Wikipedia
L'episodio risorgimentale noto come Martiri di Belfiore (dalla
valletta di Belfiore situata all'ingresso ovest di Mantova ove
furono eseguite le sentenze di morte) riguarda la prima di una lunga
serie di condanne a morte per impiccagione irrogate dal governatore
generale del Lombardo-Veneto, feldmaresciallo Radetzky. Esse
rappresentarono il culmine della repressione seguita alla prima
guerra d'indipendenza e segnarono il fallimento di ogni politica di
riappacificazione.
[...]
Indice
1 La particolare situazione di Mantova
2 Il contesto politico
3 La congiura mantovana
4 L'arresto di Tazzoli
5 Le torture e il processo
6 La condanna e l'intervento del vescovo di Mantova
7 Le esecuzioni
8 Eventi successivi
9 Note
10 Bibliografia
11 Voci correlate
12 Altri progetti
13 Collegamenti esterni
La particolare situazione di Mantova
La città di Mantova era entrata a far parte del patrimonio
della casa d'Asburgo d'Austria sin dal 1707. Capitale di un piccolo
ma assai ricco ducato, il cui territorio fu governato dai Gonzaga
per quasi quattro secoli, la città presentava, anche, degli
importanti vantaggi militari: tanto per la qualità delle
fortificazioni, quanto per la posizione geografica, che consentiva
di controllare il passaggio dal Veneto alla Lombardia, nonché
un gran numero di passaggi sul Po.
Infatti, essa fu al centro della campagna napoleonica del 1797, di
tutte le successive invasioni austriache sino alla resa di Eugenio
di Beauharnais il 23 aprile 1814 nelle mani di Heinrich Johann
Bellegarde. Appare quindi logico che, a partire dal 1815 gli
Austriaci abbiano ridotto la città a una sorta di grande
piazzaforte, forse la più grande del regno Lombardo-Veneto.
Con tanti militari in giro, essa si adattava splendidamente a
ospitare (nel castello di San Giorgio) un carcere di massima
sicurezza, detto in termini moderni, per patrioti lombardi e veneti,
incarcerati per la loro opposizione alla occupazione austriaca. Lo
stesso utilizzo, d'altra parte, era stato fatto dai francesi quando,
il 20 febbraio 1810, avevano giustiziato, proprio a Mantova, il
patriota tirolese Andreas Hofer (il quale si era ribellato a due
regni "vassalli" di Napoleone: il bavarese che occupava il Tirolo
germanico e il Regno d'Italia che aveva annesso il Trentino
italiano).
Il contesto politico
L'atteggiamento del governo austriaco subì un forte
indurimento, dopo la sconfitta dell'esercito di Carlo Alberto (che
comandava l'esercito sardo e truppe formate da innumerevoli
volontari lombardi, veneti e di molte altre regioni italiane). In un
solo anno, dall'agosto del 1848 all'agosto del 1849, vennero
eseguite 961 impiccagioni e fucilazioni, comminate oltre 4.000
condanne al carcere per cause politiche, effettuate numerose
requisizioni dei beni degli espatriati, imposti pesanti tributi e
imposte straordinarie alle popolazioni. La politica repressiva era
operata direttamente dal Feldmaresciallo Radetzky, governatore
generale, ma fortemente sostenuta, a Vienna dalla corte. Ciò
che non lasciava spazio di ambiguità riguardo alle reali
intenzioni della potenza occupante.
Il clima era stato, se possibile, aggravato dalle due visite
dell'Imperatore nel 1851 (marzo-aprile a Venezia, settembre-ottobre
a Milano, Como e Monza), che avevano mostrato come la politica del
feldmaresciallo Radetzky non avesse ottenuto alcun successo
nell'avvicinare le popolazioni e la nobiltà italiana al
regime asburgico. In coincidenza con i falliti viaggi, il
governatore generale plenipoteziario, aveva emesso due proclami (21
febbraio e 19 luglio 1851) che decretavano da uno a cinque anni di
carcere duro per chi fosse stato trovato in possesso di scritti
‘rivoluzionarì (patriottici, diremmo noi), re-imponevano lo
stato di assedio, e ritenevano solidalmente responsabili le
municipalità che avessero ospitato, anche a loro insaputa,
società segrete.
La congiura mantovana
Come naturale, il malcontento, se possibile, crebbe ulteriormente, e
i patrioti ripresero a incontrarsi e organizzarsi segretamente. Si
creò un movimento cospirativo articolato e policentrico[1]
con la nascita di società segrete insurrezionali in tutto il
Lombardo-Veneto. Una sezione si organizzò a Mantova con una
prima riunione del 2 novembre 1850 nella casa di proprietà
dell'esule Livio Benintendi, ubicata nell'attuale Via Chiassi al
N.10, amministrata in sua assenza dall'ingegnere Attilio Mori.
A tale riunione costitutiva del comitato rivoluzionario
parteciparono venti patrioti[2], tra i quali oltre al Mori,
l'ingegnere Giovanni Chiassi, l'insegnante Carlo Marchi, Giovanni
Acerbi, l'avvocato Luigi Castellazzo, Achille Sacchi, il medico
mantovano Carlo Poma. L'ispiratore del gruppo era don Enrico
Tazzoli, un prelato vicino al movimento mazziniano che aveva
contatti con figure notevoli dello stesso movimento quali Tito Speri
(il protagonista delle dieci giornate di Brescia) e Angelo
Scarsellini di Legnago di Verona.
Il comitato insurrezionale mantovano stampava proclami, aveva
contatti con le cellule di Milano, Venezia, Brescia, Verona, Padova,
Treviso e Vicenza, raccoglieva denaro vendendo le cosiddette
‘cartelle del prestito interprovinciale' organizzato dal Mazzini per
finanziare iniziative rivoluzionarie. Si trattava delle stesse
cartelle che avevano portato all'arresto del comasco Luigi Dottesio,
impiccato a Venezia l'11 ottobre 1851. Alla sua esecuzione aveva
fatto seguito, a fine 1851 l'esecuzione di don Giovanni Grioli,
parroco di Cerese, arrestato il 28 ottobre per ordine del capitano
auditore Carl Pichler von Deeben e condannato a morte il 5 novembre,
in direttissima, per l'accusa di aver tentato di indurre alla
diserzione due soldati ungheresi e di essere in possesso di scritti
rivoluzionari.
L'arresto di Tazzoli
Nel rinnovato clima repressivo, la polizia austriaca aveva aumentato
l'attività di vigilanza in Mantova e il 1º gennaio 1852,
il commissario Filippo Rossi rinvenne una cartella di venticinque
franchi del prestito mazziniano, nel corso di una perquisizione in
casa di Luigi Pesci, esattore comunale di Castiglione delle
Stiviere. Pesci era, in effetti, sospettato di falsificazione di
banconote austriache e, quindi, la scoperta giunse inaspettata.
Eppure il Pesci era membro di un folto centro cospirativo
antiaustriaco operante nell'Alto Mantovano[3]. Sottoposto a feroce
interrogatorio, Pesci rivelò che le cartelle provenivano dal
sacerdote don Ferdinando Bosio, amico di Tazzoli e professore di
grammatica nel seminario vescovile di Mantova. Questi, arrestato a
sua volta, dopo 24 giorni confessò e indicò in don
Enrico Tazzoli il coordinatore del movimento, ciò ne
consentì l'arresto, il 27 gennaio. A don Tazzoli vennero
sequestrati molti documenti, fra i quali un registro cifrato in cui
aveva annotato incassi e spese, con i nomi degli affiliati che
avevano versato denari.
Le torture e il processo
Tazzoli non cedette agli interrogatori, condotti dall'auditore
giudiziario Alfred von Kraus, ma la polizia austriaca riuscì
a decifrare il registro individuando la chiave del cifrario che era
il testo latino del Padre Nostro. All'epoca molti sostennero che vi
fu la delazione di Luigi Castellazzo, coinvolto come segretario del
comitato mazziniano. Collaborò anche un altro delatore,
l'avvocato veronese Giulio Faccioli. Ciò consentì alle
autorità austriache di procedere all'arresto di Poma, Speri,
Montanari e altri iscritti di Mantova, Verona, Brescia e Venezia. In
totale vennero arrestati 110 patrioti, oltre a trentatré
contumaci (fra i quali Benedetto Cairoli e Giovanni Acerbi).
La polizia austriaca e il governo occupante erano assai esacerbati e
sottoposero buona parte dei prigionieri a tortura. Molti
confessarono, altri morirono prima di parlare, il Pezzotto scelse di
suicidarsi nella sua cella al Castello di Milano. Al termine furono
110 le persone rinviate a processo.
Alfred von Kraus sostenne l'esistenza dell'associazione di Mantova e
dei comitati delle altre province, i rapporti con Mazzini e gli
espatriati in Svizzera, il tentativo di Montanari di mappare le
fortificazioni di Mantova e Verona, un piano di Igino Sartena,
patriota trentino, di attentare alla vita del Feldmaresciallo
Radetzky, un altro piano di catturare Francesco Giuseppe in
occasione della sua visita a Venezia (tanto folle che Poma e Speri
si erano all'ultimo rifiutati di eseguirlo).
La condanna e l'intervento del vescovo di Mantova
Il 13 novembre si riunì un primo consiglio di guerra per
giudicare don Tazzoli, Scarsellini, Poma, i tre veneziani Bernardo
Canal, l'agente di commercio Paganoni e il ritrattista Zambelli, il
negoziante milanese Mangili, il medico mantovano Giuseppe
Quintavalle e don Giuseppe Ottonelli parroco di San Silvestro in
Mantova. E, infine, Giulio Faccioli, che pure aveva collaborato.
Subito vennero, tutti, condannati a morte.
La notizia, tuttavia, non venne subito resa pubblica, in modo da
avere il tempo di eseguire la dimissione dallo stato clericale dei
due preti condannati, Tazzoli e Ottonelli. Il problema non era
semplicissimo, in quanto, in teoria, i sacerdoti potevano essere
giudicati unicamente dal foro ecclesiastico. E, infatti, quando, un
anno prima, era stato condannato don Grioli, per rimarcare il
proprio dissenso, il vescovo di Mantova, monsignor Giovanni Corti,
aveva rifiutato il proprio assenso e il parroco di Cerese fu
assassinato dal boia austriaco ancora in abito talare. In questo
caso, tuttavia, gli austriaci avevano fatto le cose con cura,
ottenendo, per tempo, un ordine speciale di Pio IX, che
sconfessò il vescovo. La dimissione dallo stato clericale
avvenne, quindi, il 24 novembre. Solo a quel punto, il 4 dicembre,
gli austriaci diedero ai dieci processati lettura della sentenza.
L'intervento del vescovo avrebbe potuto rappresentare una svolta
della vicenda. Egli, infatti, in cattedra dal 1847 al 1868, aveva
guadagnato grandi benemerenze presso gli austriaci, dopo che, nel
marzo 1848, si era distinto nell'impedire che la sollevazione
popolare pervenisse a cacciare gli austriaci dalla città,
restando circoscritta all'organizzazione di una piccola guardia
cittadina. E come pavido fu, perciò, bollato da Cattaneo.
Già una volta monsignor Corti aveva potuto salvare don
Tazzoli quando quest'ultimo (originario di Canneto sull'Oglio nella
diocesi, professore al seminario vescovile e impegnato nella
fondazione dei primi asili d'infanzia della città), era stato
arrestato, il 12 novembre 1848, al termine di una messa celebrata in
una basilica di Mantova. Deferito al delegato della Fortezza di
Mantova, generale Gorzkowski, che ne ordinò l'arresto, il
successivo 23 novembre venne prosciolto, anche per l'intervento del
vescovo Monsignor Giovanni Corti che ne ringraziò il
Gorzkowski e gli promise di impedire, per il futuro, al suo
sacerdote simili iniziative.
Nel 1852, quindi, il rifiuto austriaco alla clemenza segnò
una frattura fra la Chiesa cattolica lombarda e l'autorità
imperiale, dimostrando, se ancora ve ne fosse bisogno, la totale
insensatezza della politica del Feldmaresciallo Radetzky e di
Francesco Giuseppe, che lo sosteneva e lo lasciò fare per
otto anni, sino al 1856.
Le esecuzioni
Il vescovo di Mantova tentò ancora un intervento, sostenuto
anche da altri vescovi e dalla generale commozione che si era
diffusa in tutto il Lombardo-Veneto. Il governatore generale
Radetzky accettò unicamente di commutare la pena in
otto-dodici anni di ferri in fortezza per alcuni patrioti
condannati, ma confermò la pena per Tazzoli, Scarsellini,
Poma, Canal e Zambelli. I governanti austriaci erano, probabilmente,
convinti di dar prova di una magnanimità cesarea. In
realtà commisero un grosso errore di valutazione politico,
che segnò la fine di ogni prospettiva di pacificazione delle
province italiane. A perderci di più fu l'immagine di
Francesco Giuseppe, che cominciò, appena ventiduenne, a
essere indicato come "l'impiccatore": un marchio del quale non si
sarebbe mai liberato, fino alle esecuzioni di Guglielmo Oberdan,
Nazario Sauro, Damiano Chiesa, Fabio Filzi e Cesare Battisti, nomi
che sarebbero stati consegnati ai posteri dalla Canzone del Piave.
La mattina del 7 dicembre i cinque condannati furono condotti nella
valletta di Belfiore, situata fuori Porta Pradella all'ingresso
ovest della città, ove furono impiccati.
Nel marzo 1853, furono comminate le ultime condanne contro i
restanti ventitré cospiratori. Prima Tito Speri, Carlo
Montanari e don Bartolomeo Grazioli, arciprete di Revere, furono
condannati a morte e impiccati a Belfiore il 3 marzo 1853. Ai
restanti venti imputati la condanna a morte venne commutata in
vent'anni di reclusione. Più tardi venne condannato Pietro
Frattini, impiccato il 19 marzo. Le esecuzioni terminarono solamente
due anni dopo, il 4 luglio 1855, con l'impiccagione di Pier
Fortunato Calvi, poco oltre il ponte di San Giorgio.
Per somma ingiuria, e con gran dispetto alla pietà cristiana,
il governo austriaco vietò il seppellimento degli impiccati
in terra consacrata. Ciò doveva suonare a ulteriore
umiliazione della Chiesa mantovana.
Eventi successivi
Le vicende non erano finite ed ebbero un seguito con il rinvenimento
delle salme, avvenuto nel 1866. Dopo la seconda guerra di
indipendenza, infatti, Mantova era rimasta all'Impero
Austro-Ungarico. Nel corso del mese di giugno, in preparazione della
terza guerra di indipendenza, il genio militare austriaco
ordinò dei lavori di rafforzamento delle fortificazioni della
città in zona Belfiore.
Nel quadro di detti lavori, si rese necessario effettuare dei lavori
di scavo per recuperare la sabbia necessaria alle opere murarie. In
detta occasione, i capimastri mantovani Andreani, padre e figlio,
rinvennero delle salme che identificarono come le spoglie dei
martiri (mancavano solo quelle di Pietro Frattini e don Grioli, che
furono rinvenute l'anno seguente). Gli Andreani tennero, ovviamente,
nascosta la notizia e chiesero ai loro appaltatori austriaci di
poter lavorare anche di notte per accelerare i tempi dello scavo,
costoro naturalmente assentirono.
Ciò consentì ai muratori di trasportare le salme in un
cimitero cittadino in gran segreto. I funerali cristiani vennero,
finalmente, celebrati, alcuni mesi dopo, appena la città si
riunì al Regno d'Italia, insieme al Veneto, al termine della
guerra.
D'altronde don Tazzoli continuò a essere onorato dalla
diocesi, sempre retta da monsignor Corti, la quale autorizzò
la pubblicazione delle prediche da lui composte in carcere. Egli
aveva reso un gran servigio alla Chiesa quando, interrogato dagli
austriaci, aveva scritto loro che il clero mantovano era segnato
dall'insurrezione poiché fedele alla tradizione cattolica,
"con spirito aderente al sociale e al concreto dei valori educativi
e formativi dell'uomo ... e per attuarne le esigenze occorreva
essere liberi". Infine, la notte prima del patibolo, scrisse un
biglietto nel quale dava il perdono "a chiunque poté in
queste faccende o in altro danneggiarmi. Così Dio mi
perdoni".