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Ferdinando Martini

Confessioni e ricordi

 
FIRENZE
R. BEMPORAD & FIGLIO • EDITORI
MCMXXII


Indice
I.

Tommaso Cogo

II.

Fra tonache e gonelle

III.

Gente Illustre

IV.

Nel paese di Bengodi

V.

In Parnaso

VI.

Primi passi

VII.

Muse in faccende

VIII.

Dal faceto al serio

IX.

Nel “Bel Mondo”

X.

A Palazzo

XI.

Ludibria ventis

XII.

Le mie prigioni

XIII.

Enrico Nencioni

XIV.

Un granducato in extremis

XV.

Vigilia di rivoluzione

XVI.

Ventisette aprile


I.

Tommaso Cogo.

... le ses bords lointains l’enfance me ramène

                      un souvenir dont vien ne peut me détacher.

                                                          SOULARY.


In che anno per l’appunto non so, ma certamente fra il 1805 e il 1808, in una fresca mattina sul finire di settembre, Sua Eccellenza il Consigliere Vincenzo Martini un tempo Segretario del Regio Diritto, più tardi Luogotenente generale di Pietro Leopoldo nel governo dello stato e città di Siena, ora Ministro per l’interno di S. M. la Regina d’Etruria agiatamente seduto in una comoda berlina, partiva da Firenze per la villa di Monsummano secolare abitazione dei suoi maggiori. Gli avrebbero rallegrato colà le annuali vacanze, gaie conversazioni di amici, gare poetiche di arcadi signorotti ed abati e, più gradito allora d’ogni passatempo autunnale, la tesa del paretaio,

la caccia al raperin fatta e al fringuello,

che di lì a qualche anno un altro toscano a lui non ignoto, il Pananti, torrà ad argomento di argute e facili rime.

Era la berlina prossima ad uscire dalla Porta a Prato quando il cocchiere, colto da malore improvviso, stramazzò abbandonando le redini; e i cavalli lasciati a se stessi, vellicati sulla groppa dalle briglie non più freno ma pungolo, Dio sa dove  si sarebbero spinti a precipitare, se per fortuna del vecchio ministro e (mi giova credere) della monarchia etrusca, non li avesse coraggiosamente trattenuti e fermati un giovinetto che andava ciondolando per quei paraggi.

La vita era salva, la berlina intatta; provveduto senza indugio alle cure del cocchiere, lievemente indisposto ma non in grado di proseguire il viaggio, bisognava ora trovarne un altro sano e pronto; che all’Eccellenza Sua, stanca forse dello avere in undici mesi di udienze settimanali inutilmente combattuto contro la presuntuosa testardaggine di Maria Luisa, doleva il perdere dei brevi sospirati villerecci riposi anche una mezza giornata.

Ma così come le disgrazie, le fortune qualche volta non vengono sole; il giovinetto che ardiva fermare cavalli sfuriati, sapeva anche guidarli; offertosi al Martini e accolto lì per lì come una provvidenza, montò a cassetta e in quattro o cinque ore lo condusse incolume a Monsummano.

Si chiamava Tommaso Cogo; e da un villaggio del Comasco dove era nato venne con un fratello in Toscana per impratichirsi nell’arte della seta, ancora fiorente in Toscana. Se lontani i tempi nei quali Por Santa Maria primeggiava fra le arti maggiori e sola, in Europa sapeva tessere i broccati d’oro e d’argento; andavano pur tuttavia ancora famose le filande di Pescia, di Pistoia, di Siena; a Firenze la spola correva su 1500 telai e le sete nere dei Matteoni si smerciavano, braccate, sui maggiori mercati dell’Occidente. Il fratello trovò collocamento in una di quelle manifatture; Tommaso, o, fattone esperimento, il mestiere non gli piacesse, o di collocarsi non gli riuscisse, aspettando di trovare o di trovar meglio, si fermò a Firenze più mesi vagabondeggiando; e intanto innamoratosi della città, intelligente com’era, volle conoscere quanto potè della sua storia e dei suoi monumenti; tutto quanto potè vide e osservò, lesse il leggibile e rilesse con così bramosa attenzione, da ritenere a mente di alcuni libri pagine intere. Se non che, tutto finisce in questo terzo pianeta e molto rapidamente i danari dei vagabondi; sebbene fosse partito da casa con un borsellino assai ben guarnito per un uomo della sua condizione, Tommaso era quasi ridotto al verde e stava per mettersi a fare la guida, o servitore di piazza come allora dicevano, quando gli capitò l’occasione di entrare a servizio in casa nostra.

Servo affezionato, volonteroso, d’onestà a tutta prova, ricambiato dall’affetto di quattro generazioni, vi rimase quarantacinque anni e vi morì a settantadue; per giunta fu mio maestro, uno dei pochi miei buoni maestri: che alcune cose insegnatemi più tardi da altri mi fu necessaria fatica il disimparare, le imparate da lui mi restano tuttora utilmente nella memoria.

*

Naturalmente io non me ne ricordo; ma so per la molto autorevole testimonianza di mio padre che da bambino fui capricciosamente irrequieto; non se ne aveva bene; non trovando il verso di farmi stare tranquillo, mi mandarono a scuola compiuti da poco i trenta mesi. La scuola in cui rimasi fino ai sette anni era tenuta da due sorelle Marchionni, nubili per fortuna della razza e attempate: la signora Gaetana e la signora Rosa. Di ciò che sapesse e potesse insegnare la signora Gaetana non avemmo mai nè prova nè notizia; anche lei salutavamo «maestra», ma in sostanza l’ufficio suo era quello dell’aguzzino; appena la signora Rosa faceva con uno di noi la voce grossa, la signora Gaetana, alta secca allampanata, compariva sull’uscio e preso per un orecchio il piccolo reo, secondo il misfatto, o gli amministrava con la mano stecchita ripetuti colpi sulla parte più rotonda e carnosa del corpo (quante parole per evitarne una!) o lo metteva nel «cantuccio» dopo avergli coperto il capo con un berrettone conico di cartone turchino, sul quale era disegnata da mano inesperta una testa di somaro. La signora Rosa piccola, grassetta, era la vera maestra; e un po’ per volta con paziente pazienza ci insegnò tutto quanto sapeva: leggere, scrivere, la tavola pitagorica, le prime operazioni dell’aritmetica, la dottrina cristiana e poco più. A prendere tabacco senza insudiciarsi laidamente la faccia, le mani, il vestito non ci insegnò, perchè questo non riusciva neppure a lei.

Per ornare la mente di un tale corredo di dottrine tre anni bastarono; trascorsi i quali io potei ancora in quella scuola buscarmi frizzanti castighi dalle mani stecchite della signora Gaetana, ma sperare nella erudizione della signora Rosa non più.

Intanto al buon Tommaso prossimo alla settantina ed esonerato oramai da ogni faccenda all’età sua incomportabile o grave, erano affidate queste sole cure: condurmi a scuola, ricondurmene, raccontarmi la sera qualche novella e all’ora debita mettermi a letto.

Buon Tommaso! quanta amorevolezza la sua! Con quanta festevole condiscendenza consentiva a ripetere la sera la novella di Belinda e il mostro o delle Tre melarance, quasi il ripetere fosse più per lui che per me rinnovato piacere; purchè, ben inteso, col raccontare o col ripetere non s’andasse oltre l’ora canonica da mia madre prescritta e che voleva rigidamente osservata. Giunta quell’ora, non valevano preghiere e se la novella rimaneva a mezzo, pazienza. Tommaso traeva dalla tasca un pezzo di carta, lo accendeva alla lucernina (i fiammiferi erano di là da venire) e, tutte le sere con le identiche parole: «le monachine — diceva — vanno a letto, andremo a letto anche noi».

Una parentesi: per chi non lo sapesse le monachine sono, secondo i vocabolaristi, «quelle scintille che vengono formandosi e disparendo rapidamente lungo la carta bruciata; da sembrare tante monache che col loro lume in mano scorrano per il dormitorio andando a letto». E Lorenzo Lippi, intitolando il suo Malmantile al Cardinale Leopoldo De Medici, gli scriveva così:

Mi basta sol se Vostra Altezza accetta

D’onorarmi d’udir questa mia storia

Scritta così come la penna getta

Per fuggir l’ozio e non per cercar gloria;

Se non le gusta, quando l’avrà letta

Tornerà bene il farne una baldoria

Chè le daranno almen qualche diletto

Le monachine quando vanno a letto.

Torniamo a Tommaso.

Uno solo di quei servizi lo faceva di mala voglia: il menarmi a marcire ore e ore in una scuola dove non c’era più nulla da apprendere lo impazientiva; e non si tratteneva dal farlo capire a me e dal dirlo alle signore Marchionni, che credo lo avessero caro come il fumo agli occhi. Alla fine dopo aver borbottato alquanto, dal brontolìo passò alla ribellione; una bella mattina: «che Marchionni e che scuola? Perdita di tempo e scapito di salute. Niente scuola. Aria, aria»: in giro per le vie e per le piazze a vedere quella statua di Donatello, quel tabernacolo di Luca, a imparare qualche cosa davvero.

Ebbe per quelle scappate l’assentimento dei miei? Non era uomo da indiscipline, e penso che sì; fatto sta che da quel giorno un paio di volte la settimana la scappata si ripetè, e non ci fu museo, galleria, chiesa, non ci fu angolo della città testimone di qualche fatto notevole della sua storia ov’egli non mi conducesse, raccontando, descrivendo, spiegando con pensiero e parole adeguati alla mia intelligenza di fanciullo.

Di quando in quando si soffermava bensì innanzi a palazzi, si studiava di mettermi in mente nomi che con la storia di Firenze non avevano nulla che fare. Così, scendendo da San Miniato e passando innanzi alle case de’ Serristori: «Qui è morto Luigi re d’Olanda fratello di Napoleone» o uscendo da San Marco nella via Larga (oggi Cavour) e indicandomi un palazzo sul canto dell’altra via degli Alfani: «Qui abita il Principe di Monfort, Girolamo re di Vestfalia, fratello di Napoleone». I nomi di quei regni e di quei principi mi entravano da un orecchio e uscivano dall’altro; quello di Napoleone, più facile a ritenere e udito spesso pronunziare da mio padre, restava.

Perchè Tommaso Cogo aveva per il Bonaparte una ammirazione che sapeva di idolatria: quando diceva: «L’ho veduto passare la rivista delle truppe in Borgo Pinti fra la Porta e Candeli» gli occhi gli si inumidivano; e l’ammirazione erompeva ora tanto più fervida, quanto più dovè per alcuni anni essere con cura guardinga dissimulata. Sua Eccellenza il Consigliere Martini non gradiva di certo che in casa sua s’inneggiasse ai francesi e, siamo giusti, qualche ragione l’aveva: a Siena, governatore, l’Aram delegato del Direttorio lo minacciò di morte; a Firenze ministro Elisa Baciocchi sbalzò di seggio la sua sovrana e lui.

Napoleone era morto da un pezzo e il suo idoleggiatore non restava dal difenderne la memoria o dall’educare a onorarla. Seppi da mio padre di altercazioni avvenute diecine d’anni prima, delle quali egli stesso dovè imporre la fine, fra Tommaso e il cuoco e la cameriera di casa, coniugi devoti al trono e all’altare, che aretini ambedue, con le bande reazionarie del ‘99 avevano, se non scorrazzato, simpatizzato sicuramente e il bonapartista squadravano con orrore, dandogli a tutto pasto dell’eretico e del giacobino.

Appena gli parve d’avermi bene inchiodato nella testa il nome di Napoleone, esaltato ogni tanto come il più grand’uomo che mai nascesse, e mi giudicò capace d’interessarmi a narrazioni senza maghi e senza fate, cominciò a parlarmi di lui; e fattomi così oltre che capace disposto, piano piano ogni sera durante più mesi mi raccontò, sommariamente s’intende, del gran Capitano le venture, le vicende, le glorie.

Non saprei oggi dire, perchè neppure oggi arrivo a spiegarmelo, com’egli potesse con linguaggio adatto a un ragazzo dell’età mia conseguire tale evidenza, tanto calda efficacia da infiammarmi e ispirarmi precoci entusiasmi; fatto è che la gesta di quell’uomo il quale traeva dietro a sè eserciti dall’Europa in Affrica e in Asia, piombava sul nemico quando questi lo credeva lontano le mille miglia e sempre lo sgominava, mi parve anche più meravigliosa che i prodigi delle fate e dei maghi. E poi questi eran favole e oramai lo sapevo.

C’è, bensì, questo da dire: che Tommaso non andava immune dal difetto di tutti o quasi tutti gli storici: imparziale non era. Secondo lui, Napoleone non s’era ingannato mai; la ragione era stata sempre dalla parte sua; quanto aveva fatto, tutto a fin di bene; i nemici suoi tutti malfattori; e il «canaglia» l’«imbecille» il «brigante» erano nella narrazione distribuiti con certa larghezza ai sovrani che lo avversarono; di guisa che agli occhi miei appariva un Napoleone alquanto diverso dal vero; non soltanto un eroe, ma una vittima di implacabili invidie; e quei Franceschi, quei Giorgi, quegli Alessandri, quei Federighi che lo perseguitavano io li odiavo come avevo prima odiato l’Orco di Belinda, la Brutta delle Tre Melarance, e sempre speravo, andando innanzi, di apprendere che erano cacciati dal trono e i loro eserciti interamente distrutti.

Amico della famiglia, veniva spesso in casa nostra un colonnello Gherardi, avanzo della campagna di Russia, al quale guardavo come a un essere soprannaturale, beato delle sue carezze, orgoglioso di sedergli sulle ginocchia. Di tanto in tanto mi regalava qualche giocattolo. La vigilia di Natale il regalo fu più bello e più gradito del solito; centinaia e centinaia di minuscoli soldatini di piombo con relativi minuscoli carriaggi e artiglierie. Avevano tutti la stessa divisa, ma Tommaso trovò non so più quale spediente per distinguerli: e sopra una gran tavola di marmo rosso delle nostre cave di Monsummano li disponemmo in ordine di guerra: da un lato gli invincibili battaglioni del Bonaparte, dall’altro le inique milizie della «coalizione»; poi raccolti quanti tappi di sughero si trovavano in casa fornimmo ai francesi quelle munizioni che fulminavano annientandole, colpo per colpo, intere legioni prussiane od austriache. Così al racconto d’ogni battaglia seguivano manifesti i micidiali effetti della vittoria e le monachine andavano a letto lasciando coperto

da cavalli e da fanti il terren.

Bisognò pur troppo, in omaggio alla storia, confessarsi sconfìtti a Waterloo; ma prima di darsi per vinti, che pioggia di turaccioli sulle schiere nemiche! che strage nelle falangi britanniche, che sdruci nelle file del Blücher!

Trastulli puerili sì, ma indizi di quanto germogliava nell’animo. Quando la sera l’«ora canonica» sopraggiungeva con l’annunzio di una battaglia imminente, il giorno dipoi accompagnavo Napoleone sul campo con tenera trepidezza, in apprensione per timore d’una sconfitta. Waterloo fu un dolore, Sant’ Elena mi fece piangere le prime lacrime ch’io abbia dato a sciagure altrui.

Sensazioni prime che non illanguidirono con l’andare del tempo, nè illanguidirono i sentimenti. Quante ne ho sentite sul conto di Napoleone! Molto ho letto che di più notevole si scrisse contro di lui: lo Scott, la Staël, lo Chateaubriand, il Gervinus, il Lanfrey, il Jung, il Michelet, il Taine, il Masson, il Roseberg; e sempre leggendo mi sono ricordato di Enrico Heine e delle sue conclusioni: «Immortale, eternamente ammirato, eternamente rimpianto!» E chi nega le colpe, chi le follie? ma innanzi a tanta grandezza, a una espiazione che la pareggia, ai diritti imperiali del genio e della sventura nulla vale ad affievolire i miei sentimenti, nulla ad attutire le ripugnanze e peggio che alcuni dei suoi nemici mi ispirano: tali che (lo confesso con compunzione di sbarazzino ravveduto) se venivo al mondo cinquanta anni prima, non avrei degnato - tutt’altro - di accompagnarmi con la masnada che nelle vie di Londra inserì torsoli di cavolo fra gli allori del più celebre degli Arturi, Lord Wellesley Duca di Wellington, o con coloro che macchinarono di pigliare a ceffoni Sir Hudson Lowe, malauguratamente impediti dalle polizie.

*

Il 1848 fu anche per me l’anno della libertà. Toltomi dalla scuola delle signore Marchionni e aspettando convenisse di mandarmi in un’altra, fu commesso a un pretonzolo di iniziarmi allo studio dell’italiano e del latino e di condurmi seco alla passeggiata.

Per l’italiano bene, per il latino benissimo; ma dal secondo impegno dopo un paio di settimane Don Antonio (tale il nome del Mentore) chiese di essere dispensato. Tempi di rivoluzione, la città spesso in subbuglio; v’era piovuta e pioveva da ogni parte d’Italia gente tumultui assucta, come i Romani di San Bernardo e come quelli immitis et intractabilis, vedeva i preti di mal occhio; lo stesso Arcivescovo, mesi dopo costretto a fuggire, era sin d’allora minacciato ed offeso. Don Antonio tanto più ammirava i biografati da Cornelio Nipote, quanto più si conosceva fatto di pasta diversa; di portare in mostra la propria tonaca in quei pomeriggi quotidianamente sacrati agli scompigli e alle turbolenze non se la sentiva, specie avendo in custodia un ragazzo. Che fare? ch’io muffissi fra quattro pareti naturalmente non si voleva; mio padre, segretario generale al Ministero delle Finanze e deputato per Montecatini, non aveva tempo per le passeggiate; mia madre, che (come poi seppi) le storie della rivoluzione francese avevano fatta paurosa d’ogni sommossa, atterrita dalle notizie che giungevano da Roma e in devota trepidazione per le sorti del Pontefice, s’era tappata in casa aspettandosi il peggio e di rado ne usciva, anche perchè le avevano nociuto alla salute i continui spaventi.... Che fare? Sempre pronto, Tommaso Cogo supplì.

Chiese, palazzi insigni, opere d’arte, non ce n’erano più da vedere; c’erano invece, spettacolo nuovo, le dimostrazioni; e tanta frettolosa premura poneva Don Antonio nello schivarle, tanta Tommaso nell’andarle a cercare; e il trovarle del resto era facile, perchè donde venissero, tutte sboccavano finalmente innanzi a Palazzo Vecchio sede del Governo e della Camera dei deputati o Consiglio legislativo, come allora in Toscana s’ intitolò l’assemblea.

Veramente io avrei preferito di andare nel chiostro di San Marco a far gli «esercizi» col Battaglione della Speranza formato di ragazzi dai sette ai dodici anni se ben ricordo, ai quali si insegnava il maneggio del fucile, il passo ordinario, il passo accelerato e via dicendo; vi avrei fatto bella mostra di me, in quanto che il maneggio del fucile, rappresentato da un bastone di canna d’ India, Tommaso me lo aveva insegnato di già: ventiquattro movimenti per arrivare a sparare una cartuccia, secondo i riti dell’esercito toscano e le armi d’allora.

Per contentarmi, mi vi condusse una volta e anch’io cantai in coro con i commilitoni:

Siamo piccini

Ma cresceremo

Combatteremo

Per la libertà;

dopo di che sentenziò che quelle erano «giuccherie» e troncò ad arbitrio la mia carriera militare.

Si tornò alle dimostrazioni: continuando nel suo metodo educativo, il buon vecchio tentava spiegarmi che cosa quella gente volesse con que’ vocii e quello sventolìo di bandiere; ma io non capivo nè mi premeva di capire. Perchè mesi innanzi gridavano «viva Gioberti» e que’ medesimi «abbasso Gioberti» qualche mese dopo? E poi Napoleone era morto, il resto non mi importava. Un giorno bensì presi anch’io parte attiva alla dimostrazione, ma non precisamente per esprimere una opinione politica: quando sotto la Loggia dell’Orcagna un tale (ho imparato poi che si chiamava Francesco Trucchi) schizzò di un salto presso alla Giuditta di Donatello e di lassù con molto accalorato discorso e gesti analoghi provocò più volte gli applausi della folla che lo ascoltava.

Ho letto in seguito ne’ giornali e nelle cronache di quel tempo che voleva si facesse «piazza pulita» e si mandassero via Ministri e Granduca; ricordo che quando ebbe conchiuso, leggero così com’era salito, in un salto discese; la folla replicò gli applausi ed io ammirato di quella agilità da scoiattolo, anch’io battei le mani. Tommaso mi rimproverò; giustamente; per esordire nella vita pubblica scelsi male la occasione, dappoichè i giornali e le cronache narrino altresì che quel Trucchi, il quale voleva tolti i portafogli ai Ministri, si dilettava nel far collezione di portafogli altrui.

Non capivo, ma non posso dire che non mi divertissi. Rammento che in quelle dimostrazioni mi davano nell’occhio e li guardavo curioso alcuni omaccioni riccamente baffuti e barbuti; e mi davano nell’occhio non perchè più forte degli altri urlassero i «viva» e gli «abbasso»; ma perchè vestivano il nuovo abito all’italiana, bluse di velluto nero stretta ai fianchi da una cintura di cuoio, calzoni della stessa stoffa e colore, larghissimi al femore stretti alla caviglia; e sulla bluse, dalle radici del collo scendenti per tutta la spalla enormi solini rovesciati, sotto ai quali si nascondeva per uscire in lunghe ampie cocche sul petto una cravatta nera o rossa, secondo i gusti, gli umori, le opinioni del cittadino. In testa un cappello alla calabrese ornato dell’umile spoglia di un gallinaceo.

Un di costoro (mi pare di vederlo, così presente m’è la sua faccia) venne in casa nel febbraio del ‘49 a chiedere la mancia per gli operai che avevano inalzato davanti alla chiesa di San Remigio nostra parrocchia l’albero della libertà; e chiese con così mal piglio che la mia povera madre subito dette e con larghezza da colui certamente insperata. Vi tornò nell’aprile ossequioso e scusandosi della importunità, a chiedere un’altra mancia per gli operai che quell’albero avevano finalmente - così diceva - atterrato.

E così grazie al servo amatissimo, correndo oggi l’anno di grazia 1917, io sono una delle cento persone (se pure a tante si arriva) che a Firenze ricordino di aver visto il Gioberti arringare da una finestra del Lungarno Guicciardini e, avvenuta una prima rivoluzione, dalle logge dell’Orcagna il Mazzini predicare la repubblica; avvenuta di lì a due mesi la seconda, dal balcone di Palazzo Vecchio Gino Capponi ammonire, placandola, una moltitudine che voleva nelle proprie mani vivo o morto Francesco Domenico Guerrazzi e piuttosto morto che vivo.

Il Guerrazzi! Fra le sue colpe, non tutte bilanciate dalle benemerenze, ha anche questa: essere stato cagione sebbene remota cagione della morte di Tommaso Cogo.

*

Il 1849 è lontano più che i molti anni trascorsi non dicano, la cronaca minuta degli avvenimenti toscani di quel tempo ignorata dai più. Riassumiamola brevemente.

Sopraffatto dalla rivoluzione, il Granduca Leopoldo aveva abbandonato la Toscana e seguendo l’esempio del Papa chiesto asilo in Gaeta al cognato Ferdinando de’ Borboni di Napoli. Fattasi così necessaria la istituzione di un governo provvisorio, il Guerrazzi ne fu anima e capo. Egli che per afferrare il potere sollecitò gli aiuti di gente d’ogni risma, non seppe, dopo averla sguinzagliata, mantenerla obbediente ai propri ordini, che anzi parve l’avessero posto al comando soltanto per gusto di disobbedirgli. Sconfitto intanto l’esercito piemontese a Novara, fu facile prevedere la restaurazione dei vecchi principi e la Toscana stanca di anarchia, che del Granduca, a dire il vero, non aveva sino allora troppo a dolersi, si dimostrò per più segni proclive ad affrettarne il ritorno. Soverchiato dalla demagogia e minacciato dalla reazione, il Guerrazzi ordinò venisse a Firenze di fretta un battaglione di volontari livornesi a lui fidi, affinchè - fece dire - ristabilissero e mantenessero l’ordine pubblico.

A malgrado del titolo, non di tutti livornesi si componeva: parecchi ve n’erano d’altre parti della Toscana, ma tutti parimente e tristamente famosi per soprusi violenze e ruberie commesse nell’Appennino pistoiese, avvalorarono con nuove gesta in Firenze la propria fama. Edotti della ragion vera della loro presenza nella città, guardare, cioè, le spalle al dittatore di cui erano oramai quasi unico sostegno e difesa, soprusi, violenze, ruberie, ogni turpitudine crederono a sè lecite quegli sciagurati. Arrivati la sera del 7 aprile, tante in poco più di quarantotto ore, ne fecero, che levatosi lor contro il popolo, il Municipio ottenne fossero rimandati onde vennero; e si stabilì che nelle ore pomeridiane del giorno 11, movendo dalla piazza Santa Maria Novella prossima alla stazione, la non gloriosa coorte se ne andrebbe per via ferrata a Pistoia.

Uscimmo nelle prime ore del pomeriggio alla passeggiata; nel ritorno Tommaso senza, credo, esserselo dapprima proposto, ma voglioso di farmi vedere que’ livornesi de’ quali tanto in casa avevo sentito parlare, dal Lungarno, per la via de’ Fossi mi condusse nella piazza, dove parte del battaglione era già adunata e molta folla venuta come noi a curiosare. Stavamo per entrare nella via degli Avelli, allora angustissima, quando fu sparato un colpo di fucile, da chi e contro chi non si seppe mai, seguito da altri colpi che ora i livornesi sparavano.

Figurarsi il parapiglia che ne successe! Urla, strida, lamenti, bestemmie. Chi fuggiva di qua chi di là e fuggimmo, diciamo così, anche noi; ma è facile pensare quanto velocemente possano fuggire un bambino di sette anni e un vecchio di più che settanta, tra il serra serra di gente svelta e paurosa altrettanto. Ci guadagnammo d’essere malmenati e pesti nella calca e per giunta ributtati da uomini in arme che procedendo in senso opposto si facevano largo con gli spintoni e col calcio dello schioppo. Uscimmo finalmente anche noi nella prossima piazza: ma dove rifugiarsi? Tutti i portoni sprangati. Fuggire per dove? Nella via del Melarancio si sparava dalle finestre; dalla via Sant’Antonino sbucava una torma di popolani con fucili, forche, zappe, bastoni gridando morte e vendetta.... Eravamo nel bel mezzo di una mischia in cui s’inferociva tutto un quartiere e le pallottole fischiavano intorno a noi. Non ricordo più se non questo: che Tommaso presomi in collo, dopo molti andirivieni, infilammo una strada donde a corsa scendeva un forte drappello di soldati. Passati che furono, scorgemmo ciò che le loro fila serrate ci avevano nascosto: sul lastrico sanguinolento il cadavere d’un livornese.

Pensate l’orrore. Mi trovavo per la prima volta in conspelto della morte e quale! Un’anima buona ebbe compassione del nostro terrore: una donna che adocchiava da un uscio socchiuso, ce l’aprì tutto intero e ci offrì di ripararci e di riposare.

Riparati eravamo, ma forse Tommaso si angosciava nel pensare le ansie dei miei. Ripigliammo il cammino. Dal quartiere di Santa Maria Novella alla via de’ Rustici dov’io son nato e allora abitavamo, è lungo il tragitto. Io non mi reggevo in piedi. Tommaso mi riprese in collo per buon tratto di strada. Come Dio volle, giungemmo al Duomo. Inorridito poco prima innanzi ad un morto, inorridii nuovamente innanzi alla barbarie dei vivi. Ci passò accanto un ragazzaccio che teneva eretto e poggiato sul ventre come si suole l’asta della bandiera, uno stocco con infilzati brani di cervello e di cuoio capelluto, e gridava: «Quando le vogliono bisogna dargliele».

E furono trenta i morti e oltre cinquanta i feriti, i più gravemente.

Arrivammo finalmente a casa; ne eravamo usciti alle due e tornavamo alle sette.

*

In casa i domestici tutti sossopra; mio padre, mio fratello, maggiore a me di dieci anni, supponendo ci fossimo rifugiati in qualche famiglia di parenti, erano usciti a cercarci. Mia madre sola, e da ore e ore in terribili angustie.

Quando entrammo nella sua stanza ci venne incontro accigliata e forse Tommaso avrebbe dopo tante diecine di anni udito farglisi per la prima volta un rimprovero, se ci fosse stato tempo a pronunziarlo: ma fatti pochi passi, cadde accasciato sopra una sedia e anzichè rimproverarlo bisognò sostenerlo con qualche cordiale e confortarlo di parole amorevoli. Nella notte lo colse una febbre ardentissima, annunzio di una malattia che lo condusse in fin di vita e che i medici stimarono effetto delle fatiche e delle commozioni di quella tremenda giornata. Si riebbe e potè alzarsi, ma andar fuori non più. Abitava a terreno e quando il cielo era limpido e l’aria tepida, sedeva nel cortile assolato, col suo cilindro in testa e il suo tabarro color marrone (non portò mai a tempo mio, nè cappello di diversa forma nè vestito di colore diverso) aspettando ch’io passassi nell’andare a scuola o nel tornarne, per salutarmi, domandarmi de’ maestri, dei compagni, che cosa avessi imparato e via dicendo, colloqui che sempre si chiudevano con una carezza e una pasticca di zucchero d’orzo. Se la stagione non gli permetteva uscire di camera, mi aspettava dietro la finestra e mi chiamava picchiando con le dita ne’ vetri. Una bella mattina di settembre, e il cielo era limpido e tepida l’aria, non lo trovai nel cortile, non lo vidi dietro alla finestra tornando, feci per entrare nella camera, una suora me lo vietò. Era morto.

Trovarono in quella camera la copia di un testamento scritto di suo pugno e depositato presso un notaro. Nei quarantacinque anni che fu in casa nostra, aveva de’ propri risparmi messo da parte quattro o cinquecento scudi. Li lasciava a mio padre.



II.

Fra tonache e gonnelle.

Tornato il granduca, Don Antonio si ripresentò: di bluse di velluto, di cappelli alla Ciceruacchio neppur l’ombra per le vie di Firenze; soldati austriaci montavano la guardia a Palazzo Vecchio e di dimostrazioni clamorose e minacciose non c’era oramai più pericolo. Morto Don Rodrigo, Don Abbondio aveva ripreso animo e ora si offriva per l’ufficio di Mentore peripatetico, che la paura lo aveva costretto a renunziare l’anno prima. Gli fui, ahimè! novamente affidato.

Obbligo suo condurmi a spasso quattro volte la settimana, tutti i giorni durante la villeggiatura, ripassare meco ogni tanto la grammatica latina, insegnarmi la Storia Sacra.

L’ultima di queste diverse funzioni era la sola che non mi fosse sgradita; non già per desiderio di apprendere, ma perchè Don Antonio aveva frequentissimo nel discorso un intercalare: «così tra una cosa e l’altra»; e a me, sebbene ragazzo, non sfuggiva in quell’insegnamento la comicità di certe locuzioni e mi ci spassavo: «nel sesto giorno, Iddio, così fra una cosa e l’altra, creò l’uomo».

Ma quelle passeggiate! Perchè bisogna sapere che Don Antonio era una specie di procaccia liturgico sempre in caccia di messe, ora per questa ora per quella parrocchia, ora per quella festa ora per quel funerale. Di qui il cercare affannoso del tal prete e del tal altro e le frequenti dimore e i lunghi bisbigli nelle sagrestie, mio fastidio e tormento, che i compagni di scuola incrudivano, descrivendomi le loro ricreazioni nel giardino, di Boboli, o raccontandomi le loro gite fuori le porte della città. Io, che mi compiaccio del non avere da uomo fatto odiato nessuno, Don Antonio lo odiai da fanciullo di un odio implacabile.

Delle noie patite in città mi vendicavo bensì con acre godimento in campagna. Al suo piccolo corpo grassottello, alla sua pelle rosea, quel pretonzolo di trenta o trentacinque anni era affezionatissimo, e fin qui si capisce: difficile invece, se non a capire, a scusare in uomo sano e dell’età sua le perpetue irragionevoli apprensioni, alle quali la rosea pelle e il grassottello corpo lo condannavano. Per una leggera sudata, paura di malattia; per un frutto mangiato fuor d’ora, paura di indigestione; in carrozza di rado e quando non si potesse in altro modo per paura di ribaltamenti, in barca non mai per paura di naufragio. Lo sapevo e in campagna ne profittavo per conseguire due fini ad un tempo: indispettirlo e star con lui quanto meno fosse possibile.

Nell’andare a zonzo ogni giorno con lui per i piani e i colli valdinievolini, appena una occasione si presentasse subito la coglievo: prossimo, per esempio, alla strada che percorrevamo, si stendeva a traverso un viottolo uno stretto ponticello di legno senza ripari laterali: subito piantavo in asso il mio Mentore, balzavo d’un salto sul ponticello mal sicuro, e lanciato un ironico «venga, venga», me ne andavo pe’ fatti miei; dall’orlo di una selva per un molto ripido pendìo e tra le felci e le stipe, si precipitava meglio che non si scendesse nel fondo di un burrone e io giù per il pendìo. Don Antonio imbestialiva, enunciava a gran voce le mie deficienze morali con grande profusione di appellativi, ma quanto a inseguirmi sul ponticello o tra le felci e le stipe, neanche se gli avessero promesso il cappello cardinalizio.

Era dovere suo lo accompagnarmi, dovere mio non allontanarmi da lui. Mancavamo per quelle mie scappate al nostro dovere ambedue; ma egli non poteva denunziarle a mio padre senza accusare sè stesso di timori ridicoli in un uomo giovine ben pasciuto e saldissimo in gambe; e preferiva, quando mi perdeva d’occhio, andare ad aspettarmi in qualche punto, donde tornando, era di necessità ch’io passassi; sì che, giunti a casa, nessuno si accorgesse di quanto era avvenuto; spediente ingegnosissimo per dire una bugia senza aprir bocca, e fare sè complice delle mie indisciplinatezze, me complice delle sue simulazioni.

La cosa finì male: in una di quelle mie scorrazzate, messo un piede in fallo ruzzolai tra ‘l folto di arbusti spinosi e caddi sull’alveo sassoso di un torrente a secco. Scalfitture, contusioni un po’ dappertutto; la grave scorticatura d’uno stinco mi dava dolore acutissimo e m’impediva di camminare. Per buona sorte un de’ nostri contadini (avevamo poderi a quel tempo!) venne in soccorso del padroncino; e postomi sulle spalle a cavalluccio, per una scorciatoia mi riportò a casa.

Dopo le cure di mia madre e la sgridata di mio padre vennero le interrogazioni. — Come è accaduto? dove? e Don Antonio dov’era? Arrivava in quel punto. Mi aveva a lungo ansiosamente aspettato nel solito luogo, poi, non vedendomi e cadendo la sera, s’era risoluto in grande costernazione a tornarsene solo. Nel ritrovarmi così malconcio allibì. Stretto dalle domande, nelle quali era implicito il rimprovero, rispose: — Creda, caro signor Vincenzo, creda pure che questo ragazzo, così tra una cosa e l’altra, è un demonio...; e per quanto le domande si facessero via via più urgenti, non seppe dire altro, salvo di mutarmi di demonio in versiera, e di versiera in terremoto. Mentre con tali inefficaci argomenti s’industriava nella propria difesa, s’accorse di avere dietro di sè una finestra aperta e si mosse frettoloso per chiuderla....

Mio padre dette in una sonora risata e dopo avergli dimostrato che quello di Mentore peripatetico non era mestiere per lui, garbatamente lo licenziò.

Mi parve di molto addolcito il frizzìo della scorticatura.

*

Ma fu quello (lasciamo stare per una volta tanto Scilla e Cariddi) un cascare dalla padella nella brace. Tornati a Firenze e mancando l’accompagnatore, mancarono le passeggiate ed io fui affidato alla vigilanza e alla compagnia delle donne di servizio. Tale era del resto allora l’usanza (pessima usanza!) nelle famiglie di un certo ceto e di una certa agiatezza: i figlioli fuori di casa col prete, in casa con le cameriere; in casa nostra e in quel momento non c’era altro partito da prendere: mia madre malazzata, mio padre all’ufficio la massima parte del giorno; e furono scritte a danno del riposo e del sonno le commedie che gli valsero gli applausi del pubblico e le lodi dei contemporanei; lunghe veglie, delle quali tutto l’organismo si risentì e la tomba si schiuse prima che la vecchiezza giungesse.

Due nature diverse le due donne alle quali fui dato in custodia, fisicamente e moralmente diverse: un’Adelaide senese, sulla trentacinquina, personificava nel regno animale un’antitesi nel vegetale impossibile; era secca e verde ad un tempo; una Margherita sui venti o poco più, magnifico fior di ragazza cresciuta tra le felici aure montane del Mugello nativo, rosea e robusta, era il ritratto della salute: l’una fantastica e bigotta, l’altra gaia e spregiudicata.

L’Adelaide era fidanzata a un sergente dei carabinieri (gendarmi, veramente si chiamavano allora) e doveva sposarlo subito ch’egli ottenesse il congedo. Avvenne che una bella mattina (era, ricordo, di domenica ed io tornavo dalla messa insieme con le due fantesche) entrata in casa vi trovò una lettera del suo Timoteo (il nome non era poetico, ma l’amore passa sopra a tante cose!). Le aveva scritto la notte in procinto di partire improvvisamente per Orbetello. Scorrazzava nella Maremma una banda brigantesca che scontratasi giorni innanzi e azzuffatasi con la gendarmeria era riuscita a fugarla. Timoteo partiva con la sua compagnia, a rinforzo, per aver ragione dei malfattori.

Leggere, cacciare un grido e cadere svenuta fu tutt’una. E non valsero spruzzi d’acqua sulla faccia, boccette d’aceto sotto le narici, per scuoterla da quel torpore. Chiamato un medico, bisognò discingerla e verecondia impose ch’ io fossi allontanato dallo scarno spettacolo.

Quella sentimentale trentacinquenne possedeva una piccola biblioteca i cui volumi leggeva e rileggeva di continuo: vite di santi, romanzi italiani o tradotti, famosi a quel tempo fra la gente del suo grado e della sua coltura: i Misteri d’Udolfo della Ratcliff, Teresa e Gianfaldoni, il Ritorno dalla Russia, Adelaide e Comingio, ovvero gli amanti infelici, altri che non rammento, tutti del medesimo conio; di quelli insomma che Napoleone a Sant’Elena definiva «romans d’antichambre» (e metteva nel mazzo, Dio lo perdoni, anche la Manon Lescaut): finalmente un vecchio libricciattolo, nel quale si descrivevano con crudele minuzia di particolari i castighi sofferti da peccatori impenitenti o da eresiarchi. Ricordo un Leonzio cacciatore, che passando innanzi a un tabernacolo sparò una fucilata contro l’imagine della Vergine, e fu mangiato da serpenti. Sobrii a quanto pare, perchè il supplizio durò un anno intero.

Nell’ottimo intendimento di contribuire alla mia educazione spirituale, l’Adelaide ogni sera, prima di darmi la buona notte, mi largiva il succo delle sue svariate letture: frammenti agiografici ed episodi romanzeschi, tragedie sacre e drammi profani, spasimi di martiri e disperazioni di innamorati. Io, per dirla col buon Saccenti,

io morivo di voglia di dormire,

con tutto ciò . . . . . .

la sarei stata un secolo a sentire;

e non di rado me ne andavo a letto con gli occhi gonfi, impressionato dal terrore o dalla pietà di quei casi.

La Margherita non leggeva, perchè nella sua gioconda spensieratezza s’era scordata d’imparare a leggere; ma conferiva anch’essa all’addottrinamento del mio giovine intelletto, e cantando stornelli a perdifiato mi preparava a gustare le fresche ingenuità della poesia popolare. Gli stornelli erano innocui; non così quei racconti sebbene io li ascoltassi con attonito compiacimento.

Impia sub dulci melle venena latent;

fra le paurose invenzioni della Ratclifif, Leonzio divorato dai serpenti, Santa Verdiana che arringava le vipere, la omonima Adelaide che spirava fra le braccia dell’adorato Comingio, estasi, suicidi, fantasmi, supplizi, sortilegi ed altre diavolerie rimuginate fra me e me senza tregua, mi ridussi a non dormire più, o, addormentatomi, a svegliarmi in sussulto dopo sogni affannosi: n’ebbi scossi i nervi e confuso il cervello: e perchè deperivo a vista d’occhio, indagatene e conosciutene le cagioni, mia madre, ormai avviata alla guarigione, risolse di pigliarmi con sè.

A tempo! di lì a qualche settimana l’Adelaide parve, per qualche segno, non aver più la testa a posto, la Margherita fu licenziata su due piedi e cacciata intrafinefatta. Le ero affezionato e mi rincrebbe. Domandai: perchè? come mai? che ha fatto? ma nessuno mi rispose. Soltanto molti anni dopo, seppi che la prosperosa contadinotta, indispettita forse del non poter leggere romanzi, ne aveva fatto uno per conto suo: il quale, cominciato con due personaggi, quando lo scacciamento avvenne stava per finire con tre.

*

A distrarmi dalle orrende fantasticherie, giovò la stanza, nella quale mia madre abilissima nel ricamo passava parte del pomeriggio al telaio ed io vicino a lei sbrigavo i miei compiti, prima trascurati per colpa di Leonzio e di Gianfaldoni; quell’istesso salotto ove, sulla tavola di marmo rosso delle cave monsummanesi, le invincibili armi napoleoniche debellarono già gli eserciti della Russia e dell’Austria.

Sul parato di carta di Francia erano a vivi colori raffigurate numerose specie di uccelli. Mi divertivo a guardarli, a distinguerli; e il guardarli e il distinguerli alla lunga mi incuriosì: mi venne voglia di sapere come si chiamassero, dove nascessero, come vivessero. Di quella curiosità mio padre si compiacque, mi venne in aiuto con una vecchia ornitologia; ed io un po’ alla volta, con molta diligenza e pazienza, riuscii a determinare degli ammirati volatili le specie ed i generi, a conoscerne la vita e i costumi.

Lontano effetto di quelle ricerche sull’avifauna condotte da fanciullo, o inclinazioni di origine atavica? (in casa mia tutti cacciatori di padre in figlio per parecchie generazioni). Fatto sta che la caccia di ogni forma e maniera: schioppo, rete, pènera, vischio, fu in me per mezzo secolo passione potentissima. Sui venti anni addirittura manìa; basti che mi fece perfino oratore sacro.

Sicuro: prossima a Monsummano è una vasta tenuta; smaniavo d’andarvi a caccia dei pispoloni (Anthus arboreus) in settembre; ma ci voleva il permesso del fattore. Era col fattore in ottimi termini, un giovine prete ambiziosetto, cui piaceva mettersi in mostra e farsi credere di grande ingegno e coltura. In occasione di nozze paesane avevamo lavorato insieme a un sonetto per gli sposi; io lo scrissi ed egli lo sottoscrisse; pensai conveniente ricorrere a lui. Non m’ ingannai: si sarebbe volentieri adoperato lietissimo di farmi cosa gradita; se non che.... servizio per servizio, anch’io potevo fargli cosa gradita e toglierlo da un imbarazzo. S’era impegnato con i preti d’un paese vicino, per certa festa da celebrarsi fra un paio di mesi, a recitare il panegirico del santo protettore. Aveva già raccolto le idee; ma lui organista, lui sagrestano, tra il breviario la messa e il coro, temeva con tante faccende, non aver tempo di stenderlo. Lungo rigirìo di frasi, la cui conclusione fu questa: egli avrebbe aiutato me nella venatoria, io lui nell’oratoria, egli mi avrebbe ottenuto il permesso, io gli avrei fatto il panegirico.

Lì per lì non mi parve vero, ma poi, riflettendoci, mi accorsi che nell’imbarazzo c’ero io. Un panegirico! non sapevo dove mettere le mani, da che parte rifarmi e oramai indietreggiare non si poteva: non c’erano più di mezzo soltanto gli anthus arborei, ma l’amor proprio e la parola data. Stavo così perplesso, quando eccoti l’amico a crescere il prezzo della mediazione. Aveva incontrato molte difficoltà, fatte molte gite inutilmente, dovrebbe farne ancora molte, perchè senza lungamente insistere non si riusciva a superare quelle difficoltà: perdita di tempo che lo accorava, in quanto che non aveva saputo esimersi da un nuovo impegno: un sermone da recitarsi alle monache d’un altro paese. Ho detto che la caccia era a quel tempo per me una manìa, mi par superfluo l’aggiungere: purchè l’aiuto non mi mancasse, purchè il permesso venisse farei anche il sermone.

Per fortuna nella villa di mio zio, rimanevano intatti da oltre un secolo i libri di un antenato che fu parroco: ne scavai il Segneri e lo Zappata, vi feci la conoscenza del Massillon e del Bourdaloue, scartabellai, compulsai, lessi attentamente; e quando, scorso un mese o poco più, il prete ambiziosetto mi porse la carta che mi dava facoltà di stendere le reti nel prato di Mitico, io gli consegnai a mia volta il panegirico del Santo e il Sermone sulla modestia per le monache di Borgo a Buggiano.

E anch’io in un’afosa giornata di luglio, anch’io andai alla festa.

Il panegirico, egregiamente con bella voce detto dal pergamo, strapiacque. I notabili, usciti dalla chiesa e passeggiando su e giù per l’unica strada del villaggio per far l’ora dei fuochi artificiali, sebbene così incompetenti in materia di sacra eloquenza come di ortografia e scienze affini, non si stancavano di levare a cielo l’ingegno e la dottrina dell’oratore novizio. Quali speranze da quegli esordi! L’esattore comunale era addirittura entusiasta: sfringuellava: «magnifico, magnifico» e venutomi incontro, mi abbordò con un: «dica lei, dica lei, se non è veramente magnifico».

Io che, quantunque sotto mentite spoglie, mi sentivo trattenuto dai pudori della paternità — sì, sì, — risposi — ma non bisogna poi esagerare.... — L’esattore mi dette un’occhiata a stracciasacco che volle significare e significò: ecco l’invidia!

*

Torniamo al salotto.

Il rivederlo con gli occhi della memoria mi riconduce, col pensiero, fra molte ore liete che vi trascorsi, ad alcune duramente penose; alla prima punizione avuta in iscuola, della quale molto mi afflissi e adirai perchè era la prima e perchè mi parve e poteva parermi ingiusta sebbene non fosse.

Vi restavamo ogni giorno una o due ore del dopo pranzo (si pranzava, a quel tempo in Toscana, alle sei d’inverno e alle quattro d’estate). Una sera alcuni amici di famiglia erano venuti a prendervi il caffè, quando, accompagnato dal servitore, entrò nella stanza un uomo di mezza età in abito piuttosto dimesso e che avevo veduto altre volte perchè abitava nella Via Nuova, oggi de’ Magalotti, in una casa rimpetto alla nostra e la finestra della mia camera dava appunto su quella via.

Veniva a chiedere non so più quale favore a mio padre e intanto gli offriva un nuovo volume delle proprie poesie.

Mio padre che lo conosceva da un pezzo lo accolse festevolmente e lo presentò: — il signor Gaspero Gozzi, poeta improvvisatore: — quel volume conteneva le poesie da lui improvvisate in Accademie e sui teatri della Toscana. Io che non sapevo ancora che cosa fosse un endecasillabo, fui subito preso da ammirazione per il felice uomo che scombiccherava versi a quel modo: ammirazione che si fece più viva quando lo vidi alla prova.

Lo pregarono di improvvisare un sonetto con rime obbligate. Consentì: dettarono chi una rima, chi un’altra. Invitato a sedersi a scrivere se volesse, ricusò; e dritto con in mano la carta ov’erano segnate le rime, sciorinò il sonetto in minor tempo di quanto impiego io a raccontarlo. Per lui, esercitazione consueta, per gli altri ascoltatori nulla di straordinario; per me meraviglia e portento.

Qualche anno dopo una bella mattina il prete Chiti, maestro di grammatica e di umanità nell’Istituto Rellini la grammatica e la umanità corrispondevano al nostro corso ginnasiale) il prete Chiti ci dettò un sermone da impararsi a memoria. È, disse, di Gaspare Gozzi. Io, orgogliosetto della quasi familiarità con un grand’uomo, sussurrai al compagno che mi stava vicino: — L’ho conosciuto bene io, il signor Gozzi. —

Il Chiti udì e domandò:

— Che cosa ha detto?

Io — Che il signor Gozzi l’ho conosciuto bene.

Lui (con una scrollata di spalle) — Non dica sciocchezze.

Io (punto) — Eh! io l’ho conosciuto.

Lui (alzando la voce e accigliato) — Le ripeto di non dire sciocchezze; Gaspare Gozzi è morto da mezzo secolo.

Io (convinto che di Gaspare Gozzi poeti non ce ne potesse essere al mondo che uno) — Ma se venne tempo fa in casa mia.

Lui (incollerito, battendo col pugno sulla cattedra) — Puntiglioso e sfacciato! Esca dalla scuola e copi per domattina due volte la tal favola di Fedro. Esca e si vergogni! —

Uscii beffato dai condiscepoli, i quali credendo cocciuta asinità quella mia, con lo scotere della testa o con cenni o con smorfie, tutti mi davano, in silenzio, dell’imbecille. Uscii e piansi e singhiozzai tutto il giorno di dolore e di stizza.

Il Gozzi era forse ancora lì vivo e verde e abitante in Via Nuova. Dunque? Dunque il maestro aveva detto uno sproposito e piuttosto che confessarlo, si accaniva contro di me che lo correggevo. Ah! che afflizione e che rabbia!

Mio padre, pur rimproverandomi il tu per tu col maestro, mi spiegò come qualmente maestro e scolaro avessimo ragione ambedue: e dandomi quel tal volume di poesie da mostrarsi la mattina dipoi, mi porse modo di giustificarmi.

Lo mostrai; il Chiti guardò il frontespizio e con un «Questo non so chi sia» mi congedò.

Poichè la punizione non poteva oramai revocarsi, una parola buona non sarebbe stata di troppo; non la disse probabilmente perchè non ne fosse offeso il solito «prestigio dell’autorità»  il quale, come è noto, esige che i superiori abbiano ragione sempre, e segnatamente quando hanno torlo.

Ma se mantenne l’autorità sotto un aspetto, meco ne scapitò sotto un altro; io durai lungamente a pensare: come s’impanca costui a insegnare letteratura, quando ignora perfino il nome di un poeta che schicchera sonetti senza mettersi neanche a sedere?



III.

Gente illustre.

Io sopravvivo ad un mondo scomparso; e ove mi avvenga di domandare ad alcuno: — ve ne ricordate? — mi guardano attoniti e mi rispondono: — come è egli possibile che io me ne ricordi? — Queste parole di Massimo Du Camp narrante episodi della sua adolescenza mi tornano a mente nel rimuginare fra le memorie dell’adolescenza mia; eventi solenni, innovazioni meravigliose hanno mutato la faccia del mondo, e que’ tempi appaiono lontani più di quanto siano in realtà;  veramente remoti nel senso etimologico della parola. Se ripenso di avere udito nel giugno del ‘48 il Gioberti da un terrazzino delle Isole britanniche ringraziare i fiorentini delle festose accoglienze; nel marzo del ‘49 Gustavo Modena dalla loggia dell’Orcagna incitarli alla ribellione: se ripenso d’aver veduto di lì a un mese in quella istessa Piazza del popolo tornata Piazza del Granduca per diventare Piazza della Signoria dieci anni dopo, accamparsi gli Usseri austriaci, allora allora entrati nella città per la porta San Gallo; se finalmente ricordo di aver conosciuto il Muzzi, il Giusti, il Guadagnoli, il Rossini mi par d’essere più vecchio d’un patriarca.

*

Luigi Muzzi! chi, se non qualche studioso, ha in niente oggi questo nome? Abitava al primo piano di una casa in via Santa Reparata; un amico di mio padre che abitava al piano superiore volle condurmi da lui, avvertendomi che si trattava nientemeno che di fare la conoscenza del Principe dell’epigrafia. Con quanta trepida reverenza me gli accostai! e sì che il brav’uomo non aveva nulla di regale nell’aspetto e nell’abbigliamento; quasi ottantenne, piccolo asciutto sdentato; avvolto in una veste da camera spelacchiata, le parole gli uscivano dalle labbra accompagnate da un sibilo, accompagnato a sua volta da spruzzi che schizzavano ad aspergere il viso dell’ascoltatore vicino. Ma era il Principe dell’epigrafia e quel titolo, appunto perchè non bene ne comprendevo il significato, mi ispirava una timida, quasi paurosa venerazione.

Perchè era di ottimo animo prese a benvolermi; ma conviene credere che alla bontà dell’animo fosse pari in lui la vanità, se perdeva il tempo nello esporre a un bamberottolo di dieci o undici anni i propri meriti e nel vantargli il proprio imprescrittibile diritto alla gloria.

Raccontava: era stato amico del Muxtoxidi, del Pindemonte, del Foscolo e di Matilde Bonaparte Demidoff, cui, anzi, intitolò un suo libro; (e io naturalmente a domandargli chi fossero il Muxtoxidi, il Pindemonte, il Foscolo e Matilde Bonaparte Demidoff, de’ quali sino allora nulla sapevo). Aveva composto oltre mille epigrafi; e mi regalava la Decima centuria che ancora conservo, scrivendo sul frontespizio il suo nome ed il mio. Vanamente il signor Pietro Giordani osò contendergli il primato: (e io: — chi è, scusi, il signor Giordani?) nella concisione, nell’armonia, nell’eleganza della forma epigrafica nessuno lo vinceva. Per certi muraglioni costruiti a Venezia il Morcelli (e io: — chi è, scusi, il Morcelli?) dettò questa iscrizione: ausu romano aere veneto, la quale dissero per la concettosa brevità insuperabile.

— Ma il Muzzi, sai? — soggiungeva fissandomi con gli occhi fattisi a un tratto raggiosi — ma il Muzzi la superò,

— Romanamente i Veneti: il Morcelli quattro parole, il Muzzi tre.

E seguitava dolendosi degli invidiosi che tentavano menomare la sua fama: ma v’era chi tenevalo in pregio altamente. Il Guerrazzi delle sue epigrafi ne sapeva a mente diecine; e quando, egli, il Muzzi, nel ‘49 nominato dal Governo provvisorio ministro di Toscana a Costantinopoli, fu a ringraziarlo, il Guerrazzi gli andò incontro ripetendogliene una: Cristina Sveca — più gloriosa — per la rinuncia al trono — che tanti con l’usurparlo.

Quei colloqui, o piuttosto quei monologhi, sarebbero durati ore ed ore se non veniva ad interromperli una massiccia giovinotta guercia da un occhio, che irrompeva nella stanza e in tono di serva padrona ammoniva:

— La faccia finita con coteste chiacchiere, che a momenti è l’ora del desinare. —

Fra l’altro il Muzzi meditava una riforma dell’ortografia e me ne dimostrava con lunghe argomentazioni l’opportunità. Di tutti quei ragionamenti questo solo ricordo: che cuore dovevasi scrivere non col c ma col q. Non è meraviglia che me ne ricordi; per farmi bello di quella erudizione, ficcai subito nel primo compito il cuore e lo scrissi con la nuova grafia. Non l’avessi mai fatto! Il prete Chiti, maestro di grammatica, mi fece una ripassata numero uno e mi svergognò innanzi ai condiscepoli, minacciando di rimettermi a scrivere sotto dettatura. Mi provai a citare l’autorità del Muzzi, ma nulla valse.

— Che Muzzi e non Muzzi! Cuore s’è sempre scritto col c e lei deve scriverlo col c; e perchè s’avvezzi a non scriverlo col q, farà grazia di copiare le prime quaranta ottave della Gerusalemme . Un terribile misoneista quel Chiti!

Copiai; tutto il male non viene per nuocere: da quel giorno il buon principe dell’epigrafia potè, nella mia memoria, imbrancarsi fra altri principi: i Boemondi, i Guelfi, i Balduini e quanti ebbero nel pensiero

ultimo segno

Espugnar di Sion le nobil mura.

*

Reverenza maggiore avrebbe dovuto ispirarmi il Giusti quando, e un’unica volta, lo vidi, ma non fu così. Aveva pubblicato allora allora il Congresso dei Birri e in casa ne sentivo spesso recitare degli squarci: non capivo nulla s’intende, ma m’ero convinto che quella per consenso di tutti era una bella cosa, e chi l’aveva fatta un poeta co’ fiocchi. Smaniavo di vederlo, quand’eccoti una bella sera capita tutto frettoloso nello studio di mio padre; m’aspettavo dicesse Dio sa che; domandò (mi suona ancora la voce negli orecchi):

— A pranzo in casa Cerini ci si va con la cravatta bianca o con la cravatta nera? — Bianca — gli risposero: e allora, appoggiato al caminetto, cominciò a tirarsi i baffi verso il labbro inferiore, borbottò due o tre volte quasi piagnucolando: «O Santo Iddio, o Dio Santo, la cravatta bianca!» poi ammutolì, e di lì a cinque minuti se n’andò frettoloso com’era venuto.

Non me ne seppi dar pace; che un celebre poeta discorresse così poco e dicesse quel che avrei potuto dire anch’ io se fossi pervenuto all’età della cravatta bianca, non mi ci entrava: e fu impressione così viva e durevole quella, che in me, il quale da giovanotto, a ragione o a torto, amai certi poeti, il Grossi per esempio, come si ama una bella ragazza, le simpatie per il Giusti non si destarono se non tardi; non potevo prendere in mano il volume de’ suoi versi, senza riveder lui a quel caminetto tirarsi muto i mustacchi, nè gli sapevo perdonare quella mia delusione infantile.

*

Mi sbalordì invece di primo acchito e crebbe in seguito nella mia più consapevole ammirazione Vincenzo Salvagnoli, che mi parve ingegno veramente portentoso. Non alto, grasso, con un ciuffo già grigio a quel tempo, specie di voluta che saliva dalla tempia sinistra verso la destra a deporvi il proprio scartoccio, occhi grandi fulgidi schizzanti dall’orbita, fu uno dei principi del fòro toscano; parlatore possente, primeggiò nel Parlamento toscano, e in qualsiasi parlamento sarebbe stato o il più valente difensore o il più temuto avversario di un ministero.

Lo udii la prima volta una sera in casa mia sostenere per burla e con grave scandalo di un prete di Valdinievole che lo pigliava sul serio, questa tesi: che il rubare i libri era non pur lecito, ma commendevole: e fu tale il rapido abbondante fluire delle parole, tale il lusso delle citazioni latine, italiane, francesi che mi intontì: e non me solamente.

Aveva la innocua manìa di spacciarsi forte bevitore e mangiatore pantagruelico, si vantava di stravizi vitelliani; alla prova rosicchiava un’ala di pollo e bagnava a mala pena le labbra in un bicchiere di vino.

labbra

Verrò, verrò domani, verrò alle quattro in punto

E scenderò sul campo, appena sarò giunto.

Non un invito a pranzo, una sfida ricevo:

Ebben, dirò con Cesare: vengo, m’assido e bevo.

Chi è, chi è che ardisca di farsi emulo mio?

Venga domani a tavola, egli è già vinto. Addio.

Con questi versi, rispondeva a mio padre; paiono uno scherzo ma furono scritti sul serio, che a furia di raccontarle s’era fatto persuaso di quelle prodezze. A pranzo da noi veniva di quando in quando; se anche gli offrissero venti qualità di vino, non diceva mai no; schierava in bell’ordine i bicchierini innanzi a sè e si alzava da tavola senza averli assaggiati, ma figurandosi e glorificandosi di averli sgocciolati tutti quanti.

Tanto di guadagnato per i commensali; che non mangiando nè bevendo, parlava; e come eloquente nel fòro, era nelle conversazioni piacevole oltre ogni dire. Recitava epigrammi suoi (alcuni sono tuttavia noti comunemente), raccontava aneddoti gustosissimi, uno ne ricordo ancora. Aveva molti anni prima scritta un’epigrafe, da apporsi sulla tomba di una Capponi, se non erro, e vi si lamentava la morte immatura di quella gentile; poichè per le epigrafi funerarie dovevasi ottenere l’approvazione del censore, questi la negò; gentile aveva tra i suoi significati anche quello di pagana e non poteva permettersi che alcuno pensasse deposte in un cimitero cattolico le ceneri di una non battezzata. Bisognò appellarsi al Rosini professore di letteratura nell’ Università di Pisa, e ricorrere con istanze a Don Neri Corsini ministro di Stato. Di quella bestiale inibizione argutamente narrata risero tutti e più avrebbero riso, s’io non ero presente. Raccontava, tra l’altro, il Salvagnoli, di un colloquio col censore, nel quale avevagli dimostrato in quanti modi possa essere gentile una donna; ma quel dialogo, soggiungeva ammiccando a mio padre, lo lasceremo nella penna. Allora non capii, ho capito più tardi che il dialogo non era roba da ragazzi e volevansi rispettate le mie ancora candide orecchie.

Altre volte, il Salvagnoli mi parve - e mi par tuttavia -  addirittura sbalorditoio. Una sera si trattava di confutare il Gioberti; il solito prete, prete colto badiamo, non uno scagnozzo qualsiasi, esaltava le dottrine del Primato; s’era, se non sbaglio, nel ‘51, i tedeschi (come allora si diceva) montavano la guardia a palazzo Pitti e il Salvagnoli aveva da due anni espresso nell’albo di Eleonora de’ Pazzi il vaticinio famoso: «Oggi 10 maggio 1849 le milizie austriache entrano a Firenze: fra dieci anni il figlio di Carlo Alberto sarà re d’Italia»; per difendere il Primato era un po’ tardi, ma il prete ci si ostinava a tutt’uomo. L’altro lo stette a sentire, poi affermò d’aver appunto in que’ giorni condotto a termine un’opera in confutazione delle teorie giobertiane; e lì in quattro e quattr’otto espose la divisione del volume in libri e capitoli, di ogni capitolo dicendo con chiara parola, con limpido ordine, con minuta diligenza il contenuto. Quanti ascoltarono, crederono che davvero avesse compiuto quel lavoro e fosse in procinto di darlo alla stampa; due giorni dopo, quando un amico gliene riparlò, s’era già scordato non solamente del libro cui non aveva pensato mai, ma persino della controversia col prete di Valdinievole.

Subito che lo seppi, sebbene ragazzo, credei di trasecolare; tanto mi aveva lasciato freddo il Giusti e tanto mi infiammai di entusiasmo per il Salvagnoli; mi pareva che dopo Dante venisse subito lui e Dante lo mettevo prima soltanto per un certo riguardo all’antichità; che il Salvagnoli mi divertiva e l’Alighieri, del quale m’avevano letto a scuola qualche terzina (perdono o gran padre!), mi seccava a quel tempo come non si può dire.

Più innanzi con gli anni lo vidi, il Salvagnoli, arrischiarsi in prova anche più ardua. Lo aveva per vizio: gli parlavano di diritto, stava scrivendo un trattato così e così; di storia, giusto si occupava di quel tale argomento, da svolgersi in quel dato modo: e giù un fiume di parole e di dottrina. Parlavano al solito in casa nostra di commedie, e lui subito; ne ho scritta una anch’io, L’Invidia. Ricordo che c’erano delle inverosimiglianze tali da dar nell’occhio anche a me: ma intanto egli espose tutta quanta la tela, delineò i caratteri, li condusse logicamente al lor fine, e sciolse l’ intreccio: non ne sapeva una parola cinque minuti avanti, cinque minuti dopo non si ricordava neanche, cred’io, il titolo inventato lì per lì come il resto.

*

Altro oggetto della mia fanciullesca ammirazione, il Guadagnoli; sebbene per colpa sua mi toccasse lasciare in tronco un divertimento lungamente desiderato.

Nel ‘52 o ‘53 si rappresentò per la prima volta a Firenze il Profeta del Meyerbeer. Com’è noto, sul finire del terzo atto, quando Giovanni di Leida e i suoi anabattisti intonando l’inno trionfale si preparano alla battaglia, le nebbie si diradano e si leva il sole.

Lo ministro maggior della natura,

sorgente dietro al fondale a illuminare sul palcoscenico della Pergola i dipinti baluardi di Münster, era per la Toscana granducale così inusitato e mirabile spettacolo che non solo i Fiorentini, ma gente venuta da ogni parte della provincia gremiva il teatro. Quel sole creato dal professore Corridi direttore dell’Istituto tecnico (le prime sere la creazione andò male e i fredduristi dicevano: ridi, ridi ma di cor ridi) quel sole mandava in visibilio gli spettatori.

Tali portenti fu promesso che sarebbe anche a me conceduto una sera o l’altra ammirarli; e poichè forse mio padre non poteva accompagnarmi alla Pergola e mia madre non andava al teatro che raramente e di mala voglia, fu pregato un amico di accompagnarmici lui. Di questo amico avrò più volte occasione a parlare; e però sarà bene ch’io lo presenti fin d’ora.

Cesare Tellini di Pian Castagnaio era un mazziniano sfegatato: nel 1849 oratore di circoli, succede a Celestino Bianchi nel Nazionale che sotto la sua direzione fu il portavoce dei democratici più accesi. Ristaurata la dinastia granducale ed entrati gli Austriaci in Toscana stimò prudente riparare a Marsiglia; ma sia che gli atti suoi non meritassero carcere o esilio, sia che profittasse dell’amnistia, fatto sta che potè tornare a Firenze e dirigervi col Bianchi un giornale letterario il Genio il quale ebbe redattori molti ed illustri, lettori pochi, la più parte gratuiti e poco durò. Costretto a campare la onesta vita altrimenti, s’arrabattò nel fare un po’ di tutto: tra l’altro commedie e drammi poco meditati, poco pagati, presto dimenticati. Da ultimo, fondò un giornale La Lente di cui ci sarà tempo a discorrere. Era, come ho detto, amico di famiglia e poichè ebbe messo su una tipografia, mio padre per aiutarlo gli regalò il manoscritto di alcune fra le proprie commedie ed egli le pubblicò raccolte in un volume che ebbe, segnatamente in Toscana, spaccio fortunatissimo.

Fu come ho detto, pregato di menarmi lui a vedere il sole alla Pergola. Stavamo in platea aspettando che l’opera incominciasse, quando, data intorno un’occhiata, — guarda lassù — mi disse — al quart’ordine. Lo vedi quel vecchietto? È il Guadagnoli. —

I suoi versi non li avevo letti, ma sentivo di continuo in città i venditori ambulanti offrire a gran voce il Lunario del Baccelli con le sestine del Guadagnoli; e in quel nome vociato per le strade e per le piazze, consisteva, secondo il mio piccolo cervello la gloria, anzi quanto della gloria è più desiderabile. Saputo che il Tellini lo conosceva, non lo lasciai più benavere: lo facesse conoscere anche a me; e tanto implorai che nell’intervallo fra il secondo e il terzo atto mi ci condusse.

Il poeta m’accarezzò, mi domandò dove e che cosa studiassi, io risposi balbettando qualche parola, poi i due presero a parlare fra di loro. Sulle prime la cosa andò liscia; ma s’ ingarbugliò maledettamente quando il Guadagnoli non so a che proposito uscì a felicitarsi delle condizioni della Toscana tornata in quiete dopo le convulsioni del ‘48. Il vecchio liberale fra meravigliato e stizzito si accalorava nel ribattere, il poeta si ostinava con pacatezza nel confermare il già detto: da ultimo l’uno sussurrò irosamente:

— Ma ci sono i tedeschi, perdio!

E l’altro:

— Sì ma i galantuomini possono finalmente godere di un po’ di pace. —

Il Tellini non replicò: presomi per un braccio mi scaraventò fuori del palco, sbatacchiò la porta e invece di tornare in platea, muto e fremente mi trascinò seco nella strada più che di passo e mi ricondusse a casa. Così mentre il sole agognato sorgeva sul palco scenico della Pergola, io per le buie vie di Firenze trattenevo a stento le lacrime. Chi può dire oggi che cosa allora pensassi? probabilmente che, avesse pur torto il Guadagnoli, qualche cosa bisognava pur perdonare a un poeta il cui nome suonava sulle labbra di tutti i venditori ambulanti.

*

Ma dove lascio il Rossini che fu mio maestro di musica? Non ridete che c’è poco da ridere: fu mio maestro di musica.

Veniva in casa spesso, tra ‘l 1846 e il 1847. S’era messo in capo di scrivere insieme con mio padre (ho documenti che lo attestano) una commedia: Il banchiere e il giornalista, e di porre in scena due personaggi in Toscana notissimi. Se ne andò poi e la commedia rimase alle prime scene.

Lo ritrovai quattro o cinque anni dopo alle mattinate di Monsignor Ferdinando Minucci arcivescovo di Firenze e lontano parente della mia famiglia. Monsignore era della musica appassionatissimo e nell’arcivescovado capitavano quanti rinomati tenori o baritoni passavano via via da Firenze. La domenica da mezzogiorno al tocco si cantava: ci sentii l’ Ivanoff, ci sentii un terzetto (se non sbaglio dell’Italiana in Algeri) cantato dal Donzelli che aveva più di sessanta anni e una voce freschissima, da Monsignore e dal Rossini stesso, il quale per giunta accompagnava al pianoforte.

Mi ricordo che una di quelle domeniche, proprio sul più bello dell’accademia, entrò ratto e affannato un canonico Landi e ad alta voce, interrompendo non so quale duetto buffo, annunziò la morte di Silvio Pellico. Monsignore si alzò e prese a enumerare con accento di grave rammarico i meriti dell’estinto. Il panegirico andava per le lunghe e il Rossini che non s’era mosso dal pianoforte, forse seccato, cominciò a improvvisare lì per lì una marcia funebre. Non so se fosse una bella cosa; so che tutti si affollarono intorno al maestro, che l’arcivescovo segnò le battute con un dondolìo della testa e del povero Pellico nessuno ne parlò più.

Poco innanzi quel tempo mi menarono a far visita alla signora Rossini, Olimpia Pellissier, seconda moglie del Maestro, di meravigliosa bellezza trent’ anni prima, quando il Vernet la ritrasse nella Giuditta del Museo di Versailles.

C’erano il Maestro, tre o quattro amici suoi e un cane barbone; un cane intignato, schifoso, pestilenziale, delizia e cura della padrona di casa; gli avrebbe sacrificato la fama del marito senza neanche pensarci. Quella bestiaccia puzzolente e strinata si strascicava dai ginocchi di questo ai ginocchi di quello; e questi e quegli con sguardi saettanti l’odio e invocanti l’accalappiatore municipale, ma con garbo carezzevole affinchè la signora non si adirasse, se lo levavano d’attorno passandoselo l’un l’altro, per modo che la pena dell’averla addosso fosse, così com’era profonda, anche breve e comune.

Alla fine la fetida carcassa arrivò fino a me; ero accanto alla signora, non potevo naturalmente dirle: se lo pigli lei. Non ebbi il coraggio di rimetterlo in terra affinchè rifacesse il giro; mi si accoccolò in grembo sbadigliando per la beatitudine dell’insperato riposo e ci s’addormentò! Chi può descrivere la tenerezza delle occhiate amorose che mi lanciò la signora Rossini? S’io non avevo dodici anni e lei sessanta a un bel circa, chi sa come sarebbe andata a finire. Vero è che non me ne toccava più di mezza per volta; cominciavano da me e finivano sul can barbone. E dopo le occhiate, gli elogi della mia compostezza (sfido a muoversi), del mio ingegno, della mia statura; non fu cosa che in me non lodasse.

— Tu en dois faire un musicien, — disse volta al Maestro che non rispose; ma lei tre o quattro volte ripetè lo stesso invito con la frase medesima, sempre interrompendo i discorsi ch’ei faceva con alcuno degli ospiti. Per chetarla (mi accorsi benissimo che di sentirmi cantare il Rossini non aveva nessun desiderio) si alzò e mi chiamò al pianoforte. Una voce intima mi diceva che non mi sarei fatto onore, nondimeno fui lietissimo di quella chiamata che mi liberava dal miasma, il quale se fosse durato mi avrebbe ucciso nel fiore dell’età.

Consegnai alla signora il dolce pegno; lei se lo riprese, se lo accarezzò, gli chiese scusa di averlo svegliato, e forse si rimproverò in cuor suo di non aver preveduto che per creare l’artista bisognava disturbare il barbone.

Rossini canticchiò un motivo, una melopea, della quale non mi ricordo, e se anche me ne ricordassi sarebbe tutt’una. Mi ricordo bensì le parole:

Fra Martino campanaro

Suona bene le campane

Din, don, don.

Rossini seduto indicava le note sul pianoforte, io dietro, dietro. Mi ci provai più volte; sentivo (per esser chiari: avevo il sentimento) che non s’andava bene e mi vergognavo e maledicevo il cane, cagione dell’ infausta prova; guai se lo avessi avuto fra le mani o fra le ginocchia in quel punto. Ogni tanto il maestro smetteva di toccare i tasti e mi guardava di sbieco stringendo le labbra: alla fine s’impazientì: do, do, do, e picchiava sul tasto e pareva volesse dire: Ci vuol tanto? Proviamo più basso; e io una nota diversa, anzi una nota, credo, non inventata da Guido Monaco. Proviamo più alto: mi usci di gola tale un grido squarciato, come di pappagallo in furia, che il Rossini si turò con le mani gli orecchi, e alzandosi:

— Tusatt (ragazzo, in bolognese), mi disse: spero che tu divenga un brav’uomo! ma una nota giusta non l’azzeccherai se tu campassi cento anni.

Grande contrassegno del genio la divinazione!



IV.

Nel paese di Bengodi.

Pietro Giordani lasciata nel luglio del 1824 Piacenza donde per suggerimento «dei più vili avanzi di corda» lo cacciava l’amante della svergognata vedova di Napoleone, riparava a Firenze; di là scriveva agli amici, datando le lettere: dal paradiso terrestre, e augurava agli amici stessi l’esilio affinchè potessero godere di quel paradiso. Facevano a lui delizioso il soggiorno nella capitale della Toscana, oltre che «gli eccellenti e divini lavori delle arti», la benevolenza del Ministro Fossombroni di cui era giocoforza «innamorarsi», la compagnia di Gino Capponi «vero mostro, unico nella razza dei signori», la dimestichezza con «uomini bravi e donne amabili; il principe buono, il governo buono, la moltitudine di uomini buoni».

Gli amici preferirono probabilmente rimanersene a casa loro studiandosi di non cadere negli artigli delle polizie regie papali o ducali, ma non per ciò mancarono forestieri a Firenze; che là non soltanto esuli in cerca di tollerato rifugio, ma convenivano, e per ragioni che il Giordani non disse, cittadini d’ogni condizione e d’ogni parte d’Italia, anzi d’Europa.

Egli costretto dagli organi infelicissimi a ogni maniera piuttosto di astinenze che di frugalità; contento per l’abitare «ad una cameretta con suppellettile povera», egli, il Giordani, non avvertì o non curò quanto v’era di singolare in Firenze e in tutta la Toscana, singolare anche più che la mitezza del governo e la bontà della popolazione: e, cioè, la facilità del vivere, tale da crederla oggi incredibile; che vi parve fatto realtà quel paese di Bengodi, dove la fantasia popolare immaginò che le vigne si legassero con le salsicce.

Giuseppe La Farina manda al padre nel settembre del 1837: «Eccomi finalmente nella mia nuova abitazione. E questa in via Borgognissanti, una delle più belle e centrali strade di Firenze. Ci ho una camera da letto e un salotto da ricevere mobiliati con tappeti, specchi, stufa di bronzo, ecc. Pago cinquanta lire al mese, oltre sette lire a una donna di servizio che me le pulisce, mi serve a tavola stando in casa dalle otto della mattina fino a dopo le tre, ora del mio pranzo. Pago inoltre alla padrona di casa altri tre paoli e mezzo al giorno ed essa mi fornisce un pranzo composto di una zuppa in ottimo brodo, un lesso, un eccellente arrosto o fritto, un piatto di verdura, uno di parmigiano ed un altro di frutta».

La lira toscana equivaleva a ottantaquattro centesimi di moneta decimale, il paolo a cinquantasei. Il computo è presto fatto, e presto il ragguaglio. Le stanze lire italiane 42; la serva 5,88, il pranzo 1,96 al giorno e per trenta giorni 58,80; così, alloggiato in stanze signorili in una delle più belle strade della città, puntualmente servito, largamente nutrito, il La Farina nel 1837 spendeva al mese in Firenze, per tutta questa grazia di Dio, centosei delle nostre lire.

Così a Firenze; in provincia, e s’intende, anche meno.

Il Leopardi al Vieusseux nel febbraio del ‘38: «Quanto alla pensione vi dirò ch’io qui in Pisa ho: 1° una camera con tenue biancheria da letto e da tavola, 2° pranzo in camera all’ora che mi piace, consistente in zuppa, tre piatti, pane e acqua (non frutta nè vino), 3° colazione consistente in caffè e cioccolata con tre buoni biscotti, 4° imbiancatura e stiratura, 5° fuoco nel caldano tutto il giorno e fuoco la sera nel letto: e tutto ciò mi costa undici monete al mese».

Ossia (la moneta valeva dieci paoli) lire italiane 61,60!

*

Trenta e più anni dopo la dimora del Giordani, il paradiso terrestre non era più quello; vi si scontavano i peccati del ‘48 e del ‘49 e se non vi roteavano come nel biblico le fiammeggianti spade dei cherubini a custodire l’albero della vita, contro ai rei di quei peccati custodivano le porte della città il Landucci ministro e il Petri prefetto, dei quali il profugo piacentino non si sarebbe innamorato, come già del Fossombroni, di certo; ma le condizioni economiche della Toscana si serbavano quali al tempo suo e per la facilità del vivere Firenze era un Eden ancora. Senza andare a mendicare testimonianze negli epistolari, posso asseverarlo e provarlo io medesimo.

Nel 1857 mi presentai all’esame di preparazione al baccellierato: corrispondeva su per giù alla nostra licenza liceale.... Un momento: al ricordo conviene preceda questa volta la confessione.

Uscito da una scuola privata dove tranne il latino bene, e l’italiano mediocremente, poco s’insegnava e quel poco assai male; in seguito scolare infrequente e disattento alle lezioni di fisica e filosofia nell’istituto dei Padri Scolopi, ero a quindici anni quanto può dirsi ignorantissimo. Già, prima che l’esperienza scuola obbligatoria ma pur troppo non gratuita mi apprendesse quanta verità si contenga nei versi  del Tallemant des Réaux:

O le grand don de Dieu que d’aimer la lecture!

Avecque ce secours jamais le tenips ne dure.

Io la lettura, la odiavo: essa che fu il continuo e il solo indisturbato godimento della mia vita. Salvo i libri di scuola, le commedie del Goldoni, le Mille e una notte, la Storia di Napoleone del Norvins, la Capanna dello Zio Tom e qualche novella francese (che il francese insegnatomi da mia madre imparai prestissimo e già da bambino lo ciangottavo); salvo questi, dico, non rammento d’aver aperto prima dei quindici anni altri libri. Ne avevo bensì pubblicato uno con malaugurata precocità in quello istesso anno ‘57, senza, ben inteso, darmi la cura di leggerlo intero: perchè (spieghi la contraddizione chi può) pur non amando i libri mi pungeva l’assillo di vedere impresso sopra un libro il mio nome. E pubblicai, come ho detto, una strenna, Il Giglio fiorentino, raccolta di scritti in prosa e in verso, messa insieme seccando da vicino i letterati fiorentini amici di mio padre, e da lontano Andrea Maffei, Giulio Carcano ed altri valentuomini il cui nome conoscevo, più che per altro, per sentito dire. Di mio poche righe soltanto; poche, ma sufficienti ad accertare pareggiate in me la presunzione e l’asinità.

Nutrito di così peregrina e soda erudizione, mi presentai dunque all’esame. Duravano tuttavia i vecchi più che secolari metodi e programmi. Si studiavano allora meno cose nelle scuole medie e se ne usciva più presto; nè altrimenti si spiega (per non citare che due casi soltanto) come Antonio Aldini e Giovan Battista Giorgini potessero l’uno a Bologna, l’altro a Pisa salire a diciotto anni sopra una cattedra universitaria. Materia dunque di esame: l’italiano il latino la filosofia le matematiche; chi si proponesse di andare all’università sosterrebbe l’anno di poi l’esame di baccelliere: in quel primo niente greco, niente fisica, niente geografia, niente storia.

La storia, del rimanente, sia che i superiori avessero qualche argomento per vederla di mal occhio, sia per altre ragioni, s’insegnava molto alla lesta anche nel ginnasio e nel liceo governativo e chi voleva impararla bisognava la studiasse da sè. Nel privato istituto del Rellini onde uscivo, un de’ più accreditati, notate bene, lo studio della storia consisteva nel mandare a memoria brevi capitoletti narranti, senz’alcun nesso fra loro, i fatti principali dei greci, dei romani, della repubblica fiorentina e del principato mediceo (la cosiddetta storia patria), capitoletti oggi imparati a pappagallo e dimenticati domani.

E qui s’interpone un altro ricordo: se mi dilungo, pazienza. Ove queste pagine cadano sotto gli occhi di qualche alunno di ginnasio o di liceo non sarà male ei conosca come furono educati molti uomini della mia generazione; imagini quanta fatica abbiam fatto per imparare qualche cosa, quanta per dimenticare ciò che ci avevano male insegnato e consideri quanto sieno ingiuste le lagnanze delle scolaresche presenti.

Avevo una memoria pronta e capace: e sempre nelle provoche vincevo i compagni, mettendomi a mente gran numero di quei capitoletti e recitandoli precipitosamente senza sgarrare d’una virgola. Ottenni così negli esperimenti di una classe ginnasiale il primo premio: una medaglia d’argento appuntatami sul petto dalle mani stesse del professore; così dopo le battaglie di Austerlitz e di Wagram Napoleone agganciava egli medesimo la Legione d’onore sul petto dei suoi soldati.

Mia madre, lieta per quella medaglia forse più ch’io non fossi, volle premiarmi anche lei: chiesi d’andare in carrozza alle Cascine. Non l’avessi mai fatto! Era di domenica, i fiacres rari a quel tempo: convenne andare in via dell’Oriolo da certo Silli il più noto fra i noleggiatori di carrozze. In via dell’Oriolo aveva casa e studio Vincenzo Salvagnoli il più eloquente degli avvocati toscani del quale ho già detto come fossero mirabili la dottrina e l’ingegno; uscì di casa mentre stavano attaccando i cavalli, s’avvicinò a mia madre per salutarla e scortomi sul petto il disco luccicante e carezzandomi la guancia domandò come l’avessi ottenuto.

— Nella storia greca, risposi con certo tono orgogliosetto; e fu quello che mi perde.

— Ah! benone! soggiunse sorridendo. E.... dimmi un poco, chi visse prima Pericle o Alcibiade?

I nomi di que’ due signori me li ricordavo; e con un po’ di agio avrei potuto ripescare ne’ cantucci della memoria e ripetere i capitoletti che li riguardavano, ma circa al vivere prima o dopo....

— Peri..., — arrischiai.

Il Salvagnoli non mi lasciò finir la parola e scosse il capo, come avvertendomi dell’errore.

Se non questo, quell’altro: non erano che due, c’era poco da sbagliare: ripresi trionfante:

— Ah! no.... è vero.... Alcibi.... Nuova interruzione, nuovo cenno negativo del capo.

Detti in un pianto dirotto: ma le lacrime non valsero a tergere l’ignoranza mia e, siamo giusti, non mia solamente.  M’avevano dato il premio nella storia greca e non sapevo che Pericle e Alcibiade furono contemporanei.

Torniamo all’esame. Il latino lo sapevo, nell’italiano la sfangavo ed ero già autore di una commedia Il Negligente recitata l’anno innanzi da me e dai miei condiscepoli, nell’Istituto Rellini. La filosofia era una esercitazione mnemonica: ventinove tesi rosminiane imparate a mente e alla lettera. Superate alla meglio o alla peggio le due prime prove, già sognavo percorsa agilmente tutta la via, quando Euclide e il suo lontano alunno Legendre me la sbarrarono.

Il professore Mangani, molto stimato matematico, m’interrogò con cinquanta domande; scartabellò paziente il Legendre per propormi altrettanti problemi, l’uno via via più facile dell’altro a risolvere: tentò insomma di aiutarmi con ogni maniera di pietosi accorgimenti; ma io o non rispondevo, o pare rispondessi con spropositi de’ più marchiani! Ah! lo odo, lo veggo ancora il buon professore, scoccato il quarto d’ora di rito, levare al cielo disperato le braccia e pronunziare la mia sentenza in questa forma mortificante, «Figliolo mio, col poco si va, ma col nulla è impossibile».

Bisognò rassegnarsi alla riparazione, a un terzo esame più tardi e sempre col medesimo successo infelicissimo. Fu un dolore per mio padre quel vedermi ruzzolare di bocciatura in bocciatura e non riuscire a buscarmi licenza d’entrare all’università; fu un dolore; pure d’averlo cagionato non provo rimordimento. Non sempre si vince con la volontà la natura, nè sempre si supplisce con lo sforzo diuturno a originali manchevolezze. Nel 1813 il Cuvier e lo Sproni, rettore dell’Università di Pisa, incaricati dal governo napoleonico di certificare la condizione degli studi nel dipartimento dell’Arno, non trovarono nel Collegio Cicognini un solo alunno, capace di dimostrare che i tre angoli di un triangolo sono eguali a due angoli retti. Di Francesco Viète vissuto nel secolo XVII un biografo scrive: Jamais homme ne fut plus né aux mathématiques: di me è da dire l’opposto. Appena comparisce l’a + b e spunta il p greco le mie facoltà intellettuali si affievoliscono. Che farci? convincersi con umiltà che la cellula algebrica madre natura non me l’ha favorita.

*

Prepararsi alla riparazione significava rimettersi al telonio durante le vacanze, riprendere lo studio della matematica con un valente ripetitore. Fu pregato di scozzonarmi il prof. Merlo, che mi fu caro avere poi collega nell’Accademia della Crusca. A mio padre forse già minacciato dal morbo che lo tormentò atrocemente e lo spense cinque anni dopo, i medici ordinarono campagna e riposo. Sebbene a malincuore (mia madre era morta nell’epidemia colerica di due anni innanzi), mi lasciò a Firenze con un vecchio e fedel servitore e mi fornì del danaro bastevole al mantenimento e a leciti passatempi. E io potei sistemare bilancio e vita così: prima colazione al caffè Pruneti sull’angolo di via de’ Benci: caffè-latte pane e burro: quattro crazie (28 cent.), seconda colazione dal Lanini in via de’ Calzaioli: pane, carne, formaggio: cinque crazie (35 cent.) desinare Alla Lira da Orsanmichele: pane, vino, due piatti e frutta: una lira (84 cent.) secondo annunziava il titolo stesso della trattoria. Se non che l’oste concedeva più che non promettesse: chi s’impegnasse a desinare lì per un mese di seguito e pagasse anticipato non sborserebbe se non il valsente di ventotto pranzi, sì che il prezzo di ciascuno dei trenta ne era di qualche frazione ridotto.

Tutto sommato del peculio largitomi mi avanzavano tre francesconi al mese (16,80). In un paese dove l’ottimo sigaro toscano si vendeva due quattrini (2 cent. ½) e perchè i Fiorentini sopportassero più tardi di pagarlo tre fu necessario mandar fuori dragoni e fantaccini, sciabole sguainate e baionette in canna; dove al teatro de’ Solleciti in Borgognissanti, per mezzo paolo (28 cent.) non più Lorenzo Cannelli nella maschera di Stenterello che Luigi del Buono vi creò quasi un secolo innanzi, ma opera e ballo e nel ballo, La figlia del bandito, Sofia Fuoco celebratissima; dove per un paolo (56 cent.) al Cocomero, ora la Compagnia Reale Sarda con Ernesto Rossi e Adelaide Ristori, ora la Compagnia Dondini con Tommaso Salvini e Clementina Cazzola, tre francesconi erano, per un ragazzo di quindici anni, la California. Non fui mai più in così laute larghezze. Passeggiavo per la città seguito da un codazzo di compagni tutti bocciati come me e tutti a me stretti col vincolo della gratitudine.... e del debito. Intesi allora ciò che fosse ricchezza e come savio lo erogarla in opere mecenatizie e con utile della propria coltura. Perchè fu lì, in quella trattoria che, non dirò nacque in me l’amore delle lettere, ma si temperò alquanto la mia repugnanza alla lettura. Vi lessi con piacere, talvolta con simulato piacere, i versi de’ poeti commensali, ai quali m’era permesso dalla munificenza paterna pagare con gesto rotschildiano di amichevole protezione il caffè.



V.

In Parnaso.

Nella Firenze medicea gli «intellettuali», (chiamiamoli con parola di recentissimo conio) solevano passare le sere d’estate sulle scalee del Duomo, su quei marmi che offrirono a Anton Francesco Doni l’argomento di un piacevolissimo libro; «conciossiachè sempre vi tira un vento freschissimo e una suavissima aura e per sè i candidi marmi tengono il fresco ordinariamente». Gabriello Chiabrera scrivendone in un sermone a Giovan Francesco Geri non esita ad asseverare

Che non può peregrin ritrovar piazza

Ove si trovi più gentil sollazzo;

là infatti «raccolto il fiore de’ cittadini» là continuo il «ragionare d’abattimenti, di storie, di burle» continuo il narrare «favole, stratagemi, novelle; tutte cose svegliate, nobili, degne e gentili....». Ciò nondimeno un risico vi si correva: d’imbattersi, cioè, nella importunità d’un poeta.

Tratterai con gli amici attentamente

Ed ecco si disfila alla tua volta

Un di questi assassini e non ti dice

Il sudicio buon dì nè buona sera,

Ma ti si pianta innanzi e poi t’investe:

Udite un madrigale, il quale uscito

Emmi non infelice dalla penna.

Il Petrarca è divin non vo’ negarlo....

Ma tuttavolta.... e così detto, intona.

Nella Firenze lorenese, ardendo l’estate del 1857, le suavissime aure non avevano mutato il lor costume, e crocchi di persone intelligenti (usiamo la parola vecchia, perchè dalle intellettuali le intelligenti vogliono essere spesso distinte) si radunavano ancora in Piazza del Duomo non lontano da quelle scalee; cioè innanzi al Caffè del Bottegone, che cinquant’anni prima aveva servito i sorbetti alla Contessa d’Albany e alla signora di Staël nella carrozza reduce dalle Cascine, ed ora li serviva a Celestino Bianchi e a Sandro D’Ancona giovanissimo e dotto di già, che vi capitavano quasi ogni sera. Ma i poeti, oramai educati alla discrezione, i versi se li leggevano fra loro là da Orsanmichele in quella trattoria Alla Lira della quale parlai; o dopo avervi desinato, o venendovi sul tardi a sorbire il ponce o il caffè sopra una delle tavole schierate, con gratuita occupazione del suolo pubblico, incontro al lato meridionale della chiesa di Taddeo Gaddi.

*

Non tutti: chè Firenze era piena di poeti in corsa affannata verso la gloria, della maggior parte de’ quali siamo in cinque, oggi, se pur tanti siamo, a ricordarci. Non mai si vide, per esempio alla Lira Emilio Frullani ultimo rampollo di una famiglia che dette al principato amministratori integerrimi e legislatori preveggenti; brav’uomo, liberale provato, sempre pronto agli epicedi e agli epitalami per morti e nozze illustri, sempre disposto a recitare le proprie strofette con tormento degli orecchi altrui: che per certo difetto della bocca le parole pareva le biascicasse prima di pronunziarle. Ne’ salotti fiorentini ch’ei frequentava si leggevano ammirando le poesie «d’Emilio» tout court: ma la fama sua non andava molto oltre i salotti. Castigatezza d’eloquio, vena facile ma gelida e molle, che gli valse dal Guerrazzi volentieri mordace, l’appellattivo di poeta della pappa frullata.

Veniva invece sul tardi di quando in quando alla Lira Corrado Gargiolli lunense non so più se di Massa o di Pontremoli; e ci veniva in frac e cravatta bianca, perchè frequentatore di salotti, anche lui teneva un piede, direbbe il Giusti, nel mondo del buon senso e un altro in quello del buon tono. Già assertore con zelo fervido di propagandista delle dottrine filosofiche e politiche del Gioberti, una sera nella quale si festeggiò al Teatro Nuovo Giovan Battista Niccolini quasi decrepito, entratogli al finire dello spettacolo, senza conoscerlo e non invitato in carrozza, divenne da quella sera il discepolo, il compagno, il custode, l’apologista, l’editore dell’autore dell’Arnaldo; bracciandosi a dimostrare conciliabilissime la venerazione per l’antico idolo e l’adorazione del nuovo.

Di vivo ingegno e coltissimo non riuscì mai ad attrarre sui propri scritti una attenzione benevola. I pochi che avevano allora nella Toscana voce in capitolo non mai lo gabellarono nè per filosofo nè per poeta. Quando, fermato il proposito di dare in luce le opere inedite del suo «grande amico», mandò fuori, primo saggio, il Mario, un giornale intitolò la recensione di quella tragedia: Corrado Gargiolli pubblicato per cura di Giovan Battista Niccolini. Gli nocquero il troppo discorrere di sè, la soverchia generosità onde largiva non richiesto i frutti dell’estro fecondissimo, così che poteva ripetersi di lui ciò che il Foscolo disse già del Lamberti

Quando tutti vanno via

Egli canta tuttavia,

gli nocque la sdolcinatura del parlare lambiccato, ascoltandosi. Presentato alla Marchesa Teresa Bartolommei, la salutò così:

— Spero che salendo i gradini della sua incomparabile cortesia giungerò all’altezza della sua benevolenza. — E la marchesa che era argutissima: — Lo spero anch’io: intanto apro l’ombrello della mia modestia per ripararmi dalla grandine dei suoi complimenti — (La sorella del Chapelain aveva già detto al Voiture che la canzonava per la bizzarra singolarità dell’abbigliamento «J’oppose aux pointes de votre malice le bouclier de mon indifference».

Gli nocquero finalmente i garbetti, le mosse, la voce tra l’infantile e il femineo, una vocerellina di zanzara direbbe il Cellini: affibbiatogli il soprannome di signora Fanny, uno degli emuli nelle gare poetiche gli intitolò questo epigramma:

Gentile il portamento

e senza barba al mento,

ti troverò un partito....

Di moglie o di marito?

Povero Gargiolli! Ottimo cuore, non meritò le sciagure che più tardi lo colsero e lo trassero, oscuro insegnante nel Liceo d’Arezzo, a togliersi non ancor vecchio la vita.

*

Commensale assiduo ebbi alla Lira Braccio Bracci, venuto da Livorno a Firenze per farvi le pratiche dell’avvocatura.

La famosa Diceria dei carducciani «Amici pedanti» — Di Braccio Bracci e degli altri poeti nostri odiernissimi — gli aveva procacciato una insperabile notorietà. Intorno a lui, sorbenti il ponce o il caffè, ogni tanto Giuseppe Bandi anch’egli di Livorno, più spesso Giuseppe Pieri e Carlo Jouhaud di Firenze, Pietro Raffaelli di Modena.

Il Bracci e il Bandi, da poco laureatisi nel diritto a Siena, contrastavano per il vestire trasandato alle agghindatezze del Gargiolli; ed erano i soli dello stuolo canoro che sdegnassero portare il cappello a cilindro allora d’uso comune. Il Gargiolli, no; ma gli altri tutti superava il Bandi per vivacità d’ingegno, saldezza e varietà di coltura; e n’eran prova i suoi versi, sebbene risentissero di reminiscenze ora foscoliane ora pratiane. E non di reminiscenze soltanto, sapevano anche di ribellione; pur nonostante il governo granducale lasciava si pubblicassero, contentandosi (o ineffabile imbecillità dei castrapensieri!) di veder surrogata una fila di puntolini alle parole o alle frasi più chiaramente compromettenti; concedeva insomma si stampasse una strofa così:

Madre de’ forti Italia

Spezza....

Ti brilla in fronte un’aura

Di santo ardor, di spene:

De’ tuoi poeti i cantici

Delle tue cetre il suono

Come fragor di tuono

Ripeton. ....1

Strofa nella quale, in grazia della rima e del metro, non occorreva essere divinatori d’oracoli per leggere: Spezza le tue catene, Ripeton libertà.

Versi, del rimanente, il Bandi ne scrisse pochi; di parte mazziniana, sapeva che le rivoluzioni non si fanno co’ settenari o co’ decasillabi e appunto perchè egli si adoperava a prepararne una per la Toscana altrimenti, lo rinchiusero nel Forte di Porto Longone, dove la Musa non l’accompagnò, e donde non uscì che per andare a farsi crivellare il corpo dalle palle borboniche a Calatafimi.

*

Carlo Jouhaud di famiglia francese fattasi per lunga dimora italiana, volle italiano anche il nome e lo mutò in quello di Napoleone Giotti, e fece bene: sarebbe stato curioso l’udire da chi portasse nome straniero, linguaggio e pronunzia così fiorentinescamente sbracati. Con quel nome dava liriche ai giornali e tragedie liricheggianti alle scene, una delle quali — La Lega Lombarda — levata a cielo nel 1847, perchè bollente di collere patriottiche. Quantunque irrorasse di troppo frequenti libazioni il suo vernacoleggiare, gli altri alunni delle vergini Muse lo proseguivano di molto rispettosa deferenza, perchè fu a venticinque anni deputato alla Costituente toscana del ‘49 e segretario di quell’assemblea. Non già che egli vi desse prova d’eloquenza.... anzi la sola volta che vi aprì bocca parlò brevissimamente e si buscò dal dittatore Guerrazzi un rabbuffo fierissimo. Pochi giorni dopo Novara, sul finire del marzo, domandò se vero, com’era pubblica voce, che il Guerrazzi si proponesse mandare deputati a Gaeta per richiamarne il Granduca. «Una simile notizia rispose il dittatore è tanto triste per chi la dà quanto è stupida per chi la crede». Salutate quelle parole dagli applausi dell’assemblea, il povero Giotti si rannicchiò e tacque; pur chi informava era men triste e chi credeva meno stupido di quanto il Guerrazzi dicesse: a mandar deputati non pensò mai, ma che trafficasse a que’ giorni per la restaurazione del Principe si può dar per sicuro. Se non era lupo, era can bigio.

Il Pieri e il Raffaelli, finalmente, compagni indivisibili: il Raffaelli alto, membruto, acceso nella faccia onde scendeva arruffata una lunga barba corvina da archimandrita ortodosso, verseggiatore mediocre ma rapido, e faceto improvvisatore di epigrammi e di satire. Sebbene si affermasse repubblicano non disdegnava di imitare nelle usanze Re Carlo VI di Francia e di portare come lui addosso un mese e più la camicia medesima. Il Pieri come il Giotti scrittore oltre che di liriche, di tragedie; perchè figlio di popolano fattosi agiato con oneste fatiche, applauditissimo dai popolani del suo quartiere che lo adoravano; e stivati nelle platee quando alcun lavoro di lui si rappresentasse, lo chiamavano ogni momento al proscenio per fargli festa con applausi fragorosi e grida di «Viva il signor Giuseppe».

Di quanti ho detto, il Frullani sulla cinquantina, gli altri dai venticinque ai trent’anni, tranne il Raffaelli che se ne dava quaranta e nessuno gli prestava fede; pareva impossibile che un uomo avesse impiegato quarant’anni soltanto per diventar sudicio a quel modo. Carlo Lorenzini - quel Collodi che deliziò poi più generazioni di ragazzi con le Avventure di Pinocchio ribattezzato il Raffaelli con un emistichio oraziano, lo presentava agli amici come un dotto moldo-valacco: il signor Balnea Vitat.

Di tutti costoro che pur vennero in qualche fama nella Toscana di Leopoldo Secondo e del Ministro Baldasseroni siamo oggi, come dissi, forse in cinque a ricordarci: di uno solo il nome entrato di scancìo nella storia letteraria vi rimane: quello di Braccio Bracci, perchè congiunto al nome di un altro poeta che gl’italiani non dimenticheranno.

*

Cappello di feltro nero dalle ampie rigide falde; giacchetta, panciotto, pantaloni neri; il panciotto alto abbottonato sino alla gola, sul quale e sin quasi alle spalle scendevano, lasciando libero il collo, i larghissimi solini, onde uscivano svolazzanti sin verso le ascelle, le più ampie cocche di una cravatta nera anch’essa, con accurata trascuranza annodata. Questo, un de’ tanti «modelli del vestire all’italiana» proposti nel 1848 da chi aveva tempo da perdere, pareva a Braccio Bracci l’unico abbigliamento decente per colui che vivesse in familiarità con le Aonie sorelle. Con la voce che aveva fortissima e da quella piazzetta di Orsanmichele giungeva fino a’ Cerchi da un lato e a Calimala dall’altro gridava — Livorno ha finalmente il suo gran prosatore, il suo gran romanziere: il Guerrazzi. Non avrà dunque mai il suo poeta? E accalorandosi e battendo i pugni sul tavolino: dovrà, soggiungeva, contentarsi di far ridere il mondo con i versi di Amedeo Tosoni?

Questo Tosoni era un povero diavolo andato in cerca di pane (com’egli stesso narrò nelle sgrammaticature de’ suoi Quarantun’anno di vita trascorsi) prima nel Brasile poi nell’Affrica settentrionale facendo il soldato, il coltivatore di caffè, il giovine di banco, il cameriere, il corista e non so quale altro onesto mestiere. Ora tornato in patria e «avendo per natura diritto alla sussistenza» offriva «alla generosità dei concittadini, le proprie benchè tenui composizioni». I suoi versi eran passati in proverbio: e il buon Antonio Calvi che nell’istituto Rellini tentava impennare le ali ai miei estri stitici e pigri, più d’una volta nel restituirmi la Canzone alla Vergine o l’Ode all’usignolo aveva pronunziata questa sentenza: roba da Tosoni. Più che a’ versi credo dovesse la gioconda nomèa, se la frase m’è lecita, a una epigrafe che migliaia di Toscani mezzo secolo fa sapevano a memoria. Nel 1853, iniziandosi, presente il Granduca, i lavori per l’ingrandimento del porto di Livorno, il Tosoni non tollerò mancasse alla solennità la sua «tenue composizione». Scrisse e stampò il suo bravo sonetto, e a mo’ di titolo vi prepose una epigrafe, la quale io trascrivo non per dare un saggio di quella letteratura, ma perchè certe cose se non si avessero sott’occhio non si crederebbero. Eccola:

«Nella occasione della ricorrenza del giorno della festa del getto della pietra del molo del porto della città di Livorno. Sonetto».

Il Bracci dunque ambiva ad esser lui (e se anche men grande del romanziere e prosatore, pazienza) il poeta della città marittima, che poeti di grido non ebbe mai nel passato; e scriveva liriche e tragedie. Importa avvertire che in casa Bracci Melpomene non entrò la prima volta con lui; avanti ch’egli nascesse, fu già in relazioni con la famiglia. Il padre, Giovanni, calzolaio di Castelfranco nel Valdarno inferiore, aveva scritto e fatto rappresentare alla Quarconia in Firenze un suo Conte Ugolino, tragedia in cinque atti ed in versi.

La Quarconia era, su per giù nella Firenze del 1840 o in quel torno, ciò che fu a Parigi ne’ primi anni del secondo impero, il Petit Lazari che Arturo Meyer ha or è poco descritto: un teatro popolare dove per due crazie (quattordici centesimi) si trattenevano gli spettatori dalle sette al tocco dopo la mezzanotte. In una medesima sera tragedia, farsa, ballo, esercizi acrobatici, pantomima, concerto di violino e giochi di bussolotti. L’intelletto usciva naturalmente ben nutrito da così diverso e lungo spettacolo, ma affinchè lo stomaco non ne patisse altrettanto, si mangiava e beveva nei palchi e nella platea con varietà di utili effetti; tra l’altro, il pubblico che recitava clamoroso la parte del coro antico, poteva, provveduto com’era di vettovaglie, sostenere con l’elargizione di arance bell’e sbucciate le forze dell’innocenza in pericolo e colpire con le scorze il tiranno persecutore.

Attore acclamatissimo, un Ghirlanda vi recitava il Saul così:

Bell’alba è questa in sanguinoso ammanto .

(Punto fermo).

Oggi non sorge il sole.

(Altro punto fermo).

Ma le tragedie dell’Alfieri non tanto deliziavano, quanto quelle del cavaliere Filippo Quaratesi, un altro Tosoni, salvo che prosuntuosissimo: tale da credersi e spacciarsi erede ed emulo dell’Astigiano. È tuttavia famoso il suo Crispo nel quale volle non più emulare l’Alfieri, ma correggere il Racine; il Crispo ha infatti lo stesso argomento della Fedra.

L’ancella chiede alla Regina straziata dall’intima fiamma:

Nomami l'oggetto

Per cui a guisa di cera al fuoco esposta

A colpo d’occhio struggere ti veggio.

Un personaggio si scusa dell’essere andato a letto anzi che eseguire un ordine impartitogli:

Al dover mio

Mancai ieri, la causa anteponendo

Mia personal di coricar mio fianco.

Il padre al figlio incestuoso:

Tumula sotto il bronzo un tal misfatto

E quanto aver può relazione a questo.

In quel teatro innanzi a quel pubblico il buon «lavoratore della scarpa» fece rappresentare il suo Conte Ugolino. Nella parte del protagonista era un endecasillabo:

Ho fame, ho fame, ho fame, ho fame, ho fame

che l’attore doveva pronunziare, facendo pausa fra l’una e l’altra di quelle esclamazioni, dopo ogni pausa abbassando il tono della voce; sì che da ultimo il quasi estinguersi di quella annunziasse imminente l’estinguersi della vita. Gli uditori si sarebbero certamente commossi a quella ognor più fievole doglianza delle angosce digiune, se (com’io seppi già da chi fu presente alla recita) un bell’umore non avesse scagliato un semel ai piedi del Conte pisano, gridando: — Piglia, mangia e chetati.... — Quell’inopinato soccorso mutò la condizione delle cose e degli animi: entrato nella muda di che cibarsi, non c’era più da commoversì; la tragedia non solo perdeva della sua terribilità, ma si chiudeva con lieto fine. Difatti Anselmuccio e Gaddo prima estenuati e giacenti, si levarono agili e vispi e il guelfo signore lieto di farla in barba all’arcivescovo Ruggeri, tirata una reverenza in segno di gratitudine, ordinò si calasse il sipario.

Raccontano i cronisti che al pericoloso endecasillabo sostituita una parafrasi delle terzine dantesche, la tragedia rappresentata a Livorno vi ottenne successo felicissimo: fece versare lacrime copiose durante quattro atti e le mutò al quinto in singhiozzi; comunque sia di ciò, l’autore o pago di quella rivendicazione, o rinsavito, tornò dal coturno allo stivaletto. Una cattiva tragedia non guasta il galantuomo, e perchè egli era tale, educato il figlio negli studi che a lui facevano difetto, lo mandò a Pisa per addottorarvisi nel giure; e vi si addottorò non so come: non so come, cioè, Braccio fra la pubblicazione di due volumi di versi e di un dramma - Isabella Orsini - trovasse il tempo di dare un’occhiata al codice e alle pandette; ma l’ingegno talora supplisce a tutto ed egli aveva ingegno davvero e fantasia ricca e vena abbondantissima e pronta: pronta troppo e questo fu il danno. Non poteva stare senza far versi; fra le conversazioni più animate o confuse si vedeva Braccio astrarsi, borbottare pochi minuti e, giù, una, due, tre strofe facili e sonore.

Ce n’era de’ più corti e de’ più lunghi,

Ma i versi mi venivan come i funghi,

diceva il Pananti di sè ragazzo; i versi del Bracci avevano tutti invece la giusta misura, ma appunto perchè venivano come i funghi anche a lui, troppo spesso sapevano d’improvvisato, con tutti i difetti dell’improvvisazione; e tra concetti felici in eleganza di forme, rime dozzinali e imagini strampalate.

Nè quel continuo grattar l’arpa (che nel Parnaso d’allora era lo strumento preferito) sarebbe stato gran male, se non lo avesse seguito la frégola impaziente del dare alle stampe. Chi abbia il coraggio di sfogliare i giornalucoli fiorentini del ‘57 vi leggerà il nome del Bracci fatto segno alle collere furibonde de’ critici (la cui prosa meritava collere furibonde ancor più) a cagione di certo sonetto improvvisato da lui all’uscire dal teatro dove s’era infanatichito nel veder ballare la Sofia Fuoco in una «azione coreografica» non ricordo se del Viganò o del Cortesi: sonetto che nonostante il consiglio degli amici egli s’affrettò a pubblicare la mattina dipoi. Son corsi più che cinquant’anni ed io l’ho a mente così come mi fu detto da lui:

Pria che in te m’incontrassi, angelo arcano,

Il tumulto dei balli ebbi a disdegno;

E piansi il lauro che sul crin profano

Seppe alla Mima il mio severo ingegno.

Ma tremendo è il tuo genio; esso d’umano

Non ha che il nome; e prepotente a segno,

Ch’io, dall’empia de’ Sofi ira lontano,

Se avessi un regno ti offrirei quel regno.

Baciarti l’arco delle ciglia nere

Non è dato ai mortali: hanno i Celesti

Coi Celesti supreme estasi vere.

Oh! se dato mi fosse e al guardo mio

S’ inchinassero i cieli, i cieli avresti

E a te prostrato non sarei più Dio!

Salvo la chiusa pazzesca Vittore Hugo aveva dette le stesse cose, ma le aveva dette un po’ meglio

Si j’etais Dieu, la terre et l’air avec les ondes

Les anges les demons courbés devant ma loi

Et le profond chaos aux entrailles profondes

L’eternité, l'espace et les cieux et les mondes

Pour un baiser de toi!

*

Il Guerrazzi gli voleva molto bene e sul principio aveva riposte in lui grandi speranze. Dalla terra d’esilio gli mandava suggerimenti, precetti e rimproveri addolciti da parole amorevoli. In una di quelle lettere da Bastia, lunghissima, bellissima e tuttavia inedita che il Bracci stesso mi regalò poco innanzi la morte, gli scriveva tra l’altro:

«S’io dubitassi delle facoltà sue tacerei; ma appunto perchè ci fido parlo e senza rispetto. In lei mi parve abbondare la potenza lirica: e sperai che solo per buono spazio di tempo si chiudesse nella lirica. Ora in tutto, ma nella poesia in ispecie, massima parte di bellezza è la forma, la quale deriva dalla più recondita cognizione della favella: questo poi è studio lungo, arduo, religioso ed io confesso che comunque dalla infanzia me ne mostrassi tenacissimo cultore, non sono riuscito nemmeno imperfettamente ad apprenderla. Le sue scritture, di questo studio (ah! lasci ch’ io glielo dica da padre) non mi rivelano traccia.... Di un tratto lasciato a mezzo l’arringo lirico ella si è con giovanile baldanza spinto in quello del dramma e mi accerta aver posto o voler porre sul cantiere o Giovanna di Napoli, o Baldovino di Fiandra, o Maria di Campo San Piero, o Alboino, o David, ecc. A dirgliela schietta io mi son fregato gli occhi pensando di sognare. Il dramma storico in questo periodo di civiltà in ispecie vuole cognizioni profonde dell’ uomo in genere e poi dell’ uomo individualmente ritratto, cognizione dei tempi, dei modi di pensare, di vivere epperò di sentire spesso non pari in tutti i tempi, in tutto bensì vari, molteplici, talora a questi nostri contrarii.... La notizia semplice del fatto come espongono le storie non basta.... Ora se Ella è tale da potere con la dote degli studi da me tocchi di volo trattare tanti e sì vari argomenti, io la bandisco addirittura il Pico della Mirandola della età nostra. Ma no signore, ella non ha nè può avere così largo tesoro: però annacqui il suo vino, e se la vera fama le piace, e questa sola è desiderabile, posi l’animo e mediti lungamente alla sentenza, nil sine magno vitae labore conceditur mortalibus. Studi, studi, studi e riuscirà: in altro modo, no; e se lascerà dietro a sè vestigio, sarà qual fumo in aere ed in acqua la spuma».

Di tali ammonimenti facesse o no tesoro il Bracci, li tenne a ogni modo per sè: e pubblicò invece nell’ultima pagina di una nuova raccolta di liriche — Fiori e Spine — una lettera del Guerrazzi di data anteriore. In essa l’esule cui erano pervenuti alcuni versi di lui «come la penna di un uccello che passando lascia cadere dall’ala» giudicava quella «penna d’ uccello destinato a gran volo» e esortava il giovine concittadino studiasse «la poesia de’ poeti alemanni moderni e dei Polacchi e degli Scandinavi e perfino dei Russi» che gli aprirebbe «nuovi ed immensi orizzonti».

Giosuè Carducci che già nel ‘53, tuttavia scolare nella Normale di Pisa scriveva a Giuseppe Chiarini «maledetto infamissimo secolo in cui nacqui, intedescato, infranciosato, inglesante, biblico, orientalista tutto fuor che italiano e qui perdio! bisogna essere italiani»; che credeva la scellerata astemia romantica famiglia traditrice della patria e rammaricava Apolline fuggito

dal suol latino

Cedendo innanzi a Tentate

Ed all’informe Odino,

figurarsi se per quelle esortazioni scattò; e sarebbe saltato lui addosso al Bracci e al Guerrazzi occorrendo, se non lo preveniva un amico: Torquato Gargani.

Prima di andar compagno al Carducci nelle scuole dei Padri Scolopi, il Gargani aveva fatto le classi di umanità nell’Istituto Rellini: e vi tornava in occasione degli esperimenti a leggervi prose e versi di sua fattura, gloriosi esempi proposti all’ammirazione di noialtri alunni; rammento avervelo udito recitare con molta enfasi alcune ottave sulla Distruzione di Gerusalemme.

Il Carducci lo descrisse «figura etrusca scappata via da un’urna di Volterra o di Chiusi con la persona tutta ad angoli, e con due occhi di fuoco». Non so se questa sia una forma caritatevole per significare che il Gargani era brutto; ove non sia, io senza fare offesa nè al Carducci nè alle urne di Volterra o di Chiusi debbo dire che il Gargani era bruttissimo, brutto come pochi uomini sono. Per giunta quando io lo udii declamare quelle tali ottave, teneva la testa coperta da una papalina di incerato nero, su cui erano visibilmente impresse le tracce di sudate fatiche. La tigna onde fu per alcun tempo affetto prima lo costrinse a radersi il cranio sino alla nuca, poi a nascondere le piaghette onde il fungo non peranco supposto gli aveva chiazzato la cute.

«Anima degna», disse il Carducci di lui: il corpo non fu dunque degno dell’anima; ch’egli ebbe tutti gli aspetti del pedante arcigno, del barbassoro intollerante ed intollerabile: ed io non posso ripensare il Granger di Cyrano di Bergerac senza ricordarmi il Gargani.

Subito che conobbe il libercolo delle poesie braccesche questi si pose a farne la recensione: la quale poi con ampiezza maggiore e intendimenti più larghi divenne la Diceria famosa: Di Braccio Bracci e degli altri poeti nostri odiernissimi, segnacolo in vessillo di coloro che intitolatisi Amici pedanti (il Gargani stesso, il Carducci, Giuseppe Chiarini, Ottaviano Targioni-Tozzetti) pubblicarono quell’ opuscolo a Firenze nell’estate del 1856. Secondo il frontespizio a spese loro: ma il vero è che i quattro, più ricchi d’ingegno e di coraggio che di pecunia, sovvenne largamente un giovine signore lucchese dimorante alla capitale, Raffaello Cerù; il quale odiava i novatori di un odio che non si sarebbe pensato annidarsi in uomo di sembianze così dolci e quasi serafiche: e che pur di vaccinarsi contro all’infezione romantica spendeva tutto il suo tempo nel tradurre e frequentare i latini: tutto il giorno a Catullo, e a Lesbia tutta la notte.

Evocare le grandi tradizioni dell’arte paesana, armarsi contro all’irruzione dello scempiato neoromanticismo forestiero, rilevare l’ ignoranza de’ dilettanti, frustare i versaioli faciloni, insegnando la dignità della dottrina e la gravità degli studi; questi i propositi degli Amici pedanti, e savi propositi; ma il Gargani, e gli altri che a lui assentivano, passarono in quel libercolo ogni limite segnato dal buon senso e dalla decenza: non solo accomunativi con verseggiatori e novellieri di niun conto, ma insieme col Bracci sbertucciati quale più, quale meno, il Prati, il Bonghi, il Grossi, il Carcano, il Cantù, il Tommaseo, il Guerrazzi, il Manzoni. Sicuro: anche il Manzoni, nonostante la sconfinata ammirazione che gli professava il Giordani, dagli Amici pedanti acclamato e venerato duce ed oracolo. Ma quando si trattava di Don Alessandro i discepoli si ribellavano: non ebbe infatti il Giordani discepolo più amoroso e reverente di Ferdinando Ranalli, l’ultimo de’ puristi come lo chiamò il De Sanctis. Ebbene: il Giordani stimava i Promessi sposi «uno stupendo lavoro senofonteo» e il Ranalli.... Ma è inutile citare i giudizi che ce ne dà nei suoi Ammaestramenti: più spicciativo rammentare le parole da lui dette a Carlo Francesco Gabba suo collega nell’Università pisana: «Pare impossibile che con così piccolo ingegno, il Manzoni abbia potuto far tanto male alla nostra letteratura».

Nella Firenze d’allora placida e chiacchierina la Diceria fu un avvenimento: stampata in duecentocinquanta esemplari avresti detto ne fossero usciti dai torchi a migliaia; tutti la leggevano o l’avevano letta, e come nei caffè così nei salotti non si tenne per un pezzo altro discorso. Non ho da rifare la storia delle polemiche cui essa porse occasione e che durarono nientemeno dal ‘56 al ‘58. Basti dire che non vi fu giornale, serio o faceto, il quale non tartassasse gli Amici pedanti; lo Scaramuccia pubblicò settimanalmente il bollettino della salute del Gargani che fingeva ricoverato nel manicomio di San Bonifazio.

Nè le cose potevano andare diversamente. Pare impossibile che, fatta astrazione da quant’era d’iperbolico nella esposizione delle loro dottrine, giovani di quell’ingegno e tutti mazziniani per giunta, non s’accorgessero dell’errore politico che commettevano. Gridare nel ‘57 contro agli uomini del Conciliatore, bistrattare il Carcano nel ‘48 legato del governo provvisorio milanese a Parigi, il Bonghi, il Guerrazzi, il Tommaseo, il Prati vaganti per le vie dell’esilio, l’Hugo vittima dell’impero napoleonico considerato allora come il massimo impedimento alla libertà dell’Italia, era difatti un errore politico che nessun legittimo desiderio di rinnovamento letterario bastava a giustificare; ciò è tanto vero, che mentre i fogli liberali li flagellavano, gli Amici pedanti noveravano senza saperlo, tra i loro partigiani, il Granduca. Intrattenendosi un giorno Leopoldo con un alto impiegato che pizzicava di lettere intavolò una conversazione circa la Diceria e lodò «quei giovanotti» intenti ad impedire «si imbastardisse la nostra bella letteratura». Non poteva spiacergli che qualcheduno dicesse male del Guerrazzi: se non che il Guerrazzi si rideva di quelle censure e di lui: e, letta che ebbe la Diceria scrisse al Bracci: «Il signor Gargani ci caccia via dal Paradiso? Bene! Ci penseremo quando lo promoveranno sostituto a san Pietro: per ora non vedo motivo di affannarsene». (Lettere inedite).

*

Gli anni passarono, le passioni sbollirono, gli studi e l’esperienza fecero il resto. Il Chiarini il quale allora apostrofando il Lamartine fremeva

Che pur qui v’abbia di virtù sì scemo

Chi t’ammiri e rei sensi alle tue sorba

Indegne carte,

fu poi de’ primi a darci notizia di scrittori stranieri e tradusse da par suo l’Atta Troll e la Germania del Heine; il Carducci, che senza nulla conoscere del Byron e del Goethe, nel difendere la Diceria domandava: «che è egli cotesto Faust?» e nelle sonettesse inveiva contro alla

Schiuma di baironiani e goeteschi

Che tuttavia giurate in su i tedeschi

Inghilesi e Franceschi;

indottosi finalmente per le istanze di Enrico Nencioni a leggere il Mannering dello Scott e il Tell dello Schiller, ammirò subito: e una volta avviato su quel cammino non tardò molto a persuadersi che il Boalò (uso l’ortografia del Gargani) era un seccatore e l’Ugò un poeta, nei cui volumi potevano magari attingersi ispirazioni ed imagini. E gli animi, che erano gentili, si riconciliarono. Trent’anni dopo quelle contese Braccio Bracci si presentava a Michele Coppino ministro dell’ istruzione pubblica con una lettera di Giosuè, che dal Coppino passata a me suo segretario generale tuttora conservo: e la pubblico qui affinchè ne sia rivendicato il nome del buon livornese, d’ingegno e di coltura assai diverso da quello che gli Amici pedanti raffigurarono.

Livorno, 8 aprile 1885

Onorevole sig. Ministro,

Mi permetta di raccomandare all’attenzione dell’ E. V. il desiderio del mio amico avv. Braccio Bracci il quale aspira ad ottenere per titoli un diploma d’insegnante lettere italiane per le scuole secondarie.

L’avv. Bracci è autore di drammi e di poesie che furono lodate dal Guerrazzi e nel quale l’ingegno florido e vigoroso fu aiutato da un’ amorosa coltura e dallo studio dei migliori modelli a rappresentare popolarmente verità e sentimenti civili e patriottici. Ha una gran conoscenza ed un ottimo gusto de’ poeti classici italiani, con tutte le cognizioni di storia e filosofia che afforzano gl’ingegni naturalmente eletti a produrre e a giudicare nell’arte rettamente.

Come letterato e come cittadino il Bracci è degno di benevola attenzione e come tale lo raccomando a Lei così buono e liberale giudice.

dev.mo suo

GIOSUÈ CARDUCCI.

Lodi sincere: che dove il Carducci stimò da lodare non fosse, lasciò al Guerrazzi la cura e la responsabilità degli encomi. Nè per certo ciò dispiacque al Bracci oramai ridesto da ogni sogno di gloria, e che nell’ammirazione vivissima per il grande poeta, suo antico censore, trovava argomento a giudicare dirittamente l’opera propria; la quale impetuosa e negletta dapprima, la meditazione e la pazienza fecero poi, bisogna pur dirlo, migliore e talora non senza pregio.

Povero Bracci! lo rividi a Livorno non molto innanzi che egli morisse. Gioviale sempre per lo innanzi s’era fatto triste negli ultimi anni. Mi provai a rallegrarlo, ridicendo alcuni dei versi uditi anch’essi da lui nella stanzetta di via del Cocomero dov’egli abitava ai tempi della Diceria e della Lira.

Ma tu chi sa se volgerai la mente

Di questa rupe alle solinghe cime

Qui dove insiem passammo, ove sovente

Ci scosse il suon di boscarecce rime....

D’una in un’altra cosa, riandammo i tempi lontani, rammemorammo i compagni ahimè! la più parte perduti: e non io riuscii a racconsolare l’amico, anzi il rimpianto dei giorni irrevocabili ci fece tristi ambedue. Gli s’inumidivano gli occhi e il capo si curvava sotto il cumulo delle memorie, quando rialzandolo a un tratto:

— Ohe! — esclamò, — ci dimentichiamo che a quei giorni l’Italia non c’era. —

E gli occhi brillarono e il sorriso tornò sulle sue labbra ancora una volta.



VI.

Primi passi.

Sulla fine del 1856 venne a Firenze con la Compagnia Reale Sarda per un corso di recite al teatro del Cocomero, Adelaide Ristori reduce dai trionfi d’oltre Cenisio, de’ quali nessuna attrice nè prima nè dopo di lei conseguì sulle scene francesi i maggiori. Proposero di farle festa; e palesi ragioni di accoglierla con singolari dimostrazioni di allegrezza e d’onore ce n’erano davvero parecchie. Non foss’altro, era riuscita ad ottenere quanto per lo innanzi ebbero inutilmente tentato; ad attrarre, cioè, i parigini in un teatro dove attori italiani recitassero tragedie e commedie italiane. Vi s’era provata molti anni prima un’ altra attrice nostra, Carolina Internari, chiamatavi dalla nuora di Carlo X, Maria Carolina de’ Borboni di Napoli, duchessa di Berri; ma oltre che dalla Ristori a lei ci correva quanto dal giorno alla notte. L’Internari capitò a Parigi nel 1830 poco avanti le famose giornate di luglio; sì che la Francia in rivoluzione, la protettrice in fuga, nessuno le badò e le convenne accattare, a stento, danaro per tornarsene in Italia umiliata e delusa.

Com’ è noto, la Ristori attratto il pubblico subito lo conquise; e non soltanto il pubblico grosso ma i critici, gli scrittori più insigni: i due Dumas, lo Scribe, il Legouvé, l’Augier, il Mery, la Sand, il Janin, il Gautier, il Saint-Victor, tutti del pari sbalorditi e concordi tutti nell’affermare che nessuna attrice francese le stava a paro, nessuna eguagliandola nella stupenda varietà delle attitudini: tale, ch’ella poteva recitare nella sera medesima la Maria Stuarda dello Schiller e i Gelosi fortunati del Giraud, nel tragico e nel comico sempre e parimente mirabile.

Se non che, fra tanto entusiasmo, o a far sì che di qua dalle Alpi non ci inorgoglissimo troppo di cotesta supremazia certificata con impeto ma ripensata forse con rammarico; o a cagione della burbanzosa ignoranza delle cose nostre che induce così spesso i Francesi in così false opinioni, e così erronei giudizi; il Janin finse di credere o credè veramente che la Ristori non avesse in Italia la fama che meritava; non punto meravigliato, del rimanente, perchè (questo il sunto degli articoli ch’ei pubblicò nei Débats) un popolo molle e fiacco, fanatico per l’«opera buffa» non poteva non essere incurante dell’arte drammatica, nè piacersi della tragedia nè della tragedia onorare degnamente i nobilissimi interpreti. Un sacco di scempiaggini insomma, e questa la conclusione vanitosa e bugiarda: se Parigi non era, gli Italiani non avrebbero saputo mai quanto grande artista fosse Adelaide Ristori.

Non sto a dire il putiferio che si destò in Italia per quegli scritti; giornali, giornaletti, giornalucoli tutti addosso al Janin, il quale ebbe d’insolenze quanto spettava a lui insolentissimo e forse qualcosa di più; prose ciceroniane col quousque tandem, giambi archilochei, un po’ di tutto: persino la vecchia Musa di Andrea Maffei, sempre pronta se felice non sempre, volle dire la sua.

 . . . . . . . . .

Ma in qual parte d’ Italia ai tuoi lamenti

Lagrime non versammo? Ove l’incanto

Di tua voce sonò, che cuori e menti

O l’ira o la pietà non abbia affranto?

Noi destammo il tuo genio; i plausi nostri

Ti erudir nell’agone, ove ora imprimi

Solitarie vestigie e siedi in trono.

No, la Senna non fu; noi fummo i primi

A cingerti, o gran donna, il serto e gli ostri

Di cui l’onda superba a te fa dono.

Ragioni dunque, come ho detto, palesi per far festa all’attrice illustre ce n’erano: ma s’io soggiunga che promotore di quelle onoranze fu Cesare Tellini, l’instancabile cospiratore del quale ebbi occasione di parlare, s’ intenderà di leggervi come ci fossero anche ragioni segrete.

I sentimenti liberali della Ristori si conoscevano; si sapeva che qualche anno prima, durante l’occupazione austriaca in Toscana il Generale Folliot de Crenneville governatore militare di Livorno l’aveva espulsa dalla città; si sapeva che a Parigi in quell’istesso ‘56 che udì la voce del Cavour levarsi innanzi all’Europa, ella s’era adoperata fra i letterati e i giornalisti che l’acclamavano e frequentavano nel cercar favore alla nostra causa; tutti buoni argomenti per dimostrar meritevole la egregia donna delle onoranze che la parte liberale preparava per lei; tuttavia non credo che il Tellini e i compagni suoi si sarebbero tanto sbracciati nel prepararle se non si fosse in sostanza trattato di valersi della Ristori per fare un contraltare al Governo, in occasione, ai fini loro, singolarmente opportuna.

Si annunziava appunto in que’ giorni prossima una visita dell’Imperatore Francesco Giuseppe al Granduca Leopoldo, provocata dalla Curia pontificia, alle cui ostinate esigenze il Governo toscano ricusava con lodevole ostinazione di cedere: visita perciò doppiamente sgradita alla massima parte della cittadinanza, sgradita anche più (come rilevo da carteggi di quel tempo) a cagione di alcune imprudenti parole del Barone Von Hügel, ministro di Austria in Toscana. Domandatogli se l’Imperatore andrebbe anche a Roma rispose: — Oh! no, Sua Maestà non va che nei propri Stati!—

La Corte si disponeva a ricevere l’augusto capo della dinastia con grande solennità e molto sfoggio d’apparati: sarebbe entrato in Firenze per la porta San Gallo passando sotto l’arco trionfale eretto dal Iacot nel 1739 in onore del primo Granduca lorenese, Francesco, marito di Maria Teresa: seguirebbero luminarie, spettacoli, balli, feste d’ogni maniera.  Bisognava dunque che a quelle dimostrazioni la parte liberale contrapponesse le sue. In palazzo Pitti omaggi all’Austria? altrove auguri di redenzione all’ Italia; se anche velatamente espressi, il Governo intenderebbe; poichè la fortuna aveva condotto a Firenze la Ristori, alla Ristori plausi, corone, banchetti.

L’Imperatore non venne, il banchetto fu dato: il Governo finse di non intendere e permise di presiederlo al Marchese Luca Bourbon del Monte, soprintendente alle Belle arti, maliziosamente invitato.

*

Mio padre era amicissimo della Ristori, che anni innanzi aveva recitato con la consueta maestria e molto felice successo la sua commedia: Una donna di quarant'anni: saputo di quel banchetto a bocca e borsa fu de’ primi a sottoscrivere; e, perchè ammalato, incombensò me di versare la sua quota. Andai perciò dal Tellini; ed egli che impegolato tra mille faccende aveva bisogno di chi in quella l’aiutasse e si muovesse per lui e scrivesse lettere, e mandasse avvisi, e arrivasse là insomma dov’egli non poteva arrivare, subito mi acciuffò e mi nominò lì per lì segretario del Comitato. Io segretario del Comitato? Mi parve di essere più alto di quattro dita; se l’Imperatore d’Austria fosse venuto a Firenze, mi sarei a mala pena degnato di squadrarlo.

Giunse finalmente la memoranda sera del 4 gennaio 1857; e una cinquantina di persone sederono a convito in un’ampia sala del palazzo «dalle cento finestre» in piazza Santa Maria Maggiore. Attorno all’attrice famosa, letterati, giornalisti, artisti, cittadini d’ogni ceto: i caporioni del partito liberale o intervennero o aderirono tutti. Il segretario del Comitato naturalmente al suo posto.

I giornali, che di quel banchetto parlarono e che mi sono preso cura di consultare, dissero squisite le vivande, i vini nostrani e forestieri eccellenti; ma su questo punto il segretario del Comitato, che pur dovrebbe per ufficio custodire ogni documento della cerimonia, non è in grado nè di affermare, nè di negare: non mangiò, nè bevve: un tremore intimo, una trepida commozione gli tolsero l’appetito e la sete: e dirò fra poco il perchè.

Al levar delle mense, venne l’ora de’ brindisi. Primo ad alzarsi fu Zanobi Bicchierai, direttore del Passatempo giornaletto letterario di molta autorità a que’ giorni e primo propinò «all’attrice illustre, all’amabile donna che ha portato trionfalmente fuori d’Italia il nome italiano». Data così la stura succederono al Bicchierai Giuseppe Pieri, Clemente Busi fedele aiuto al Montanelli nel governo provvisorio del ‘49, un pittore francese Carlo Senart e altri e altri poi. Versi e prose (ma versi il più spesso) nei quali alcune parole nazione, popolo, Italia, italiano, italo, ausonio, ricorrevano frequenti: tutte pronunciate con tono particolare, quasi volesse sottolinearle la voce, e tutte illustrate da plausi commentatori. Fra tanto «furor di rime» anche la Ristori volle fare le sue: e chiesta una matita, sul rovescio della minuta del pranzo (il popolo diceva a quel tempo minuta in Toscana e i linguaioli non si scandalizzavano) scrisse improvvisa questa sestina:

Perchè torna ad onor, d’Italia mia,

Dello straniero il plauso assai m’è grato;

Quanta dolcezza all’anima mi sia

L’applauso che da voi m’è tributato

E quanti affetti in me ridesti amore

Dire il labbro non può.... ma sente il core.

Un lungo batter delle mani salutò l’artista grandissima; si gridò, viva l’arte italiana, poi con meditato trapasso, data la mossa dal Tellini, da cinquanta voci insieme, viva l’Italia!

Dico male cinquanta: mettiamo quarantanove: perchè non sono sicuro che l’ottimo soprintendente alle Belle Arti gridasse «viva l’Italia» anche lui.

*

Finita la festa così, ognuno se ne andò pei fatti suoi: non posso io fare oggi altrettanto, che mi tocca tornare dolorosamente un passo indietro.

Nel racconto, oculatamente incompiuto, che La Lente, giornale del Tellini, pubblicò di quella serata, si lesse e purtroppo si legge ancora:

Un giovinetto, Ferdinando Martini, nel quale l’ingegno è molto maggiore dell’età (o miseria!) recitò le seguenti strofe che contengono la vita materiale ed artistica della regina delle nostre scene....

Ahimè! così fu veramente! io ebbi in quella occasione la sfacciataggine di recitare una saffica di otto strofe: le due ultime delle quali, tardo ma giusto castigo, voglio qui riprodotte a mia perpetua vergogna.

Chi non parlò di lei? chi mai potrebbe

Ridire il vanto che all’Italia accrebbe?

Fumin le tazze! niuna a lei somiglia

Itala figlia.

Viva l’italo ingegno e i suoi portenti

Ch’empieron tutte di stupor le genti:

Di Talia viva l’arte, e sia divina

La sua regina.

Quando ricordo che a quindici anni ebbi l’impudenza di recitare quei versacci innanzi a quel pubblico e consentire per giunta che si stampassero, mi frusterei: ma a trattenere la ferula sopravviene un pensiero; se la colpa non ha scusa, a far men dura la sentenza le attenuanti ci sono; se non altro nel languore dello stomaco digiuno, nelle ansie tormentose, nelle affannose titubanze di quella sera. Avevo in tasca il foglio funesto.... Leggere o non leggere? Atroce dilemma! Mi sarei paragonato ad Amleto, se del Principe di Danimarca non avessi a quel tempo ignorato i casi ed il nome. Studiavo le mie sorti nelle sorti altrui e a quelle conformavo le alterne risoluzioni.

«Il brindisi del Bicchierai.... quattro parole.... Le avrebbe dette chiunque.... «bene, bravo», ma applaudito non l’hanno.... Leggo, leggo.... Ah! no.... dopo i versi del Busi che son tanto piaciuti non c’è da provarsi.... Lasciamo andare.... Perchè? Uhm! i versi del Pieri non sono mica meglio dei miei....».

Leggere, in sostanza, desideravo, cento buone ragioni avrebbero dovuto frenare quel desiderio; come spesso avviene, ad appagarlo mi bastò una cattiva: la dignità del Comitato. De’ promotori nessuno aveva aperto bocca, il Tellini presidente muto come un pesce anche lui. Come? Il padrone di casa non saluterà l’ospite, e ospite gloriosa così? Leggiamo.

Mi alzai, ma non lessi: mi parve tutto avvolgesse una nebbia folta così, che, non dirò i commensali, ma neanche scorgevo lo scritto che tenevo fra mano. Recitai a memoria, con ansia nuova e nuovo tormento, temendo di inciampare se la memoria fallisse. Quand’ ebbi, come. Dio volle, finito, non vidi, sentii che applaudivano. Certamente al coraggio.

Tempo fa, sfogliando nella Biblioteca Nazionale di Firenze i carteggi della signora Emilia Peruzzi, in una delle lettere che per lunghi anni, quasi quotidianamente, ella mandò al Magnetta console sardo a Livorno; nelle quali, raccontato quanto di più notevole in materia di politica succedeva in Toscana, esprimeva insieme i risentimenti, le speranze, i propositi della parte liberale, che nel marito Ubaldino riveriva un dei capi più esperti e autorevoli: in una di quelle lettere lessi, non senza molta meraviglia, queste parole: «Jeri l’altro sera fu offerto un banchetto alla Ristori. Parlò il Martini, e parlò il Busi, ex segretario del Montanelli; e capirete che l’Italia fu nominata». Il Martini! chi sa di quale Martini pensò si trattasse la egregia signora o quale lo immaginò? O forse seppe che ero propriamente io? Ma i tempi eran quelli: purchè vi si parlasse d’ Italia anche ai versi colascioneschi di un ragazzo di quindici anni si dava l’importanza di un avvenimento politico.

Comunque - ricordo e confessione - fu quello il mio primo passo; temerario sì, tuttavia meglio riflettendo, posso anche perdonarmelo; non già perchè avessi quindici anni, ma perchè non ho altre temerità da rimproverarmi. Più che mezzo secolo è corso oramai da quel giorno e della carta ne ho scarabocchiata alquanta: ma il pubblico non fu mai per me rispettabile, soltanto nei cartelloni dei capocomici: scrivendo, bene o male ch’io sapessi e potessi, sempre scrissi con attenta timorosa fatica, sempre ebbi per il pubblico il rispetto, il quale in chi scrive per esso è, in ultima analisi, il rispetto di sè medesimo.



VII.

Muse in faccende.

Ho raccontalo come a quindici anni avessi l’audacia di recitare una mia ode saffica in occasione solenne, innanzi a pubblico composto di persone fra le più ragguardevoli della Firenze d’allora; il rabbuffo che mi buscai da mio padre il giorno dopo è facile immaginarselo, non ci sarebbe dunque per me nulla da aggiungere. Se non che, alcuno potrebbe osservare: costui ci ha già detto che odiava a quella età la lettura, era di tutte cose ignorantissimo; come va che, viceversa, sapeva di rime e di saffiche ed era capace, di scriverne?

Domanda ragionevole; tuttavia, se non mi porgesse argomento che a parlare ancora delle mie temerità fanciullesche non metterebbe il conto di rispondervi; ma mi offre opportunità ad esporre alcune costumanze di quel tempo e dire quali fossero in Toscana la maggior parte delle scuole, onde con me uscirono molti della mia stessa generazione.

*

Firenze nel ‘48 non aveva nè ginnasio nè liceo governativo; li ebbe, come le altre città della Toscana, nel ‘53; per lo innanzi facoltà di aprire scuole di media coltura, si concedè con molta cautela a privati cittadini. Nel ‘48 tre erano a Firenze le più stimate: quella dei Padri Scolopi, un Istituto Zei veduto di mal occhio dal Governo perchè i maestri in fama di rivoluzionari; finalmente l’Istituto Rellini così intitolato dal suo fondatore e che allora dirigeva un signor Luigi Sereni.

Le scuole degli Scolopi erano affollate, sicchè per allora niente Scolopi; a compimento degli studi, vi avrei seguito più tardi i corsi di matematica, di fisica e di filosofia: d’altra parte mio padre liberale sì, ma temperato, che, eletto dal collegio di Montecatini, nell’Assemblea legislativa sedeva a destra ed era per giunta a que’ giorni segretario generale per le Finanze, non s’arrischiò a imbrancare il figliolo fra gli alunni dello Zei, covo, come dicevasi, di giacobini arrabbiati; e al cominciare dell’anno scolastico 1848-49 mi mandò al Rellini, frequentato da scolaresca poco numerosa, appartenente alla cittadinanza migliore.

*

L’istituto stava nella via delle Oche, alla quale si accedeva e si accede tuttavia da un punto dell’altra via de’ Calzaioli, ove fu già la Loggia dei Neghittosi.

Oche, Neghittosi, nomi di non liete promesse; allogata in un’antica torre, de’ Visdomini se non erro, la scuola, cupa nell’aspetto di fuori, non era dentro più gaia. Una infilata di stanze le cui pareti coprivano quasi interamente grandi tele nere, incerate, incorniciate, da scriverci sopra col gesso, che facevano insomma vece di lavagne. Qua e là nei brevi spazi a portata di mano lasciati liberi da quella tetraggine, esemplari calligrafici opera del signor Sereni, calligrafo espertissimo, e che ci si davano via via ad imitare. Nel ‘48, quand’egli grosso e distesamente barbuto, troneggiava dalla cattedra spesso in divisa di sergente della guardia civica, su tutti quelli esemplari dava a prima vista nell’occhio, fra ghirigori e svolazzi, scritto in corsivo o in ronde, o in gotico un Viva la Patria! Nel ‘49, venuti gli Austriaci, la compromettente leggenda fu nascosta da un cartellino con sopra un Viva la Panna! scritto in gotico o in ronde o in corsivo fra i soliti ghirigori e svolazzi, ornamenti permessi anche dalla tirannide restaurata.

Nelle stanze più piccole si impartivano da maestri diversi, secondo la diversità delle classi, gl’insegnamenti dell’italiano, del latino, del francese, della geometria, del disegno; in una assai vasta egli stesso il signor Luigi nutriva gli intelletti adolescenti di storia, di geografia, di aritmetica. Non voglio offendere la sua memoria, ma ch’egli fosse un educatore egregio e un egregio insegnante, in coscienza non lo posso dire. Seduto dietro al banco alto ed ampio che gli serviva di cattedra, teneva prossimi a sè da un lato un ferro piatto, largo, pesante, dall’altro un degli scolari più meritevoli incaricato di vigilare e denunziare la condotta dei condiscepoli; bel metodo, come ognun vede, onde lo spionaggio, perchè dato in premio era pungolo all’emulazione, ufficio turpe insieme e desiderabile. Avvertito che un alunno o non stava attento o si permetteva qualche celia, batteva col ferro ponderoso tale un colpo sul banco che ci faceva balzare intronati e tremanti; e tutto tremava per quel colpo d’intorno, le pareti, le tele, i vetri delle finestre e fino la bionda barba spiovente del signor Luigi medesimo. Il quale, aggrottati i sopraccigli e procelloso in faccia come lo Zeus d’Omero, così apostrofava il colpevole: «Carne da forca» «ti vedrò se Dio vuole con le manette» «finirai all’ergastolo» ed altri appellativi, ammonimenti e presagi di pari delicata dolcezza.

De’ sistemi educativi parmi così detto abbastanza: passiamo ai didattici.

*

Come s’ insegnasse l’italiano, e non nel Rellini soltanto, esposi altrove nè saprei meglio esporre altrimenti. Il maestro leggeva tre volte un tratto del Novellino o del Galateo di Monsignor Della Casa; pacatamente la prima volta, un po’ più alla svelta la seconda, la terza a rotta di collo. Chiudeva il libro e imponeva: Scrivete. E noi a scrivere, cioè a rifare quanto più fedelmente si potesse lo squarcio; v’erano alcuni di così pronta memoria che a volte lo rifacevano tale e quale: a loro il maestro assegnava un optime e lasciava intendere che per ora erano l’onore della scuola, con l’andare del tempo sarebbero l’onore della letteratura e della patria. Il vaticinio non s’è avverato.

Questo in iscuola: a casa poi da quei due libri ai quali s’aggiungevano in seguito gli Esempi di bello scrivere del Fornaciari si dovevano trascegliere «le parole ed i modi» per servirsene a inzeppare eleganze nei componimenti, come, dice con frase casalinga il Tommaseo, si ficca il ramerino in un lacchezzo d’agnello; e chi più ne inzeppava era il più bravo. Dio guardi a dire mi son messo a studiare, poniamo, la prosodia. Come usava il Salvini? «Mi sono addato». Dunque: mi sono addato alla prosodia. — Io credo? Neanche per sogno. M’è avviso, son di credere come insegna il Giambullari. Peggio poi, chi osasse dare un tuffo nel volgare e finire una lettera col «sono tuo affezionatissimo amico». Il commendatore Annibal Caro era stato forse al mondo per nulla? Non aveva egli scritto mi ti do e dono per amicissimo? e ci dovevamo dare e donare per amicissimi anche noi altri.

Frasi e parole: e quando, di rado, ci davano non più a rifare il Novellino o il Galateo, ma a comporre di testa propria, purchè parole e frasi fossero fra le consacrate, se anche il pensiero era povero, l’invenzione meschina, la prosa sbrodolata o stitica poco importava: d’ordine, di perspicuità, di chiarezza chi ci parlava? I trattati del Blair o dello Zanotti imparati a pappagallo: tamquam non esset. A pensare, chi ci avvezzava? Letture? Quelle alle quali ho accennato e poche più. Due o tre canti della Gerusalemme, due o tre della Comedia, un paio di odi del Parini, qualche sonetto e una canzone del Petrarca, poche pagine del Varchi, alquante del Botta (ho detto del Botta!), la Didone del Metastasio. E basta.

Tali erano i metodi in uso; e non posso rimproverare al buon signor Calvi d’averli usati anche lui. E in fondo poi si scriveva pessimamente, senza garbo alcuno, sciatti insieme e pretensiosi, senza bensì periodi zoppi o sgrammaticature. Passi dunque ancora per l’italiano. Ma la storia, ma la geografia? Della storia ho già detto; dicendo come la geografia s’insegnasse darò netta un’idea dell’efficacia di quelle lezioni.

Le carte, per lasciar posto alle buie tele verso le quali scendevano rette da un arpione murato nell’angolo fra la parete e il soffitto, rimanevano così in alto che nessun occhio presbite era buono a scorgervi un nome o una linea. Noi con una lunga canna indicavamo, gradi più, gradi meno, là dove prima aveva indicato il signor Luigi, e più possenti di qualsiasi fenomeno tellurico spostavamo le città ed i fiumi, movevamo le montagne, emuli della Fede. Sapevamo così che c’erano al mondo il Tago e le Ande, il Mar Caspio ed il Senegal: ma chi ci avesse ordinato di rintracciarli e determinarne la postura avrebbe aspettato un bel pezzo.

Una cosa c’insegnavano bene: il latino; con metodo che la presente sapienza intedescata dispregia, ma bene, con profitto e, che pur conta, dilettevolmente. Non eravamo nè più volenterosi nè più savi dei ragazzi d’oggi, i quali del latino infastidiscono; e a noi era, anzi, fastidio il riposo della domenica, onde s’interrompeva la lettura di un canto dell’Eneide o d’un’elegia di Properzio.

Quando ripenso che uscendo da quella scuola soltanto un po’ di latino sapevo, provo quasi un rimorso dell’avere anch’io preso a gioco il povero vecchio prete Terzolli che ce l’insegnava.

Il Terzolli giocava al lotto; e, giocatore incaponito, dava al lotto tutto il danaro che via via guadagnava: e noi ci pigliavamo di quando in quando lo spasso, in un modo o nell’altro birichinescamente escogitato, non tanto di stimolare quella passione, quanto di averne le prove. Per esempio: con simulata gravità un alunno s’alzava:

— Signor maestro (non passava loro neanche pel capo di farsi dare del professore) ci sono versi in Orazio che non capisco.

— Quali?

Seu graeco jubeas trocho

Seu malis vetita legibus alea.

— Dove stanno?

— Libro terzo, ode ventiquattresima, verso cinquantasette.

— Bene: ne parleremo da ultimo. Libro terzo.... Ode...?

— Ventiquattresima, verso cinquantasette. —

E il Terzolli, come per non dimenticarsene, subito segnava sopra un fogliolino 3. 24. 57. Al finire della lezione, date all’alunno le dilucidazioni opportune, arrotolava, quasi trastullandosi, il fogliolino: poi alzatosi e credendo nessuno l’osservasse lo riponeva nella scatola del tabacco.

Povero vecchio! Maestro addottrinato, premuroso, affabile, per quella funesta passione visse miseramente e in miseria morì. Buon per lui se il lotto fosse vietato nella Toscana granducale ai suoi tempi, come ai tempi di Orazio i dadi dalle leggi romane.

Se la geografia s’insegnava nel modo che ho detto e le altre materie, eccezion fatta la geometria ed il latino, su per giù nel medesimo modo, nulla si tralasciava di ciò che valesse ad agevolarci la ascensione del Pindo e a porci in grazia delle vergini Muse. Nozioni delle forme, quante bastavano a distinguere un’ode da un sonetto; ma esercitazioni senza fine. Ogni settimana, e qualche volta anche più spesso, versi o composti a casa o scombiccherati lì per lì a lezione: elegie, inni, canzoni, idilli, rime didascaliche, eroiche, sacre, tutto, l’estro ebdomadario forniva. Francesco Lemene componeva versi burleschi alla messa; noi, allenati così, verseggiavamo in scuola, fuori di scuola, a colazione, a passeggio.

*

Prevedo: se il solito osservatore mi abbia seguito sin qui, una nuova domanda gli verrà spontanea alle labbra: perchè tanto zelo nell’allevare poeti e così poca cura nell’addestrarci a scrivere in prosa un po’ meglio?

A buon conto, anche i maestri hanno le inclinazioni e le debolezze loro e qualche cosa bisogna concedere. Anch’egli poetava il buon signor Calvi, con inveterata abitudine; tale (nè so ricordarlo senza commozione) che nel ‘900 n’era passata molta dell’acqua sotto i ponti - novantenne e cieco mi mandò oltre il Mar Rosso un estremo sonetto per salutarmi Governatore dell’Eritrea. Inoltre non credo fosse persuaso dei difetti della nostra prosa; così poco differiva dalla sua! Per ultimo non ci aveva fatto imparare a memoria lo Zanotti ed il Blair, non aveva amorosamente adunato con noi il tesoro «delle parole e dei modi»? Là stavano le ricette, qui gl’ingredienti della prosa eccellente.

Così si faceva dappertutto e così l’ottimo uomo faceva anche lui; e con l’esercitarci nella versificazione adempiva poi strettamente il proprio dovere: ci accostumava in modo da risparmiarci magre figure quando fossimo, come suol dirsi, entrati nel mondo; perchè il saper mettere in riga un determinato numero di sillabe e far baciare, rimando, un paio di participi era parte della buona educazione come il saper ballare la mazurka. Chi non scriveva versi in Toscana? Non c’era curato di campagna che non mettesse insieme il suo bravo sonetto per monacazione o per nozze. Gli uomini di più alto affare, verseggiavano per passatempo: Ranieri Lamporecchi avvocato di molta riputazione e di larga clientela raccomandava in ottave a Niccolò Nervini presidente della Corte Regia il sollecito disbrigo di una sentenza in causa civile, e il Nervini, latinista esimio, rispondeva in asclepiadei.

Quando Vittorio Fossombroni ministro segretario di Stato o come oggi direbbesi presidente del Consiglio dei Ministri compiè nel 1837, gli 83 anni, mandò agli amici per salutarli e quasi congedarsi da loro un sonetto2: e diciotto di quegli amici - tra gli altri due principi del Foro toscano: il Lamporecchi e il Salvagnoli; due professori di università: Carlo Pigli e Giuseppe Borghi - gli risposero anch’essi con un sonetto ciascuno e con le rime medesime. Perfino di solenni questioni giuridiche, morali sociali si disputava in versi; e talora il dibattito si compendiava in qualche strofa di settenari o in qualche coppia di endecasillabi.

Poi che Giovanni Carmignani dimostrata in un suo libro la utilità e la necessità della pena di morte raccomandò la strangolazione, come il men doloroso dei supplizi capitali, l’avvocato Aldobrando Paolini, argutissimo e dottissimo, per tutta confutazione di quelle dottrine mandò fuori questo epigramma:

Al nobile al plebeo

All’innocente al reo

Al semplice dottore

Alle femmine ai maschi all’universo

Il libro di Giovanni ha fatto orrore,

Che vuol che l’uomo per le forche muoia.

Nè ad alcun piacque? Al boia.

E l’iracondo Carmignani per tutta risposta:

Al ladro, all’assassino

Che temono il cordino

Il libro di Giovanni ha fatto male;

Per questo anche all’autor del madrigale.

*

Usanze che duravano da secoli, strascichi dell’Arcadia; e io stesso, se ho resistito agli impulsi della vanità e mi sono serbato accortamente inedito, alle spinte dell’atavismo non ho saputo resistere. Dico dell’atavismo, perchè ho dietro di me quattro generazioni di versificatori. Uomini, donne, pastorelli arcadi, accademici di molte accademie, Retindi, Partemidi e Agamiri Pelopidei; persone di giudizio bensì e perciò inedite anche loro, ma delle cui ispirazioni rimane nelle carte di famiglia voluminosa la traccia. Sugli ultimi del seicento un antenato cantava in distici latini il gioco degli scacchi:

Belligeras iras ade et bicoloribus armis

A fictis sceptris, pugna jocosa movet;

Et dmn nigra acies hic candida dimicat illic

Iti niediis armis otia ludus habet.

E dopo gli scacchi, con altri distici ed altro poema, il picchetto:

Picchetiimque canatn; dedit istud Gallia luduni

Et bene de laticis cuspide nomcn habet;

Namque animos acuit facileque impulsibus urget

Et pungit stimulis et quasi calcar habet.

Un secolo dopo, il mio bisnonno, segretario del regio diritto o com’oggi direbbesi ministro dei culti del granduca Pietro Leopoldo, sfogava in epigrammi rimati le collere destategli dal vescovo Scipione De’ Ricci ricalcitrante alle ingiunzioni governative.

*

Due generazioni. Alla terza.

Alquante diecine d’anni fa avevamo cacciato, con alcuni amici, alle starne in un poggio del Fiorentino. Era d’agosto,  la giornata caldissima, la stanchezza grande, la sete tormentosa, le borracce vuote. Prossimo un convento, bussammo, per un po’ d’acqua e una mezz’ora di riposo. Un laico socchiuse la porta, domandò i nostri nomi, la richiuse, tornò, la spalancò e ci condusse nelle stanze del padre guardiano, ove trovammo approntati acqua fresca e vin bianco. Fatti i nostri convenevoli e dissetati, attaccammo discorso. A un certo punto, il frate, un vecchietto basso e asciutto (mi par di vederlo) interrogò:

— Chi è di loro il signor Martini?

— Io — risposi.

E qui una sequenza d’altre interrogazioni: e come si chiamava mio padre, se la famiglia abitava a Firenze, se aveva beni in Valdinievole; finalmente il nome di mio nonno.

— Il mio: Ferdinando.

E il padre sorridendo: — Ecco, ecco, sicuro. C’è stato qui anche suo nonno; anche lui, come raccontano i vecchi del convento, che io non avevo ancora vestito l’abito a quel tempo, fu sorpreso cacciando dal temporale e si rifugiò qui, e anzi ci pernottò. Eh! Eh! era un uomo allegro suo nonno.

— Può darsi: non l’ho conosciuto.

— Eh! sì sì, un uomo allegro: fece uno scherzo anche a noi.... e ne serbiamo memoria. Ora vedrà. —

E da un armadietto a muro trasse e mi porse un foglio ingiallito piegato in quattro. Apertolo riconobbi la calligrafia che avevo in pratica, per avere messo in ordine altre scritture. In cima al foglio e d’altra mano — lasciato paoli 20; sotto, un’ottava, datata e firmata (Ferdinando Martini, settembre 1808) e diceva così:

Padre guardiano, ancora io non son morto

Che non voglia far qui mia professione,

Sol vuo’ tre cose e non l’abbiate a torto:

Dall’obbedienza voglio l’esenzione,

Serbare il genio che alle donne io porto

E aver de’ soldi a mia disposizione;

Se voi queste tre cose m’accordate

Non ho difficoltà di farmi frate.

O poetaggine infaticabilmente irrequieta! Non si contentavano dì alloggiare Calliopea in casa propria e di tenervela in quotidiane faccende; la menavano perfino ne’ sacri chiostri.... e a cantare in bernesco!

*

L’avo, facoltoso e alieno da ogni fatica, se non apollinea, poteva ben dividere il suo tempo fra la caccia ed i versi; i suoi figlioli ebbero altro da fare e le cetre riposarono per loro dieci mesi dell’anno. Ma in villeggiatura gaudentes rure Camoenae nelle sere di ottobre il divertimento più frequente e gradito furono le sciarade garbatamente rimate, delle quali, secondo Benassù Montanari che ne dettò in un poemetto le regole,

Ogni gente si piacque ed ogni etade;

e, quando capitassero in visita amici, gara fra i padroni di casa e gli ospiti di sonetti a rime obbligate. Mi rammento d’un prete. Don Faustino, che proponeva sommesso all’orecchio or di questo or di quello la parola da farci su la sciarada, e quando era fatta non la indovinava e domandava; È la mia? Rammento altresì che una volta venne da Empoli a Monsummano Vincenzo Salvagnoli: sonetti e sciarade si moltiplicarono: fra le molte del Salvagnoli una giudicata ingegnosissima, e però subito affidata alla memoria, anche oggi mi pare graziosa veramente.

Breve l’uno all’esistenza,

Il secondo accenna al moto,

Il mio tutto è nome noto

Per il primo umano error:

Ma se il tutto tu rovesci

A quel fallo è provveduto

Con l’angelico saluto

D’un alato ambasciator.

(E-va-Ave).

Non è dunque da meravigliare ed ecco per conchiudere la risposta promessa che dopo avere a scuola ogni settimana e talora più spesso per cinque o sei anni di seguito sacrificato al «Dio dall’arco d’argento», io, ignorantissimo di tante cose e sto per dire d’ogni altra, sapessi di saffiche e di rime e fossi bene o male capace di scriverne.

Versi a quindici anni! centinaia e centinaia avevano preceduto quelli recitati per la Ristori nella sera famosa.... E fosse finita lì! ma l’uzzolo mi rimase e mi accompagnò lungamente e ancor non m’abbandona, che di tanto in tanto qualche verso ci scappa. Migliaia e migliaia. Quante? il solo caminetto, prudente amico lo sa, che tutti li accolse e li accoglie nel suo grembo purificatore.



VIII.

Dal faceto al serio.

Usciti da scuola, verseggiando non più ogni settimana per compito, ma per divertimento quasi ogni giorno, eravamo riusciti, se accompagnandoli con lenta cantilena, a improvvisare versi immaginatevi quali, non privi di significato; per farci poi in quelli esperimenti più franchi e più destri, ci spassavamo nell’infilzare parole rimate, nel rapido schiccherare strofe in settenari o decasillabi, di giusta misura s’intende, e magari di rima opulenta, ma senza senso veruno. Sollazzo che a’ giovanetti d’oggi parrà insipido alquanto; ma noi non avevamo nè biciclette nè ricreatori, nè giornali quotidiani, nè cinematografi, nè riviste illustrate; la sigaretta (o spagnoletta come si chiamò dapprima) non era ancora inventata; il tempo bisognava passarlo e ci bastava, di quando in quando, modesto sì ma giulivo trastullo, quell’esercizio. Nel quale (che par facile a prima giunta e non è, e chi non lo crede si provi) alcuni si fecero via via addirittura sbalorditoi; primo fra tutti Arnolfo Zei, giovane carissimo e coltissimo morto poco più che trentenne.

Raccontai già, anni sono, un’audace sua prova: ma, perchè la morte di lui era recente, tacqui il suo nome, feci anzi di tutto affinchè non si indovinasse. La cosa andò realmente così. Nel ‘60 o nel ‘61, una sera, o meglio sarà dire una notte d’estate, entrammo insieme in un caffè di Piazza del Duomo, gremito di popolani, fiaccherai specialmente, che avevano in pratica lo Zei abitando egli in que’ pressi. Nel giorno precedente era giunta notizia da Roma non so più se di sentenze promulgate, di scomuniche lanciate o di eccidi perpetrati; so che que’ popolani l’avevano maledettamente col Papa e subito circuirono l’amico, quale chiedendo notizie maggiori, quale bestemmiando a perdifiato, urlando tutti. A un tratto, fral tumulto, una voce gridò:

— Via, sor Arnolfo, la ci faccia su una poesia. —

Urli daccapo e daccapo bestemmie per dar vigore all’invito. Lo Zei tentò lungamente di esimersi, ma alla fine per levarsi quel baccano d’attorno, si tirò in disparte e si provò a buttar giù sopra un pezzo di foglio i primi versi d’un ideato epigramma o sonetto: ma o che lì per lì non gli venissero o gli seccasse il riflettere, o gli fosse impossibile tra ‘l baccano che seguitava, s’alzò col foglio in mano e grave nell’aspetto finse di leggere, improvvisando ciò che scritto non era. Rammento oggi più esattamente del sonetto la chiusa:

Piange l’ Italia come debil canna

E Pio tra’ vaticani antri fuggente

Co’ simulacri di Pompeo tracanna.

Non sto a dire gli applausi; scrosciarono fragorosi e lunghi, non tanto lunghi bensì da permettere allo Zei di svignarsela; che appena fece per muoversi le acclamazioni cessarono e quattro o cinque gli furono intorno a fermarlo. La poesia era troppo bella, volevano si stampasse; e sempre intorno quattro o cinque alla volta a dimostrargli la opportunità che i torchi gemessero, con argomenti fatti il più spesso di appellativi ingiuriosi per il pontefice e di esclamazioni che li oltrepassavano. Poichè stringendosi addosso allo Zei minacciavano di portargli via il «manoscritto», egli brandito il foglio immacolato lo levava col braccio in alto sul groviglio delle mani, gesticolanti nel tentar la rapina; da ultimo, visto che da quelle strette non poteva liberarsi altrimenti, si disimpacciò con uno scherzo felice. Lasciò cadere il foglio e:

— Se siete buoni di rammentarvelo — disse — stampatelo pure; io vi do carta bianca. —

Il foglio fu ansiosamente raccolto, il groviglio si dipanò.... Rimasero male; risero ma a denti stretti; poi l’ammirazione per un poeta capace di improvvisare versi così belli si destò tanto reverente ed accesa, che gli applausi scrosciarono più fragorosi e più lunghi di prima.

*

Nel sonetto io non m’arrischiavo; era superiore alle mie forze; ma nei decasillabi la sfangavo, nei settenari e negli ottonari me la cavavo discretamente; e qualche anno innanzi avevo fatto anch’io la mia prova davanti a pubblico non di fiaccherai ma di laureati, in occasione che merita si ricordi.

Mi pare nel ‘58, ma non posso asserirlo: certamente dopo il ‘56 e prima del ’59 venne a Montecatini Massimo D’Azeglio.

Fermiamoci un momento. Chi si figurasse il Montecatini di sessanta anni fa quale è di presente, andrebbe con l’immaginazione molto lontano dal vero. Tanto oggi il frastuono ed il moto, quanto allora il silenzio e la quiete. Ho veduto io coi miei propri occhi una mandata di capiscarichi usciti dal bagno con l’accappatoio ballare il ronde in un pomeriggio di luglio sul gran viale del Tettuccio, me unico spettatore. Governavano l’amministrazione delle Regie Terme tre deputati scelti dal Granduca fra i cavalieri di Santo Stefano, ognuno dei quali per turno aveva obbligo di risiedere un mese a Montecatini nei tre della stagione balneare; cioè dal giugno all’agosto, che alla fine d’agosto il Direttore, l’ottimo professore Fedeli clinico dell’Università di Pisa, chiudeva bottega e se ne andava in villeggiatura. Compenso alle cure amministrative della Deputazione, di cui fu per molti anni presidente Domenico Giusti padre del poeta, un quattrino (un centesimo e mezzo) per ogni firma apposta al cartellino onde avvolgevasi il tappo de’ fiaschi a garantire la genuinità delle acque. Un migliaio di persone, o poche più, quasi tutte toscane o dimoranti in Toscana, vi cercavano ristoro agli stomachi o agli intestini malati; tutte accolte nella Locanda maggiore che maggiore poteva facilmente intitolarsi, visto che era la sola, gli altri ricettacoli non meritando nome di locanda. Per tre paoli (L. 1,68) Giuseppe Valiani pistoiese forniva il desinare: cibi copiosi e gustosi e vino finchè lo stomaco ne contenesse, cosicchè i liquidi si alternavano abbondanti del pari; otto bicchieri di Tettuccio la mattina, altrettanti di vino la sera e gli stomachi, pare, si giovavano dell’una e dell’altro. Per tutto divertimento una trottata sul cadere del giorno verso i paesi circonvicini, dopo il pranzo una partita a tombola nella sala del Casino, toscanamente, cioè con molta parsimonia, illuminata.

Scarsa la clientela, ma tra i consueti frequentatori dei Bagni, alcuni illustri; non ancora il Verdi che vi fu poi per trenta anni di seguito; ma il Rossini il quale desiderava gli amici sapessero che beveva il Tettuccio alla loro salute: e sebbene, come avvertiva in una lettera al Fabi, «la vita di Montecatini» non fosse «molto brillante» egli tuttavia trovava modo di passar bene la giornata «facendo musica con la Granduchessa».

Nel luglio del ‘43 Gino Capponi scriveva da Montecatini al Vieusseux: «Il Capei sta bene e così il Salvagnoli il Giusti e il Guerrazzi che abbiamo qui dove cerca di addolcire la bile; e sia l’acqua del Tettuccio o gli anni, mi pare un poco ammansito». Pareva, ma il fegato era quello di prima e di poi; tanto che venuto a disputa col Salvagnoli intorno alle armi dei Soderini per saper «se facessero palme o corna di cervo» incollerito dalla contradizione si sfogava rabbiosamente in lettere a Niccolò Puccini, con aspre parole tacciando il Salvagnoli d’ insolenza e di petulanza.

*

Chiudiamo la digressione.

Venne, dunque, a Montecatini Massimo D’Azeglio. A Monsummano quattro chilometri distante soleva passare l’estate, nella propria villa un mio zio, Giulio Martini il quale, ministro di Toscana alla Corte di Sardegna dal ‘48 al ‘51, aveva seguito Carlo Alberto al campo di Lombardia, e stretta poi amicizia col D’Azeglio a Torino, quando questi fu Presidente del Consiglio e ministro degli Affari esteri. Ora non vecchio, ma quasi cieco e tormentato da molta varietà di malanni se ne stava, come ho detto, una buona metà dell’anno in campagna, e il D’Azeglio quando capitava a Montecatini veniva, durante il breve soggiorno, a visitarlo più volte.

Seduti sotto un platano centenario frondeggiavano a tutto spiano ambedue: l’uno quantunque tutt’altro che liberale, nel senso che si dà oggi a questa parola, scontento del modo onde la Toscana era governata; l’altro contento del manifestare a un amico discreto la cordiale antipatia per colui che egli chiamava nelle proprie lettere «quel birichino del Cavour».

In quel medesimo anno, al tempo stesso che il D’Azeglio furono a Montecatini Luigi Alberti scrittore di commedie a quel tempo poco noto fuor di Toscana, ma in Toscana notissimo, Piero Puccioni, che allora praticante nello studio Salvagnoli, preparantesi, cioè, all’esame di avvocatura fu poi un de’ principi del foro, deputato, senatore del regno e ministro no, perchè non volle: finalmente Leopoldo Cempini avvocato di grido, del quale si lodava un volume di versi Fiori e Foglie edito a Torino, in Toscana distribuito clandestinamente, oggi dimenticato: versi facili, in quella sonante indeterminatezza di forma che lusingava le orecchie e gli intelletti degli Italiani, ma caldi di affetto patrio e tutti inneggianti a Casa Savoia:

Se di dolenti musiche

Me Dio talor consola,

Se de’ concenti l’Angelo

Talor discende a me,

Questo mio cor sui margini

Del Po con gli estri vola,

Inni e corone a spargere

Sopra l’avel d’un re.

L’Alberti era amico di casa; gli altri due avevo conosciuto nelle redazioni de’ giornali umoristici ne’ quali essi di tanto in tanto scrivevano e ov’io già bazzicavo. Quando, ottenutane licenza, da Monsummano filavo a Montecatini per arrischiare il mio obolo sulla cartella della tombola, sempre si divertivano a farmi fare il giochetto degli improvvisi, sempre, ben inteso, senza senso comune. Una volta mentr’ io tiravo giù decasillabi capitò nel crocchio il D’Azeglio: e tanta fu la soggezione che non potei più spiccicare parola. Ma perchè egli, incuriosito, con molta garbatezza pregò che mi riprovassi, la soggezione messa da parte, ricominciai. E il D’Azeglio a riderne prima, poi a dire che quantunque non si facesse che accozzare parole come viene viene, tuttavia il farlo con rapidità, senza intaccare, il trovare la rima speditamente, non era forse consentito se non ai Toscani ai quali suona in bocca tutto quanto il vocabolario; e via via una dissertazione piacevolissima in difesa di quelle che erano e non ancora si chiamavano le teoriche manzoniane.

Poco dopo, riapertasi al D’Azeglio la ferita buscata nel ‘48 sui Colli Berici gli toccò stare in casa più giorni; e insieme col dolore che quella gli cagionava, sopportare le lunghe visite quotidiane di uno dei più pervicaci fra quanti innumerevoli seccatori vennero al mondo. Era un tale Stra.... veneto, dottore non so se di medicina o di legge, alto, grosso, biondastro, sulla cinquantina; il quale imbattutosi nel D’Azeglio a Montecatini e avvicinatolo, come facilmente avviene nei luoghi di bagni, gli s’era, per così dire, appiccicato e non lo lasciava. Ignorante, a malgrado della laurea, appaltone, borioso, non si accompagnava al D’Azeglio per ascoltarlo (che era, tra l’altro, parlatore piacevolissimo), per imparare qualche cosa, per procurarsi in quelle conversazioni un godimento intellettuale; no: gli bastava, ostentando quella conoscenza, farla credere intrinsichezza e vantarsene. Subito che lo seppe ammalato «Vado a farghe compagnia a Massimo», sfringuellò tra’ bagnanti (e bisognerebbe io potessi descrivere gli atteggiamenti suoi). «Vado a farghe compagnia a Massimo» e gli si cacciò in camera dalla mattina alla sera. La gente che lo conosceva meravigliava della sua sfacciataggine e della sua balordaggine: e meravigliava altresì della pazienza del D’Azeglio che non metteva quel seccatore alla porta.

Mio zio s’informava giornalmente della salute dell’ illustre amico suo; un giorno mandò me a prendere notizie. Chiestele al cameriere della Locanda Maggiore e questi al D’Azeglio stesso in mio nome, fui fatto entrare in camera sua. Se ne stava disteso sopra una chaiselongue presso alla finestra: sui ginocchi un fascio di lettere e mezzo aperto un numero del Journal des Débats. In faccia a lui, in poltrona, l’ importuno dottore.

Non ricordo ora appuntino come andassero le cose, nè ho a mente tutti i particolari della conversazione. Fatto sta che dopo avermi incaricato di ringraziare lo zio e dirgli che sarebbe tornato a vederlo prima di andarsene da Montecatini, postami una mano sulla spalla e rivolto al dottore:

— Vede? — soggiunse, — questo ragazzo è un portento. —

E qui lodi a bizzeffe, e la narrazione de’ miei prodigi. Io capivo che canzonava qualcheduno, ma non ero sicuro che canzonasse quell’altro e me ne stavo chiotto, a testa bassa, senza fiatare. Alla fine:

— Via — disse — ci improvvisi qualcosa. —

Dopo tanti anni chi può con verità esprimere ciò ch’io provai per quelle parole? Ma c’è da figurarselo. Lo guardai, egli mi incitò novamente e: — Le darò io il soggetto: Napoleone — e così dicendo mi guardò fisso a sua volta: mi parve leggergli nella fisonomia: non abbia paura, si fidi di me.

La scelta dell’argomento non fu fatta a caso; allora non ci pensai e neppure in seguito avrei ricordato, se non soccorreva la memoria altrui. Mio zio, che malato d’occhi da sè non poteva, pregava me ed altri, ma più spesso me di leggergli gli ultimi volumi del Thiers, Histoire du Consolat et de l’empire, pubblicati di fresco. Il D’Azeglio venendo giorni innanzi a fargli visita aveva trovato appunto me a leggere, lo zio ad ascoltare: considerò che Napoleone lo conoscevo e avrei perciò potuto più facilmente improvvisare «qualcosa».

Mi fidai: in fondo che cosa rischiavo? Era uno scherzo e il dottore accortosi che era uno scherzo ne avrebbe sorriso lui per il primo.

Altro che scherzo! via via sfilavo il rosario delle parole unite a caso l’Azeglio ammiccava al dottore come a dire: Eh? che roba! e l’altro rispondeva, con movimenti del capo e delle mani significando la propria sodisfazione. Al termine d’ogni strofa l’Azeglio sussurrava «benissimo:» e il dottore gridava «Ma belo! belissimo! meraviglioso!».

Non sapevo più in che mondo mi fossi. Dette poche strofe, mi fermai; una tale specie di improvvisi ha questo di buono, che strofa più strofa meno non monta: si può sempre smettere quando ci accomoda.

E qui venne il bello per me; ero stato, non senza qualche trepidazione, sul palco scenico, m’era ora permesso di divertirmi in platea. Il D’Azeglio provocate con nuove lodi le nuove manifestazioni entusiastiche dell’altro uditore, prese a domandargli replicatamente:

— Lei ha capito tutto, non è vero? —

E il dottore:

— Caspita! capito, capitissimo.

— Ha capito (mettiamo, ch’ io non intendo riferire le parole precise) l’accenno al 18 brumaio e al Congresso di Vienna?

— Eh! eccome! —

E così di seguito; finchè quegli, il quale non aveva capito che non si poteva capire, forse temendo qualche domanda più categorica, si arrischiò a dire:

— Solo le ultime strofe le me pareva un poco scurete.

— Oscurette? Chiare invece come la luce del sole. — Aiutandomi il marchese, riuscii lì per lì a ricordarle: ed egli, fattosi dare un lapis, sul mezzo foglio rimasto bianco di una delle lettere che teneva sulle ginocchia, le scrisse di proprio pugno; singolare autografo, lo conservo tuttora.

Le strofe dicevano:

Tu dal talamo nemico

Discendevi ai rii gemmati

Nel fulgor di Federico,

Quando i prenci collegati

Di Boulogne alla vendetta

Ispiraron la saetta

Che Sant’Elena ferì. ‘

Tu le scizie ispide grotte

Alla storia hai consacrato,

Ma t’attendon Montenotte

Dego Rivoli e Lonalto;

Tu pontefice gagliardo

Copri l’arpa e accenni il bardo,

Spengi gli astri e annunzi il dì.

Che gioco del Sibillone? Il Goldoni che si vanta d’essersi fatto in quello grande onore a Pisa può andare a riporsi. Non mai, credo, fu adoperato tanto sforzo d’ ingegno e tanto sfoggio di dottrina per dimostrare la profondità del pensiero dove pensiero non è. L’Azeglio dopo un «zitto lei» (burlesco ammonimento a me ch’ei sapeva non aver alcun desiderio d’aprir bocca) illustrò ad uno ad uno quei versi; non ricordo, e me ne dispiace, tutti i curiosi arguti commenti: so che il talamo era nemico perchè vi giaceva la figlia dell’imperatore d’Austria, che i rii gemmati erano i fiumi della Prussia, gettatavi da Napoleone la corona degli eredi di Federigo secondo: che cuopri l’arpa e accenni il bardo era una limpida allusione al Mack e alla battaglia d’Ulm, che spegni gli astri e annunzi il dì significava chiudersi con Napoleone un’ êra, e sorgerne per lui una più fausta. Tutto ciò, s’intende, dimostrato senza ridere, e a furia di ragionamenti e di storia. E il dottore interrompeva: — Ma bene, benone, ciaro, lampante, chiarissimo! —

Io me ne tornai intontito a Monsummano; il dottore uscito di là se ne andò alla Torretta, proprietà a quel tempo di un Conte Bandini, orgoglioso di spifferare che aveva passato un’ora deliziosa «da Massimo» dove il Tale dei Tali, «un ragazzo che xe un miracolo» aveva improvvisato versi stupendi su Napoleone. Raccontato il fatto, fu presto intesa e propalata la burla. Ventiquattr’ore dopo il dottore, intesala finalmente anche lui, fece fagotto e partì in fretta e furia da Montecatini.

*

L’Azeglio al rivedermi mi salutò «suo liberatore»; e dell’aver contribuito a liberarlo da quell’uggioso mi ripagò poi con una benevolenza, che m’ è oggi carissimo il ripensare e che alcune sue lettere attestano: una anzi mi torna bene pubblicarla qui: le furono occasione certi Cenni sul teatro drammatico in Italia, librettucciaccio perpetrato a diciotto anni e del quale, a venti, stimai non dovesse ulteriormente privarsi la patria letteratura.

Lo mandai al D’Azeglio ed egli mi scrisse:

Cannero Lago Maggiore 15 giugno ‘62.

Stimatissimo Signore,

Ho ricevuto la lettera e l’opuscolo che cortesemente volle mandarmi e d’ ambedue la ringrazio di cuore.

Le idee che Ella accenna circa l’arte teatrale furono per un pezzo argomento di pensieri, studii e persino di qualche informe mia prova. Malgrado il castigat ridendo confesso non fare un gran fondamento sulle prediche fatte dal palco scenico per la riforma morale d’un popolo e mi par di vedere che questi predicatori hanno all’incirca la medesima fortuna degli altri. Ma credo tuttavia che mediante rappresentazioni sceniche si possa creare e certamente rinvigorire certi sentitimenti, che sono pur parte del senso morale, come sarebbero la generosità, la fortezza, la grandezza d’animo, l’onor militare, l’amor patrio, ecc. ecc.

Il teatro spagnuolo da Lei opportunamente citato, mi sembra prova evidente di quanto dico e non mi ricordo aver veduto nelle sue antiche produzioni una linea che esprimesse una viltà ed inducesse lo spettatore a sensi bassi e disonoranti. C’è anzi dominante il senso opposto, spinto ad esagerazioni ridicole talvolta, ma dei due difetti preferisco questo. Difatti la Spagna è moralmente più corrotta dell’Italia, ma v’è rarissima la viltà. Preferisco e credo più utile all’educazione dello spirito pubblico, o meglio del sentire pubblico, tutto el ciclo del Cid, de los Infantes de Lara,ecc. ecc., malgrado il gonfio delle parole e delle idee, che il Ludro e la Signora delle camelie (introdotta sul nostro teatro forse per premura verso il bel sesso) che al calare del sipario lasciano questa semplice idea nel cuore dello spettatore: che quel vergognoso e vile imbroglione è pure un caro matto ed è il solo nella commedia che la sappia lunga, ecc. ecc., e che quella signorina che si vende a tempo come un legno di piazza ed è presa dal mal sottile per abuso di liquori e di champagne, è il tipo della generosità e del sacrifizio, mentre tutti i galantuomini del dramma non sono che povera meschina gente.

Tornando dunque a quel che le dicevo principiando, io credevo e credo che si possa favorire certi sentimenti utili ad un risorgimento nazionale coll’ istrumento del teatro ed avrei avuto smania di provarmici quand’ero giovane; ma oltre a mancar d’attori e di lingua non mancavo pur troppo d’ I. R. censure! Era proprio inutile nemmen pensarvi.

Dico che manchiamo di lingua, perchè senza lingua viva, generalmente accettata, non si scrive dialogo in prosa. Lingua viva non c’è che in Toscana, dico lingua accettabile. Dunque a loro signori Toscani! Tocca a loro a scrivere per il teatro e ad occuparsi del suo risorgimento, e mi permetta di rallegrarmi con Lei, e ringraziarla perchè appunto se ne occupa.

Ora non ci son più polizie. È un ostacolo di meno. Mancano attori e lingua: nè gli uni, nè l’altra possono arrivare in fretta. La lingua è la più importante. Secondo me costituisce la nazionalità; e questa sarebbe una delle ragioni per le quali vorrei la capitale a Firenze, voto che, com’ Ella sa, riscosse applausi così caldi ed universali. Ma non importa. Prima qualità d’ un uomo libero è osar esser solo contro molti.

Questa lingua, senza la quale non può esistere teatro, è al tempo stesso, resa popolare col teatro. Ma, ripeto, i Toscani soli possono scrivere, perche hanno la lingua viva. Com’Ella sa. Machiavelli, parlando delle commedie d’Ariosto, diceva: «Messer Lodovico de’ modi ferraresi non si contenta, i toscani non sa!». Ora mi permetta di parlarle con molta franchezza e me la perdoni. I Toscani, in genere, quando scrivono, par quasi si studino di rifiutare quella lingua che sanno solamente loro, per adottare invece quell’altra che sappiamo tutti. Perchè il dialetto toscano è divenuto la lingua italiana? Perchè dal 3 al 500 si trovarono certi grandi ingegni che scrissero la lingua loro senza ricordarsi, per fortuna, della sentenza di Dante, sulla lingua illustre che in ogni città appare ed in nessuna riposa. Riposa vivaddio! in Toscana e non può essere altrimenti a voler avere tale lingua italiana.

Dunque, lo dico ancora una volta, scrivano i Toscani, ci insegnino e noi impareremo. Essi potranno contribuire potentemente alla vera unificazione d’Italia, non solo colla lingua, ma istituendo un teatro, che, a somiglianza e meglio dello spagnuolo, elevi i caratteri, insegni la fortezza, la generosità, il sacrifizio, e tutto quanto è compreso nel bello morale. Finchè in Italia non saranno messi di forti e grandi caratteri, è follia l’immaginarsi di essere una forte e grande nazione. Colla canapa fradicia non si fa un canapo potente, nè con carni corrotte una vivanda salubre.

Non so in verità se debba aver coraggio di spedirle tutte queste ciarle sfuggitemi, e che, lo creda, se sono una colpa non vi fu almeno premeditazione. Mi sono uscite dalla penna perchè il suo opuscolo ha toccata una corda che vibrerà in me, credo, anche sotterra: quella della rigenerazione morale degli Italiani. Tacere mi era impossibile, potevo bensì esser meno diffuso; ma è difetto dell’età ed è bello ai giovani sopportarlo con pazienza.

Suo dev.mo

Massimo D’Azeglio

*

Ho udito raccontare che Re Vittorio Emanuele II, portagli dal segretario una lettera diretta Al primo cavaliere d’Italia disse: — questa non viene a me, va a D’Azeglio. — Vero o no che l’aneddoto sia, è bensì certo che l’Italia non ebbe a quei tempi più gentil cavaliere: nessuno in contegnosa dignità più alla mano di lui; quanti lo conobbero seppero e sanno che nella umana signorilità, nell’amabile cortesia dei modi, l’Azeglio può essere eguagliato, non superato.

In questa stessa lettera quanta delicatezza di circonlocuzioni per arrivare a lasciarmi intendere che il mio opuscolo era bestialmente scritto, e quante scuse dell’avermelo fatto capire. Di rado ammonimento fu dato con più cauta grazia e di rado aggiungo produsse effetti più solleciti e salutari. Dopo quello e per quello diedi tuffi quotidiani, lunghi, ostinati nel vocabolario; vennero in seguito le indagini e le riflessioni per conoscere se veramente basti a noi toscani lo  «intingere la penna in bocca» come aveva altrove suggerito il D’Azeglio medesimo e se quel suggerimento non dicesse ad un tempo troppo e troppo poco, non fosse manchevole e iperbolico insieme. Quali che sieno stati e sieno i frutti delle lunghissime prove, di là mi vennero l’impulso e la guida; e mi è caro dirlo pubblicamente, che gratitudine vera è amare la memoria del benefizio e compiacersi nel farlo noto ad altrui.

Vidi l’ultima volta l’Azeglio nel 1865 a Firenze in via Ricasoli, dov’egli andava a visitare un amico. Era di cattivo umore e partiva il giorno dipoi. La nuova capitale stava per accogliere il governo e le Camere e dappertutto ferveva il lavoro di preparazione e di adattamento. — Me ne vado; disse a Palazzo Vecchio hanno distrutto affreschi, credo di Cecchino Salviati, a Palazzo Riccardi mettono le persiane, sciupano Firenze ed io non voglio vedere. — La noia inflittagli dal dottore veneziano a Montecatini gli era sempre nella memoria; mi strinse la mano e sorridendo: «A rivederlo mio liberatore».



IX.

Nel "Bel Mondo”.

Il Presidente de Brosses, venuto a Firenze nel 1739 meravigliò del lusso arrogante che i signori fiorentini sfoggiavano. Ogni sera, scriveva al De Blancey, conversazioni in questo o quel palazzo, vasto tanto che chi non ne è pratico vi si smarrisce come in un laberinto; riunioni di trecento e più dame indiamantate, di cinquecento e più cavalieri in abiti costosissimi, tali che lo stesso Duca di Richelieu maestro di ogni eleganza e di ogni fastosità non oserebbe vestirne dei simiglianti. E sale illuminate da candele innumerevoli, e rinfreschi serviti di continuo e senza risparmio, e balli e canti e concerti de’ più celebri violinisti d’Europa.

Lampi in notte buia: che la cronaca del «bel mondo» durante la dominazione degli ultimi Medici e de’ Lorenesi non offre molti esempi non dirò di tali splendidezze, ma neppure di pompe meno magnificenti. Un altro francese Casimiro Freschot autore dei Mémoires des cours d’Italie, che per Firenze passò una trentina d’anni prima, meravigliò, all’opposto, della sordidezza de’ signori «sia che dispregino i comodi della vita, sia che le imposte onde sono gravati li costringano ad ogni maniera di economie».

E dal 1750 in poi cavalieri e dame danzano, cantano, si rinfrescano sì, ma in casa di ricchi inglesi, russi, francesi, o da S. E. Corsini, quando l’ufficio suo di maggiordomo maggiore della Granduchessa gli fa obbligo di convitarli ad una festa da ballo, in contemplazione delle Loro Altezze i Granduchi di Saxe-Teschen o d’altri principotti viaggianti per la Toscana; ma in casa propria non danno più un bicchier d’acqua a nessuno.

Testimone la Gazzetta toscana piccolo foglio che Anton Francesco Pagani «stampatore e libraio dalle scalee di Badia» mandava fuori ogni settimana «con approvazione»; approvazione concedutagli a patto si limitasse a pubblicare l’arrivo e la partenza de’ forestieri, le nascite, gli sposalizi, le morti de’ nobili, le nomine de’ ciambellani e quelle delle Dame di Corte secondo le loro diverse categorie - Grande entrée e Cammer-zu trit nel dar notizia de’ passatempi e de’ ritrovi, nel descrivere le feste pubbliche e le private. Diciamo tutto: forse per appagare un desiderio degli studiosi, anche fu conceduto la Gazzetta annunziasse libri nuovi «di particolare merito e utilità»; e cominciò difatti con l’annunziare La Frine sessagenaria, romanzo bellissimo che può divertire senza essere di danno ai doveri dell’uomo saggio, il Creatore dell’ universo, poema eroico del dottor Mauro napoletano, le Rime toscane del signor Paolo Francesco Fioravanti pistoiese e il Dialogo fra la Menica e Geppino parrucchiere.

Or bene: di ogni pranzo, d’ogni ballo, d’ogni accademia la Gazzetta ragguaglia, talora minutamente; e son sempre e tutti francesi, inglesi, russi i nomi dei festaioli e degli anfitrioni: accademia dal cavalier Kingman, cena da Lord Zinley, trattenimento dal marchese di Ligneville, ballo dal signor de Barbantane plenipotenziario di Sua Maestà cristianissima; pranzo ieri, ballo oggi, domani opera in musica alla Villa Palmieri fuori di porta San Gallo da Giorgio Nassau Clavering quinto Lord Cowper, quell’istesso

Nassau di forte prole magnanima

a cui Giovanni Fantoni–Labindo - intitolava una delle odi e che erigeva in Santa Croce a proprie spese il monumento a Niccolò Machiavelli. Che se «per omaggio al conte Alessandro Orloff» il marchese Lorenzo Ginori, rara avis, s’induce ad offrire a lui e alla nobiltà Fiorentina «un concerto istrumentale tramezzato da qualche aria assai bravamente cantata dalla signora Maddalena Morelli detta ‘Gorilla Olimpica’ vi si induce forse per questo: tante feste e con tanto sfarzo dette già l’Orloff, tante laute cene alla nobiltà fiorentina imbandì «la ufficialità moscovita per celebrare l’assunzione al trono di Sua Maestà l’Imperatore delle Russie», che parve non si potesse decorosamente non render loro, fosse pur modesto, un contraccambio.

Tutto ciò avvertono e notano i viaggiatori e del vivere taccagno dell’aristocrazia che prende e non dà, s’indugiano nel ricercare le cagioni; e chi ne dice una chi un’altra. Quegli opina che le famiglie un tempo facoltose abbiano speso troppo nell’edificare ville e palazzi; questi le afferma rovinate dalle villeggiature e dal gioco: e giocavano, è vero, maledettamente; vizio così radicato e sfacciato che coglieva occasione persino dalle gioie più care della famiglia: per festeggiare le nozze di un marchese Niccolini, i parenti De Bardi, Rossi, Del Beccuto, Bartolini, invitano e la Gazzetta riferisce a «conversazioni di gioco»; altri suppone finalmente il patriziato fatto cauto e impensierito dalla minacciata abolizione dei fidecommissi e così di seguito. Ipotesi senza fondamento: le ricchezze c’erano e c’era la voglia non che di spenderle di ostentarle, tanto è vero che Pietro Leopoldo, con la circolare dell’agosto 1781, ammoniva quell’istessa nobiltà che smettesse il lusso soverchio degli abbigliamenti: «dall’eccesso o dalla moderazione del vestiario» egli giudicherebbe «della saviezza o della debolezza del pensare».

Lady Morgan, saccente al solito, dopo molti anni e molto sdottoreggiare, pesca una spiegazione nella psicologia.

Secondo lei il più vivo desiderio del fiorentino a qualsiasi ceto appartenga è vivere senza soggezione: tutto ciò che sappia di parata, di sussiego, tutto che nel contegno costringa all’osservanza di certi rigidi precetti, non gli va; e però nelle case inospitali del patriziato anti-socievole non radunanze, non feste. Sia: resta bensì a sapere, e la illustre viaggiatrice non spiega, come la suggezione insopportabile fra le mura domestiche divenisse tollerabilissima quando si trattava di ballare o sbafare in casa degli altri....

Ma v’ha chi sopravviene e soggiunge: non state tanto a disquisire; non si possono dar feste in palazzi dove in vastissime sale arde unica difesa contro al freddo un braciere, ove la padrona incappottata batte tutto il giorno i denti con lo scaldino fra le mani e il caldanino sotto i piedi.

Il Conte del Nord che fu poi l’imperatore Paolo I, aveva già osservato nell’ 82: in Russia il freddo si vede e a Firenze si sente.

*

Tralasciamo di cercar le ragioni e teniamoci ai fatti. La Morgan viaggiò in Toscana nel 1820: e dal ‘20 al ‘46, gli anni che Firenze ebbe più tranquilli e godè più allegri, anfitrioni e festaioli de’ quali si trovi ricordo in giornali, in carteggi, nelle relazioni di altri viaggiatori, sono, salvo pochissime eccezioni, tuttavia forestieri ossia inglesi nel linguaggio del popolo. (Alessandro Dumas il quale fu a Firenze in quel tempo racconta che il cameriere della locanda ov’egli abitava, gli annunziò l’arrivo di una famiglia forestiera così: — Sono arrivati degli inglesi, ma non si capisce se sono russi o tedeschi — ).

Primi nella fastosa ospitalità i ministri plenipotenziari dell’Inghilterra e dell’Austria: Lord Burghersh conte di Westmoreland, il successore di lui lord Holland, i Bombelles dei quali dicevano:

Pourquoi ces gens là s’appellent ils Bombelles?

Le mari n’est pas bon, la femme n’est pas belle;

poi il duca di Talleyrand e ancora una Orloff, e altri inglesi, russi, francesi come ai tempi di Pietro Leopoldo. Nel carnevale del 1830 Lord Burghersh fece rappresentare nello stesso palazzo della Legazione britannica in Borgo Pinti un melodramma, Fedra del quale aveva scritto le parole e la musica. Vi convenne la Corte, il melodramma naturalmente ottenne unanimi applausi e al calar del sipario Tommaso Sgricci incensò il nobile autore con questa ottava improvvisa



Quando col genio tuo stretto a consiglio

Nelle smanie di Fedra t’ispirasti

Pioveanti ardenti lacrime dal ciglio

E col pianto le note auree vergasti.

Ma poi che di Teseo l’inclito figlio

Col suono incitator ratto evocasti

Bardo d’italo ardir, pinger credesti

Virtudi antiche e il tuo gran cor pingesti.

E come nel ‘30, così sedici anni dopo non v’è signore fiorentino il quale apra i propri salotti, scrive nel ‘46 il pittore Colbert; che figlio di un generale della «grande armata», accolto con cordiale affabilità dal Principe di Montfort, ossia Girolamo Bonaparte, descrive affollate le sale del costui palazzo in via Larga sul canto di via degli Alfani: pranzi e radunanze nei quali l’ex re di Vestfalia divorati già alquanti milioni, lasciava ora altrui spelluzzicare gli assegnamenti, che gli passavano il cognato re del Vurtemberg e la figliola Matilde.

Tanto prodigo il Principe di Montfort, quanto spilorcio il fratello conte di Saint Leu, Luigi ex re di Olanda, che abitò anch’egli lungamente a Firenze e vi stampò co’ tipi del Piatti due volumi di tragedie, drammi, versi francesi e italiani. Gretto, gelido, presuntuoso, riottoso, noioso, l’unico de’ fratelli di Napoleone che non ispiri qualche simpatia, chi studia la vita e l’indole sua perdona alla moglie Ortensia gl’incauti trascorsi. Marito sfortunato e poeta sgrammaticato

(Amici e donne lacerommi il core

E il mondo tutto mi renderò alieno)

non si peritò di far l’elogio del matrimonio in un poema di quattro canti e si atteggiò a dongiovanni fortunatissimo. I suoi volumi abbondano di poesie fuggitive a Sofia, a Enrichetta, a Lisa, a Cathi, a Vittoria: fuggitive come le amanti, le quali, si rileva dalle canzonette medesime, lo adoravano da Wiesbaden quand’egli era all’Aja e da Parigi quand’era a Roma.

(O tu costante fin dell’arder pio

nell’amarti anche assente è la mia gloria);

e veramente per volergli bene bisognava starne lontani.

Vanitoso, ambiva un seggio in Elicona poichè regni oramai non gli era più lecito ambire; condannava anzi i disegni di rivendicazione che sin d’allora mulinava l’irrequieto secondogenito Luigi Napoleone: e un po’ per avarizia, un po’ forse per timore che il danaro somministrato a quel sognatore d’imperi andasse a sovvenire macchinazioni e congiure, pare lo tenesse a stecchetto. Alcuni anni dopo la assunzione all’ impero, si raccontava da chi lo praticò durante il suo soggiorno a Firenze che, partendone nel ‘31 intrafinefatta col fratello per prender parte all’insurrezione delle Romagne, lasciò alquanti debiti, pagati sì, ma molto più tardi. Uno, questo è certo, non fu pagato mai: nel 1856 intanto che «la colonna splendea come un faro» certe guantaie che avevano negozio in via de’ Calzaioli mostravano e vidi anch’io un biglietto col quale il futuro Napoleone terzo ordinava cravatte; e al biglietto appuntata con uno spillo la fattura non mai saldata, se non oggi dal valore di que’ documenti. Facile dimenticanza per essere il debito di poche lire: che egli aveva, del resto, memoria tenacissima, di cui posso io stesso offrire una prova.

Luigi Napoleone fu a Firenze, una seconda volta (v’era già stato nel ‘27 col suo precettore Filippo Le Bas figlio del regicida) dall’autunno del 1830 al febbraio 1831. Per deludere la polizia vigilante e nascondere le macchinazioni temute dal padre, i colloqui con Ciro Menotti e Guglielmo Libri, il carteggio co’ Bonapartisti di Francia, si dava bel tempo, menava in apparenza vita di spensierato, unicamente dedito agli esercizi del corpo e ai divertimenti; dei quali frequente il giocare alla palla con giovanotti dell’età sua, e tra questi mio padre, nel giardino Torrigiani prossimo alla Porta Romana. Un giorno, sul finire d’una partita gareggiata così che la vittoria dipendeva da un ultimo colpo di tamburello, stavano contro altri e ansiosi tutti, il Bonaparte e mio padre. Questi fece con singolare destrezza il colpo e la vittoria fu sua e del compagno, il quale, stringendogli la mano e sorridendo:

— Bravo Martini — disse — bella palla! Quando sarò imperatore dei francesi vi manderò la commenda della legione d’ onore.

Più che venti anni dopo, nel 1853, mio padre aveva condotti i negoziati per un trattato di commercio fra la Toscana e la Francia e la commenda venne; e fin qui nulla di stupefacente; ma insieme con una lettera del signor Drouyn de Luys, una lettera autografa dell’Imperatore, la quale, non so se donata o malauguratamente smarrita, ma di cui ben ricordo il contenuto e le ultime frasi, diceva presso a poco così: — Mio caro signor Martini. Il mio ministro degli Affari Esteri vi rimette le insegne della Legione d’Onore. Mi compiaccio che invece di ricompensarvi di un bel colpo di palla, esse vi attestino la mia soddisfazione per il servigio da voi reso ai nostri due paesi. —

*

Torniamo ai salotti. Il Ballo del Giusti scritto nel ‘37 e emendato nel ‘42 è una pagina di cronaca: gli ospiti di Chilosca (notiamo: data al solito la festa da una forestiera russa o polacca) il quondam frate, il ritinto nobile, il ferito a Rimini, il martire della cravatta furono, il poeta assevera, figure create dalla sua fantasia; crediamogli, ma la fantasia li creò così rassomiglianti a persone vive, che la gente, conosciuta la satira, non indugiò nell’appore a ciascuna di quelle figure un nome scritto ne’ registri battesimali. Comunque, e dato che la gente s’ingannasse in tali attribuzioni, la cronaca nulla perde della sua verità; e se il Giusti andò nell’iperbole affermando che a un vandalo qualsiasi bastava un rosbiffe per comprarci l’anima, è per altro certissimo che a conti aerei e a dame ambigue il bel mondo fiorentino fece stoltamente «platea». E accadde così che un visconte di Saint-Julien (questi se ben ricordo i falsi cognome e titolo dell’avventuriere) largo spenditore e donatore accarezzato, col quale marchesi e duchi vissero in intima dimestichezza e di cui duchesse e marchese si contesero l’affetto, fosse trovato una domenica sera a rubare le trine e gli scialli turchi lasciati dalle signore nell’anticamera della villa del banchiere Fenzi a Sant’Andrea.

Villa aperta d’autunno ogni domenica a largo stuolo di convitati, così come d’ inverno il palazzo di via San Gallo, ove tra i molti convenivano i clienti raccomandati al banchiere dai corrispondenti d’ogni parte d’Europa; e non fu persona di qualche fama che venuta a Firenze non vi capitasse: ieri Piero Maroncelli uscito dallo Spielberg, domani il maresciallo Marmont, fuggente la Francia che lo gridava traditore due volte, di Napoleone e di Carlo X: accusa così universalmente creduta, che a Firenze i minacciosi mormorii del pubblico lo costrinsero ad uscire dal teatro.

Ospitalità quella dei Fenzi garbatamente cordiale, durata finchè la fortuna del banco durò. Ricordo di aver fatto in casa Fenzi e in occasione abbastanza curiosa, la conoscenza della signora Emilia Peruzzi. Fu nel ‘58: ballavano: io che m’ero messo il frac per la prima o seconda volta, che sapevo di ballare malissimo e non volevo farlo sapere, mi davo l’aria dell’uomo precocemente grave, il quale compatisce alle altrui debolezze ma sdegna di parteciparvi e stavo sogghignando a vedere. La signora Emilia Peruzzi di cui quanti la conobbero, primo Edmondo De Amicis, che ne scrisse da par suo, ammirarono l’ingegno, la coltura, il patriottismo, l’operosità infaticabile, era nelle vesti piuttosto trascurata che inelegante. Aveva quella sera un abito di stoffa grigia guernito nella parte inferiore con fiocchi di seta color di rosa. Prese a ballare un valzer anche lei, e nel ballare seminò i fiocchi che, o semplicemente appuntati o mal cuciti, caddero tutti uno dopo l’altro. Io, accortomene, seguendo la coppia e cansando le altre con molto industriosa ginnastica, li raccattai, e quando cessato il valzer la signora si sedè, me le presentai col gibus fatto custodia dei raccolti ornamenti. Zelo fastidioso di ragazzo inesperto; avrei dovuto lasciare che i fiocchi si calpestassero e non occuparmene. M’avvidi subito che la signora non punto gradiva quei documenti della frettolosa negligenza di lei o della sarta: tanto più che i nastri rovesciatile in grembo e che lì per lì non sapeva dove mettere le erano un impiccio e null’altro. Le labbra dissero, secco, un «grazie»; lo sguardo il monito di essere, potendo, meno sciocco in avvenire. E tanto fu significativo, che la conoscenza incominciata a quel modo mi mancò poi - e me ne dolgo - il coraggio di coltivarla. Un falso amor proprio, il rammarico d’essere stato una volta così goffamente importuno alla signora, sempre mi trattennero dall’avvicinarmele.

*

Altra eccezione i Poniatowski, che discendenti da un re di Polonia, vollero cittadinanza toscana. Tre fratelli, ma Firenze non ne conobbe che due; il terzo Michele deforme, fattasi della deformità una infermità, si pose un bel giorno a letto, e a letto rimase una trentina d’anni e fino alla morte.

Carlo e Giuseppe nacquero con singolari attitudini alla musica, all’arte del canto particolarmente; attitudini che lo studio e l’esercizio condussero a grande maestria. Sposatosi Carlo con una contessa Montecatini cantatrice eccellente, i tre non sdegnarono di montare sui teatri di Livorno, di Lucca, di Firenze ed aiutarvi con gli incassi, pingui per la curiosità del pubblico e la valentia degli artisti, questo e quello istituto di beneficenza. E a Firenze si serbò lungamente memoria di una Lucrezia Borgia rappresentata al teatro del Cocomero, spettacolo memorando anche per questo: che fra un atto e l’altro si servirono a spese dei cantanti rinfreschi agli spettatori e una cena da ultimo.

Prevedo l’osservazione: pubblico gratuitamente rinfrescato e nutrito è facile alle indulgenze. Sicuro, ma di quella ch’io chiamai valentia degli artisti fu giudice il Donizetti, che scrisse per loro e nella casa loro la Parisina da rappresentarsi sul teatro imperiale di Vienna: il Donizetti il quale asserì che la sua Lucrezia non ebbe mai esecuzione come quella perfetta, e nessun tenore cantò meglio di Giuseppe Poniatowski la cavatina di Gennaro, nessuno con altrettale felicità di espressione.

Giuseppe anche compose: e una sua Esmeralda — libretto tratto dal romanzo dell’Hugo Notre-Dame de Paris — fu rappresentata, cantandovi egli stesso e il fratello, nel salone de’ Cinquecento, il San Giovanni del 18463.

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Dopo il ‘48 le voci dei cantori non furono più quelle, non furono più molte altre cose oggi a dire superflue. Giuseppe mandato ministro di Toscana a Parigi, restò là e fu in seguito senatore dell’impero; Firenze vide ancora la Principessa Elisa attorniata dalla affettuosa compagnia di amici numerosissimi; seppe sovvenuta co’ resti dell’antica opulenza ogni utile istituzione paesana; ma i balli di casa Poniatowski, splendidi esempi di sontuosità signorile e di buon gusto, bisognò si contentasse di ricordarli.

Si tornò a’ forestieri: balli, cene, pranzi, feste d’ogni maniera dette nella magnifica villa di San Donato Anatolio Demidoff, quali poteva darli chi pagava il proprio cuoco - Monsieur Francois - dodici mila lire all’anno: sfarzo molto, gaiezza no; non c’era più il brio d’una volta; il Demidoff e la marchesa Esterhazy Boccella, che fungeva da padrona di casa, accoglievano, e lietamente, gli ufficiali austriaci; e dove questi fossero, moltissimi dei giovani non andavano, peggio quando vi andavano.

I reggimenti del Kolowrat e del Kinski entrarono a Firenze nel maggio del ‘49; prima che l’anno finisse, otto duelli avvennero fra ufficiali dell’ «esercito di occupazione» e giovani patrizi reduci dalla guerra di Lombardia. In que’ tristi giorni, sia detto a onor suo, il grosso della «signoria» di quante erano cioè in Toscana famiglie d’illustre casato, chiare per antiche benemerenze o per censo, non piegò a servili arrendevolezze, ma seppe con fermo decoro palesare agli Austriaci i propri sentimenti e i propri risentimenti al Granduca.

Qualche «usuraio crocesignato», qualche «vecchio servitore di Sua Altezza», qualche femminuccia sgarrò: una marchesa tra le altre che paventati durante il governo del Guerrazzi il terrore, la ghigliottina, i massacri del ‘92 e ‘93, chiese al Radetzky - Barras del novissimo termidoro - una penna della sua feluca e custodì e vantò la preziosa reliquia. Il nome di Marchesa della Penna affibbiatale dal popolino aggiunse ai suoi ridicoli che non erano pochi; famosa per la smania di parlare francese anche quando non occorresse, e sempre spropositando. Maldestra, pestava a’ Pitti il granduca e volgendosi: Mille écus, altesse: e l’altro: C’est trop cher Marquise; lasciava a un’amica un biglietto di visita e su ci scriveva: Venus en personne; il che faceva osservare che tra Venere e Lei c’era anche questo divario: la Dea uscì dalle acque e la Marchesa non c’era mai entrata.

Perchè quell’aver praticato per più d’un secolo in case di forestieri farebbe credere che i signori fiorentini parlassero tutti e bene il francese. Neanche per idea. Pietro Leopoldo scriveva nel 1781 al fratello imperatore prossimo a venire in Toscana: «Qui la gente non brilla, e se deve parlar francese con voi, io mi troverò in grande imbarazzo. Tutti intendono fra bene e male quella lingua, ma niuna delle dame la parla e gli uomini in generale nulla ne sanno». Settant’anni dopo s’era su per giù allo stesso punto; questa la sola differenza: che se pochi parlavano il francese correntemente e bene, tutti pretendevano di saperlo e parlarlo. A enumerare gli scerpelloni de’ quali è rimasto ricordo, ci vorrebbe un volume. Il rampollo di un’antica stirpe, figlio di tale che aveva carica in Corte, fu invitato a pranzo dal ministro di Francia, Conte di Montessuy, un giorno nel quale le vie della città erano fangose per pioggia caduta di fresco. Cercata inutilmente una carrozza, dovè fare di fretta la strada e nel tragitto s’impillaccherò i calzoni. Se ne scusò così: Je de mande pardon, J’avais furie, je n’ai pas trouvé de bois (legno) il y avait la mote (mota, fango), je me suis schizzeté tous les pantalons.



X.

A Palazzo.

S‘io potessi farmi persuaso che i miei lettori hanno i medesimi gusti del De Vigny,

(Qu’il est doux, qu’il est doux d’écouter des histoires,

Des hisloires du temps passe).

sarei meno trepidante nel raccontarle queste storielle di tempi lontani; a ogni modo, una volta cominciato bisogna finire; e poichè parlo dell’ultimo decennio della signoria granducale, qualcosa è necessario io pur dica dell’ultimo principe.

*

Non so più quale cronista racconti: una gentildonna che aveva conosciuto Enrico III re di Polonia e di Francia e ammirati in lui il portamento regale e l’aitante eleganza della persona, condotta innanzi a Enrico IV di mezzana statura e non bello, mormorò: veggo il re, ma non veggo Sua Maestà. Chi, dopo il 1849, guardava Leopoldo II, vecchio nell’aspetto oltre gli anni, il capo reclinato così da posare sul petto le fedine biancastre, il labbro inferiore sporgente scendente, il corpo infagottato in vestiti troppo ampi e dimessi, poteva a sua volta e a ragione esclamare: veggo il granduca, ma non veggo il sovrano.

Quell’aria di barbogio assonnato, onde con tanti nomignoli dispregiativi lo beffeggiarono sudditi faceti e ribelli, l’aveva, dissero, anche da giovane; ma il vero è che la fisonomia lo calunniava, Leopoldo II uno sciocco non fu; lettere sue pubblicate di recente, aneddoti riferiti da testimoni autorevoli, dimostrano che se molti lo canzonarono, sapeva, al bisogno, canzonare anche lui. Se da ragazzo avessi preveduto che un giorno scriverei dell’Altezza Sua, quei parecchi aneddoti mi sarebbero tuttavia nella memoria. Due, bensì, ne ricordo perchè uditi alquanto più tardi; l’uno da Matteo Bittheuser, del granduca per lunghissimi anni segretario particolare, l’altro da Marco Tabarrini, de’ fattarelli di quei tempi e di quella Corte espositore argutissimo.

Nel 1838 o in quel torno, lo straricco principe Anatolio Demidoff che abitava ne’ pressi di Firenze la magnifica villa di San Donato, tornandovi da una gita a Parigi, menò seco Giulio Janin, uno degli scrittori del Journal des Débats, e di molta fama a que’ giorni. Questi profittò dell’occasione per mandare al giornale un seguito di lettere col proposito di descrivere Firenze e di narrare gli avvenimenti più notevoli della sua storia; lettere che poi ripubblicò raccolte in volume.

Come può capacitarsene chiunque prenda a leggere quel Voyage en Italie, il Janin erudì i propri compatriotti intorno alla storia fiorentina, raccontando loro le gesta di un Emanuele de’ Medici detto il Magnifico, le venture di Bianca Cappello amante di Cosimo I, avvelenata dal cognato Don Francesco, e citando Dante così:

Non ragionem dei lor!... ma guarda i’ passa.

Nauseato per quelli e altri parecchi strafalcioni altrettanto sbardellati, e più per la impudente presunzione con cui si spacciavano, un padre scolopio, Numa Tanzini, riprese nel Giornale di commercio con parole mordaci il Janin e quanti forestieri s’impancavano con balorda leggerezza a scrivere e giudicare delle cose nostre, senza nulla intenderne, nulla saperne.

Nella dormicchiante Firenze di allora, lo scritto del frate levò rumore inconsueto; il fiorentino spirito bizzarro si divertì alquanto alle spalle del francese e del russo; tanto che questi, a farla finita con i chiacchiericci e le satire chiese e, perchè era bene accetto alla Corte, facilmente ottenne il Granduca ascoltasse dalla viva voce del Janin spiegazioni e lagnanze.

E il Janin andò a Palazzo e fu, come desiderava, ascoltato lungamente, pazientemente; ma quando, per difendersi dall’accusa di leggerezza mossagli dal Tanzini, si arrischiò fino a dire che, in fondo, per imparare la storia di Firenze, quanto potesse importarne a un Francese, tre giorni bastavano;

— Oh! bastano due — interruppe Leopoldo — e avanza il terzo per raccontarla. —

Un’altra volta accadde fatto di maggiore rilievo. Durante un ballo a’ Pitti il cocchiere del ministro di Russia presso la Corte di Toscana, venuto a diverbio con una sentinella la trattò di canaglia. La sentinella che, come si dice da noi, ne aveva pochi degli spiccioli, per tutta risposta appioppò al cocchiere col calcio del fucile un colpo nello stomaco e lo lasciò boccheggiante. Bruttissimo accidente, caso gravissimo, offesa la livrea di un plenipotenziario, anzi offeso lo Zar nella livrea del suo ambasciatore. Ne nacque un diavoleto: proteste del diplomatico, ingiunzioni, minacce di peggio se non si desse e presto la dovuta soddisfazione. Poichè nè proteste, nè ingiunzioni, nè minacce di peggio valevano a scuotere l’astuta flemma di Don Neri Corsini ministro segretario di Stato, l’ambasciatore, che era un signor De Bouteneff, ebbe ricorso ai Granduca, Non si parlasse, diceva, di provocazione: il cocchiere non s’era nemmeno sognato d’ insultare la sentinella: aveva pronunciato una parola russa (e il ministro la ripeteva) che nel suono somigliava a canaglia, ma il cui significato non era affatto ingiurioso.

Leopoldo lasciò che si sfogasse e poi, come al solito, sommesso e lento soggiunse:

— Confesso che la istruzione de’ nostri soldati è difettosa: il russo non glielo insegniamo: non sapendolo, quando si sentono rivolgere una parola che pare, al suono, canaglia, adoperano il calcio del fucile. Non c’è che un rimedio: finchè i soldati toscani non sappiano il russo, quella parola che ha detta Lei, i cocchieri della Legazione bisogna si astengano dal dirla alle sentinelle. —

E lo licenziò.

*

I due aneddoti raccontati a me da chi era in grado di accertarne e guarentirne l’autenticità provano che l’ultimo Granduca di Toscana, che vollero far passare per un imbecille, tale non era. Ma di lui non ancora fu scritto equamente: fra il Baldasseroni ministro, che incensando il Principe incensa se stesso, e il Montazio, volontariamente credulo, acrimonioso per antichi rancori, oggi, sbollite le passioni di cinquanta anni fa, c’è posto per un biografo sereno; il quale fatta ragione de’ tempi e di particolari condizioni, saprà essere a Leopoldo fino a un certo punto indulgente.

Di lui sono meglio noti gli errori, alcuni enormi, che l’animo: gli errori cagionati talora dall’essere egli un Absburgo, l’animo difficile a penetrare. Poichè a indagarlo gli aneddoti aiutano, un altro ne dirò che seppi già da mio padre e di cui forse in neglette carte d’archivio rimangono documenti.

Sul finire del 1849, a comandare il corpo austriaco d’occupazione in Toscana, venne a Firenze da Vienna il generale Principe di Lichtenstein. V’era giunto da poco, quando un bel giorno arrivano per lui dalla Germania alcune casse di sigari. Naturalmente, in Dogana esigono si paghi il dazio onde la legge grava i tabacchi forestieri; ma il Lichtenstein, taccagno sebben principe, per non mettere mano alla tasca invoca a suo pro la franchigia conceduta ai diplomatici rappresentanti di Sovrani esteri. I doganieri lietissimi che l’ossequio alla legge imponesse di fare un dispetto al tedesco, gli negano la qualità di diplomatico. L’altro s’impunta, sbraita: fiato gettato. Sì, no, un viavai di messi altezzosi del palazzo della Crocetta che il generale abitava, al palazzo del Buontalenti, ove la Dogana stava a quel tempo. Finalmente, ostinato e imbizzito per l’ostinazione altrui, il Lichtenstein scrive al Granduca; e i doganieri subito avvertono mio padre, allora amministratore generale delle regie rendite, cioè delle gabelle e delle privative, e cui perciò, a doppio titolo, spettava risolvere quella vertenza. La risolse come doveva, ordinando che i sigari non si consegnassero fino a che il dazio non fosse pagato.

Il Granduca volle essere informato appuntino del come stessero le cose, e chiamò a Pitti mio padre; il quale non durò molta fatica a persuaderlo che il Lichtenstein non aveva alcun diritto a godere della franchigia. La legge era quella; se il sovrano volesse mutarla, poteva: ma finchè era quella, conveniva osservarla e farla osservare.

A Modena, a Parma, Duchi e Duchesse avrebbero probabilmente destituiti i doganieri e magari mandato a casa l’amministratore generale: Leopoldo lo congedò dicendogli facesse sapere a’ suoi impiegati che era contento di loro; che di leggi ad personam non si doveva neanche parlare; avrebbe indotto il Lichtenstein a riconoscere il proprio torto, avvertendolo che non potendo defraudarsi l’erario, se egli non pagava, avrebbe pagato lui Granduca.

E così fece; e il Lichtenstein pagò.

Padrone di sè e degli atti propri, era e voleva altri ossequente alla legge; in soggezione dell’Austria aboliva il giurato statuto costituzionale. Per questi due tratti si delinea, a mio credere, intera la figura dell’uomo e del principe.

Al principe nocque non tanto l’origine, la stretta parentela con l’Imperatore, quanto la fede cieca nelle sorti degli Absburgo e nell’onnipotenza dell’Austria, che aveva vista dal ‘15 al ‘48 imporre all’ Europa la propria politica e dallo sfacelo del ‘49 risorgere come per lo innanzi temuta: nocquero al principe e all’uomo l’aspetto sonnolento, il contegno impacciato, lo scilinguagnolo impedito a pronunziare un paio di lettere dell’alfabeto, la erre particolarmente, e fin la miopia. Una sera, a’ Pitti, tenendo circolo, a una signora che vedeva per la prima volta domandò:

— Lei quanti figli ha? —

E l’altra:

— Tre, Altezza. —

Imbattutosi di lì a poco nella medesima signora e non ravvisandola, le si rivolse ancora, e

— Lei quanti figli ha?

— I soliti tre. Altezza Reale. Non ho avuto tempo di farne altri da dianzi in poi. —

E si rise dell’equivoco, si rise della risposta, si rise del Granduca: e a un sovrano non giova che si rida di lui.

*

Con tutto ciò e a malgrado dei difetti propri e degli epigrammi altrui, Leopoldo, avanti il 1848 era e si sapeva amato in Toscana dai più; anche da molti fra coloro che egli ebbe irreconciliabili nemici dappoi e più macchinarono per rovesciarlo. E perchè si sapeva amato, si compiaceva del farsi vedere, dell’andare fra la gente, passeggiando per la città o, durante un veglione, aggirandosi in mezzo alle maschere nella platea della Pergola. Non lo osò più dopo il ritorno da Gaeta, quando gli austriaci montavano la guardia a Palazzo Vecchio e nemmeno quando se ne furono tornati ai loro paesi; che anzi parve allora nascondersi. Parecchi mesi ogni anno passò nelle tenute dell’Alberese, nelle ville di Pratolino, di Castello, della Petraia: e quando a Firenze, la quotidiana trottata fece il più spesso fuor delle mura in luoghi appartati: sì che la cittadinanza non lo vide se non di rado in occasione di pubbliche feste (misere feste, immeschiniti rimasugli di splendidezze medicee) e quando lo vide, spesso non gli badò.

Nella processione del Corpus domini, per esempio, che percorreva gran tratto della città, egli vestito con la bianca cappamagna, da gran maestro dell’ordine di Santo Stefano, seguiva il Santissimo.

Prima del ‘48 lo fiancheggiavano, strascicando faticosamente la gloria, le cicatrici e la sciabola i generali Trieb, Càimi Ceccherelli, il colonnello Gherardi, vecchi avanzi dell’esercito napoleonico: ora invece un drappello di guardie nobili, nelle divise rosse fiammanti. E ora non lui la gente si mostrava a dito, ma un conte Galli che gli stava dappresso reggendo l’ombrellino: e perchè il Galli in quel giorno sfoggiava sul giubbone grossi bottoni di diamanti, celebri nella Firenze di quel tempo come straordinariamente preziosi; e perchè era odiato dal popolo minuto; il quale, vero o no che fosse, credeva e rammentava come in un anno in cui per la eccessiva abbondanza del raccolto il vino si pagò un soldo il fiasco, il Galli posseditore di molte vigne, piuttosto che venderlo a quel prezzo, diè la via alle botti e mutò in purpurei rigagnoli i grigi viali del proprio giardino.

Così per San Giovanni, quando la Corte giungeva sul palco erettole in piazza Santa Maria Novella, affinchè godesse del palio dei cocchi, nel primo mostrarsi delle Loro Altezze non al Granduca si guardava, ma alla granduchessa anzi, al vestito della granduchessa.

I palii furono per secoli spasso dai fiorentini desideratissimo: lo dimostra il costume di festeggiare co’ palii la ricorrenza di giorni solenni nella storia della città. Palio per Santa Reparata in ricordo della sconfitta di Radagasio re dei goti nel 405: palio l’11 giugno in ricordo di Campaldino; palio il 29 luglio per commemorare la battaglia di Cascina vinta contro a’ Pisani nel 1364, e altri e altri: perfino un palio di asini a dileggio servile della memoria di Filippo Strozzi, fatto prigione dal Medici a Montemurlo e ricondotto sopra un somaro a Firenze. Quando papa Leone X fu a Firenze nel 1515 ne fece correre innanzi al proprio palazzo in via Larga ogni giorno e sino a tre in un giorno: corse di vecchi, di ragazze, di bufale, di cavalli. Questo dei Cocchi fu corso la prima volta per ordine di Cosimo I nel 1563. «Era (mi servo delle parole d’un erudito) sull’andare de’ giochi del circo massimo in Roma e con gli stessi colori: il veneto (celeste) il prasina (verde) il russato (rosso) l’albato (bianco); e perchè tutto fosse romano, soggiunge Cesare Guasti, s’inalzavano sulla piazza, a forma di mete, due guglie che nel 1608 furono fatte di marmo mistio di Serravezza, quali oggi ancora si veggono. Dalla guglia più vicina al tempio cominciava la carriera dei cocchi che tre volte giravano ellitticamente la piazza, schivando le guglie, sicchè la bravura dei guidatori era ammirata per la maestria del piegare i cavalli alle svolte, come coloro di cui Orazio cantava, gloriosi di aver corso nello stadio, senza toccare le mete con le ruote infocate dal veloce girare».

Questo, ben inteso, a tempo dei Medici, quando il palio fu destramente conteso in gara animosa, e secondo cantò con modestia di rime Domenico Poltri accademico della Crusca:

Coloro che in que’ carri erano entrati,

ai cavalli perchè più camminassero

tiravan colpi come disperati,

e correan quelli acciò presto arrivassero,

ma non parean cavalli che corressero,

parean piuttosto uccelli che volassero.

Ma ai tempi dei quali discorro, cioè dal ‘49 al ‘59 le cose andavano diversamente: l’ordine era non già di sferzare e d’incitare i cavalli; se mai, di trattenerli. La sicurezza dello Stato non permetteva vincessero i corridori più veloci e si premiasse l’auriga più abile. Non si permetteva mica a Siena giungesse prima il cavallo dell’Oca.... L’Oca era, sì, la contrada di Santa Caterina, ma il suo fantino vestiva giacca bianca e verde rigata di rosso; tricolore: e al tricolore, con tutto il rispetto per la Santa, cavallo spedato. Così nel palio de’ Cocchi a Firenze: non il verde, amore dei costituzionali, non il rosso, caro ai repubblicani, la vittoria era imposta al bianco o al celeste, secondo che bianco o celeste fosse in quel giorno l’abito della Granduchessa: perciò a lei e non al Granduca si badava quando comparivano nel palco.

Poichè ciò era noto e si sapeva simulata la gara, la corsa perdeva alquanto d’ interesse: ma non si potevano immolare — che diavolo! — alle attrattive di uno spettacolo popolare l’autorità del governo e le sorti della dinastia. E se al prasina e al russato sconfitti plaudissero le tibie di pollo, la polizia prenderebbe nota dei plausi e sorveglierebbe i plaudenti.

Perchè alle persecuzioni contro ai cappelli all’italiana agli scacciapensieri, stimati simboli rivoluzionari e contrassegni di congiurati qualche anno prima, ora succedeva la persecuzione contro le tibie di pollo accomodate all’uso di bocchini da sigari: e chi si faceva vedere in pubblico con quell’osso fra’ denti rischiava d’andare a fumare nel carcere delle Murate.

*

Il governo pavido e sospettoso dava argomento di riso con queste piccinerie, la Corte con le gretterie. Parsimoniosa era stata sempre, nè ciò dispiaceva a’ fiorentini nati homines ad frugalitatem secondo uno storico: ma dal ‘46 la parsimonia accennava a divenir tirchieria. Da quando si parlò di riforme, la prima riforma si fece sulle spese di casa: si davano, sì, a palazzo Pitti i soliti pranzi, i soliti balli nel carnevale, i soliti appartamenti in quaresima; ma gli invitati osservavano che pranzi, cene, rinfreschi non eran più quelli d’una volta. In carteggi del ‘47 che ho sott’occhio, una mala lingua scrive che il Granduca si rifà sul buffet e sulle acque tinte delle elargizioni per l’armamento della guardia civica. E del rimanente non c’è bisogno di altri testimoni, basto io. Io, sicuro.

Fra le feste carnevalesche della Corte ci era anche, ogni anno, un ballo di bambini. Compagni miei maggiori d’età me lo avevano magnificato, facendomi venire l’acquolina in bocca, con l’enumerare e descrivere le scatole di dolci loro in quel ballo a larga mano distribuite. Quando avevo cinque o sei anni venne il mio turno.... ahimè! uscii da Palazzo con due piccolissime giberne di cartone ognuna delle quali conteneva pochi cioccolatini e null’altro!

Fu quella la mia prima delusione; non me ne sovverrei certamente ora, se a serbarne memoria non avessero aiutato un fatto per sè stesso indimenticabile e il nome d’una donna della quale udii in seguito parlare assai spesso; nome che dalle licenziose cronache parigine del secondo impero veggo oggi passare nella storia. Nel correre da un punto all’altro della sala, inciampai, e sentendomi cadere mi aggrappai alla spalla d’una bambina; ma anzi che sostenermi per quell’appoggio, feci a lei perdere l’equilibrio e la trascinai meco nel ruzzolone. Quella bambina, che allora si chiamava la «Nicchia» Oldoini, divenne poi la «divina» contessa Virginia Verasis di Castiglione, agente segreta del Cavour alle Tuileries, cara al «fosco figlio d’Ortensia»; e dopo la cacciata de’ Napoleonidi accorta e preveggente ma inascoltata consigliatrice del Duca d’Aumale e del Conte di Parigi.

La vidi due o tre volte dal suo nonno materno Ranieri Lamporecchi avvocato di grido, che abitava nel proprio palazzo, adiacente lungo l’Arno a quello de’ Masetti ove l’Alfieri morì. Il Lamporecchi nei brevi riposi che Temi gli consentiva sacrificava a Calliopea e scriveva un poema in ottave: Napoleone. Finito un canto lo mandava a mio padre per averne consigli ed emende; di qui qualche rara visita di mio padre, al giureconsulto-poeta; e durante i loro colloqui, i miei con la «Nicchia»; colloqui non desiderati, perchè consapevole sin d’allora della propria veramente meravigliosa bellezza, trattava me e gli altri ragazzi con un’alterigia che le procacciava le nostre più cordiali antipatie.

Ma il ruzzolone non fu l’avvenimento più rilevante in quel mio primo entrare fra i danzatori e nelle aule regali. L’innalzarsi ahimè! fu grave assai più del cadere.

Ballavamo nella stanza del trono: un’alta pedana alla quale si ascendeva per tre gradini coperti di un ricco tappeto e ai cui lati si ergeva un baldacchino di velluto rosso; nel mezzo della pedana un poltroncione della stoffa medesima. Rosso il tappeto, rosso il baldacchino con frangie d’oro, rossa la poltrona, incorniciati da legno dorato la spalliera e i braccioli. Mi parve che di lassù tutti quei bambini affollati nella sala dovessero fare un bell’effetto: e per convincermene, salii audace e m’assisi irriverente sulla sedia che aveva accolto i fianchi di tre granduchi di Toscana, arciduchi d’Austria, principi imperiali d’Ungheria e di Boemia, in conspetto di sudditi, di ministri, d’ambasciatori.

Ah! veggo ancora la mia povera madre partirsi dall’angolo opposto della sala, farsi largo quanto più rapidamente potesse fra la calca infantile, scansando, scartando con le mani a destra e a sinistra le testoline stupefatte per quel suo irrompere improvviso, e venirmi contro con occhi che promettevano terribili reprimende e non ancor patiti castighi. Mi accorsi di aver fatto qualcosa di grosso e scesi; e da castighi e reprimende fui sovranamente salvato. Il Granduca ch’era lì presso, seguendo lo sguardo di mia madre si volse, mi vide, capì e presomi in collo e carezzandomi e scusandomi, implorò e mi ottenne il perdono.

Forse la memoria di quel pietoso interporsi mi sollecita a raffigurare Leopoldo quale fu veramente, non quale lo dipinsero le fazioni e le sette e ad essergli fino a un certo punto indulgente.

*

E qui sento gridarmi da più d’uno: indulgente con chi tentò bombardare Firenze dalla fortezza di Belvedere?

Ecco: qui non si scrive storia: se si scrivesse, molte narrazioni sarebbero da rettificare con la scorta di documenti, molte opinioni da correggere. È tempo di mettersi in testa che la storia del nostro risorgimento politico è da fare e da rifare, se storia si scriva non per adulare passioni, ma per conoscere la verità. Le colpe gli errori dell’ultimo Granduca di Toscana li so anch’ io e non li assolvo: sono molti e non c’è bisogno di aggiungerne. Che Leopoldo ordinasse di bombardare fu spacciato nel ‘59, subito dopo la sua partenza da chi volle atteggiarsi a salvatore della patria ed essere ricompensato dall’averla salvata; ma non è vero.

Si bombarda una città per soggiogarla e rimanervi dominatore. Leopoldo era risoluto a partire da Firenze e sperava di ritornarvi.

Bettino Ricasoli, Celestino Bianchi, Giovan Battista Giorgini che tanta parte ebbero negli avvenimenti toscani del ‘59, da me più volte interrogati non mai affermarono: il Ricasoli e il Bianchi si strinsero nelle spalle e risposero: «si disse», il Giorgini tacque e sorrise.

Ma v’ha di più. Quando per proposta di Lorenzo Ginori l’assemblea toscana decretò la decadenza della dinastia Lorenese, pur non tacendo nella propria deliberazione le antiche benemerenze del Granduca, ricordò l’onta e il danno dell’occupazione straniera, le molteplici violazioni del diritto pubblico, l’abbandono dello stato, il rifugio cercato nel campo nemico, la incompatibilità di un principe austriaco col sentimento nazionale, con l’ordine e la felicità della Toscana; del comandato bombardamento neanche un accenno: e sarebbe stato argomento non trascurabile da chi parlava all’Europa e dall’Europa chiedeva assentimenti o acquiescenze.

E ancora: Ferdinando Andreucci cui fu commesso di riferire intorno alla proposta Ginori si esprimeva così: «Di odio personale ci sentiamo libero l’animo affatto: altrettanto possiamo affermare del popolo nostro generalmente: il contegno suo nobilissimo nello stesso 27 aprile mostrò apertamente che le persone egli non odiava: ma anzi anche mentre mostravansi piuttosto ostili che amiche alla causa nazionale, ei sapea rispettarle».

Ora di chi tentò bombardare non si citano benemerenze; le quali un tale proposito tutte cancella; a chi tentò uccidere, se anche si dica cristianamente «noi non vi odiamo» si soggiunge per lo meno «sebbene ci abbiate fornito ragione di odiarvi».

Non è vero. È questa una delle solite fandonie che si spacciano in tutte le rivoluzioni. Nell’89 a Parigi inventarono che il Conte d’Artois voleva dando fuoco a una mina far saltare in aria l’Assemblea nazionale: sessanta anni dopo a Firenze un ufficiale di non bella nomea se ne ricordò e adattò la leggenda ai nuovi casi. E pazienza per il Conte d’Artois: il futuro Carlo X se com’è oramai provato non ebbe mai nel pensiero il disegno attribuitogli, era pur tuttavia uomo da concepirlo: non era uomo da bombardamento Leopoldo II, bonario e frollo: due volte in procinto di perdere il trono, non seppe altro che battere il tacco e raccomandarsi all’aiuto dell’Austria e alla misericordia di Dio.

Non è vero.

Ma fu creduto da molti! Eh! se tutto ciò che si credè fosse veramente da credere.... Le madri tedesche, scrive Enrico Heine, istupidite dal terrore si cacciavano disperatamente le mani nei capelli, quando sentivano raccontare che l’antropofago Niccolò, imperatore di Russia, mangiava tutte le mattine a colazione tre fanciulli polacchi, e li mangiava crudi in salsa di acetosella.



XI.

Ludibria ventis.

Quando penso ai disgraziati, che nell’ ultimo decennio della signoria lorenese compilarono e pubblicarono giornali a Firenze, mi torna a mente la zàttera della Medusa e il dipinto famoso del Gèricault. Quasi tutti già direttori o redattori di fogli politici nel ‘48, navigato con essi tra le furiose ondate della rivoluzione, finalmente sommersi nel generale naufragio, s’erano ora aggrappati agli angusti fragili scafi di giornaletti settimanali, il cui spazio occupava per tre quarti la cronaca dei teatri; e, come i naufraghi della Medusa, così anch’essi, per scampare alla morte, s’addentavano e straziavano a vicenda: ossia, per liberarmi finalmente dal garbuglio secentistico delle metafore, con gli austriaci di guardia a Palazzo Vecchio, sotto gli occhi di una censura bislacca, ora tollerante fino all’eccesso, ora pronta a infliggere sospensioni e soppressioni a chi anche per poco sgarrasse; spesso e troppo spesso, per empire le pagine, si azzuffavano in polemiche altrettanto vane quanto violente.

Una tra le altre e delle più vane ricordo che durò a lungo. Recitava al Cocomero la Compagnia Reale Sarda, della quale, oltre Adelaide Ristori ed Ernesto Rossi, erano parte un caratterista e un brillante ambedue carissimi al pubblico: Gaetano Gattinelli e Luigi Bellotti-Bon. Il Bellotti vi pose in scena due sue commedie: L’arte di far fortuna e Il Baccelliere di Salamanca; il Gattinelli una: Clelia o La plutomania. Tali gli scrittori, tali le commedie: quelle del Bellotti-Bon leggiere, senza originalità di tessuto, ma agili rapide gaie, qualche sorriso ottennero e al calare della tela applausi che parvero perdoni: la Clelia, invece, grave pretenziosa come il buon Gattinelli, che fuor del teatro era la personificazione della sicumèra, annoiò.

Uno dei redattori de L’arte diretta dal nerboruto nerobarbuto Federigo Leoni, de’ più compromessi nel ‘48, perchè arrolatosi nella Guardia Municipale istituita dal Guerrazzi e che fu la vera Guardia del corpo di Francesco Domenico ministro e dittatore; uno dei redattori de L’arte, a corto di argomenti, colse occasione dalla recita di quelle commedie per proporre, se non con queste parole, questo quesito: Possono gli attori scrivere buone commedie?

Piovve la manna: fra quanti erano giornali a Firenze in cerca di innocue disquisizioni, più d’uno lietamente s’affrettò a scendere in campo; e fu tutto un dibattere, un ribattere, un combattere: chi sì e chi no; possono, non possono; sì, per queste ragioni, no, per queste altre; e poichè i giornali uscivano una volta la settimana, s’andò così avanti per settimane parecchie.

Nessuno avverti che furono attori lo Shakespeare e il Molière: o, se non si volesse mirare ad altezze inaccessibili, che commedie buone, giudicate anzi ottime ai tempi loro, avevano scritte il Dancourt e il Poisson, l’Iffland e il Favart: e che di molta giocondità avevano fra noi allegrata la scena gli attori-autori della commedia improvvisa; ma chi lo avesse rammentato avrebbe a un tratto posto fine alla discussione, e bisognava invece seguitare a discutere, per mettere sotto il torchio qualcosa.

*

Erano quei giornali una ventina, alcuni stampati con l’unico proponimento di strappare abbonamenti ai tenori in cerca di scritture e di ottenere l’ingresso gratuito ne’ teatri fiorentini; il parlarne, chi non faccia opera di bibliografo, sarebbe tempo buttato via; più d’uno qualche parola la merita, contributo, se non altro, alla cronaca di quel tempo.

Alla reputazione di giornale letterario pretendeva, più che altri, e lo diceva col titolo Il Buon gusto. Lo dirigeva Cesare Bordiga; vi scrisse di quando in quando suo padre Giacomo; Tommaso Gherardi del Testa, il più fecondo e il più popolare fra i commediografi d’allora, vi inseriva e sottoscriveva col nome di Aldo novelle graditissime a lettori di facile contentatura.

Giacomo Bordiga era di gran lunga più colto di molti dei suoi colleghi; trent’anni prima, quando l’Antonio Foscarini mandava in visibilio le platee, prese a difendere (e lo fece con acume e con garbo) la tragedia niccoliniana contro alle veemenze di Giovan Battista Gaspàri, il quale aveva impiegato duecento pagine di stampa per dimostrare che quella non era una tragedia, ma «una collezione di gesti e detti veneti per una serie di dialoghi in versi»; opinione che Carlo Botta confortava della sua autorità. Sebbene quella difesa dovesse tenersi titolo di benemerenza in Toscana, dove nel 1857 si stimava tuttavia il Niccolini tragico tale «da stare a paro con lo Schiller», il Bordiga era dai suoi colleghi mal visto. Non so più ora bene il perchè; mi sembra di ricordare che a lui veneziano rimproverassero di essere venuto a patti col Governo austriaco; questo ricordo con certezza, perchè avvenuto me presente. L’impresa del teatro della Pergola aveva assegnato ai giornalisti un palco: il sedici al quarto ordine: una sera, quando il Bordiga vi entrò, gli altri tutti si alzarono e se ne andarono.

*

Composto nella tomba un fogliucolo, mortogli di inanizione sotto la penna, ora, celato da molta varietà di pseudonimi, chiacchierava d’arte e di letteratura nella Speranza l’abate Stefano Fioretti, del quale il Carducci ritrasse maestrevolmente il portamento e l’aspetto; ma i connotati morali che ne dà mi paiono da correggere. «Galantuomo, buon compagno, non prete del tutto ma nè men secolare» dice lui: io direi piuttosto «galantuomo, buon compagno, non del tutto secolare, ma prete così così» visto e considerato che una delle occupazioni dell’abate era dirigere la messa in scena dei balli al teatro Pagliano (oggi Verdi) dove (raccontavano) non risparmiava fatiche di voce e di braccia per educare alla grazia delle movenze le sacerdotesse di Tersicore, senza pur tentare di emendarne cristianamente il costume.

Come in grazia del Carducci si ricorda tuttavia il nome del Fioretti, così anche in grazia sua un altro dei giornali di quel tempo: La Lanterna di Diogene.

Edita dal libraio Dotti, la dirigeva un giovane di bellissime speranze che un po’ svogliato per indole, un po’ attraversato in ogni disegno dalla maligna fortuna, dell’ ingegno veramente egregio lasciò pochi e umili frutti: Enrico Franceschi, morto or non è molto direttore di un ginnasio in Sardegna.

Il Carducci, dunque, dei suoi primi saggi poetici, le Rime stampate dal Ristori a San Miniato nel ‘57, scrive che «rimasero esposte ai compatimenti di Francesco Silvio Orlandini, ai disprezzi di Paolo Emiliani Giudici e alle ingiurie di Pietro Fanfani». Or fu appunto nella Lanterna di Diogene pubblicata la recensione del filologo pistoiese.

Il Fanfani, dandosi l’aria del sopracciò e trinciando sentenze, godeva a quel tempo in Toscana di fama superiore ai suoi meriti, e tale la godè più tardi in Italia; perchè il caso volle ch’ei mandasse fuori il suo vocabolario, abborracciato e non senza errori, quando, trasferita la capitale a Firenze e suscitatosi il dibattito circa le teoriche manzoniane, una gran parte degli italiani provò urgente il bisogno di pulirsi la lingua. Non ci fu allora travet il quale, tolta nel proprio cancello la pratica dalla camicia e disponendosi a emarginare il foglio controdistinto, non aprisse il dizionario e non rimanesse di stucco nel non trovarvi le parole delle quali era uso servirsi. In Piemonte, dove così poco v’era per lo innanzi conosciuto che lo chiamavano il Fánfani, il vocabolario ebbe diffusione notevolissima.

La recensione delle Rime era difatti ingiuriosa, ma non basterebbe essa sola a spiegare e giustificare i rancori che durarono nell’animo del Carducci quanto la vita. Il vero è questo. Giosuè a quei giorni si ingegnava molto faticosamente nel metter d’accordo il pranzo con la cena. «A volte — scriveva al Chiarini — si vive di nulla». Già fidanzato e per la età e la infermità del padre sapendosi prossimo sostegno della famiglia, gli urgeva uscir dal precario (precaria era la sua supplenza del ginnasio di San Miniato) e ottenere o licenza al privato insegnamento, o cattedra in qualche istituto; e il Fanfani spadroneggiava nel Ministero dell’istruzione pubblica cui era addetto come segretario.

Al commendatore Cosimo Buonarroti, ministro, il sonno era altrettanto grato quanto alla Notte dell’antenato suo grande; di versi pare non s’intendesse, poichè permise alla sorella di stampare i suoi (I): sì che, vinta dal Carducci per concorso una cattedra nel ginnasio comunale di Arezzo, quando il Governo negò alla nomina di lui la necessaria approvazione, fu creduto da molti che a suggerire l’odioso provvedimento stesse, dietro alla poltrona del Ministro, il Fanfani. E così fu pur troppo! Documenti venuti in luce or è poco lo provano. Il Carducci non li conobbe, ma o seppe o intuì donde il colpo partiva: e perciò egli facile alla collera, ma pronto ancor più ai rimpaciamenti, col Fanfani, conterraneo e (a detta sua) imitatore di Vanni Fucci, non si riconciliò mai: e in prosa e in versi lo bollò di marchi roventi ogni volta gli capitò o ne cercò l’occasione,

«....non credomi maggior ribaldo

redasse l’anima di Maramaldo.

Fucci filologo frusta e galera».

E anche questi non sono elogi, mi pare; sì che nel computo delle insolenze il conto, non che batter pari, lascia al Fanfani un larghissimo credito. No: sebbene il Carducci fingesse e allora e poi unica ragione dei suoi risentimenti l’ingiuria, lo scottò solo e lo inviperì quella che stimò insidia d’animo pravo; se si fosse trattato di impertinenze soltanto, via.... medice cura te ipsum; perchè se si voglia esser giusti, bisognerà soggiungere che dagli eccessi verbali neppure lui, Giosuè, seppe sempre guardarsi. Quando andava in furori, addio moderazione, addio urbanità.... Furori qualche volta tragicomici, che combattendo contro avversari di niun conto, sparava bombarde per uccidere zanzare.

Contagio dei tempi ne’ quali, giovanissimo, veniva educando l’ingegno alle lettere. Il vilipendio era l’arma più spesso e più agevolmente maneggiata dai linguaioli toscani d’allora, lontani discepoli del Muzio e del Castelvetro. Per una virgola fuori di posto, cominciavano dal darsi pubblicamente dell’asino e dell’imbecille a tutto pasto: e via via, accalorandosi nel proseguire la disputa, del truffatore e del manigoldo; si palleggiavano insomma ogni sorta di contumelie, sempre avvertendo che la prudenza li tratteneva dal dire di più. Purchè la virgola fosse rimessa dove doveva stare, si consegnava l’avversario in mano al Bargello.

Ricordo che appunto in quegli anni un canonico Bini, lucchese, mandò per le stampe certo Volgarizzamento delle collazioni dei Santi Padri, testo inedito del secolo XIV, gloriandosi di avervi rinvenuti parole e modi ignorati dai lessicografi e dagli scrittori dei secoli susseguenti.

Fra quegli arcaismi, uno più particolarmente gli piacque: l’ormare alla parete, disusato modo elegantissimo, secondo lui, a significare quell’atto.... quella funzione fisiologica.... come posso dirlo? ah! quella fisica necessità che costrinse la signora di Rambouillet a scendere di carrozza, scusandosi con lo Sterne che l’accompagnava. Ve ne rammentate  Così dal Viaggio sentimentale traduce Ugo Foscolo: «Le chiesi che desiderasse. Rien que de pisser: le diedi la mano per scendere di carrozza; e s’io fossi sacerdote della pudica Castalia non avrei assistito di certo alla sua fontana con decoro più reverente».

Ormare! l’abbaglio era manifesto, il canonico non sapeva mettere i punti sugli i; se avesse saputo, non avrebbe durato fatica a convincersi che per significare quella tale necessità s’era usata nel decimoquarto la stessa parola che nel decimonono; salvo che nel decimoquarto i regolamenti municipali non vietavano forse la irrorazione delle pareti. Lo sfarfallone era solenne; ma bastava i critici, fattavi su una risata, ammonissero il reverendo che chi non sa mettere i punti sugli i non deve impancarsi a decifrare e trascrivere e pubblicare antiche scritture: lasciasse i codici e stesse contento al breviario e al messale. Gli si scagliarono invece contro come cani arrabbiati: il più discreto dapprima si appagò col dargli «una strigliata sul groppone asinesco», altri via via rincarando la dose, un anonimo scandalizzato pedante arrivò perfino in un di que’ giornaletti a esprimere con crudele facezia questo desiderio: che in pena della presunzione e dell’ignoranza sfacciata, lo sciagurato canonico non potesse più ormare nè alla parete nè altrove.

*

L’Indicatore, Il Sistro, Il Goldoni, L’Eco d’Europa, Il Genio, L’Avvisatore, Il Giornale toscano, Lo Scaramuccia, L’Armonia, Il Caffè, L’Eco dei teatri, La Lente, Il Giglio fiorentino, Il Commercio, La Polimazia italiana, Il Momo, L’Imparziale.... Ho detto già che quei giornaletti erano parecchi e chi non si stancasse di raccontare e trovasse chi lo stesse a sentire, non finirebbe più. Dalla folta schiera degli scrittori, due debbono per più conti andare distinti: Celestino Bianchi e Carlo Lorenzini.

Naufraghi anche loro.

Il Bianchi che, mutati i tempi e lo Stato, fu segretario di Bettino Ricasoli, e in quell’ufficio lo accompagnò, dalla gloriosa dittatura del ‘59 alla angosciosa presidenza del Consiglio del ‘66, ne aveva fatta nel ‘49 una marchiana: s’era caparbiamente ostinato a rimaner liberale, quando il Granduca non lo era più: e con gli austriaci a Firenze e il maresciallo D’Aspre al palazzo della Crocetta profetava nel Nazionale «differita la riscossa d’Italia», inneggiava ai difensori di Venezia, pubblicava i verbali della Costituente romana e li commentava con palese compiacimento. E niente paura di minacce o pericoli. Il Governo infliggeva al Nazionale due mesi di sospensione; e lui nella settimana medesima mandava fuori l’Avvenire e continuava sullo stesso tono, sempre invocando le franchigie costituzionali, giurate dal Granduca l’anno innanzi e non ancora abolite, ammoniva Principe e Ministri con le parole del Machiavelli: «il nome della libertà è assai gagliardo il quale forza alcuna non doma, tempo alcuno non consuma, merito alcuno non contrappesa».

Dei quali ammonimenti non è a dire che principe e ministri si dimenticassero. Oh! no: tanto è vero che, abrogata la legge su la libertà della stampa, punirono senza misericordia l’ammonitore: dispensarono cioè il Bianchi dall’insegnamento che professava in un pubblico istituto, riducendolo nella necessità, per campare la vita, di andar qua e là nelle case a dar lezioni di storia e di letteratura alle signorine.

Clientela rada e, come seppi da lui, taccagna. Il Tallemant des Reaux insegnava l’ italiano a Mademoiselle de Marsais per un bacio al mese: ma era ricco e gaudente: il Bianchi, assennato e povero, aveva bisogno di più sostanziale remunerazione e la strappava così sottile, da costringerlo, per sbarcare il lunario, a cercare altre fonti di onesto guadagno. Chiese licenza di pubblicare un giornale - letterario s’intende. Apriti cielo! Licenza a lui, all’uomo del Nazionale? Il Ministro dell’interno Landucci andava in bestia (absit injuria verbo) solamente a parlargliene. Ma (così fu detto e creduto) il Presidente del Consiglio Baldasseroni più mite e più accorto considerò che il rifiuto non era anch’esso senza pericoli: i liberali, che conveniva non stuzzicare, avrebbero gridato alla persecuzione, e fattone ne’ giornali del Piemonte Dio sa quali scalpori. E perchè, come tutti i governi deboli, il governo toscano ciondolava tra i mezzi termini, a un mezzo termine ricorse anche quella volta. Conceduta ad altri facoltà di pubblicare il Genio prima, la Polimazia poi, chiuse un occhio e finse di non sapere che il Bianchi li dirigeva, che in sostanza i giornali erano suoi. Ma nè l’ uno nè l’altro di quei fogli attecchì: men triste sorte, anzi buona, ebbe finalmente Lo Spettatore, nel quale scrissero il De Sanctis, il Campori, il Tommaseo, l’Amari, il Bonghi, il Gualterio, il Carcano, il Reumont, e che fu per la Toscana ciò che il Crepuscolo del Tenca fu per la Lombardia.

*

Carlo Lorenzini tornò a Firenze dalla guerra nell’agosto del ‘48 mazziniano sfegatato; e, nei mesi che corsero dall’armistizio Salasco alla battaglia di Novara, fu dei più operosi fra gli scrittori di giornali democratici: articoli al Lampione, prose e versi al Nazionale: versi non da antologie, ma nei quali la delusione irosa e l’affanno si sfogavano insieme:

Come la nebbia sperdesi

Se la percola il sole,

Così vaniro all’opera

Le splendide parole.

Anche le forti squadre

Parver fatte conigli.

Non la chiamate madre

L’Italia non ha figli.

Avvenuta la restaurazione, men sospetto del Bianchi, potè pubblicare e dirigere l’un dopo l’altro giornali anche lui: L’Arte dapprima, avendo a compagno un avvocato Bruzzi, Lo Scaramuccia in seguito, piantandoli sul più bello l’un dopo l’altro; dirò poi come e perchè. Se non che, abrogata la legge su la libertà della stampa s’era tornati al nihil de principe, canone che nella interpretazione di quel sagace scoliaste che era il ministro Landucci significava: il Governo fa tutto bene, e farà bene sopprimendo il giornale che accenni a non esserne persuaso; di guisa che Carlo L.... (così sottoscriveva) fu giocoforza si piegasse a scrivere di teatri, d’ innocua letteratura e articoli brioso faceti, non umoristici come allora li chiamarono e li chiamano ancora assai impropriamente: l’esprit dei francesi è tutt’altra cosa che l’humour dello Sterne e del Richter, del Thacheray e del Guerrazzi, del Heine e del Bini.

Sebbene dunque gli convenisse tenere a freno la penna, cionondimeno trovava con destrezza modo di seguitare negli sfoghi. Era in materia di principi politici tutto d’un pezzo: la pensava come il Malherbe:

Il n’est permis d’aimer le change

Qu’en fait de femmes et d’habits;

chi avesse mutato coccarda non sperasse da lui nè perdoni nè tolleranze: e furono famose certe sue stroncature di letteratucoli, i quali già rivoluzionari arrabbiati, decapitato nel ‘49 in pubblici comizi un Granduca di gesso, s’erano l’anno dopo lasciati ammansire da un Granduca di carne e d’ossa e godevano ora di lauti riposati stipendi negli uffici dello Stato.

Un di costoro riuscì di soppiatto a pubblicare ne L’Arte un articolo: bastò perchè il Lorenzini piantasse intrafinefatta baracca e burattini e portasse altrove le tende.

Uno dei suoi favoriti bersagli era il Prati: ogni tanto, quando l’occasione si presentava, una frecciata. Contro al poeta? Secondo me, contro al paladino di casa Savoia. Nei più accesi liberali toscani, l’odio contro Carlo Alberto durava più acrimonioso che mai: il nuovo tradimento del Carignano, la sconfitta di Novara patteggiata col Radetzky per salvare il trono e la dinastia, queste ed altre simili calunniose fandonie, le credule passioni accoglievano come fatti provati, documentati, incontestabili: e il Prati intanto, nobilmente e fedelmente devoto alla sventura, salutava il re morto così:



O generoso, il premio

D’una invincibil fede

Non è tra noi: siam torbido

Covo di belve. Incede

L’ira con l’uom. — Perpetuo

Seme d’ingrati è qui.

Pochi t’amaro. Invidia

Fosti de’ prenci: sdegno

De’ nuovi Bruti: ai cupidi

Schiavi dispiacque il regno

Della Giustizia: un Golgota

L’odio stranier ti alzò.

Belve, ingrati, schiavi, nomi e aggettivi ce n’erano a sufficienza per aizzare le collere degli avversari; a ogni modo, che in quelle critiche e nell’asprezza di quelle critiche, la letteratura c’entrasse per poco, due argomenti persuadono, che tagliano, come suol dirsi, la testa al toro. Primo punto, chi scriveva versi come quelli che del Lorenzini ho citati, non poteva scandalizzarsi di quanto era spesso d’improprio, di indeterminato e talvolta di sciatto nello stile pratiano d’allora: inoltre il Prati stesso credè alla ragione politica delle censure, e dolutosi del «disonesto cachinno dell’effemeride vile» scriveva: «Da un pezzo in qua voi vi siete svegliati contro di me, perchè siete fanatici apostoli di un simbolo politico nel quale la mia natura, l’esperienza, la tradizione del mondo, i miei studi mi impediscono di credere».

Comunque, fatto sta che dopo averlo punzecchiato più volte, quando il Prati mandò fuori il Rodolfo, malauguratamente da lui stesso vantato «libro di amore, di dolore, di espiazione e di fede», il Lorenzini gli fu addosso e non lo lasciò fino a che non lo ebbe, nello Scaramuccia, strapazzato e malmenato in una serie di articoli, versando sul poeta e sul poema il ridicolo a piene mani. Vero è che il Prati prestava quella volta nudo il fianco all’offesa. Dai celebri

Nominativi fritti e mappamondi;

in poi, gli italiani per secoli non avevano letto versi di così stramba fattura.

Il protagonista del poema

Pensa i tempi e le stragi: e quella fosca

Anima in sè si preme; e più si attosca.

Pensa all’illustre iniquità de’ nomi

Che stolti balbettiam sin dalla poppa,

Pensa a quanta genia s’inchiomi e schiomi

Fral come bimbo che allo sterpo intoppa;

E ai vasti ladri su’ cui teschi or domi

L’atro del Tempo corridor galoppa;

E negli orecchi, su per l’onde infide

La ruota orrenda del destin gli stride.

Parmenidi a paleo, Pindari a bolle,

Statisti da inventario e da bucato;

Cicalecci da Zingano o da folle,

Predicature senza predicato;

Leviti e re sui trampoli e le molle

Popoli dal bernoccolo inciucato;

E or l’altalena or l’organo che gioca

E un grande andar dai burattini all’oca.

Su grinze cartilagini vetuste

Si strascica lo mondo ischeletrito

Però che a trarsi via l’ultime suste

Mena e rimena, come pazzo il dito.

E piagnete sotterra, o voi che foste,

A vederlo sì poco e sì smarrito.

Ma Dio vi darà pace, il Dio che vuole

Che l’uom non pera fin che ha moto il sole.

Versi intelligibili forse in un altro sistema planetario. Ma vedete (sia detto in parentesi) come uomini di alto ingegno s’ingannino nel giudicare l’opera propria. Una quindicina di anni dopo (la ferita strideva ancora) il Prati diceva a me «quelle imitazioni giustiane (proprio così: «imitazioni giustiane») pensai dovessero piacere a Firenze». E soggiungeva «a dispetto della beffa triviale, il Rodolfo vivrà».

La reverenza mi rattenne dal dimostrargli che tra il Giusti e il Burchiello corre divario; l’affetto dall’ informarlo che il Rodolfo era morto e sepolto e, per fortuna sua, dimenticato da un pezzo.

Rientriamo in carreggiata.

Il poeta non si diede pace: perchè della critica fu insofferente sempre e perchè dalla critica non ebbe forse mai assalti più fieri. Meditò le vendette e stimò al vendicarsi atta meglio d’ogni altra l’arma onde era stato colpito. Ma il ridicolo non era affar suo. Nel prologo del nuovo poema Satana e le Grazie che ha tratti di poesia vera e gruppi di magnifici, endecasillabi, il critico toscano appare innanzi alla Musa in figura di «topolino ritto sui pie’ di dietro, con farsetto in dosso, cappello in testa, penna sull’orecchio, coda arricciata e fogli di carta in saccoccia».

Appena comparso, per ordine della Musa, un grosso gatto d’Angora lo acciuffa e se lo maciulla.

Della gelata allegoria il Lorenzini non si curò: o forse non la conobbe, o altro avea per il capo. Lo Scaramuccia non era più suo; come già L’Arte a un maestro di musica, lo aveva una bella mattina venduto per poche centinaia di lire a un agente teatrale.

Perchè l’andare in cerca affannata di qualche centinaio di lire appena levato il sole, fu il molto frequente assillato travaglio del Lorenzini e il malinconico portato di una passione che la sola maturità degli anni finalmente attutì. Anche lui come il buon Lorenzo Lippi

tenne in man prima le carte

che legato gli fosse anche il bellico;

e pria che mamma, babbo, pappa e poppe

chiamò spade, baston, denari e coppe;

anche lui sfortunatissimo come l’autore del Malmantile.

Giocava dovunque si giocasse: ma il più spesso in quel tetro Palazzo de’ Davanzati in Porta Rossa, ove il saggio Bernardo tradusse già gli annali di Tacito, e che or è poco un antiquario restituì in pristinum, mondandolo dalle scorie che vi ebbero deposto più secoli.

Là si giocava ogni sera, ogni notte e tra la minor gente troneggiava un molto illustre e facoltoso personaggio: il professore Girolamo Pagliano, inventore del famoso siroppo.

Il Pagliano era in Toscana popolarissimo; a Firenze sin da quando, giuntovi da Napoli, ridotto al verde dai giuochi di Borsa e fallito, lo fischiarono baritono esordiente sul teatro di Borgognissanti; a Prato ove di lì a poco il pubblico sanzionò di grugniti la sentenza dei fiorentini, a Pistoia dove i nipoti di Gino, «uomini discordevoli» secondo il Compagni «crudeli e selvatichi» scagliarono contro a Marino Faliero quante mele fradicie poterono raccogliersi ne’ pomari della città.

Ora, laureatosi in medicina a Parigi e

di Chiron scoperta la ricetta

del balsamo vitale sempiterno

tra i scartafacci dell’avo materno

(come cantò in un poema eroi-comico-storico-critico-filosofico di sedici canti - La Paglianeide - un suo ammiratore e biografo) tornava a Firenze ricco a milioni e per vendicarsi contro la sorte dei due fallimenti quel della Borsa e quel della scena edificava un teatro vastissimo là dove già sorgevano le Stinche, antiche carceri dei debitori.

Lo vedo come se fosse presente. Alto, grosso floscio, terreo nella faccia, chi non lo sapesse straricco poteva prenderlo per uno straccione. Sordido nelle vesti che gli cascavano d’addosso, per una soluzione di continuità fra il gilet e i pantaloni offriva agli sguardi della gente un volgolo di camicia sul quale «il color bruno non era nero ancora» ma il bianco agonizzava. E questa sudicia trasandataggine s’incoronava di un cappello a cilindro perpetuamente sbertucciato e ammaccato, come se, ai tempi delle stecche e delle stonature su quello, anzi che sul corno dogale del Faliero, fossero piombati i proiettili vegetali dei pistoiesi.

Al gioco spesso i più tirano i meno; e molto spesso nel Palazzo Davanzati avveniva che danari spremuti da borse stremate cadessero negli aurei botri ove il milionario sguazzava. E poichè era lecito giocare e perdere «su la parola», di qui le ansie notturne del Lorenzini e l’affannato mattutino cercare dell’amico o dell’usuraio: e quando l’amico non poteva o l’usuraio non voleva, ultima ratio il maestro di musica o l’impresario che comprasse il giornale, il tipografo che fornisse il danaro occorrente a saldare la perdita della sera innanzi, ipotecandolo sopra un lavoro di là da venire.

Così furono venduti L’Arte e lo Scaramuccia. Così nacquero la Guida in vapore da Firenze a Livorno, così la commedia Gli amici di casa, così il romanzo I Misteri di Firenze, e altri scritti dimenticati e dimenticabili del Lorenzini.

Il quale delle ansie notturne e degli affanni mattutini si confortava punzecchiando nello Scaramuccia di inesauribili facezie il «Caligola degli intestini»; e chi sfogliasse la collezione di quel giornale vedrebbe che, sin che quegli lo diresse, non passò forse numero senza che, in una forma o in un’ altra, vi si profondessero arguzie sul celebrato «depurativo del sangue»; che anche in giorni di disdetta, dopo avere ascoltato pazientemente le amorevoli ammonizioni del fratello Paolo e fatto proponimento di non sfogliare mai più «il libro del Baragioli» (il Baragioli era il fabbricante delle carte da gioco), il buon umore non tardava a tornargli. Un ultimo aneddoto.

Si rappresentava al teatro Pagliano per la prima volta e con successo felicissimo, il Trovatore del Verdi. Il professor Girolamo, proprietario e impresario che intascava danari a palate, entrò una sera a Palazzo Davanzati più ilare e arzillo del consueto e durante la partita canterellò ripetutamente l’aria del tenore:

Ma pur, se nella pagina

Del mio destino è scritto

Ch’ io resti fra le vittime

Da ferro ostil trafitto,

Fra quegli estremi aneliti

A te il pensier verrà

E solo in ciel precederti

La morte a me parrà!

Il Lorenzini perde quella sera secondo il solito, fino all’ultimo soldo.

S’alzò: e scritti col lapis alcuni versi, lasciò nell’uscire sulla tavola da gioco il foglio che li conteneva.

I versi erano questi:

Se nelle eterne pagine

Del Baragioli è scritto

Ch’io muoia in Montedomini4

Povero derelitto;

Là in mezzo ai miserabili

Solo conforto avrò,

Che vado per precedervi

E là v’aspetterò.

Poco mancò lo scherzo non fosse prologo alla tragedia. Ci volle la rivoluzione del ‘59 affinchè il vaticinio non si avverasse, se non per il profeta, per altri che sedevano intorno alla tavola da gioco con lui. La guerra strappandoli all’ambiente viziato salvò alcuni ufficiali che stavano sull’orlo del precipizio; il figlio ed erede di un ricco banchiere israelita, che tra quella triste congrega aveva dato fondo a tutto il suo e s’avviava al suicidio, s’arrolò volontario e ritrovò nell’esercito le ragioni del vivere e la dignità della vita. Il Lorenzini, nominato dal Governo della Toscana censore teatrale, sia che temesse di essere lui censurato, sia, e più piace di crederlo, che i nuovi tempi lungamente fervidamente agognati gli persuadessero norme e consuetudini nuove, le carte non le toccò più; e destatosi più tardi alla impreveduta vocazione di gaio educatore, accoppiò il nome del paesello natale Collodi a quel di Pinocchio e li fece ambedue cari ai ragazzi d’Italia, che tuttora onorano con affetto la memoria di lui.

*

Per tornare a’ giornali — poichè queste mie tiritere s’intitolano Confessioni e Ricordi — debbo ricordare e confessare, come, quando, in quale congiuntura io mi imbrancassi fra gli scrittori di que’ fogli. Temerari, scervellatissimi inizi i quali, correndo quest’anno di grazia 1921, mi danno diritto a vantarmi il decano dei giornalisti italiani; poichè non credo viva ancora fra noi chi abbia pubblicato un articolo, avanti il 12 marzo 1856. — In quel giorno appunto per la mia prima contaminazione gemerono i torchi. Io ne gemo tuttora.

*

Il solito Cesare Tellini aveva per la seconda o terza volta preso a pubblicare un de’ soliti giornali settimanali, quella volta «umoristico»: La Lente. Lo fondò, come oggi si dice, sperando di trarne guadagno; ma la speranza fallì ed io lo udii spesso rammaricare che gli abbonamenti e la vendita alla spicciolata bastassero appunto appunto a pareggiare le spese. Anni prima, quando vide che il Genio non attecchiva, si rassegnò e si arrese. Nel ‘56 si ostinò; ribelle incorreggibile null’altro per allora potendo, la natura del giornaletto gli dava modo di punzecchiare ogni tanto i «Superiori», di far ridere ogni tanto la gente alle spalle loro, ciò che avrebbe forse condotto in seguito la Lente a migliori fortune.

Se non che, per punzecchiare i «Superiori» e far ridere alle loro spalle, bisognava lavorare di fino, con astuzia; badando a non incappare nelle branche del Ministro dell’interno che poteva ad arbitrio decretare sospensioni, e perfino sopprimere senza render conto a nessuno.

Alle necessarie agili scaltrezze il Tellini scrittore rozzo e sciamannato era adatto come l’orso a ballare; egli stesso se ne sapeva incapace; si fornì di un collaboratore: un tale avvocato X…. ex-pretore, di recente licenziato a cagione di alcune marachelle inconciliabili con la magistratura.

Era uomo d’ ingegno, e se non seppe mettere d’accordo le marachelle e l’impiego, seppe di tanto in tanto architettare la beffa ed evitare il castigo. Oggi chi leggesse quegli articoli que’ dialoghi vernacoli, quelle novellette tenterebbe invano di conoscere dove la malizia si nascondesse; io stesso oggi rileggendo, nove volte su dieci non mi ci raccapezzo; ma allora il pubblico, educatosi via via ai sottintesi, ai gerghi alle allusioni velate, intuiva, capiva, si divertiva.

Bisogna bensì avvertire che il castigo non si aveva gran voglia di infliggerlo. Anche il Ministro dell’interno capiva, educatosi via via ai gerghi e ai sottintesi anche lui; e qualche anno prima, le cose sarebbero andate altrimenti. Ma nel ’56, partiti gli Austriaci, dai quali forse temeva taccia di debolezza, il governo in materia di stampa era tornato al vecchio sistema, al tradizionale «lasciar correre». Punire sì, ove si trattasse di cosa grave, di manifesta offesa alla legge; ma non star tutto il giorno con la spada donchisciottescamente sguainata e aver l’aria di paventare catastrofi, ora per un sonetto alla libertà, ora perchè un fogliucolo metteva in canzonella un ministro. In sostanza tapparsi le orecchie, chiudere gli occhi, far finta di non udire e di non vedere. Gara quindi di circospezioni: lo scrittore ogni cura per non scoprirsi, ogni cura il Prefetto per non scoprire.

Nell’agosto di quell’anno ‘56 il Monitore, giornale ufficiale del granducato, annunziò che una vecchia moneta, - il testone - sarebbe entro certo termine tolta di corso.

E La Lente parodiando il verso manzoniano

I Testoni hanno ucciso i testoni,

questa orrenda navetta vi dò;

e continuava esponendo come «il buon toscano assuefatto a trovare testoni dappertutto, in piazza, sui mercati, nei pubblici uffici, a veder sempre in casa sua contare i testoni,» non poteva non meravigliare del decreto che li uccideva. Qui l’impertinenza per lo meno era chiara; ma, furbescamente espressa, non uno dei Testoni omicidi se ne curò.

In seguito furono anche più arditi. Piero Puccioni che scriveva or nell’uno or nell’altro di quei giornali, e di critica drammatica nello Spettatore col pseudonimo di Virginio Angeli, raccontò non so più se nello Scaramuccia o nella Lanterna la storia di un tale che stimato e amato da’ concittadini, preso un giorno dalla stizza, se ne andò dal paese: sollecitato, pregato dagli amici vi ritornò; ma laddove si sperava ch’ei vi tornasse, quale fu già, buono e generoso, e riconcedesse alle amichevoli conversazioni le camere un tempo ospitali, egli dimentico o dispregiatore di quella nuova testimonianza di affetto, sbacchiò le porte in faccia agli amici, riaprì nella propria casa una macelleria della quale il nonno s’era saggiamente disfatto; e, sentendosi mal visto per quegli atti villani e per l’animo ingrato, chiamò dal di fuori gente a guardargli le costole e a guarentirgli il domicilio.

Tutti indovinarono (nè era arduo l’indovinare) che quel tale era il granduca Leopoldo, il quale lasciata nel ‘49 la Toscana per non firmare la legge su la Costituente, richiamatovi nell’aprile dal popolo, anzi che tener fede allo statuto licenziò le Camere, ristabilì la pena di morte abolita dal suo grande avo il primo Leopoldo, e invocò le truppe austriache a custodia e difesa del trono. Tutti indovinarono: in Prefettura non se ne dettero per intesi. Fintanto insomma che i giornali stettero contenti ai giochi di parole e alle allusioni, se anche trasparenti, bene quidem; i Superiori tennero chiusi gli occhi e le orecchie tappate; ma quando il Passatempo senza ricorrere alle amfibologie e alle allegorie, ricordato che il libro del Beccaria potè stamparsi la prima volta a Livorno nel 1764 e che una legge granducale del 1786 sanzionò quelle dottrine, soggiunse: che il popolo toscano, lungi dall’approvare il ripristinamento della pena di morte, ne rimase attonito e addolorato; oh! allora le orecchie si apersero, gli occhi si spalancarono e il Prefetto di Firenze appioppò al Passatempo una sospensione di tre settimane....

M’accorgo di essere uscito di carreggiata: così avviene spesso a’ vecchi che raccontano. Un ricordo tira l’altro.... Basta: torniamo alla Lente.

*

Era di piccolo formato. Trenta centimetri di altezza per venti di larghezza; un terzo della prima pagina occupato dal titolo, più che un terzo in un’altra dalla caricatura. Ciò nondimeno s’arrivava spesso al giorno della pubblicazione e i torchi gemevano sì, ma per l’insufficienza dell’alimento. Il Tellini, affaccendato di continuo in meno sterili negozi, lasciava che la penna disadorna irrugginisse; l’ex-pretore sciorinava in ogni numero un paio d’articoletti, tuttavia non poteva egli solo annerire le pagine tutte quante. Briose corrispondenze mandava da Livorno Pietro Coccoluto Ferrigni (Yorich) e già in quelle si prometteva tale quale fu poi, il più garbatamente arguto de’ giornalisti toscani del tempo suo. David Ruben Segrè (Pietro da Possano), morto or è poco redattore della Gazzetta ufficiale, mandava da Lucca romanzetti sbrodolati in centinaia di capitoli di quattro o cinque righe ciascuno; ma e il Ferrigni e il Segrè scrivevano quando ne veniva loro la voglia, secondo l’estro e l’umore: sì che sul loro ajuto a giorno fisso non era da fare assegnamento. Così stando le cose è facile pensare con quanta esultazione, nel bugigattolo semibuio contiguo alla tipografia, in cui modestamente si annidavano la direzione e l’amministrazione del giornale, con quanta esultazione fosse accolto chiunque capitasse con uno straccio di «originale». E lì in quel bugigattolo, incoraggito, sto per dire istigato dal Tellini, mi arrischiai a deporre le mie primaticce elucubrazioni.

L’articolo comparve.

Lo avevo firmato Scacciapensieri. Mi sono già punito della balorda vanità, raccontando altrove come tutto quel giorno io portassi a zonzo per Firenze il numero del giornale mezzo dentro, mezzo fuori dalla tasca sul davanti del petto, con la speranza che qualche amico me lo chiedesse e imparasse che Scacciapensieri ero io. Non mi ripeterò. A quel primo articolo, succederono subito un secondo ed un terzo; deplorai la morte di una letterata di cui non avevo letto una linea, di un musicista di cui non conoscevo una nota, vaticinai splendida la carriera di uno stenterello esordiente. Così, preso l’aire, portai le mie insulsaggini all’Eco dei Teatri, all’Indicatore, al Carlo Goldoni, allo Scaramuccia, in ognuno di quei fogli celandomi dietro sigle e nomi diversi quel tanto (o Galatea!) che non impedisse di riconoscermi agevolmente: Martino, F. M. Ugo Da Renatico.

L’Eco dei Teatri aveva la propria sede nella piazza San Martino in faccia alle case degli Alighieri. Con quali ascosi propositi Edoardo della Nave lo pubblicasse, non fu mai saputo, o possibile intendere. E non metterebbe conto di parlarne se un aneddoto non dicesse, come meglio non si potrebbe altrimenti, quale e quanto stentata e miserevole vita conducessero alcuni di quei giornali.

Nella sua maggior floridezza l’Eco non ebbe mai più di un centinaio di abbonati, che pagavano quando se ne ricordavano ed erano quasi tutti di labile memoria. Il Della Nave, salvo qualche rara e breve cronachetta degli spettacoli fiorentini non vi scriveva, pago del dirigerlo ed amministrarlo; cure non affannose. Unico ufficio della Direzione: prendere non leggere e mandare in stamperia ciò che il caso o l’altrui buon volere largissero; unico ufficio dell’Amministrazione: non pagare il tipografo.

Il quale secondo ufficio troppo assiduamente esercitato fu cagione di guai, facili del resto a prevedere. Il tipografo longanime divenuto a un tratto impaziente, un giovedì, giorno nel quale l’Eco si pubblicava, venne a proporre questo dilemma: o gli pagavano il conto o il giornale non si stampava. Scena per me indimenticabile. Il tipografo accipigliato, arcigno, il Della Nave sereno, affabile; aspetto ed atteggiamento quali si confacevano alle sue sembianze di cherubino trentacinquenne: faccia rosea incorniciata dalla chioma bionda è ricciuta, oro solcato da qualche filo d’argento.

Che cosa non fece per scongiurare la minaccia? Parlò, parlò, parlò, promise, pregò; e l’altro zitto, salvo a interrompere di quando in quando la parlantina con brevi recise parole che distruggevano l’effetto del discorso e costringevano il Della Nave a ricorrere a un altro ordine di argomentazioni,

— Sospendere il giornale ora.... proprio ora sul finire dell’anno quando stanno per rinnovarsi gli abbonamenti. Per poche lire....

— Seicento.

— Se per un momentaneo disappunto non si può pagar oggi, è questione di pochi giorni.

— Son tre mesi che me lo dice. —

Ricorse alla mozione degli affetti.

— Siamo vecchi clienti, anzi vecchi amici che hanno lavorato insieme....

— Se non si riscuote, meglio non lavorare. —

Vano il discutere, vano il pregare, vano, perchè abusato, il promettere, il Della Nave troncò risoluto il dibattito.

— Amico mio, non si può, e quando non si può non si può. Ad impossibilia nemo tenetur dissero i latini. La plus Jolie fille du monde ne peut donuer que ce qu’elle a - dicono i francesi.

Il tipografo irritato era già: credendosi ora preso a gioco uscì dai gangheri: alle sentenze poliglotte rispose con la saporita schiettezza del parlar fiorentino e chiamata in testimone la Divinità, giurò che non avrebbe mosso il torchio se i conti non fossero pari.

E mantenne la parola. L’Eco si pubblicò con la data di quel giovedì.... due settimane più tardi.

Io rimasi male: e perchè quel numero conteneva un mio articolo, altra pietra per il tempio della mia gloria che così tardava ad edificarsi; e perchè non vedevo per l’Eco via di salvezza. Mi arrischiai a domandare:

— E ora?

— Che cosa?

— Per il tipografo....

— Ah! i danari si troveranno.

— Dove?

— E chi lo sa? si troveranno. Fede, caro mio, fede ci vuole

Fede sustanza di cose sperate

Et argumento delle non parventi

come dice quello là. —

«Quello là» era Dante Alighieri. Come vicino di casa, il Della Nave credeva poterlo indicare confidenzialmente così.

*

Poichè delle mie temerità dissi gli esordi, dirò anche la fine, fortunatamente sciaguratissima.

Ho nominato il Passatempo: fu il giornale di Pietro Fanfani e di Zanobi Bicchierai. Questi, bravo uomo e linguaiolo implacabile annunziò nel primo numero i propri intendimenti.

Veniva per combattere: scendeva in campo contro ai «confratelli» che guastavano le teste e straziavano la lingua nazionale. Scendeva con armi bene affilate avendo, cioè, «alla mano buona e abbondante materia per temperare le stravaganze degli scrittorelli prosuntuosi».

Fedele al proposito, ogni settimana nella Rassegna dei giornali fiorentini, rimbeccava questo e quello, a chi le dava, a chi le prometteva; e, rastrellata nei miseri fogli gran copia di neologismi e gallicismi, li sciorinava scandalizzato innanzi ai lettori, recitando rabbiosetti esorcismi contro quei diabolici «documenti della nuova barbarie».

Di insulsaggini espresse con adeguata dovizia di gallicismi e di neologismi l’Eco de’ Teatri non difettava. L’Eco de’ Goti lo chiamava il Passatempo. Il quale dapprima acerbamente severo con Martino e con Ugo Da Renatico, si fece poi con quel duo in carne una meglio che indulgente, benevolo.

«Martino censura argutamente una canzone di Paolo Garelli», «Martino esamina con sano criterio un romanzo di Cletto Arrighi».

Finalmente un giorno: «Questo numero dello Scaramuccia è d’una meschinità intollerabile, non contenendo nessuno dei giudiziosi scritti letterari d’Ugo Da Renatico, pietra angolare di quel giornale».

.... medio de fonte leporum

Surgit amari aliquid....

Ciò che non m’aveva ancora insegnato Lucrezio, il Passatempo me lo insegnò.

La musa feconda di Giuseppe Pieri, un de’ poeti che ebbi commensali alla Lira, gli dettò in un paio di mesi cento sonetti: ed egli, raccolti in un bel volumetto, li pubblicò, verdeggiando sul colle fiesolano la primavera del 1858.

Al Filicaia bastò un sonetto per andare alla posterità; tanta fortuna il Pieri non la sperò: ma neanche temè quanto gli avvenne. Al Passatempo non uno dei cento parve meritevole di esame: sentenziò che «a que’ cosi di 14 versi» tanto conveniva il nome di sonetto quanto a un cieco quello d’astronomo; e per mitigare al poeta l’amarezza di quel giudizio con qualche amorevole consiglio, lo esortò a fortificarsi nella grammatica e nella sintassi.

Misericordia! Il Pieri così sbertucciato ricorse a me per aiuto. Pregò, supplicò ch’io pigliassi la penna e rintuzzassi il critico malevogliente.

Già le lodi largitemi avevano solleticato la mia vanagloria: quella fervida invocazione di patrocinio mi fece addirittura montare in superbia. Stesse tranquillo l’amico: avrei fatte le sue vendette, avrei dato pan per focaccia.

Ruminai una settimana. Lo impancarmi a discutere con gente addottrinata, e ragionare di concetti, di forma, di proprietà, non era affare per me che a quelle parole non avrei neppure saputo dare un significato preciso. Non potendo discutere, bravai, rodomonteggiai: aggredii gli «scribacchiatori risibili e stolti che si dilettano nell’avvilire i giovani ingegni;» mi scagliai contro alla «critica livida e astiosa;» la quale da «meschina palestra di scaramucce da trivio», si mutò poi sotto gli impeti della penna fremente in «vipera traditrice che colpisce all’oscuro» e da ultimo in «vento del deserto che soffoca e seppellisce nelle aride sabbie la carovana».

Esaurita la peregrina varietà delle immagini, mi mantellai di burbanza e lasciai intendere che ove si replicasse, più gravi ferite sanguinerebbero nel nuovo conflitto!

La replica venne. Questa:

«Allo scritto La Critica e i sonetti di Giuseppe Pieri di Ugo da Renatico si risponde più avanti: intanto diretto al Sor Ugo: Non avendo ancor messi tutti i denti non potete mordere: e come cucciolo che siete, con un passavia siamo liberati dalle vostre rabbiuzze».

Trasecolai; e non so se fosse in me maggiore lo stordimento o la pena. Come? Quell’ io che censurai argutamente, che esaminai con sano criterio, quell’io pietra angolare...?

Non ebbi che a voltar pagina per trovar risposta anche alle mie stupefatte interrogazioni.

«Che andate voi balbettando di scribacchiatori risibili e stolti? E chi siete voi? E dite quelle cose al Passatempo, voi che rinveniste sempre nelle nostre rassegne una pietosa gentilezza. voi che abbiamo tante volte risparmiato, confidando che uscireste un po’ meno sconcio dalla puerizia in letteratura».

Seguiva uno squarcio della mia prosa a documento della mia «ignoranza» e della mia «prosunzione».

Ah! che brutta giornata! Non uscii quella volta a pavoneggiarmi per le vie di Firenze col numero dello Scaramuccia mezzo dentro mezzo fuori dalla tasca sul davanti del petto. Mi pareva che tutti avessero letto il Passatempo, e tutti mi conoscessero. Se m’imbattevo in alcuno che ridesse, quegli rideva di me. Brutta giornata, ma salutare altrettanto.

La mortificazione mi veniva da tale che, se anche un po’ troppo schizzinoso in materia di lingua, era tenuto ed era veramente uomo di buon giudizio e di soda coltura. Ragazzo svagato, non si poteva nè credere nè sperare che per quel primo rabbuffo io mutassi da un’ora all’altra tenore; ma n’ebbi argomento a riflettere, e dalle riflessioni nacquero in seguito i pentimenti alla lor volta non sterili; e lo scrupoloso rispetto del pubblico e l’odio per il «presso a poco» il frettoloso, il volontariamente negletto. Mentr’io su la pagina, che tutto un giorno mi tenne inchiodato al lavoro, ancora mi affatico e mi logoro, l’ombra del buon Bicchierai tuttavia mi sorveglia e mi sprona.



XII.

Le mie prigioni.

Nell’estate del 1858 venne a Firenze la Laura Bon.... Laura Bon.... Chi è costei? domanderanno parecchi, udendo per la prima volta quel nome. Potrei soggiungere «figlia di Francesco Augusto», ma non basta, e forse non giova; temo che oramai un medesimo oblìo avvolga la figliola ed il padre. Per farla conoscere, ricorrerò ad un maresciallo austriaco, il cui nome non dovrebbe essere ancora in Italia dimenticato.

In un libro del Friedjung - Benedek’s nachgelassene Papiers - libro che certamente non ebbe molti lettori fra noi - è un curioso documento: una lettera che il feld-maresciallo Benedek, comandante la piazza di Verona, mandava a Vienna, al Conte di Crenneville il 26 febbraio 1864. Ne riferisco tradotta una parte (pag. 329-332).

«Caro e molto importunato amico,

«L’attrice italiana Laura Bon, alta grossa, di fisonomia non troppo attraente, ma che nonostante i suoi trentacinque anni, pochi più pochi meno, può ancora dirsi un «bel pezzo di donna», pare voglia seguire l’esempio della Ristori; e però si propone recitare sui teatri di Vienna. Saputo ch’io partivo per Vienna, venne a pregarmi di prepararle il terreno colà; tornato io a Verona, tornò lei da me per consigliarsi, per sapere se quel suo proposito poteva, sì o no, essere mandato ad effetto con speranza di buon successo. Le risposi che, poco pratico del mondo teatrale, non m’era riuscito raccogliere notizie sufficienti; a ogni modo, s’ ella volesse conoscerla, la mia opinione era questa: per la musica, per l’opera italiana Vienna ottima piazza: non altrettanto buona per la commedia, perchè v’è troppo esiguo il numero delle persone che sappiano la lingua e una compagnia comica correrebbe rischio di recitare alle panche.

«La signora partì per Torino. Giorni sono, rieccola a Verona e a chiedermi con insistenza un colloquio. La ricevei, ed essa mi affermò essere mandata dal re Vittorio Emanuele a portarmi il suo ritratto in fotografia e i suoi saluti; soggiunse che aveva da farmi in tutta segretezza una ambasciata.

«È necessario tu sappia che la Bon nella sua prima gioventù fu in affettuosissima relazione con Vittorio Emanuele, allora principe ereditario; con l’andare degli anni, l’amante d’un tempo divenne la buona amica, che in memoria dei giorni lieti, porta con ostentazione una broche, nella quale è racchiusa l’effigie di Sua Maestà.

«Cominciò dal raccontarmi che il Re, saputo come la compagnia piemontese ottenesse qui il favore del pubblico e la stessa Bon fosse da me garbatamente accolta, pensò di affidare all’antica innamorata una missione diplomatica. Bisognava, primo punto, io le credessi: ed ella, a persuadermi della verità di quanto asseriva, mi narrò una quantità di particolari: ricordò che a Mortara io tentai far prigione il Duca di Savoia, ma non riuscii se non ad afferrare le briglie del suo cavallo, ecc., ecc.: ripetè frasi complimentose dette dal Re sul conto mio e finalmente buttò fuori la parte, imparata, come dice lei, faticosamente a memoria

«In sostanza il Re ha il vivo desiderio di stringersi in alleanza con l’Austria, e ottenere, a tempo opportuno, la Venezia mediante compensi da determinarsi. Mi faceva domandare se ero disposto a riferire all’Imperatore le sue opinioni e le sue proposte e ad assumere l’ufficio di intermediario. Tutto ciò esposto dall’attrice con elegante vivacità di parola.

«Giunse anche per me la volta dei complimenti: lodai le sue attitudini alla diplomazia, la sua voce, i suoi denti bellissimi, e risposi: che io, cara signora, la creda, o no, in facoltà di dirmi quanto m’ha detto, è cosa che poco importa; le faccio soltanto osservare che se un generale piemontese s’impegnasse a fare ciò che mi si propone, tutti, compreso il re Vittorio Emanuele, direbbero: «Costui è un imbecille, anzi un asino».

«La signora ascoltò la risposta con la «buona grazia» e la disinvoltura propria d’un’ italiana e si accomiatò, chiedendomi una commendatizia per il direttore del teatro di Vienna. Volli dimostrarmele ancora cortese; le detti una lettera di cui ti acchiudo la copia, per il barone Mecseny, e l’ indirizzo del consigliere Lewinsky, direttore della stampa al Ministero, che conobbi molti anni sono durante il mio soggiorno in Galizia. Giudica tu quanto del colloquio sia opportuno far noto al Ministro di Polizia».

*

Fatta la conoscenza, riprendiamo il racconto.

La Bon venne dunque nel 1858 a Firenze, e dette al Teatro Nuovo, oggi demolito, alcune rappresentazioni. Quantunque non ancora distratta dai negoziati internazionali, recitava piuttosto male; con enfasi monotona, fatta più noiosa da un continuo gesticolare; ciò nonostante gli applausi scrosciavano; credo nessuna attrice ne ottenesse mai de’ più caldi, meritandoli meno. Se non che, gli applausi non andavano a lei, ma a quello spillo che sei anni dopo dava nell’occhio al maresciallo Benedek: alla miniatura di un Vittorio Emanuele biondo ricciuto paffuto, che spiccava ora sulla tunica di Clitennestra, ora sul manto di Maria Stuarda.

Di fresco aveva ottenuto successo felicissimo sui teatri di Francia e d’ Italia, mercè la Ristori, una mediocre Medea del Legouvé: venne in mente alla Bon di esumare la Medea del Niccolini. Figuratevi! una tragedia dell’autore del Procida, recitata da un’attrice protetta, anzi benvoluta dal Re di Sardegna! Ai liberali, auspice Vincenzo Salvagnoli, parve quella la più favorevole delle congiunture, per una delle tante manifestazioni allegoriche che piacevano ai toscani d’allora e le quali, pur intese a significare moltissime cose l’una più sovversiva dell’altra, permettevano al governo scansafatiche di far le viste che nulla fosse.

Da anni, il Niccolini non usciva di casa se non per fare una trottata in carrozza chiusa ne’ viali delle Cascine. Dico «trottata» perchè così usa a Firenze, dove fa una «trottata» chiunque si lascia strascicare per diporto in carrozza, anche se i cavalli vanno di passo; e a passo di lumaca andava quello del Niccolini, coetaneo, credo, del cocchiere, del cocchio e del poeta, tutti venuti al mondo sullo scorcio del secolo decimottavo. Mi ricordo averlo veduto il Niccolini la prima volta, poco innanzi che avvenissero i fatti i quali sto per raccontare. Di lui, sebbene già si stampasse su’ giornali la mia prosa barbara e pretensiosa, avevo forse letto una lirica o due; ma i vecchi lo dicevano grande autor tragico e bastava perch’io lo ammirassi. Allora, a diciassette anni, non si provava il prurito che assilla oggi gli adolescenti di dir sempre bianco quando i vecchi dicono nero e viceversa; si giurava in verba magistri. Eccesso per eccesso, meglio gli spropositi, la presunzione, le avventatezze; sono difetti dei quali col tempo e lo studio si guarisce; ma quell’assuefarsi ad accogliere le opinioni belle e fatte, quel vestire, sia pure senza volerlo, la infingardaggine da reverenza, disavvezza dal pensare, impigrisce talmente lo spirito che a scoterlo poi ci vogliono anni e anni e non sempre ci si riesce. Dunque il Niccolini, a detta de’ vecchi, era un grand’ uomo ed io smaniavo di vedere come fosse fatto l’autore di tante opere stupende, che nessuno mi aveva posto fra mano ed io mi ero senza rammarico astenuto da leggere. Un giorno, passando da via Larga, veggo muovere faticosamente una bastardella (così chiamavano certe carrozze chiuse di forma particolare), e da un crocchio sento uscir queste parole: «Ecco il Niccolini che va alle Cascine!»

Augusto Barbier raccontò d’aver fatto di corsa a Napoli tutta la via Toledo per raggiungere la calèche di Walter Scott; io feci più lungo tragitto; e di carriera, infilando strade e vicoli, esperto delle scorciatoie, arrivai alle Cascine prima della carrozza.

Me lo figuravo, a dire il vero, molto diverso. Basso di statura, rinfagottato in una palandrana color marrone, con una parrucca che gli calava sotto gli orecchi e un cappello a cencio che copriva gli estremi lembi della parrucca, il Niccolini, a chi non poteva mirarne lo sguardo, sfavillante sempre, pareva un potestà riposato che svernasse alla capitale.

Invitato ad andare al Teatro Nuovo, rispose da principio e brusco un bel no; ma gli altri, senza sgomentarsi, tanto fecero, tanta gente misero in moto, che riuscirono a vincere la repugnanza del vecchio poeta e a condurlo alla quarta o quinta replica della Medea, in un palco del primo ordine, a destra della bocca d’opera. Avvenimento così solenne, che mio padre permise io andassi al teatro senz’ altra accompagnatura che quella d’un amico, il quale aveva la stessa età mia: non ancora diciassette anni.

*

Della gente infanatichita ne ho vista più volte in vita mia, ma non come in quella sera. La tragedia, sto per dire, non fu neanche ascoltata; il pubblico la sapeva oramai a mente e rompeva in applausi a un verso, a un emistichio, prima ancora che uscisse dalle labbra degli attori. Io che non avevo letto la Medea ne capii poco o nulla; e perchè era difficile l’attenzione tra quel continuo frastuono di battimani e di grida, e perchè sulle prime mi distrassero le meravigliose braccia della Laura, le prime belle braccia femminili che io, cùpido adolescente, avessi agio di contemplare.

Così s’andò fino al termine del quarto atto. Nell’intervallo dal quarto al quinto, quella che poteva apparire onoranza al poeta si mutò in una vera e propria manifestazione politica. Cominciò una contessa Bobrinska, vecchia russa dimorante a Firenze, a buttare in platea da un palco del second’ordine manciate di fogliolini, con su stampata questa invocazione:

Sorgesti con la Medea

Tramonterai con l’Arnaldo?

L’Italia anco nelle tenebre

Aspetta un tuo raggio

Il Mario

Roba innocua; ma fogliolini s’eran buttati undici o dodici anni innanzi nella platea della Pergola, per chiedere al Granduca non so più se la guardia civica o la costituzione. La gente ricondotta col pensiero a que’ tempi s’infiammò; fino allora s’era gridato «Viva il Niccolini;» da quel punto si gridò «Viva il poeta italiano», poi con abile trapasso «Viva la gloria d’Italia», finalmente, senza tante cautele, «Viva l’Italia».

Una volta preso l’aire, non fu più possibile fermarsi. Giuseppe Bandi (che perdè quella sera l’occasione di farsi mettere in carcere, ma, come succede agli uomini di buona volontà, la ritrovò di lì a poco) distribuì stampato un suo carme in isciolti, nelle forme esteriori un inno al Niccolini, nella sostanza un inno alla libertà; ed egli stesso ne offrì al poeta una copia in carta bianca rossa e verde. Perchè questo mi scordavo: che l’illustre vecchio non fu lasciato in pace un minuto; nel suo palco un continuo andirivieni di persone che gli s’accalcavano intorno, e

Chi il piè chi il manto di baciar godea,

come alla Giuditta dello Zappi. Rammento che mentr’ io ficcavo il capo fra le gambe del Bandi per chiappare una mano del Niccolini, il Biadi, mio compagno, gli copriva di baci la parrucca; e il Niccolini, infastidito da quelle espansioni, brontolava: basta, via, grazie, basta.

Intanto un tale scorge al terzo ordine la improvvisatrice famosa a que’ giorni e grida: «C’è la Milli!» Fu come dar fuoco a una polveriera: subito, e da ogni parte: «la Milli, la Milli, giù, giù, versi, versi, giù, giù». Inutilmente la povera donna si rincantucciò; l’andarono a prendere e la portarono quasi di peso sulla scena e vollero improvvisasse un sonetto con rime date dagli spettatori. O caso o malizia, la prima di quelle rime fu amore; poi via via le altre e ogni rima un applauso. Mancava una rima in ore a compiere la seconda quartina; una voce (nè si capì donde partisse) urlò: tricolore. Succede un silenzio di tomba. L’avvocato Leopoldo Cempini, un de’ caporioni del partito liberale e che era vicino a me ne’ posti distinti, borbottò: «addio»; quasi, arrivate le cose a quel punto, temesse inevitabile l’intervento della polizia. Ma nessuno si mosse; oramai la rima era data e a mutarla si sarebbe fatto peggio; d’altra parte «tricolore» non è tale epiteto che si possa appiccicare a molti sostantivi; di guisa che la Milli, regnante in Toscana Leopoldo II e sedente Pio IX sulla cattedra di San Pietro, salutò in pubblico teatro innanzi a parecchie centinaia di persone la bandiera nazionale, presenti, accettanti e stipulanti i poliziotti di S. E. il commendatore Leonida Landucci, ministro dell’ interno; se l’avesse fatto a Roma, sarebbe andata a improvvisare le terzine a Civita Castellana, se a Modena, le avrebbero mozzato d’un colpo solo il sonetto e la testa. Ma nè a Roma nè a Modena si sarebbe permessa quella recita; in Toscana il governo non soltanto la consentì, ma dette ordine ai sottoposti di lasciar correre.

E così fu fatto. Dopo il «tricolore» parve bensì ai poliziotti troppo meschina figura lo star lì piantati con le mani in mano; chiesero istruzioni ed ebbero questa risposta: provvedessero affinchè non oltre si trasmodasse e, all’occorrenza, arrestassero i più esaltati.

Ma ormai la festa era finita, l’intento raggiunto anzi oltrepassato; sfidata la polizia con la temerità, giovava ora canzonarla con la prudenza. Difatti durante il quinto atto applausi strepitosi all’autore e all’attrice, non una sillaba che desse argomento a richiami.

*

Il Niccolini uscì per un androne che dava sulla piazza del Duomo, ove s’era adunata per accompagnarlo a casa gran folla. Chi gridava «Viva l’autore della Polissena», chi «Viva l’autore del Foscarini»: le perifrasi pericolose le avevano, indettati, messe da parte. Mi meravigliavo che nessuno ricordasse l’Arnaldo da Brescia. Notiamo bene: avevo fatto i miei studi in un istituto nel quale l’insegnamento della storia cominciava con Agamennone e finiva con Carlo Magno; dove poteva tenersi dotto nella letteratura italiana chi avesse a memoria il canto d’Ugolino e lardellasse i componimenti di frasi racimolate nel Galateo di monsignor Della Casa. Arnaldo da Brescia non sapevo chi fosse: lo credevo un feudatario; nondimeno sapevo ciò che a Firenze non era possibile ignorare, cioè che l’Arnaldo si stimava universalmente il capolavoro del poeta.

Confidai al Biadi, quello della parrucca, e che già mio condiscepolo era colto come me, la intenzione di far l’erudito e di urlare «Viva l’autore dell’Arnaldo». La trovata parve naturalmente stupenda anche a lui, e mentre il Niccolini montava in carrozza, prese insieme le mosse, insieme cacciammo il grido funesto.

Non avevamo fatto più di dieci passi l’uno a braccetto dell’altro, quando una mano poderosa piombò sulla nuca del Biadi. Fermatosi lui, fui costretto a fermarmi anch’io. Mi volto e veggo un ufficiale de’ gendarmi.

— Che c’è?

— C’è che lor signori faranno il piacere di venir con me.

— Dove? perchè?

— Il dove e il perchè lo sapranno poi. Ve Io voglio dar io, l’Arnaldo, monelli.... —

E soggiunse non so più quale aggettivo onde il mio compagno si sentì offeso; e volgendosi con molta dignità:

— Badi come tratta, — disse.

— Se tu rifiati, — replicò l’altro, — ti do uno scapaccione che il muro te ne renda due. —

Ci persuademmo subito che l’animo di quell’uomo era chiuso alla serenità delle disquisizioni pacate e procedemmo con lui verso il Palazzo non finito, dove, un trecento passi distante, aveva sede la Prefettura. Noi zitti. L’ufficiale mugolava.

— L’avrebbero a fare a me! Lascia correre, lascia correre, se n’avvedranno loro quei.... (e qui un altro aggettivo sostantivato, vera mancanza di rispetto ai superiori). Si canzona! quattr’ore di questo fracasso.... se mi davano carta bianca ne impiccavo uno per quinta.... Pur di dar noia non vanno a scavar questo vecchio...? (terzo aggettivo e mancanza di rispetto al Niccolini).

Arrivati alla prefettura ci fece salire al primo piano, domandò i nostri nomi, notizie della famiglia e ci piantò al buio. Tornò di lì a poco per condurci in un bel salotto che suppongo fosse il salotto di ricevimento del commendatore Petri, prefetto di Firenze e provincia. E se ne riandò.

*

Era di luglio e dalle finestre spalancate entrava un fresco deliziosissimo. Per carcerati non si stava male; nondimeno avremmo preferito essere altrove; ci angustiava il pensiero che i nostri non vedendoci tornare potevano immaginare qualche brutto caso, o, a meglio dire, qualche caso più brutto, che il trovarsi lì non era, in ultima analisi, un divertimento. Anche ci angustiava l’incertezza della nostra sorte: che un castigo dovesse toccarci pareva sicuro: quale? Per giunta avevamo sete ambedue, il mio compagno d’acqua gelata, io di dottrina. Volevo sapere che cosa avesse fatto quell’Arnaldo da Brescia, che a nominarlo soltanto si finiva in prefettura.

Passa un’ora, due, tre, non si vede nessuno; m’ero appisolato da poco sopra un bel canapè coperto di raso verde a righe alternativamente opache e lucide, quando entrò nella stanza (saranno state le cinque) il prefetto in persona: un vecchietto piccolo, asciutto, pallido, lindo.

E qui il dialogo merita d’essere trascritto tal quale m’è, dopo tanti anni, nella memoria, genuino e vivo come se di ieri sera.

Il Prefetto. - Buon giorno a loro.

Noi due insieme. - Felice giorno, signor commendatore.

Il Prefetto - (leggendo in un foglietto). Loro si chiamano?

Io. - Ferdinando Martini.

Quell’altro. - Michele Biadi.

Il Prefetto. - Lo sanno perchè son qui?

Io. - No signore.

Il Prefetto. - Come no signore? Non facciano il nesci. Non hanno gridato ieri sera?

Io (smanioso di far l’erudito). Viva l’autore dell’Arnaldo da Brescia.

Il Prefetto. - Ah! dunque loro leggono l’Arnaldo?

A dir di sì, rischiavamo una bugia pericolosa, a dir di no ci si faceva canzonare; per conseguenza, zitti.

Il Prefetto (seguitando). - E chi glielo ha dato a leggere? Il babbo no di certo; son figli di persone rispettabili.... Qualche amico, già s’intende. Ci ho dato eh? Un amico?... Facciano grazia di rispondere.

Rispondere che? Il Biadi fece un cenno affermativo col capo.

Il Prefetto. - Ah! lo dicevo io.... E chi è questo amico?

La cosa si faceva seria; non potevamo inventare un complice. Per buona sorte il prefetto mutò discorso.

Il Prefetto. - Ma, domando io, che cosa ci trovano di bello nell’Arnaldo? L’Italia eh? la solita Italia! E poi? Ah! ragazzi senza giudizio, vi par egli questo il modo di contenersi? Pigliar parte ai subbugli, dar dei dispiaceri alle famiglie.... E se vi facessi mettere in prigione?

Pausa. - Il prefetto ci guardava per veder l’effetto che ci faceva quella minaccia. Noi sostenevamo lo sguardo imperterriti, sicurissimi, per il modo onde era fatta, che in prigione non ci si andava.

Il Prefetto. - Se almeno vi riscaldaste per qualche cosa che ne mettesse il conto! ma per il Niccolini!... Italia Italia Italia, e nient’altro. E con tutta la sua Italia non è mai riuscito a fare un sonetto come quello del bisnonno. Ve ne ricordate?

Nè te vedrei del non tuo ferro cinta....

Noi insieme (felicissimi di poter fare finalmente gli eruditi).

Pugnar col braccio di straniere genti

Per servir sempre, vincitrice o vinta.

Il Prefetto. - Sicuro. Per servir sempre, vincitrice o vinta. Questi son versi! Ma quelli del Niccolini vi pare che sieno versi da tragedia? Sì, belle immagini, una certa fluidità, ma versi da tragedia neanche per sogno....

L’angel di Dio

Quella parola che non vien dal core

Nel suo libro non scrive, o scritta appena

La cancella col pianto.

Troppe parole, troppa lirica, poca azione.... troppe lungaggini.... Non vi pare? Scommetto che non vi pare. No? Ma l’Alfieri, ragazzi, l’avete letto?

Io (contentissimo di dire questa volta la verità). No.

Il Prefetto (al Biadi) - E lei?

Il Biadi - Nemmeno io, signor Commendatore.

Il Prefetto (cascando dalle nuvole. Non avete letto l’Alfieri? Ma chi è stato il vostro maestro? Aspettatemi un momentino.

Uscì e tornò in un battibaleno con un libro in mano e lì, direi seduta stante se non fossimo stati tutti tre in piedi, lesse e illustrò squarci del Filippo, della Virginia, fermandosi ogni tanto per guardarci con l’occhio canzonatore e ripetere: Questi son versi! Questa è tragedia!

Arrivato al discorso di Virginio:

O gregge infame di malnati schiavi,

non lesse più: posò il volume e declamò addirittura. Quand’ebbe finito, ci battè la mano sulle spalle e:

— Andate a casa, ragazzi, che i vostri staranno in pensiero; abbiate giudizio e non vi compromettete. E leggete l’Alfieri, leggetelo bene, leggetelo tutto e vedrete che i furori per il Niccolini vi passeranno. Ci vuol altro che Arnaldi! Addio, figlioli, e state bene. —

*

L’epilogo tragicomico lascio che altri racconti.

«Quando avvenne la predetta dimostrazione (così in suo libro Aristide Provenzal)5 alcuno da Londra scrisse a me dimorante allora a Torino per domandarmi pronte ed esatte informazioni sulla sorte del giovine che era stato arrestato. Scrissi immediatamente al professor Bianciardi a Firenze e alla signora Palli in Livorno, ma invano. La causa delle premurose ricerche, ignorate forse dal Martini medesimo, era che una signora inglese, probabilmente la signora Mignaty, così benemerita delle lettere italiane, o la signora Teodosia Garrow, che tradusse l’Arnaldo in versi inglesi, scrisse ad un giornale di Londra che un giovine di nobile aspetto era stato arrestato e chiuso chi sa dove, giacchè non v’era traccia di lui in nessun carcere, e ciò per aver osato gridare Viva l’autore dell’Arnaldo in un paese soggetto interamente al papa».

«Chi sa dove!» Quante lugubri ipotesi in quelle tre parole! Chi sa in quale tetra spelonca pensarono illanguidisse il mio nobile aspetto, intristisse il fiore della mia gioventù. E delle ipotesi c’era pur questa, la più semplice: che in carcere non si riuscisse a trovarmi, perchè non mi ci avevano messo: ma questa pare non venisse in mente alle pietose signore!

Felice prigionia di una notte d’estate! Se non produsse tutti gli effetti che il Commendatore Petri ne sperò, uno tuttavia ne produsse: una parte della mia educazione intellettuale la devo a quel buon uomo di prefetto toscano, il quale alle cinque della mattina declamava la Virginia a due ragazzacci, e, per guarirli del l’Arnaldo, li consigliava a curarsi con l’Etruria vendicata.



XIII.

Enrico Nencioni.

Avevo scansato il carcere mi fu inflitto l’esilio, anzi il confino. Nel termine di due giorni, partenza per Monsummano con ingiunzione di rimanervi due mesi (eravamo di luglio) senza allontanarsene mai e attendere che, trascorso quel tempo, mio padre vi venisse egli stesso, come sempre, nelle vacanze autunnali.

Condanna, non castigo. Mio padre provvedeva così a togliermi occasione di nuove ragazzate imprudenti, ma sapeva benissimo che l’ingiungere a me di stare in campagna era lo stesso che invitare la lepre a correre.

Io stento a capacitarmi come si possa non amare la campagna. Eppure un poeta, il Baudelaire, di non amarla non si contentava, si vantava di odiarla e di preferire lo stridere del violino grattato da un cieco in una via di Parigi, al canto degli usignoli nel parco di Saint Cloud o nel bosco di Fontainebleau.

Tutti i gusti sono gusti — dicono: e io ripenso all’onorevole Ma....o, che fu mio collega alla Camera. La carta era per lui il più saporito degli alimenti; nell’aula, negli uffici, dovunque di soppiatto potesse, ingeriva deliziosamente frammenti di progetti di legge e di relazioni; beato ogni qual volta gli riuscisse di fare, indisturbato, una bella pappata di atti parlamentari. Era un gusto anche quello.

La campagna io la ho amata, adorata sin da bambino. A sette, a otto anni, se avessi letto Virgilio, l’«o rus quando te aspiciam» sarebbe stata la mia invocazione di tutti i giorni, la mia giaculatoria di tutte le sere. Quando il primo d’ottobre montavamo in carrozza per andare a Monsummano, il pensiero di passar là cinque settimane mi cagionava una commozione di così acuta dolcezza, che una volta tra le canzonature di mio fratello, gli ammonimenti di mia madre e le risa del cocchiere, sbottai in un pianto dirotto. Ma quanto amare le lacrime nuove, quando a San Martino si pigliava la via del ritorno! Tutto un singhiozzo da Monsummano a Firenze e mi avvenne di giungervi, per quel continuo frignare, febbricitante.

La ingiunzione paterna io dunque la accolsi con gioia: la dimora in campagna mi era quella volta anche più grata del solito.

La frustata del Passatempo frizzava ancora; l’aver dovuto confessare al Prefetto di nulla conoscere dell’Alfieri, ora, mi rincresceva; pensavo quanta più sciocca figura avrei fatto, se gli fosse saltato l’estro di interrogarmi circa quell’Arnaldo da Brescia per il quale mi ero fatto acciuffare e apostrofare in stile vivace da un tenente de’ gendarmi: quell’Arnaldo da Brescia, del quale, se personaggio, non sapevo che il nome, se tragedia, non avevo visto nemmeno il frontespizio! Seguitando di quel passo, divulgavo io medesimo i documenti dell’ignoranza che m’era già rinfacciata pubblicamente.

Cominciavo a vergognarmene, a sentire il bisogno di raccoglimento; e il soggiorno in campagna era a ciò singolarmente propizio; mi assillava una improvvisa bramosia di letture, nella quiete della campagna più facile ad appagare.

Ma leggere che cosa? Subito e per intanto l’indispensabile. Ma in che consisteva «l’indispensabile?» Ricorsi a Enrico Nencioni.

*

Lo ebbi condiscepolo nell’Istituto Rellini; maggiore a me di cinque anni, ne uscì al termine dell’anno nel quale io vi entrai.

A malgrado della reciproca simpatia, io ancora ragazzo e lui giovinotto ci perdemmo di vista: anche perchè egli, precettore nella famiglia dei Conti Gori Pannilini, passava con essa la metà dell’anno a Marciano in quel di Siena.

Ci ritrovammo in seguito presso al feretro di un giovane di bellissimo ingegno che avevo conosciuto da poco e al quale il Nencioni era molto affezionato: certo Francois, di famiglia lorenese che, venuta a Firenze con Francesco II, vi aveva poi preso stabile domicilio e cittadinanza.

Uno stoico. Mortegli in breve tempo e prima che ei giungesse ai venti anni, la madre e una sorella ambedue di etisia, appena si senti minacciato dalla tabe succhiata col latte materno, volle e lo diceva al Nencioni conoscere almeno una parte di quel mondo ch’era destinato a lasciar così presto. Viaggiò tre anni di seguito: percorse l’Europa tutta quanta e l’India e l’Egitto. Quando tornò, e fu allora ch’io lo conobbi, la malattia lo aveva così corroso e scarnito, gli aveva impresso nelle occhiaie profonde e sulla pelle cianotica così chiari gli indizi della prossima fine, ch’era uno strazio il guardarlo.

Lo vidi più volte in un Caffè su la piazza Santa Croce, pochi passi distante dalla sua abitazione, dove egli soleva trascinarsi a passare la serata con gli amici in chiacchiere e in celie. Sicuro, in celie. Ombra di tristezza non velò mai la sua faccia. Era d’inverno, gli consigliavano di aversi riguardo, di non uscire a’ que’ freddi in quelle ore. Scrollava le spalle e discorreva della propria prossima fine con la stessa indifferenza con cui si parlerebbe di persona morta due secoli fa. Una sera - non avevano notizie di lui da una settimana - ricomparve al Caffè. Veniva a dire addio agli amici, prima di coricarsi per l’ultima volta; annunziò che sarebbe morto fra due giorni in un’ora del pomeriggio e se ne andò sorridendo.

Quantunque persuasi tutti che la fine fosse imminente, nessuno prestò fede a quel pronostico; pensarono che, consunto il corpo, ora del povero amico s’offuscasse lo spirito.

Stranezza del caso! Il Francois morì, come aveva predetto, due giorni dopo in una delle ore pomeridiane. Quando giunse il momento supremo, stesa la mano a Enrico Nencioni, che lo assisteva con affetto fraterno, e sorridendo ancora, — crepabitur — disse e spirò.

*

Ricorsi dunque al Nencioni.

L’amico era al giorno delle mie peripezie, l’articolo del Passatempo lo aveva letto anche lui; e gli era dispiaciuto di leggerlo, non perchè fosse come ei diceva villano, ma perchè io me lo ero meritato. Si felicitava del mio proposito, contento che l’esilio mi offrisse agio a rifarmi del tempo così stoltamente perduto. Mi porse una lunga lista di libri, mi prestò alcuni dei suoi: l’Adelchi del Manzoni, le Operette morali del Leopardi, l’André della Sand, l’Obermann del Senancour.

La villa di mio zio, prossima alla nostra, aveva una piccola biblioteca: mezzo migliaio di volumi, de’ quali cencinquanta all’incirca di storia e letteratura.

Un biografo del Vallon racconta di un Jean Standoch studente amico del poeta, e sonneur de cloches de l’Abbaye Sainte Genevêve, il quale fu lettore così ostinatamente assiduo, che quando per mancanza d’olio la lucerna gli si spengeva, saliva sul campanile dell’Abbazia per leggere al lume di luna.

Posso vantarmi d’aver rivaleggiato nel mio soggiorno monsummanese con lui; salvo che a me l’olio non faceva difetto ed erano perciò superflui i campanili. Anch’ io lessi senza tregua di giorno e di notte i cencinquanta volumi, tutti dal primo all’ ultimo, alcuni rilessi: l’Adelchi (fo il viso rosso nel rammentarlo: c’è in tutto il teatro dell’Alfieri una scena da stare a paro con quella fra Carlo e Desiderio nell’atto quinto?) l’Adelchi mi seccò: due libri mi fecero una impressione profonda. L’ Histoire des girondins del Lamartine e i Mémoires d’outre tombe dello Chateaubriand. Non ho mai riletto il primo: più volte, e sempre ammirando, per la magnificenza dello stile, il secondo.

Quando, così dirozzato, tornai a Firenze, se non di discutere col Nencioni, ero in grado di intenderlo: e in quegli ultimi mesi del ‘58 e ne’ primi del ‘59, non passò giorno senza che ci vedessimo. Andavamo insieme a passeggio: e s’accompagnava a noi di quando in quando un giovane simpaticissimo, Luigi Prezzolini, che fu poi segretario particolare del Barone Ricasoli durante il governo della Toscana, poi sotto prefetto, prefetto da ultimo; uno dei funzionari più intelligenti e più colti, fra quanti n’ebbe il nuovo Regno d’Italia.

L’appuntamento quotidiano era al Caffè Castelmur ritrovo degli «eleganti» in via de’ Calzaioli su l’angolo della via de’ Tavolini.

Il Nencioni aveva preso a venirmi incontro, ridendo e declamando enfaticamente questi versi:

Levez vous fils d’Argos! Levez vous fils d’Athènes

O Sparte! tes heros suivent Léonidas!

Courez! entendez vous la voix de Démosthènes?

Voyez vous ce guerrìer? C’est Epaminondas!

Dove li aveva letti? Di chi erano? Non volle mai dirlo.

Dopo sessanta anni, qualche mese fa aprendo a caso un volume del Seché, imparai ch’erano del Pauthier, il sinologo che prima di darsi a illustrare la iscrizione siro-chinese di Sin-Gan-Fou, fondamento della sua fama, offrì quel saggio di rime opulenti alla patria letteratura.

Chi può dire dove il Nencioni fosse andato a scavarli? ma de’ francesi e degli inglesi leggeva tutto quanto potesse. Anche i libri che nessuno leggeva.

Oh! le lezioni peripatetiche al Parterre, in Boboli, al Poggio imperiale! Ancora nei crocchi de’ letterati e de’ giornalisti durava l’eco delle polemiche circa la Diceria degli Amici pedanti: ancora nelle scuole si vantava il primato dell’Italia nella letteratura; non solo; si racimolava qua e là qualche strambo emistichio per beffarsi delle straniere. Oh! come ci aveva fatto ridere all’ Istituto Rellini il buon Calvi, sgangherandosi dalle risa egli stesso, nel recitare questi versi del Lamartine:

et le soleil se couche

Comme une poire délicieuse qui se fond dans la bouche.

— Hanno capito? il sole paragonato a una pera.... E qui un’altra risata. Non erano quelli i soli versi del Lamartine; ma il buon Calvi, si potrebbe giurarlo, conosceva, imparati ad orecchio, solamente que’ due. Ed erano poi veramente del Lamartine? Non mi sono mai curato di accertarmene.

E il Nencioni convinto della necessità di trasfondere nel sanguue nostro fatto oramai gelido nuove vigorie, nuovi ardori, invitava, incitava ad addentrarsi nella conoscenza delle letterature straniere; a leggere, a confrontare, per persuadersi che qualche cosa sapevano fare anche di là dal Cenisio.

Diceva: sì, il Giusti ha ragione, «eravamo grandi e là non eran nati»; ma da quando oltre l’Alpe nacquero e crebbero, la nostra grandezza andò declinando d’alquanto. Sì, io ho tutta la venerazione per il Magalotti ed il Cocchi: ma ci sono delle belle pagine di prosa anche in Nôtre Dame de Paris, ho tutto il rispetto per il Mamiani, ma le Feuilles d’Automne dell’Hugo, le Méditations del Lamartìne, Casa Guidi della Browning, possono per lo meno, stare a fronte dell’Inno a Santa Sofia. Sì, ha il suo merito anche il Giordani (e recitava a memoria gli ultimi periodi della Necrologia della Giorgi), ma non sarebbe male, tutt’altro, che la comune prosa italiana acquistasse di lucentezza, di speditezza, di semplicità, doti antiche e stupende della francese.

*

La raccolta de’ suoi scritti critici, documento dell’ingegno e della coltura sua, non basta pur tuttavia a far conoscere quanto dell’uno e dell’altra si giovassero le lettere nostre. Noi lo sapemmo, noi, anno più anno meno, suoi coetanei e compagni. Ahimè! non posso dire «sappiamo». Sono rimasto solo della giovane amica brigata, la quale dalla parola di lui calda e benigna traeva tesoro di quotidiani ammaestramenti. La più efficace opera sua di critico fraterno bisognerebbe, se fosse possibile, rintracciarla ne’ volumi altrui: di Giosuè Carducci, che lo rammenta consigliatore autorevole, amorevolmente ascoltato, di Gabriele D’Annunzio che il Nencioni educava alla poesia di Roma, conducendolo adolescente fra i cipressi di villa Ludovisi, e sotto gli elci di Villa Medici.

E in altri, e in altri. Ricordo una sera del ‘66 nella casa dei Conti Gori a Firenze. Giovanni Prati gli recitava, me presente, alcuni fra i pochi bei tratti dell’Armando, farraginoso poema che stava per dare alla luce: la Canzone di Mastro Agabito, e il Canto d’Igea. Li recitava (intenderà facilmente chi abbia in pratica letterati) per sentirsi dire «bravo, benissimo», e «bravo, benissimo» diceva anche il Nencioni; ma, pur ammirando, notava qua e là imperfezioni: locuzioni astruse, parole onde non bene era espresso il pensiero; suggeriva remissivamente emende a evitare cacofonie, a dar maggior vivezza all’imagine. Il Prati proclive (non si offenda la carissima memoria sua) a stimare ottimo in ogni parte quanto gli uscisse dalla fantasia e dalla penna, sulle prime s’inalberò; e, se non disse, lasciò capire come fosse sdegnosamente meravigliato che quel giovinotto, il quale avrebbe dovuto ringraziarlo di tali primizie, osasse senza autorità alcuna, fargli invece il barbassoro sul viso. Ma il Nencioni non cedè; incalzò col ragionamento, citò esempi di poeti stranieri, dei quali il Prati conosceva, forse sì forse no, il nome soltanto andò a finire che il vecchio poeta s’arrese e molti accolse dei suggerimenti del critico inedito, la cui autorità, se non dal nome e dalle opere, gli veniva dal buon gusto, dalla logica, dalla dottrina.

S’arrese così persuaso, che l’altro acquistò nuovo coraggio a nuove osservazioni.

Una delle ballate giovanili del Prati cominciava con questi versi:

— Carlo, uno strepito

Dietro noi sento:

— Son gli arsi nòccioli

Scossi dal vento.

E il Nencioni a dire: «I nòccioli son quelli che si trovano dentro alle pesche. L’albero si chiama nocciòlo». Nella edizione delle Opere fatta poi dal Guigoni, il Prati infatti corresse e ai nòccioli furono sostituiti i frassini.

Peccato io non possa riferire nella loro integrità i dialoghi di quella sera! Fatto sta che il «cantore d’Edmenegarda» udito, nel girare per Firenze, da popolani sboccati certo epiteto osceno ed equivocando nel significato, lo appioppò in un quinario sdrucciolo ad Anacreonte. Anche di questo strafalcione volle il Nencioni farlo avvertito. Scoliaste pudico, cercò sulle prime di spiegarsi alla meglio; ma poichè il poeta non intendeva, s’indusse, costretto, a chiarissime definizioni. Il Prati allibì: quella poesia era stampata da più che dieci anni. O colmo di disperazione! l’aveva pochi giorni innanzi trascritta sull’album d’una signora lombarda! Poi, dette nelle furie. «Ecco i bei servizi che fanno i fiorentini a chi studia la lingua loro» e giù invettive contro Firenze turpiloquente. Quella parola l’aveva dicerto raccattata ne’ circoli del ‘48, dov’egli con pericolo della vita era andato a combattere i demagoghi, feccia d’ ogni parte d’ Italia. E giù invettive contro la demagogia laida perfin nel linguaggio.

E il buon Enrico,

o pazienza che tanto sostieni!

adoperatosi con dolcezza quasi filiale a temperare quella collera, ammoniva poi con gravità quasi paterna: che chi aveva a propria disposizione così abbondante vocabolario, così riccamente spontanea la rima, poteva fare a meno di impaludarsi ne’ fiorentinismi di Camaldoli e di Mercato.

*

E questo apostolato per la bellezza e la verità, dovunque fulgessero, continuò poi sempre; e quando nella piena maturità della mente e della vita si risolse a dire al pubblico ciò che aveva detto ne’ cenacoli fidati, moltissimi in Italia udirono per la prima volta da lui i nomi del Coleridge e del Keats, del Tennyson e del Ruskin, del Swinburne e del Rückert, del Carlyle e del Browning, del Thackeray e del Whitman; nomi oggi noti a chiunque sia mediocremente colto. Ma sessanta anni fa! A Firenze un solo libraio, il Goodban, che teneva bottega in via de’ Tornabuoni rimpetto al palazzo Strozzi, faceva venire da Londra o da Lipsia opere di scrittori inglesi, e soltanto nei primi tre mesi dell’anno, durante cioè il passaggio dei forestieri.

Ancora un aneddoto: perchè dice assai più che non si potrebbe in lunghissime pagine.

Dirigeva a Firenze la Nuova Antologia il buon Francesco Protonotari. Versato nelle discipline economiche e sociali, ma di letteratura quasi digiuno, dove non poteva arrivare da sè s’aiutava dell’opera altrui; accattato il consiglio del tale, ne faceva argomento di discorso col talaltro e così via via; di guisa che vagliate e rivagliate poi diversamente le opinioni diverse, quella che si manifestava per maggiori consensi migliore faceva a sè guida e criterio.

Non so chi gli avesse detto che la Nuova Antologia difettava di scritti intorno alle letterature straniere; forse più d’uno e autorevolmente; perchè un giorno, parlando meco dell’appunto fattogli, si dimostrò smanioso di provvedere e mi domandò se conoscessi chi fosse capace di dare alla rivista articoli sui poeti inglesi.

Feci il nome del Nencioni; non lo conosceva, nè v’era da meravigliarsene, perchè tranne qualche appendice all’Italia nuova, giornale politico che ebbe poca fortuna e poco durò, il Nencioni non aveva sino allora (parlo del 1867) dato di sè al pubblico alcun notevole saggio. Comunque, e non sapendo dove batter di capo, con uno sfiduciato «proviamo» mi commise interrogare l’amico. Alcuni giorni dopo potei dirgli che il Nencioni volentieri accoglieva l’invito e preparava due articoli: uno sul Browning, uno sul Tennyson.

Il Protonotari, che d’altri poeti inglesi non sapeva se non del Byron, perchè non era possibile l’ignorarlo, e del Milton e del Moore, perchè li aveva tradotti il Maffei, all’udire quei due nomi mi sgranò gli occhi in faccia e con una alzata di spalle: — Eh! — sclamò — se dobbiamo parlare di tutti gli straccioni, ce ne avremo per un pezzo! —

Così - nel 1867 - chi dirigeva la Nuova Antologia; e si può giurare che la massima parte di coloro che la leggevano, innanzi ai nomi del Browning e del Tennyson si sarebbero domandati: chi è costui? — come già di Carneade il parroco manzoniano. Difatti uno solo di quegli articoli fu pubblicato. Il Nencioni tacque ancora per dodici anni. E, lo confesso, io meco stesso mi esalto, nel ricordare di averlo io, dopo que’ dodici anni, strappato all’increscioso ufficio di istitutore in una napoletana casa di principi e condotto al Fanfulla della domenica. Lì trovò il suo «pubblico». Lì cominciò attesa con desiderio, accolta con plauso l’opera onde gli venne la fama, tarda, ma che ancor dura fresca di rispetto e di simpatia.

Opera che io non ho, nè questo è il luogo, da esaminare. Una sola cosa voglio notare, perchè nel critico rivela l’uomo.

Del non trovar sempre argomento di lode il Nencioni si afflisse. Gli cuoceva, per non citare se non un esempio, la coscienza non gli consentisse di porre i drammi di Vittore Hugo a paro delle liriche e dei romanzi.

Ciò ch’egli più desiderava è ammirare, ciò che più gli piaceva è indurre altrui, con sincerità fatta fervore, ad ammirare con sè. Talora l’ammirazione trascende: non tutti vorranno credere che la Sand fosse «il più grande prosatore della Francia contemporanea» di quella Francia, cioè, dove viveva il Renan; non tutti vorranno credere che l’autore di Indiana e di Consuelo non pur rivaleggi con l’autore del Père Goriot e della Cousine Bette, ma lo superi.

E come si duole che all’altezza dell’intelletto e alla perfezione degli scritti, non corrisponda in coloro ch’ei predilige l’altezza dei sentimenti e la perfezione della vita! Quanti pietosi silenzi, quante reticenti indulgenze! Chi in quella Sand «che si rifugiò a Nohant dopo le tempeste della passione del 32» riconoscerà la donna che da quel tempo, e per altri venti anni, parve cercar le «tempeste» per averne occasione a mutar di pilota? Chi riconoscerà il Lamartine, vittima della propria spensieratezza e della propria prodigalità, invano elemosinante l’obolo della Francia ingrata, in quel «re del magnifico canto, che portò degnamente e fieramente da vecchio la sua corona di spine»?

Non censuro, ammiro anzi: in quelle indulgenze trovo rispecchiato quale esso fu l’animo dell’amico: in lui veramente del pari ammirabili l’ingegno e la bontà.

Bontà francescana: il veder maltrattato un animale gli era pena profonda. Nel ‘93 in un giorno d’estate lung’Arno un barrocciaio bastonava a sangue il povero mulo, che sfinito dalla fatica e oppresso dal soverchio peso datogli a trainare, non riusciva, per sforzi che facesse, a salire il Ponte di Santa Trinita. Il Nencioni non potè astenersi dal rimproverare il manigoldo: quegli senza far parola, brandito il bastone fece per avventarglisi contro e lo avrebbe sconcio e ferito, se alcuni che di là a caso passavano non si fossero frapposti. Così presente il pericolo e tale fu lo spavento, che il Nencioni ne ammalò: e subito si manifestarono i sintomi di quella infermità che gli angosciò gli ultimi anni di patimenti crudeli. Quando nell’agosto del ‘96 a Livorno, dov’era andato a chiedere vanamente al mare ristoro di forze e libertà di respiro, il carbonchio lo colpì e l’uccise, non aveva oramai che qualche settimana da vivere.

Non senza un saluto, l’estremo, al dolce maestro, volli dar termine a queste che vado scrivendo pagine evocatrici, mentre, vivo il ricordo de’ suoi insegnamenti, riascolto suonarmi nell’anima gli echi lontani della gioventù.



XIV.

Un granducato in extremis.

Nell’anno di grazia 1858, regnando in Toscana S. A. I. il Granduca Leopoldo II arciduca d’Austria, principe reale d’ Ungheria e di Boemia, il Ministero era così composto: presiedeva al Consiglio e insieme all’amministrazione delle finanze, de’ lavori pubblici e della guerra, Giovanni Baldasseroni; teneva il portafogli dell’interno Leonida Landucci; Niccolò Lami quello della Giustizia e degli affari ecclesiastici; Ottaviano de’ Marchesi Lenzoni era ministro degli affari esteri e - per interim - dell’istruzione pubblica.

Il Baldasseroni, nato nel piano di Pisa di modesta famiglia campagnola, salito a grado a grado sino ai massimi uffici, fattosi per il lungo tirocinio espertissimo nelle materie amministrative e ministro fin dal ‘45, era un integro, infaticabile impiegato che, in paese piccolo, in tempi prosperi, fra popolazioni tranquille, poteva essere, e fu prima del ‘48, utile strumento di governo; ma se abile abbastanza per navigare in mare queto, per andar contro alle burrasche tutto gli mancava, a cominciare dalla bussola. Persuaso che le antiche benemerenze bastassero alla sicurtà della dinastia, la mitezza del Governo e la facilità del vivere alla parca e floscia contentezza dei sudditi, il desiderio di novità che andava ogni giorno più manifestandosi, per apertissimi segni, nel Granducato non era, secondo lui, che un armeggìo di pochi ambiziosi, incoraggiti dall’esempio e istigati dall’ambizione piemontese. Così, nulla di quanto avrebbe dovuto spaventarlo lo intimoriva. Il Congresso di Parigi? Bellissime chiacchiere, ma chiacchiere. Il Convegno di Plombières? Che cosa vi si fosse detto e pattuito non lo sapeva: ma sapeva che mai e poi mai quel Bonaparte, memore della cordiale munifica ospitalità data a sè ed ai suoi, lascerebbe torcere un capello al Granduca di Toscana. Il Mazzini? Ah! un secondo quarantotto le Potenze non lo avrebbero permesso e, se mai, sarebbe finito come quell’altro. I «Tedeschi» non li amava neppur lui; delle molestie, de’ sopraccapi, durante l’occupazione gliene avevano dati parecchi: ma quando poche centinaia di facinorosi osassero turbare la pubblica pace, bisognava pur che qualcuno mettesse loro giudizio; e questo qualcuno non poteva essere che l’Austria, l’Austria sempre pronta, l’Austria possente, l’Austria invincibile.

Con tale conoscenza degli uomini e tale sentore dei tempi, la pretendeva a uomo di stato; e credeva forse darsene l’impostatura, egli di statura mediocre e grassoccio, camminando maestoso col petto sporgente, la testa all’indietro e l’occhio all’empireo. Il popolino, per quel suo atteggiamento, non Sua Eccellenza Baldasseroni, lo chiamava, ma Sua Baldanza Eccellenzoni.

Nonostante questa albagìa, gli spirava nella faccia una tal quale bonarietà; diverso in ciò dal collega ministro dell’interno, la cui fisonomia era cupa, anzi truce. Il Landucci, carbonaro nel ‘31, nel ‘48 liberalissimo, senatore, compilatore dello Statuto e ministro delle finanze nel Gabinetto presieduto da Gino Capponi, mutati i tempi e avvenuta la restaurazione, era corso de’ primi a Gaeta. All’opposto del Baldasseroni che aveva l’eloquio abbondante, egli parlava succinto, con certa intonazione d’imperio, volentieri lardellando il discorso con emistichi latini e ricordi classici. Quando nel ‘49 entrò, ministro dell’ interno, in Palazzo Vecchio, a un amico che gli raccomandava indulgenza verso i compromessi nei rivolgimenti politici di quell’anno, rispose con grottesca magniloquenza: «Io non sarò il Seiano di nessun Tiberio»; e Seiano non fu, anche perchè fra Tiberio e Leopoldo II qualche differenza correva; ma fu consigliatore di angherie, tanto più biasimevoli quanto più inefficaci e di rigori sino allora in Toscana inusati, che lo fecero odioso all’universale. Una mattina di levata, uscendo, trovò scritto sul muro di casa sua:

Per screditar col nome le Termopili

Venne un altro Leonida nel mondo;

Chiamate Serse e ditegli

Che ci ammazzi, per grazia, anche il secondo.

Niccolò Lami era, lo ho già detto, guardasigilli. Se è vero quanto il Carducci affermò: che cioè, come nella Francia despotica le lettere di imprigionamento e la Bastiglia formarono Voltaire e Mirabeau, così nella patriarcale Toscana le ingiurie di un birro dettero la mossa alle poesie civili del Giusti, il Lami meritò tutta la nostra riconoscenza: fu lui infatti che, auditore di Governo a Pisa nel ‘33, in riga di paterna cura coprì di contumelia il futuro autore del Gingillino. Ministro nel ‘58, s’era serbato tale quale quello di venticinque anni prima: rozzo ne’ modi così da sgradire perfino alla Corte dove, perchè nativo di Empoli, lo chiamavano il navicellaio; nomignolo che gli stava bene anche per ciò, che egli studiava barcamenarsi, riannodando o coltivando amicizie contratte in altri tempi con avvocati liberali, specie con Vincenzo Salvagnoli suo compaesano. Sempre pauroso di sentirsi mancare il terreno sotto i piedi, sempre guardingo di non compromettersi troppo, si sgolava a rammentare la sua qualità di magistrato e a dire che la politica non era affar suo; cercando insomma di fare in modo che nel caso di naufragio, lo stipendio o la pensione rimanessero a galla.

Era particolarmente antipatico alla Granduchessa la quale, vincendo in acume il marito, stimava l’uomo per ciò che valeva. E la sovrana antipatia si traduceva in gerghi e in giochi di parole delle dame di Corte, Quando S. E. il Guardasigilli andava a’ Pitti le sere di ricevimento, o di appartamento come allora dicevano, al suo passare, una dama domandava alle compagna: L’ami? E l’altra: Non so che farmene.

Tanto rozzo il Lami, quanto nel tratto amabilmente signorile il Lenzoni; tanto l’uno usualmente rinfagottato nelle vesti casalinghe ed annose, quanto l’altro elegante di quella eleganza disinvolta che, appunto perchè non ostentata, rivela l’assuefazione e il buon gusto. Bello e fresco uomo anche da vecchio, giustificava con la simpatica nobiltà dell’aspetto le molte fragilità onde per le vie di Amatunta e di Pafo s’era condotto da giovine sull’orlo del sepolcro,

si che trasserlo di bara

bagni e latte di somara,

come cantò in certa licenziosissima Litania fiorentina l’abate Giuseppe Borghi, riposandosi dall’inno All’Eucaristia e meditando l’Ode allo Spirito Santo.

Nel ‘58, era il solo de’ governanti toscani che frequentasse i salotti delle belle signore, e le male lingue asseveravano che, tuttavia indomato, non sempre gli era meta il salotto. Ministro di Toscana a Napoli prima, in seguito a Vienna, aveva imparato ed usava il linguaggio vago delle Cancellerie, che serve mirabilmente a custodire i segreti quando ci sono, e quando non ci sono a lasciar credere che ci sieno. Ma non si dava l’aria di grand’uomo e sulle spalle ancor dritte contro alla spinta degli anni, portava il carico delle relazioni internazionali senz’ombra di sussiego o di boria. Forse s’accorgeva egli stesso che boria e sussiego non gli stavano a viso; nonostante la sua devozione al Principe, pensava, tra scettico e fatalista, che sino a tanto le cose andavano per il loro verso, le faccende di un ministro degli affari esteri in Toscana si sbrigavano con poco ingegno, minor tempo e fatica; se poi un giorno certamente remoto la volontà o i consensi dell’Europa minacciassero di mutare lo Stato e ponessero in pericolo la dinastia, non la diplomazia granducale avrebbe potuto contrastare a quelle minacce e scongiurare que’ pericoli.

*

Questi in Toscana, correndo il ‘58, i Ministri, i quali non che sospettare di prossime rivoluzioni, neppure temevano di nuove sommosse, poi che quella scoppiata l’anno innanzi a Livorno per opera di mazziniani fu così prontamente e facilmente compressa.

In tali pigre illusioni si cullavano, nè fatti di grande significazione valsero a scuoterli dalla lor cocciutaggine cieca.

Veniva in Toscana in quell’anno Filippo Gualterio. A qual fine e con quali uffici, lo raccontava egli medesimo nel 1866 a Firenze in casa del conte Augusto De’ Gori Pannilini, insieme con me ascoltatori Giovanni Prati ed Enrico Nencioni.

Raccontava averlo il Cavour mandato al Governo Toscano con missione segreta, nel 1857, latore di queste proposizioni: matrimonio della Principessa Clotilde figlia di Vittorio Emanuele, con l’Arciduca Carlo secondogenito del Granduca, alleanza fra Piemonte e Toscana: questa, se la guerra avvenisse, fornirebbe all’alleato 12,000 uomini e li comanderebbe l’Arciduca medesimo; ove la vittoria arridesse, Modena e il suo territorio si aggregherebbero al Granducato. Le proposte furono tutte scartate, non solo; ma il presidente Baldasseroni, risaputo che il messo piemontese frequentava gli «agitatori» più accesi, lo invitò a tornarsene donde era venuto; invito al quale l’altro rispose: «Vado, ma tornerò presto, quando se ne sarà andata Vostra Eccellenza».

Ciò che udii riferisco; so che di quanto il Gualterio narrava non hanno traccia storie o documenti noti sin qui; aggiungo che alcuni degli uomini che furono al Cavour cooperatori ed amici, da me interrogati più tardi, stimarono quelle proposte suggerite all’umbro marchese dalla fantasia incontinente; comunque, certo è che a Firenze, nel ‘57 mandatovi dal Cavour il Gualterio ci fu: lasciamo stare se egli avesse facoltà di profferire alleanze e di combinare matrimoni; poniamo pure che il suo mandato fosse quale lo credè il Ricasoli, e si rileva dai carteggi di lui; che, cioè, dal Cavour gli fosse commesso, unico ufficio, il consigliare al Governo Toscano di ristabilire la costituzione del 1848, e ai liberali di contentarsi, per allora, di quel provvedimento; dovevano pur tuttavia bastare quel consiglio, quella istessa missione segreta a fare accorti il Baldasseroni e i colleghi che le cose non stavano precisamente come a loro piaceva di immaginarle, e che qualche novità si preparava o si maturava.

Ma non intesero e non si persuasero; neanche le famose parole di Napoleone III all’ambasciatore austriaco li smossero. Al solito, pensarono, bellissime chiacchiere, ma chiacchiere. I rivoluzionari si confortassero pure con gli articoli delle gazzette: il Governo non per nulla manteneva legazioni nei principali Stati di Europa; aveva notizie sicure. Infatti il Tanay de’ Nerli ministro di Toscana a Parigi assicurava che guerra la Francia non ne farebbe, tutt’al più si sarebbe andati a finire in un congresso; e da un congresso il Granduca non aveva nulla a temere. Il Provenzali, ministro di Toscana a Torino, nelle note ufficiali ripeteva le affermazioni medesime; e per quella miopia della passione, la quale non scorge oltre il desiderio, pronosticava, in privati carteggi, che la cupida irrequietezza del Piemonte, anzi che aiutata, sarebbe infrenata una volta per sempre.

Turbò finalmente quella placida confidenza il discorso di Vittorio Emanuele, inaugurante il 10 gennaio 1859 la nuova sessione parlamentare. Il «grido di dolore» intronò lì per lì quelle orecchie e subito si giudicò opportuno dare un po’ di tinta liberale al Governo; ma, ripensandoci meglio e poichè timori non se ne avevano e nulla urgeva, fecero le cose senza fretta e con pace. Soltanto due mesi dopo, il 26 di marzo, un decreto del granduca nominò Serafino Lucchesi ministro degli affari ecclesiastici, Giulio Martini ministro dell’istruzione pubblica.

Ho detto «tinta liberale». Intendiamoci. Il Lucchesi da giovine, una trentina d’anni prima, s’era dimostrato «inchinevole a novità», e, nel ‘53, procuratore generale alla Corte Regia, eletto a far parte della Consulta cui fu commessa la revisione del codice penale, si adoperò, come scrive un suo biografo «nel temperare le asprezze della legge». Il Martini, dal ‘48 al ‘52 ministro di Toscana presso Carlo Alberto, lo aveva seguito sui campi di Lombardia e ottenuta, dopo Novara, la benevolenza del nuovo Re, s’era legato in stretta amicizia con insigni uomini del Piemonte, col d’Azeglio segnatamente.

In ciò consisteva il liberalismo dei nuovi ministri; ambedue disposti, se si provassero necessarie, a larghe riforme amministrative, ma per lo sperimento di dieci anni innanzi poco favorevoli a innovazioni nell’ordine politico dello Stato; ambedue, per ultimo, persuasi che il mutar dinastia sarebbe stato alla Toscana danno gravissimo, il rimanere «Toscana» benefizio inestimabile; concordi in ciò con molti fra i liberali, dei maggiori per condizione sociale, per ingegno, per autorità.

*

Giulio Martini era mio zio. Sebbene avesse di poco varcato la cinquantina, molti acciacchi lo tormentavano. Spiritus promptus caro autem infirma. Una oftalmia sopraggiuntagli verso la metà dell’aprile lo costrinse in casa: e dovè il consiglio de’ Ministri, adunarsi in un palazzo de’ Mozzi nella via de’ Bardi presso di lui.

Mio padre era anch’egli malato in que’ giorni; e ogni, sera mi mandava in via de’ Bardi per dare di sè e aver notizie del fratello.

Gli avvenimenti incalzavano, la guerra era ormai certa; alle ingiunzioni dell’Austria che imponeva il disarmo, il Conte di Cavour rispondeva con sdegnosa ripulsa. Il 26 d’aprile, passeggiando sull’imbrunire nella piazza di San Marco con Enrico Nencioni, ci imbattemmo nella più singolare delle «dimostrazioni». Precedeva solo il generale Ferrari Da Grado, di nome italiano, austriaco di nascita, dall’esercito austriaco passato a comandare il piccolo esercito toscano; e al quale per l’alterigia onde trattava i subalterni, i fiorentini avevano affibbiato il soprannome di «Generale Tacete». Lo seguiva a distanza di qualche diecina di metri una moltitudine silenziosa, e appunto per quel silenzio, terribile. Chi disse più chi meno: ma anche oggi ripensando allo spazio che quella gente, ordinata quasi militarmente in colonna occupava, io calcolo fossero circa tremila persone. Seguirono il Generale, sempre in quel cupo silenzio, per buon tratto della città e fino alla Piazza de’ Giudici, Lung’Arno delle Grazie, ove aveva sede il Comando e ov’egli dimorava.

Le dimostrazioni non sogliono farsi in silenzio, e quella, a chi non la vide e non sa quali ne fossero il movente e lo scopo, può parere oggi curiosa e sto per dire ridicola. Bisogna spiegare. In primo luogo i non molti che la pensarono e la iniziarono raccolsero dietro a sè quelle migliaia di persone non chiamate, nè informate, perchè tutte capirono subito di che si trattasse, e manifestarono così altrettanto salda quanto spontanea la concordia degli animi. Inoltre, si faceva cosa palesemente ostile al soldato austriaco, arma corta della reazione, senza pur offenderlo; e ciò significava volere il popolo che alla guerra contro l’Austria la Toscana partecipasse; ma ammoniva con le buone, prima di ricorrere alle cattive. Finalmente si ingiungeva al governo di pensare ai casi suoi; pochi giorni innanzi quella dimostrazione si sarebbe potuto facilmente impedirla o disperderla, ordinando a un battaglione di uscire dalla caserma; ora no, perchè la guarnigione di Firenze aveva già fatto causa comune col popolo.

Scioltosi il muto e minaccioso corteo, me ne andai al solito alle case de’ Mozzi; il cammino era brevissimo, e vi fui, per così dire, in un salto.

Il Consiglio de’ Ministri era adunato; poichè si costumava in Toscana di fare le cose alla buona, la presenza del Governo non aveva nulla mutato alle consuetudini della famiglia del Martini, la quale soleva accogliere ogni sera parenti ed amici; sì che nella stanza precedente a quella, ove a porte chiuse si discuteva forse intorno alle sorti del Granducato, certamente intorno a quelle del Ministero, erano amici e parenti, che la speranza di attingere notizie a limpida fonte vi aveva condotti in numero maggiore del consueto. Raccontai quanto mi era occorso; dall’altra stanza si udirono alcune delle mie parole, e la voce dello zio chiamò: «Ferdinando».

Entrai, come si capisce, molto timidamente. La stanza era a mala pena illuminata da due lucerne, sino a metà delle quali scendeva una tendina di drappo verde. Nulla di solenne; i Ministri sedevano l’uno qua l’altro là; piuttosto che a consiglio si sarebbe detto fossero a crocchio. Il solo guardasigilli poggiati i gomiti sul tavolino che gli stava dinnanzi e il capo sulla palma delle mani, pareva sprofondato in pensieri gravissimi. Sopra un canapè, eretto il torso ed alta come sempre la testa, che s’incorniciava nelle volute d’un gran ciuffo bianco, il presidente Baldasseroni. Mi interrogò:

— Che cosa diceva di là? Che cosa ha visto? —

Ripetei il racconto per filo e per segno.

— E quando è successo tutto questo?

— Mezz’ora fa, Eccellenza. —

Seguì un silenzio. Il ministro dell’interno interrogò a sua volta:

— E quante persone ci saranno state, secondo lei?

— Non saprei precisamente.... circa tremila. —

Il ministro enfiò lievemente le guance e lasciò andare un «bum» incredulo e dispregiativo.

Io, che pensavo essermi tenuto nel giusto, mi accinsi a provare esatto il mio calcolo,

— Eccellenza.... —

Mio zio m’ interruppe:

— Bene, bene, va’ va’. —

Ero andato timido, me ne venni risentito. A diciassette anni, non ancora temprato contro alle impudenze de’ linguaggi partigianeschi, mi sarei lasciato confutare senza rammarico da una di quelle sentenze di Seneca che il Landucci aveva care; ma quel bum mi offese; e augurai di tutto cuore le dimissioni del Ministero.

Le quali furono appunto deliberate in quell’ultimo Consiglio dei Ministri del Granducato di Toscana, cui posso dire in certo modo, d’essere stato presente.

*

Di lì a poco i Ministri uscirono, primo il Baldasseroni; rammento che volgendosi ai colleghi con certa intonazione ironica esclamò: «Vedremo, vedremo».

Ciò ch’egli attendesse e sperasse vedere non so; so ciò che tutti videro il giorno dopo e lo racconterò in un altro capitolo.



XV.

Vigilia di rivoluzione.

Seppi già da un testimone e notai; sì che, corso gran tempo, posso raccontare come fosse d’ ieri.

La sera del 26 aprile 1859 i Ministri toscani, tenuto l’estremo Consiglio in casa di Giulio Martini e deliberato di renunziare l’ufficio, andarono a’ Pitti per esporre al Granduca la loro deliberazione. Questi, che nella mattina avevano lasciato pensieroso ed afflitto, li accolse con arzilla serenità, inconsueta in lui sempre moscio nell’aspetto e accasciato nella persona. Lo aveva riconfortato e rasserenato un colloquio con sir Campbell Scarlett ministro d’Inghilterra in Toscana, e lo riferì prima ancora che il presidente Baldasseroni aprisse bocca per dire quanto aveva da dire.

Egli, il Granduca, al ministro della Regina Vittoria, aveva aperto l’animo intero, e narrato per filo e per segno i fatti accaduti da una settimana a quella parte. E i fatti erano questi: un generale austriaco venuto espressamente a Firenze gli aveva profferto per ordine dell’Imperatore di occupare il Granducato con un corpo d’esercito fino al termine della guerra: il commendatore Boncompagni ministro di Vittorio Emanuele gli aveva proposto di unirsi col Piemonte in alleanza offensiva e difensiva. La profferta dell’ Imperatore era stata respinta, la proposta piemontese non anche; ma a lui, Leopoldo, sembrava il miglior dei partiti mantenersi in quella stretta neutralità che già lo stesso Campbell ed ora anche il ministro di Francia gli consigliavano.

Sir Campbell Scarlett, continuava il Granduca, per ordine del governo di S. M. la Regina, lo aveva confermato in tale proposito: soggiungendo che alla fin de’ conti, ove le fazioni prevalessero, il Sovrano poteva lasciare lo Stato e appellarsi alle potenze sottoscrittrici del Trattato di Vienna, che guarentiva alla sua Casa il trono della Toscana.

Parve che il vecchio principe credesse così tutto accomodato; ma non lo credevano i Ministri, i quali nelle ore della sera corse tra il Consiglio e l’udienza, avevano raccolto da ogni parte del Granducato notizie tutt’altro che favorevoli agl’intendimenti dell’Altezza sua. Belli e buoni i consigli dei diplomatici, ma la Toscana voleva prender parte alla guerra contro l’Austria, ed era vano opporsi alla volontà popolare: perchè sulla truppa già bacata (aggettivo che il Landucci in seguito usò) ci era da fare poco assegnamento. Circa al lasciare lo Stato, la cosa era facile, meno facile il ritornarvi.

Questi pensieri i Ministri senza pure articolare parola se li leggevano vicendevolmente negli occhi: sì che, esposte dal Baldasseroni le condizioni delle cose, considerando di nuovo, quasi in via di semplice discorso, il pro e il contro dei diversi partiti, si condussero a questa ipotesi: Se si accogliesse la proposta del Boncompagni? L’alleanza col Piemonte stipulata da uomini nuovi avrebbe d’un tratto compressa la ribellione dei militari e stretto ancora questo era certissimo intorno alla dinastia la parte più temperata de’ liberali.

Il Granduca interruppe:

Io la guerra all’Austria una seconda volta non posso farla. —

Succedè un silenzio di alcuni secondi; uno dei ministri (non seppi mai quale) si arrischiò a mormorare:

— Vostra Altezza no. —

Era un rammentargli che la dinastia non finiva con lui; e ciò ch’egli non poteva o voleva fare, il suo figliolo avrebbe forse voluto e certamente potuto.

Leopoldo tacque lungamente rifiettendo; poi, a mutare discorso, interrogò:

— E loro? —

Il presidente annunziò la deliberazione del Consiglio. Il Ministero sentiva di non avere oramai più il «prestigio» necessario in quei gravi frangenti, che imponevano risoluzioni altrettanto gravi e sollecite. Cercasse il Principe altri uomini meglio graditi al popolo, meglio capaci di tener fronte agli eventi.

Dall’udienza durata sino verso la mezzanotte, i Ministri uscirono, senza bene raccapezzarsi circa le intenzioni del Granduca. La sicurtà dimostrata dapprima per i suggerimenti del Campbell, poi quel lungo riflettere quando l’un d’essi ebbe accennato all’abdicazione, li faceva perplessi, li smarriva fra molte supposizioni. In quello smarrimento il ministro dell’interno, dedito alle citazioni latine, si lasciò sfuggire la più propizia delle occasioni per tirar fuori il veniat feliciar aetas di Lucano a conforto del principe, dei colleghi e di sè.

*

Quando i Ministri dicevano di aver perduto il «prestigio» dicevano la verità ma non tutta; avrebbero dovuto confessare che non per i casi recenti, ma per ben altre cagioni, l’avevano perduto da un pezzo; non tanto perchè gli atti loro contrastassero alla opinione della gente più colta e facoltosa, delle «classi dirigenti» come oggi si chiamano; quanto e maggiormente perchè alla propria autorità parve da qualche tempo non credessero più essi medesimi. Il principiis obsta della scuola salernitana è buona regola così per la salute degli individui come per quella degli stati; il «lasciar correre», se potè essere in Toscana comoda e fino a un certo punto giudiziosa politica ai giorni del Corsini e del Fossombroni, mutati i tempi, ciò che allora si dimostrò tolleranza doveva necessariamente prendere aspetto di debolezza; e i governi deboli non soltanto inanimiscono le audacie, le suscitano.

Di cotesto «lasciar correre», senza andare a frugare negli Archivi che ne fornirebbero prove abbondanti e solenni, ricordo io esempi parecchi: ricordo io Cesare Tellini direttore della Lente, nel gennaio 1858, pochi giorni dopo l’attentato del 14, dispensare indisturbato per le vie di Firenze il ritratto in litografia di Felice Orsini; e intorno a quel tempo Ettore Falconi, morto or non è molto segretario comunale a Campi Bisenzio, raccogliere fra noi condiscepoli, sotto gli occhi dei delegati inerti, sottoscrizioni e danari per i «cannoni d’Alessandria». Ricordo io, e vi fui talora presente, le quotidiane riunioni, dopo il teatro, nella trattoria La Fenice, in via dei Calzaioli; vi convenivano l’avvocato Leopoldo Cempini, allievo del Montanelli, nel ‘48 giornalista, soldato e scrittore di rime patriottiche, Piero Puccioni, avvocato anch’egli e di fresca data, ma già, tra i passatempi del giornalismo teatrale, preparato a divenire uno dei principi del fòro toscano; Pietro Ferrigni, Yorick, sin d’allora autore inesauribile di arguzie felici; e un dottor Antonio Somigli e uno Stendardi; di rado, ma qualche volta anche Vincenzo Salvagnoli e Ferdinando Bartolommei, Il Cempini vi portava numerosi esemplari del Piccolo Corriere del Lafarina che un ardimentoso giovanotto, Omero Mengozzi, ricevutili di soppiatto da Genova, gli spediva di soppiatto da Livorno ed egli, il Cempini, spartiva fra gli intervenuti, affinchè a lor volta li distribuissero.

Questo che tutti sapevano non ignorava certamente il Governo; ma il Governo che anni prima fece rispettare con rigidità aspra la legge sulla stampa e non rifinì di sospendere e sequestrare e sopprimere giornali, ora come già raccontai, permetteva che nello Scaramuccia il Puccioni sotto il molto trasparente velame d’un’allegoria, rinfacciasse al Granduca la occupazione austriaca, l’abolizione dello Statuto, il ritorno della ghigliottina.

Sull’ultimo volle il Governo, una volta tanto, dar prova di energia; ma fu peggio il rimedio del male. Partivano da Firenze il due di aprile per arrolarsi nella cavalleria piemontese e in quel reggimento che combattè poi vittoriosamente a Montebello alcuni gentiluomini: Averano Casanova, Piero Azzolino, Sebastiano e Francesco Martini, Luigi Suner, Cesare Gori, Vincenzo Puccinelli, Ugo Ricasoli; per salutarli con felicitazioni ed auguri s’accalcò alla stazione in quel giorno gran folla la quale, subito che il treno si mosse, mandò un grido, quasi di tonante unica voce: Viva l’Italia! Viva Vittorio Emanuele!

Ad accompagnarvi un parente, Luigi Prezzolini, il compagno del Nencioni e mio nelle passeggiate in Boboli, e al Poggio imperiale, che partiva per arrolarsi in Piemonte anche lui, andò alla stazione un tenente: Armando Guarnieri, stimato de’ più bravi fra gli ufficiali usciti di recente dal liceo militare. Il giorno di poi il Guarnieri fu chiuso in fortezza, e in seguito tolto all’artiglieria da campagna cui apparteneva e scaraventato in quella da costa a Portoferraio.

Il castigo inflittogli, che nel pensiero del governo doveva servire d’esempio ed intimorire, fu accolto nella città con ilare dispregio. Punire un tenente, bella forza! Come mai lui solo? Come mai non si puniva e nemmeno si ammoniva il Ferrigni, che aveva gridato più degli altri e istigato altri a gridare? Yorick, infatti, al primo alitare degli zeffìri primaverili, s’era buttato allo sbaraglio e, tribuno improvvisato, arringava le turbe ora dalle scalinate di San Firenze ora dalla porta del Caffè Castelmur all’angolo della via de’ Tavolini. Piccolo, paffuto, con la tuba all’indietro, sporgendo le incipienti rotondità dell’addome e gesticolando colle corte braccia, bandiva prossima e fortunata la guerra, magnificava la lealtà del Re di Sardegna, all’enfasi lirica della concione interpolando allusioni e facezie, che andavano diritte e pungenti a colpire in Palazzo Vecchio e più su.

In quel giorno, alla stazione ed altrove, sparse a larga mano tra la gente un foglietto che, datomi da luì, conservo dopo sessant’anni e trascrivo:

Ai giovani patrizi fiorentini che vanno a combattere per la Indipendenza nazionale:

«Generosi patrizi che andate a pugnare per la Indipendenza d’Italia, abbiatevi il saluto della vostra città che va superba di esservi madre. Molti figli del popolo vi precederono; più e più vi seguiranno, tutti verremo quando sarà suonata l’ora dell’ultima guerra con l’Austria.

«Possa il vostro esempio essere seguito da tutta la nobiltà e tornino i bei tempi di Firenze quando tra il patriziato ed il popolo era magnanima gara di carità patria e di virtù cittadine.

«Salutate il Re italiano; baciate per noi il vessillo tricolore; ci rivedremo in breve nelle file dei soldati dell’Indipendenza.

«Firenze, 1° Aprile 1859».

Come mai dunque il Guarnieri sì e il Ferrigni no? E come mai il Governo così severo col tenente, sopportava che un giovine medico romagnolo, Augusto Branchini, arrestato e condotto oltre il confine, non soltanto tornasse e subito in Toscana, ma del ritorno avvertisse la polizia, minacciando per giunta che guai a loro se ancora osassero di molestarlo?

Il «come mai» si spiegava facilmente: il Ferrigni e il Branchini erano ambedue segretari del «Comitato di Casa Bartolommei» il solo che il governo temesse: sapeva che quella gente era disposta, come suol dirsi, a giocare di tutti e andar sino in fondo cioè sino alla rivoluzione.

*

Perchè i comitati erano due: parte de’ liberali faceva capo al Ridolfi, al Giorgini, al Peruzzi, al Digny: parte a Ferdinando Bartolommei e a Giuseppe Dolfi, fornaio di molta autorità sul popolo minuto. I primi volevano si partecipasse alla guerra, e al termine della guerra, restituita la costituzione del 1848; ma ad ottenere ciò non altre vie si proponevano battere se non le «legali» quelle su’ cui margini sboccia la «petizione e fiorisce la rimostranza». Stimavano pazza ogni altra domanda, pernicioso ogni sovvertimento dello Stato, onde la Toscana rischiasse mutare di principi e perdere la propria autonomia. Gli altri, dall’esperimento di dieci anni innanzi persuasi che libertà e indipendenza non si conseguirebbero veramente e pienamente fin che un arciduca d’Austria sedesse sul trono della Toscana, si proponevano rovesciare la dinastia, preparavano congiunture che offrissero occasione per rovesciarla, e togliere così un primo impedimento all’agognata unità dell’ Italia.

A cose finite, e anche in giorni recenti, ognuna delle parti rivendicò a sè il merito del successo; chi poteva mettere la verità al suo posto tacque per riguardo o rispetto. Oggi, passati sessanta anni e più, rispetti, riguardi, acquiescenze, compiacenze, deferenze, possono, anzi debbono, io credo, ceder luogo alla storia; e la storia ha per sè un fatto ed un documento.

Il fatto è questo: i due comitati tentarono conciliarsi ed unirsi. Adunatisi il 25 nel palazzo Ricasoli, presidente Cosimo Ridolfi, Giovan Battista Giorgini vi lesse un «Manifesto» a lui commesso dal Ridolfi medesimo; e quello che doveva essere argomento e suggello di concordia negli intenti e nelle opere fu invece cagione di subito e violento dissidio. I liberali di parte «avanzata» nemmeno degnarono discutere intorno allo scritto del Giorgini ed uscirono interrompendone la lettura. Il comitato Ridolfi, sentendosi sopraffatto, cedè le armi, si sciolse e volle il manifesto, già stampato in migliaia di copie, dato alle fiamme. Da esse due soli esemplari scamparono, dell’un de’ quali m’ è dato oggi valermi. Eccolo:

«Gli avvenimenti incalzano. Le formalità diplomatiche che dovevano adempirsi, che dovevano prevedere, per assolverla nell’opinione dell’Europa, una guerra inevitabile, saranno presto esaurite. Che farà la Toscana?

«La Toscana non vorrà rimanere neutrale. Le generazioni del ‘48 non sono anche spente; rincalzate dalle nuove generazioni, risorgeranno più forti e più risolute, il giorno in cui Vittorio Emanuele avrà tratta di nuovo dal fodero la spada di Carlo Alberto. Vorrà egli il Governo Toscano resistere all’impeto popolare? Macchiare di sangue civile le armi negate alle battaglie della Nazione? Non sarebbe questa neutralità, non pace: la guerra dell’indipendenza arderebbe in Toscana come in Lombardia. Solamente in Toscana sarebbe guerra civile: solamente il governo toscano si sarebbe messo dalla parte dell’Austria. O piuttosto il Principe lascerà la Toscana come nel 1849, per aspettare a Vienna l’esito della guerra, ridotto a far voti, egli principe italiano, per la sconfitta delle armi italiane? Quali saranno le conseguenze di una tale rivoluzione? È tempo che gli amici del Principe e del paese si facciano questa domanda.

«L’uragano della guerra sciolto un’altra volta sopra l’Europa può piegare i grandi troni, spiantare, rapire i piccoli; se il Granduca vuole salvare il suo, non cominci dal rinunziarlo: dal rinunziare quello che vale sopratutto in politica, il fatto, il possesso. Esautorare un principe, una dinastia che si trova nel pieno e libero esercizio dell’autorità regia, è una risoluzione gravissima: di tali risoluzioni non si troverebbe un esempio solo nella lunga serie di trattati europei. Ma distruggere un governo di fatto, che si sia costituito dopo la cacciata o la fuga del Principe, per restaurare questo Principe, è anche quella una risoluzione grave. Se di queste risoluzioni non mancano esempi nella storia diplomatica dell’Europa, non mancano nemmeno esempi di fatti consumati, che la diplomazia ha creduto di dover rispettare; e questa disposizione è andata crescendo, dacchè il principio della legittimità, già vulnerato dal Congresso di Vienna, ha cessato di essere il criterio, il fondamento unico del diritto pubblico europeo.

«Poco, anzi nessun rischio correrebbe la dinastia rimanendo in Toscana, mantenendo il suo stato di possesso fino al giorno in cui si apriranno i negoziati per la pace, qualunque fosse stato l’esito della guerra. Molti e gravi pericoli correrebbe invece, se quel giorno la Toscana si trovasse occupata da truppe austriache, francesi, sarde e lasciata in balìa di se stessa.

«In tutti questi casi il Principe assente non potrebbe contare sul patrocinio della lega Franco-Sarda: potrebbe egli contare di più su quello dell’Austria?

«L’Austria vinta non potrebbe rimetterlo sul trono. Vittoriosa potrebbe e vorrebbe; ma potrebbe e vorrebbe ugualmente lasciarcelo, se durante la guerra l’avesse occupato, quantunque gli fosse stato nemico nella guerra. Vorrebbe, perchè l’Austria non potendo sperare che l’Europa le permetta mai di aggregare la Toscana al suo regno italiano, il minor male per l’Austria sarà sempre che la Toscana sia tenuta da un Arciduca della sua Casa; che se l’Austria potesse sperare l’Europa disposta a ratificare un’altra volta in Italia l’incorporazione di Cracovia, ella non si lascerebbe fermare da nessuno scrupolo e farebbe sua la Toscana senza riguardo ai portamenti del Granduca nella guerra, e al luogo dove si trovasse dopo la guerra. Anzi più facilmente la farebbe sua, se il Granduca trovandosi a Vienna, l’avesse già di fatto perduta.

«Ma che dalla guerra presente possa uscire un nuovo ingrandimento dell’Austria in Italia pare un caso assai remoto, ed è l’ultimo di certo al quale si debba pensare. Resta dunque fermo che il Granduca aderendo alla lega Franco-Sarda conserverebbe lo stato, tanto nel caso che l’Austria vincesse, quanto in quello che fosse vinta. Dichiarandosi invece per l’Austria, egli non potrebbe sperare nemmeno di correre la sua fortuna. L’Austria penserà prima alla salute sua che a quella dei principi che le saranno rimasti fedeli: se per uscire illesa dalla guerra le sarà necessario scendere ad accordi, ella vorrà prendere ne’ possessi dei suoi alleati prima che nei suoi propri, la materia del sacrifizio. I reali di Toscana non possono aver dimenticato il Trattato di Luneville.

«Le conseguenze che la partenza del principe avrebbe per il paese, non sarebbero meno funeste. Lasciando il paese per non lasciarsi spingere alla guerra, il principe non avrà impedito la guerra; solamente ai danni della guerra aggiunto i danni maggiori dell’anarchia. A guerra finita, la Toscana non perderà probabilmente la sua autonomia, perchè nessuno dei potentati che hanno in mano i nostri destini, per quanto apparisce dalle loro intenzioni, pensa a sopprimere la Toscana dal numero degli Stati Sovrani: perchè se l’assetto definitivo della Nazione deve essere una confederazione di Stati, non c’è ragione per sopprimere la Toscana, ma piuttosto per ingrandirla. Ma perderà probabilmente la sua dinastia per accogliere, ignota ella stessa, un principe ignoto. Vedrà Firenze un nuovo padrone venuto a lei di Francia o di Prussia visitare i suoi monumenti compitando la guida; o se vedrà di nuovo i suoi principi ricondotti dai soldati dell’Austria, dovrà anche vedere in meno di cinquant’anni una terza ristaurazione, che portando seco i rancori e le diffidenze del terzo esiglio, trovando l’amministrazione sconvolta, la finanza delapidata, la milizia corrotta, gli animi commossi esulcerati dal dolore e dall’ira, sarà anche più dura, più arditamente retriva delle precedenti.

«La dinastia lorenese precorse nel secolo passato il progresso civile della Toscana; fino alla metà del presente la tenne in una condizione giustamente invidiata dagli altri Stati della Penisola; sancì nel 1848 il suo Statuto fondamentale, bandì la guerra dell’indipendenza. Ripigliando la costante politica della sua Casa, il Granduca può sempre farci dimenticare dieci anni di errori; chiudere in Toscana i suoi giorni, riposare nelle tombe di San Lorenzo, lasciando intatta reintegrata al figliuolo un’eredità d’onore e di nobili tradizioni. Quando il momento sarà venuto, sappia il Principe osare: sappia salvando la Toscana, salvare se stesso!»

*

Il documento non ha bisogno di illustrazioni; rimane a domandarsi quali sarebbero state le sorti della Toscana, se tutta l’azione del partito liberale si fosse circoscritta nel consigliare il Granduca, nel chiedere sempre e non mai risolversi a ghermire. Seguiva Leopoldo i suggerimenti e si stringeva al Piemonte? il trono era suo. Faceva di testa propria, fermo nella neutralità? Avrebbe avuto contro a sè l’opinione, egli contro all’ opinione le baionette e così in ogni caso il vincitore era lui. Bene avvisati, il Bartolommei, il Dolfi e quanti s’accostavano a loro, conquistarono le baionette ossia si accordarono con gli ufficiali del piccolo esercito toscano. Io non voglio affermare che tutto quanto si adoperò a questo fine fosse puro, fosse degno: tutto oro colato, si direbbe a Firenze, io non lo dico perchè appunto dell’oro ne colò a sufficenza: ma le rivoluzioni non si fanno a regola d’arte o coi precetti della morale; le stalle d’Augia, scrive il Guerrazzi, non si vuotano coi cucchiaini da caffè, nè le foreste vergini, aggiungo, si potano con le forbici da ricamo. Nuovi avvenimenti, allora imprevedibili, avrebbero forse in seguito atterrato il trono toscano e travolto i Lorenesi nella ruina; ma senza l’opera del Bartolommei del Dolfi, di coloro insomma che s’intitolavano «popolari» il 27 d’aprile 1859 non se ne andavano di certo.



XVI.

Ventisette aprile.

Mio padre era malato ed io dormivo nella stessa sua camera per assisterlo, se di assistenza avesse bisogno. Alle quattro della mattina il vecchio servitore Pasquale mi destò.

— C’è di là il signor Tellini.

— A quest’ora? Che vuole?

— Parlarle per cosa urgentissima.

— Stamani — mi disse — facciamo la rivoluzione. È già pronto un Governo provvisorio. Ubaldino Peruzzi, Vincenzo Malenchini e un altro che si troverà. Prefetto di Firenze, Tommaso Corsi, il Bartolommei gonfaloniere. —

E, leggendomi in viso che non capivo il perchè venisse a dare a me quelle notizie, riprese:

— Il Comitato vuole si avvertano i Ministri che non vadano a Palazzo Vecchio. Sarebbero un impiccio. L’avvocato Cempini avvertirà il Baldasseroni, il dottor Somigli penserà al Landucci che è suo casigliano. Dal Lenzoni e da tuo zio Martini non si sa chi mandare. Ho pensato di mandarci te.

— Ma come posso fare io?... —

Non mi lasciò seguitare e soggiunse:

— Via, via, che non ho tempo da perdere. Lo zio è lo zio, il Lenzoni lo conosci benissimo, non facciamo chiacchiere. Va’ e fa’ presto. —

Voltò le spalle e se ne andò.

Avevo fatto finta di obiettare ma in fondo ero lietissimo che il Tellini mi avesse troncato la parola in bocca; il mandato commessomi non soltanto non mi dispiaceva, mi lusingava. Non mi sono mai dato in vita mia «aria d’ importanza», ed ho avuto ed ho in uggia chi se la dà; ma quel giorno la tentazione fu grande. Andar io ad annunziare ai Ministri la rivoluzione! Mi parve, lo confesso, di diventare un personaggio storico tutto ad un tratto.

Ottenuto il permesso di mio padre, mi avviai. Abitavo in via de’ Rustici e mi era prossimo il palazzo de’ Lenzoni in piazza Santa Croce. Cominciai dunque dal«Signor Ottaviano», come allora nel bel mondo fiorentino chiamavano il ministro degli affari esteri.

Albeggiava appena e la piazza era deserta. Dopo molte scampanellate, venne ad aprirmi un cameriere tedesco che il ministro aveva portato seco dalla Legazione di Vienna e poco o punto masticava d’ italiano. Ci volle del buono e del bello per indurlo a svegliare il padrone a quell’ora. Mi conosceva; s’arrese alla fine, e annunziatomi, m’ introdusse nella camera di Sua Eccellenza.

Il ministro, al quale il messo della rivoluzione interrompeva i sonni tranquilli, postosi sul letto a sedere, si stropicciò gli occhi e sbarrandomeli in faccia domandò:

— Che diavolo c’è? —

Riferii tale e quale il discorso del Tellini. Il «signor Ottaviano» mi stette a sentire, poi come seccato e scrollando le spalle:

— Ma non sono più ministro, non ci sono più ministri, ci siamo dimessi ieri sera. —

E dopo una pausa:

— E suo zio che cosa dice?

— Non lo so, non ci sono ancora stato.

— E allora vada, lo senta e ritorni. Farò quel che fa lui. —

Si stropicciò gli occhi una seconda volta e stesa la mano sopra la tavola da notte ne prese un libro di piccolo formato che dalla rilegatura (dorso di pergamena, piatti di color marrone) mi accorsi appartenere al gabinetto Vieusseux. Lo aprì e si pose a leggerlo. Uscii.

Strada facendo mi domandavo quale potesse mai essere il libro che il ministro degli affari esteri leggeva, nel momento in cui stava per scoppiare la rivoluzione; e la domanda riconduceva il pensiero alla battaglia della quale io era, in certo modo, uno degli araldi. «Stamani» aveva detto il Tellini; e in piazza Santa Croce, nel bel centro di Firenze, all’alba, non c’erano che tre o quattro persone, le quali se ne andavano pacatamente pei fatti loro. Fresco della lettura della Histoire de dix ans del Blanc, sulla quale moltissimi in Italia fecero la loro educazione politica io non sapevo immaginare una rivoluzione senza cannoni, barricate e moltitudini in armi. Invece, nulla di tutto ciò. Presso al Ponte alle Grazie vidi venirmi da lontano incontro un vecchietto frettoloso, il quale alle acque d’Arno che lo ascoltavano sole gridava: «È finita la cuccagna». Nel passarmi accanto e ripetendo quel grido, da un fagotto che aveva in mano trasse uno stampato e me lo porse: il manifesto che il Comitato de’ popolari mandava fuori in quel giorno; anche questo conservo:

«Toscani!

«L’ora è sonata. La guerra della Indipendenza già si combatte. Voi siete italiani; non potete mancare a queste battaglie. E italiani siete anche voi, prodi soldati dell’esercito toscano, e voi aspetta l’esercito italiano sui campi di Lombardia. Gli ostacoli che impediscono l’adempimento de’ vostri doveri verso la patria devono togliersi; siate con noi e questi ostacoli spariranno come la nebbia. Fratellanza della milizia col popolo. Viva l’Italia! guerra all’Austria!

«Viva Vittorio Emanuele, primo soldato della indipendenza italiana!»

In quel manifesto si esprimevano desideri, si davano eccitamenti: ma non v’era punto detto che i desideri fossero appagati e accolti gli eccitamenti. E allora perchè il vecchietto gridava: «È finita la cuccagna?» Che cosa potevano significare quelle parole se non che la rivoluzione era fatta? Ma come fatta, se non si vedeva nessuno? Travolto nel mare delle dubbiezze, vi naufragavo.

*

Mio zio andò sulle furie e mi fece tale una risciacquata, che sciupò alla prima la mia figura di personaggio storico.

— Come, io, suo nipote, accettavo di fare il procaccino de’ Comitati? Come osavo di venirgli a proporre una vigliaccheria? Sicuro, una vigliaccheria. Appunto perchè «quei signori» volevano che non s’andasse in Palazzo Vecchio, appunto per questo si doveva andarci. E le dimissioni date la sera innanzi non bastavano ad esimere, perchè non si sapeva che il Granduca avesse nominato altri ministri. Bisognava andare, e se ci andava lui, mezzo cieco, ci poteva e doveva andare chi era sano e ben portante. — Questa era la sua risposta.

Dalla inviolabile dignità di araldo sceso all’ufficio di procaccino strapazzato, mal volentieri sarei tornato in piazza Santa Croce, se non m’avesse spinto la curiosità di sapere che libro il ministro leggesse. Poichè al mio rientrare nella camera, il volume era tornato alla prima sede sulla tavola da notte, nel riferire al Lenzoni le parole del collega, figurando di gingillarmi distrattamente, presi il libro e vi lessi sulla costola: Madame Gilblas.

Era un romanzo di Paolo Feval. Cominciai a capire che, quando i ministri, a quell’ora, si pigliavano di quei passatempi, la rivoluzione poteva risparmiarsi le barricate.

*

Ma se non le barricate, almeno qualche altra cosa che preparasse una sommossa, un tumulto, un trambusto, magari un tafferuglio. Niente. In quelle prime ore della mattina vagai per le strade tepide e luminose del sole di primavera, senza nulla avvertire di mutato o di nuovo nelle consuetudini cittadine. Nel Caffè Vitali, in Mercato Nuovo, dove ogni sera intorno a Raffaello Foresi, dottissimo e argutissimo direttore del Piovano Arlotto, s’adunava un manipolo di liberali ipercritici, che non stavano nè co’ moderati nè co’ popolari, alcuni di loro parlavano accalorati e sommessi. Stando in orecchio, mi parve intendere qualcosa si macchinasse nella piazza di Barbano, che il popolo non s’adattò mai a chiamare col nome borbonico di Maria Antonia, e fu, per quel 27 d’aprile, battezzata dipoi «dell’Indipendenza». Là abitava il ministro dell’ interno, là forse succedeva qualche scompiglio. Vi corsi. Erano le sette; gente sulla piazza ce n’era, ma poca e quieta; presso alla casa del ministro due carrozze, nelle quali la numerosa famiglia del Landucci si stipava sparuta e spaurita, fra la silenziosa curiosità e forse la commiserazione de’ presenti.

Impersuaso tornai sui miei passi. Da un secondo piano di via della Robbia (oggi via Nazionale) una voce mi chiamò a nome; la voce di un amico, Giulio Cavaciocchi, colto giovane che dava nelle lettere liete speranze di sè, dagli amici tenuto in gran conto anche perchè Giosuè Carducci gli aveva intitolato una delle proprie odi.

Ebbi da lui tutte le notizie lungamente e inutilmente cercate. Non c’era bisogno nè di tumulti nè d’armi: la «fratellanza della milizia col popolo» era un fatto compiuto. Alle nove una gran dimostrazione, movendo dalla vicina piazza Barbano, andrebbe sino a’ Pitti a manifestarvi non desideri ma volontà.

Scendemmo insieme, e subito fuori dell’uscio c’imbattemmo in un giovinotto che salutò il Cavaciocchi e prese a parlare con lui. Di mediocre statura, bruno, non bello ma con certa fierezza nell’aspetto; i cui piccoli occhi parevano, nel discorso ch’egli teneva concitato con l’amico, alternativamente sorridere d’allegrezza e sfavillare d’orgoglio. L’amico ci presentò. Martini: Carducci. Questi mi salutò con un buon giorno a lei secco e brusco.

Il Carducci io lo ammiravo di già; e parecchi dei versi editi a San Miniato nel ‘57 li sapevo a memoria; ma ora sapevo a memoria anche versi dell’Hugo e del Lamartine, che mi parevano non meno belli de’ suoi: leggevo i romanzi della Sand; Sand, Hugo, Lamartine, tutti quanti sbertati nella Diceria degli amici pedanti pubblicata sotto il patrocinio di lui; qualche anno prima in certo giornaletto avevo canzonato il Gargani e la su’ diceria, e delle morbose condizioni cerebrali dell’autore di quella, davo in altro giornaletto un bollettino settimanale. Così stando le cose, fu grazia dal Carducci d’allora ottenere un «buon giorno a lei» per secco e brusco che fosse: da meravigliarsi anzi che, in quell’incontro, non mi buscassi il secondo rabbuffo della giornata.

Facemmo insieme pochi passi; poi ci perdemmo di vista tra la gente che in mezz’ora, venuta da ogni parte della città, aveva gremito la piazza.

*

Accordatasi col popolo la milizia e tolto così al Granduca il mezzo efficace della repressione e della difesa, tutto si riduceva ormai nel conoscere quanto egli fosse disposto a concedere, per conservare il trono a sè o alla sua Casa; il resto un di più; infatti la «dimostrazione» non fu che una passeggiata. Alle nove migliaia di persone mossero ordinatamente da Barbano, capitanate da Giuseppe Dolfi e da Enrico Lawley, precedute da una bandiera bianca rossa e verde e da una fanfara che suonava l’inno del ‘48:

O giovani ardenti

D’ italico amore,

Serbate il valore

Pei dì del pugnar.

Nel tragitto per le vie di Sant’Apollonia e via Larga (oggi via 27 Aprile e Cavour) i Viva l’Italia si avvicendavano coi Viva la guerra, seguiti gli uni e gli altri da battimani. Presso al convento degli Scolopi a San Giovannino, replicati «Viva l’esercito» provocarono applausi più fragorosi e più caldi. Salutava i «dimostranti» ritto sul montatoio d’una carrozza da nolo, un tenente Saint-Seigne che, avvolto il dorso in un drappo tricolore, copriva così la montura de’ Cacciatori, più invisa d’ogni altra, perchè di tinta e di foggia simile a quella dei Tirolesi, delle cui prepotenze durava iroso il ricordo.

Per la piazza del Duomo e la via de’ Calzaioli e Vacchereccia s’arrivò sino allo sbocco di via Lambertesca, ove fermatisi coloro che le erano a capo e la guidavano, la folla fu trattenuta. Intanto che alcuni tra la calca impazienti gridavano «avanti, avanti!, a’ Pitti», sopra un tavolino tratto dal prossimo Caffè Panone, montò quell’abate Stefano Fioretti, istoriografo della chiesa di San Giuseppe e direttore di balli al teatro Pagliano, del quale ho già detto altrove. Brandito un bastone di canna d’ India col pomo d’avorio (mi par di vederlo) e mulinandolo come un capotamburo, arringò: «Cittadini, il principe delibera, lasciamolo deliberare in pace».

La gente obbedì; non all’esortazione dell’abate, ma all’ordine che s’indovinò del Comitato; parte andarono in Borgo Pinti a plaudire sotto le finestre della Legazione di Sardegna, i più ad attendere ansiosamente notizie sulla piazza per poco ancora, ma tuttavia «del Granduca». Io fra questi: e insieme col conte Enrico Fossombroni, poi deputato per Arezzo e senatore del Regno, sotto la Loggia de’ Pisani che fronteggiava il vecchio palazzo della Signoria, udimmo, se m’ è lecita l’immagine, descritti i sussulti nei quali agonizzava una dinastia, che aveva retto la Toscana per oltre cento anni.

Passò primo in carrozza il Ferrigni (Yorick) e bandì: licenziati i vecchi ministri, chiamato Don Neri Corsini marchese di Laiatico a formare il nuovo Ministero, alleanza della Toscana col Piemonte nella guerra contro all’Austria; a guerra finita, costituzione del 1848. La folla applaudì, ma non si mosse nè si scosse, quasi incredula aspettasse conferma di quelle notizie o notizie diverse. E diverse le portò di lì a poco, anche lui in carrozza, il mio amico Tellini. Guerra subito, costituzione più tardi; ma Leopoldo abdicava: si proclamava Ferdinando IV granduca di Toscana. E la folla applaudì. Venne ultimo l’avvocato Puccioni: Tutto a monte, il Granduca partiva. E la folla applaudì.

Come si sa, tutte quelle notizie furono vere nella fugacità d’un momento. Leopoldo, disposto a consentire alleanza, guerra, franchigie, financo ad abdicare, quando l’abdicazione gli fu imposta si risentì: e stimando meglio tutelare il decoro dell’uomo e del principe, preferì lasciare lo Stato; non accorgendosi che il patto gli si imponeva indovinando il rifiuto, e per cacciare non lui solo ma i suoi dalla Toscana, dov’egli invece si riprometteva tornare come dieci anni prima.

Consigliatosi co’ Ministri circa il luogo più conveniente alla nuova dimora, suggerirono Bruxelles ed egli assentì: ma, perchè gli spropositi sono come le ciliege, che una tira l’altra, dimenticò per istrada suggerimenti ed assensi e fece rotta per Vienna.

L’Arciduca ereditario nel congedarsi da Giulio Martini e stringendogli la mano: «Lei, — disse — che ha tanti amici in Piemonte, faccia sapere colà ch’io non ho voluto salire al trono passando sul corpo di mio padre».

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Dalla fortezza di Belvedere ove s’era condotto abbandonando la reggia, e donde per la bugiarda accusa di un paltoniere, fu creduto ordinasse di bombardare Firenze, il Granduca uscì con la famiglia in carrozza verso le sei del pomeriggio, e costeggiate le mura dalla Porta Romana alla Porta San Gallo, si diresse alle Filigare. Lo scortavano ufficiali e uno de’ membri più operosi del Comitato Bartolommei: Stefano Siccoli, fiorentino di nascita, maggiore nell’esercito peruviano, che ferito nella guerra col Cile e amputato, cavalcava con una gamba di legno.

Al passare del vecchio sovrano, parecchi si levavano il cappello, come se quelle carrozze lo conducessero alla solita trottata delle Cascine. Quel giorno mi domandai: è compassione o rispetto? Oggi penso: riconoscenza. Negando l’abdicazione, ostinato nel credere alle sicure vittorie dell’Austria, la rivoluzione l’aveva fatta principalmente egli stesso.

Ma da chiunque e comunque fatta, la rivoluzione toscana del 27 aprile 1859 non avrebbe avuto i meravigliosi effetti che ebbe, senza le pertinaci intrepidezze e le magnanime audacie di Bettino Ricasoli. Poco importa egli si convertisse all’unità un po’ prima o un po’ dopo; e importa anche meno che, trascorso mezzo secolo, ancora le passioni partigiane stentino a rendergli giustizia, quando non gliela negano addirittura.

Le passioni vaniscono; a ricompensare secondo i meriti pensa e provvede la storia.