello Zio Tom e qualche novella francese
(che il francese insegnatomi da mia madre imparai prestissimo e
già da bambino lo ciangottavo); salvo questi, dico, non
rammento d’aver aperto prima dei quindici anni altri libri. Ne avevo
bensì pubblicato uno con malaugurata precocità in
quello istesso anno ‘57, senza, ben inteso, darmi la cura di
leggerlo intero: perchè (spieghi la contraddizione chi
può) pur non amando i libri mi pungeva l’assillo di vedere
impresso sopra un libro il mio nome. E pubblicai, come ho detto, una
strenna, Il Giglio fiorentino, raccolta di scritti in prosa e in
verso, messa insieme seccando da vicino i letterati fiorentini amici
di mio padre, e da lontano Andrea Maffei, Giulio Carcano ed altri
valentuomini il cui nome conoscevo, più che per altro, per
sentito dire. Di mio poche righe soltanto; poche, ma sufficienti ad
accertare pareggiate in me la presunzione e l’asinità.
Nutrito di così peregrina e soda erudizione, mi presentai
dunque all’esame. Duravano tuttavia i vecchi più che secolari
metodi e programmi. Si studiavano allora meno cose nelle scuole
medie e se ne usciva più presto; nè altrimenti si
spiega (per non citare che due casi soltanto) come Antonio Aldini e
Giovan Battista Giorgini potessero l’uno a Bologna, l’altro a Pisa
salire a diciotto anni sopra una cattedra universitaria. Materia
dunque di esame: l’italiano il latino la filosofia le matematiche;
chi si proponesse di andare all’università sosterrebbe l’anno
di poi l’esame di baccelliere: in quel primo niente greco, niente
fisica, niente geografia, niente storia.
La storia, del rimanente, sia che i superiori avessero qualche
argomento per vederla di mal occhio, sia per altre ragioni,
s’insegnava molto alla lesta anche nel ginnasio e nel liceo
governativo e chi voleva impararla bisognava la studiasse da
sè. Nel privato istituto del Rellini onde uscivo, un de’
più accreditati, notate bene, lo studio della storia
consisteva nel mandare a memoria brevi capitoletti narranti,
senz’alcun nesso fra loro, i fatti principali dei greci, dei romani,
della repubblica fiorentina e del principato mediceo (la cosiddetta
storia patria), capitoletti oggi imparati a pappagallo e dimenticati
domani.
E qui s’interpone un altro ricordo: se mi dilungo, pazienza. Ove
queste pagine cadano sotto gli occhi di qualche alunno di ginnasio o
di liceo non sarà male ei conosca come furono educati molti
uomini della mia generazione; imagini quanta fatica abbiam fatto per
imparare qualche cosa, quanta per dimenticare ciò che ci
avevano male insegnato e consideri quanto sieno ingiuste le lagnanze
delle scolaresche presenti.
Avevo una memoria pronta e capace: e sempre nelle provoche vincevo i
compagni, mettendomi a mente gran numero di quei capitoletti e
recitandoli precipitosamente senza sgarrare d’una virgola. Ottenni
così negli esperimenti di una classe ginnasiale il primo
premio: una medaglia d’argento appuntatami sul petto dalle mani
stesse del professore; così dopo le battaglie di Austerlitz e
di Wagram Napoleone agganciava egli medesimo la Legione d’onore sul
petto dei suoi soldati.
Mia madre, lieta per quella medaglia forse più ch’io non
fossi, volle premiarmi anche lei: chiesi d’andare in carrozza alle
Cascine. Non l’avessi mai fatto! Era di domenica, i fiacres rari a
quel tempo: convenne andare in via dell’Oriolo da certo Silli il
più noto fra i noleggiatori di carrozze. In via dell’Oriolo
aveva casa e studio Vincenzo Salvagnoli il più eloquente
degli avvocati toscani del quale ho già detto come fossero
mirabili la dottrina e l’ingegno; uscì di casa mentre stavano
attaccando i cavalli, s’avvicinò a mia madre per salutarla e
scortomi sul petto il disco luccicante e carezzandomi la guancia
domandò come l’avessi ottenuto.
— Nella storia greca, risposi con certo tono orgogliosetto; e fu
quello che mi perde.
— Ah! benone! soggiunse sorridendo. E.... dimmi un poco, chi visse
prima Pericle o Alcibiade?
I nomi di que’ due signori me li ricordavo; e con un po’ di agio
avrei potuto ripescare ne’ cantucci della memoria e ripetere i
capitoletti che li riguardavano, ma circa al vivere prima o dopo....
— Peri..., — arrischiai.
Il Salvagnoli non mi lasciò finir la parola e scosse il capo,
come avvertendomi dell’errore.
Se non questo, quell’altro: non erano che due, c’era poco da
sbagliare: ripresi trionfante:
— Ah! no.... è vero.... Alcibi.... Nuova interruzione, nuovo
cenno negativo del capo.
Detti in un pianto dirotto: ma le lacrime non valsero a tergere
l’ignoranza mia e, siamo giusti, non mia solamente. M’avevano
dato il premio nella storia greca e non sapevo che Pericle e
Alcibiade furono contemporanei.
Torniamo all’esame. Il latino lo sapevo, nell’italiano la sfangavo
ed ero già autore di una commedia Il Negligente recitata
l’anno innanzi da me e dai miei condiscepoli, nell’Istituto Rellini.
La filosofia era una esercitazione mnemonica: ventinove tesi
rosminiane imparate a mente e alla lettera. Superate alla meglio o
alla peggio le due prime prove, già sognavo percorsa
agilmente tutta la via, quando Euclide e il suo lontano alunno
Legendre me la sbarrarono.
Il professore Mangani, molto stimato matematico, m’interrogò
con cinquanta domande; scartabellò paziente il Legendre per
propormi altrettanti problemi, l’uno via via più facile
dell’altro a risolvere: tentò insomma di aiutarmi con ogni
maniera di pietosi accorgimenti; ma io o non rispondevo, o pare
rispondessi con spropositi de’ più marchiani! Ah! lo odo, lo
veggo ancora il buon professore, scoccato il quarto d’ora di rito,
levare al cielo disperato le braccia e pronunziare la mia sentenza
in questa forma mortificante, «Figliolo mio, col poco si va,
ma col nulla è impossibile».
Bisognò rassegnarsi alla riparazione, a un terzo esame
più tardi e sempre col medesimo successo infelicissimo. Fu un
dolore per mio padre quel vedermi ruzzolare di bocciatura in
bocciatura e non riuscire a buscarmi licenza d’entrare
all’università; fu un dolore; pure d’averlo cagionato non
provo rimordimento. Non sempre si vince con la volontà la
natura, nè sempre si supplisce con lo sforzo diuturno a
originali manchevolezze. Nel 1813 il Cuvier e lo Sproni, rettore
dell’Università di Pisa, incaricati dal governo napoleonico
di certificare la condizione degli studi nel dipartimento dell’Arno,
non trovarono nel Collegio Cicognini un solo alunno, capace di
dimostrare che i tre angoli di un triangolo sono eguali a due angoli
retti. Di Francesco Viète vissuto nel secolo XVII un biografo
scrive: Jamais homme ne fut plus né aux mathématiques:
di me è da dire l’opposto. Appena comparisce l’a + b e spunta
il p greco le mie facoltà intellettuali si affievoliscono.
Che farci? convincersi con umiltà che la cellula algebrica
madre natura non me l’ha favorita.
*
Prepararsi alla riparazione significava rimettersi al telonio
durante le vacanze, riprendere lo studio della matematica con un
valente ripetitore. Fu pregato di scozzonarmi il prof. Merlo, che mi
fu caro avere poi collega nell’Accademia della Crusca. A mio padre
forse già minacciato dal morbo che lo tormentò
atrocemente e lo spense cinque anni dopo, i medici ordinarono
campagna e riposo. Sebbene a malincuore (mia madre era morta
nell’epidemia colerica di due anni innanzi), mi lasciò a
Firenze con un vecchio e fedel servitore e mi fornì del
danaro bastevole al mantenimento e a leciti passatempi. E io potei
sistemare bilancio e vita così: prima colazione al
caffè Pruneti sull’angolo di via de’ Benci:
caffè-latte pane e burro: quattro crazie (28 cent.), seconda
colazione dal Lanini in via de’ Calzaioli: pane, carne, formaggio:
cinque crazie (35 cent.) desinare Alla Lira da Orsanmichele: pane,
vino, due piatti e frutta: una lira (84 cent.) secondo annunziava il
titolo stesso della trattoria. Se non che l’oste concedeva
più che non promettesse: chi s’impegnasse a desinare
lì per un mese di seguito e pagasse anticipato non
sborserebbe se non il valsente di ventotto pranzi, sì che il
prezzo di ciascuno dei trenta ne era di qualche frazione ridotto.
Tutto sommato del peculio largitomi mi avanzavano tre francesconi al
mese (16,80). In un paese dove l’ottimo sigaro toscano si vendeva
due quattrini (2 cent. ½) e perchè i Fiorentini
sopportassero più tardi di pagarlo tre fu necessario mandar
fuori dragoni e fantaccini, sciabole sguainate e baionette in canna;
dove al teatro de’ Solleciti in Borgognissanti, per mezzo paolo (28
cent.) non più Lorenzo Cannelli nella maschera di Stenterello
che Luigi del Buono vi creò quasi un secolo innanzi, ma opera
e ballo e nel ballo, La figlia del bandito, Sofia Fuoco
celebratissima; dove per un paolo (56 cent.) al Cocomero, ora la
Compagnia Reale Sarda con Ernesto Rossi e Adelaide Ristori, ora la
Compagnia Dondini con Tommaso Salvini e Clementina Cazzola, tre
francesconi erano, per un ragazzo di quindici anni, la California.
Non fui mai più in così laute larghezze. Passeggiavo
per la città seguito da un codazzo di compagni tutti bocciati
come me e tutti a me stretti col vincolo della gratitudine.... e del
debito. Intesi allora ciò che fosse ricchezza e come savio lo
erogarla in opere mecenatizie e con utile della propria coltura.
Perchè fu lì, in quella trattoria che, non dirò
nacque in me l’amore delle lettere, ma si temperò alquanto la
mia repugnanza alla lettura. Vi lessi con piacere, talvolta con
simulato piacere, i versi de’ poeti commensali, ai quali m’era
permesso dalla munificenza paterna pagare con gesto rotschildiano di
amichevole protezione il caffè.
V.
In Parnaso.
Nella Firenze medicea gli «intellettuali», (chiamiamoli
con parola di recentissimo conio) solevano passare le sere d’estate
sulle scalee del Duomo, su quei marmi che offrirono a Anton
Francesco Doni l’argomento di un piacevolissimo libro;
«conciossiachè sempre vi tira un vento freschissimo e
una suavissima aura e per sè i candidi marmi tengono il
fresco ordinariamente». Gabriello Chiabrera scrivendone in un
sermone a Giovan Francesco Geri non esita ad asseverare
Che non può peregrin ritrovar piazza
Ove si trovi più gentil sollazzo;
là infatti «raccolto il fiore de’ cittadini»
là continuo il «ragionare d’abattimenti, di storie, di
burle» continuo il narrare «favole, stratagemi, novelle;
tutte cose svegliate, nobili, degne e gentili....». Ciò
nondimeno un risico vi si correva: d’imbattersi, cioè, nella
importunità d’un poeta.
Tratterai con gli amici attentamente
Ed ecco si disfila alla tua volta
Un di questi assassini e non ti dice
Il sudicio buon dì nè buona sera,
Ma ti si pianta innanzi e poi t’investe:
Udite un madrigale, il quale uscito
Emmi non infelice dalla penna.
Il Petrarca è divin non vo’ negarlo....
Ma tuttavolta.... e così detto, intona.
Nella Firenze lorenese, ardendo l’estate del 1857, le suavissime
aure non avevano mutato il lor costume, e crocchi di persone
intelligenti (usiamo la parola vecchia, perchè dalle
intellettuali le intelligenti vogliono essere spesso distinte) si
radunavano ancora in Piazza del Duomo non lontano da quelle scalee;
cioè innanzi al Caffè del Bottegone, che cinquant’anni
prima aveva servito i sorbetti alla Contessa d’Albany e alla signora
di Staël nella carrozza reduce dalle Cascine, ed ora li serviva
a Celestino Bianchi e a Sandro D’Ancona giovanissimo e dotto di
già, che vi capitavano quasi ogni sera. Ma i poeti, oramai
educati alla discrezione, i versi se li leggevano fra loro là
da Orsanmichele in quella trattoria Alla Lira della quale parlai; o
dopo avervi desinato, o venendovi sul tardi a sorbire il ponce o il
caffè sopra una delle tavole schierate, con gratuita
occupazione del suolo pubblico, incontro al lato meridionale della
chiesa di Taddeo Gaddi.
*
Non tutti: chè Firenze era piena di poeti in corsa affannata
verso la gloria, della maggior parte de’ quali siamo in cinque,
oggi, se pur tanti siamo, a ricordarci. Non mai si vide, per esempio
alla Lira Emilio Frullani ultimo rampollo di una famiglia che dette
al principato amministratori integerrimi e legislatori preveggenti;
brav’uomo, liberale provato, sempre pronto agli epicedi e agli
epitalami per morti e nozze illustri, sempre disposto a recitare le
proprie strofette con tormento degli orecchi altrui: che per certo
difetto della bocca le parole pareva le biascicasse prima di
pronunziarle. Ne’ salotti fiorentini ch’ei frequentava si leggevano
ammirando le poesie «d’Emilio» tout court: ma la fama
sua non andava molto oltre i salotti. Castigatezza d’eloquio, vena
facile ma gelida e molle, che gli valse dal Guerrazzi volentieri
mordace, l’appellattivo di poeta della pappa frullata.
Veniva invece sul tardi di quando in quando alla Lira Corrado
Gargiolli lunense non so più se di Massa o di Pontremoli; e
ci veniva in frac e cravatta bianca, perchè frequentatore di
salotti, anche lui teneva un piede, direbbe il Giusti, nel mondo del
buon senso e un altro in quello del buon tono. Già assertore
con zelo fervido di propagandista delle dottrine filosofiche e
politiche del Gioberti, una sera nella quale si festeggiò al
Teatro Nuovo Giovan Battista Niccolini quasi decrepito, entratogli
al finire dello spettacolo, senza conoscerlo e non invitato in
carrozza, divenne da quella sera il discepolo, il compagno, il
custode, l’apologista, l’editore dell’autore dell’Arnaldo;
bracciandosi a dimostrare conciliabilissime la venerazione per
l’antico idolo e l’adorazione del nuovo.
Di vivo ingegno e coltissimo non riuscì mai ad attrarre sui
propri scritti una attenzione benevola. I pochi che avevano allora
nella Toscana voce in capitolo non mai lo gabellarono nè per
filosofo nè per poeta. Quando, fermato il proposito di dare
in luce le opere inedite del suo «grande amico»,
mandò fuori, primo saggio, il Mario, un giornale
intitolò la recensione di quella tragedia: Corrado Gargiolli
pubblicato per cura di Giovan Battista Niccolini. Gli nocquero il
troppo discorrere di sè, la soverchia generosità onde
largiva non richiesto i frutti dell’estro fecondissimo, così
che poteva ripetersi di lui ciò che il Foscolo disse
già del Lamberti
Quando tutti vanno via
Egli canta tuttavia,
gli nocque la sdolcinatura del parlare lambiccato, ascoltandosi.
Presentato alla Marchesa Teresa Bartolommei, la salutò
così:
— Spero che salendo i gradini della sua incomparabile cortesia
giungerò all’altezza della sua benevolenza. — E la marchesa
che era argutissima: — Lo spero anch’io: intanto apro l’ombrello
della mia modestia per ripararmi dalla grandine dei suoi complimenti
— (La sorella del Chapelain aveva già detto al Voiture che la
canzonava per la bizzarra singolarità dell’abbigliamento
«J’oppose aux pointes de votre malice le bouclier de mon
indifference».
Gli nocquero finalmente i garbetti, le mosse, la voce tra
l’infantile e il femineo, una vocerellina di zanzara direbbe il
Cellini: affibbiatogli il soprannome di signora Fanny, uno degli
emuli nelle gare poetiche gli intitolò questo epigramma:
Gentile il portamento
e senza barba al mento,
ti troverò un partito....
Di moglie o di marito?
Povero Gargiolli! Ottimo cuore, non meritò le sciagure che
più tardi lo colsero e lo trassero, oscuro insegnante nel
Liceo d’Arezzo, a togliersi non ancor vecchio la vita.
*
Commensale assiduo ebbi alla Lira Braccio Bracci, venuto da Livorno
a Firenze per farvi le pratiche dell’avvocatura.
La famosa Diceria dei carducciani «Amici pedanti» — Di
Braccio Bracci e degli altri poeti nostri odiernissimi — gli aveva
procacciato una insperabile notorietà. Intorno a lui,
sorbenti il ponce o il caffè, ogni tanto Giuseppe Bandi
anch’egli di Livorno, più spesso Giuseppe Pieri e Carlo
Jouhaud di Firenze, Pietro Raffaelli di Modena.
Il Bracci e il Bandi, da poco laureatisi nel diritto a Siena,
contrastavano per il vestire trasandato alle agghindatezze del
Gargiolli; ed erano i soli dello stuolo canoro che sdegnassero
portare il cappello a cilindro allora d’uso comune. Il Gargiolli,
no; ma gli altri tutti superava il Bandi per vivacità
d’ingegno, saldezza e varietà di coltura; e n’eran prova i
suoi versi, sebbene risentissero di reminiscenze ora foscoliane ora
pratiane. E non di reminiscenze soltanto, sapevano anche di
ribellione; pur nonostante il governo granducale lasciava si
pubblicassero, contentandosi (o ineffabile imbecillità dei
castrapensieri!) di veder surrogata una fila di puntolini alle
parole o alle frasi più chiaramente compromettenti; concedeva
insomma si stampasse una strofa così:
Madre de’ forti Italia
Spezza....
Ti brilla in fronte un’aura
Di santo ardor, di spene:
De’ tuoi poeti i cantici
Delle tue cetre il suono
Come fragor di tuono
Ripeton. ....1
Strofa nella quale, in grazia della rima e del metro, non occorreva
essere divinatori d’oracoli per leggere: Spezza le tue catene,
Ripeton libertà.
Versi, del rimanente, il Bandi ne scrisse pochi; di parte
mazziniana, sapeva che le rivoluzioni non si fanno co’ settenari o
co’ decasillabi e appunto perchè egli si adoperava a
prepararne una per la Toscana altrimenti, lo rinchiusero nel Forte
di Porto Longone, dove la Musa non l’accompagnò, e donde non
uscì che per andare a farsi crivellare il corpo dalle palle
borboniche a Calatafimi.
*
Carlo Jouhaud di famiglia francese fattasi per lunga dimora
italiana, volle italiano anche il nome e lo mutò in quello di
Napoleone Giotti, e fece bene: sarebbe stato curioso l’udire da chi
portasse nome straniero, linguaggio e pronunzia così
fiorentinescamente sbracati. Con quel nome dava liriche ai giornali
e tragedie liricheggianti alle scene, una delle quali — La Lega
Lombarda — levata a cielo nel 1847, perchè bollente di
collere patriottiche. Quantunque irrorasse di troppo frequenti
libazioni il suo vernacoleggiare, gli altri alunni delle vergini
Muse lo proseguivano di molto rispettosa deferenza, perchè fu
a venticinque anni deputato alla Costituente toscana del ‘49 e
segretario di quell’assemblea. Non già che egli vi desse
prova d’eloquenza.... anzi la sola volta che vi aprì bocca
parlò brevissimamente e si buscò dal dittatore
Guerrazzi un rabbuffo fierissimo. Pochi giorni dopo Novara, sul
finire del marzo, domandò se vero, com’era pubblica voce, che
il Guerrazzi si proponesse mandare deputati a Gaeta per richiamarne
il Granduca. «Una simile notizia rispose il dittatore è
tanto triste per chi la dà quanto è stupida per chi la
crede». Salutate quelle parole dagli applausi dell’assemblea,
il povero Giotti si rannicchiò e tacque; pur chi informava
era men triste e chi credeva meno stupido di quanto il Guerrazzi
dicesse: a mandar deputati non pensò mai, ma che trafficasse
a que’ giorni per la restaurazione del Principe si può dar
per sicuro. Se non era lupo, era can bigio.
Il Pieri e il Raffaelli, finalmente, compagni indivisibili: il
Raffaelli alto, membruto, acceso nella faccia onde scendeva
arruffata una lunga barba corvina da archimandrita ortodosso,
verseggiatore mediocre ma rapido, e faceto improvvisatore di
epigrammi e di satire. Sebbene si affermasse repubblicano non
disdegnava di imitare nelle usanze Re Carlo VI di Francia e di
portare come lui addosso un mese e più la camicia medesima.
Il Pieri come il Giotti scrittore oltre che di liriche, di tragedie;
perchè figlio di popolano fattosi agiato con oneste fatiche,
applauditissimo dai popolani del suo quartiere che lo adoravano; e
stivati nelle platee quando alcun lavoro di lui si rappresentasse,
lo chiamavano ogni momento al proscenio per fargli festa con
applausi fragorosi e grida di «Viva il signor Giuseppe».
Di quanti ho detto, il Frullani sulla cinquantina, gli altri dai
venticinque ai trent’anni, tranne il Raffaelli che se ne dava
quaranta e nessuno gli prestava fede; pareva impossibile che un uomo
avesse impiegato quarant’anni soltanto per diventar sudicio a quel
modo. Carlo Lorenzini - quel Collodi che deliziò poi
più generazioni di ragazzi con le Avventure di Pinocchio
ribattezzato il Raffaelli con un emistichio oraziano, lo presentava
agli amici come un dotto moldo-valacco: il signor Balnea Vitat.
Di tutti costoro che pur vennero in qualche fama nella Toscana di
Leopoldo Secondo e del Ministro Baldasseroni siamo oggi, come dissi,
forse in cinque a ricordarci: di uno solo il nome entrato di
scancìo nella storia letteraria vi rimane: quello di Braccio
Bracci, perchè congiunto al nome di un altro poeta che
gl’italiani non dimenticheranno.
*
Cappello di feltro nero dalle ampie rigide falde; giacchetta,
panciotto, pantaloni neri; il panciotto alto abbottonato sino alla
gola, sul quale e sin quasi alle spalle scendevano, lasciando libero
il collo, i larghissimi solini, onde uscivano svolazzanti sin verso
le ascelle, le più ampie cocche di una cravatta nera
anch’essa, con accurata trascuranza annodata. Questo, un de’ tanti
«modelli del vestire all’italiana» proposti nel 1848 da
chi aveva tempo da perdere, pareva a Braccio Bracci l’unico
abbigliamento decente per colui che vivesse in familiarità
con le Aonie sorelle. Con la voce che aveva fortissima e da quella
piazzetta di Orsanmichele giungeva fino a’ Cerchi da un lato e a
Calimala dall’altro gridava — Livorno ha finalmente il suo gran
prosatore, il suo gran romanziere: il Guerrazzi. Non avrà
dunque mai il suo poeta? E accalorandosi e battendo i pugni sul
tavolino: dovrà, soggiungeva, contentarsi di far ridere il
mondo con i versi di Amedeo Tosoni?
Questo Tosoni era un povero diavolo andato in cerca di pane
(com’egli stesso narrò nelle sgrammaticature de’ suoi
Quarantun’anno di vita trascorsi) prima nel Brasile poi nell’Affrica
settentrionale facendo il soldato, il coltivatore di caffè,
il giovine di banco, il cameriere, il corista e non so quale altro
onesto mestiere. Ora tornato in patria e «avendo per natura
diritto alla sussistenza» offriva «alla
generosità dei concittadini, le proprie benchè tenui
composizioni». I suoi versi eran passati in proverbio: e il
buon Antonio Calvi che nell’istituto Rellini tentava impennare le
ali ai miei estri stitici e pigri, più d’una volta nel
restituirmi la Canzone alla Vergine o l’Ode all’usignolo aveva
pronunziata questa sentenza: roba da Tosoni. Più che a’ versi
credo dovesse la gioconda nomèa, se la frase m’è
lecita, a una epigrafe che migliaia di Toscani mezzo secolo fa
sapevano a memoria. Nel 1853, iniziandosi, presente il Granduca, i
lavori per l’ingrandimento del porto di Livorno, il Tosoni non
tollerò mancasse alla solennità la sua «tenue
composizione». Scrisse e stampò il suo bravo sonetto, e
a mo’ di titolo vi prepose una epigrafe, la quale io trascrivo non
per dare un saggio di quella letteratura, ma perchè certe
cose se non si avessero sott’occhio non si crederebbero. Eccola:
«Nella occasione della ricorrenza del giorno della festa del
getto della pietra del molo del porto della città di Livorno.
Sonetto».
Il Bracci dunque ambiva ad esser lui (e se anche men grande del
romanziere e prosatore, pazienza) il poeta della città
marittima, che poeti di grido non ebbe mai nel passato; e scriveva
liriche e tragedie. Importa avvertire che in casa Bracci Melpomene
non entrò la prima volta con lui; avanti ch’egli nascesse, fu
già in relazioni con la famiglia. Il padre, Giovanni,
calzolaio di Castelfranco nel Valdarno inferiore, aveva scritto e
fatto rappresentare alla Quarconia in Firenze un suo Conte Ugolino,
tragedia in cinque atti ed in versi.
La Quarconia era, su per giù nella Firenze del 1840 o in quel
torno, ciò che fu a Parigi ne’ primi anni del secondo impero,
il Petit Lazari che Arturo Meyer ha or è poco descritto: un
teatro popolare dove per due crazie (quattordici centesimi) si
trattenevano gli spettatori dalle sette al tocco dopo la mezzanotte.
In una medesima sera tragedia, farsa, ballo, esercizi acrobatici,
pantomima, concerto di violino e giochi di bussolotti. L’intelletto
usciva naturalmente ben nutrito da così diverso e lungo
spettacolo, ma affinchè lo stomaco non ne patisse
altrettanto, si mangiava e beveva nei palchi e nella platea con
varietà di utili effetti; tra l’altro, il pubblico che
recitava clamoroso la parte del coro antico, poteva, provveduto
com’era di vettovaglie, sostenere con l’elargizione di arance bell’e
sbucciate le forze dell’innocenza in pericolo e colpire con le
scorze il tiranno persecutore.
Attore acclamatissimo, un Ghirlanda vi recitava il Saul così:
Bell’alba è questa in sanguinoso ammanto .
(Punto fermo).
Oggi non sorge il sole.
(Altro punto fermo).
Ma le tragedie dell’Alfieri non tanto deliziavano, quanto quelle del
cavaliere Filippo Quaratesi, un altro Tosoni, salvo che
prosuntuosissimo: tale da credersi e spacciarsi erede ed emulo
dell’Astigiano. È tuttavia famoso il suo Crispo nel quale
volle non più emulare l’Alfieri, ma correggere il Racine; il
Crispo ha infatti lo stesso argomento della Fedra.
L’ancella chiede alla Regina straziata dall’intima fiamma:
Nomami l'oggetto
Per cui a guisa di cera al fuoco esposta
A colpo d’occhio struggere ti veggio.
Un personaggio si scusa dell’essere andato a letto anzi che eseguire
un ordine impartitogli:
Al dover mio
Mancai ieri, la causa anteponendo
Mia personal di coricar mio fianco.
Il padre al figlio incestuoso:
Tumula sotto il bronzo un tal misfatto
E quanto aver può relazione a questo.
In quel teatro innanzi a quel pubblico il buon «lavoratore
della scarpa» fece rappresentare il suo Conte Ugolino. Nella
parte del protagonista era un endecasillabo:
Ho fame, ho fame, ho fame, ho fame, ho fame
che l’attore doveva pronunziare, facendo pausa fra l’una e l’altra
di quelle esclamazioni, dopo ogni pausa abbassando il tono della
voce; sì che da ultimo il quasi estinguersi di quella
annunziasse imminente l’estinguersi della vita. Gli uditori si
sarebbero certamente commossi a quella ognor più fievole
doglianza delle angosce digiune, se (com’io seppi già da chi
fu presente alla recita) un bell’umore non avesse scagliato un semel
ai piedi del Conte pisano, gridando: — Piglia, mangia e chetati....
— Quell’inopinato soccorso mutò la condizione delle cose e
degli animi: entrato nella muda di che cibarsi, non c’era più
da commoversì; la tragedia non solo perdeva della sua
terribilità, ma si chiudeva con lieto fine. Difatti
Anselmuccio e Gaddo prima estenuati e giacenti, si levarono agili e
vispi e il guelfo signore lieto di farla in barba all’arcivescovo
Ruggeri, tirata una reverenza in segno di gratitudine, ordinò
si calasse il sipario.
Raccontano i cronisti che al pericoloso endecasillabo sostituita una
parafrasi delle terzine dantesche, la tragedia rappresentata a
Livorno vi ottenne successo felicissimo: fece versare lacrime
copiose durante quattro atti e le mutò al quinto in
singhiozzi; comunque sia di ciò, l’autore o pago di quella
rivendicazione, o rinsavito, tornò dal coturno allo
stivaletto. Una cattiva tragedia non guasta il galantuomo, e
perchè egli era tale, educato il figlio negli studi che a lui
facevano difetto, lo mandò a Pisa per addottorarvisi nel
giure; e vi si addottorò non so come: non so come,
cioè, Braccio fra la pubblicazione di due volumi di versi e
di un dramma - Isabella Orsini - trovasse il tempo di dare
un’occhiata al codice e alle pandette; ma l’ingegno talora supplisce
a tutto ed egli aveva ingegno davvero e fantasia ricca e vena
abbondantissima e pronta: pronta troppo e questo fu il danno. Non
poteva stare senza far versi; fra le conversazioni più
animate o confuse si vedeva Braccio astrarsi, borbottare pochi
minuti e, giù, una, due, tre strofe facili e sonore.
Ce n’era de’ più corti e de’ più lunghi,
Ma i versi mi venivan come i funghi,
diceva il Pananti di sè ragazzo; i versi del Bracci avevano
tutti invece la giusta misura, ma appunto perchè venivano
come i funghi anche a lui, troppo spesso sapevano d’improvvisato,
con tutti i difetti dell’improvvisazione; e tra concetti felici in
eleganza di forme, rime dozzinali e imagini strampalate.
Nè quel continuo grattar l’arpa (che nel Parnaso d’allora era
lo strumento preferito) sarebbe stato gran male, se non lo avesse
seguito la frégola impaziente del dare alle stampe. Chi abbia
il coraggio di sfogliare i giornalucoli fiorentini del ‘57 vi
leggerà il nome del Bracci fatto segno alle collere furibonde
de’ critici (la cui prosa meritava collere furibonde ancor
più) a cagione di certo sonetto improvvisato da lui
all’uscire dal teatro dove s’era infanatichito nel veder ballare la
Sofia Fuoco in una «azione coreografica» non ricordo se
del Viganò o del Cortesi: sonetto che nonostante il consiglio
degli amici egli s’affrettò a pubblicare la mattina dipoi.
Son corsi più che cinquant’anni ed io l’ho a mente
così come mi fu detto da lui:
Pria che in te m’incontrassi, angelo arcano,
Il tumulto dei balli ebbi a disdegno;
E piansi il lauro che sul crin profano
Seppe alla Mima il mio severo ingegno.
Ma tremendo è il tuo genio; esso d’umano
Non ha che il nome; e prepotente a segno,
Ch’io, dall’empia de’ Sofi ira lontano,
Se avessi un regno ti offrirei quel regno.
Baciarti l’arco delle ciglia nere
Non è dato ai mortali: hanno i Celesti
Coi Celesti supreme estasi vere.
Oh! se dato mi fosse e al guardo mio
S’ inchinassero i cieli, i cieli avresti
E a te prostrato non sarei più Dio!
Salvo la chiusa pazzesca Vittore Hugo aveva dette le stesse cose, ma
le aveva dette un po’ meglio
Si j’etais Dieu, la terre et l’air avec les ondes
Les anges les demons courbés devant ma loi
Et le profond chaos aux entrailles profondes
L’eternité, l'espace et les cieux et les mondes
Pour un baiser de toi!
*
Il Guerrazzi gli voleva molto bene e sul principio aveva riposte in
lui grandi speranze. Dalla terra d’esilio gli mandava suggerimenti,
precetti e rimproveri addolciti da parole amorevoli. In una di
quelle lettere da Bastia, lunghissima, bellissima e tuttavia inedita
che il Bracci stesso mi regalò poco innanzi la morte, gli
scriveva tra l’altro:
«S’io dubitassi delle facoltà sue tacerei; ma appunto
perchè ci fido parlo e senza rispetto. In lei mi parve
abbondare la potenza lirica: e sperai che solo per buono spazio di
tempo si chiudesse nella lirica. Ora in tutto, ma nella poesia in
ispecie, massima parte di bellezza è la forma, la quale
deriva dalla più recondita cognizione della favella: questo
poi è studio lungo, arduo, religioso ed io confesso che
comunque dalla infanzia me ne mostrassi tenacissimo cultore, non
sono riuscito nemmeno imperfettamente ad apprenderla. Le sue
scritture, di questo studio (ah! lasci ch’ io glielo dica da padre)
non mi rivelano traccia.... Di un tratto lasciato a mezzo l’arringo
lirico ella si è con giovanile baldanza spinto in quello del
dramma e mi accerta aver posto o voler porre sul cantiere o Giovanna
di Napoli, o Baldovino di Fiandra, o Maria di Campo San Piero, o
Alboino, o David, ecc. A dirgliela schietta io mi son fregato gli
occhi pensando di sognare. Il dramma storico in questo periodo di
civiltà in ispecie vuole cognizioni profonde dell’ uomo in
genere e poi dell’ uomo individualmente ritratto, cognizione dei
tempi, dei modi di pensare, di vivere epperò di sentire
spesso non pari in tutti i tempi, in tutto bensì vari,
molteplici, talora a questi nostri contrarii.... La notizia semplice
del fatto come espongono le storie non basta.... Ora se Ella
è tale da potere con la dote degli studi da me tocchi di volo
trattare tanti e sì vari argomenti, io la bandisco
addirittura il Pico della Mirandola della età nostra. Ma no
signore, ella non ha nè può avere così largo
tesoro: però annacqui il suo vino, e se la vera fama le
piace, e questa sola è desiderabile, posi l’animo e mediti
lungamente alla sentenza, nil sine magno vitae labore conceditur
mortalibus. Studi, studi, studi e riuscirà: in altro modo,
no; e se lascerà dietro a sè vestigio, sarà
qual fumo in aere ed in acqua la spuma».
Di tali ammonimenti facesse o no tesoro il Bracci, li tenne a ogni
modo per sè: e pubblicò invece nell’ultima pagina di
una nuova raccolta di liriche — Fiori e Spine — una lettera del
Guerrazzi di data anteriore. In essa l’esule cui erano pervenuti
alcuni versi di lui «come la penna di un uccello che passando
lascia cadere dall’ala» giudicava quella «penna d’
uccello destinato a gran volo» e esortava il giovine
concittadino studiasse «la poesia de’ poeti alemanni moderni e
dei Polacchi e degli Scandinavi e perfino dei Russi» che gli
aprirebbe «nuovi ed immensi orizzonti».
Giosuè Carducci che già nel ‘53, tuttavia scolare
nella Normale di Pisa scriveva a Giuseppe Chiarini «maledetto
infamissimo secolo in cui nacqui, intedescato, infranciosato,
inglesante, biblico, orientalista tutto fuor che italiano e qui
perdio! bisogna essere italiani»; che credeva la scellerata
astemia romantica famiglia traditrice della patria e rammaricava
Apolline fuggito
dal suol latino
Cedendo innanzi a Tentate
Ed all’informe Odino,
figurarsi se per quelle esortazioni scattò; e sarebbe saltato
lui addosso al Bracci e al Guerrazzi occorrendo, se non lo preveniva
un amico: Torquato Gargani.
Prima di andar compagno al Carducci nelle scuole dei Padri Scolopi,
il Gargani aveva fatto le classi di umanità nell’Istituto
Rellini: e vi tornava in occasione degli esperimenti a leggervi
prose e versi di sua fattura, gloriosi esempi proposti
all’ammirazione di noialtri alunni; rammento avervelo udito recitare
con molta enfasi alcune ottave sulla Distruzione di Gerusalemme.
Il Carducci lo descrisse «figura etrusca scappata via da
un’urna di Volterra o di Chiusi con la persona tutta ad angoli, e
con due occhi di fuoco». Non so se questa sia una forma
caritatevole per significare che il Gargani era brutto; ove non sia,
io senza fare offesa nè al Carducci nè alle urne di
Volterra o di Chiusi debbo dire che il Gargani era bruttissimo,
brutto come pochi uomini sono. Per giunta quando io lo udii
declamare quelle tali ottave, teneva la testa coperta da una
papalina di incerato nero, su cui erano visibilmente impresse le
tracce di sudate fatiche. La tigna onde fu per alcun tempo affetto
prima lo costrinse a radersi il cranio sino alla nuca, poi a
nascondere le piaghette onde il fungo non peranco supposto gli aveva
chiazzato la cute.
«Anima degna», disse il Carducci di lui: il corpo non fu
dunque degno dell’anima; ch’egli ebbe tutti gli aspetti del pedante
arcigno, del barbassoro intollerante ed intollerabile: ed io non
posso ripensare il Granger di Cyrano di Bergerac senza ricordarmi il
Gargani.
Subito che conobbe il libercolo delle poesie braccesche questi si
pose a farne la recensione: la quale poi con ampiezza maggiore e
intendimenti più larghi divenne la Diceria famosa: Di Braccio
Bracci e degli altri poeti nostri odiernissimi, segnacolo in
vessillo di coloro che intitolatisi Amici pedanti (il Gargani
stesso, il Carducci, Giuseppe Chiarini, Ottaviano Targioni-Tozzetti)
pubblicarono quell’ opuscolo a Firenze nell’estate del 1856. Secondo
il frontespizio a spese loro: ma il vero è che i quattro,
più ricchi d’ingegno e di coraggio che di pecunia, sovvenne
largamente un giovine signore lucchese dimorante alla capitale,
Raffaello Cerù; il quale odiava i novatori di un odio che non
si sarebbe pensato annidarsi in uomo di sembianze così dolci
e quasi serafiche: e che pur di vaccinarsi contro all’infezione
romantica spendeva tutto il suo tempo nel tradurre e frequentare i
latini: tutto il giorno a Catullo, e a Lesbia tutta la notte.
Evocare le grandi tradizioni dell’arte paesana, armarsi contro
all’irruzione dello scempiato neoromanticismo forestiero, rilevare
l’ ignoranza de’ dilettanti, frustare i versaioli faciloni,
insegnando la dignità della dottrina e la gravità
degli studi; questi i propositi degli Amici pedanti, e savi
propositi; ma il Gargani, e gli altri che a lui assentivano,
passarono in quel libercolo ogni limite segnato dal buon senso e
dalla decenza: non solo accomunativi con verseggiatori e novellieri
di niun conto, ma insieme col Bracci sbertucciati quale più,
quale meno, il Prati, il Bonghi, il Grossi, il Carcano, il
Cantù, il Tommaseo, il Guerrazzi, il Manzoni. Sicuro: anche
il Manzoni, nonostante la sconfinata ammirazione che gli professava
il Giordani, dagli Amici pedanti acclamato e venerato duce ed
oracolo. Ma quando si trattava di Don Alessandro i discepoli si
ribellavano: non ebbe infatti il Giordani discepolo più
amoroso e reverente di Ferdinando Ranalli, l’ultimo de’ puristi come
lo chiamò il De Sanctis. Ebbene: il Giordani stimava i
Promessi sposi «uno stupendo lavoro senofonteo» e il
Ranalli.... Ma è inutile citare i giudizi che ce ne dà
nei suoi Ammaestramenti: più spicciativo rammentare le parole
da lui dette a Carlo Francesco Gabba suo collega
nell’Università pisana: «Pare impossibile che con
così piccolo ingegno, il Manzoni abbia potuto far tanto male
alla nostra letteratura».
Nella Firenze d’allora placida e chiacchierina la Diceria fu un
avvenimento: stampata in duecentocinquanta esemplari avresti detto
ne fossero usciti dai torchi a migliaia; tutti la leggevano o
l’avevano letta, e come nei caffè così nei salotti non
si tenne per un pezzo altro discorso. Non ho da rifare la storia
delle polemiche cui essa porse occasione e che durarono nientemeno
dal ‘56 al ‘58. Basti dire che non vi fu giornale, serio o faceto,
il quale non tartassasse gli Amici pedanti; lo Scaramuccia
pubblicò settimanalmente il bollettino della salute del
Gargani che fingeva ricoverato nel manicomio di San Bonifazio.
Nè le cose potevano andare diversamente. Pare impossibile
che, fatta astrazione da quant’era d’iperbolico nella esposizione
delle loro dottrine, giovani di quell’ingegno e tutti mazziniani per
giunta, non s’accorgessero dell’errore politico che commettevano.
Gridare nel ‘57 contro agli uomini del Conciliatore, bistrattare il
Carcano nel ‘48 legato del governo provvisorio milanese a Parigi, il
Bonghi, il Guerrazzi, il Tommaseo, il Prati vaganti per le vie
dell’esilio, l’Hugo vittima dell’impero napoleonico considerato
allora come il massimo impedimento alla libertà dell’Italia,
era difatti un errore politico che nessun legittimo desiderio di
rinnovamento letterario bastava a giustificare; ciò è
tanto vero, che mentre i fogli liberali li flagellavano, gli Amici
pedanti noveravano senza saperlo, tra i loro partigiani, il
Granduca. Intrattenendosi un giorno Leopoldo con un alto impiegato
che pizzicava di lettere intavolò una conversazione circa la
Diceria e lodò «quei giovanotti» intenti ad
impedire «si imbastardisse la nostra bella letteratura».
Non poteva spiacergli che qualcheduno dicesse male del Guerrazzi: se
non che il Guerrazzi si rideva di quelle censure e di lui: e, letta
che ebbe la Diceria scrisse al Bracci: «Il signor Gargani ci
caccia via dal Paradiso? Bene! Ci penseremo quando lo promoveranno
sostituto a san Pietro: per ora non vedo motivo di
affannarsene». (Lettere inedite).
*
Gli anni passarono, le passioni sbollirono, gli studi e l’esperienza
fecero il resto. Il Chiarini il quale allora apostrofando il
Lamartine fremeva
Che pur qui v’abbia di virtù sì scemo
Chi t’ammiri e rei sensi alle tue sorba
Indegne carte,
fu poi de’ primi a darci notizia di scrittori stranieri e tradusse
da par suo l’Atta Troll e la Germania del Heine; il Carducci, che
senza nulla conoscere del Byron e del Goethe, nel difendere la
Diceria domandava: «che è egli cotesto Faust?» e
nelle sonettesse inveiva contro alla
Schiuma di baironiani e goeteschi
Che tuttavia giurate in su i tedeschi
Inghilesi e Franceschi;
indottosi finalmente per le istanze di Enrico Nencioni a leggere il
Mannering dello Scott e il Tell dello Schiller, ammirò
subito: e una volta avviato su quel cammino non tardò molto a
persuadersi che il Boalò (uso l’ortografia del Gargani) era
un seccatore e l’Ugò un poeta, nei cui volumi potevano magari
attingersi ispirazioni ed imagini. E gli animi, che erano gentili,
si riconciliarono. Trent’anni dopo quelle contese Braccio Bracci si
presentava a Michele Coppino ministro dell’ istruzione pubblica con
una lettera di Giosuè, che dal Coppino passata a me suo
segretario generale tuttora conservo: e la pubblico qui
affinchè ne sia rivendicato il nome del buon livornese,
d’ingegno e di coltura assai diverso da quello che gli Amici pedanti
raffigurarono.
Livorno, 8 aprile 1885
Onorevole sig. Ministro,
Mi permetta di raccomandare all’attenzione dell’ E. V. il desiderio
del mio amico avv. Braccio Bracci il quale aspira ad ottenere per
titoli un diploma d’insegnante lettere italiane per le scuole
secondarie.
L’avv. Bracci è autore di drammi e di poesie che furono
lodate dal Guerrazzi e nel quale l’ingegno florido e vigoroso fu
aiutato da un’ amorosa coltura e dallo studio dei migliori modelli a
rappresentare popolarmente verità e sentimenti civili e
patriottici. Ha una gran conoscenza ed un ottimo gusto de’ poeti
classici italiani, con tutte le cognizioni di storia e filosofia che
afforzano gl’ingegni naturalmente eletti a produrre e a giudicare
nell’arte rettamente.
Come letterato e come cittadino il Bracci è degno di benevola
attenzione e come tale lo raccomando a Lei così buono e
liberale giudice.
dev.mo suo
GIOSUÈ CARDUCCI.
Lodi sincere: che dove il Carducci stimò da lodare non fosse,
lasciò al Guerrazzi la cura e la responsabilità degli
encomi. Nè per certo ciò dispiacque al Bracci oramai
ridesto da ogni sogno di gloria, e che nell’ammirazione vivissima
per il grande poeta, suo antico censore, trovava argomento a
giudicare dirittamente l’opera propria; la quale impetuosa e
negletta dapprima, la meditazione e la pazienza fecero poi, bisogna
pur dirlo, migliore e talora non senza pregio.
Povero Bracci! lo rividi a Livorno non molto innanzi che egli
morisse. Gioviale sempre per lo innanzi s’era fatto triste negli
ultimi anni. Mi provai a rallegrarlo, ridicendo alcuni dei versi
uditi anch’essi da lui nella stanzetta di via del Cocomero dov’egli
abitava ai tempi della Diceria e della Lira.
Ma tu chi sa se volgerai la mente
Di questa rupe alle solinghe cime
Qui dove insiem passammo, ove sovente
Ci scosse il suon di boscarecce rime....
D’una in un’altra cosa, riandammo i tempi lontani, rammemorammo i
compagni ahimè! la più parte perduti: e non io riuscii
a racconsolare l’amico, anzi il rimpianto dei giorni irrevocabili ci
fece tristi ambedue. Gli s’inumidivano gli occhi e il capo si
curvava sotto il cumulo delle memorie, quando rialzandolo a un
tratto:
— Ohe! — esclamò, — ci dimentichiamo che a quei giorni
l’Italia non c’era. —
E gli occhi brillarono e il sorriso tornò sulle sue labbra
ancora una volta.
VI.
Primi passi.
Sulla fine del 1856 venne a Firenze con la Compagnia Reale Sarda per
un corso di recite al teatro del Cocomero, Adelaide Ristori reduce
dai trionfi d’oltre Cenisio, de’ quali nessuna attrice nè
prima nè dopo di lei conseguì sulle scene francesi i
maggiori. Proposero di farle festa; e palesi ragioni di accoglierla
con singolari dimostrazioni di allegrezza e d’onore ce n’erano
davvero parecchie. Non foss’altro, era riuscita ad ottenere quanto
per lo innanzi ebbero inutilmente tentato; ad attrarre, cioè,
i parigini in un teatro dove attori italiani recitassero tragedie e
commedie italiane. Vi s’era provata molti anni prima un’ altra
attrice nostra, Carolina Internari, chiamatavi dalla nuora di Carlo
X, Maria Carolina de’ Borboni di Napoli, duchessa di Berri; ma oltre
che dalla Ristori a lei ci correva quanto dal giorno alla notte.
L’Internari capitò a Parigi nel 1830 poco avanti le famose
giornate di luglio; sì che la Francia in rivoluzione, la
protettrice in fuga, nessuno le badò e le convenne accattare,
a stento, danaro per tornarsene in Italia umiliata e delusa.
Com’ è noto, la Ristori attratto il pubblico subito lo
conquise; e non soltanto il pubblico grosso ma i critici, gli
scrittori più insigni: i due Dumas, lo Scribe, il
Legouvé, l’Augier, il Mery, la Sand, il Janin, il Gautier, il
Saint-Victor, tutti del pari sbalorditi e concordi tutti
nell’affermare che nessuna attrice francese le stava a paro, nessuna
eguagliandola nella stupenda varietà delle attitudini: tale,
ch’ella poteva recitare nella sera medesima la Maria Stuarda dello
Schiller e i Gelosi fortunati del Giraud, nel tragico e nel comico
sempre e parimente mirabile.
Se non che, fra tanto entusiasmo, o a far sì che di qua dalle
Alpi non ci inorgoglissimo troppo di cotesta supremazia certificata
con impeto ma ripensata forse con rammarico; o a cagione della
burbanzosa ignoranza delle cose nostre che induce così spesso
i Francesi in così false opinioni, e così erronei
giudizi; il Janin finse di credere o credè veramente che la
Ristori non avesse in Italia la fama che meritava; non punto
meravigliato, del rimanente, perchè (questo il sunto degli
articoli ch’ei pubblicò nei Débats) un popolo molle e
fiacco, fanatico per l’«opera buffa» non poteva non
essere incurante dell’arte drammatica, nè piacersi della
tragedia nè della tragedia onorare degnamente i nobilissimi
interpreti. Un sacco di scempiaggini insomma, e questa la
conclusione vanitosa e bugiarda: se Parigi non era, gli Italiani non
avrebbero saputo mai quanto grande artista fosse Adelaide Ristori.
Non sto a dire il putiferio che si destò in Italia per quegli
scritti; giornali, giornaletti, giornalucoli tutti addosso al Janin,
il quale ebbe d’insolenze quanto spettava a lui insolentissimo e
forse qualcosa di più; prose ciceroniane col quousque tandem,
giambi archilochei, un po’ di tutto: persino la vecchia Musa di
Andrea Maffei, sempre pronta se felice non sempre, volle dire la
sua.
. . . . . . . . .
Ma in qual parte d’ Italia ai tuoi lamenti
Lagrime non versammo? Ove l’incanto
Di tua voce sonò, che cuori e menti
O l’ira o la pietà non abbia affranto?
Noi destammo il tuo genio; i plausi nostri
Ti erudir nell’agone, ove ora imprimi
Solitarie vestigie e siedi in trono.
No, la Senna non fu; noi fummo i primi
A cingerti, o gran donna, il serto e gli ostri
Di cui l’onda superba a te fa dono.
Ragioni dunque, come ho detto, palesi per far festa all’attrice
illustre ce n’erano: ma s’io soggiunga che promotore di quelle
onoranze fu Cesare Tellini, l’instancabile cospiratore del quale
ebbi occasione di parlare, s’ intenderà di leggervi come ci
fossero anche ragioni segrete.
I sentimenti liberali della Ristori si conoscevano; si sapeva che
qualche anno prima, durante l’occupazione austriaca in Toscana il
Generale Folliot de Crenneville governatore militare di Livorno
l’aveva espulsa dalla città; si sapeva che a Parigi in
quell’istesso ‘56 che udì la voce del Cavour levarsi innanzi
all’Europa, ella s’era adoperata fra i letterati e i giornalisti che
l’acclamavano e frequentavano nel cercar favore alla nostra causa;
tutti buoni argomenti per dimostrar meritevole la egregia donna
delle onoranze che la parte liberale preparava per lei; tuttavia non
credo che il Tellini e i compagni suoi si sarebbero tanto sbracciati
nel prepararle se non si fosse in sostanza trattato di valersi della
Ristori per fare un contraltare al Governo, in occasione, ai fini
loro, singolarmente opportuna.
Si annunziava appunto in que’ giorni prossima una visita
dell’Imperatore Francesco Giuseppe al Granduca Leopoldo, provocata
dalla Curia pontificia, alle cui ostinate esigenze il Governo
toscano ricusava con lodevole ostinazione di cedere: visita
perciò doppiamente sgradita alla massima parte della
cittadinanza, sgradita anche più (come rilevo da carteggi di
quel tempo) a cagione di alcune imprudenti parole del Barone Von
Hügel, ministro di Austria in Toscana. Domandatogli se
l’Imperatore andrebbe anche a Roma rispose: — Oh! no, Sua
Maestà non va che nei propri Stati!—
La Corte si disponeva a ricevere l’augusto capo della dinastia con
grande solennità e molto sfoggio d’apparati: sarebbe entrato
in Firenze per la porta San Gallo passando sotto l’arco trionfale
eretto dal Iacot nel 1739 in onore del primo Granduca lorenese,
Francesco, marito di Maria Teresa: seguirebbero luminarie,
spettacoli, balli, feste d’ogni maniera. Bisognava dunque che
a quelle dimostrazioni la parte liberale contrapponesse le sue. In
palazzo Pitti omaggi all’Austria? altrove auguri di redenzione all’
Italia; se anche velatamente espressi, il Governo intenderebbe;
poichè la fortuna aveva condotto a Firenze la Ristori, alla
Ristori plausi, corone, banchetti.
L’Imperatore non venne, il banchetto fu dato: il Governo finse di
non intendere e permise di presiederlo al Marchese Luca Bourbon del
Monte, soprintendente alle Belle arti, maliziosamente invitato.
*
Mio padre era amicissimo della Ristori, che anni innanzi aveva
recitato con la consueta maestria e molto felice successo la sua
commedia: Una donna di quarant'anni: saputo di quel banchetto a
bocca e borsa fu de’ primi a sottoscrivere; e, perchè
ammalato, incombensò me di versare la sua quota. Andai
perciò dal Tellini; ed egli che impegolato tra mille faccende
aveva bisogno di chi in quella l’aiutasse e si muovesse per lui e
scrivesse lettere, e mandasse avvisi, e arrivasse là insomma
dov’egli non poteva arrivare, subito mi acciuffò e mi
nominò lì per lì segretario del Comitato. Io
segretario del Comitato? Mi parve di essere più alto di
quattro dita; se l’Imperatore d’Austria fosse venuto a Firenze, mi
sarei a mala pena degnato di squadrarlo.
Giunse finalmente la memoranda sera del 4 gennaio 1857; e una
cinquantina di persone sederono a convito in un’ampia sala del
palazzo «dalle cento finestre» in piazza Santa Maria
Maggiore. Attorno all’attrice famosa, letterati, giornalisti,
artisti, cittadini d’ogni ceto: i caporioni del partito liberale o
intervennero o aderirono tutti. Il segretario del Comitato
naturalmente al suo posto.
I giornali, che di quel banchetto parlarono e che mi sono preso cura
di consultare, dissero squisite le vivande, i vini nostrani e
forestieri eccellenti; ma su questo punto il segretario del
Comitato, che pur dovrebbe per ufficio custodire ogni documento
della cerimonia, non è in grado nè di affermare,
nè di negare: non mangiò, nè bevve: un tremore
intimo, una trepida commozione gli tolsero l’appetito e la sete: e
dirò fra poco il perchè.
Al levar delle mense, venne l’ora de’ brindisi. Primo ad alzarsi fu
Zanobi Bicchierai, direttore del Passatempo giornaletto letterario
di molta autorità a que’ giorni e primo propinò
«all’attrice illustre, all’amabile donna che ha portato
trionfalmente fuori d’Italia il nome italiano». Data
così la stura succederono al Bicchierai Giuseppe Pieri,
Clemente Busi fedele aiuto al Montanelli nel governo provvisorio del
‘49, un pittore francese Carlo Senart e altri e altri poi. Versi e
prose (ma versi il più spesso) nei quali alcune parole
nazione, popolo, Italia, italiano, italo, ausonio, ricorrevano
frequenti: tutte pronunciate con tono particolare, quasi volesse
sottolinearle la voce, e tutte illustrate da plausi commentatori.
Fra tanto «furor di rime» anche la Ristori volle fare le
sue: e chiesta una matita, sul rovescio della minuta del pranzo (il
popolo diceva a quel tempo minuta in Toscana e i linguaioli non si
scandalizzavano) scrisse improvvisa questa sestina:
Perchè torna ad onor, d’Italia mia,
Dello straniero il plauso assai m’è grato;
Quanta dolcezza all’anima mi sia
L’applauso che da voi m’è tributato
E quanti affetti in me ridesti amore
Dire il labbro non può.... ma sente il core.
Un lungo batter delle mani salutò l’artista grandissima; si
gridò, viva l’arte italiana, poi con meditato trapasso, data
la mossa dal Tellini, da cinquanta voci insieme, viva l’Italia!
Dico male cinquanta: mettiamo quarantanove: perchè non sono
sicuro che l’ottimo soprintendente alle Belle Arti gridasse
«viva l’Italia» anche lui.
*
Finita la festa così, ognuno se ne andò pei fatti
suoi: non posso io fare oggi altrettanto, che mi tocca tornare
dolorosamente un passo indietro.
Nel racconto, oculatamente incompiuto, che La Lente, giornale del
Tellini, pubblicò di quella serata, si lesse e purtroppo si
legge ancora:
Un giovinetto, Ferdinando Martini, nel quale l’ingegno è
molto maggiore dell’età (o miseria!) recitò le
seguenti strofe che contengono la vita materiale ed artistica della
regina delle nostre scene....
Ahimè! così fu veramente! io ebbi in quella occasione
la sfacciataggine di recitare una saffica di otto strofe: le due
ultime delle quali, tardo ma giusto castigo, voglio qui riprodotte a
mia perpetua vergogna.
Chi non parlò di lei? chi mai potrebbe
Ridire il vanto che all’Italia accrebbe?
Fumin le tazze! niuna a lei somiglia
Itala figlia.
Viva l’italo ingegno e i suoi portenti
Ch’empieron tutte di stupor le genti:
Di Talia viva l’arte, e sia divina
La sua regina.
Quando ricordo che a quindici anni ebbi l’impudenza di recitare quei
versacci innanzi a quel pubblico e consentire per giunta che si
stampassero, mi frusterei: ma a trattenere la ferula sopravviene un
pensiero; se la colpa non ha scusa, a far men dura la sentenza le
attenuanti ci sono; se non altro nel languore dello stomaco digiuno,
nelle ansie tormentose, nelle affannose titubanze di quella sera.
Avevo in tasca il foglio funesto.... Leggere o non leggere? Atroce
dilemma! Mi sarei paragonato ad Amleto, se del Principe di Danimarca
non avessi a quel tempo ignorato i casi ed il nome. Studiavo le mie
sorti nelle sorti altrui e a quelle conformavo le alterne
risoluzioni.
«Il brindisi del Bicchierai.... quattro parole.... Le avrebbe
dette chiunque.... «bene, bravo», ma applaudito non
l’hanno.... Leggo, leggo.... Ah! no.... dopo i versi del Busi che
son tanto piaciuti non c’è da provarsi.... Lasciamo
andare.... Perchè? Uhm! i versi del Pieri non sono mica
meglio dei miei....».
Leggere, in sostanza, desideravo, cento buone ragioni avrebbero
dovuto frenare quel desiderio; come spesso avviene, ad appagarlo mi
bastò una cattiva: la dignità del Comitato. De’
promotori nessuno aveva aperto bocca, il Tellini presidente muto
come un pesce anche lui. Come? Il padrone di casa non
saluterà l’ospite, e ospite gloriosa così? Leggiamo.
Mi alzai, ma non lessi: mi parve tutto avvolgesse una nebbia folta
così, che, non dirò i commensali, ma neanche scorgevo
lo scritto che tenevo fra mano. Recitai a memoria, con ansia nuova e
nuovo tormento, temendo di inciampare se la memoria fallisse. Quand’
ebbi, come. Dio volle, finito, non vidi, sentii che applaudivano.
Certamente al coraggio.
Tempo fa, sfogliando nella Biblioteca Nazionale di Firenze i
carteggi della signora Emilia Peruzzi, in una delle lettere che per
lunghi anni, quasi quotidianamente, ella mandò al Magnetta
console sardo a Livorno; nelle quali, raccontato quanto di
più notevole in materia di politica succedeva in Toscana,
esprimeva insieme i risentimenti, le speranze, i propositi della
parte liberale, che nel marito Ubaldino riveriva un dei capi
più esperti e autorevoli: in una di quelle lettere lessi, non
senza molta meraviglia, queste parole: «Jeri l’altro sera fu
offerto un banchetto alla Ristori. Parlò il Martini, e
parlò il Busi, ex segretario del Montanelli; e capirete che
l’Italia fu nominata». Il Martini! chi sa di quale Martini
pensò si trattasse la egregia signora o quale lo
immaginò? O forse seppe che ero propriamente io? Ma i tempi
eran quelli: purchè vi si parlasse d’ Italia anche ai versi
colascioneschi di un ragazzo di quindici anni si dava l’importanza
di un avvenimento politico.
Comunque - ricordo e confessione - fu quello il mio primo passo;
temerario sì, tuttavia meglio riflettendo, posso anche
perdonarmelo; non già perchè avessi quindici anni, ma
perchè non ho altre temerità da rimproverarmi.
Più che mezzo secolo è corso oramai da quel giorno e
della carta ne ho scarabocchiata alquanta: ma il pubblico non fu mai
per me rispettabile, soltanto nei cartelloni dei capocomici:
scrivendo, bene o male ch’io sapessi e potessi, sempre scrissi con
attenta timorosa fatica, sempre ebbi per il pubblico il rispetto, il
quale in chi scrive per esso è, in ultima analisi, il
rispetto di sè medesimo.
VII.
Muse in faccende.
Ho raccontalo come a quindici anni avessi l’audacia di recitare una
mia ode saffica in occasione solenne, innanzi a pubblico composto di
persone fra le più ragguardevoli della Firenze d’allora; il
rabbuffo che mi buscai da mio padre il giorno dopo è facile
immaginarselo, non ci sarebbe dunque per me nulla da aggiungere. Se
non che, alcuno potrebbe osservare: costui ci ha già detto
che odiava a quella età la lettura, era di tutte cose
ignorantissimo; come va che, viceversa, sapeva di rime e di saffiche
ed era capace, di scriverne?
Domanda ragionevole; tuttavia, se non mi porgesse argomento che a
parlare ancora delle mie temerità fanciullesche non
metterebbe il conto di rispondervi; ma mi offre opportunità
ad esporre alcune costumanze di quel tempo e dire quali fossero in
Toscana la maggior parte delle scuole, onde con me uscirono molti
della mia stessa generazione.
*
Firenze nel ‘48 non aveva nè ginnasio nè liceo
governativo; li ebbe, come le altre città della Toscana, nel
‘53; per lo innanzi facoltà di aprire scuole di media
coltura, si concedè con molta cautela a privati cittadini.
Nel ‘48 tre erano a Firenze le più stimate: quella dei Padri
Scolopi, un Istituto Zei veduto di mal occhio dal Governo
perchè i maestri in fama di rivoluzionari; finalmente
l’Istituto Rellini così intitolato dal suo fondatore e che
allora dirigeva un signor Luigi Sereni.
Le scuole degli Scolopi erano affollate, sicchè per allora
niente Scolopi; a compimento degli studi, vi avrei seguito
più tardi i corsi di matematica, di fisica e di filosofia:
d’altra parte mio padre liberale sì, ma temperato, che,
eletto dal collegio di Montecatini, nell’Assemblea legislativa
sedeva a destra ed era per giunta a que’ giorni segretario generale
per le Finanze, non s’arrischiò a imbrancare il figliolo fra
gli alunni dello Zei, covo, come dicevasi, di giacobini arrabbiati;
e al cominciare dell’anno scolastico 1848-49 mi mandò al
Rellini, frequentato da scolaresca poco numerosa, appartenente alla
cittadinanza migliore.
*
L’istituto stava nella via delle Oche, alla quale si accedeva e si
accede tuttavia da un punto dell’altra via de’ Calzaioli, ove fu
già la Loggia dei Neghittosi.
Oche, Neghittosi, nomi di non liete promesse; allogata in un’antica
torre, de’ Visdomini se non erro, la scuola, cupa nell’aspetto di
fuori, non era dentro più gaia. Una infilata di stanze le cui
pareti coprivano quasi interamente grandi tele nere, incerate,
incorniciate, da scriverci sopra col gesso, che facevano insomma
vece di lavagne. Qua e là nei brevi spazi a portata di mano
lasciati liberi da quella tetraggine, esemplari calligrafici opera
del signor Sereni, calligrafo espertissimo, e che ci si davano via
via ad imitare. Nel ‘48, quand’egli grosso e distesamente barbuto,
troneggiava dalla cattedra spesso in divisa di sergente della
guardia civica, su tutti quelli esemplari dava a prima vista
nell’occhio, fra ghirigori e svolazzi, scritto in corsivo o in
ronde, o in gotico un Viva la Patria! Nel ‘49, venuti gli Austriaci,
la compromettente leggenda fu nascosta da un cartellino con sopra un
Viva la Panna! scritto in gotico o in ronde o in corsivo fra i
soliti ghirigori e svolazzi, ornamenti permessi anche dalla
tirannide restaurata.
Nelle stanze più piccole si impartivano da maestri diversi,
secondo la diversità delle classi, gl’insegnamenti
dell’italiano, del latino, del francese, della geometria, del
disegno; in una assai vasta egli stesso il signor Luigi nutriva gli
intelletti adolescenti di storia, di geografia, di aritmetica. Non
voglio offendere la sua memoria, ma ch’egli fosse un educatore
egregio e un egregio insegnante, in coscienza non lo posso dire.
Seduto dietro al banco alto ed ampio che gli serviva di cattedra,
teneva prossimi a sè da un lato un ferro piatto, largo,
pesante, dall’altro un degli scolari più meritevoli
incaricato di vigilare e denunziare la condotta dei condiscepoli;
bel metodo, come ognun vede, onde lo spionaggio, perchè dato
in premio era pungolo all’emulazione, ufficio turpe insieme e
desiderabile. Avvertito che un alunno o non stava attento o si
permetteva qualche celia, batteva col ferro ponderoso tale un colpo
sul banco che ci faceva balzare intronati e tremanti; e tutto
tremava per quel colpo d’intorno, le pareti, le tele, i vetri delle
finestre e fino la bionda barba spiovente del signor Luigi medesimo.
Il quale, aggrottati i sopraccigli e procelloso in faccia come lo
Zeus d’Omero, così apostrofava il colpevole: «Carne da
forca» «ti vedrò se Dio vuole con le
manette» «finirai all’ergastolo» ed altri
appellativi, ammonimenti e presagi di pari delicata dolcezza.
De’ sistemi educativi parmi così detto abbastanza: passiamo
ai didattici.
*
Come s’ insegnasse l’italiano, e non nel Rellini soltanto, esposi
altrove nè saprei meglio esporre altrimenti. Il maestro
leggeva tre volte un tratto del Novellino o del Galateo di Monsignor
Della Casa; pacatamente la prima volta, un po’ più alla
svelta la seconda, la terza a rotta di collo. Chiudeva il libro e
imponeva: Scrivete. E noi a scrivere, cioè a rifare quanto
più fedelmente si potesse lo squarcio; v’erano alcuni di
così pronta memoria che a volte lo rifacevano tale e quale: a
loro il maestro assegnava un optime e lasciava intendere che per ora
erano l’onore della scuola, con l’andare del tempo sarebbero l’onore
della letteratura e della patria. Il vaticinio non s’è
avverato.
Questo in iscuola: a casa poi da quei due libri ai quali
s’aggiungevano in seguito gli Esempi di bello scrivere del
Fornaciari si dovevano trascegliere «le parole ed i
modi» per servirsene a inzeppare eleganze nei componimenti,
come, dice con frase casalinga il Tommaseo, si ficca il ramerino in
un lacchezzo d’agnello; e chi più ne inzeppava era il
più bravo. Dio guardi a dire mi son messo a studiare,
poniamo, la prosodia. Come usava il Salvini? «Mi sono
addato». Dunque: mi sono addato alla prosodia. — Io credo?
Neanche per sogno. M’è avviso, son di credere come insegna il
Giambullari. Peggio poi, chi osasse dare un tuffo nel volgare e
finire una lettera col «sono tuo affezionatissimo
amico». Il commendatore Annibal Caro era stato forse al mondo
per nulla? Non aveva egli scritto mi ti do e dono per amicissimo? e
ci dovevamo dare e donare per amicissimi anche noi altri.
Frasi e parole: e quando, di rado, ci davano non più a rifare
il Novellino o il Galateo, ma a comporre di testa propria,
purchè parole e frasi fossero fra le consacrate, se anche il
pensiero era povero, l’invenzione meschina, la prosa sbrodolata o
stitica poco importava: d’ordine, di perspicuità, di
chiarezza chi ci parlava? I trattati del Blair o dello Zanotti
imparati a pappagallo: tamquam non esset. A pensare, chi ci
avvezzava? Letture? Quelle alle quali ho accennato e poche
più. Due o tre canti della Gerusalemme, due o tre della
Comedia, un paio di odi del Parini, qualche sonetto e una canzone
del Petrarca, poche pagine del Varchi, alquante del Botta (ho detto
del Botta!), la Didone del Metastasio. E basta.
Tali erano i metodi in uso; e non posso rimproverare al buon signor
Calvi d’averli usati anche lui. E in fondo poi si scriveva
pessimamente, senza garbo alcuno, sciatti insieme e pretensiosi,
senza bensì periodi zoppi o sgrammaticature. Passi dunque
ancora per l’italiano. Ma la storia, ma la geografia? Della storia
ho già detto; dicendo come la geografia s’insegnasse
darò netta un’idea dell’efficacia di quelle lezioni.
Le carte, per lasciar posto alle buie tele verso le quali scendevano
rette da un arpione murato nell’angolo fra la parete e il soffitto,
rimanevano così in alto che nessun occhio presbite era buono
a scorgervi un nome o una linea. Noi con una lunga canna indicavamo,
gradi più, gradi meno, là dove prima aveva indicato il
signor Luigi, e più possenti di qualsiasi fenomeno tellurico
spostavamo le città ed i fiumi, movevamo le montagne, emuli
della Fede. Sapevamo così che c’erano al mondo il Tago e le
Ande, il Mar Caspio ed il Senegal: ma chi ci avesse ordinato di
rintracciarli e determinarne la postura avrebbe aspettato un bel
pezzo.
Una cosa c’insegnavano bene: il latino; con metodo che la presente
sapienza intedescata dispregia, ma bene, con profitto e, che pur
conta, dilettevolmente. Non eravamo nè più volenterosi
nè più savi dei ragazzi d’oggi, i quali del latino
infastidiscono; e a noi era, anzi, fastidio il riposo della
domenica, onde s’interrompeva la lettura di un canto dell’Eneide o
d’un’elegia di Properzio.
Quando ripenso che uscendo da quella scuola soltanto un po’ di
latino sapevo, provo quasi un rimorso dell’avere anch’io preso a
gioco il povero vecchio prete Terzolli che ce l’insegnava.
Il Terzolli giocava al lotto; e, giocatore incaponito, dava al lotto
tutto il danaro che via via guadagnava: e noi ci pigliavamo di
quando in quando lo spasso, in un modo o nell’altro
birichinescamente escogitato, non tanto di stimolare quella
passione, quanto di averne le prove. Per esempio: con simulata
gravità un alunno s’alzava:
— Signor maestro (non passava loro neanche pel capo di farsi dare
del professore) ci sono versi in Orazio che non capisco.
— Quali?
Seu graeco jubeas trocho
Seu malis vetita legibus alea.
— Dove stanno?
— Libro terzo, ode ventiquattresima, verso cinquantasette.
— Bene: ne parleremo da ultimo. Libro terzo.... Ode...?
— Ventiquattresima, verso cinquantasette. —
E il Terzolli, come per non dimenticarsene, subito segnava sopra un
fogliolino 3. 24. 57. Al finire della lezione, date all’alunno le
dilucidazioni opportune, arrotolava, quasi trastullandosi, il
fogliolino: poi alzatosi e credendo nessuno l’osservasse lo riponeva
nella scatola del tabacco.
Povero vecchio! Maestro addottrinato, premuroso, affabile, per
quella funesta passione visse miseramente e in miseria morì.
Buon per lui se il lotto fosse vietato nella Toscana granducale ai
suoi tempi, come ai tempi di Orazio i dadi dalle leggi romane.
Se la geografia s’insegnava nel modo che ho detto e le altre
materie, eccezion fatta la geometria ed il latino, su per giù
nel medesimo modo, nulla si tralasciava di ciò che valesse ad
agevolarci la ascensione del Pindo e a porci in grazia delle vergini
Muse. Nozioni delle forme, quante bastavano a distinguere un’ode da
un sonetto; ma esercitazioni senza fine. Ogni settimana, e qualche
volta anche più spesso, versi o composti a casa o
scombiccherati lì per lì a lezione: elegie, inni,
canzoni, idilli, rime didascaliche, eroiche, sacre, tutto, l’estro
ebdomadario forniva. Francesco Lemene componeva versi burleschi alla
messa; noi, allenati così, verseggiavamo in scuola, fuori di
scuola, a colazione, a passeggio.
*
Prevedo: se il solito osservatore mi abbia seguito sin qui, una
nuova domanda gli verrà spontanea alle labbra: perchè
tanto zelo nell’allevare poeti e così poca cura
nell’addestrarci a scrivere in prosa un po’ meglio?
A buon conto, anche i maestri hanno le inclinazioni e le debolezze
loro e qualche cosa bisogna concedere. Anch’egli poetava il buon
signor Calvi, con inveterata abitudine; tale (nè so
ricordarlo senza commozione) che nel ‘900 n’era passata molta
dell’acqua sotto i ponti - novantenne e cieco mi mandò oltre
il Mar Rosso un estremo sonetto per salutarmi Governatore
dell’Eritrea. Inoltre non credo fosse persuaso dei difetti della
nostra prosa; così poco differiva dalla sua! Per ultimo non
ci aveva fatto imparare a memoria lo Zanotti ed il Blair, non aveva
amorosamente adunato con noi il tesoro «delle parole e dei
modi»? Là stavano le ricette, qui gl’ingredienti della
prosa eccellente.
Così si faceva dappertutto e così l’ottimo uomo faceva
anche lui; e con l’esercitarci nella versificazione adempiva poi
strettamente il proprio dovere: ci accostumava in modo da
risparmiarci magre figure quando fossimo, come suol dirsi, entrati
nel mondo; perchè il saper mettere in riga un determinato
numero di sillabe e far baciare, rimando, un paio di participi era
parte della buona educazione come il saper ballare la mazurka. Chi
non scriveva versi in Toscana? Non c’era curato di campagna che non
mettesse insieme il suo bravo sonetto per monacazione o per nozze.
Gli uomini di più alto affare, verseggiavano per passatempo:
Ranieri Lamporecchi avvocato di molta riputazione e di larga
clientela raccomandava in ottave a Niccolò Nervini presidente
della Corte Regia il sollecito disbrigo di una sentenza in causa
civile, e il Nervini, latinista esimio, rispondeva in asclepiadei.
Quando Vittorio Fossombroni ministro segretario di Stato o come oggi
direbbesi presidente del Consiglio dei Ministri compiè nel
1837, gli 83 anni, mandò agli amici per salutarli e quasi
congedarsi da loro un sonetto2: e diciotto di quegli amici - tra gli
altri due principi del Foro toscano: il Lamporecchi e il Salvagnoli;
due professori di università: Carlo Pigli e Giuseppe Borghi -
gli risposero anch’essi con un sonetto ciascuno e con le rime
medesime. Perfino di solenni questioni giuridiche, morali sociali si
disputava in versi; e talora il dibattito si compendiava in qualche
strofa di settenari o in qualche coppia di endecasillabi.
Poi che Giovanni Carmignani dimostrata in un suo libro la
utilità e la necessità della pena di morte
raccomandò la strangolazione, come il men doloroso dei
supplizi capitali, l’avvocato Aldobrando Paolini, argutissimo e
dottissimo, per tutta confutazione di quelle dottrine mandò
fuori questo epigramma:
Al nobile al plebeo
All’innocente al reo
Al semplice dottore
Alle femmine ai maschi all’universo
Il libro di Giovanni ha fatto orrore,
Che vuol che l’uomo per le forche muoia.
Nè ad alcun piacque? Al boia.
E l’iracondo Carmignani per tutta risposta:
Al ladro, all’assassino
Che temono il cordino
Il libro di Giovanni ha fatto male;
Per questo anche all’autor del madrigale.
*
Usanze che duravano da secoli, strascichi dell’Arcadia; e io stesso,
se ho resistito agli impulsi della vanità e mi sono serbato
accortamente inedito, alle spinte dell’atavismo non ho saputo
resistere. Dico dell’atavismo, perchè ho dietro di me quattro
generazioni di versificatori. Uomini, donne, pastorelli arcadi,
accademici di molte accademie, Retindi, Partemidi e Agamiri
Pelopidei; persone di giudizio bensì e perciò inedite
anche loro, ma delle cui ispirazioni rimane nelle carte di famiglia
voluminosa la traccia. Sugli ultimi del seicento un antenato cantava
in distici latini il gioco degli scacchi:
Belligeras iras ade et bicoloribus armis
A fictis sceptris, pugna jocosa movet;
Et dmn nigra acies hic candida dimicat illic
Iti niediis armis otia ludus habet.
E dopo gli scacchi, con altri distici ed altro poema, il picchetto:
Picchetiimque canatn; dedit istud Gallia luduni
Et bene de laticis cuspide nomcn habet;
Namque animos acuit facileque impulsibus urget
Et pungit stimulis et quasi calcar habet.
Un secolo dopo, il mio bisnonno, segretario del regio diritto o
com’oggi direbbesi ministro dei culti del granduca Pietro Leopoldo,
sfogava in epigrammi rimati le collere destategli dal vescovo
Scipione De’ Ricci ricalcitrante alle ingiunzioni governative.
*
Due generazioni. Alla terza.
Alquante diecine d’anni fa avevamo cacciato, con alcuni amici, alle
starne in un poggio del Fiorentino. Era d’agosto, la giornata
caldissima, la stanchezza grande, la sete tormentosa, le borracce
vuote. Prossimo un convento, bussammo, per un po’ d’acqua e una
mezz’ora di riposo. Un laico socchiuse la porta, domandò i
nostri nomi, la richiuse, tornò, la spalancò e ci
condusse nelle stanze del padre guardiano, ove trovammo approntati
acqua fresca e vin bianco. Fatti i nostri convenevoli e dissetati,
attaccammo discorso. A un certo punto, il frate, un vecchietto basso
e asciutto (mi par di vederlo) interrogò:
— Chi è di loro il signor Martini?
— Io — risposi.
E qui una sequenza d’altre interrogazioni: e come si chiamava mio
padre, se la famiglia abitava a Firenze, se aveva beni in
Valdinievole; finalmente il nome di mio nonno.
— Il mio: Ferdinando.
E il padre sorridendo: — Ecco, ecco, sicuro. C’è stato qui
anche suo nonno; anche lui, come raccontano i vecchi del convento,
che io non avevo ancora vestito l’abito a quel tempo, fu sorpreso
cacciando dal temporale e si rifugiò qui, e anzi ci
pernottò. Eh! Eh! era un uomo allegro suo nonno.
— Può darsi: non l’ho conosciuto.
— Eh! sì sì, un uomo allegro: fece uno scherzo anche a
noi.... e ne serbiamo memoria. Ora vedrà. —
E da un armadietto a muro trasse e mi porse un foglio ingiallito
piegato in quattro. Apertolo riconobbi la calligrafia che avevo in
pratica, per avere messo in ordine altre scritture. In cima al
foglio e d’altra mano — lasciato paoli 20; sotto, un’ottava, datata
e firmata (Ferdinando Martini, settembre 1808) e diceva così:
Padre guardiano, ancora io non son morto
Che non voglia far qui mia professione,
Sol vuo’ tre cose e non l’abbiate a torto:
Dall’obbedienza voglio l’esenzione,
Serbare il genio che alle donne io porto
E aver de’ soldi a mia disposizione;
Se voi queste tre cose m’accordate
Non ho difficoltà di farmi frate.
O poetaggine infaticabilmente irrequieta! Non si contentavano
dì alloggiare Calliopea in casa propria e di tenervela in
quotidiane faccende; la menavano perfino ne’ sacri chiostri.... e a
cantare in bernesco!
*
L’avo, facoltoso e alieno da ogni fatica, se non apollinea, poteva
ben dividere il suo tempo fra la caccia ed i versi; i suoi figlioli
ebbero altro da fare e le cetre riposarono per loro dieci mesi
dell’anno. Ma in villeggiatura gaudentes rure Camoenae nelle sere di
ottobre il divertimento più frequente e gradito furono le
sciarade garbatamente rimate, delle quali, secondo Benassù
Montanari che ne dettò in un poemetto le regole,
Ogni gente si piacque ed ogni etade;
e, quando capitassero in visita amici, gara fra i padroni di casa e
gli ospiti di sonetti a rime obbligate. Mi rammento d’un prete. Don
Faustino, che proponeva sommesso all’orecchio or di questo or di
quello la parola da farci su la sciarada, e quando era fatta non la
indovinava e domandava; È la mia? Rammento altresì che
una volta venne da Empoli a Monsummano Vincenzo Salvagnoli: sonetti
e sciarade si moltiplicarono: fra le molte del Salvagnoli una
giudicata ingegnosissima, e però subito affidata alla
memoria, anche oggi mi pare graziosa veramente.
Breve l’uno all’esistenza,
Il secondo accenna al moto,
Il mio tutto è nome noto
Per il primo umano error:
Ma se il tutto tu rovesci
A quel fallo è provveduto
Con l’angelico saluto
D’un alato ambasciator.
(E-va-Ave).
Non è dunque da meravigliare ed ecco per conchiudere la
risposta promessa che dopo avere a scuola ogni settimana e talora
più spesso per cinque o sei anni di seguito sacrificato al
«Dio dall’arco d’argento», io, ignorantissimo di tante
cose e sto per dire d’ogni altra, sapessi di saffiche e di rime e
fossi bene o male capace di scriverne.
Versi a quindici anni! centinaia e centinaia avevano preceduto
quelli recitati per la Ristori nella sera famosa.... E fosse finita
lì! ma l’uzzolo mi rimase e mi accompagnò lungamente e
ancor non m’abbandona, che di tanto in tanto qualche verso ci
scappa. Migliaia e migliaia. Quante? il solo caminetto, prudente
amico lo sa, che tutti li accolse e li accoglie nel suo grembo
purificatore.
VIII.
Dal faceto al serio.
Usciti da scuola, verseggiando non più ogni settimana per
compito, ma per divertimento quasi ogni giorno, eravamo riusciti, se
accompagnandoli con lenta cantilena, a improvvisare versi
immaginatevi quali, non privi di significato; per farci poi in
quelli esperimenti più franchi e più destri, ci
spassavamo nell’infilzare parole rimate, nel rapido schiccherare
strofe in settenari o decasillabi, di giusta misura s’intende, e
magari di rima opulenta, ma senza senso veruno. Sollazzo che a’
giovanetti d’oggi parrà insipido alquanto; ma noi non avevamo
nè biciclette nè ricreatori, nè giornali
quotidiani, nè cinematografi, nè riviste illustrate;
la sigaretta (o spagnoletta come si chiamò dapprima) non era
ancora inventata; il tempo bisognava passarlo e ci bastava, di
quando in quando, modesto sì ma giulivo trastullo,
quell’esercizio. Nel quale (che par facile a prima giunta e non
è, e chi non lo crede si provi) alcuni si fecero via via
addirittura sbalorditoi; primo fra tutti Arnolfo Zei, giovane
carissimo e coltissimo morto poco più che trentenne.
Raccontai già, anni sono, un’audace sua prova: ma,
perchè la morte di lui era recente, tacqui il suo nome, feci
anzi di tutto affinchè non si indovinasse. La cosa
andò realmente così. Nel ‘60 o nel ‘61, una sera, o
meglio sarà dire una notte d’estate, entrammo insieme in un
caffè di Piazza del Duomo, gremito di popolani, fiaccherai
specialmente, che avevano in pratica lo Zei abitando egli in que’
pressi. Nel giorno precedente era giunta notizia da Roma non so
più se di sentenze promulgate, di scomuniche lanciate o di
eccidi perpetrati; so che que’ popolani l’avevano maledettamente col
Papa e subito circuirono l’amico, quale chiedendo notizie maggiori,
quale bestemmiando a perdifiato, urlando tutti. A un tratto, fral
tumulto, una voce gridò:
— Via, sor Arnolfo, la ci faccia su una poesia. —
Urli daccapo e daccapo bestemmie per dar vigore all’invito. Lo Zei
tentò lungamente di esimersi, ma alla fine per levarsi quel
baccano d’attorno, si tirò in disparte e si provò a
buttar giù sopra un pezzo di foglio i primi versi d’un ideato
epigramma o sonetto: ma o che lì per lì non gli
venissero o gli seccasse il riflettere, o gli fosse impossibile tra
‘l baccano che seguitava, s’alzò col foglio in mano e grave
nell’aspetto finse di leggere, improvvisando ciò che scritto
non era. Rammento oggi più esattamente del sonetto la chiusa:
Piange l’ Italia come debil canna
E Pio tra’ vaticani antri fuggente
Co’ simulacri di Pompeo tracanna.
Non sto a dire gli applausi; scrosciarono fragorosi e lunghi, non
tanto lunghi bensì da permettere allo Zei di svignarsela; che
appena fece per muoversi le acclamazioni cessarono e quattro o
cinque gli furono intorno a fermarlo. La poesia era troppo bella,
volevano si stampasse; e sempre intorno quattro o cinque alla volta
a dimostrargli la opportunità che i torchi gemessero, con
argomenti fatti il più spesso di appellativi ingiuriosi per
il pontefice e di esclamazioni che li oltrepassavano. Poichè
stringendosi addosso allo Zei minacciavano di portargli via il
«manoscritto», egli brandito il foglio immacolato lo
levava col braccio in alto sul groviglio delle mani, gesticolanti
nel tentar la rapina; da ultimo, visto che da quelle strette non
poteva liberarsi altrimenti, si disimpacciò con uno scherzo
felice. Lasciò cadere il foglio e:
— Se siete buoni di rammentarvelo — disse — stampatelo pure; io vi
do carta bianca. —
Il foglio fu ansiosamente raccolto, il groviglio si
dipanò.... Rimasero male; risero ma a denti stretti; poi
l’ammirazione per un poeta capace di improvvisare versi così
belli si destò tanto reverente ed accesa, che gli applausi
scrosciarono più fragorosi e più lunghi di prima.
*
Nel sonetto io non m’arrischiavo; era superiore alle mie forze; ma
nei decasillabi la sfangavo, nei settenari e negli ottonari me la
cavavo discretamente; e qualche anno innanzi avevo fatto anch’io la
mia prova davanti a pubblico non di fiaccherai ma di laureati, in
occasione che merita si ricordi.
Mi pare nel ‘58, ma non posso asserirlo: certamente dopo il ‘56 e
prima del ’59 venne a Montecatini Massimo D’Azeglio.
Fermiamoci un momento. Chi si figurasse il Montecatini di sessanta
anni fa quale è di presente, andrebbe con l’immaginazione
molto lontano dal vero. Tanto oggi il frastuono ed il moto, quanto
allora il silenzio e la quiete. Ho veduto io coi miei propri occhi
una mandata di capiscarichi usciti dal bagno con l’accappatoio
ballare il ronde in un pomeriggio di luglio sul gran viale del
Tettuccio, me unico spettatore. Governavano l’amministrazione delle
Regie Terme tre deputati scelti dal Granduca fra i cavalieri di
Santo Stefano, ognuno dei quali per turno aveva obbligo di risiedere
un mese a Montecatini nei tre della stagione balneare; cioè
dal giugno all’agosto, che alla fine d’agosto il Direttore, l’ottimo
professore Fedeli clinico dell’Università di Pisa, chiudeva
bottega e se ne andava in villeggiatura. Compenso alle cure
amministrative della Deputazione, di cui fu per molti anni
presidente Domenico Giusti padre del poeta, un quattrino (un
centesimo e mezzo) per ogni firma apposta al cartellino onde
avvolgevasi il tappo de’ fiaschi a garantire la genuinità
delle acque. Un migliaio di persone, o poche più, quasi tutte
toscane o dimoranti in Toscana, vi cercavano ristoro agli stomachi o
agli intestini malati; tutte accolte nella Locanda maggiore che
maggiore poteva facilmente intitolarsi, visto che era la sola, gli
altri ricettacoli non meritando nome di locanda. Per tre paoli (L.
1,68) Giuseppe Valiani pistoiese forniva il desinare: cibi copiosi e
gustosi e vino finchè lo stomaco ne contenesse,
cosicchè i liquidi si alternavano abbondanti del pari; otto
bicchieri di Tettuccio la mattina, altrettanti di vino la sera e gli
stomachi, pare, si giovavano dell’una e dell’altro. Per tutto
divertimento una trottata sul cadere del giorno verso i paesi
circonvicini, dopo il pranzo una partita a tombola nella sala del
Casino, toscanamente, cioè con molta parsimonia, illuminata.
Scarsa la clientela, ma tra i consueti frequentatori dei Bagni,
alcuni illustri; non ancora il Verdi che vi fu poi per trenta anni
di seguito; ma il Rossini il quale desiderava gli amici sapessero
che beveva il Tettuccio alla loro salute: e sebbene, come avvertiva
in una lettera al Fabi, «la vita di Montecatini» non
fosse «molto brillante» egli tuttavia trovava modo di
passar bene la giornata «facendo musica con la
Granduchessa».
Nel luglio del ‘43 Gino Capponi scriveva da Montecatini al
Vieusseux: «Il Capei sta bene e così il Salvagnoli il
Giusti e il Guerrazzi che abbiamo qui dove cerca di addolcire la
bile; e sia l’acqua del Tettuccio o gli anni, mi pare un poco
ammansito». Pareva, ma il fegato era quello di prima e di poi;
tanto che venuto a disputa col Salvagnoli intorno alle armi dei
Soderini per saper «se facessero palme o corna di cervo»
incollerito dalla contradizione si sfogava rabbiosamente in lettere
a Niccolò Puccini, con aspre parole tacciando il Salvagnoli
d’ insolenza e di petulanza.
*
Chiudiamo la digressione.
Venne, dunque, a Montecatini Massimo D’Azeglio. A Monsummano quattro
chilometri distante soleva passare l’estate, nella propria villa un
mio zio, Giulio Martini il quale, ministro di Toscana alla Corte di
Sardegna dal ‘48 al ‘51, aveva seguito Carlo Alberto al campo di
Lombardia, e stretta poi amicizia col D’Azeglio a Torino, quando
questi fu Presidente del Consiglio e ministro degli Affari esteri.
Ora non vecchio, ma quasi cieco e tormentato da molta varietà
di malanni se ne stava, come ho detto, una buona metà
dell’anno in campagna, e il D’Azeglio quando capitava a Montecatini
veniva, durante il breve soggiorno, a visitarlo più volte.
Seduti sotto un platano centenario frondeggiavano a tutto spiano
ambedue: l’uno quantunque tutt’altro che liberale, nel senso che si
dà oggi a questa parola, scontento del modo onde la Toscana
era governata; l’altro contento del manifestare a un amico discreto
la cordiale antipatia per colui che egli chiamava nelle proprie
lettere «quel birichino del Cavour».
In quel medesimo anno, al tempo stesso che il D’Azeglio furono a
Montecatini Luigi Alberti scrittore di commedie a quel tempo poco
noto fuor di Toscana, ma in Toscana notissimo, Piero Puccioni, che
allora praticante nello studio Salvagnoli, preparantesi,
cioè, all’esame di avvocatura fu poi un de’ principi del
foro, deputato, senatore del regno e ministro no, perchè non
volle: finalmente Leopoldo Cempini avvocato di grido, del quale si
lodava un volume di versi Fiori e Foglie edito a Torino, in Toscana
distribuito clandestinamente, oggi dimenticato: versi facili, in
quella sonante indeterminatezza di forma che lusingava le orecchie e
gli intelletti degli Italiani, ma caldi di affetto patrio e tutti
inneggianti a Casa Savoia:
Se di dolenti musiche
Me Dio talor consola,
Se de’ concenti l’Angelo
Talor discende a me,
Questo mio cor sui margini
Del Po con gli estri vola,
Inni e corone a spargere
Sopra l’avel d’un re.
L’Alberti era amico di casa; gli altri due avevo conosciuto nelle
redazioni de’ giornali umoristici ne’ quali essi di tanto in tanto
scrivevano e ov’io già bazzicavo. Quando, ottenutane licenza,
da Monsummano filavo a Montecatini per arrischiare il mio obolo
sulla cartella della tombola, sempre si divertivano a farmi fare il
giochetto degli improvvisi, sempre, ben inteso, senza senso comune.
Una volta mentr’ io tiravo giù decasillabi capitò nel
crocchio il D’Azeglio: e tanta fu la soggezione che non potei
più spiccicare parola. Ma perchè egli, incuriosito,
con molta garbatezza pregò che mi riprovassi, la soggezione
messa da parte, ricominciai. E il D’Azeglio a riderne prima, poi a
dire che quantunque non si facesse che accozzare parole come viene
viene, tuttavia il farlo con rapidità, senza intaccare, il
trovare la rima speditamente, non era forse consentito se non ai
Toscani ai quali suona in bocca tutto quanto il vocabolario; e via
via una dissertazione piacevolissima in difesa di quelle che erano e
non ancora si chiamavano le teoriche manzoniane.
Poco dopo, riapertasi al D’Azeglio la ferita buscata nel ‘48 sui
Colli Berici gli toccò stare in casa più giorni; e
insieme col dolore che quella gli cagionava, sopportare le lunghe
visite quotidiane di uno dei più pervicaci fra quanti
innumerevoli seccatori vennero al mondo. Era un tale Stra....
veneto, dottore non so se di medicina o di legge, alto, grosso,
biondastro, sulla cinquantina; il quale imbattutosi nel D’Azeglio a
Montecatini e avvicinatolo, come facilmente avviene nei luoghi di
bagni, gli s’era, per così dire, appiccicato e non lo
lasciava. Ignorante, a malgrado della laurea, appaltone, borioso,
non si accompagnava al D’Azeglio per ascoltarlo (che era, tra
l’altro, parlatore piacevolissimo), per imparare qualche cosa, per
procurarsi in quelle conversazioni un godimento intellettuale; no:
gli bastava, ostentando quella conoscenza, farla credere
intrinsichezza e vantarsene. Subito che lo seppe ammalato
«Vado a farghe compagnia a Massimo», sfringuellò
tra’ bagnanti (e bisognerebbe io potessi descrivere gli
atteggiamenti suoi). «Vado a farghe compagnia a Massimo»
e gli si cacciò in camera dalla mattina alla sera. La gente
che lo conosceva meravigliava della sua sfacciataggine e della sua
balordaggine: e meravigliava altresì della pazienza del
D’Azeglio che non metteva quel seccatore alla porta.
Mio zio s’informava giornalmente della salute dell’ illustre amico
suo; un giorno mandò me a prendere notizie. Chiestele al
cameriere della Locanda Maggiore e questi al D’Azeglio stesso in mio
nome, fui fatto entrare in camera sua. Se ne stava disteso sopra una
chaiselongue presso alla finestra: sui ginocchi un fascio di lettere
e mezzo aperto un numero del Journal des Débats. In faccia a
lui, in poltrona, l’ importuno dottore.
Non ricordo ora appuntino come andassero le cose, nè ho a
mente tutti i particolari della conversazione. Fatto sta che dopo
avermi incaricato di ringraziare lo zio e dirgli che sarebbe tornato
a vederlo prima di andarsene da Montecatini, postami una mano sulla
spalla e rivolto al dottore:
— Vede? — soggiunse, — questo ragazzo è un portento. —
E qui lodi a bizzeffe, e la narrazione de’ miei prodigi. Io capivo
che canzonava qualcheduno, ma non ero sicuro che canzonasse
quell’altro e me ne stavo chiotto, a testa bassa, senza fiatare.
Alla fine:
— Via — disse — ci improvvisi qualcosa. —
Dopo tanti anni chi può con verità esprimere
ciò ch’io provai per quelle parole? Ma c’è da
figurarselo. Lo guardai, egli mi incitò novamente e: — Le
darò io il soggetto: Napoleone — e così dicendo mi
guardò fisso a sua volta: mi parve leggergli nella fisonomia:
non abbia paura, si fidi di me.
La scelta dell’argomento non fu fatta a caso; allora non ci pensai e
neppure in seguito avrei ricordato, se non soccorreva la memoria
altrui. Mio zio, che malato d’occhi da sè non poteva, pregava
me ed altri, ma più spesso me di leggergli gli ultimi volumi
del Thiers, Histoire du Consolat et de l’empire, pubblicati di
fresco. Il D’Azeglio venendo giorni innanzi a fargli visita aveva
trovato appunto me a leggere, lo zio ad ascoltare: considerò
che Napoleone lo conoscevo e avrei perciò potuto più
facilmente improvvisare «qualcosa».
Mi fidai: in fondo che cosa rischiavo? Era uno scherzo e il dottore
accortosi che era uno scherzo ne avrebbe sorriso lui per il primo.
Altro che scherzo! via via sfilavo il rosario delle parole unite a
caso l’Azeglio ammiccava al dottore come a dire: Eh? che roba! e
l’altro rispondeva, con movimenti del capo e delle mani significando
la propria sodisfazione. Al termine d’ogni strofa l’Azeglio
sussurrava «benissimo:» e il dottore gridava «Ma
belo! belissimo! meraviglioso!».
Non sapevo più in che mondo mi fossi. Dette poche strofe, mi
fermai; una tale specie di improvvisi ha questo di buono, che strofa
più strofa meno non monta: si può sempre smettere
quando ci accomoda.
E qui venne il bello per me; ero stato, non senza qualche
trepidazione, sul palco scenico, m’era ora permesso di divertirmi in
platea. Il D’Azeglio provocate con nuove lodi le nuove
manifestazioni entusiastiche dell’altro uditore, prese a domandargli
replicatamente:
— Lei ha capito tutto, non è vero? —
E il dottore:
— Caspita! capito, capitissimo.
— Ha capito (mettiamo, ch’ io non intendo riferire le parole
precise) l’accenno al 18 brumaio e al Congresso di Vienna?
— Eh! eccome! —
E così di seguito; finchè quegli, il quale non aveva
capito che non si poteva capire, forse temendo qualche domanda
più categorica, si arrischiò a dire:
— Solo le ultime strofe le me pareva un poco scurete.
— Oscurette? Chiare invece come la luce del sole. — Aiutandomi il
marchese, riuscii lì per lì a ricordarle: ed egli,
fattosi dare un lapis, sul mezzo foglio rimasto bianco di una delle
lettere che teneva sulle ginocchia, le scrisse di proprio pugno;
singolare autografo, lo conservo tuttora.
Le strofe dicevano:
Tu dal talamo nemico
Discendevi ai rii gemmati
Nel fulgor di Federico,
Quando i prenci collegati
Di Boulogne alla vendetta
Ispiraron la saetta
Che Sant’Elena ferì. ‘
Tu le scizie ispide grotte
Alla storia hai consacrato,
Ma t’attendon Montenotte
Dego Rivoli e Lonalto;
Tu pontefice gagliardo
Copri l’arpa e accenni il bardo,
Spengi gli astri e annunzi il dì.
Che gioco del Sibillone? Il Goldoni che si vanta d’essersi fatto in
quello grande onore a Pisa può andare a riporsi. Non mai,
credo, fu adoperato tanto sforzo d’ ingegno e tanto sfoggio di
dottrina per dimostrare la profondità del pensiero dove
pensiero non è. L’Azeglio dopo un «zitto lei»
(burlesco ammonimento a me ch’ei sapeva non aver alcun desiderio
d’aprir bocca) illustrò ad uno ad uno quei versi; non
ricordo, e me ne dispiace, tutti i curiosi arguti commenti: so che
il talamo era nemico perchè vi giaceva la figlia
dell’imperatore d’Austria, che i rii gemmati erano i fiumi della
Prussia, gettatavi da Napoleone la corona degli eredi di Federigo
secondo: che cuopri l’arpa e accenni il bardo era una limpida
allusione al Mack e alla battaglia d’Ulm, che spegni gli astri e
annunzi il dì significava chiudersi con Napoleone un’
êra, e sorgerne per lui una più fausta. Tutto
ciò, s’intende, dimostrato senza ridere, e a furia di
ragionamenti e di storia. E il dottore interrompeva: — Ma bene,
benone, ciaro, lampante, chiarissimo! —
Io me ne tornai intontito a Monsummano; il dottore uscito di
là se ne andò alla Torretta, proprietà a quel
tempo di un Conte Bandini, orgoglioso di spifferare che aveva
passato un’ora deliziosa «da Massimo» dove il Tale dei
Tali, «un ragazzo che xe un miracolo» aveva improvvisato
versi stupendi su Napoleone. Raccontato il fatto, fu presto intesa e
propalata la burla. Ventiquattr’ore dopo il dottore, intesala
finalmente anche lui, fece fagotto e partì in fretta e furia
da Montecatini.
*
L’Azeglio al rivedermi mi salutò «suo
liberatore»; e dell’aver contribuito a liberarlo da
quell’uggioso mi ripagò poi con una benevolenza, che m’
è oggi carissimo il ripensare e che alcune sue lettere
attestano: una anzi mi torna bene pubblicarla qui: le furono
occasione certi Cenni sul teatro drammatico in Italia,
librettucciaccio perpetrato a diciotto anni e del quale, a venti,
stimai non dovesse ulteriormente privarsi la patria letteratura.
Lo mandai al D’Azeglio ed egli mi scrisse:
Cannero Lago Maggiore 15 giugno ‘62.
Stimatissimo Signore,
Ho ricevuto la lettera e l’opuscolo che cortesemente volle mandarmi
e d’ ambedue la ringrazio di cuore.
Le idee che Ella accenna circa l’arte teatrale furono per un pezzo
argomento di pensieri, studii e persino di qualche informe mia
prova. Malgrado il castigat ridendo confesso non fare un gran
fondamento sulle prediche fatte dal palco scenico per la riforma
morale d’un popolo e mi par di vedere che questi predicatori hanno
all’incirca la medesima fortuna degli altri. Ma credo tuttavia che
mediante rappresentazioni sceniche si possa creare e certamente
rinvigorire certi sentitimenti, che sono pur parte del senso morale,
come sarebbero la generosità, la fortezza, la grandezza
d’animo, l’onor militare, l’amor patrio, ecc. ecc.
Il teatro spagnuolo da Lei opportunamente citato, mi sembra prova
evidente di quanto dico e non mi ricordo aver veduto nelle sue
antiche produzioni una linea che esprimesse una viltà ed
inducesse lo spettatore a sensi bassi e disonoranti. C’è anzi
dominante il senso opposto, spinto ad esagerazioni ridicole
talvolta, ma dei due difetti preferisco questo. Difatti la Spagna
è moralmente più corrotta dell’Italia, ma v’è
rarissima la viltà. Preferisco e credo più utile
all’educazione dello spirito pubblico, o meglio del sentire
pubblico, tutto el ciclo del Cid, de los Infantes de Lara,ecc. ecc.,
malgrado il gonfio delle parole e delle idee, che il Ludro e la
Signora delle camelie (introdotta sul nostro teatro forse per
premura verso il bel sesso) che al calare del sipario lasciano
questa semplice idea nel cuore dello spettatore: che quel vergognoso
e vile imbroglione è pure un caro matto ed è il solo
nella commedia che la sappia lunga, ecc. ecc., e che quella
signorina che si vende a tempo come un legno di piazza ed è
presa dal mal sottile per abuso di liquori e di champagne, è
il tipo della generosità e del sacrifizio, mentre tutti i
galantuomini del dramma non sono che povera meschina gente.
Tornando dunque a quel che le dicevo principiando, io credevo e
credo che si possa favorire certi sentimenti utili ad un
risorgimento nazionale coll’ istrumento del teatro ed avrei avuto
smania di provarmici quand’ero giovane; ma oltre a mancar d’attori e
di lingua non mancavo pur troppo d’ I. R. censure! Era proprio
inutile nemmen pensarvi.
Dico che manchiamo di lingua, perchè senza lingua viva,
generalmente accettata, non si scrive dialogo in prosa. Lingua viva
non c’è che in Toscana, dico lingua accettabile. Dunque a
loro signori Toscani! Tocca a loro a scrivere per il teatro e ad
occuparsi del suo risorgimento, e mi permetta di rallegrarmi con
Lei, e ringraziarla perchè appunto se ne occupa.
Ora non ci son più polizie. È un ostacolo di meno.
Mancano attori e lingua: nè gli uni, nè l’altra
possono arrivare in fretta. La lingua è la più
importante. Secondo me costituisce la nazionalità; e questa
sarebbe una delle ragioni per le quali vorrei la capitale a Firenze,
voto che, com’ Ella sa, riscosse applausi così caldi ed
universali. Ma non importa. Prima qualità d’ un uomo libero
è osar esser solo contro molti.
Questa lingua, senza la quale non può esistere teatro,
è al tempo stesso, resa popolare col teatro. Ma, ripeto, i
Toscani soli possono scrivere, perche hanno la lingua viva. Com’Ella
sa. Machiavelli, parlando delle commedie d’Ariosto, diceva:
«Messer Lodovico de’ modi ferraresi non si contenta, i toscani
non sa!». Ora mi permetta di parlarle con molta franchezza e
me la perdoni. I Toscani, in genere, quando scrivono, par quasi si
studino di rifiutare quella lingua che sanno solamente loro, per
adottare invece quell’altra che sappiamo tutti. Perchè il
dialetto toscano è divenuto la lingua italiana? Perchè
dal 3 al 500 si trovarono certi grandi ingegni che scrissero la
lingua loro senza ricordarsi, per fortuna, della sentenza di Dante,
sulla lingua illustre che in ogni città appare ed in nessuna
riposa. Riposa vivaddio! in Toscana e non può essere
altrimenti a voler avere tale lingua italiana.
Dunque, lo dico ancora una volta, scrivano i Toscani, ci insegnino e
noi impareremo. Essi potranno contribuire potentemente alla vera
unificazione d’Italia, non solo colla lingua, ma istituendo un
teatro, che, a somiglianza e meglio dello spagnuolo, elevi i
caratteri, insegni la fortezza, la generosità, il sacrifizio,
e tutto quanto è compreso nel bello morale. Finchè in
Italia non saranno messi di forti e grandi caratteri, è
follia l’immaginarsi di essere una forte e grande nazione. Colla
canapa fradicia non si fa un canapo potente, nè con carni
corrotte una vivanda salubre.
Non so in verità se debba aver coraggio di spedirle tutte
queste ciarle sfuggitemi, e che, lo creda, se sono una colpa non vi
fu almeno premeditazione. Mi sono uscite dalla penna perchè
il suo opuscolo ha toccata una corda che vibrerà in me,
credo, anche sotterra: quella della rigenerazione morale degli
Italiani. Tacere mi era impossibile, potevo bensì esser meno
diffuso; ma è difetto dell’età ed è bello ai
giovani sopportarlo con pazienza.
Suo dev.mo
Massimo D’Azeglio
*
Ho udito raccontare che Re Vittorio Emanuele II, portagli dal
segretario una lettera diretta Al primo cavaliere d’Italia disse: —
questa non viene a me, va a D’Azeglio. — Vero o no che l’aneddoto
sia, è bensì certo che l’Italia non ebbe a quei tempi
più gentil cavaliere: nessuno in contegnosa dignità
più alla mano di lui; quanti lo conobbero seppero e sanno che
nella umana signorilità, nell’amabile cortesia dei modi,
l’Azeglio può essere eguagliato, non superato.
In questa stessa lettera quanta delicatezza di circonlocuzioni per
arrivare a lasciarmi intendere che il mio opuscolo era bestialmente
scritto, e quante scuse dell’avermelo fatto capire. Di rado
ammonimento fu dato con più cauta grazia e di rado aggiungo
produsse effetti più solleciti e salutari. Dopo quello e per
quello diedi tuffi quotidiani, lunghi, ostinati nel vocabolario;
vennero in seguito le indagini e le riflessioni per conoscere se
veramente basti a noi toscani lo «intingere la penna in
bocca» come aveva altrove suggerito il D’Azeglio medesimo e se
quel suggerimento non dicesse ad un tempo troppo e troppo poco, non
fosse manchevole e iperbolico insieme. Quali che sieno stati e sieno
i frutti delle lunghissime prove, di là mi vennero l’impulso
e la guida; e mi è caro dirlo pubblicamente, che gratitudine
vera è amare la memoria del benefizio e compiacersi nel farlo
noto ad altrui.
Vidi l’ultima volta l’Azeglio nel 1865 a Firenze in via Ricasoli,
dov’egli andava a visitare un amico. Era di cattivo umore e partiva
il giorno dipoi. La nuova capitale stava per accogliere il governo e
le Camere e dappertutto ferveva il lavoro di preparazione e di
adattamento. — Me ne vado; disse a Palazzo Vecchio hanno distrutto
affreschi, credo di Cecchino Salviati, a Palazzo Riccardi mettono le
persiane, sciupano Firenze ed io non voglio vedere. — La noia
inflittagli dal dottore veneziano a Montecatini gli era sempre nella
memoria; mi strinse la mano e sorridendo: «A rivederlo mio
liberatore».
IX.
Nel "Bel Mondo”.
Il Presidente de Brosses, venuto a Firenze nel 1739
meravigliò del lusso arrogante che i signori fiorentini
sfoggiavano. Ogni sera, scriveva al De Blancey, conversazioni in
questo o quel palazzo, vasto tanto che chi non ne è pratico
vi si smarrisce come in un laberinto; riunioni di trecento e
più dame indiamantate, di cinquecento e più cavalieri
in abiti costosissimi, tali che lo stesso Duca di Richelieu maestro
di ogni eleganza e di ogni fastosità non oserebbe vestirne
dei simiglianti. E sale illuminate da candele innumerevoli, e
rinfreschi serviti di continuo e senza risparmio, e balli e canti e
concerti de’ più celebri violinisti d’Europa.
Lampi in notte buia: che la cronaca del «bel mondo»
durante la dominazione degli ultimi Medici e de’ Lorenesi non offre
molti esempi non dirò di tali splendidezze, ma neppure di
pompe meno magnificenti. Un altro francese Casimiro Freschot autore
dei Mémoires des cours d’Italie, che per Firenze passò
una trentina d’anni prima, meravigliò, all’opposto, della
sordidezza de’ signori «sia che dispregino i comodi della
vita, sia che le imposte onde sono gravati li costringano ad ogni
maniera di economie».
E dal 1750 in poi cavalieri e dame danzano, cantano, si rinfrescano
sì, ma in casa di ricchi inglesi, russi, francesi, o da S. E.
Corsini, quando l’ufficio suo di maggiordomo maggiore della
Granduchessa gli fa obbligo di convitarli ad una festa da ballo, in
contemplazione delle Loro Altezze i Granduchi di Saxe-Teschen o
d’altri principotti viaggianti per la Toscana; ma in casa propria
non danno più un bicchier d’acqua a nessuno.
Testimone la Gazzetta toscana piccolo foglio che Anton Francesco
Pagani «stampatore e libraio dalle scalee di Badia»
mandava fuori ogni settimana «con approvazione»;
approvazione concedutagli a patto si limitasse a pubblicare l’arrivo
e la partenza de’ forestieri, le nascite, gli sposalizi, le morti
de’ nobili, le nomine de’ ciambellani e quelle delle Dame di Corte
secondo le loro diverse categorie - Grande entrée e Cammer-zu
trit nel dar notizia de’ passatempi e de’ ritrovi, nel descrivere le
feste pubbliche e le private. Diciamo tutto: forse per appagare un
desiderio degli studiosi, anche fu conceduto la Gazzetta annunziasse
libri nuovi «di particolare merito e utilità»; e
cominciò difatti con l’annunziare La Frine sessagenaria,
romanzo bellissimo che può divertire senza essere di danno ai
doveri dell’uomo saggio, il Creatore dell’ universo, poema eroico
del dottor Mauro napoletano, le Rime toscane del signor Paolo
Francesco Fioravanti pistoiese e il Dialogo fra la Menica e Geppino
parrucchiere.
Or bene: di ogni pranzo, d’ogni ballo, d’ogni accademia la Gazzetta
ragguaglia, talora minutamente; e son sempre e tutti francesi,
inglesi, russi i nomi dei festaioli e degli anfitrioni: accademia
dal cavalier Kingman, cena da Lord Zinley, trattenimento dal
marchese di Ligneville, ballo dal signor de Barbantane
plenipotenziario di Sua Maestà cristianissima; pranzo ieri,
ballo oggi, domani opera in musica alla Villa Palmieri fuori di
porta San Gallo da Giorgio Nassau Clavering quinto Lord Cowper,
quell’istesso
Nassau di forte prole magnanima
a cui Giovanni Fantoni–Labindo - intitolava una delle odi e che
erigeva in Santa Croce a proprie spese il monumento a Niccolò
Machiavelli. Che se «per omaggio al conte Alessandro
Orloff» il marchese Lorenzo Ginori, rara avis, s’induce ad
offrire a lui e alla nobiltà Fiorentina «un concerto
istrumentale tramezzato da qualche aria assai bravamente cantata
dalla signora Maddalena Morelli detta ‘Gorilla Olimpica’ vi si
induce forse per questo: tante feste e con tanto sfarzo dette
già l’Orloff, tante laute cene alla nobiltà fiorentina
imbandì «la ufficialità moscovita per celebrare
l’assunzione al trono di Sua Maestà l’Imperatore delle
Russie», che parve non si potesse decorosamente non render
loro, fosse pur modesto, un contraccambio.
Tutto ciò avvertono e notano i viaggiatori e del vivere
taccagno dell’aristocrazia che prende e non dà, s’indugiano
nel ricercare le cagioni; e chi ne dice una chi un’altra. Quegli
opina che le famiglie un tempo facoltose abbiano speso troppo
nell’edificare ville e palazzi; questi le afferma rovinate dalle
villeggiature e dal gioco: e giocavano, è vero,
maledettamente; vizio così radicato e sfacciato che coglieva
occasione persino dalle gioie più care della famiglia: per
festeggiare le nozze di un marchese Niccolini, i parenti De Bardi,
Rossi, Del Beccuto, Bartolini, invitano e la Gazzetta riferisce a
«conversazioni di gioco»; altri suppone finalmente il
patriziato fatto cauto e impensierito dalla minacciata abolizione
dei fidecommissi e così di seguito. Ipotesi senza fondamento:
le ricchezze c’erano e c’era la voglia non che di spenderle di
ostentarle, tanto è vero che Pietro Leopoldo, con la
circolare dell’agosto 1781, ammoniva quell’istessa nobiltà
che smettesse il lusso soverchio degli abbigliamenti:
«dall’eccesso o dalla moderazione del vestiario» egli
giudicherebbe «della saviezza o della debolezza del
pensare».
Lady Morgan, saccente al solito, dopo molti anni e molto
sdottoreggiare, pesca una spiegazione nella psicologia.
Secondo lei il più vivo desiderio del fiorentino a qualsiasi
ceto appartenga è vivere senza soggezione: tutto ciò
che sappia di parata, di sussiego, tutto che nel contegno costringa
all’osservanza di certi rigidi precetti, non gli va; e però
nelle case inospitali del patriziato anti-socievole non radunanze,
non feste. Sia: resta bensì a sapere, e la illustre
viaggiatrice non spiega, come la suggezione insopportabile fra le
mura domestiche divenisse tollerabilissima quando si trattava di
ballare o sbafare in casa degli altri....
Ma v’ha chi sopravviene e soggiunge: non state tanto a disquisire;
non si possono dar feste in palazzi dove in vastissime sale arde
unica difesa contro al freddo un braciere, ove la padrona
incappottata batte tutto il giorno i denti con lo scaldino fra le
mani e il caldanino sotto i piedi.
Il Conte del Nord che fu poi l’imperatore Paolo I, aveva già
osservato nell’ 82: in Russia il freddo si vede e a Firenze si
sente.
*
Tralasciamo di cercar le ragioni e teniamoci ai fatti. La Morgan
viaggiò in Toscana nel 1820: e dal ‘20 al ‘46, gli anni che
Firenze ebbe più tranquilli e godè più allegri,
anfitrioni e festaioli de’ quali si trovi ricordo in giornali, in
carteggi, nelle relazioni di altri viaggiatori, sono, salvo
pochissime eccezioni, tuttavia forestieri ossia inglesi nel
linguaggio del popolo. (Alessandro Dumas il quale fu a Firenze in
quel tempo racconta che il cameriere della locanda ov’egli abitava,
gli annunziò l’arrivo di una famiglia forestiera così:
— Sono arrivati degli inglesi, ma non si capisce se sono russi o
tedeschi — ).
Primi nella fastosa ospitalità i ministri plenipotenziari
dell’Inghilterra e dell’Austria: Lord Burghersh conte di
Westmoreland, il successore di lui lord Holland, i Bombelles dei
quali dicevano:
Pourquoi ces gens là s’appellent ils Bombelles?
Le mari n’est pas bon, la femme n’est pas belle;
poi il duca di Talleyrand e ancora una Orloff, e altri inglesi,
russi, francesi come ai tempi di Pietro Leopoldo. Nel carnevale del
1830 Lord Burghersh fece rappresentare nello stesso palazzo della
Legazione britannica in Borgo Pinti un melodramma, Fedra del quale
aveva scritto le parole e la musica. Vi convenne la Corte, il
melodramma naturalmente ottenne unanimi applausi e al calar del
sipario Tommaso Sgricci incensò il nobile autore con questa
ottava improvvisa
Quando col genio tuo stretto a consiglio
Nelle smanie di Fedra t’ispirasti
Pioveanti ardenti lacrime dal ciglio
E col pianto le note auree vergasti.
Ma poi che di Teseo l’inclito figlio
Col suono incitator ratto evocasti
Bardo d’italo ardir, pinger credesti
Virtudi antiche e il tuo gran cor pingesti.
E come nel ‘30, così sedici anni dopo non v’è signore
fiorentino il quale apra i propri salotti, scrive nel ‘46 il pittore
Colbert; che figlio di un generale della «grande
armata», accolto con cordiale affabilità dal Principe
di Montfort, ossia Girolamo Bonaparte, descrive affollate le sale
del costui palazzo in via Larga sul canto di via degli Alfani:
pranzi e radunanze nei quali l’ex re di Vestfalia divorati
già alquanti milioni, lasciava ora altrui spelluzzicare gli
assegnamenti, che gli passavano il cognato re del Vurtemberg e la
figliola Matilde.
Tanto prodigo il Principe di Montfort, quanto spilorcio il fratello
conte di Saint Leu, Luigi ex re di Olanda, che abitò
anch’egli lungamente a Firenze e vi stampò co’ tipi del
Piatti due volumi di tragedie, drammi, versi francesi e italiani.
Gretto, gelido, presuntuoso, riottoso, noioso, l’unico de’ fratelli
di Napoleone che non ispiri qualche simpatia, chi studia la vita e
l’indole sua perdona alla moglie Ortensia gl’incauti trascorsi.
Marito sfortunato e poeta sgrammaticato
(Amici e donne lacerommi il core
E il mondo tutto mi renderò alieno)
non si peritò di far l’elogio del matrimonio in un poema di
quattro canti e si atteggiò a dongiovanni fortunatissimo. I
suoi volumi abbondano di poesie fuggitive a Sofia, a Enrichetta, a
Lisa, a Cathi, a Vittoria: fuggitive come le amanti, le quali, si
rileva dalle canzonette medesime, lo adoravano da Wiesbaden
quand’egli era all’Aja e da Parigi quand’era a Roma.
(O tu costante fin dell’arder pio
nell’amarti anche assente è la mia gloria);
e veramente per volergli bene bisognava starne lontani.
Vanitoso, ambiva un seggio in Elicona poichè regni oramai non
gli era più lecito ambire; condannava anzi i disegni di
rivendicazione che sin d’allora mulinava l’irrequieto secondogenito
Luigi Napoleone: e un po’ per avarizia, un po’ forse per timore che
il danaro somministrato a quel sognatore d’imperi andasse a
sovvenire macchinazioni e congiure, pare lo tenesse a stecchetto.
Alcuni anni dopo la assunzione all’ impero, si raccontava da chi lo
praticò durante il suo soggiorno a Firenze che, partendone
nel ‘31 intrafinefatta col fratello per prender parte
all’insurrezione delle Romagne, lasciò alquanti debiti,
pagati sì, ma molto più tardi. Uno, questo è
certo, non fu pagato mai: nel 1856 intanto che «la colonna
splendea come un faro» certe guantaie che avevano negozio in
via de’ Calzaioli mostravano e vidi anch’io un biglietto col quale
il futuro Napoleone terzo ordinava cravatte; e al biglietto
appuntata con uno spillo la fattura non mai saldata, se non oggi dal
valore di que’ documenti. Facile dimenticanza per essere il debito
di poche lire: che egli aveva, del resto, memoria tenacissima, di
cui posso io stesso offrire una prova.
Luigi Napoleone fu a Firenze, una seconda volta (v’era già
stato nel ‘27 col suo precettore Filippo Le Bas figlio del regicida)
dall’autunno del 1830 al febbraio 1831. Per deludere la polizia
vigilante e nascondere le macchinazioni temute dal padre, i colloqui
con Ciro Menotti e Guglielmo Libri, il carteggio co’ Bonapartisti di
Francia, si dava bel tempo, menava in apparenza vita di spensierato,
unicamente dedito agli esercizi del corpo e ai divertimenti; dei
quali frequente il giocare alla palla con giovanotti dell’età
sua, e tra questi mio padre, nel giardino Torrigiani prossimo alla
Porta Romana. Un giorno, sul finire d’una partita gareggiata
così che la vittoria dipendeva da un ultimo colpo di
tamburello, stavano contro altri e ansiosi tutti, il Bonaparte e mio
padre. Questi fece con singolare destrezza il colpo e la vittoria fu
sua e del compagno, il quale, stringendogli la mano e sorridendo:
— Bravo Martini — disse — bella palla! Quando sarò imperatore
dei francesi vi manderò la commenda della legione d’ onore.
Più che venti anni dopo, nel 1853, mio padre aveva condotti i
negoziati per un trattato di commercio fra la Toscana e la Francia e
la commenda venne; e fin qui nulla di stupefacente; ma insieme con
una lettera del signor Drouyn de Luys, una lettera autografa
dell’Imperatore, la quale, non so se donata o malauguratamente
smarrita, ma di cui ben ricordo il contenuto e le ultime frasi,
diceva presso a poco così: — Mio caro signor Martini. Il mio
ministro degli Affari Esteri vi rimette le insegne della Legione
d’Onore. Mi compiaccio che invece di ricompensarvi di un bel colpo
di palla, esse vi attestino la mia soddisfazione per il servigio da
voi reso ai nostri due paesi. —
*
Torniamo ai salotti. Il Ballo del Giusti scritto nel ‘37 e emendato
nel ‘42 è una pagina di cronaca: gli ospiti di Chilosca
(notiamo: data al solito la festa da una forestiera russa o polacca)
il quondam frate, il ritinto nobile, il ferito a Rimini, il martire
della cravatta furono, il poeta assevera, figure create dalla sua
fantasia; crediamogli, ma la fantasia li creò così
rassomiglianti a persone vive, che la gente, conosciuta la satira,
non indugiò nell’appore a ciascuna di quelle figure un nome
scritto ne’ registri battesimali. Comunque, e dato che la gente
s’ingannasse in tali attribuzioni, la cronaca nulla perde della sua
verità; e se il Giusti andò nell’iperbole affermando
che a un vandalo qualsiasi bastava un rosbiffe per comprarci
l’anima, è per altro certissimo che a conti aerei e a dame
ambigue il bel mondo fiorentino fece stoltamente
«platea». E accadde così che un visconte di
Saint-Julien (questi se ben ricordo i falsi cognome e titolo
dell’avventuriere) largo spenditore e donatore accarezzato, col
quale marchesi e duchi vissero in intima dimestichezza e di cui
duchesse e marchese si contesero l’affetto, fosse trovato una
domenica sera a rubare le trine e gli scialli turchi lasciati dalle
signore nell’anticamera della villa del banchiere Fenzi a
Sant’Andrea.
Villa aperta d’autunno ogni domenica a largo stuolo di convitati,
così come d’ inverno il palazzo di via San Gallo, ove tra i
molti convenivano i clienti raccomandati al banchiere dai
corrispondenti d’ogni parte d’Europa; e non fu persona di qualche
fama che venuta a Firenze non vi capitasse: ieri Piero Maroncelli
uscito dallo Spielberg, domani il maresciallo Marmont, fuggente la
Francia che lo gridava traditore due volte, di Napoleone e di Carlo
X: accusa così universalmente creduta, che a Firenze i
minacciosi mormorii del pubblico lo costrinsero ad uscire dal
teatro.
Ospitalità quella dei Fenzi garbatamente cordiale, durata
finchè la fortuna del banco durò. Ricordo di aver
fatto in casa Fenzi e in occasione abbastanza curiosa, la conoscenza
della signora Emilia Peruzzi. Fu nel ‘58: ballavano: io che m’ero
messo il frac per la prima o seconda volta, che sapevo di ballare
malissimo e non volevo farlo sapere, mi davo l’aria dell’uomo
precocemente grave, il quale compatisce alle altrui debolezze ma
sdegna di parteciparvi e stavo sogghignando a vedere. La signora
Emilia Peruzzi di cui quanti la conobbero, primo Edmondo De Amicis,
che ne scrisse da par suo, ammirarono l’ingegno, la coltura, il
patriottismo, l’operosità infaticabile, era nelle vesti
piuttosto trascurata che inelegante. Aveva quella sera un abito di
stoffa grigia guernito nella parte inferiore con fiocchi di seta
color di rosa. Prese a ballare un valzer anche lei, e nel ballare
seminò i fiocchi che, o semplicemente appuntati o mal cuciti,
caddero tutti uno dopo l’altro. Io, accortomene, seguendo la coppia
e cansando le altre con molto industriosa ginnastica, li raccattai,
e quando cessato il valzer la signora si sedè, me le
presentai col gibus fatto custodia dei raccolti ornamenti. Zelo
fastidioso di ragazzo inesperto; avrei dovuto lasciare che i fiocchi
si calpestassero e non occuparmene. M’avvidi subito che la signora
non punto gradiva quei documenti della frettolosa negligenza di lei
o della sarta: tanto più che i nastri rovesciatile in grembo
e che lì per lì non sapeva dove mettere le erano un
impiccio e null’altro. Le labbra dissero, secco, un
«grazie»; lo sguardo il monito di essere, potendo, meno
sciocco in avvenire. E tanto fu significativo, che la conoscenza
incominciata a quel modo mi mancò poi - e me ne dolgo - il
coraggio di coltivarla. Un falso amor proprio, il rammarico d’essere
stato una volta così goffamente importuno alla signora,
sempre mi trattennero dall’avvicinarmele.
*
Altra eccezione i Poniatowski, che discendenti da un re di Polonia,
vollero cittadinanza toscana. Tre fratelli, ma Firenze non ne
conobbe che due; il terzo Michele deforme, fattasi della
deformità una infermità, si pose un bel giorno a
letto, e a letto rimase una trentina d’anni e fino alla morte.
Carlo e Giuseppe nacquero con singolari attitudini alla musica,
all’arte del canto particolarmente; attitudini che lo studio e
l’esercizio condussero a grande maestria. Sposatosi Carlo con una
contessa Montecatini cantatrice eccellente, i tre non sdegnarono di
montare sui teatri di Livorno, di Lucca, di Firenze ed aiutarvi con
gli incassi, pingui per la curiosità del pubblico e la
valentia degli artisti, questo e quello istituto di beneficenza. E a
Firenze si serbò lungamente memoria di una Lucrezia Borgia
rappresentata al teatro del Cocomero, spettacolo memorando anche per
questo: che fra un atto e l’altro si servirono a spese dei cantanti
rinfreschi agli spettatori e una cena da ultimo.
Prevedo l’osservazione: pubblico gratuitamente rinfrescato e nutrito
è facile alle indulgenze. Sicuro, ma di quella ch’io chiamai
valentia degli artisti fu giudice il Donizetti, che scrisse per loro
e nella casa loro la Parisina da rappresentarsi sul teatro imperiale
di Vienna: il Donizetti il quale asserì che la sua Lucrezia
non ebbe mai esecuzione come quella perfetta, e nessun tenore
cantò meglio di Giuseppe Poniatowski la cavatina di Gennaro,
nessuno con altrettale felicità di espressione.
Giuseppe anche compose: e una sua Esmeralda — libretto tratto dal
romanzo dell’Hugo Notre-Dame de Paris — fu rappresentata, cantandovi
egli stesso e il fratello, nel salone de’ Cinquecento, il San
Giovanni del 18463.
*
Dopo il ‘48 le voci dei cantori non furono più quelle, non
furono più molte altre cose oggi a dire superflue. Giuseppe
mandato ministro di Toscana a Parigi, restò là e fu in
seguito senatore dell’impero; Firenze vide ancora la Principessa
Elisa attorniata dalla affettuosa compagnia di amici numerosissimi;
seppe sovvenuta co’ resti dell’antica opulenza ogni utile
istituzione paesana; ma i balli di casa Poniatowski, splendidi
esempi di sontuosità signorile e di buon gusto,
bisognò si contentasse di ricordarli.
Si tornò a’ forestieri: balli, cene, pranzi, feste d’ogni
maniera dette nella magnifica villa di San Donato Anatolio Demidoff,
quali poteva darli chi pagava il proprio cuoco - Monsieur Francois -
dodici mila lire all’anno: sfarzo molto, gaiezza no; non c’era
più il brio d’una volta; il Demidoff e la marchesa Esterhazy
Boccella, che fungeva da padrona di casa, accoglievano, e
lietamente, gli ufficiali austriaci; e dove questi fossero,
moltissimi dei giovani non andavano, peggio quando vi andavano.
I reggimenti del Kolowrat e del Kinski entrarono a Firenze nel
maggio del ‘49; prima che l’anno finisse, otto duelli avvennero fra
ufficiali dell’ «esercito di occupazione» e giovani
patrizi reduci dalla guerra di Lombardia. In que’ tristi giorni, sia
detto a onor suo, il grosso della «signoria» di quante
erano cioè in Toscana famiglie d’illustre casato, chiare per
antiche benemerenze o per censo, non piegò a servili
arrendevolezze, ma seppe con fermo decoro palesare agli Austriaci i
propri sentimenti e i propri risentimenti al Granduca.
Qualche «usuraio crocesignato», qualche «vecchio
servitore di Sua Altezza», qualche femminuccia sgarrò:
una marchesa tra le altre che paventati durante il governo del
Guerrazzi il terrore, la ghigliottina, i massacri del ‘92 e ‘93,
chiese al Radetzky - Barras del novissimo termidoro - una penna
della sua feluca e custodì e vantò la preziosa
reliquia. Il nome di Marchesa della Penna affibbiatale dal popolino
aggiunse ai suoi ridicoli che non erano pochi; famosa per la smania
di parlare francese anche quando non occorresse, e sempre
spropositando. Maldestra, pestava a’ Pitti il granduca e volgendosi:
Mille écus, altesse: e l’altro: C’est trop cher Marquise;
lasciava a un’amica un biglietto di visita e su ci scriveva: Venus
en personne; il che faceva osservare che tra Venere e Lei c’era
anche questo divario: la Dea uscì dalle acque e la Marchesa
non c’era mai entrata.
Perchè quell’aver praticato per più d’un secolo in
case di forestieri farebbe credere che i signori fiorentini
parlassero tutti e bene il francese. Neanche per idea. Pietro
Leopoldo scriveva nel 1781 al fratello imperatore prossimo a venire
in Toscana: «Qui la gente non brilla, e se deve parlar
francese con voi, io mi troverò in grande imbarazzo. Tutti
intendono fra bene e male quella lingua, ma niuna delle dame la
parla e gli uomini in generale nulla ne sanno». Settant’anni
dopo s’era su per giù allo stesso punto; questa la sola
differenza: che se pochi parlavano il francese correntemente e bene,
tutti pretendevano di saperlo e parlarlo. A enumerare gli
scerpelloni de’ quali è rimasto ricordo, ci vorrebbe un
volume. Il rampollo di un’antica stirpe, figlio di tale che aveva
carica in Corte, fu invitato a pranzo dal ministro di Francia, Conte
di Montessuy, un giorno nel quale le vie della città erano
fangose per pioggia caduta di fresco. Cercata inutilmente una
carrozza, dovè fare di fretta la strada e nel tragitto
s’impillaccherò i calzoni. Se ne scusò così: Je
de mande pardon, J’avais furie, je n’ai pas trouvé de bois
(legno) il y avait la mote (mota, fango), je me suis
schizzeté tous les pantalons.
X.
A Palazzo.
S‘io potessi farmi persuaso che i miei lettori hanno i medesimi
gusti del De Vigny,
(Qu’il est doux, qu’il est doux d’écouter des histoires,
Des hisloires du temps passe).
sarei meno trepidante nel raccontarle queste storielle di tempi
lontani; a ogni modo, una volta cominciato bisogna finire; e
poichè parlo dell’ultimo decennio della signoria granducale,
qualcosa è necessario io pur dica dell’ultimo principe.
*
Non so più quale cronista racconti: una gentildonna che aveva
conosciuto Enrico III re di Polonia e di Francia e ammirati in lui
il portamento regale e l’aitante eleganza della persona, condotta
innanzi a Enrico IV di mezzana statura e non bello, mormorò:
veggo il re, ma non veggo Sua Maestà. Chi, dopo il 1849,
guardava Leopoldo II, vecchio nell’aspetto oltre gli anni, il capo
reclinato così da posare sul petto le fedine biancastre, il
labbro inferiore sporgente scendente, il corpo infagottato in
vestiti troppo ampi e dimessi, poteva a sua volta e a ragione
esclamare: veggo il granduca, ma non veggo il sovrano.
Quell’aria di barbogio assonnato, onde con tanti nomignoli
dispregiativi lo beffeggiarono sudditi faceti e ribelli, l’aveva,
dissero, anche da giovane; ma il vero è che la fisonomia lo
calunniava, Leopoldo II uno sciocco non fu; lettere sue pubblicate
di recente, aneddoti riferiti da testimoni autorevoli, dimostrano
che se molti lo canzonarono, sapeva, al bisogno, canzonare anche
lui. Se da ragazzo avessi preveduto che un giorno scriverei
dell’Altezza Sua, quei parecchi aneddoti mi sarebbero tuttavia nella
memoria. Due, bensì, ne ricordo perchè uditi alquanto
più tardi; l’uno da Matteo Bittheuser, del granduca per
lunghissimi anni segretario particolare, l’altro da Marco Tabarrini,
de’ fattarelli di quei tempi e di quella Corte espositore
argutissimo.
Nel 1838 o in quel torno, lo straricco principe Anatolio Demidoff
che abitava ne’ pressi di Firenze la magnifica villa di San Donato,
tornandovi da una gita a Parigi, menò seco Giulio Janin, uno
degli scrittori del Journal des Débats, e di molta fama a
que’ giorni. Questi profittò dell’occasione per mandare al
giornale un seguito di lettere col proposito di descrivere Firenze e
di narrare gli avvenimenti più notevoli della sua storia;
lettere che poi ripubblicò raccolte in volume.
Come può capacitarsene chiunque prenda a leggere quel Voyage
en Italie, il Janin erudì i propri compatriotti intorno alla
storia fiorentina, raccontando loro le gesta di un Emanuele de’
Medici detto il Magnifico, le venture di Bianca Cappello amante di
Cosimo I, avvelenata dal cognato Don Francesco, e citando Dante
così:
Non ragionem dei lor!... ma guarda i’ passa.
Nauseato per quelli e altri parecchi strafalcioni altrettanto
sbardellati, e più per la impudente presunzione con cui si
spacciavano, un padre scolopio, Numa Tanzini, riprese nel Giornale
di commercio con parole mordaci il Janin e quanti forestieri
s’impancavano con balorda leggerezza a scrivere e giudicare delle
cose nostre, senza nulla intenderne, nulla saperne.
Nella dormicchiante Firenze di allora, lo scritto del frate
levò rumore inconsueto; il fiorentino spirito bizzarro si
divertì alquanto alle spalle del francese e del russo; tanto
che questi, a farla finita con i chiacchiericci e le satire chiese
e, perchè era bene accetto alla Corte, facilmente ottenne il
Granduca ascoltasse dalla viva voce del Janin spiegazioni e
lagnanze.
E il Janin andò a Palazzo e fu, come desiderava, ascoltato
lungamente, pazientemente; ma quando, per difendersi dall’accusa di
leggerezza mossagli dal Tanzini, si arrischiò fino a dire
che, in fondo, per imparare la storia di Firenze, quanto potesse
importarne a un Francese, tre giorni bastavano;
— Oh! bastano due — interruppe Leopoldo — e avanza il terzo per
raccontarla. —
Un’altra volta accadde fatto di maggiore rilievo. Durante un ballo
a’ Pitti il cocchiere del ministro di Russia presso la Corte di
Toscana, venuto a diverbio con una sentinella la trattò di
canaglia. La sentinella che, come si dice da noi, ne aveva pochi
degli spiccioli, per tutta risposta appioppò al cocchiere col
calcio del fucile un colpo nello stomaco e lo lasciò
boccheggiante. Bruttissimo accidente, caso gravissimo, offesa la
livrea di un plenipotenziario, anzi offeso lo Zar nella livrea del
suo ambasciatore. Ne nacque un diavoleto: proteste del diplomatico,
ingiunzioni, minacce di peggio se non si desse e presto la dovuta
soddisfazione. Poichè nè proteste, nè
ingiunzioni, nè minacce di peggio valevano a scuotere
l’astuta flemma di Don Neri Corsini ministro segretario di Stato,
l’ambasciatore, che era un signor De Bouteneff, ebbe ricorso ai
Granduca, Non si parlasse, diceva, di provocazione: il cocchiere non
s’era nemmeno sognato d’ insultare la sentinella: aveva pronunciato
una parola russa (e il ministro la ripeteva) che nel suono
somigliava a canaglia, ma il cui significato non era affatto
ingiurioso.
Leopoldo lasciò che si sfogasse e poi, come al solito,
sommesso e lento soggiunse:
— Confesso che la istruzione de’ nostri soldati è difettosa:
il russo non glielo insegniamo: non sapendolo, quando si sentono
rivolgere una parola che pare, al suono, canaglia, adoperano il
calcio del fucile. Non c’è che un rimedio: finchè i
soldati toscani non sappiano il russo, quella parola che ha detta
Lei, i cocchieri della Legazione bisogna si astengano dal dirla alle
sentinelle. —
E lo licenziò.
*
I due aneddoti raccontati a me da chi era in grado di accertarne e
guarentirne l’autenticità provano che l’ultimo Granduca di
Toscana, che vollero far passare per un imbecille, tale non era. Ma
di lui non ancora fu scritto equamente: fra il Baldasseroni
ministro, che incensando il Principe incensa se stesso, e il
Montazio, volontariamente credulo, acrimonioso per antichi rancori,
oggi, sbollite le passioni di cinquanta anni fa, c’è posto
per un biografo sereno; il quale fatta ragione de’ tempi e di
particolari condizioni, saprà essere a Leopoldo fino a un
certo punto indulgente.
Di lui sono meglio noti gli errori, alcuni enormi, che l’animo: gli
errori cagionati talora dall’essere egli un Absburgo, l’animo
difficile a penetrare. Poichè a indagarlo gli aneddoti
aiutano, un altro ne dirò che seppi già da mio padre e
di cui forse in neglette carte d’archivio rimangono documenti.
Sul finire del 1849, a comandare il corpo austriaco d’occupazione in
Toscana, venne a Firenze da Vienna il generale Principe di
Lichtenstein. V’era giunto da poco, quando un bel giorno arrivano
per lui dalla Germania alcune casse di sigari. Naturalmente, in
Dogana esigono si paghi il dazio onde la legge grava i tabacchi
forestieri; ma il Lichtenstein, taccagno sebben principe, per non
mettere mano alla tasca invoca a suo pro la franchigia conceduta ai
diplomatici rappresentanti di Sovrani esteri. I doganieri lietissimi
che l’ossequio alla legge imponesse di fare un dispetto al tedesco,
gli negano la qualità di diplomatico. L’altro s’impunta,
sbraita: fiato gettato. Sì, no, un viavai di messi altezzosi
del palazzo della Crocetta che il generale abitava, al palazzo del
Buontalenti, ove la Dogana stava a quel tempo. Finalmente, ostinato
e imbizzito per l’ostinazione altrui, il Lichtenstein scrive al
Granduca; e i doganieri subito avvertono mio padre, allora
amministratore generale delle regie rendite, cioè delle
gabelle e delle privative, e cui perciò, a doppio titolo,
spettava risolvere quella vertenza. La risolse come doveva,
ordinando che i sigari non si consegnassero fino a che il dazio non
fosse pagato.
Il Granduca volle essere informato appuntino del come stessero le
cose, e chiamò a Pitti mio padre; il quale non durò
molta fatica a persuaderlo che il Lichtenstein non aveva alcun
diritto a godere della franchigia. La legge era quella; se il
sovrano volesse mutarla, poteva: ma finchè era quella,
conveniva osservarla e farla osservare.
A Modena, a Parma, Duchi e Duchesse avrebbero probabilmente
destituiti i doganieri e magari mandato a casa l’amministratore
generale: Leopoldo lo congedò dicendogli facesse sapere a’
suoi impiegati che era contento di loro; che di leggi ad personam
non si doveva neanche parlare; avrebbe indotto il Lichtenstein a
riconoscere il proprio torto, avvertendolo che non potendo
defraudarsi l’erario, se egli non pagava, avrebbe pagato lui
Granduca.
E così fece; e il Lichtenstein pagò.
Padrone di sè e degli atti propri, era e voleva altri
ossequente alla legge; in soggezione dell’Austria aboliva il giurato
statuto costituzionale. Per questi due tratti si delinea, a mio
credere, intera la figura dell’uomo e del principe.
Al principe nocque non tanto l’origine, la stretta parentela con
l’Imperatore, quanto la fede cieca nelle sorti degli Absburgo e
nell’onnipotenza dell’Austria, che aveva vista dal ‘15 al ‘48
imporre all’ Europa la propria politica e dallo sfacelo del ‘49
risorgere come per lo innanzi temuta: nocquero al principe e
all’uomo l’aspetto sonnolento, il contegno impacciato, lo
scilinguagnolo impedito a pronunziare un paio di lettere
dell’alfabeto, la erre particolarmente, e fin la miopia. Una sera,
a’ Pitti, tenendo circolo, a una signora che vedeva per la prima
volta domandò:
— Lei quanti figli ha? —
E l’altra:
— Tre, Altezza. —
Imbattutosi di lì a poco nella medesima signora e non
ravvisandola, le si rivolse ancora, e
— Lei quanti figli ha?
— I soliti tre. Altezza Reale. Non ho avuto tempo di farne altri da
dianzi in poi. —
E si rise dell’equivoco, si rise della risposta, si rise del
Granduca: e a un sovrano non giova che si rida di lui.
*
Con tutto ciò e a malgrado dei difetti propri e degli
epigrammi altrui, Leopoldo, avanti il 1848 era e si sapeva amato in
Toscana dai più; anche da molti fra coloro che egli ebbe
irreconciliabili nemici dappoi e più macchinarono per
rovesciarlo. E perchè si sapeva amato, si compiaceva del
farsi vedere, dell’andare fra la gente, passeggiando per la
città o, durante un veglione, aggirandosi in mezzo alle
maschere nella platea della Pergola. Non lo osò più
dopo il ritorno da Gaeta, quando gli austriaci montavano la guardia
a Palazzo Vecchio e nemmeno quando se ne furono tornati ai loro
paesi; che anzi parve allora nascondersi. Parecchi mesi ogni anno
passò nelle tenute dell’Alberese, nelle ville di Pratolino,
di Castello, della Petraia: e quando a Firenze, la quotidiana
trottata fece il più spesso fuor delle mura in luoghi
appartati: sì che la cittadinanza non lo vide se non di rado
in occasione di pubbliche feste (misere feste, immeschiniti
rimasugli di splendidezze medicee) e quando lo vide, spesso non gli
badò.
Nella processione del Corpus domini, per esempio, che percorreva
gran tratto della città, egli vestito con la bianca
cappamagna, da gran maestro dell’ordine di Santo Stefano, seguiva il
Santissimo.
Prima del ‘48 lo fiancheggiavano, strascicando faticosamente la
gloria, le cicatrici e la sciabola i generali Trieb, Càimi
Ceccherelli, il colonnello Gherardi, vecchi avanzi dell’esercito
napoleonico: ora invece un drappello di guardie nobili, nelle divise
rosse fiammanti. E ora non lui la gente si mostrava a dito, ma un
conte Galli che gli stava dappresso reggendo l’ombrellino: e
perchè il Galli in quel giorno sfoggiava sul giubbone grossi
bottoni di diamanti, celebri nella Firenze di quel tempo come
straordinariamente preziosi; e perchè era odiato dal popolo
minuto; il quale, vero o no che fosse, credeva e rammentava come in
un anno in cui per la eccessiva abbondanza del raccolto il vino si
pagò un soldo il fiasco, il Galli posseditore di molte vigne,
piuttosto che venderlo a quel prezzo, diè la via alle botti e
mutò in purpurei rigagnoli i grigi viali del proprio
giardino.
Così per San Giovanni, quando la Corte giungeva sul palco
erettole in piazza Santa Maria Novella, affinchè godesse del
palio dei cocchi, nel primo mostrarsi delle Loro Altezze non al
Granduca si guardava, ma alla granduchessa anzi, al vestito della
granduchessa.
I palii furono per secoli spasso dai fiorentini desideratissimo: lo
dimostra il costume di festeggiare co’ palii la ricorrenza di giorni
solenni nella storia della città. Palio per Santa Reparata in
ricordo della sconfitta di Radagasio re dei goti nel 405: palio l’11
giugno in ricordo di Campaldino; palio il 29 luglio per commemorare
la battaglia di Cascina vinta contro a’ Pisani nel 1364, e altri e
altri: perfino un palio di asini a dileggio servile della memoria di
Filippo Strozzi, fatto prigione dal Medici a Montemurlo e ricondotto
sopra un somaro a Firenze. Quando papa Leone X fu a Firenze nel 1515
ne fece correre innanzi al proprio palazzo in via Larga ogni giorno
e sino a tre in un giorno: corse di vecchi, di ragazze, di bufale,
di cavalli. Questo dei Cocchi fu corso la prima volta per ordine di
Cosimo I nel 1563. «Era (mi servo delle parole d’un erudito)
sull’andare de’ giochi del circo massimo in Roma e con gli stessi
colori: il veneto (celeste) il prasina (verde) il russato (rosso)
l’albato (bianco); e perchè tutto fosse romano, soggiunge
Cesare Guasti, s’inalzavano sulla piazza, a forma di mete, due
guglie che nel 1608 furono fatte di marmo mistio di Serravezza,
quali oggi ancora si veggono. Dalla guglia più vicina al
tempio cominciava la carriera dei cocchi che tre volte giravano
ellitticamente la piazza, schivando le guglie, sicchè la
bravura dei guidatori era ammirata per la maestria del piegare i
cavalli alle svolte, come coloro di cui Orazio cantava, gloriosi di
aver corso nello stadio, senza toccare le mete con le ruote infocate
dal veloce girare».
Questo, ben inteso, a tempo dei Medici, quando il palio fu
destramente conteso in gara animosa, e secondo cantò con
modestia di rime Domenico Poltri accademico della Crusca:
Coloro che in que’ carri erano entrati,
ai cavalli perchè più camminassero
tiravan colpi come disperati,
e correan quelli acciò presto arrivassero,
ma non parean cavalli che corressero,
parean piuttosto uccelli che volassero.
Ma ai tempi dei quali discorro, cioè dal ‘49 al ‘59 le cose
andavano diversamente: l’ordine era non già di sferzare e
d’incitare i cavalli; se mai, di trattenerli. La sicurezza dello
Stato non permetteva vincessero i corridori più veloci e si
premiasse l’auriga più abile. Non si permetteva mica a Siena
giungesse prima il cavallo dell’Oca.... L’Oca era, sì, la
contrada di Santa Caterina, ma il suo fantino vestiva giacca bianca
e verde rigata di rosso; tricolore: e al tricolore, con tutto il
rispetto per la Santa, cavallo spedato. Così nel palio de’
Cocchi a Firenze: non il verde, amore dei costituzionali, non il
rosso, caro ai repubblicani, la vittoria era imposta al bianco o al
celeste, secondo che bianco o celeste fosse in quel giorno l’abito
della Granduchessa: perciò a lei e non al Granduca si badava
quando comparivano nel palco.
Poichè ciò era noto e si sapeva simulata la gara, la
corsa perdeva alquanto d’ interesse: ma non si potevano immolare —
che diavolo! — alle attrattive di uno spettacolo popolare
l’autorità del governo e le sorti della dinastia. E se al
prasina e al russato sconfitti plaudissero le tibie di pollo, la
polizia prenderebbe nota dei plausi e sorveglierebbe i plaudenti.
Perchè alle persecuzioni contro ai cappelli all’italiana agli
scacciapensieri, stimati simboli rivoluzionari e contrassegni di
congiurati qualche anno prima, ora succedeva la persecuzione contro
le tibie di pollo accomodate all’uso di bocchini da sigari: e chi si
faceva vedere in pubblico con quell’osso fra’ denti rischiava
d’andare a fumare nel carcere delle Murate.
*
Il governo pavido e sospettoso dava argomento di riso con queste
piccinerie, la Corte con le gretterie. Parsimoniosa era stata
sempre, nè ciò dispiaceva a’ fiorentini nati homines
ad frugalitatem secondo uno storico: ma dal ‘46 la parsimonia
accennava a divenir tirchieria. Da quando si parlò di
riforme, la prima riforma si fece sulle spese di casa: si davano,
sì, a palazzo Pitti i soliti pranzi, i soliti balli nel
carnevale, i soliti appartamenti in quaresima; ma gli invitati
osservavano che pranzi, cene, rinfreschi non eran più quelli
d’una volta. In carteggi del ‘47 che ho sott’occhio, una mala lingua
scrive che il Granduca si rifà sul buffet e sulle acque tinte
delle elargizioni per l’armamento della guardia civica. E del
rimanente non c’è bisogno di altri testimoni, basto io. Io,
sicuro.
Fra le feste carnevalesche della Corte ci era anche, ogni anno, un
ballo di bambini. Compagni miei maggiori d’età me lo avevano
magnificato, facendomi venire l’acquolina in bocca, con l’enumerare
e descrivere le scatole di dolci loro in quel ballo a larga mano
distribuite. Quando avevo cinque o sei anni venne il mio turno....
ahimè! uscii da Palazzo con due piccolissime giberne di
cartone ognuna delle quali conteneva pochi cioccolatini e
null’altro!
Fu quella la mia prima delusione; non me ne sovverrei certamente
ora, se a serbarne memoria non avessero aiutato un fatto per
sè stesso indimenticabile e il nome d’una donna della quale
udii in seguito parlare assai spesso; nome che dalle licenziose
cronache parigine del secondo impero veggo oggi passare nella
storia. Nel correre da un punto all’altro della sala, inciampai, e
sentendomi cadere mi aggrappai alla spalla d’una bambina; ma anzi
che sostenermi per quell’appoggio, feci a lei perdere l’equilibrio e
la trascinai meco nel ruzzolone. Quella bambina, che allora si
chiamava la «Nicchia» Oldoini, divenne poi la
«divina» contessa Virginia Verasis di Castiglione,
agente segreta del Cavour alle Tuileries, cara al «fosco
figlio d’Ortensia»; e dopo la cacciata de’ Napoleonidi accorta
e preveggente ma inascoltata consigliatrice del Duca d’Aumale e del
Conte di Parigi.
La vidi due o tre volte dal suo nonno materno Ranieri Lamporecchi
avvocato di grido, che abitava nel proprio palazzo, adiacente lungo
l’Arno a quello de’ Masetti ove l’Alfieri morì. Il
Lamporecchi nei brevi riposi che Temi gli consentiva sacrificava a
Calliopea e scriveva un poema in ottave: Napoleone. Finito un canto
lo mandava a mio padre per averne consigli ed emende; di qui qualche
rara visita di mio padre, al giureconsulto-poeta; e durante i loro
colloqui, i miei con la «Nicchia»; colloqui non
desiderati, perchè consapevole sin d’allora della propria
veramente meravigliosa bellezza, trattava me e gli altri ragazzi con
un’alterigia che le procacciava le nostre più cordiali
antipatie.
Ma il ruzzolone non fu l’avvenimento più rilevante in quel
mio primo entrare fra i danzatori e nelle aule regali. L’innalzarsi
ahimè! fu grave assai più del cadere.
Ballavamo nella stanza del trono: un’alta pedana alla quale si
ascendeva per tre gradini coperti di un ricco tappeto e ai cui lati
si ergeva un baldacchino di velluto rosso; nel mezzo della pedana un
poltroncione della stoffa medesima. Rosso il tappeto, rosso il
baldacchino con frangie d’oro, rossa la poltrona, incorniciati da
legno dorato la spalliera e i braccioli. Mi parve che di
lassù tutti quei bambini affollati nella sala dovessero fare
un bell’effetto: e per convincermene, salii audace e m’assisi
irriverente sulla sedia che aveva accolto i fianchi di tre granduchi
di Toscana, arciduchi d’Austria, principi imperiali d’Ungheria e di
Boemia, in conspetto di sudditi, di ministri, d’ambasciatori.
Ah! veggo ancora la mia povera madre partirsi dall’angolo opposto
della sala, farsi largo quanto più rapidamente potesse fra la
calca infantile, scansando, scartando con le mani a destra e a
sinistra le testoline stupefatte per quel suo irrompere improvviso,
e venirmi contro con occhi che promettevano terribili reprimende e
non ancor patiti castighi. Mi accorsi di aver fatto qualcosa di
grosso e scesi; e da castighi e reprimende fui sovranamente salvato.
Il Granduca ch’era lì presso, seguendo lo sguardo di mia
madre si volse, mi vide, capì e presomi in collo e
carezzandomi e scusandomi, implorò e mi ottenne il perdono.
Forse la memoria di quel pietoso interporsi mi sollecita a
raffigurare Leopoldo quale fu veramente, non quale lo dipinsero le
fazioni e le sette e ad essergli fino a un certo punto indulgente.
*
E qui sento gridarmi da più d’uno: indulgente con chi
tentò bombardare Firenze dalla fortezza di Belvedere?
Ecco: qui non si scrive storia: se si scrivesse, molte narrazioni
sarebbero da rettificare con la scorta di documenti, molte opinioni
da correggere. È tempo di mettersi in testa che la storia del
nostro risorgimento politico è da fare e da rifare, se storia
si scriva non per adulare passioni, ma per conoscere la
verità. Le colpe gli errori dell’ultimo Granduca di Toscana
li so anch’ io e non li assolvo: sono molti e non c’è bisogno
di aggiungerne. Che Leopoldo ordinasse di bombardare fu spacciato
nel ‘59, subito dopo la sua partenza da chi volle atteggiarsi a
salvatore della patria ed essere ricompensato dall’averla salvata;
ma non è vero.
Si bombarda una città per soggiogarla e rimanervi dominatore.
Leopoldo era risoluto a partire da Firenze e sperava di ritornarvi.
Bettino Ricasoli, Celestino Bianchi, Giovan Battista Giorgini che
tanta parte ebbero negli avvenimenti toscani del ‘59, da me
più volte interrogati non mai affermarono: il Ricasoli e il
Bianchi si strinsero nelle spalle e risposero: «si
disse», il Giorgini tacque e sorrise.
Ma v’ha di più. Quando per proposta di Lorenzo Ginori
l’assemblea toscana decretò la decadenza della dinastia
Lorenese, pur non tacendo nella propria deliberazione le antiche
benemerenze del Granduca, ricordò l’onta e il danno
dell’occupazione straniera, le molteplici violazioni del diritto
pubblico, l’abbandono dello stato, il rifugio cercato nel campo
nemico, la incompatibilità di un principe austriaco col
sentimento nazionale, con l’ordine e la felicità della
Toscana; del comandato bombardamento neanche un accenno: e sarebbe
stato argomento non trascurabile da chi parlava all’Europa e
dall’Europa chiedeva assentimenti o acquiescenze.
E ancora: Ferdinando Andreucci cui fu commesso di riferire intorno
alla proposta Ginori si esprimeva così: «Di odio
personale ci sentiamo libero l’animo affatto: altrettanto possiamo
affermare del popolo nostro generalmente: il contegno suo
nobilissimo nello stesso 27 aprile mostrò apertamente che le
persone egli non odiava: ma anzi anche mentre mostravansi piuttosto
ostili che amiche alla causa nazionale, ei sapea rispettarle».
Ora di chi tentò bombardare non si citano benemerenze; le
quali un tale proposito tutte cancella; a chi tentò uccidere,
se anche si dica cristianamente «noi non vi odiamo» si
soggiunge per lo meno «sebbene ci abbiate fornito ragione di
odiarvi».
Non è vero. È questa una delle solite fandonie che si
spacciano in tutte le rivoluzioni. Nell’89 a Parigi inventarono che
il Conte d’Artois voleva dando fuoco a una mina far saltare in aria
l’Assemblea nazionale: sessanta anni dopo a Firenze un ufficiale di
non bella nomea se ne ricordò e adattò la leggenda ai
nuovi casi. E pazienza per il Conte d’Artois: il futuro Carlo X se
com’è oramai provato non ebbe mai nel pensiero il disegno
attribuitogli, era pur tuttavia uomo da concepirlo: non era uomo da
bombardamento Leopoldo II, bonario e frollo: due volte in procinto
di perdere il trono, non seppe altro che battere il tacco e
raccomandarsi all’aiuto dell’Austria e alla misericordia di Dio.
Non è vero.
Ma fu creduto da molti! Eh! se tutto ciò che si credè
fosse veramente da credere.... Le madri tedesche, scrive Enrico
Heine, istupidite dal terrore si cacciavano disperatamente le mani
nei capelli, quando sentivano raccontare che l’antropofago
Niccolò, imperatore di Russia, mangiava tutte le mattine a
colazione tre fanciulli polacchi, e li mangiava crudi in salsa di
acetosella.
XI.
Ludibria ventis.
Quando penso ai disgraziati, che nell’ ultimo decennio della
signoria lorenese compilarono e pubblicarono giornali a Firenze, mi
torna a mente la zàttera della Medusa e il dipinto famoso del
Gèricault. Quasi tutti già direttori o redattori di
fogli politici nel ‘48, navigato con essi tra le furiose ondate
della rivoluzione, finalmente sommersi nel generale naufragio,
s’erano ora aggrappati agli angusti fragili scafi di giornaletti
settimanali, il cui spazio occupava per tre quarti la cronaca dei
teatri; e, come i naufraghi della Medusa, così anch’essi, per
scampare alla morte, s’addentavano e straziavano a vicenda: ossia,
per liberarmi finalmente dal garbuglio secentistico delle metafore,
con gli austriaci di guardia a Palazzo Vecchio, sotto gli occhi di
una censura bislacca, ora tollerante fino all’eccesso, ora pronta a
infliggere sospensioni e soppressioni a chi anche per poco
sgarrasse; spesso e troppo spesso, per empire le pagine, si
azzuffavano in polemiche altrettanto vane quanto violente.
Una tra le altre e delle più vane ricordo che durò a
lungo. Recitava al Cocomero la Compagnia Reale Sarda, della quale,
oltre Adelaide Ristori ed Ernesto Rossi, erano parte un caratterista
e un brillante ambedue carissimi al pubblico: Gaetano Gattinelli e
Luigi Bellotti-Bon. Il Bellotti vi pose in scena due sue commedie:
L’arte di far fortuna e Il Baccelliere di Salamanca; il Gattinelli
una: Clelia o La plutomania. Tali gli scrittori, tali le commedie:
quelle del Bellotti-Bon leggiere, senza originalità di
tessuto, ma agili rapide gaie, qualche sorriso ottennero e al calare
della tela applausi che parvero perdoni: la Clelia, invece, grave
pretenziosa come il buon Gattinelli, che fuor del teatro era la
personificazione della sicumèra, annoiò.
Uno dei redattori de L’arte diretta dal nerboruto nerobarbuto
Federigo Leoni, de’ più compromessi nel ‘48, perchè
arrolatosi nella Guardia Municipale istituita dal Guerrazzi e che fu
la vera Guardia del corpo di Francesco Domenico ministro e
dittatore; uno dei redattori de L’arte, a corto di argomenti, colse
occasione dalla recita di quelle commedie per proporre, se non con
queste parole, questo quesito: Possono gli attori scrivere buone
commedie?
Piovve la manna: fra quanti erano giornali a Firenze in cerca di
innocue disquisizioni, più d’uno lietamente s’affrettò
a scendere in campo; e fu tutto un dibattere, un ribattere, un
combattere: chi sì e chi no; possono, non possono; sì,
per queste ragioni, no, per queste altre; e poichè i giornali
uscivano una volta la settimana, s’andò così avanti
per settimane parecchie.
Nessuno avverti che furono attori lo Shakespeare e il
Molière: o, se non si volesse mirare ad altezze
inaccessibili, che commedie buone, giudicate anzi ottime ai tempi
loro, avevano scritte il Dancourt e il Poisson, l’Iffland e il
Favart: e che di molta giocondità avevano fra noi allegrata
la scena gli attori-autori della commedia improvvisa; ma chi lo
avesse rammentato avrebbe a un tratto posto fine alla discussione, e
bisognava invece seguitare a discutere, per mettere sotto il torchio
qualcosa.
*
Erano quei giornali una ventina, alcuni stampati con l’unico
proponimento di strappare abbonamenti ai tenori in cerca di
scritture e di ottenere l’ingresso gratuito ne’ teatri fiorentini;
il parlarne, chi non faccia opera di bibliografo, sarebbe tempo
buttato via; più d’uno qualche parola la merita, contributo,
se non altro, alla cronaca di quel tempo.
Alla reputazione di giornale letterario pretendeva, più che
altri, e lo diceva col titolo Il Buon gusto. Lo dirigeva Cesare
Bordiga; vi scrisse di quando in quando suo padre Giacomo; Tommaso
Gherardi del Testa, il più fecondo e il più popolare
fra i commediografi d’allora, vi inseriva e sottoscriveva col nome
di Aldo novelle graditissime a lettori di facile contentatura.
Giacomo Bordiga era di gran lunga più colto di molti dei suoi
colleghi; trent’anni prima, quando l’Antonio Foscarini mandava in
visibilio le platee, prese a difendere (e lo fece con acume e con
garbo) la tragedia niccoliniana contro alle veemenze di Giovan
Battista Gaspàri, il quale aveva impiegato duecento pagine di
stampa per dimostrare che quella non era una tragedia, ma «una
collezione di gesti e detti veneti per una serie di dialoghi in
versi»; opinione che Carlo Botta confortava della sua
autorità. Sebbene quella difesa dovesse tenersi titolo di
benemerenza in Toscana, dove nel 1857 si stimava tuttavia il
Niccolini tragico tale «da stare a paro con lo
Schiller», il Bordiga era dai suoi colleghi mal visto. Non so
più ora bene il perchè; mi sembra di ricordare che a
lui veneziano rimproverassero di essere venuto a patti col Governo
austriaco; questo ricordo con certezza, perchè avvenuto me
presente. L’impresa del teatro della Pergola aveva assegnato ai
giornalisti un palco: il sedici al quarto ordine: una sera, quando
il Bordiga vi entrò, gli altri tutti si alzarono e se ne
andarono.
*
Composto nella tomba un fogliucolo, mortogli di inanizione sotto la
penna, ora, celato da molta varietà di pseudonimi,
chiacchierava d’arte e di letteratura nella Speranza l’abate Stefano
Fioretti, del quale il Carducci ritrasse maestrevolmente il
portamento e l’aspetto; ma i connotati morali che ne dà mi
paiono da correggere. «Galantuomo, buon compagno, non prete
del tutto ma nè men secolare» dice lui: io direi
piuttosto «galantuomo, buon compagno, non del tutto secolare,
ma prete così così» visto e considerato che una
delle occupazioni dell’abate era dirigere la messa in scena dei
balli al teatro Pagliano (oggi Verdi) dove (raccontavano) non
risparmiava fatiche di voce e di braccia per educare alla grazia
delle movenze le sacerdotesse di Tersicore, senza pur tentare di
emendarne cristianamente il costume.
Come in grazia del Carducci si ricorda tuttavia il nome del
Fioretti, così anche in grazia sua un altro dei giornali di
quel tempo: La Lanterna di Diogene.
Edita dal libraio Dotti, la dirigeva un giovane di bellissime
speranze che un po’ svogliato per indole, un po’ attraversato in
ogni disegno dalla maligna fortuna, dell’ ingegno veramente egregio
lasciò pochi e umili frutti: Enrico Franceschi, morto or non
è molto direttore di un ginnasio in Sardegna.
Il Carducci, dunque, dei suoi primi saggi poetici, le Rime stampate
dal Ristori a San Miniato nel ‘57, scrive che «rimasero
esposte ai compatimenti di Francesco Silvio Orlandini, ai disprezzi
di Paolo Emiliani Giudici e alle ingiurie di Pietro Fanfani».
Or fu appunto nella Lanterna di Diogene pubblicata la recensione del
filologo pistoiese.
Il Fanfani, dandosi l’aria del sopracciò e trinciando
sentenze, godeva a quel tempo in Toscana di fama superiore ai suoi
meriti, e tale la godè più tardi in Italia;
perchè il caso volle ch’ei mandasse fuori il suo vocabolario,
abborracciato e non senza errori, quando, trasferita la capitale a
Firenze e suscitatosi il dibattito circa le teoriche manzoniane, una
gran parte degli italiani provò urgente il bisogno di pulirsi
la lingua. Non ci fu allora travet il quale, tolta nel proprio
cancello la pratica dalla camicia e disponendosi a emarginare il
foglio controdistinto, non aprisse il dizionario e non rimanesse di
stucco nel non trovarvi le parole delle quali era uso servirsi. In
Piemonte, dove così poco v’era per lo innanzi conosciuto che
lo chiamavano il Fánfani, il vocabolario ebbe diffusione
notevolissima.
La recensione delle Rime era difatti ingiuriosa, ma non basterebbe
essa sola a spiegare e giustificare i rancori che durarono
nell’animo del Carducci quanto la vita. Il vero è questo.
Giosuè a quei giorni si ingegnava molto faticosamente nel
metter d’accordo il pranzo con la cena. «A volte — scriveva al
Chiarini — si vive di nulla». Già fidanzato e per la
età e la infermità del padre sapendosi prossimo
sostegno della famiglia, gli urgeva uscir dal precario (precaria era
la sua supplenza del ginnasio di San Miniato) e ottenere o licenza
al privato insegnamento, o cattedra in qualche istituto; e il
Fanfani spadroneggiava nel Ministero dell’istruzione pubblica cui
era addetto come segretario.
Al commendatore Cosimo Buonarroti, ministro, il sonno era
altrettanto grato quanto alla Notte dell’antenato suo grande; di
versi pare non s’intendesse, poichè permise alla sorella di
stampare i suoi (I): sì che, vinta dal Carducci per concorso
una cattedra nel ginnasio comunale di Arezzo, quando il Governo
negò alla nomina di lui la necessaria approvazione, fu
creduto da molti che a suggerire l’odioso provvedimento stesse,
dietro alla poltrona del Ministro, il Fanfani. E così fu pur
troppo! Documenti venuti in luce or è poco lo provano. Il
Carducci non li conobbe, ma o seppe o intuì donde il colpo
partiva: e perciò egli facile alla collera, ma pronto ancor
più ai rimpaciamenti, col Fanfani, conterraneo e (a detta
sua) imitatore di Vanni Fucci, non si riconciliò mai: e in
prosa e in versi lo bollò di marchi roventi ogni volta gli
capitò o ne cercò l’occasione,
«....non credomi maggior ribaldo
redasse l’anima di Maramaldo.
Fucci filologo frusta e galera».
E anche questi non sono elogi, mi pare; sì che nel computo
delle insolenze il conto, non che batter pari, lascia al Fanfani un
larghissimo credito. No: sebbene il Carducci fingesse e allora e poi
unica ragione dei suoi risentimenti l’ingiuria, lo scottò
solo e lo inviperì quella che stimò insidia d’animo
pravo; se si fosse trattato di impertinenze soltanto, via.... medice
cura te ipsum; perchè se si voglia esser giusti,
bisognerà soggiungere che dagli eccessi verbali neppure lui,
Giosuè, seppe sempre guardarsi. Quando andava in furori,
addio moderazione, addio urbanità.... Furori qualche volta
tragicomici, che combattendo contro avversari di niun conto, sparava
bombarde per uccidere zanzare.
Contagio dei tempi ne’ quali, giovanissimo, veniva educando
l’ingegno alle lettere. Il vilipendio era l’arma più spesso e
più agevolmente maneggiata dai linguaioli toscani d’allora,
lontani discepoli del Muzio e del Castelvetro. Per una virgola fuori
di posto, cominciavano dal darsi pubblicamente dell’asino e
dell’imbecille a tutto pasto: e via via, accalorandosi nel
proseguire la disputa, del truffatore e del manigoldo; si
palleggiavano insomma ogni sorta di contumelie, sempre avvertendo
che la prudenza li tratteneva dal dire di più. Purchè
la virgola fosse rimessa dove doveva stare, si consegnava
l’avversario in mano al Bargello.
Ricordo che appunto in quegli anni un canonico Bini, lucchese,
mandò per le stampe certo Volgarizzamento delle collazioni
dei Santi Padri, testo inedito del secolo XIV, gloriandosi di avervi
rinvenuti parole e modi ignorati dai lessicografi e dagli scrittori
dei secoli susseguenti.
Fra quegli arcaismi, uno più particolarmente gli piacque:
l’ormare alla parete, disusato modo elegantissimo, secondo lui, a
significare quell’atto.... quella funzione fisiologica.... come
posso dirlo? ah! quella fisica necessità che costrinse la
signora di Rambouillet a scendere di carrozza, scusandosi con lo
Sterne che l’accompagnava. Ve ne rammentate Così dal
Viaggio sentimentale traduce Ugo Foscolo: «Le chiesi che
desiderasse. Rien que de pisser: le diedi la mano per scendere di
carrozza; e s’io fossi sacerdote della pudica Castalia non avrei
assistito di certo alla sua fontana con decoro più
reverente».
Ormare! l’abbaglio era manifesto, il canonico non sapeva mettere i
punti sugli i; se avesse saputo, non avrebbe durato fatica a
convincersi che per significare quella tale necessità s’era
usata nel decimoquarto la stessa parola che nel decimonono; salvo
che nel decimoquarto i regolamenti municipali non vietavano forse la
irrorazione delle pareti. Lo sfarfallone era solenne; ma bastava i
critici, fattavi su una risata, ammonissero il reverendo che chi non
sa mettere i punti sugli i non deve impancarsi a decifrare e
trascrivere e pubblicare antiche scritture: lasciasse i codici e
stesse contento al breviario e al messale. Gli si scagliarono invece
contro come cani arrabbiati: il più discreto dapprima si
appagò col dargli «una strigliata sul groppone
asinesco», altri via via rincarando la dose, un anonimo
scandalizzato pedante arrivò perfino in un di que’
giornaletti a esprimere con crudele facezia questo desiderio: che in
pena della presunzione e dell’ignoranza sfacciata, lo sciagurato
canonico non potesse più ormare nè alla parete
nè altrove.
*
L’Indicatore, Il Sistro, Il Goldoni, L’Eco d’Europa, Il Genio,
L’Avvisatore, Il Giornale toscano, Lo Scaramuccia, L’Armonia, Il
Caffè, L’Eco dei teatri, La Lente, Il Giglio fiorentino, Il
Commercio, La Polimazia italiana, Il Momo, L’Imparziale.... Ho detto
già che quei giornaletti erano parecchi e chi non si
stancasse di raccontare e trovasse chi lo stesse a sentire, non
finirebbe più. Dalla folta schiera degli scrittori, due
debbono per più conti andare distinti: Celestino Bianchi e
Carlo Lorenzini.
Naufraghi anche loro.
Il Bianchi che, mutati i tempi e lo Stato, fu segretario di Bettino
Ricasoli, e in quell’ufficio lo accompagnò, dalla gloriosa
dittatura del ‘59 alla angosciosa presidenza del Consiglio del ‘66,
ne aveva fatta nel ‘49 una marchiana: s’era caparbiamente ostinato a
rimaner liberale, quando il Granduca non lo era più: e con
gli austriaci a Firenze e il maresciallo D’Aspre al palazzo della
Crocetta profetava nel Nazionale «differita la riscossa
d’Italia», inneggiava ai difensori di Venezia, pubblicava i
verbali della Costituente romana e li commentava con palese
compiacimento. E niente paura di minacce o pericoli. Il Governo
infliggeva al Nazionale due mesi di sospensione; e lui nella
settimana medesima mandava fuori l’Avvenire e continuava sullo
stesso tono, sempre invocando le franchigie costituzionali, giurate
dal Granduca l’anno innanzi e non ancora abolite, ammoniva Principe
e Ministri con le parole del Machiavelli: «il nome della
libertà è assai gagliardo il quale forza alcuna non
doma, tempo alcuno non consuma, merito alcuno non
contrappesa».
Dei quali ammonimenti non è a dire che principe e ministri si
dimenticassero. Oh! no: tanto è vero che, abrogata la legge
su la libertà della stampa, punirono senza misericordia
l’ammonitore: dispensarono cioè il Bianchi dall’insegnamento
che professava in un pubblico istituto, riducendolo nella
necessità, per campare la vita, di andar qua e là
nelle case a dar lezioni di storia e di letteratura alle signorine.
Clientela rada e, come seppi da lui, taccagna. Il Tallemant des
Reaux insegnava l’ italiano a Mademoiselle de Marsais per un bacio
al mese: ma era ricco e gaudente: il Bianchi, assennato e povero,
aveva bisogno di più sostanziale remunerazione e la strappava
così sottile, da costringerlo, per sbarcare il lunario, a
cercare altre fonti di onesto guadagno. Chiese licenza di pubblicare
un giornale - letterario s’intende. Apriti cielo! Licenza a lui,
all’uomo del Nazionale? Il Ministro dell’interno Landucci andava in
bestia (absit injuria verbo) solamente a parlargliene. Ma
(così fu detto e creduto) il Presidente del Consiglio
Baldasseroni più mite e più accorto considerò
che il rifiuto non era anch’esso senza pericoli: i liberali, che
conveniva non stuzzicare, avrebbero gridato alla persecuzione, e
fattone ne’ giornali del Piemonte Dio sa quali scalpori. E
perchè, come tutti i governi deboli, il governo toscano
ciondolava tra i mezzi termini, a un mezzo termine ricorse anche
quella volta. Conceduta ad altri facoltà di pubblicare il
Genio prima, la Polimazia poi, chiuse un occhio e finse di non
sapere che il Bianchi li dirigeva, che in sostanza i giornali erano
suoi. Ma nè l’ uno nè l’altro di quei fogli
attecchì: men triste sorte, anzi buona, ebbe finalmente Lo
Spettatore, nel quale scrissero il De Sanctis, il Campori, il
Tommaseo, l’Amari, il Bonghi, il Gualterio, il Carcano, il Reumont,
e che fu per la Toscana ciò che il Crepuscolo del Tenca fu
per la Lombardia.
*
Carlo Lorenzini tornò a Firenze dalla guerra nell’agosto del
‘48 mazziniano sfegatato; e, nei mesi che corsero dall’armistizio
Salasco alla battaglia di Novara, fu dei più operosi fra gli
scrittori di giornali democratici: articoli al Lampione, prose e
versi al Nazionale: versi non da antologie, ma nei quali la
delusione irosa e l’affanno si sfogavano insieme:
Come la nebbia sperdesi
Se la percola il sole,
Così vaniro all’opera
Le splendide parole.
Anche le forti squadre
Parver fatte conigli.
Non la chiamate madre
L’Italia non ha figli.
Avvenuta la restaurazione, men sospetto del Bianchi, potè
pubblicare e dirigere l’un dopo l’altro giornali anche lui: L’Arte
dapprima, avendo a compagno un avvocato Bruzzi, Lo Scaramuccia in
seguito, piantandoli sul più bello l’un dopo l’altro;
dirò poi come e perchè. Se non che, abrogata la legge
su la libertà della stampa s’era tornati al nihil de
principe, canone che nella interpretazione di quel sagace scoliaste
che era il ministro Landucci significava: il Governo fa tutto bene,
e farà bene sopprimendo il giornale che accenni a non esserne
persuaso; di guisa che Carlo L.... (così sottoscriveva) fu
giocoforza si piegasse a scrivere di teatri, d’ innocua letteratura
e articoli brioso faceti, non umoristici come allora li chiamarono e
li chiamano ancora assai impropriamente: l’esprit dei francesi
è tutt’altra cosa che l’humour dello Sterne e del Richter,
del Thacheray e del Guerrazzi, del Heine e del Bini.
Sebbene dunque gli convenisse tenere a freno la penna, cionondimeno
trovava con destrezza modo di seguitare negli sfoghi. Era in materia
di principi politici tutto d’un pezzo: la pensava come il Malherbe:
Il n’est permis d’aimer le change
Qu’en fait de femmes et d’habits;
chi avesse mutato coccarda non sperasse da lui nè perdoni
nè tolleranze: e furono famose certe sue stroncature di
letteratucoli, i quali già rivoluzionari arrabbiati,
decapitato nel ‘49 in pubblici comizi un Granduca di gesso, s’erano
l’anno dopo lasciati ammansire da un Granduca di carne e d’ossa e
godevano ora di lauti riposati stipendi negli uffici dello Stato.
Un di costoro riuscì di soppiatto a pubblicare ne L’Arte un
articolo: bastò perchè il Lorenzini piantasse
intrafinefatta baracca e burattini e portasse altrove le tende.
Uno dei suoi favoriti bersagli era il Prati: ogni tanto, quando
l’occasione si presentava, una frecciata. Contro al poeta? Secondo
me, contro al paladino di casa Savoia. Nei più accesi
liberali toscani, l’odio contro Carlo Alberto durava più
acrimonioso che mai: il nuovo tradimento del Carignano, la sconfitta
di Novara patteggiata col Radetzky per salvare il trono e la
dinastia, queste ed altre simili calunniose fandonie, le credule
passioni accoglievano come fatti provati, documentati,
incontestabili: e il Prati intanto, nobilmente e fedelmente devoto
alla sventura, salutava il re morto così:
O generoso, il premio
D’una invincibil fede
Non è tra noi: siam torbido
Covo di belve. Incede
L’ira con l’uom. — Perpetuo
Seme d’ingrati è qui.
Pochi t’amaro. Invidia
Fosti de’ prenci: sdegno
De’ nuovi Bruti: ai cupidi
Schiavi dispiacque il regno
Della Giustizia: un Golgota
L’odio stranier ti alzò.
Belve, ingrati, schiavi, nomi e aggettivi ce n’erano a sufficienza
per aizzare le collere degli avversari; a ogni modo, che in quelle
critiche e nell’asprezza di quelle critiche, la letteratura
c’entrasse per poco, due argomenti persuadono, che tagliano, come
suol dirsi, la testa al toro. Primo punto, chi scriveva versi come
quelli che del Lorenzini ho citati, non poteva scandalizzarsi di
quanto era spesso d’improprio, di indeterminato e talvolta di
sciatto nello stile pratiano d’allora: inoltre il Prati stesso
credè alla ragione politica delle censure, e dolutosi del
«disonesto cachinno dell’effemeride vile» scriveva:
«Da un pezzo in qua voi vi siete svegliati contro di me,
perchè siete fanatici apostoli di un simbolo politico nel
quale la mia natura, l’esperienza, la tradizione del mondo, i miei
studi mi impediscono di credere».
Comunque, fatto sta che dopo averlo punzecchiato più volte,
quando il Prati mandò fuori il Rodolfo, malauguratamente da
lui stesso vantato «libro di amore, di dolore, di espiazione e
di fede», il Lorenzini gli fu addosso e non lo lasciò
fino a che non lo ebbe, nello Scaramuccia, strapazzato e malmenato
in una serie di articoli, versando sul poeta e sul poema il ridicolo
a piene mani. Vero è che il Prati prestava quella volta nudo
il fianco all’offesa. Dai celebri
Nominativi fritti e mappamondi;
in poi, gli italiani per secoli non avevano letto versi di
così stramba fattura.
Il protagonista del poema
Pensa i tempi e le stragi: e quella fosca
Anima in sè si preme; e più si attosca.
Pensa all’illustre iniquità de’ nomi
Che stolti balbettiam sin dalla poppa,
Pensa a quanta genia s’inchiomi e schiomi
Fral come bimbo che allo sterpo intoppa;
E ai vasti ladri su’ cui teschi or domi
L’atro del Tempo corridor galoppa;
E negli orecchi, su per l’onde infide
La ruota orrenda del destin gli stride.
Parmenidi a paleo, Pindari a bolle,
Statisti da inventario e da bucato;
Cicalecci da Zingano o da folle,
Predicature senza predicato;
Leviti e re sui trampoli e le molle
Popoli dal bernoccolo inciucato;
E or l’altalena or l’organo che gioca
E un grande andar dai burattini all’oca.
Su grinze cartilagini vetuste
Si strascica lo mondo ischeletrito
Però che a trarsi via l’ultime suste
Mena e rimena, come pazzo il dito.
E piagnete sotterra, o voi che foste,
A vederlo sì poco e sì smarrito.
Ma Dio vi darà pace, il Dio che vuole
Che l’uom non pera fin che ha moto il sole.
Versi intelligibili forse in un altro sistema planetario. Ma vedete
(sia detto in parentesi) come uomini di alto ingegno s’ingannino nel
giudicare l’opera propria. Una quindicina di anni dopo (la ferita
strideva ancora) il Prati diceva a me «quelle imitazioni
giustiane (proprio così: «imitazioni giustiane»)
pensai dovessero piacere a Firenze». E soggiungeva «a
dispetto della beffa triviale, il Rodolfo vivrà».
La reverenza mi rattenne dal dimostrargli che tra il Giusti e il
Burchiello corre divario; l’affetto dall’ informarlo che il Rodolfo
era morto e sepolto e, per fortuna sua, dimenticato da un pezzo.
Rientriamo in carreggiata.
Il poeta non si diede pace: perchè della critica fu
insofferente sempre e perchè dalla critica non ebbe forse mai
assalti più fieri. Meditò le vendette e stimò
al vendicarsi atta meglio d’ogni altra l’arma onde era stato
colpito. Ma il ridicolo non era affar suo. Nel prologo del nuovo
poema Satana e le Grazie che ha tratti di poesia vera e gruppi di
magnifici, endecasillabi, il critico toscano appare innanzi alla
Musa in figura di «topolino ritto sui pie’ di dietro, con
farsetto in dosso, cappello in testa, penna sull’orecchio, coda
arricciata e fogli di carta in saccoccia».
Appena comparso, per ordine della Musa, un grosso gatto d’Angora lo
acciuffa e se lo maciulla.
Della gelata allegoria il Lorenzini non si curò: o forse non
la conobbe, o altro avea per il capo. Lo Scaramuccia non era
più suo; come già L’Arte a un maestro di musica, lo
aveva una bella mattina venduto per poche centinaia di lire a un
agente teatrale.
Perchè l’andare in cerca affannata di qualche centinaio di
lire appena levato il sole, fu il molto frequente assillato
travaglio del Lorenzini e il malinconico portato di una passione che
la sola maturità degli anni finalmente attutì. Anche
lui come il buon Lorenzo Lippi
tenne in man prima le carte
che legato gli fosse anche il bellico;
e pria che mamma, babbo, pappa e poppe
chiamò spade, baston, denari e coppe;
anche lui sfortunatissimo come l’autore del Malmantile.
Giocava dovunque si giocasse: ma il più spesso in quel tetro
Palazzo de’ Davanzati in Porta Rossa, ove il saggio Bernardo
tradusse già gli annali di Tacito, e che or è poco un
antiquario restituì in pristinum, mondandolo dalle scorie che
vi ebbero deposto più secoli.
Là si giocava ogni sera, ogni notte e tra la minor gente
troneggiava un molto illustre e facoltoso personaggio: il professore
Girolamo Pagliano, inventore del famoso siroppo.
Il Pagliano era in Toscana popolarissimo; a Firenze sin da quando,
giuntovi da Napoli, ridotto al verde dai giuochi di Borsa e fallito,
lo fischiarono baritono esordiente sul teatro di Borgognissanti; a
Prato ove di lì a poco il pubblico sanzionò di
grugniti la sentenza dei fiorentini, a Pistoia dove i nipoti di
Gino, «uomini discordevoli» secondo il Compagni
«crudeli e selvatichi» scagliarono contro a Marino
Faliero quante mele fradicie poterono raccogliersi ne’ pomari della
città.
Ora, laureatosi in medicina a Parigi e
di Chiron scoperta la ricetta
del balsamo vitale sempiterno
tra i scartafacci dell’avo materno
(come cantò in un poema
eroi-comico-storico-critico-filosofico di sedici canti - La
Paglianeide - un suo ammiratore e biografo) tornava a Firenze ricco
a milioni e per vendicarsi contro la sorte dei due fallimenti quel
della Borsa e quel della scena edificava un teatro vastissimo
là dove già sorgevano le Stinche, antiche carceri dei
debitori.
Lo vedo come se fosse presente. Alto, grosso floscio, terreo nella
faccia, chi non lo sapesse straricco poteva prenderlo per uno
straccione. Sordido nelle vesti che gli cascavano d’addosso, per una
soluzione di continuità fra il gilet e i pantaloni offriva
agli sguardi della gente un volgolo di camicia sul quale «il
color bruno non era nero ancora» ma il bianco agonizzava. E
questa sudicia trasandataggine s’incoronava di un cappello a
cilindro perpetuamente sbertucciato e ammaccato, come se, ai tempi
delle stecche e delle stonature su quello, anzi che sul corno dogale
del Faliero, fossero piombati i proiettili vegetali dei pistoiesi.
Al gioco spesso i più tirano i meno; e molto spesso nel
Palazzo Davanzati avveniva che danari spremuti da borse stremate
cadessero negli aurei botri ove il milionario sguazzava. E
poichè era lecito giocare e perdere «su la
parola», di qui le ansie notturne del Lorenzini e l’affannato
mattutino cercare dell’amico o dell’usuraio: e quando l’amico non
poteva o l’usuraio non voleva, ultima ratio il maestro di musica o
l’impresario che comprasse il giornale, il tipografo che fornisse il
danaro occorrente a saldare la perdita della sera innanzi,
ipotecandolo sopra un lavoro di là da venire.
Così furono venduti L’Arte e lo Scaramuccia. Così
nacquero la Guida in vapore da Firenze a Livorno, così la
commedia Gli amici di casa, così il romanzo I Misteri di
Firenze, e altri scritti dimenticati e dimenticabili del Lorenzini.
Il quale delle ansie notturne e degli affanni mattutini si
confortava punzecchiando nello Scaramuccia di inesauribili facezie
il «Caligola degli intestini»; e chi sfogliasse la
collezione di quel giornale vedrebbe che, sin che quegli lo diresse,
non passò forse numero senza che, in una forma o in un’
altra, vi si profondessero arguzie sul celebrato «depurativo
del sangue»; che anche in giorni di disdetta, dopo avere
ascoltato pazientemente le amorevoli ammonizioni del fratello Paolo
e fatto proponimento di non sfogliare mai più «il libro
del Baragioli» (il Baragioli era il fabbricante delle carte da
gioco), il buon umore non tardava a tornargli. Un ultimo aneddoto.
Si rappresentava al teatro Pagliano per la prima volta e con
successo felicissimo, il Trovatore del Verdi. Il professor Girolamo,
proprietario e impresario che intascava danari a palate,
entrò una sera a Palazzo Davanzati più ilare e arzillo
del consueto e durante la partita canterellò ripetutamente
l’aria del tenore:
Ma pur, se nella pagina
Del mio destino è scritto
Ch’ io resti fra le vittime
Da ferro ostil trafitto,
Fra quegli estremi aneliti
A te il pensier verrà
E solo in ciel precederti
La morte a me parrà!
Il Lorenzini perde quella sera secondo il solito, fino all’ultimo
soldo.
S’alzò: e scritti col lapis alcuni versi, lasciò
nell’uscire sulla tavola da gioco il foglio che li conteneva.
I versi erano questi:
Se nelle eterne pagine
Del Baragioli è scritto
Ch’io muoia in Montedomini4
Povero derelitto;
Là in mezzo ai miserabili
Solo conforto avrò,
Che vado per precedervi
E là v’aspetterò.
Poco mancò lo scherzo non fosse prologo alla tragedia. Ci
volle la rivoluzione del ‘59 affinchè il vaticinio non si
avverasse, se non per il profeta, per altri che sedevano intorno
alla tavola da gioco con lui. La guerra strappandoli all’ambiente
viziato salvò alcuni ufficiali che stavano sull’orlo del
precipizio; il figlio ed erede di un ricco banchiere israelita, che
tra quella triste congrega aveva dato fondo a tutto il suo e
s’avviava al suicidio, s’arrolò volontario e ritrovò
nell’esercito le ragioni del vivere e la dignità della vita.
Il Lorenzini, nominato dal Governo della Toscana censore teatrale,
sia che temesse di essere lui censurato, sia, e più piace di
crederlo, che i nuovi tempi lungamente fervidamente agognati gli
persuadessero norme e consuetudini nuove, le carte non le
toccò più; e destatosi più tardi alla
impreveduta vocazione di gaio educatore, accoppiò il nome del
paesello natale Collodi a quel di Pinocchio e li fece ambedue cari
ai ragazzi d’Italia, che tuttora onorano con affetto la memoria di
lui.
*
Per tornare a’ giornali — poichè queste mie tiritere
s’intitolano Confessioni e Ricordi — debbo ricordare e confessare,
come, quando, in quale congiuntura io mi imbrancassi fra gli
scrittori di que’ fogli. Temerari, scervellatissimi inizi i quali,
correndo quest’anno di grazia 1921, mi danno diritto a vantarmi il
decano dei giornalisti italiani; poichè non credo viva ancora
fra noi chi abbia pubblicato un articolo, avanti il 12 marzo 1856. —
In quel giorno appunto per la mia prima contaminazione gemerono i
torchi. Io ne gemo tuttora.
*
Il solito Cesare Tellini aveva per la seconda o terza volta preso a
pubblicare un de’ soliti giornali settimanali, quella volta
«umoristico»: La Lente. Lo fondò, come oggi si
dice, sperando di trarne guadagno; ma la speranza fallì ed io
lo udii spesso rammaricare che gli abbonamenti e la vendita alla
spicciolata bastassero appunto appunto a pareggiare le spese. Anni
prima, quando vide che il Genio non attecchiva, si rassegnò e
si arrese. Nel ‘56 si ostinò; ribelle incorreggibile
null’altro per allora potendo, la natura del giornaletto gli dava
modo di punzecchiare ogni tanto i «Superiori», di far
ridere ogni tanto la gente alle spalle loro, ciò che avrebbe
forse condotto in seguito la Lente a migliori fortune.
Se non che, per punzecchiare i «Superiori» e far ridere
alle loro spalle, bisognava lavorare di fino, con astuzia; badando a
non incappare nelle branche del Ministro dell’interno che poteva ad
arbitrio decretare sospensioni, e perfino sopprimere senza render
conto a nessuno.
Alle necessarie agili scaltrezze il Tellini scrittore rozzo e
sciamannato era adatto come l’orso a ballare; egli stesso se ne
sapeva incapace; si fornì di un collaboratore: un tale
avvocato X…. ex-pretore, di recente licenziato a cagione di alcune
marachelle inconciliabili con la magistratura.
Era uomo d’ ingegno, e se non seppe mettere d’accordo le marachelle
e l’impiego, seppe di tanto in tanto architettare la beffa ed
evitare il castigo. Oggi chi leggesse quegli articoli que’ dialoghi
vernacoli, quelle novellette tenterebbe invano di conoscere dove la
malizia si nascondesse; io stesso oggi rileggendo, nove volte su
dieci non mi ci raccapezzo; ma allora il pubblico, educatosi via via
ai sottintesi, ai gerghi alle allusioni velate, intuiva, capiva, si
divertiva.
Bisogna bensì avvertire che il castigo non si aveva gran
voglia di infliggerlo. Anche il Ministro dell’interno capiva,
educatosi via via ai gerghi e ai sottintesi anche lui; e qualche
anno prima, le cose sarebbero andate altrimenti. Ma nel ’56, partiti
gli Austriaci, dai quali forse temeva taccia di debolezza, il
governo in materia di stampa era tornato al vecchio sistema, al
tradizionale «lasciar correre». Punire sì, ove si
trattasse di cosa grave, di manifesta offesa alla legge; ma non star
tutto il giorno con la spada donchisciottescamente sguainata e aver
l’aria di paventare catastrofi, ora per un sonetto alla
libertà, ora perchè un fogliucolo metteva in
canzonella un ministro. In sostanza tapparsi le orecchie, chiudere
gli occhi, far finta di non udire e di non vedere. Gara quindi di
circospezioni: lo scrittore ogni cura per non scoprirsi, ogni cura
il Prefetto per non scoprire.
Nell’agosto di quell’anno ‘56 il Monitore, giornale ufficiale del
granducato, annunziò che una vecchia moneta, - il testone -
sarebbe entro certo termine tolta di corso.
E La Lente parodiando il verso manzoniano
I Testoni hanno ucciso i testoni,
questa orrenda navetta vi dò;
e continuava esponendo come «il buon toscano assuefatto a
trovare testoni dappertutto, in piazza, sui mercati, nei pubblici
uffici, a veder sempre in casa sua contare i testoni,» non
poteva non meravigliare del decreto che li uccideva. Qui
l’impertinenza per lo meno era chiara; ma, furbescamente espressa,
non uno dei Testoni omicidi se ne curò.
In seguito furono anche più arditi. Piero Puccioni che
scriveva or nell’uno or nell’altro di quei giornali, e di critica
drammatica nello Spettatore col pseudonimo di Virginio Angeli,
raccontò non so più se nello Scaramuccia o nella
Lanterna la storia di un tale che stimato e amato da’ concittadini,
preso un giorno dalla stizza, se ne andò dal paese:
sollecitato, pregato dagli amici vi ritornò; ma laddove si
sperava ch’ei vi tornasse, quale fu già, buono e generoso, e
riconcedesse alle amichevoli conversazioni le camere un tempo
ospitali, egli dimentico o dispregiatore di quella nuova
testimonianza di affetto, sbacchiò le porte in faccia agli
amici, riaprì nella propria casa una macelleria della quale
il nonno s’era saggiamente disfatto; e, sentendosi mal visto per
quegli atti villani e per l’animo ingrato, chiamò dal di
fuori gente a guardargli le costole e a guarentirgli il domicilio.
Tutti indovinarono (nè era arduo l’indovinare) che quel tale
era il granduca Leopoldo, il quale lasciata nel ‘49 la Toscana per
non firmare la legge su la Costituente, richiamatovi nell’aprile dal
popolo, anzi che tener fede allo statuto licenziò le Camere,
ristabilì la pena di morte abolita dal suo grande avo il
primo Leopoldo, e invocò le truppe austriache a custodia e
difesa del trono. Tutti indovinarono: in Prefettura non se ne
dettero per intesi. Fintanto insomma che i giornali stettero
contenti ai giochi di parole e alle allusioni, se anche trasparenti,
bene quidem; i Superiori tennero chiusi gli occhi e le orecchie
tappate; ma quando il Passatempo senza ricorrere alle amfibologie e
alle allegorie, ricordato che il libro del Beccaria potè
stamparsi la prima volta a Livorno nel 1764 e che una legge
granducale del 1786 sanzionò quelle dottrine, soggiunse: che
il popolo toscano, lungi dall’approvare il ripristinamento della
pena di morte, ne rimase attonito e addolorato; oh! allora le
orecchie si apersero, gli occhi si spalancarono e il Prefetto di
Firenze appioppò al Passatempo una sospensione di tre
settimane....
M’accorgo di essere uscito di carreggiata: così avviene
spesso a’ vecchi che raccontano. Un ricordo tira l’altro.... Basta:
torniamo alla Lente.
*
Era di piccolo formato. Trenta centimetri di altezza per venti di
larghezza; un terzo della prima pagina occupato dal titolo,
più che un terzo in un’altra dalla caricatura. Ciò
nondimeno s’arrivava spesso al giorno della pubblicazione e i torchi
gemevano sì, ma per l’insufficienza dell’alimento. Il
Tellini, affaccendato di continuo in meno sterili negozi, lasciava
che la penna disadorna irrugginisse; l’ex-pretore sciorinava in ogni
numero un paio d’articoletti, tuttavia non poteva egli solo annerire
le pagine tutte quante. Briose corrispondenze mandava da Livorno
Pietro Coccoluto Ferrigni (Yorich) e già in quelle si
prometteva tale quale fu poi, il più garbatamente arguto de’
giornalisti toscani del tempo suo. David Ruben Segrè (Pietro
da Possano), morto or è poco redattore della Gazzetta
ufficiale, mandava da Lucca romanzetti sbrodolati in centinaia di
capitoli di quattro o cinque righe ciascuno; ma e il Ferrigni e il
Segrè scrivevano quando ne veniva loro la voglia, secondo
l’estro e l’umore: sì che sul loro ajuto a giorno fisso non
era da fare assegnamento. Così stando le cose è facile
pensare con quanta esultazione, nel bugigattolo semibuio contiguo
alla tipografia, in cui modestamente si annidavano la direzione e
l’amministrazione del giornale, con quanta esultazione fosse accolto
chiunque capitasse con uno straccio di «originale». E
lì in quel bugigattolo, incoraggito, sto per dire istigato
dal Tellini, mi arrischiai a deporre le mie primaticce
elucubrazioni.
L’articolo comparve.
Lo avevo firmato Scacciapensieri. Mi sono già punito della
balorda vanità, raccontando altrove come tutto quel giorno io
portassi a zonzo per Firenze il numero del giornale mezzo dentro,
mezzo fuori dalla tasca sul davanti del petto, con la speranza che
qualche amico me lo chiedesse e imparasse che Scacciapensieri ero
io. Non mi ripeterò. A quel primo articolo, succederono
subito un secondo ed un terzo; deplorai la morte di una letterata di
cui non avevo letto una linea, di un musicista di cui non conoscevo
una nota, vaticinai splendida la carriera di uno stenterello
esordiente. Così, preso l’aire, portai le mie insulsaggini
all’Eco dei Teatri, all’Indicatore, al Carlo Goldoni, allo
Scaramuccia, in ognuno di quei fogli celandomi dietro sigle e nomi
diversi quel tanto (o Galatea!) che non impedisse di riconoscermi
agevolmente: Martino, F. M. Ugo Da Renatico.
L’Eco dei Teatri aveva la propria sede nella piazza San Martino in
faccia alle case degli Alighieri. Con quali ascosi propositi Edoardo
della Nave lo pubblicasse, non fu mai saputo, o possibile intendere.
E non metterebbe conto di parlarne se un aneddoto non dicesse, come
meglio non si potrebbe altrimenti, quale e quanto stentata e
miserevole vita conducessero alcuni di quei giornali.
Nella sua maggior floridezza l’Eco non ebbe mai più di un
centinaio di abbonati, che pagavano quando se ne ricordavano ed
erano quasi tutti di labile memoria. Il Della Nave, salvo qualche
rara e breve cronachetta degli spettacoli fiorentini non vi
scriveva, pago del dirigerlo ed amministrarlo; cure non affannose.
Unico ufficio della Direzione: prendere non leggere e mandare in
stamperia ciò che il caso o l’altrui buon volere largissero;
unico ufficio dell’Amministrazione: non pagare il tipografo.
Il quale secondo ufficio troppo assiduamente esercitato fu cagione
di guai, facili del resto a prevedere. Il tipografo longanime
divenuto a un tratto impaziente, un giovedì, giorno nel quale
l’Eco si pubblicava, venne a proporre questo dilemma: o gli pagavano
il conto o il giornale non si stampava. Scena per me
indimenticabile. Il tipografo accipigliato, arcigno, il Della Nave
sereno, affabile; aspetto ed atteggiamento quali si confacevano alle
sue sembianze di cherubino trentacinquenne: faccia rosea
incorniciata dalla chioma bionda è ricciuta, oro solcato da
qualche filo d’argento.
Che cosa non fece per scongiurare la minaccia? Parlò,
parlò, parlò, promise, pregò; e l’altro zitto,
salvo a interrompere di quando in quando la parlantina con brevi
recise parole che distruggevano l’effetto del discorso e
costringevano il Della Nave a ricorrere a un altro ordine di
argomentazioni,
— Sospendere il giornale ora.... proprio ora sul finire dell’anno
quando stanno per rinnovarsi gli abbonamenti. Per poche lire....
— Seicento.
— Se per un momentaneo disappunto non si può pagar oggi,
è questione di pochi giorni.
— Son tre mesi che me lo dice. —
Ricorse alla mozione degli affetti.
— Siamo vecchi clienti, anzi vecchi amici che hanno lavorato
insieme....
— Se non si riscuote, meglio non lavorare. —
Vano il discutere, vano il pregare, vano, perchè abusato, il
promettere, il Della Nave troncò risoluto il dibattito.
— Amico mio, non si può, e quando non si può non si
può. Ad impossibilia nemo tenetur dissero i latini. La plus
Jolie fille du monde ne peut donuer que ce qu’elle a - dicono i
francesi.
Il tipografo irritato era già: credendosi ora preso a gioco
uscì dai gangheri: alle sentenze poliglotte rispose con la
saporita schiettezza del parlar fiorentino e chiamata in testimone
la Divinità, giurò che non avrebbe mosso il torchio se
i conti non fossero pari.
E mantenne la parola. L’Eco si pubblicò con la data di quel
giovedì.... due settimane più tardi.
Io rimasi male: e perchè quel numero conteneva un mio
articolo, altra pietra per il tempio della mia gloria che
così tardava ad edificarsi; e perchè non vedevo per
l’Eco via di salvezza. Mi arrischiai a domandare:
— E ora?
— Che cosa?
— Per il tipografo....
— Ah! i danari si troveranno.
— Dove?
— E chi lo sa? si troveranno. Fede, caro mio, fede ci vuole
Fede sustanza di cose sperate
Et argumento delle non parventi
come dice quello là. —
«Quello là» era Dante Alighieri. Come vicino di
casa, il Della Nave credeva poterlo indicare confidenzialmente
così.
*
Poichè delle mie temerità dissi gli esordi,
dirò anche la fine, fortunatamente sciaguratissima.
Ho nominato il Passatempo: fu il giornale di Pietro Fanfani e di
Zanobi Bicchierai. Questi, bravo uomo e linguaiolo implacabile
annunziò nel primo numero i propri intendimenti.
Veniva per combattere: scendeva in campo contro ai
«confratelli» che guastavano le teste e straziavano la
lingua nazionale. Scendeva con armi bene affilate avendo,
cioè, «alla mano buona e abbondante materia per
temperare le stravaganze degli scrittorelli prosuntuosi».
Fedele al proposito, ogni settimana nella Rassegna dei giornali
fiorentini, rimbeccava questo e quello, a chi le dava, a chi le
prometteva; e, rastrellata nei miseri fogli gran copia di neologismi
e gallicismi, li sciorinava scandalizzato innanzi ai lettori,
recitando rabbiosetti esorcismi contro quei diabolici
«documenti della nuova barbarie».
Di insulsaggini espresse con adeguata dovizia di gallicismi e di
neologismi l’Eco de’ Teatri non difettava. L’Eco de’ Goti lo
chiamava il Passatempo. Il quale dapprima acerbamente severo con
Martino e con Ugo Da Renatico, si fece poi con quel duo in carne una
meglio che indulgente, benevolo.
«Martino censura argutamente una canzone di Paolo
Garelli», «Martino esamina con sano criterio un romanzo
di Cletto Arrighi».
Finalmente un giorno: «Questo numero dello Scaramuccia
è d’una meschinità intollerabile, non contenendo
nessuno dei giudiziosi scritti letterari d’Ugo Da Renatico, pietra
angolare di quel giornale».
.... medio de fonte leporum
Surgit amari aliquid....
Ciò che non m’aveva ancora insegnato Lucrezio, il Passatempo
me lo insegnò.
La musa feconda di Giuseppe Pieri, un de’ poeti che ebbi commensali
alla Lira, gli dettò in un paio di mesi cento sonetti: ed
egli, raccolti in un bel volumetto, li pubblicò, verdeggiando
sul colle fiesolano la primavera del 1858.
Al Filicaia bastò un sonetto per andare alla
posterità; tanta fortuna il Pieri non la sperò: ma
neanche temè quanto gli avvenne. Al Passatempo non uno dei
cento parve meritevole di esame: sentenziò che «a que’
cosi di 14 versi» tanto conveniva il nome di sonetto quanto a
un cieco quello d’astronomo; e per mitigare al poeta l’amarezza di
quel giudizio con qualche amorevole consiglio, lo esortò a
fortificarsi nella grammatica e nella sintassi.
Misericordia! Il Pieri così sbertucciato ricorse a me per
aiuto. Pregò, supplicò ch’io pigliassi la penna e
rintuzzassi il critico malevogliente.
Già le lodi largitemi avevano solleticato la mia vanagloria:
quella fervida invocazione di patrocinio mi fece addirittura montare
in superbia. Stesse tranquillo l’amico: avrei fatte le sue vendette,
avrei dato pan per focaccia.
Ruminai una settimana. Lo impancarmi a discutere con gente
addottrinata, e ragionare di concetti, di forma, di
proprietà, non era affare per me che a quelle parole non
avrei neppure saputo dare un significato preciso. Non potendo
discutere, bravai, rodomonteggiai: aggredii gli
«scribacchiatori risibili e stolti che si dilettano
nell’avvilire i giovani ingegni;» mi scagliai contro alla
«critica livida e astiosa;» la quale da «meschina
palestra di scaramucce da trivio», si mutò poi sotto
gli impeti della penna fremente in «vipera traditrice che
colpisce all’oscuro» e da ultimo in «vento del deserto
che soffoca e seppellisce nelle aride sabbie la carovana».
Esaurita la peregrina varietà delle immagini, mi mantellai di
burbanza e lasciai intendere che ove si replicasse, più gravi
ferite sanguinerebbero nel nuovo conflitto!
La replica venne. Questa:
«Allo scritto La Critica e i sonetti di Giuseppe Pieri di Ugo
da Renatico si risponde più avanti: intanto diretto al Sor
Ugo: Non avendo ancor messi tutti i denti non potete mordere: e come
cucciolo che siete, con un passavia siamo liberati dalle vostre
rabbiuzze».
Trasecolai; e non so se fosse in me maggiore lo stordimento o la
pena. Come? Quell’ io che censurai argutamente, che esaminai con
sano criterio, quell’io pietra angolare...?
Non ebbi che a voltar pagina per trovar risposta anche alle mie
stupefatte interrogazioni.
«Che andate voi balbettando di scribacchiatori risibili e
stolti? E chi siete voi? E dite quelle cose al Passatempo, voi che
rinveniste sempre nelle nostre rassegne una pietosa gentilezza. voi
che abbiamo tante volte risparmiato, confidando che uscireste un po’
meno sconcio dalla puerizia in letteratura».
Seguiva uno squarcio della mia prosa a documento della mia
«ignoranza» e della mia «prosunzione».
Ah! che brutta giornata! Non uscii quella volta a pavoneggiarmi per
le vie di Firenze col numero dello Scaramuccia mezzo dentro mezzo
fuori dalla tasca sul davanti del petto. Mi pareva che tutti
avessero letto il Passatempo, e tutti mi conoscessero. Se
m’imbattevo in alcuno che ridesse, quegli rideva di me. Brutta
giornata, ma salutare altrettanto.
La mortificazione mi veniva da tale che, se anche un po’ troppo
schizzinoso in materia di lingua, era tenuto ed era veramente uomo
di buon giudizio e di soda coltura. Ragazzo svagato, non si poteva
nè credere nè sperare che per quel primo rabbuffo io
mutassi da un’ora all’altra tenore; ma n’ebbi argomento a
riflettere, e dalle riflessioni nacquero in seguito i pentimenti
alla lor volta non sterili; e lo scrupoloso rispetto del pubblico e
l’odio per il «presso a poco» il frettoloso, il
volontariamente negletto. Mentr’io su la pagina, che tutto un giorno
mi tenne inchiodato al lavoro, ancora mi affatico e mi logoro,
l’ombra del buon Bicchierai tuttavia mi sorveglia e mi sprona.
XII.
Le mie prigioni.
Nell’estate del 1858 venne a Firenze la Laura Bon.... Laura Bon....
Chi è costei? domanderanno parecchi, udendo per la prima
volta quel nome. Potrei soggiungere «figlia di Francesco
Augusto», ma non basta, e forse non giova; temo che oramai un
medesimo oblìo avvolga la figliola ed il padre. Per farla
conoscere, ricorrerò ad un maresciallo austriaco, il cui nome
non dovrebbe essere ancora in Italia dimenticato.
In un libro del Friedjung - Benedek’s nachgelassene Papiers - libro
che certamente non ebbe molti lettori fra noi - è un curioso
documento: una lettera che il feld-maresciallo Benedek, comandante
la piazza di Verona, mandava a Vienna, al Conte di Crenneville il 26
febbraio 1864. Ne riferisco tradotta una parte (pag. 329-332).
«Caro e molto importunato amico,
«L’attrice italiana Laura Bon, alta grossa, di fisonomia non
troppo attraente, ma che nonostante i suoi trentacinque anni, pochi
più pochi meno, può ancora dirsi un «bel pezzo
di donna», pare voglia seguire l’esempio della Ristori; e
però si propone recitare sui teatri di Vienna. Saputo ch’io
partivo per Vienna, venne a pregarmi di prepararle il terreno
colà; tornato io a Verona, tornò lei da me per
consigliarsi, per sapere se quel suo proposito poteva, sì o
no, essere mandato ad effetto con speranza di buon successo. Le
risposi che, poco pratico del mondo teatrale, non m’era riuscito
raccogliere notizie sufficienti; a ogni modo, s’ ella volesse
conoscerla, la mia opinione era questa: per la musica, per l’opera
italiana Vienna ottima piazza: non altrettanto buona per la
commedia, perchè v’è troppo esiguo il numero delle
persone che sappiano la lingua e una compagnia comica correrebbe
rischio di recitare alle panche.
«La signora partì per Torino. Giorni sono, rieccola a
Verona e a chiedermi con insistenza un colloquio. La ricevei, ed
essa mi affermò essere mandata dal re Vittorio Emanuele a
portarmi il suo ritratto in fotografia e i suoi saluti; soggiunse
che aveva da farmi in tutta segretezza una ambasciata.
«È necessario tu sappia che la Bon nella sua prima
gioventù fu in affettuosissima relazione con Vittorio
Emanuele, allora principe ereditario; con l’andare degli anni,
l’amante d’un tempo divenne la buona amica, che in memoria dei
giorni lieti, porta con ostentazione una broche, nella quale
è racchiusa l’effigie di Sua Maestà.
«Cominciò dal raccontarmi che il Re, saputo come la
compagnia piemontese ottenesse qui il favore del pubblico e la
stessa Bon fosse da me garbatamente accolta, pensò di
affidare all’antica innamorata una missione diplomatica. Bisognava,
primo punto, io le credessi: ed ella, a persuadermi della
verità di quanto asseriva, mi narrò una
quantità di particolari: ricordò che a Mortara io
tentai far prigione il Duca di Savoia, ma non riuscii se non ad
afferrare le briglie del suo cavallo, ecc., ecc.: ripetè
frasi complimentose dette dal Re sul conto mio e finalmente
buttò fuori la parte, imparata, come dice lei, faticosamente
a memoria
«In sostanza il Re ha il vivo desiderio di stringersi in
alleanza con l’Austria, e ottenere, a tempo opportuno, la Venezia
mediante compensi da determinarsi. Mi faceva domandare se ero
disposto a riferire all’Imperatore le sue opinioni e le sue proposte
e ad assumere l’ufficio di intermediario. Tutto ciò esposto
dall’attrice con elegante vivacità di parola.
«Giunse anche per me la volta dei complimenti: lodai le sue
attitudini alla diplomazia, la sua voce, i suoi denti bellissimi, e
risposi: che io, cara signora, la creda, o no, in facoltà di
dirmi quanto m’ha detto, è cosa che poco importa; le faccio
soltanto osservare che se un generale piemontese s’impegnasse a fare
ciò che mi si propone, tutti, compreso il re Vittorio
Emanuele, direbbero: «Costui è un imbecille, anzi un
asino».
«La signora ascoltò la risposta con la «buona
grazia» e la disinvoltura propria d’un’ italiana e si
accomiatò, chiedendomi una commendatizia per il direttore del
teatro di Vienna. Volli dimostrarmele ancora cortese; le detti una
lettera di cui ti acchiudo la copia, per il barone Mecseny, e l’
indirizzo del consigliere Lewinsky, direttore della stampa al
Ministero, che conobbi molti anni sono durante il mio soggiorno in
Galizia. Giudica tu quanto del colloquio sia opportuno far noto al
Ministro di Polizia».
*
Fatta la conoscenza, riprendiamo il racconto.
La Bon venne dunque nel 1858 a Firenze, e dette al Teatro Nuovo,
oggi demolito, alcune rappresentazioni. Quantunque non ancora
distratta dai negoziati internazionali, recitava piuttosto male; con
enfasi monotona, fatta più noiosa da un continuo gesticolare;
ciò nonostante gli applausi scrosciavano; credo nessuna
attrice ne ottenesse mai de’ più caldi, meritandoli meno. Se
non che, gli applausi non andavano a lei, ma a quello spillo che sei
anni dopo dava nell’occhio al maresciallo Benedek: alla miniatura di
un Vittorio Emanuele biondo ricciuto paffuto, che spiccava ora sulla
tunica di Clitennestra, ora sul manto di Maria Stuarda.
Di fresco aveva ottenuto successo felicissimo sui teatri di Francia
e d’ Italia, mercè la Ristori, una mediocre Medea del
Legouvé: venne in mente alla Bon di esumare la Medea del
Niccolini. Figuratevi! una tragedia dell’autore del Procida,
recitata da un’attrice protetta, anzi benvoluta dal Re di Sardegna!
Ai liberali, auspice Vincenzo Salvagnoli, parve quella la più
favorevole delle congiunture, per una delle tante manifestazioni
allegoriche che piacevano ai toscani d’allora e le quali, pur intese
a significare moltissime cose l’una più sovversiva
dell’altra, permettevano al governo scansafatiche di far le viste
che nulla fosse.
Da anni, il Niccolini non usciva di casa se non per fare una
trottata in carrozza chiusa ne’ viali delle Cascine. Dico
«trottata» perchè così usa a Firenze, dove
fa una «trottata» chiunque si lascia strascicare per
diporto in carrozza, anche se i cavalli vanno di passo; e a passo di
lumaca andava quello del Niccolini, coetaneo, credo, del cocchiere,
del cocchio e del poeta, tutti venuti al mondo sullo scorcio del
secolo decimottavo. Mi ricordo averlo veduto il Niccolini la prima
volta, poco innanzi che avvenissero i fatti i quali sto per
raccontare. Di lui, sebbene già si stampasse su’ giornali la
mia prosa barbara e pretensiosa, avevo forse letto una lirica o due;
ma i vecchi lo dicevano grande autor tragico e bastava perch’io lo
ammirassi. Allora, a diciassette anni, non si provava il prurito che
assilla oggi gli adolescenti di dir sempre bianco quando i vecchi
dicono nero e viceversa; si giurava in verba magistri. Eccesso per
eccesso, meglio gli spropositi, la presunzione, le avventatezze;
sono difetti dei quali col tempo e lo studio si guarisce; ma
quell’assuefarsi ad accogliere le opinioni belle e fatte, quel
vestire, sia pure senza volerlo, la infingardaggine da reverenza,
disavvezza dal pensare, impigrisce talmente lo spirito che a
scoterlo poi ci vogliono anni e anni e non sempre ci si riesce.
Dunque il Niccolini, a detta de’ vecchi, era un grand’ uomo ed io
smaniavo di vedere come fosse fatto l’autore di tante opere
stupende, che nessuno mi aveva posto fra mano ed io mi ero senza
rammarico astenuto da leggere. Un giorno, passando da via Larga,
veggo muovere faticosamente una bastardella (così chiamavano
certe carrozze chiuse di forma particolare), e da un crocchio sento
uscir queste parole: «Ecco il Niccolini che va alle
Cascine!»
Augusto Barbier raccontò d’aver fatto di corsa a Napoli tutta
la via Toledo per raggiungere la calèche di Walter Scott; io
feci più lungo tragitto; e di carriera, infilando strade e
vicoli, esperto delle scorciatoie, arrivai alle Cascine prima della
carrozza.
Me lo figuravo, a dire il vero, molto diverso. Basso di statura,
rinfagottato in una palandrana color marrone, con una parrucca che
gli calava sotto gli orecchi e un cappello a cencio che copriva gli
estremi lembi della parrucca, il Niccolini, a chi non poteva mirarne
lo sguardo, sfavillante sempre, pareva un potestà riposato
che svernasse alla capitale.
Invitato ad andare al Teatro Nuovo, rispose da principio e brusco un
bel no; ma gli altri, senza sgomentarsi, tanto fecero, tanta gente
misero in moto, che riuscirono a vincere la repugnanza del vecchio
poeta e a condurlo alla quarta o quinta replica della Medea, in un
palco del primo ordine, a destra della bocca d’opera. Avvenimento
così solenne, che mio padre permise io andassi al teatro
senz’ altra accompagnatura che quella d’un amico, il quale aveva la
stessa età mia: non ancora diciassette anni.
*
Della gente infanatichita ne ho vista più volte in vita mia,
ma non come in quella sera. La tragedia, sto per dire, non fu
neanche ascoltata; il pubblico la sapeva oramai a mente e rompeva in
applausi a un verso, a un emistichio, prima ancora che uscisse dalle
labbra degli attori. Io che non avevo letto la Medea ne capii poco o
nulla; e perchè era difficile l’attenzione tra quel continuo
frastuono di battimani e di grida, e perchè sulle prime mi
distrassero le meravigliose braccia della Laura, le prime belle
braccia femminili che io, cùpido adolescente, avessi agio di
contemplare.
Così s’andò fino al termine del quarto atto.
Nell’intervallo dal quarto al quinto, quella che poteva apparire
onoranza al poeta si mutò in una vera e propria
manifestazione politica. Cominciò una contessa Bobrinska,
vecchia russa dimorante a Firenze, a buttare in platea da un palco
del second’ordine manciate di fogliolini, con su stampata questa
invocazione:
Sorgesti con la Medea
Tramonterai con l’Arnaldo?
L’Italia anco nelle tenebre
Aspetta un tuo raggio
Il Mario
Roba innocua; ma fogliolini s’eran buttati undici o dodici anni
innanzi nella platea della Pergola, per chiedere al Granduca non so
più se la guardia civica o la costituzione. La gente
ricondotta col pensiero a que’ tempi s’infiammò; fino allora
s’era gridato «Viva il Niccolini;» da quel punto si
gridò «Viva il poeta italiano», poi con abile
trapasso «Viva la gloria d’Italia», finalmente, senza
tante cautele, «Viva l’Italia».
Una volta preso l’aire, non fu più possibile fermarsi.
Giuseppe Bandi (che perdè quella sera l’occasione di farsi
mettere in carcere, ma, come succede agli uomini di buona
volontà, la ritrovò di lì a poco)
distribuì stampato un suo carme in isciolti, nelle forme
esteriori un inno al Niccolini, nella sostanza un inno alla
libertà; ed egli stesso ne offrì al poeta una copia in
carta bianca rossa e verde. Perchè questo mi scordavo: che
l’illustre vecchio non fu lasciato in pace un minuto; nel suo palco
un continuo andirivieni di persone che gli s’accalcavano intorno, e
Chi il piè chi il manto di baciar godea,
come alla Giuditta dello Zappi. Rammento che mentr’ io ficcavo il
capo fra le gambe del Bandi per chiappare una mano del Niccolini, il
Biadi, mio compagno, gli copriva di baci la parrucca; e il
Niccolini, infastidito da quelle espansioni, brontolava: basta, via,
grazie, basta.
Intanto un tale scorge al terzo ordine la improvvisatrice famosa a
que’ giorni e grida: «C’è la Milli!» Fu come dar
fuoco a una polveriera: subito, e da ogni parte: «la Milli, la
Milli, giù, giù, versi, versi, giù,
giù». Inutilmente la povera donna si
rincantucciò; l’andarono a prendere e la portarono quasi di
peso sulla scena e vollero improvvisasse un sonetto con rime date
dagli spettatori. O caso o malizia, la prima di quelle rime fu
amore; poi via via le altre e ogni rima un applauso. Mancava una
rima in ore a compiere la seconda quartina; una voce (nè si
capì donde partisse) urlò: tricolore. Succede un
silenzio di tomba. L’avvocato Leopoldo Cempini, un de’ caporioni del
partito liberale e che era vicino a me ne’ posti distinti,
borbottò: «addio»; quasi, arrivate le cose a quel
punto, temesse inevitabile l’intervento della polizia. Ma nessuno si
mosse; oramai la rima era data e a mutarla si sarebbe fatto peggio;
d’altra parte «tricolore» non è tale epiteto che
si possa appiccicare a molti sostantivi; di guisa che la Milli,
regnante in Toscana Leopoldo II e sedente Pio IX sulla cattedra di
San Pietro, salutò in pubblico teatro innanzi a parecchie
centinaia di persone la bandiera nazionale, presenti, accettanti e
stipulanti i poliziotti di S. E. il commendatore Leonida Landucci,
ministro dell’ interno; se l’avesse fatto a Roma, sarebbe andata a
improvvisare le terzine a Civita Castellana, se a Modena, le
avrebbero mozzato d’un colpo solo il sonetto e la testa. Ma
nè a Roma nè a Modena si sarebbe permessa quella
recita; in Toscana il governo non soltanto la consentì, ma
dette ordine ai sottoposti di lasciar correre.
E così fu fatto. Dopo il «tricolore» parve
bensì ai poliziotti troppo meschina figura lo star lì
piantati con le mani in mano; chiesero istruzioni ed ebbero questa
risposta: provvedessero affinchè non oltre si trasmodasse e,
all’occorrenza, arrestassero i più esaltati.
Ma ormai la festa era finita, l’intento raggiunto anzi oltrepassato;
sfidata la polizia con la temerità, giovava ora canzonarla
con la prudenza. Difatti durante il quinto atto applausi strepitosi
all’autore e all’attrice, non una sillaba che desse argomento a
richiami.
*
Il Niccolini uscì per un androne che dava sulla piazza del
Duomo, ove s’era adunata per accompagnarlo a casa gran folla. Chi
gridava «Viva l’autore della Polissena», chi «Viva
l’autore del Foscarini»: le perifrasi pericolose le avevano,
indettati, messe da parte. Mi meravigliavo che nessuno ricordasse
l’Arnaldo da Brescia. Notiamo bene: avevo fatto i miei studi in un
istituto nel quale l’insegnamento della storia cominciava con
Agamennone e finiva con Carlo Magno; dove poteva tenersi dotto nella
letteratura italiana chi avesse a memoria il canto d’Ugolino e
lardellasse i componimenti di frasi racimolate nel Galateo di
monsignor Della Casa. Arnaldo da Brescia non sapevo chi fosse: lo
credevo un feudatario; nondimeno sapevo ciò che a Firenze non
era possibile ignorare, cioè che l’Arnaldo si stimava
universalmente il capolavoro del poeta.
Confidai al Biadi, quello della parrucca, e che già mio
condiscepolo era colto come me, la intenzione di far l’erudito e di
urlare «Viva l’autore dell’Arnaldo». La trovata parve
naturalmente stupenda anche a lui, e mentre il Niccolini montava in
carrozza, prese insieme le mosse, insieme cacciammo il grido
funesto.
Non avevamo fatto più di dieci passi l’uno a braccetto
dell’altro, quando una mano poderosa piombò sulla nuca del
Biadi. Fermatosi lui, fui costretto a fermarmi anch’io. Mi volto e
veggo un ufficiale de’ gendarmi.
— Che c’è?
— C’è che lor signori faranno il piacere di venir con me.
— Dove? perchè?
— Il dove e il perchè lo sapranno poi. Ve Io voglio dar io,
l’Arnaldo, monelli.... —
E soggiunse non so più quale aggettivo onde il mio compagno
si sentì offeso; e volgendosi con molta dignità:
— Badi come tratta, — disse.
— Se tu rifiati, — replicò l’altro, — ti do uno scapaccione
che il muro te ne renda due. —
Ci persuademmo subito che l’animo di quell’uomo era chiuso alla
serenità delle disquisizioni pacate e procedemmo con lui
verso il Palazzo non finito, dove, un trecento passi distante, aveva
sede la Prefettura. Noi zitti. L’ufficiale mugolava.
— L’avrebbero a fare a me! Lascia correre, lascia correre, se
n’avvedranno loro quei.... (e qui un altro aggettivo sostantivato,
vera mancanza di rispetto ai superiori). Si canzona! quattr’ore di
questo fracasso.... se mi davano carta bianca ne impiccavo uno per
quinta.... Pur di dar noia non vanno a scavar questo vecchio...?
(terzo aggettivo e mancanza di rispetto al Niccolini).
Arrivati alla prefettura ci fece salire al primo piano,
domandò i nostri nomi, notizie della famiglia e ci
piantò al buio. Tornò di lì a poco per condurci
in un bel salotto che suppongo fosse il salotto di ricevimento del
commendatore Petri, prefetto di Firenze e provincia. E se ne
riandò.
*
Era di luglio e dalle finestre spalancate entrava un fresco
deliziosissimo. Per carcerati non si stava male; nondimeno avremmo
preferito essere altrove; ci angustiava il pensiero che i nostri non
vedendoci tornare potevano immaginare qualche brutto caso, o, a
meglio dire, qualche caso più brutto, che il trovarsi
lì non era, in ultima analisi, un divertimento. Anche ci
angustiava l’incertezza della nostra sorte: che un castigo dovesse
toccarci pareva sicuro: quale? Per giunta avevamo sete ambedue, il
mio compagno d’acqua gelata, io di dottrina. Volevo sapere che cosa
avesse fatto quell’Arnaldo da Brescia, che a nominarlo soltanto si
finiva in prefettura.
Passa un’ora, due, tre, non si vede nessuno; m’ero appisolato da
poco sopra un bel canapè coperto di raso verde a righe
alternativamente opache e lucide, quando entrò nella stanza
(saranno state le cinque) il prefetto in persona: un vecchietto
piccolo, asciutto, pallido, lindo.
E qui il dialogo merita d’essere trascritto tal quale m’è,
dopo tanti anni, nella memoria, genuino e vivo come se di ieri sera.
Il Prefetto. - Buon giorno a loro.
Noi due insieme. - Felice giorno, signor commendatore.
Il Prefetto - (leggendo in un foglietto). Loro si chiamano?
Io. - Ferdinando Martini.
Quell’altro. - Michele Biadi.
Il Prefetto. - Lo sanno perchè son qui?
Io. - No signore.
Il Prefetto. - Come no signore? Non facciano il nesci. Non hanno
gridato ieri sera?
Io (smanioso di far l’erudito). Viva l’autore dell’Arnaldo da
Brescia.
Il Prefetto. - Ah! dunque loro leggono l’Arnaldo?
A dir di sì, rischiavamo una bugia pericolosa, a dir di no ci
si faceva canzonare; per conseguenza, zitti.
Il Prefetto (seguitando). - E chi glielo ha dato a leggere? Il babbo
no di certo; son figli di persone rispettabili.... Qualche amico,
già s’intende. Ci ho dato eh? Un amico?... Facciano grazia di
rispondere.
Rispondere che? Il Biadi fece un cenno affermativo col capo.
Il Prefetto. - Ah! lo dicevo io.... E chi è questo amico?
La cosa si faceva seria; non potevamo inventare un complice. Per
buona sorte il prefetto mutò discorso.
Il Prefetto. - Ma, domando io, che cosa ci trovano di bello
nell’Arnaldo? L’Italia eh? la solita Italia! E poi? Ah! ragazzi
senza giudizio, vi par egli questo il modo di contenersi? Pigliar
parte ai subbugli, dar dei dispiaceri alle famiglie.... E se vi
facessi mettere in prigione?
Pausa. - Il prefetto ci guardava per veder l’effetto che ci faceva
quella minaccia. Noi sostenevamo lo sguardo imperterriti,
sicurissimi, per il modo onde era fatta, che in prigione non ci si
andava.
Il Prefetto. - Se almeno vi riscaldaste per qualche cosa che ne
mettesse il conto! ma per il Niccolini!... Italia Italia Italia, e
nient’altro. E con tutta la sua Italia non è mai riuscito a
fare un sonetto come quello del bisnonno. Ve ne ricordate?
Nè te vedrei del non tuo ferro cinta....
Noi insieme (felicissimi di poter fare finalmente gli eruditi).
Pugnar col braccio di straniere genti
Per servir sempre, vincitrice o vinta.
Il Prefetto. - Sicuro. Per servir sempre, vincitrice o vinta. Questi
son versi! Ma quelli del Niccolini vi pare che sieno versi da
tragedia? Sì, belle immagini, una certa fluidità, ma
versi da tragedia neanche per sogno....
L’angel di Dio
Quella parola che non vien dal core
Nel suo libro non scrive, o scritta appena
La cancella col pianto.
Troppe parole, troppa lirica, poca azione.... troppe lungaggini....
Non vi pare? Scommetto che non vi pare. No? Ma l’Alfieri, ragazzi,
l’avete letto?
Io (contentissimo di dire questa volta la verità). No.
Il Prefetto (al Biadi) - E lei?
Il Biadi - Nemmeno io, signor Commendatore.
Il Prefetto (cascando dalle nuvole. Non avete letto l’Alfieri? Ma
chi è stato il vostro maestro? Aspettatemi un momentino.
Uscì e tornò in un battibaleno con un libro in mano e
lì, direi seduta stante se non fossimo stati tutti tre in
piedi, lesse e illustrò squarci del Filippo, della Virginia,
fermandosi ogni tanto per guardarci con l’occhio canzonatore e
ripetere: Questi son versi! Questa è tragedia!
Arrivato al discorso di Virginio:
O gregge infame di malnati schiavi,
non lesse più: posò il volume e declamò
addirittura. Quand’ebbe finito, ci battè la mano sulle spalle
e:
— Andate a casa, ragazzi, che i vostri staranno in pensiero; abbiate
giudizio e non vi compromettete. E leggete l’Alfieri, leggetelo
bene, leggetelo tutto e vedrete che i furori per il Niccolini vi
passeranno. Ci vuol altro che Arnaldi! Addio, figlioli, e state
bene. —
*
L’epilogo tragicomico lascio che altri racconti.
«Quando avvenne la predetta dimostrazione (così in suo
libro Aristide Provenzal)5 alcuno da Londra scrisse a me dimorante
allora a Torino per domandarmi pronte ed esatte informazioni sulla
sorte del giovine che era stato arrestato. Scrissi immediatamente al
professor Bianciardi a Firenze e alla signora Palli in Livorno, ma
invano. La causa delle premurose ricerche, ignorate forse dal
Martini medesimo, era che una signora inglese, probabilmente la
signora Mignaty, così benemerita delle lettere italiane, o la
signora Teodosia Garrow, che tradusse l’Arnaldo in versi inglesi,
scrisse ad un giornale di Londra che un giovine di nobile aspetto
era stato arrestato e chiuso chi sa dove, giacchè non v’era
traccia di lui in nessun carcere, e ciò per aver osato
gridare Viva l’autore dell’Arnaldo in un paese soggetto interamente
al papa».
«Chi sa dove!» Quante lugubri ipotesi in quelle tre
parole! Chi sa in quale tetra spelonca pensarono illanguidisse il
mio nobile aspetto, intristisse il fiore della mia gioventù.
E delle ipotesi c’era pur questa, la più semplice: che in
carcere non si riuscisse a trovarmi, perchè non mi ci avevano
messo: ma questa pare non venisse in mente alle pietose signore!
Felice prigionia di una notte d’estate! Se non produsse tutti gli
effetti che il Commendatore Petri ne sperò, uno tuttavia ne
produsse: una parte della mia educazione intellettuale la devo a
quel buon uomo di prefetto toscano, il quale alle cinque della
mattina declamava la Virginia a due ragazzacci, e, per guarirli del
l’Arnaldo, li consigliava a curarsi con l’Etruria vendicata.
XIII.
Enrico Nencioni.
Avevo scansato il carcere mi fu inflitto l’esilio, anzi il confino.
Nel termine di due giorni, partenza per Monsummano con ingiunzione
di rimanervi due mesi (eravamo di luglio) senza allontanarsene mai e
attendere che, trascorso quel tempo, mio padre vi venisse egli
stesso, come sempre, nelle vacanze autunnali.
Condanna, non castigo. Mio padre provvedeva così a togliermi
occasione di nuove ragazzate imprudenti, ma sapeva benissimo che
l’ingiungere a me di stare in campagna era lo stesso che invitare la
lepre a correre.
Io stento a capacitarmi come si possa non amare la campagna. Eppure
un poeta, il Baudelaire, di non amarla non si contentava, si vantava
di odiarla e di preferire lo stridere del violino grattato da un
cieco in una via di Parigi, al canto degli usignoli nel parco di
Saint Cloud o nel bosco di Fontainebleau.
Tutti i gusti sono gusti — dicono: e io ripenso all’onorevole
Ma....o, che fu mio collega alla Camera. La carta era per lui il
più saporito degli alimenti; nell’aula, negli uffici,
dovunque di soppiatto potesse, ingeriva deliziosamente frammenti di
progetti di legge e di relazioni; beato ogni qual volta gli
riuscisse di fare, indisturbato, una bella pappata di atti
parlamentari. Era un gusto anche quello.
La campagna io la ho amata, adorata sin da bambino. A sette, a otto
anni, se avessi letto Virgilio, l’«o rus quando te
aspiciam» sarebbe stata la mia invocazione di tutti i giorni,
la mia giaculatoria di tutte le sere. Quando il primo d’ottobre
montavamo in carrozza per andare a Monsummano, il pensiero di passar
là cinque settimane mi cagionava una commozione di
così acuta dolcezza, che una volta tra le canzonature di mio
fratello, gli ammonimenti di mia madre e le risa del cocchiere,
sbottai in un pianto dirotto. Ma quanto amare le lacrime nuove,
quando a San Martino si pigliava la via del ritorno! Tutto un
singhiozzo da Monsummano a Firenze e mi avvenne di giungervi, per
quel continuo frignare, febbricitante.
La ingiunzione paterna io dunque la accolsi con gioia: la dimora in
campagna mi era quella volta anche più grata del solito.
La frustata del Passatempo frizzava ancora; l’aver dovuto confessare
al Prefetto di nulla conoscere dell’Alfieri, ora, mi rincresceva;
pensavo quanta più sciocca figura avrei fatto, se gli fosse
saltato l’estro di interrogarmi circa quell’Arnaldo da Brescia per
il quale mi ero fatto acciuffare e apostrofare in stile vivace da un
tenente de’ gendarmi: quell’Arnaldo da Brescia, del quale, se
personaggio, non sapevo che il nome, se tragedia, non avevo visto
nemmeno il frontespizio! Seguitando di quel passo, divulgavo io
medesimo i documenti dell’ignoranza che m’era già rinfacciata
pubblicamente.
Cominciavo a vergognarmene, a sentire il bisogno di raccoglimento; e
il soggiorno in campagna era a ciò singolarmente propizio; mi
assillava una improvvisa bramosia di letture, nella quiete della
campagna più facile ad appagare.
Ma leggere che cosa? Subito e per intanto l’indispensabile. Ma in
che consisteva «l’indispensabile?» Ricorsi a Enrico
Nencioni.
*
Lo ebbi condiscepolo nell’Istituto Rellini; maggiore a me di cinque
anni, ne uscì al termine dell’anno nel quale io vi entrai.
A malgrado della reciproca simpatia, io ancora ragazzo e lui
giovinotto ci perdemmo di vista: anche perchè egli,
precettore nella famiglia dei Conti Gori Pannilini, passava con essa
la metà dell’anno a Marciano in quel di Siena.
Ci ritrovammo in seguito presso al feretro di un giovane di
bellissimo ingegno che avevo conosciuto da poco e al quale il
Nencioni era molto affezionato: certo Francois, di famiglia lorenese
che, venuta a Firenze con Francesco II, vi aveva poi preso stabile
domicilio e cittadinanza.
Uno stoico. Mortegli in breve tempo e prima che ei giungesse ai
venti anni, la madre e una sorella ambedue di etisia, appena si
senti minacciato dalla tabe succhiata col latte materno, volle e lo
diceva al Nencioni conoscere almeno una parte di quel mondo ch’era
destinato a lasciar così presto. Viaggiò tre anni di
seguito: percorse l’Europa tutta quanta e l’India e l’Egitto. Quando
tornò, e fu allora ch’io lo conobbi, la malattia lo aveva
così corroso e scarnito, gli aveva impresso nelle occhiaie
profonde e sulla pelle cianotica così chiari gli indizi della
prossima fine, ch’era uno strazio il guardarlo.
Lo vidi più volte in un Caffè su la piazza Santa
Croce, pochi passi distante dalla sua abitazione, dove egli soleva
trascinarsi a passare la serata con gli amici in chiacchiere e in
celie. Sicuro, in celie. Ombra di tristezza non velò mai la
sua faccia. Era d’inverno, gli consigliavano di aversi riguardo, di
non uscire a’ que’ freddi in quelle ore. Scrollava le spalle e
discorreva della propria prossima fine con la stessa indifferenza
con cui si parlerebbe di persona morta due secoli fa. Una sera - non
avevano notizie di lui da una settimana - ricomparve al
Caffè. Veniva a dire addio agli amici, prima di coricarsi per
l’ultima volta; annunziò che sarebbe morto fra due giorni in
un’ora del pomeriggio e se ne andò sorridendo.
Quantunque persuasi tutti che la fine fosse imminente, nessuno
prestò fede a quel pronostico; pensarono che, consunto il
corpo, ora del povero amico s’offuscasse lo spirito.
Stranezza del caso! Il Francois morì, come aveva predetto,
due giorni dopo in una delle ore pomeridiane. Quando giunse il
momento supremo, stesa la mano a Enrico Nencioni, che lo assisteva
con affetto fraterno, e sorridendo ancora, — crepabitur — disse e
spirò.
*
Ricorsi dunque al Nencioni.
L’amico era al giorno delle mie peripezie, l’articolo del Passatempo
lo aveva letto anche lui; e gli era dispiaciuto di leggerlo, non
perchè fosse come ei diceva villano, ma perchè io me
lo ero meritato. Si felicitava del mio proposito, contento che
l’esilio mi offrisse agio a rifarmi del tempo così
stoltamente perduto. Mi porse una lunga lista di libri, mi
prestò alcuni dei suoi: l’Adelchi del Manzoni, le Operette
morali del Leopardi, l’André della Sand, l’Obermann del
Senancour.
La villa di mio zio, prossima alla nostra, aveva una piccola
biblioteca: mezzo migliaio di volumi, de’ quali cencinquanta
all’incirca di storia e letteratura.
Un biografo del Vallon racconta di un Jean Standoch studente amico
del poeta, e sonneur de cloches de l’Abbaye Sainte Genevêve,
il quale fu lettore così ostinatamente assiduo, che quando
per mancanza d’olio la lucerna gli si spengeva, saliva sul campanile
dell’Abbazia per leggere al lume di luna.
Posso vantarmi d’aver rivaleggiato nel mio soggiorno monsummanese
con lui; salvo che a me l’olio non faceva difetto ed erano
perciò superflui i campanili. Anch’ io lessi senza tregua di
giorno e di notte i cencinquanta volumi, tutti dal primo all’
ultimo, alcuni rilessi: l’Adelchi (fo il viso rosso nel rammentarlo:
c’è in tutto il teatro dell’Alfieri una scena da stare a paro
con quella fra Carlo e Desiderio nell’atto quinto?) l’Adelchi mi
seccò: due libri mi fecero una impressione profonda. L’
Histoire des girondins del Lamartine e i Mémoires d’outre
tombe dello Chateaubriand. Non ho mai riletto il primo: più
volte, e sempre ammirando, per la magnificenza dello stile, il
secondo.
Quando, così dirozzato, tornai a Firenze, se non di discutere
col Nencioni, ero in grado di intenderlo: e in quegli ultimi mesi
del ‘58 e ne’ primi del ‘59, non passò giorno senza che ci
vedessimo. Andavamo insieme a passeggio: e s’accompagnava a noi di
quando in quando un giovane simpaticissimo, Luigi Prezzolini, che fu
poi segretario particolare del Barone Ricasoli durante il governo
della Toscana, poi sotto prefetto, prefetto da ultimo; uno dei
funzionari più intelligenti e più colti, fra quanti
n’ebbe il nuovo Regno d’Italia.
L’appuntamento quotidiano era al Caffè Castelmur ritrovo
degli «eleganti» in via de’ Calzaioli su l’angolo della
via de’ Tavolini.
Il Nencioni aveva preso a venirmi incontro, ridendo e declamando
enfaticamente questi versi:
Levez vous fils d’Argos! Levez vous fils d’Athènes
O Sparte! tes heros suivent Léonidas!
Courez! entendez vous la voix de Démosthènes?
Voyez vous ce guerrìer? C’est Epaminondas!
Dove li aveva letti? Di chi erano? Non volle mai dirlo.
Dopo sessanta anni, qualche mese fa aprendo a caso un volume del
Seché, imparai ch’erano del Pauthier, il sinologo che prima
di darsi a illustrare la iscrizione siro-chinese di Sin-Gan-Fou,
fondamento della sua fama, offrì quel saggio di rime opulenti
alla patria letteratura.
Chi può dire dove il Nencioni fosse andato a scavarli? ma de’
francesi e degli inglesi leggeva tutto quanto potesse. Anche i libri
che nessuno leggeva.
Oh! le lezioni peripatetiche al Parterre, in Boboli, al Poggio
imperiale! Ancora nei crocchi de’ letterati e de’ giornalisti durava
l’eco delle polemiche circa la Diceria degli Amici pedanti: ancora
nelle scuole si vantava il primato dell’Italia nella letteratura;
non solo; si racimolava qua e là qualche strambo emistichio
per beffarsi delle straniere. Oh! come ci aveva fatto ridere all’
Istituto Rellini il buon Calvi, sgangherandosi dalle risa egli
stesso, nel recitare questi versi del Lamartine:
et le soleil se couche
Comme une poire délicieuse qui se fond dans la bouche.
— Hanno capito? il sole paragonato a una pera.... E qui un’altra
risata. Non erano quelli i soli versi del Lamartine; ma il buon
Calvi, si potrebbe giurarlo, conosceva, imparati ad orecchio,
solamente que’ due. Ed erano poi veramente del Lamartine? Non mi
sono mai curato di accertarmene.
E il Nencioni convinto della necessità di trasfondere nel
sanguue nostro fatto oramai gelido nuove vigorie, nuovi ardori,
invitava, incitava ad addentrarsi nella conoscenza delle letterature
straniere; a leggere, a confrontare, per persuadersi che qualche
cosa sapevano fare anche di là dal Cenisio.
Diceva: sì, il Giusti ha ragione, «eravamo grandi e
là non eran nati»; ma da quando oltre l’Alpe nacquero e
crebbero, la nostra grandezza andò declinando d’alquanto.
Sì, io ho tutta la venerazione per il Magalotti ed il Cocchi:
ma ci sono delle belle pagine di prosa anche in Nôtre Dame de
Paris, ho tutto il rispetto per il Mamiani, ma le Feuilles d’Automne
dell’Hugo, le Méditations del Lamartìne, Casa Guidi
della Browning, possono per lo meno, stare a fronte dell’Inno a
Santa Sofia. Sì, ha il suo merito anche il Giordani (e
recitava a memoria gli ultimi periodi della Necrologia della
Giorgi), ma non sarebbe male, tutt’altro, che la comune prosa
italiana acquistasse di lucentezza, di speditezza, di
semplicità, doti antiche e stupende della francese.
*
La raccolta de’ suoi scritti critici, documento dell’ingegno e della
coltura sua, non basta pur tuttavia a far conoscere quanto dell’uno
e dell’altra si giovassero le lettere nostre. Noi lo sapemmo, noi,
anno più anno meno, suoi coetanei e compagni. Ahimè!
non posso dire «sappiamo». Sono rimasto solo della
giovane amica brigata, la quale dalla parola di lui calda e benigna
traeva tesoro di quotidiani ammaestramenti. La più efficace
opera sua di critico fraterno bisognerebbe, se fosse possibile,
rintracciarla ne’ volumi altrui: di Giosuè Carducci, che lo
rammenta consigliatore autorevole, amorevolmente ascoltato, di
Gabriele D’Annunzio che il Nencioni educava alla poesia di Roma,
conducendolo adolescente fra i cipressi di villa Ludovisi, e sotto
gli elci di Villa Medici.
E in altri, e in altri. Ricordo una sera del ‘66 nella casa dei
Conti Gori a Firenze. Giovanni Prati gli recitava, me presente,
alcuni fra i pochi bei tratti dell’Armando, farraginoso poema che
stava per dare alla luce: la Canzone di Mastro Agabito, e il Canto
d’Igea. Li recitava (intenderà facilmente chi abbia in
pratica letterati) per sentirsi dire «bravo, benissimo»,
e «bravo, benissimo» diceva anche il Nencioni; ma, pur
ammirando, notava qua e là imperfezioni: locuzioni astruse,
parole onde non bene era espresso il pensiero; suggeriva
remissivamente emende a evitare cacofonie, a dar maggior vivezza
all’imagine. Il Prati proclive (non si offenda la carissima memoria
sua) a stimare ottimo in ogni parte quanto gli uscisse dalla
fantasia e dalla penna, sulle prime s’inalberò; e, se non
disse, lasciò capire come fosse sdegnosamente meravigliato
che quel giovinotto, il quale avrebbe dovuto ringraziarlo di tali
primizie, osasse senza autorità alcuna, fargli invece il
barbassoro sul viso. Ma il Nencioni non cedè; incalzò
col ragionamento, citò esempi di poeti stranieri, dei quali
il Prati conosceva, forse sì forse no, il nome soltanto
andò a finire che il vecchio poeta s’arrese e molti accolse
dei suggerimenti del critico inedito, la cui autorità, se non
dal nome e dalle opere, gli veniva dal buon gusto, dalla logica,
dalla dottrina.
S’arrese così persuaso, che l’altro acquistò nuovo
coraggio a nuove osservazioni.
Una delle ballate giovanili del Prati cominciava con questi versi:
— Carlo, uno strepito
Dietro noi sento:
— Son gli arsi nòccioli
Scossi dal vento.
E il Nencioni a dire: «I nòccioli son quelli che si
trovano dentro alle pesche. L’albero si chiama
nocciòlo». Nella edizione delle Opere fatta poi dal
Guigoni, il Prati infatti corresse e ai nòccioli furono
sostituiti i frassini.
Peccato io non possa riferire nella loro integrità i dialoghi
di quella sera! Fatto sta che il «cantore d’Edmenegarda»
udito, nel girare per Firenze, da popolani sboccati certo epiteto
osceno ed equivocando nel significato, lo appioppò in un
quinario sdrucciolo ad Anacreonte. Anche di questo strafalcione
volle il Nencioni farlo avvertito. Scoliaste pudico, cercò
sulle prime di spiegarsi alla meglio; ma poichè il poeta non
intendeva, s’indusse, costretto, a chiarissime definizioni. Il Prati
allibì: quella poesia era stampata da più che dieci
anni. O colmo di disperazione! l’aveva pochi giorni innanzi
trascritta sull’album d’una signora lombarda! Poi, dette nelle
furie. «Ecco i bei servizi che fanno i fiorentini a chi studia
la lingua loro» e giù invettive contro Firenze
turpiloquente. Quella parola l’aveva dicerto raccattata ne’ circoli
del ‘48, dov’egli con pericolo della vita era andato a combattere i
demagoghi, feccia d’ ogni parte d’ Italia. E giù invettive
contro la demagogia laida perfin nel linguaggio.
E il buon Enrico,
o pazienza che tanto sostieni!
adoperatosi con dolcezza quasi filiale a temperare quella collera,
ammoniva poi con gravità quasi paterna: che chi aveva a
propria disposizione così abbondante vocabolario, così
riccamente spontanea la rima, poteva fare a meno di impaludarsi ne’
fiorentinismi di Camaldoli e di Mercato.
*
E questo apostolato per la bellezza e la verità, dovunque
fulgessero, continuò poi sempre; e quando nella piena
maturità della mente e della vita si risolse a dire al
pubblico ciò che aveva detto ne’ cenacoli fidati, moltissimi
in Italia udirono per la prima volta da lui i nomi del Coleridge e
del Keats, del Tennyson e del Ruskin, del Swinburne e del
Rückert, del Carlyle e del Browning, del Thackeray e del
Whitman; nomi oggi noti a chiunque sia mediocremente colto. Ma
sessanta anni fa! A Firenze un solo libraio, il Goodban, che teneva
bottega in via de’ Tornabuoni rimpetto al palazzo Strozzi, faceva
venire da Londra o da Lipsia opere di scrittori inglesi, e soltanto
nei primi tre mesi dell’anno, durante cioè il passaggio dei
forestieri.
Ancora un aneddoto: perchè dice assai più che non si
potrebbe in lunghissime pagine.
Dirigeva a Firenze la Nuova Antologia il buon Francesco Protonotari.
Versato nelle discipline economiche e sociali, ma di letteratura
quasi digiuno, dove non poteva arrivare da sè s’aiutava
dell’opera altrui; accattato il consiglio del tale, ne faceva
argomento di discorso col talaltro e così via via; di guisa
che vagliate e rivagliate poi diversamente le opinioni diverse,
quella che si manifestava per maggiori consensi migliore faceva a
sè guida e criterio.
Non so chi gli avesse detto che la Nuova Antologia difettava di
scritti intorno alle letterature straniere; forse più d’uno e
autorevolmente; perchè un giorno, parlando meco dell’appunto
fattogli, si dimostrò smanioso di provvedere e mi
domandò se conoscessi chi fosse capace di dare alla rivista
articoli sui poeti inglesi.
Feci il nome del Nencioni; non lo conosceva, nè v’era da
meravigliarsene, perchè tranne qualche appendice all’Italia
nuova, giornale politico che ebbe poca fortuna e poco durò,
il Nencioni non aveva sino allora (parlo del 1867) dato di sè
al pubblico alcun notevole saggio. Comunque, e non sapendo dove
batter di capo, con uno sfiduciato «proviamo» mi commise
interrogare l’amico. Alcuni giorni dopo potei dirgli che il Nencioni
volentieri accoglieva l’invito e preparava due articoli: uno sul
Browning, uno sul Tennyson.
Il Protonotari, che d’altri poeti inglesi non sapeva se non del
Byron, perchè non era possibile l’ignorarlo, e del Milton e
del Moore, perchè li aveva tradotti il Maffei, all’udire quei
due nomi mi sgranò gli occhi in faccia e con una alzata di
spalle: — Eh! — sclamò — se dobbiamo parlare di tutti gli
straccioni, ce ne avremo per un pezzo! —
Così - nel 1867 - chi dirigeva la Nuova Antologia; e si
può giurare che la massima parte di coloro che la leggevano,
innanzi ai nomi del Browning e del Tennyson si sarebbero domandati:
chi è costui? — come già di Carneade il parroco
manzoniano. Difatti uno solo di quegli articoli fu pubblicato. Il
Nencioni tacque ancora per dodici anni. E, lo confesso, io meco
stesso mi esalto, nel ricordare di averlo io, dopo que’ dodici anni,
strappato all’increscioso ufficio di istitutore in una napoletana
casa di principi e condotto al Fanfulla della domenica. Lì
trovò il suo «pubblico». Lì
cominciò attesa con desiderio, accolta con plauso l’opera
onde gli venne la fama, tarda, ma che ancor dura fresca di rispetto
e di simpatia.
Opera che io non ho, nè questo è il luogo, da
esaminare. Una sola cosa voglio notare, perchè nel critico
rivela l’uomo.
Del non trovar sempre argomento di lode il Nencioni si afflisse. Gli
cuoceva, per non citare se non un esempio, la coscienza non gli
consentisse di porre i drammi di Vittore Hugo a paro delle liriche e
dei romanzi.
Ciò ch’egli più desiderava è ammirare,
ciò che più gli piaceva è indurre altrui, con
sincerità fatta fervore, ad ammirare con sè. Talora
l’ammirazione trascende: non tutti vorranno credere che la Sand
fosse «il più grande prosatore della Francia
contemporanea» di quella Francia, cioè, dove viveva il
Renan; non tutti vorranno credere che l’autore di Indiana e di
Consuelo non pur rivaleggi con l’autore del Père Goriot e
della Cousine Bette, ma lo superi.
E come si duole che all’altezza dell’intelletto e alla perfezione
degli scritti, non corrisponda in coloro ch’ei predilige l’altezza
dei sentimenti e la perfezione della vita! Quanti pietosi silenzi,
quante reticenti indulgenze! Chi in quella Sand «che si
rifugiò a Nohant dopo le tempeste della passione del
32» riconoscerà la donna che da quel tempo, e per altri
venti anni, parve cercar le «tempeste» per averne
occasione a mutar di pilota? Chi riconoscerà il Lamartine,
vittima della propria spensieratezza e della propria
prodigalità, invano elemosinante l’obolo della Francia
ingrata, in quel «re del magnifico canto, che portò
degnamente e fieramente da vecchio la sua corona di spine»?
Non censuro, ammiro anzi: in quelle indulgenze trovo rispecchiato
quale esso fu l’animo dell’amico: in lui veramente del pari
ammirabili l’ingegno e la bontà.
Bontà francescana: il veder maltrattato un animale gli era
pena profonda. Nel ‘93 in un giorno d’estate lung’Arno un
barrocciaio bastonava a sangue il povero mulo, che sfinito dalla
fatica e oppresso dal soverchio peso datogli a trainare, non
riusciva, per sforzi che facesse, a salire il Ponte di Santa
Trinita. Il Nencioni non potè astenersi dal rimproverare il
manigoldo: quegli senza far parola, brandito il bastone fece per
avventarglisi contro e lo avrebbe sconcio e ferito, se alcuni che di
là a caso passavano non si fossero frapposti. Così
presente il pericolo e tale fu lo spavento, che il Nencioni ne
ammalò: e subito si manifestarono i sintomi di quella
infermità che gli angosciò gli ultimi anni di
patimenti crudeli. Quando nell’agosto del ‘96 a Livorno, dov’era
andato a chiedere vanamente al mare ristoro di forze e
libertà di respiro, il carbonchio lo colpì e l’uccise,
non aveva oramai che qualche settimana da vivere.
Non senza un saluto, l’estremo, al dolce maestro, volli dar termine
a queste che vado scrivendo pagine evocatrici, mentre, vivo il
ricordo de’ suoi insegnamenti, riascolto suonarmi nell’anima gli
echi lontani della gioventù.
XIV.
Un granducato in extremis.
Nell’anno di grazia 1858, regnando in Toscana S. A. I. il Granduca
Leopoldo II arciduca d’Austria, principe reale d’ Ungheria e di
Boemia, il Ministero era così composto: presiedeva al
Consiglio e insieme all’amministrazione delle finanze, de’ lavori
pubblici e della guerra, Giovanni Baldasseroni; teneva il portafogli
dell’interno Leonida Landucci; Niccolò Lami quello della
Giustizia e degli affari ecclesiastici; Ottaviano de’ Marchesi
Lenzoni era ministro degli affari esteri e - per interim -
dell’istruzione pubblica.
Il Baldasseroni, nato nel piano di Pisa di modesta famiglia
campagnola, salito a grado a grado sino ai massimi uffici, fattosi
per il lungo tirocinio espertissimo nelle materie amministrative e
ministro fin dal ‘45, era un integro, infaticabile impiegato che, in
paese piccolo, in tempi prosperi, fra popolazioni tranquille, poteva
essere, e fu prima del ‘48, utile strumento di governo; ma se abile
abbastanza per navigare in mare queto, per andar contro alle
burrasche tutto gli mancava, a cominciare dalla bussola. Persuaso
che le antiche benemerenze bastassero alla sicurtà della
dinastia, la mitezza del Governo e la facilità del vivere
alla parca e floscia contentezza dei sudditi, il desiderio di
novità che andava ogni giorno più manifestandosi, per
apertissimi segni, nel Granducato non era, secondo lui, che un
armeggìo di pochi ambiziosi, incoraggiti dall’esempio e
istigati dall’ambizione piemontese. Così, nulla di quanto
avrebbe dovuto spaventarlo lo intimoriva. Il Congresso di Parigi?
Bellissime chiacchiere, ma chiacchiere. Il Convegno di
Plombières? Che cosa vi si fosse detto e pattuito non lo
sapeva: ma sapeva che mai e poi mai quel Bonaparte, memore della
cordiale munifica ospitalità data a sè ed ai suoi,
lascerebbe torcere un capello al Granduca di Toscana. Il Mazzini?
Ah! un secondo quarantotto le Potenze non lo avrebbero permesso e,
se mai, sarebbe finito come quell’altro. I «Tedeschi»
non li amava neppur lui; delle molestie, de’ sopraccapi, durante
l’occupazione gliene avevano dati parecchi: ma quando poche
centinaia di facinorosi osassero turbare la pubblica pace, bisognava
pur che qualcuno mettesse loro giudizio; e questo qualcuno non
poteva essere che l’Austria, l’Austria sempre pronta, l’Austria
possente, l’Austria invincibile.
Con tale conoscenza degli uomini e tale sentore dei tempi, la
pretendeva a uomo di stato; e credeva forse darsene l’impostatura,
egli di statura mediocre e grassoccio, camminando maestoso col petto
sporgente, la testa all’indietro e l’occhio all’empireo. Il
popolino, per quel suo atteggiamento, non Sua Eccellenza
Baldasseroni, lo chiamava, ma Sua Baldanza Eccellenzoni.
Nonostante questa albagìa, gli spirava nella faccia una tal
quale bonarietà; diverso in ciò dal collega ministro
dell’interno, la cui fisonomia era cupa, anzi truce. Il Landucci,
carbonaro nel ‘31, nel ‘48 liberalissimo, senatore, compilatore
dello Statuto e ministro delle finanze nel Gabinetto presieduto da
Gino Capponi, mutati i tempi e avvenuta la restaurazione, era corso
de’ primi a Gaeta. All’opposto del Baldasseroni che aveva l’eloquio
abbondante, egli parlava succinto, con certa intonazione d’imperio,
volentieri lardellando il discorso con emistichi latini e ricordi
classici. Quando nel ‘49 entrò, ministro dell’ interno, in
Palazzo Vecchio, a un amico che gli raccomandava indulgenza verso i
compromessi nei rivolgimenti politici di quell’anno, rispose con
grottesca magniloquenza: «Io non sarò il Seiano di
nessun Tiberio»; e Seiano non fu, anche perchè fra
Tiberio e Leopoldo II qualche differenza correva; ma fu
consigliatore di angherie, tanto più biasimevoli quanto
più inefficaci e di rigori sino allora in Toscana inusati,
che lo fecero odioso all’universale. Una mattina di levata, uscendo,
trovò scritto sul muro di casa sua:
Per screditar col nome le Termopili
Venne un altro Leonida nel mondo;
Chiamate Serse e ditegli
Che ci ammazzi, per grazia, anche il secondo.
Niccolò Lami era, lo ho già detto, guardasigilli. Se
è vero quanto il Carducci affermò: che cioè,
come nella Francia despotica le lettere di imprigionamento e la
Bastiglia formarono Voltaire e Mirabeau, così nella
patriarcale Toscana le ingiurie di un birro dettero la mossa alle
poesie civili del Giusti, il Lami meritò tutta la nostra
riconoscenza: fu lui infatti che, auditore di Governo a Pisa nel
‘33, in riga di paterna cura coprì di contumelia il futuro
autore del Gingillino. Ministro nel ‘58, s’era serbato tale quale
quello di venticinque anni prima: rozzo ne’ modi così da
sgradire perfino alla Corte dove, perchè nativo di Empoli, lo
chiamavano il navicellaio; nomignolo che gli stava bene anche per
ciò, che egli studiava barcamenarsi, riannodando o coltivando
amicizie contratte in altri tempi con avvocati liberali, specie con
Vincenzo Salvagnoli suo compaesano. Sempre pauroso di sentirsi
mancare il terreno sotto i piedi, sempre guardingo di non
compromettersi troppo, si sgolava a rammentare la sua qualità
di magistrato e a dire che la politica non era affar suo; cercando
insomma di fare in modo che nel caso di naufragio, lo stipendio o la
pensione rimanessero a galla.
Era particolarmente antipatico alla Granduchessa la quale, vincendo
in acume il marito, stimava l’uomo per ciò che valeva. E la
sovrana antipatia si traduceva in gerghi e in giochi di parole delle
dame di Corte, Quando S. E. il Guardasigilli andava a’ Pitti le sere
di ricevimento, o di appartamento come allora dicevano, al suo
passare, una dama domandava alle compagna: L’ami? E l’altra: Non so
che farmene.
Tanto rozzo il Lami, quanto nel tratto amabilmente signorile il
Lenzoni; tanto l’uno usualmente rinfagottato nelle vesti casalinghe
ed annose, quanto l’altro elegante di quella eleganza disinvolta
che, appunto perchè non ostentata, rivela l’assuefazione e il
buon gusto. Bello e fresco uomo anche da vecchio, giustificava con
la simpatica nobiltà dell’aspetto le molte fragilità
onde per le vie di Amatunta e di Pafo s’era condotto da giovine
sull’orlo del sepolcro,
si che trasserlo di bara
bagni e latte di somara,
come cantò in certa licenziosissima Litania fiorentina
l’abate Giuseppe Borghi, riposandosi dall’inno All’Eucaristia e
meditando l’Ode allo Spirito Santo.
Nel ‘58, era il solo de’ governanti toscani che frequentasse i
salotti delle belle signore, e le male lingue asseveravano che,
tuttavia indomato, non sempre gli era meta il salotto. Ministro di
Toscana a Napoli prima, in seguito a Vienna, aveva imparato ed usava
il linguaggio vago delle Cancellerie, che serve mirabilmente a
custodire i segreti quando ci sono, e quando non ci sono a lasciar
credere che ci sieno. Ma non si dava l’aria di grand’uomo e sulle
spalle ancor dritte contro alla spinta degli anni, portava il carico
delle relazioni internazionali senz’ombra di sussiego o di boria.
Forse s’accorgeva egli stesso che boria e sussiego non gli stavano a
viso; nonostante la sua devozione al Principe, pensava, tra scettico
e fatalista, che sino a tanto le cose andavano per il loro verso, le
faccende di un ministro degli affari esteri in Toscana si sbrigavano
con poco ingegno, minor tempo e fatica; se poi un giorno certamente
remoto la volontà o i consensi dell’Europa minacciassero di
mutare lo Stato e ponessero in pericolo la dinastia, non la
diplomazia granducale avrebbe potuto contrastare a quelle minacce e
scongiurare que’ pericoli.
*
Questi in Toscana, correndo il ‘58, i Ministri, i quali non che
sospettare di prossime rivoluzioni, neppure temevano di nuove
sommosse, poi che quella scoppiata l’anno innanzi a Livorno per
opera di mazziniani fu così prontamente e facilmente
compressa.
In tali pigre illusioni si cullavano, nè fatti di grande
significazione valsero a scuoterli dalla lor cocciutaggine cieca.
Veniva in Toscana in quell’anno Filippo Gualterio. A qual fine e con
quali uffici, lo raccontava egli medesimo nel 1866 a Firenze in casa
del conte Augusto De’ Gori Pannilini, insieme con me ascoltatori
Giovanni Prati ed Enrico Nencioni.
Raccontava averlo il Cavour mandato al Governo Toscano con missione
segreta, nel 1857, latore di queste proposizioni: matrimonio della
Principessa Clotilde figlia di Vittorio Emanuele, con l’Arciduca
Carlo secondogenito del Granduca, alleanza fra Piemonte e Toscana:
questa, se la guerra avvenisse, fornirebbe all’alleato 12,000 uomini
e li comanderebbe l’Arciduca medesimo; ove la vittoria arridesse,
Modena e il suo territorio si aggregherebbero al Granducato. Le
proposte furono tutte scartate, non solo; ma il presidente
Baldasseroni, risaputo che il messo piemontese frequentava gli
«agitatori» più accesi, lo invitò a
tornarsene donde era venuto; invito al quale l’altro rispose:
«Vado, ma tornerò presto, quando se ne sarà
andata Vostra Eccellenza».
Ciò che udii riferisco; so che di quanto il Gualterio narrava
non hanno traccia storie o documenti noti sin qui; aggiungo che
alcuni degli uomini che furono al Cavour cooperatori ed amici, da me
interrogati più tardi, stimarono quelle proposte suggerite
all’umbro marchese dalla fantasia incontinente; comunque, certo
è che a Firenze, nel ‘57 mandatovi dal Cavour il Gualterio ci
fu: lasciamo stare se egli avesse facoltà di profferire
alleanze e di combinare matrimoni; poniamo pure che il suo mandato
fosse quale lo credè il Ricasoli, e si rileva dai carteggi di
lui; che, cioè, dal Cavour gli fosse commesso, unico ufficio,
il consigliare al Governo Toscano di ristabilire la costituzione del
1848, e ai liberali di contentarsi, per allora, di quel
provvedimento; dovevano pur tuttavia bastare quel consiglio, quella
istessa missione segreta a fare accorti il Baldasseroni e i colleghi
che le cose non stavano precisamente come a loro piaceva di
immaginarle, e che qualche novità si preparava o si maturava.
Ma non intesero e non si persuasero; neanche le famose parole di
Napoleone III all’ambasciatore austriaco li smossero. Al solito,
pensarono, bellissime chiacchiere, ma chiacchiere. I rivoluzionari
si confortassero pure con gli articoli delle gazzette: il Governo
non per nulla manteneva legazioni nei principali Stati di Europa;
aveva notizie sicure. Infatti il Tanay de’ Nerli ministro di Toscana
a Parigi assicurava che guerra la Francia non ne farebbe, tutt’al
più si sarebbe andati a finire in un congresso; e da un
congresso il Granduca non aveva nulla a temere. Il Provenzali,
ministro di Toscana a Torino, nelle note ufficiali ripeteva le
affermazioni medesime; e per quella miopia della passione, la quale
non scorge oltre il desiderio, pronosticava, in privati carteggi,
che la cupida irrequietezza del Piemonte, anzi che aiutata, sarebbe
infrenata una volta per sempre.
Turbò finalmente quella placida confidenza il discorso di
Vittorio Emanuele, inaugurante il 10 gennaio 1859 la nuova sessione
parlamentare. Il «grido di dolore» intronò
lì per lì quelle orecchie e subito si giudicò
opportuno dare un po’ di tinta liberale al Governo; ma, ripensandoci
meglio e poichè timori non se ne avevano e nulla urgeva,
fecero le cose senza fretta e con pace. Soltanto due mesi dopo, il
26 di marzo, un decreto del granduca nominò Serafino Lucchesi
ministro degli affari ecclesiastici, Giulio Martini ministro
dell’istruzione pubblica.
Ho detto «tinta liberale». Intendiamoci. Il Lucchesi da
giovine, una trentina d’anni prima, s’era dimostrato
«inchinevole a novità», e, nel ‘53, procuratore
generale alla Corte Regia, eletto a far parte della Consulta cui fu
commessa la revisione del codice penale, si adoperò, come
scrive un suo biografo «nel temperare le asprezze della
legge». Il Martini, dal ‘48 al ‘52 ministro di Toscana presso
Carlo Alberto, lo aveva seguito sui campi di Lombardia e ottenuta,
dopo Novara, la benevolenza del nuovo Re, s’era legato in stretta
amicizia con insigni uomini del Piemonte, col d’Azeglio
segnatamente.
In ciò consisteva il liberalismo dei nuovi ministri; ambedue
disposti, se si provassero necessarie, a larghe riforme
amministrative, ma per lo sperimento di dieci anni innanzi poco
favorevoli a innovazioni nell’ordine politico dello Stato; ambedue,
per ultimo, persuasi che il mutar dinastia sarebbe stato alla
Toscana danno gravissimo, il rimanere «Toscana»
benefizio inestimabile; concordi in ciò con molti fra i
liberali, dei maggiori per condizione sociale, per ingegno, per
autorità.
*
Giulio Martini era mio zio. Sebbene avesse di poco varcato la
cinquantina, molti acciacchi lo tormentavano. Spiritus promptus caro
autem infirma. Una oftalmia sopraggiuntagli verso la metà
dell’aprile lo costrinse in casa: e dovè il consiglio de’
Ministri, adunarsi in un palazzo de’ Mozzi nella via de’ Bardi
presso di lui.
Mio padre era anch’egli malato in que’ giorni; e ogni, sera mi
mandava in via de’ Bardi per dare di sè e aver notizie del
fratello.
Gli avvenimenti incalzavano, la guerra era ormai certa; alle
ingiunzioni dell’Austria che imponeva il disarmo, il Conte di Cavour
rispondeva con sdegnosa ripulsa. Il 26 d’aprile, passeggiando
sull’imbrunire nella piazza di San Marco con Enrico Nencioni, ci
imbattemmo nella più singolare delle
«dimostrazioni». Precedeva solo il generale Ferrari Da
Grado, di nome italiano, austriaco di nascita, dall’esercito
austriaco passato a comandare il piccolo esercito toscano; e al
quale per l’alterigia onde trattava i subalterni, i fiorentini
avevano affibbiato il soprannome di «Generale Tacete».
Lo seguiva a distanza di qualche diecina di metri una moltitudine
silenziosa, e appunto per quel silenzio, terribile. Chi disse
più chi meno: ma anche oggi ripensando allo spazio che quella
gente, ordinata quasi militarmente in colonna occupava, io calcolo
fossero circa tremila persone. Seguirono il Generale, sempre in quel
cupo silenzio, per buon tratto della città e fino alla Piazza
de’ Giudici, Lung’Arno delle Grazie, ove aveva sede il Comando e
ov’egli dimorava.
Le dimostrazioni non sogliono farsi in silenzio, e quella, a chi non
la vide e non sa quali ne fossero il movente e lo scopo, può
parere oggi curiosa e sto per dire ridicola. Bisogna spiegare. In
primo luogo i non molti che la pensarono e la iniziarono raccolsero
dietro a sè quelle migliaia di persone non chiamate,
nè informate, perchè tutte capirono subito di che si
trattasse, e manifestarono così altrettanto salda quanto
spontanea la concordia degli animi. Inoltre, si faceva cosa
palesemente ostile al soldato austriaco, arma corta della reazione,
senza pur offenderlo; e ciò significava volere il popolo che
alla guerra contro l’Austria la Toscana partecipasse; ma ammoniva
con le buone, prima di ricorrere alle cattive. Finalmente si
ingiungeva al governo di pensare ai casi suoi; pochi giorni innanzi
quella dimostrazione si sarebbe potuto facilmente impedirla o
disperderla, ordinando a un battaglione di uscire dalla caserma; ora
no, perchè la guarnigione di Firenze aveva già fatto
causa comune col popolo.
Scioltosi il muto e minaccioso corteo, me ne andai al solito alle
case de’ Mozzi; il cammino era brevissimo, e vi fui, per così
dire, in un salto.
Il Consiglio de’ Ministri era adunato; poichè si costumava in
Toscana di fare le cose alla buona, la presenza del Governo non
aveva nulla mutato alle consuetudini della famiglia del Martini, la
quale soleva accogliere ogni sera parenti ed amici; sì che
nella stanza precedente a quella, ove a porte chiuse si discuteva
forse intorno alle sorti del Granducato, certamente intorno a quelle
del Ministero, erano amici e parenti, che la speranza di attingere
notizie a limpida fonte vi aveva condotti in numero maggiore del
consueto. Raccontai quanto mi era occorso; dall’altra stanza si
udirono alcune delle mie parole, e la voce dello zio chiamò:
«Ferdinando».
Entrai, come si capisce, molto timidamente. La stanza era a mala
pena illuminata da due lucerne, sino a metà delle quali
scendeva una tendina di drappo verde. Nulla di solenne; i Ministri
sedevano l’uno qua l’altro là; piuttosto che a consiglio si
sarebbe detto fossero a crocchio. Il solo guardasigilli poggiati i
gomiti sul tavolino che gli stava dinnanzi e il capo sulla palma
delle mani, pareva sprofondato in pensieri gravissimi. Sopra un
canapè, eretto il torso ed alta come sempre la testa, che
s’incorniciava nelle volute d’un gran ciuffo bianco, il presidente
Baldasseroni. Mi interrogò:
— Che cosa diceva di là? Che cosa ha visto? —
Ripetei il racconto per filo e per segno.
— E quando è successo tutto questo?
— Mezz’ora fa, Eccellenza. —
Seguì un silenzio. Il ministro dell’interno interrogò
a sua volta:
— E quante persone ci saranno state, secondo lei?
— Non saprei precisamente.... circa tremila. —
Il ministro enfiò lievemente le guance e lasciò andare
un «bum» incredulo e dispregiativo.
Io, che pensavo essermi tenuto nel giusto, mi accinsi a provare
esatto il mio calcolo,
— Eccellenza.... —
Mio zio m’ interruppe:
— Bene, bene, va’ va’. —
Ero andato timido, me ne venni risentito. A diciassette anni, non
ancora temprato contro alle impudenze de’ linguaggi partigianeschi,
mi sarei lasciato confutare senza rammarico da una di quelle
sentenze di Seneca che il Landucci aveva care; ma quel bum mi
offese; e augurai di tutto cuore le dimissioni del Ministero.
Le quali furono appunto deliberate in quell’ultimo Consiglio dei
Ministri del Granducato di Toscana, cui posso dire in certo modo,
d’essere stato presente.
*
Di lì a poco i Ministri uscirono, primo il Baldasseroni;
rammento che volgendosi ai colleghi con certa intonazione ironica
esclamò: «Vedremo, vedremo».
Ciò ch’egli attendesse e sperasse vedere non so; so
ciò che tutti videro il giorno dopo e lo racconterò in
un altro capitolo.
XV.
Vigilia di rivoluzione.
Seppi già da un testimone e notai; sì che, corso gran
tempo, posso raccontare come fosse d’ ieri.
La sera del 26 aprile 1859 i Ministri toscani, tenuto l’estremo
Consiglio in casa di Giulio Martini e deliberato di renunziare
l’ufficio, andarono a’ Pitti per esporre al Granduca la loro
deliberazione. Questi, che nella mattina avevano lasciato pensieroso
ed afflitto, li accolse con arzilla serenità, inconsueta in
lui sempre moscio nell’aspetto e accasciato nella persona. Lo aveva
riconfortato e rasserenato un colloquio con sir Campbell Scarlett
ministro d’Inghilterra in Toscana, e lo riferì prima ancora
che il presidente Baldasseroni aprisse bocca per dire quanto aveva
da dire.
Egli, il Granduca, al ministro della Regina Vittoria, aveva aperto
l’animo intero, e narrato per filo e per segno i fatti accaduti da
una settimana a quella parte. E i fatti erano questi: un generale
austriaco venuto espressamente a Firenze gli aveva profferto per
ordine dell’Imperatore di occupare il Granducato con un corpo
d’esercito fino al termine della guerra: il commendatore Boncompagni
ministro di Vittorio Emanuele gli aveva proposto di unirsi col
Piemonte in alleanza offensiva e difensiva. La profferta dell’
Imperatore era stata respinta, la proposta piemontese non anche; ma
a lui, Leopoldo, sembrava il miglior dei partiti mantenersi in
quella stretta neutralità che già lo stesso Campbell
ed ora anche il ministro di Francia gli consigliavano.
Sir Campbell Scarlett, continuava il Granduca, per ordine del
governo di S. M. la Regina, lo aveva confermato in tale proposito:
soggiungendo che alla fin de’ conti, ove le fazioni prevalessero, il
Sovrano poteva lasciare lo Stato e appellarsi alle potenze
sottoscrittrici del Trattato di Vienna, che guarentiva alla sua Casa
il trono della Toscana.
Parve che il vecchio principe credesse così tutto accomodato;
ma non lo credevano i Ministri, i quali nelle ore della sera corse
tra il Consiglio e l’udienza, avevano raccolto da ogni parte del
Granducato notizie tutt’altro che favorevoli agl’intendimenti
dell’Altezza sua. Belli e buoni i consigli dei diplomatici, ma la
Toscana voleva prender parte alla guerra contro l’Austria, ed era
vano opporsi alla volontà popolare: perchè sulla
truppa già bacata (aggettivo che il Landucci in seguito
usò) ci era da fare poco assegnamento. Circa al lasciare lo
Stato, la cosa era facile, meno facile il ritornarvi.
Questi pensieri i Ministri senza pure articolare parola se li
leggevano vicendevolmente negli occhi: sì che, esposte dal
Baldasseroni le condizioni delle cose, considerando di nuovo, quasi
in via di semplice discorso, il pro e il contro dei diversi partiti,
si condussero a questa ipotesi: Se si accogliesse la proposta del
Boncompagni? L’alleanza col Piemonte stipulata da uomini nuovi
avrebbe d’un tratto compressa la ribellione dei militari e stretto
ancora questo era certissimo intorno alla dinastia la parte
più temperata de’ liberali.
Il Granduca interruppe:
Io la guerra all’Austria una seconda volta non posso farla. —
Succedè un silenzio di alcuni secondi; uno dei ministri (non
seppi mai quale) si arrischiò a mormorare:
— Vostra Altezza no. —
Era un rammentargli che la dinastia non finiva con lui; e ciò
ch’egli non poteva o voleva fare, il suo figliolo avrebbe forse
voluto e certamente potuto.
Leopoldo tacque lungamente rifiettendo; poi, a mutare discorso,
interrogò:
— E loro? —
Il presidente annunziò la deliberazione del Consiglio. Il
Ministero sentiva di non avere oramai più il
«prestigio» necessario in quei gravi frangenti, che
imponevano risoluzioni altrettanto gravi e sollecite. Cercasse il
Principe altri uomini meglio graditi al popolo, meglio capaci di
tener fronte agli eventi.
Dall’udienza durata sino verso la mezzanotte, i Ministri uscirono,
senza bene raccapezzarsi circa le intenzioni del Granduca. La
sicurtà dimostrata dapprima per i suggerimenti del Campbell,
poi quel lungo riflettere quando l’un d’essi ebbe accennato
all’abdicazione, li faceva perplessi, li smarriva fra molte
supposizioni. In quello smarrimento il ministro dell’interno, dedito
alle citazioni latine, si lasciò sfuggire la più
propizia delle occasioni per tirar fuori il veniat feliciar aetas di
Lucano a conforto del principe, dei colleghi e di sè.
*
Quando i Ministri dicevano di aver perduto il
«prestigio» dicevano la verità ma non tutta;
avrebbero dovuto confessare che non per i casi recenti, ma per ben
altre cagioni, l’avevano perduto da un pezzo; non tanto
perchè gli atti loro contrastassero alla opinione della gente
più colta e facoltosa, delle «classi dirigenti»
come oggi si chiamano; quanto e maggiormente perchè alla
propria autorità parve da qualche tempo non credessero
più essi medesimi. Il principiis obsta della scuola
salernitana è buona regola così per la salute degli
individui come per quella degli stati; il «lasciar
correre», se potè essere in Toscana comoda e fino a un
certo punto giudiziosa politica ai giorni del Corsini e del
Fossombroni, mutati i tempi, ciò che allora si
dimostrò tolleranza doveva necessariamente prendere aspetto
di debolezza; e i governi deboli non soltanto inanimiscono le
audacie, le suscitano.
Di cotesto «lasciar correre», senza andare a frugare
negli Archivi che ne fornirebbero prove abbondanti e solenni,
ricordo io esempi parecchi: ricordo io Cesare Tellini direttore
della Lente, nel gennaio 1858, pochi giorni dopo l’attentato del 14,
dispensare indisturbato per le vie di Firenze il ritratto in
litografia di Felice Orsini; e intorno a quel tempo Ettore Falconi,
morto or non è molto segretario comunale a Campi Bisenzio,
raccogliere fra noi condiscepoli, sotto gli occhi dei delegati
inerti, sottoscrizioni e danari per i «cannoni
d’Alessandria». Ricordo io, e vi fui talora presente, le
quotidiane riunioni, dopo il teatro, nella trattoria La Fenice, in
via dei Calzaioli; vi convenivano l’avvocato Leopoldo Cempini,
allievo del Montanelli, nel ‘48 giornalista, soldato e scrittore di
rime patriottiche, Piero Puccioni, avvocato anch’egli e di fresca
data, ma già, tra i passatempi del giornalismo teatrale,
preparato a divenire uno dei principi del fòro toscano;
Pietro Ferrigni, Yorick, sin d’allora autore inesauribile di arguzie
felici; e un dottor Antonio Somigli e uno Stendardi; di rado, ma
qualche volta anche Vincenzo Salvagnoli e Ferdinando Bartolommei, Il
Cempini vi portava numerosi esemplari del Piccolo Corriere del
Lafarina che un ardimentoso giovanotto, Omero Mengozzi, ricevutili
di soppiatto da Genova, gli spediva di soppiatto da Livorno ed egli,
il Cempini, spartiva fra gli intervenuti, affinchè a lor
volta li distribuissero.
Questo che tutti sapevano non ignorava certamente il Governo; ma il
Governo che anni prima fece rispettare con rigidità aspra la
legge sulla stampa e non rifinì di sospendere e sequestrare e
sopprimere giornali, ora come già raccontai, permetteva che
nello Scaramuccia il Puccioni sotto il molto trasparente velame
d’un’allegoria, rinfacciasse al Granduca la occupazione austriaca,
l’abolizione dello Statuto, il ritorno della ghigliottina.
Sull’ultimo volle il Governo, una volta tanto, dar prova di energia;
ma fu peggio il rimedio del male. Partivano da Firenze il due di
aprile per arrolarsi nella cavalleria piemontese e in quel
reggimento che combattè poi vittoriosamente a Montebello
alcuni gentiluomini: Averano Casanova, Piero Azzolino, Sebastiano e
Francesco Martini, Luigi Suner, Cesare Gori, Vincenzo Puccinelli,
Ugo Ricasoli; per salutarli con felicitazioni ed auguri
s’accalcò alla stazione in quel giorno gran folla la quale,
subito che il treno si mosse, mandò un grido, quasi di
tonante unica voce: Viva l’Italia! Viva Vittorio Emanuele!
Ad accompagnarvi un parente, Luigi Prezzolini, il compagno del
Nencioni e mio nelle passeggiate in Boboli, e al Poggio imperiale,
che partiva per arrolarsi in Piemonte anche lui, andò alla
stazione un tenente: Armando Guarnieri, stimato de’ più bravi
fra gli ufficiali usciti di recente dal liceo militare. Il giorno di
poi il Guarnieri fu chiuso in fortezza, e in seguito tolto
all’artiglieria da campagna cui apparteneva e scaraventato in quella
da costa a Portoferraio.
Il castigo inflittogli, che nel pensiero del governo doveva servire
d’esempio ed intimorire, fu accolto nella città con ilare
dispregio. Punire un tenente, bella forza! Come mai lui solo? Come
mai non si puniva e nemmeno si ammoniva il Ferrigni, che aveva
gridato più degli altri e istigato altri a gridare? Yorick,
infatti, al primo alitare degli zeffìri primaverili, s’era
buttato allo sbaraglio e, tribuno improvvisato, arringava le turbe
ora dalle scalinate di San Firenze ora dalla porta del Caffè
Castelmur all’angolo della via de’ Tavolini. Piccolo, paffuto, con
la tuba all’indietro, sporgendo le incipienti rotondità
dell’addome e gesticolando colle corte braccia, bandiva prossima e
fortunata la guerra, magnificava la lealtà del Re di
Sardegna, all’enfasi lirica della concione interpolando allusioni e
facezie, che andavano diritte e pungenti a colpire in Palazzo
Vecchio e più su.
In quel giorno, alla stazione ed altrove, sparse a larga mano tra la
gente un foglietto che, datomi da luì, conservo dopo
sessant’anni e trascrivo:
Ai giovani patrizi fiorentini che vanno a combattere per la
Indipendenza nazionale:
«Generosi patrizi che andate a pugnare per la Indipendenza
d’Italia, abbiatevi il saluto della vostra città che va
superba di esservi madre. Molti figli del popolo vi precederono;
più e più vi seguiranno, tutti verremo quando
sarà suonata l’ora dell’ultima guerra con l’Austria.
«Possa il vostro esempio essere seguito da tutta la
nobiltà e tornino i bei tempi di Firenze quando tra il
patriziato ed il popolo era magnanima gara di carità patria e
di virtù cittadine.
«Salutate il Re italiano; baciate per noi il vessillo
tricolore; ci rivedremo in breve nelle file dei soldati
dell’Indipendenza.
«Firenze, 1° Aprile 1859».
Come mai dunque il Guarnieri sì e il Ferrigni no? E come mai
il Governo così severo col tenente, sopportava che un giovine
medico romagnolo, Augusto Branchini, arrestato e condotto oltre il
confine, non soltanto tornasse e subito in Toscana, ma del ritorno
avvertisse la polizia, minacciando per giunta che guai a loro se
ancora osassero di molestarlo?
Il «come mai» si spiegava facilmente: il Ferrigni e il
Branchini erano ambedue segretari del «Comitato di Casa
Bartolommei» il solo che il governo temesse: sapeva che quella
gente era disposta, come suol dirsi, a giocare di tutti e andar sino
in fondo cioè sino alla rivoluzione.
*
Perchè i comitati erano due: parte de’ liberali faceva capo
al Ridolfi, al Giorgini, al Peruzzi, al Digny: parte a Ferdinando
Bartolommei e a Giuseppe Dolfi, fornaio di molta autorità sul
popolo minuto. I primi volevano si partecipasse alla guerra, e al
termine della guerra, restituita la costituzione del 1848; ma ad
ottenere ciò non altre vie si proponevano battere se non le
«legali» quelle su’ cui margini sboccia la
«petizione e fiorisce la rimostranza». Stimavano pazza
ogni altra domanda, pernicioso ogni sovvertimento dello Stato, onde
la Toscana rischiasse mutare di principi e perdere la propria
autonomia. Gli altri, dall’esperimento di dieci anni innanzi
persuasi che libertà e indipendenza non si conseguirebbero
veramente e pienamente fin che un arciduca d’Austria sedesse sul
trono della Toscana, si proponevano rovesciare la dinastia,
preparavano congiunture che offrissero occasione per rovesciarla, e
togliere così un primo impedimento all’agognata unità
dell’ Italia.
A cose finite, e anche in giorni recenti, ognuna delle parti
rivendicò a sè il merito del successo; chi poteva
mettere la verità al suo posto tacque per riguardo o
rispetto. Oggi, passati sessanta anni e più, rispetti,
riguardi, acquiescenze, compiacenze, deferenze, possono, anzi
debbono, io credo, ceder luogo alla storia; e la storia ha per
sè un fatto ed un documento.
Il fatto è questo: i due comitati tentarono conciliarsi ed
unirsi. Adunatisi il 25 nel palazzo Ricasoli, presidente Cosimo
Ridolfi, Giovan Battista Giorgini vi lesse un
«Manifesto» a lui commesso dal Ridolfi medesimo; e
quello che doveva essere argomento e suggello di concordia negli
intenti e nelle opere fu invece cagione di subito e violento
dissidio. I liberali di parte «avanzata» nemmeno
degnarono discutere intorno allo scritto del Giorgini ed uscirono
interrompendone la lettura. Il comitato Ridolfi, sentendosi
sopraffatto, cedè le armi, si sciolse e volle il manifesto,
già stampato in migliaia di copie, dato alle fiamme. Da esse
due soli esemplari scamparono, dell’un de’ quali m’ è dato
oggi valermi. Eccolo:
«Gli avvenimenti incalzano. Le formalità diplomatiche
che dovevano adempirsi, che dovevano prevedere, per assolverla
nell’opinione dell’Europa, una guerra inevitabile, saranno presto
esaurite. Che farà la Toscana?
«La Toscana non vorrà rimanere neutrale. Le generazioni
del ‘48 non sono anche spente; rincalzate dalle nuove generazioni,
risorgeranno più forti e più risolute, il giorno in
cui Vittorio Emanuele avrà tratta di nuovo dal fodero la
spada di Carlo Alberto. Vorrà egli il Governo Toscano
resistere all’impeto popolare? Macchiare di sangue civile le armi
negate alle battaglie della Nazione? Non sarebbe questa
neutralità, non pace: la guerra dell’indipendenza arderebbe
in Toscana come in Lombardia. Solamente in Toscana sarebbe guerra
civile: solamente il governo toscano si sarebbe messo dalla parte
dell’Austria. O piuttosto il Principe lascerà la Toscana come
nel 1849, per aspettare a Vienna l’esito della guerra, ridotto a far
voti, egli principe italiano, per la sconfitta delle armi italiane?
Quali saranno le conseguenze di una tale rivoluzione? È tempo
che gli amici del Principe e del paese si facciano questa domanda.
«L’uragano della guerra sciolto un’altra volta sopra l’Europa
può piegare i grandi troni, spiantare, rapire i piccoli; se
il Granduca vuole salvare il suo, non cominci dal rinunziarlo: dal
rinunziare quello che vale sopratutto in politica, il fatto, il
possesso. Esautorare un principe, una dinastia che si trova nel
pieno e libero esercizio dell’autorità regia, è una
risoluzione gravissima: di tali risoluzioni non si troverebbe un
esempio solo nella lunga serie di trattati europei. Ma distruggere
un governo di fatto, che si sia costituito dopo la cacciata o la
fuga del Principe, per restaurare questo Principe, è anche
quella una risoluzione grave. Se di queste risoluzioni non mancano
esempi nella storia diplomatica dell’Europa, non mancano nemmeno
esempi di fatti consumati, che la diplomazia ha creduto di dover
rispettare; e questa disposizione è andata crescendo,
dacchè il principio della legittimità, già
vulnerato dal Congresso di Vienna, ha cessato di essere il criterio,
il fondamento unico del diritto pubblico europeo.
«Poco, anzi nessun rischio correrebbe la dinastia rimanendo in
Toscana, mantenendo il suo stato di possesso fino al giorno in cui
si apriranno i negoziati per la pace, qualunque fosse stato l’esito
della guerra. Molti e gravi pericoli correrebbe invece, se quel
giorno la Toscana si trovasse occupata da truppe austriache,
francesi, sarde e lasciata in balìa di se stessa.
«In tutti questi casi il Principe assente non potrebbe contare
sul patrocinio della lega Franco-Sarda: potrebbe egli contare di
più su quello dell’Austria?
«L’Austria vinta non potrebbe rimetterlo sul trono. Vittoriosa
potrebbe e vorrebbe; ma potrebbe e vorrebbe ugualmente lasciarcelo,
se durante la guerra l’avesse occupato, quantunque gli fosse stato
nemico nella guerra. Vorrebbe, perchè l’Austria non potendo
sperare che l’Europa le permetta mai di aggregare la Toscana al suo
regno italiano, il minor male per l’Austria sarà sempre che
la Toscana sia tenuta da un Arciduca della sua Casa; che se
l’Austria potesse sperare l’Europa disposta a ratificare un’altra
volta in Italia l’incorporazione di Cracovia, ella non si lascerebbe
fermare da nessuno scrupolo e farebbe sua la Toscana senza riguardo
ai portamenti del Granduca nella guerra, e al luogo dove si trovasse
dopo la guerra. Anzi più facilmente la farebbe sua, se il
Granduca trovandosi a Vienna, l’avesse già di fatto perduta.
«Ma che dalla guerra presente possa uscire un nuovo
ingrandimento dell’Austria in Italia pare un caso assai remoto, ed
è l’ultimo di certo al quale si debba pensare. Resta dunque
fermo che il Granduca aderendo alla lega Franco-Sarda conserverebbe
lo stato, tanto nel caso che l’Austria vincesse, quanto in quello
che fosse vinta. Dichiarandosi invece per l’Austria, egli non
potrebbe sperare nemmeno di correre la sua fortuna. L’Austria
penserà prima alla salute sua che a quella dei principi che
le saranno rimasti fedeli: se per uscire illesa dalla guerra le
sarà necessario scendere ad accordi, ella vorrà
prendere ne’ possessi dei suoi alleati prima che nei suoi propri, la
materia del sacrifizio. I reali di Toscana non possono aver
dimenticato il Trattato di Luneville.
«Le conseguenze che la partenza del principe avrebbe per il
paese, non sarebbero meno funeste. Lasciando il paese per non
lasciarsi spingere alla guerra, il principe non avrà impedito
la guerra; solamente ai danni della guerra aggiunto i danni maggiori
dell’anarchia. A guerra finita, la Toscana non perderà
probabilmente la sua autonomia, perchè nessuno dei potentati
che hanno in mano i nostri destini, per quanto apparisce dalle loro
intenzioni, pensa a sopprimere la Toscana dal numero degli Stati
Sovrani: perchè se l’assetto definitivo della Nazione deve
essere una confederazione di Stati, non c’è ragione per
sopprimere la Toscana, ma piuttosto per ingrandirla. Ma
perderà probabilmente la sua dinastia per accogliere, ignota
ella stessa, un principe ignoto. Vedrà Firenze un nuovo
padrone venuto a lei di Francia o di Prussia visitare i suoi
monumenti compitando la guida; o se vedrà di nuovo i suoi
principi ricondotti dai soldati dell’Austria, dovrà anche
vedere in meno di cinquant’anni una terza ristaurazione, che
portando seco i rancori e le diffidenze del terzo esiglio, trovando
l’amministrazione sconvolta, la finanza delapidata, la milizia
corrotta, gli animi commossi esulcerati dal dolore e dall’ira,
sarà anche più dura, più arditamente retriva
delle precedenti.
«La dinastia lorenese precorse nel secolo passato il progresso
civile della Toscana; fino alla metà del presente la tenne in
una condizione giustamente invidiata dagli altri Stati della
Penisola; sancì nel 1848 il suo Statuto fondamentale,
bandì la guerra dell’indipendenza. Ripigliando la costante
politica della sua Casa, il Granduca può sempre farci
dimenticare dieci anni di errori; chiudere in Toscana i suoi giorni,
riposare nelle tombe di San Lorenzo, lasciando intatta reintegrata
al figliuolo un’eredità d’onore e di nobili tradizioni.
Quando il momento sarà venuto, sappia il Principe osare:
sappia salvando la Toscana, salvare se stesso!»
*
Il documento non ha bisogno di illustrazioni; rimane a domandarsi
quali sarebbero state le sorti della Toscana, se tutta l’azione del
partito liberale si fosse circoscritta nel consigliare il Granduca,
nel chiedere sempre e non mai risolversi a ghermire. Seguiva
Leopoldo i suggerimenti e si stringeva al Piemonte? il trono era
suo. Faceva di testa propria, fermo nella neutralità? Avrebbe
avuto contro a sè l’opinione, egli contro all’ opinione le
baionette e così in ogni caso il vincitore era lui. Bene
avvisati, il Bartolommei, il Dolfi e quanti s’accostavano a loro,
conquistarono le baionette ossia si accordarono con gli ufficiali
del piccolo esercito toscano. Io non voglio affermare che tutto
quanto si adoperò a questo fine fosse puro, fosse degno:
tutto oro colato, si direbbe a Firenze, io non lo dico perchè
appunto dell’oro ne colò a sufficenza: ma le rivoluzioni non
si fanno a regola d’arte o coi precetti della morale; le stalle
d’Augia, scrive il Guerrazzi, non si vuotano coi cucchiaini da
caffè, nè le foreste vergini, aggiungo, si potano con
le forbici da ricamo. Nuovi avvenimenti, allora imprevedibili,
avrebbero forse in seguito atterrato il trono toscano e travolto i
Lorenesi nella ruina; ma senza l’opera del Bartolommei del Dolfi, di
coloro insomma che s’intitolavano «popolari» il 27
d’aprile 1859 non se ne andavano di certo.
XVI.
Ventisette aprile.
Mio padre era malato ed io dormivo nella stessa sua camera per
assisterlo, se di assistenza avesse bisogno. Alle quattro della
mattina il vecchio servitore Pasquale mi destò.
— C’è di là il signor Tellini.
— A quest’ora? Che vuole?
— Parlarle per cosa urgentissima.
— Stamani — mi disse — facciamo la rivoluzione. È già
pronto un Governo provvisorio. Ubaldino Peruzzi, Vincenzo Malenchini
e un altro che si troverà. Prefetto di Firenze, Tommaso
Corsi, il Bartolommei gonfaloniere. —
E, leggendomi in viso che non capivo il perchè venisse a dare
a me quelle notizie, riprese:
— Il Comitato vuole si avvertano i Ministri che non vadano a Palazzo
Vecchio. Sarebbero un impiccio. L’avvocato Cempini avvertirà
il Baldasseroni, il dottor Somigli penserà al Landucci che
è suo casigliano. Dal Lenzoni e da tuo zio Martini non si sa
chi mandare. Ho pensato di mandarci te.
— Ma come posso fare io?... —
Non mi lasciò seguitare e soggiunse:
— Via, via, che non ho tempo da perdere. Lo zio è lo zio, il
Lenzoni lo conosci benissimo, non facciamo chiacchiere. Va’ e fa’
presto. —
Voltò le spalle e se ne andò.
Avevo fatto finta di obiettare ma in fondo ero lietissimo che il
Tellini mi avesse troncato la parola in bocca; il mandato commessomi
non soltanto non mi dispiaceva, mi lusingava. Non mi sono mai dato
in vita mia «aria d’ importanza», ed ho avuto ed ho in
uggia chi se la dà; ma quel giorno la tentazione fu grande.
Andar io ad annunziare ai Ministri la rivoluzione! Mi parve, lo
confesso, di diventare un personaggio storico tutto ad un tratto.
Ottenuto il permesso di mio padre, mi avviai. Abitavo in via de’
Rustici e mi era prossimo il palazzo de’ Lenzoni in piazza Santa
Croce. Cominciai dunque dal«Signor Ottaviano», come
allora nel bel mondo fiorentino chiamavano il ministro degli affari
esteri.
Albeggiava appena e la piazza era deserta. Dopo molte scampanellate,
venne ad aprirmi un cameriere tedesco che il ministro aveva portato
seco dalla Legazione di Vienna e poco o punto masticava d’ italiano.
Ci volle del buono e del bello per indurlo a svegliare il padrone a
quell’ora. Mi conosceva; s’arrese alla fine, e annunziatomi, m’
introdusse nella camera di Sua Eccellenza.
Il ministro, al quale il messo della rivoluzione interrompeva i
sonni tranquilli, postosi sul letto a sedere, si stropicciò
gli occhi e sbarrandomeli in faccia domandò:
— Che diavolo c’è? —
Riferii tale e quale il discorso del Tellini. Il «signor
Ottaviano» mi stette a sentire, poi come seccato e scrollando
le spalle:
— Ma non sono più ministro, non ci sono più ministri,
ci siamo dimessi ieri sera. —
E dopo una pausa:
— E suo zio che cosa dice?
— Non lo so, non ci sono ancora stato.
— E allora vada, lo senta e ritorni. Farò quel che fa lui. —
Si stropicciò gli occhi una seconda volta e stesa la mano
sopra la tavola da notte ne prese un libro di piccolo formato che
dalla rilegatura (dorso di pergamena, piatti di color marrone) mi
accorsi appartenere al gabinetto Vieusseux. Lo aprì e si pose
a leggerlo. Uscii.
Strada facendo mi domandavo quale potesse mai essere il libro che il
ministro degli affari esteri leggeva, nel momento in cui stava per
scoppiare la rivoluzione; e la domanda riconduceva il pensiero alla
battaglia della quale io era, in certo modo, uno degli araldi.
«Stamani» aveva detto il Tellini; e in piazza Santa
Croce, nel bel centro di Firenze, all’alba, non c’erano che tre o
quattro persone, le quali se ne andavano pacatamente pei fatti loro.
Fresco della lettura della Histoire de dix ans del Blanc, sulla
quale moltissimi in Italia fecero la loro educazione politica io non
sapevo immaginare una rivoluzione senza cannoni, barricate e
moltitudini in armi. Invece, nulla di tutto ciò. Presso al
Ponte alle Grazie vidi venirmi da lontano incontro un vecchietto
frettoloso, il quale alle acque d’Arno che lo ascoltavano sole
gridava: «È finita la cuccagna». Nel passarmi
accanto e ripetendo quel grido, da un fagotto che aveva in mano
trasse uno stampato e me lo porse: il manifesto che il Comitato de’
popolari mandava fuori in quel giorno; anche questo conservo:
«Toscani!
«L’ora è sonata. La guerra della Indipendenza
già si combatte. Voi siete italiani; non potete mancare a
queste battaglie. E italiani siete anche voi, prodi soldati
dell’esercito toscano, e voi aspetta l’esercito italiano sui campi
di Lombardia. Gli ostacoli che impediscono l’adempimento de’ vostri
doveri verso la patria devono togliersi; siate con noi e questi
ostacoli spariranno come la nebbia. Fratellanza della milizia col
popolo. Viva l’Italia! guerra all’Austria!
«Viva Vittorio Emanuele, primo soldato della indipendenza
italiana!»
In quel manifesto si esprimevano desideri, si davano eccitamenti: ma
non v’era punto detto che i desideri fossero appagati e accolti gli
eccitamenti. E allora perchè il vecchietto gridava:
«È finita la cuccagna?» Che cosa potevano
significare quelle parole se non che la rivoluzione era fatta? Ma
come fatta, se non si vedeva nessuno? Travolto nel mare delle
dubbiezze, vi naufragavo.
*
Mio zio andò sulle furie e mi fece tale una risciacquata, che
sciupò alla prima la mia figura di personaggio storico.
— Come, io, suo nipote, accettavo di fare il procaccino de’
Comitati? Come osavo di venirgli a proporre una vigliaccheria?
Sicuro, una vigliaccheria. Appunto perchè «quei
signori» volevano che non s’andasse in Palazzo Vecchio,
appunto per questo si doveva andarci. E le dimissioni date la sera
innanzi non bastavano ad esimere, perchè non si sapeva che il
Granduca avesse nominato altri ministri. Bisognava andare, e se ci
andava lui, mezzo cieco, ci poteva e doveva andare chi era sano e
ben portante. — Questa era la sua risposta.
Dalla inviolabile dignità di araldo sceso all’ufficio di
procaccino strapazzato, mal volentieri sarei tornato in piazza Santa
Croce, se non m’avesse spinto la curiosità di sapere che
libro il ministro leggesse. Poichè al mio rientrare nella
camera, il volume era tornato alla prima sede sulla tavola da notte,
nel riferire al Lenzoni le parole del collega, figurando di
gingillarmi distrattamente, presi il libro e vi lessi sulla costola:
Madame Gilblas.
Era un romanzo di Paolo Feval. Cominciai a capire che, quando i
ministri, a quell’ora, si pigliavano di quei passatempi, la
rivoluzione poteva risparmiarsi le barricate.
*
Ma se non le barricate, almeno qualche altra cosa che preparasse una
sommossa, un tumulto, un trambusto, magari un tafferuglio. Niente.
In quelle prime ore della mattina vagai per le strade tepide e
luminose del sole di primavera, senza nulla avvertire di mutato o di
nuovo nelle consuetudini cittadine. Nel Caffè Vitali, in
Mercato Nuovo, dove ogni sera intorno a Raffaello Foresi, dottissimo
e argutissimo direttore del Piovano Arlotto, s’adunava un manipolo
di liberali ipercritici, che non stavano nè co’ moderati
nè co’ popolari, alcuni di loro parlavano accalorati e
sommessi. Stando in orecchio, mi parve intendere qualcosa si
macchinasse nella piazza di Barbano, che il popolo non
s’adattò mai a chiamare col nome borbonico di Maria Antonia,
e fu, per quel 27 d’aprile, battezzata dipoi
«dell’Indipendenza». Là abitava il ministro dell’
interno, là forse succedeva qualche scompiglio. Vi corsi.
Erano le sette; gente sulla piazza ce n’era, ma poca e quieta;
presso alla casa del ministro due carrozze, nelle quali la numerosa
famiglia del Landucci si stipava sparuta e spaurita, fra la
silenziosa curiosità e forse la commiserazione de’ presenti.
Impersuaso tornai sui miei passi. Da un secondo piano di via della
Robbia (oggi via Nazionale) una voce mi chiamò a nome; la
voce di un amico, Giulio Cavaciocchi, colto giovane che dava nelle
lettere liete speranze di sè, dagli amici tenuto in gran
conto anche perchè Giosuè Carducci gli aveva
intitolato una delle proprie odi.
Ebbi da lui tutte le notizie lungamente e inutilmente cercate. Non
c’era bisogno nè di tumulti nè d’armi: la
«fratellanza della milizia col popolo» era un fatto
compiuto. Alle nove una gran dimostrazione, movendo dalla vicina
piazza Barbano, andrebbe sino a’ Pitti a manifestarvi non desideri
ma volontà.
Scendemmo insieme, e subito fuori dell’uscio c’imbattemmo in un
giovinotto che salutò il Cavaciocchi e prese a parlare con
lui. Di mediocre statura, bruno, non bello ma con certa fierezza
nell’aspetto; i cui piccoli occhi parevano, nel discorso ch’egli
teneva concitato con l’amico, alternativamente sorridere
d’allegrezza e sfavillare d’orgoglio. L’amico ci presentò.
Martini: Carducci. Questi mi salutò con un buon giorno a lei
secco e brusco.
Il Carducci io lo ammiravo di già; e parecchi dei versi editi
a San Miniato nel ‘57 li sapevo a memoria; ma ora sapevo a memoria
anche versi dell’Hugo e del Lamartine, che mi parevano non meno
belli de’ suoi: leggevo i romanzi della Sand; Sand, Hugo, Lamartine,
tutti quanti sbertati nella Diceria degli amici pedanti pubblicata
sotto il patrocinio di lui; qualche anno prima in certo giornaletto
avevo canzonato il Gargani e la su’ diceria, e delle morbose
condizioni cerebrali dell’autore di quella, davo in altro
giornaletto un bollettino settimanale. Così stando le cose,
fu grazia dal Carducci d’allora ottenere un «buon giorno a
lei» per secco e brusco che fosse: da meravigliarsi anzi che,
in quell’incontro, non mi buscassi il secondo rabbuffo della
giornata.
Facemmo insieme pochi passi; poi ci perdemmo di vista tra la gente
che in mezz’ora, venuta da ogni parte della città, aveva
gremito la piazza.
*
Accordatasi col popolo la milizia e tolto così al Granduca il
mezzo efficace della repressione e della difesa, tutto si riduceva
ormai nel conoscere quanto egli fosse disposto a concedere, per
conservare il trono a sè o alla sua Casa; il resto un di
più; infatti la «dimostrazione» non fu che una
passeggiata. Alle nove migliaia di persone mossero ordinatamente da
Barbano, capitanate da Giuseppe Dolfi e da Enrico Lawley, precedute
da una bandiera bianca rossa e verde e da una fanfara che suonava
l’inno del ‘48:
O giovani ardenti
D’ italico amore,
Serbate il valore
Pei dì del pugnar.
Nel tragitto per le vie di Sant’Apollonia e via Larga (oggi via 27
Aprile e Cavour) i Viva l’Italia si avvicendavano coi Viva la
guerra, seguiti gli uni e gli altri da battimani. Presso al convento
degli Scolopi a San Giovannino, replicati «Viva
l’esercito» provocarono applausi più fragorosi e
più caldi. Salutava i «dimostranti» ritto sul
montatoio d’una carrozza da nolo, un tenente Saint-Seigne che,
avvolto il dorso in un drappo tricolore, copriva così la
montura de’ Cacciatori, più invisa d’ogni altra,
perchè di tinta e di foggia simile a quella dei Tirolesi,
delle cui prepotenze durava iroso il ricordo.
Per la piazza del Duomo e la via de’ Calzaioli e Vacchereccia
s’arrivò sino allo sbocco di via Lambertesca, ove fermatisi
coloro che le erano a capo e la guidavano, la folla fu trattenuta.
Intanto che alcuni tra la calca impazienti gridavano «avanti,
avanti!, a’ Pitti», sopra un tavolino tratto dal prossimo
Caffè Panone, montò quell’abate Stefano Fioretti,
istoriografo della chiesa di San Giuseppe e direttore di balli al
teatro Pagliano, del quale ho già detto altrove. Brandito un
bastone di canna d’ India col pomo d’avorio (mi par di vederlo) e
mulinandolo come un capotamburo, arringò: «Cittadini,
il principe delibera, lasciamolo deliberare in pace».
La gente obbedì; non all’esortazione dell’abate, ma
all’ordine che s’indovinò del Comitato; parte andarono in
Borgo Pinti a plaudire sotto le finestre della Legazione di
Sardegna, i più ad attendere ansiosamente notizie sulla
piazza per poco ancora, ma tuttavia «del Granduca». Io
fra questi: e insieme col conte Enrico Fossombroni, poi deputato per
Arezzo e senatore del Regno, sotto la Loggia de’ Pisani che
fronteggiava il vecchio palazzo della Signoria, udimmo, se m’
è lecita l’immagine, descritti i sussulti nei quali
agonizzava una dinastia, che aveva retto la Toscana per oltre cento
anni.
Passò primo in carrozza il Ferrigni (Yorick) e bandì:
licenziati i vecchi ministri, chiamato Don Neri Corsini marchese di
Laiatico a formare il nuovo Ministero, alleanza della Toscana col
Piemonte nella guerra contro all’Austria; a guerra finita,
costituzione del 1848. La folla applaudì, ma non si mosse
nè si scosse, quasi incredula aspettasse conferma di quelle
notizie o notizie diverse. E diverse le portò di lì a
poco, anche lui in carrozza, il mio amico Tellini. Guerra subito,
costituzione più tardi; ma Leopoldo abdicava: si proclamava
Ferdinando IV granduca di Toscana. E la folla applaudì. Venne
ultimo l’avvocato Puccioni: Tutto a monte, il Granduca partiva. E la
folla applaudì.
Come si sa, tutte quelle notizie furono vere nella fugacità
d’un momento. Leopoldo, disposto a consentire alleanza, guerra,
franchigie, financo ad abdicare, quando l’abdicazione gli fu imposta
si risentì: e stimando meglio tutelare il decoro dell’uomo e
del principe, preferì lasciare lo Stato; non accorgendosi che
il patto gli si imponeva indovinando il rifiuto, e per cacciare non
lui solo ma i suoi dalla Toscana, dov’egli invece si riprometteva
tornare come dieci anni prima.
Consigliatosi co’ Ministri circa il luogo più conveniente
alla nuova dimora, suggerirono Bruxelles ed egli assentì: ma,
perchè gli spropositi sono come le ciliege, che una tira
l’altra, dimenticò per istrada suggerimenti ed assensi e fece
rotta per Vienna.
L’Arciduca ereditario nel congedarsi da Giulio Martini e
stringendogli la mano: «Lei, — disse — che ha tanti amici in
Piemonte, faccia sapere colà ch’io non ho voluto salire al
trono passando sul corpo di mio padre».
*
Dalla fortezza di Belvedere ove s’era condotto abbandonando la
reggia, e donde per la bugiarda accusa di un paltoniere, fu creduto
ordinasse di bombardare Firenze, il Granduca uscì con la
famiglia in carrozza verso le sei del pomeriggio, e costeggiate le
mura dalla Porta Romana alla Porta San Gallo, si diresse alle
Filigare. Lo scortavano ufficiali e uno de’ membri più
operosi del Comitato Bartolommei: Stefano Siccoli, fiorentino di
nascita, maggiore nell’esercito peruviano, che ferito nella guerra
col Cile e amputato, cavalcava con una gamba di legno.
Al passare del vecchio sovrano, parecchi si levavano il cappello,
come se quelle carrozze lo conducessero alla solita trottata delle
Cascine. Quel giorno mi domandai: è compassione o rispetto?
Oggi penso: riconoscenza. Negando l’abdicazione, ostinato nel
credere alle sicure vittorie dell’Austria, la rivoluzione l’aveva
fatta principalmente egli stesso.
Ma da chiunque e comunque fatta, la rivoluzione toscana del 27
aprile 1859 non avrebbe avuto i meravigliosi effetti che ebbe, senza
le pertinaci intrepidezze e le magnanime audacie di Bettino
Ricasoli. Poco importa egli si convertisse all’unità un po’
prima o un po’ dopo; e importa anche meno che, trascorso mezzo
secolo, ancora le passioni partigiane stentino a rendergli
giustizia, quando non gliela negano addirittura.
Le passioni vaniscono; a ricompensare secondo i meriti pensa e
provvede la storia.