Tommaso Marinetti

 

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di Luigi Paglia

MARINETTI, Filippo Tommaso (all’anagrafe Emilio Angelo Carlo). – Nacque il 22 dic. 1876, ad Alessandria d’Egitto, da Enrico e da Amalia Grolli.

I genitori, che vivevano more uxorio, si erano trasferiti in Egitto qualche anno prima della nascita del M. (preceduta nel 1874 da quella del primogenito Leone). Il padre, avvocato civilista originario di Voghera, inizialmente impiegato presso gli uffici commerciali della Società del Canale di Suez, aveva aperto studi anche a Ramleh, al Cairo e a Khartum e, soprattutto, era il legale personale del chedivè, Muhammad Tawfiq pascià; la sua frenetica operosità e l’abilità professionale gli permisero di accumulare un cospicuo patrimonio cui poi il M. avrebbe attinto per organizzare la sua futura attività cultural-imprenditoriale. A fronte del vorticoso ed esuberante attivismo paterno, la dolcezza comprensiva, la tenerezza della madre costituirono il punto alternativo di riferimento, e di abbandono, del M. ragazzo, il quale non tardò a manifestare la sua esplosiva vitalità nell’atmosfera sovreccitata di Alessandria.

I primi anni di vita del M. non hanno una precisa documentazione in quanto le rievocazioni autobiografiche (Scatole d’amore in conserva, Roma 1927; La grande Milano tradizionale e futurista - Una sensibilità italiana nata in Egitto, a cura di G. Ferrata, Milano 1969 – da lui scritti negli ultimi anni) si presentano in un’aura di suggestiva mitizzazione.

Se il racconto del M. risulta perciò parzialmente inaffidabile ai fini di una attendibile ricostruzione di eventi biografici, esso mette comunque in evidenza alcune costanti psicologico-esistenziali del personaggio: «la disponibilità alla lotta e alla guerra; il nazionalismo esasperato; l’individualismo presuntuoso; l’orgogliosa esaltazione delle invenzioni estetiche e vitali; il gusto del teatrale, del retorico, del barocco; il compiaciuto lirismo; la mitizzazione erotica, espressa soprattutto come volontà conquistatrice; la coloritura esotica» (Paglia, p. 32).

Di certo il M., nel 1888, iniziò a frequentare, ad Alessandria, il collegio St. François-Xavier dei padri gesuiti francesi.

Alle sollecitazioni ambientali e familiari, che condizionarono la struttura psicologica e la formazione umana e letteraria del M. – per esempio, le letture di Dante, volute dalla madre a parziale correttivo di un’istruzione scolastica prevalentemente francese, seguite da quelle di G. D’Annunzio, il Giovanni Episcopo, e di F. Petruccelli della Gattina, Il Re dei re –, si aggiunsero gli stimoli e le rivelazioni che gli provenivano dagli studi, suscitando in lui un acceso amore per la letteratura in generale e aprendogli, nello specifico, la possibilità di scoperte personali nell’ambito della letteratura francese. Inoltre, in questi anni dette una prima dimostrazione della sua abilità di organizzatore culturale fondando, con lo pseudonimo di Hespérus, una rivistina letteraria, Le Papyrus.

Nel 1893 il M. fu espulso dal collegio, fra l’altro per avervi introdotto alcune opere di É. Zola, autore all’Indice. Mentre il resto della famiglia rientrava a Milano, il M., per conseguire il baccalauréat – che ottenne col minimo dei voti il 13 luglio 1894 –, si stabilì a Parigi, approdando in una città che sarebbe rimasta suo costante punto di riferimento. Ottenuto il diploma, raggiunse la famiglia nell’appartamento di via Senato 2 e prese quindi a seguire, insieme con lo sfortunato fratello Leone (morto nel 1895 per le complicazioni cardiache di un’artrite trascurata), i corsi di giurisprudenza dapprima nell’Università di Pavia e poi in quella di Genova dove si laureò, il 17 luglio 1899, discutendo una tesi su «La Corona nel governo parlamentare» col prof. A. Ponsiglioni. Contemporaneamente il M. aveva dato inizio alla sua attività di poeta e scrittore: nella rivista italo-francese Anthologie-Revue, stampata a Milano e diretta da E. Sansot-Orland, uscirono, nel 1898, sul n. 6 (20 marzo) la poesia L’échanson e, sul n. 12 (20 settembre), il poemetto Les vieux marins, in «versi liberi», con il quale vinse il concorso bandito nell’ambito dei Samedis populaires (o Samedis de poésie ancienne et moderne), pubbliche letture organizzate a Parigi dai simbolisti C. Mendès e G. Kahn. Nella rivista fiorentina Il Marzocco apparve poi un altro poema, La tour d’amour (19 nov. 1899, n. 43).

Le opere del periodo iniziale del M., che può definirsi di «incubazione futurista», sono scritte in francese e della ricerca letteraria all’epoca in atto in Francia principalmente si alimentano: in primis dell’esperienza del decadentismo ma soprattutto di quella della poesia simbolista, con un insistito utilizzo di metafore e procedimenti analogici che privilegiano le figure di «maggiore carica dialettica» (Paglia, p. 55), in funzione di linee tematiche aderenti principalmente al mondo della natura (sere, tramonti, vento, alberi, prati, luna).

Conclusi gli studi, il M. proseguì quindi, e intensificò tra Parigi e Milano, in veste di autore e promotore, l’attività culturale: il temperamento vulcanico e le notevoli disponibilità economiche, garantite dalla ricchezza paterna, gli consentirono di inserirsi con una certa facilità negli ambienti letterari e nella buona società della metropoli lombarda, dove venne a contatto con gli scrittori più noti (da M. Praga a E.A. Butti, da Guido da Verona a S. Benelli, da G. Botta a L. Capuana, da A. Colautti a U. Notari). Si dedicò anche a un’intensa collaborazione con importanti riviste francesi (La Plume, La Vogue, La Revue blanche, il Mercure de France) e cominciò a prodursi come conferenziere.

In Italia, in particolare, si ritagliò il ruolo di «difensore e profeta» del simbolismo francese, tenendo non solo conferenze ma anche vere e proprie esibizioni, in cui manifestò doti di buon declamatore al servizio di composizioni di Ch. Baudelaire, S. Mallarmé, P. Verlaine, A. Rimbaud. Contemporaneamente valorizzava e metteva a fuoco la propria immagine in un costante e riuscito esercizio di autopromozione che praticò di fatto per tutta la vita.

Nel 1902 il M. perse la madre, cui era molto legato e, nello stesso anno, apparve il suo primo volume, La conquête des étoiles (Paris; trad. it. di D. Cinti La conquista delle stelle, Milano 1920), cui seguirono, oltre a un volumetto su D’Annunzio intime (Milano 1903) – autore che per il M. fu oggetto sempre di un ambiguo sentimento di amore-odio –, La momie sanglante (ibid. 1904), Destruction (Paris 1904; trad. it. di D. Cinti Distruzione, Milano 1920) e la tragedia ilare Le roi Bombance (Paris 1905; trad. it. di D. Cinti Re Baldoria, Milano 1910; prima rappresentazione Parigi, théâtre de l’Oeuvre, 3 apr. 1909, direzione di A. Lugné-Poë; prima rappresentazione italiana, Roma, teatro del 2000, 4 apr. 1929).

Il trittico iniziale riecheggia ancora motivi e modalità della poesia simbolista i quali però, espressi con un ritmo accelerato e barocco, accompagnati da una stupefacente quantità di immagini analogiche e da un’accentuata semplificazione delle strutture sintattiche, preludono ai folgoranti accostamenti delle «parole in libertà». In questi primi lavori, non infrequenti figurazioni di derivazione romantica si pongono spesso a contrasto con raffigurazioni prefuturiste, secondo una linea di sviluppo che conduce alla doppia polarità dell’amore e della sensualità da una parte e del vitalismo e dell’esaltazione dell’universo tecnologico dall’altra. In La conquête des étoiles, poema epico in 19 canti per complessivi tremila versi, si racconta un sogno in cui il Mare tenta la conquista delle Stelle descrivendo «i due eserciti di acque oceaniche che si scavalcano per addentare gli spalti della Via Lattea» (La grande Milano…, p. 62); La momie sanglante è l’apocalittica descrizione della «resurrezione» di una mummia, ancora immersa in un clima macabro e fantastico di chiara ascendenza tardoromantica; infine, in Destruction, uno fra gli esiti maggiori del primo periodo del M., si raffigura, in stretto rapporto con quanto narrato nella Conquête, «lo scatenamento contro i Continenti, contro le Città e contro la donna» degli «eserciti simbolici del Mare che dovevano poi scagliarsi alla Conquista delle stelle», in una spirale vorticosa di immagini plastiche e figurali, fortemente deformate dalla carica visionaria, dalla violenza espressionistica e dall’aggressività linguistica del Marinetti.

Alle stesse leggi espressive delle opere di poesia rispondono i lavori teatrali di questo primo periodo: nel giovanile Dramma senza titolo (dramma storico di «amore e morte» ambientato a Venezia, scritto tra Otto e Novecento, ripudiato dal M. e pubblicato per la prima volta nel 1960 in Teatro, a cura di G. Calendoli, nella trad. it. di Benedetta Marinetti) si incontra la torrenziale carica retorica tipica del M. presente anche nella pantagruelica metafora gastronomica Le roi Bombance, in cui la fame inesauribile che muove tutta l’azione costituisce e rappresenta una sorta di violenta energia primordiale di stampo oramai futurista.

Nel 1905 il M. fondò la rivista internazionale Poesia, diretta per i primi sette numeri con Benelli e V. Ponti, quindi da solo fino al 1910.

L’ampia rete di rapporti che il M. aveva saputo stabilire e una linea programmatica iniziale di vaga intonazione estetizzante, tale da permettere la convivenza di personalità anche diverse, ne fecero subito un polo di attrazione per scrittori e poeti di varia collocazione artistica, di cui venivano pubblicati testi inediti; tra gli altri: D’Annunzio, C. Roccatagliata Ceccardi, G. Pascoli, Mendès, Kahn, Trilussa (C.A. Salustri), R. Bracco, G. Gozzano. In seguito, il M. ne accentuò il carattere innovativo soprattutto con la pubblicazione di un’inchiesta internazionale sul verso libero (1907) che rappresentò l’antecedente immediato dei manifesti futuristi.

Nel 1908 il M. pubblicò il libello Les dieux s’en vont, d’Annunzio reste (Paris) e la raccolta poetica La ville charnelle (ibid.; in parziale trad. it.: Lussuria-Velocità, Milano 1921).

Il primo, ispiratogli dalla partecipazione, nel 1907, ai funerali di G. Carducci, affermava la superiorità di quest’ultimo, in nome di una sua «virilità» poetica, sulla «femminile leggiadria» di D’Annunzio (ma, a ulteriore testimonianza dell’ambivalente rapporto che il M. ebbe sempre con il pescarese, se ne veda la commossa rievocazione, pubblicata dal M. in Gazzetta del popolo di Torino il 3 marzo 1938). Il secondo, ben più significativo, raccoglie una serie di liriche ispirate alla città moderna, il cui tratto comune è rappresentato dall’esaltazione della modernità, della velocità, della macchina, con particolare riguardo all’«Automobile da corsa», immagine dinamica del progresso.

L’evoluzione dell’estetica marinettiana – secondo una prospettiva che fu sempre globale, implicando sia l’attività letteraria o genericamente artistica sia quella politica – si alimentò, e giunse a maturazione, nel clima di intenso fervore produttivo e tecnologico, ma anche di presentimenti di guerra che si respirava in quegli anni in Italia. In quello stesso 1908, a Trieste, con un gesto rivelatore delle sue posizioni politiche, il M. partecipò ai funerali della madre di G. Oberdan e successivamente intervenne alla Società ginnastica triestina in merito ai gravi incidenti occorsi a Vienna agli studenti italiani, provocando tumulti che gli costarono l’arresto.

L’anno dopo, nel 1909, pubblicò l’azione teatrale Poupées électriques (Paris; rappresentata in italiano col titolo La donna è mobile: Torino, teatro Alfieri, 15 genn. 1909) e nel 1910 il romanzo Mafarka le futuriste (Paris; trad. it. di D. Cinti Mafarka il futurista, Milano 1910). Fu a causa di questo romanzo che il M. subì, in Italia, un processo per oltraggio al pudore per cui venne inizialmente assolto l’8 ott. 1910, quindi condannato in appello e in Cassazione.

Ambedue le opere sono testimonianza di una fase sperimentale di transizione: la pièce alterna modi e situazioni del teatro tradizionale borghese (un intreccio amoroso tra due coppie) a strutture e idee anticipatrici del teatro di avanguardia, collocate particolarmente nel secondo atto che il M. avrebbe più tardi rappresentato isolatamente col titolo di Elettricità sessuale. Nel romanzo è evidente lo squilibrio tra la modulazione artisticamente controllata di alcuni passi e la proliferazione, altrove, delle più diverse modalità stilistiche e narrative.

Ma il 1909 riveste particolare significato nella biografia del M. soprattutto per la pubblicazione, il 20 febbraio, di Fondazione e Manifesto del futurismo – apparso in francese, in forma di articolo accompagnato da una breve presentazione, in Le Figaro e preceduto da almeno altre 11 versioni, a cominciare da quella originale sulla Gazzetta d’Emilia di Bologna del 5 febbraio –, comunemente considerato l’atto fondativo del movimento futurista: movimento concepito dal M., e dai suoi numerosi adepti, non solo come fenomeno artistico globale, concernente, quindi, tutti i linguaggi espressivi, ma anche come attivo fattore politico. In effetti Fondazione e Manifesto fu immediatamente accompagnato da un primo manifesto politico, di tono violentemente anticlericale, diffuso in volantini lanciati in occasione delle elezioni generali del marzo 1909 (vedi in M. e il futurismo, Roma-Milano 1929, pp. 39 s.); seguì, nello stesso 1909, Uccidiamo il Chiaro di Luna! (del successivo aprile, in Poesia, V, n. 7-8-9; poi in volume, Milano 1911).

Il «manifesto», in quanto scritto programmatico e teorico che imposta, definisce e indirizza un movimento artistico e/o politico, fu di fatto «reinventato» dal M. che riuscì «a trasformare un’arida presentazione teorica, in una vivace rappresentazione artistica, quasi una prerealizzazione, speculare, delle linee programmatiche» (Paglia, p. 64), creando in pratica un nuovo genere letterario. E, in effetti, il Manifesto del futurismo del 1909 presenta un vero e proprio andamento narrativo, carico di immagini barocche e sfarzose alternate a passaggi incisivi che impongono una velocizzazione al ritmo del discorso: si apre con la descrizione della notte insonne dei pionieri del futurismo, continua con quella della corsa turbinosa in automobile e del bagno nell’acqua fangosa del fossato dell’officina, simboleggiante la rinascita dell’uomo dalla «grande madre industriale», e, quindi, prosegue presentando il quadro programmatico globale della nuova civiltà futurista, sintetizzabile nelle polarità tematico-espressive comuni alle avanguardie del Novecento – l’attivismo-vitalismo, l’antagonismo a ogni ordine costituito, il nichilismo violento e distruttivo, l’agonismo spinto fino al superamento di ogni limite (cfr. R. Poggioli, Teoria dell’arte di avanguardia, Bologna 1962) –, cui si aggiungono le idee più proprie al M.: l’esaltazione del mondo industriale e della velocità; il disprezzo della donna collegato alla glorificazione della guerra, del militarismo, del patriottismo; la polemica contro i passatisti, nella proiezione verso il futuro e nella prefigurazione dell’«uomo meccanico e moltiplicato e del regno della macchina». Altrettanto torrenziale e violento risulta lo svolgimento narrativo di Uccidiamo il Chiaro di Luna!, in cui il discorso allegorico vede protagonisti i Podagrosi e i Paralitici, a rappresentare i passatisti, contrapposti ai Pazzi e alle Belve, le forze istintive e vergini della natura, e l’uccisione del «Chiaro di Luna», sostituito da trecento lune elettriche, esprime l’avvento della civiltà tecnologica.

Il M., con intuizione autenticamente precorritrice, aveva afferrato il nesso che collega i metodi pubblicitari dell’industria alla diffusione delle idee, sia nel campo dell’arte sia in quello della politica, e la fondamentale influenza delle «diverse forme di comunicazione, di trasporto, d’informazione, per cui arte e industria si scambiano di continuo le parti»; si lanciò, dunque, in una frenetica attività di propaganda del movimento, procurando nuove e numerose adesioni che trovavano ottimo terreno di coltura negli ambienti dell’avanguardia protonovecentesca italiana. Tra il 1909 e il 1911 entrarono a farne parte, tra gli altri, A. Palazzeschi, E. Cavacchioli, C. Govoni, L. Altomare, L. Folgore, il musicista F.B. Pratella, i pittori U. Boccioni, C. Carrà, L. Russolo, G. Balla e G. Severini.

Si susseguirono così, fra i primi e più significativi manifesti relativi alle diverse espressioni artistiche: Manifesto dei musicisti futuristi dell’11 ott. 191o e il Manifesto tecnico della musica futurista dell’11 marzo 1911, entrambi redatti da Pratella; per la pittura, Manifesto dei pittori futuristi dell’11 febbr. 1910, firmato da Boccioni, Carrà, Russolo, Balla e Severini; per la scultura, Manifesto tecnico della scultura futurista dell’11 apr. 1912, firmato da Boccioni oltre ai manifesti politici (per tutti e anche per quelli a seguire si rimanda in breve a: Manifesti proclami interviste e documenti teorici del futurismo 1909-1944, rist. anast., Firenze 1980; nonché Archivi del futurismo, Milano-Roma 1986).

Altra manifestazione originale e caratteristica della prima fase del movimento furono le serate futuriste che ebbero inizio il 12 genn. 1910, al politeama Rossetti di Trieste, e proseguirono poi in numerose altre città italiane.

Tenute in teatri, ritrovi letterari, gallerie d’arte, sin dall’inizio si configurarono secondo un «copione» che prevedeva lo scontro dialettico – con corollario di proteste e discussioni che spesso degeneravano in rissa – tra i futuristi, i quali dal palco, ma anche dalla platea, propugnavano in vario modo il loro credo e dissacravano l’arte tradizionale e gli spettatori dissenzienti. Per il M. rappresentarono l’opportunità di dare sfogo al lato istrionico del suo carattere improvvisando discorsi, declamando versi, presentando quadri o esecuzioni musicali.

Nel 1911 il M. – da poco trasferita la sua residenza milanese da via Senato alla «casa rossa» di corso Venezia 61 – accolse entusiasticamente lo scoppio della guerra italo-turca e si recò in Libia come osservatore, inviato del giornale francese L’Intransigeant (le sue corrispondenze, raccolte in volume, furono pubblicate come La battaglia di Tripoli, Padova 1912). Proprio la conquista di Tripoli gli dette occasione per scrivere il secondo manifesto politico, datato 11 ott. 1911, in cui compare la celebre definizione della guerra «sola igiene del mondo» (cfr. Archivi del futurismo, cit., p. 31). In sintonia con l’esaltazione bellica di questo periodo, uscì in Francia il «romanzo profetico» Le monoplan du pape (Paris 1912; trad. it. L’aeroplano del papa, Milano 1914), una dilungata fantasticheria grottesca, ferocemente antipacifista, dominata dalla figura dello scrittore-protagonista in veste di aviatore.

Nel biennio 1912-14, comunque, il M. si adoperò fondamentalmente sul versante delle enunciazioni teoriche di poetica e tecnica letteraria pubblicando – dal 1913 spesso anche nel periodico fiorentino Lacerba, allineatosi al futurismo, con i suoi più importanti collaboratori, G. Papini, G. Prezzolini, A. Soffici – Manifesto tecnico della letteratura futurista (11 maggio 1912) con le conseguenti, chiarificatrici, Risposte alle obiezioni (11 ag. 1912) e con, alla stessa data, il primo esempio di scrittura parolibera: Battaglia Peso+Odore (tutti inseriti nell’Antologia dei poeti futuristi, Milano 1912); Distruzione della sintassi - Immaginazione senza fili - Parole in libertà (Milano, 11 maggio 1913); e Lo splendore geometrico e meccanico e la sensibilità numerica (ibid., 18 marzo 1914). Questi fondamentali documenti, stilisticamente lineari, incisivi e, a differenza dei primi manifesti, raramente percorsi da accensioni liriche, inaugurano una nuova fase dell’attività del M. quella, appunto, delle parole in libertà e delle tavole parolibere, intesa a delineare il quadro delle modalità «tecniche» poste a fondamento della letteratura futurista, articolate principalmente intorno a tre poli.

Il primo è focalizzato sulla velocità di registrazione del reale da raggiungersi attraverso una rivoluzione linguistica – di fatto la prima radicale rivoluzione linguistica del nuovo secolo di cui il M. ebbe, al solito, una precoce intuizione – attuata attraverso la distruzione della sintassi tradizionale per il tramite, soprattutto, dell’uso del verbo all’infinito, della sistemazione a caso dei sostantivi, dell’eliminazione di aggettivi, avverbi, congiunzioni e della punteggiatura, sostituita, per le indicazioni di movimento e di direzione, con segni matematici e grafici e, per regolamentare la velocità dello stile, con indicazioni musicali (presto, più presto, ecc.). Il secondo polo prendeva in considerazione le molteplici modalità della percezione del reale, che andava collegata, anche in letteratura, a stimoli inerenti a tutti e cinque i sensi (visivo, olfattivo, auditivo, tattile e gustativo) e alla diversità delle prospettive atte a moltiplicarla; la scomposizione degli oggetti che ne derivava doveva essere ricondotta a unità, sulla pagina, attraverso gli strumenti di trascrizione utilizzando la deformazione delle parole, che confluisce nell’onomatopea – dal M. suddivisa in diverse tipologie in rapporto al grado più o meno alto di rarefazione realistica, di precisione imitativa e di complessità figurativa –, cui corrisponde una rivoluzione tipografica operata attraverso la diversità dei caratteri tipografici e la colorazione delle lettere. Il terzo polo, di sicura derivazione simbolista, si riferisce all’ampiezza e alla concatenazione del sistema analogico.

Attraverso questa complessa teorizzazione il M., mosso da una sorta di ossessione lirica della materia, mirava a cancellare dall’ambito della letteratura l’Io come oggetto di analisi e come soggetto ordinatore e filtro del reale, nell’aspirazione di «penetrare l’essenza della materia e distruggere la sorda ostilità che la separa da noi».

Zang Tumb Tumb (Milano 1914; cui si può aggiungere Dune, in Lacerba, n. 4, 15 febbr. 1914) trasferisce sul piano della realizzazione artistica le teorie del Marinetti.

Diviso in dieci settori, il poema ha per centro tematico la prima guerra balcanica alla quale il M. aveva assistito come inviato del francese Gil Blas. La scrittura dell’opera, fondata sulle modalità stilistiche teorizzate nei Manifesti, è caratterizzata dall’addizione vorticosa del narrato e dal senso di sforzo che nasce appunto dalla volontà di costruirla secondo tali modalità. La scomposizione in segmenti minimi del reale, così come risulta nelle tavole parolibere, spinge il M. a tentare poi una tessitura di infiniti collegamenti per ricostituirne la globalità, tentativo spesso non riuscito a causa dell’automatismo analogico troppo ricercato e arbitrario. Anche la moltiplicazione del significante (l’espressione sintagmatica, la rappresentazione iconica, l’estensione fonica e onomatopeica), che appare la soluzione più suggestiva attuata dal M., risulta viziata da una certa meccanicità di composizione e non sempre giunge a realizzare l’invenzione risolutiva.

Nel vasto ambito della teorizzazione futurista anche il teatro, luogo deputato di molte serate futuriste, medium e genere letterario di vasta diffusione, fu oggetto dell’azione rivoluzionaria e contestatrice animata dal M. e concretata, al solito, nei manifesti accompagnati dalla relativa sperimentazione. Già nel gennaio 1911 era comparso (Milano) un primo Manifesto dei drammaturghi futuristi firmato dal M., ma più significativo fu Il teatro di varietà (in Lacerba, n. 19, 1° ott. 1913) dove un articolato e argomentato attacco era portato al teatro tradizionale «che ondeggia stupidamente tra la ricostruzione storica […] e la riproduzione fotografica della […] vita quotidiana» (Paglia, p. 95), seguito da Il teatro futurista sintetico in due volumetti, curati con B. Corra (B. Corradini) ed E. Settimelli (I, Milano s.d. [ma 1915] e II, Suppl. teatrale alla rivista Avvenimenti, 2-9 apr. 1916, pp. 3-30), i quali raccolgono, nel primo, la parte propriamente critica e programmatica del Manifesto (datato 11 genn. 1915) più 36 esemplificazioni (sintesi); nel secondo 43 sintesi del M. e di altri scrittori futuristi.

Nella pars destruens del Manifesto venivano ribadite pesanti accuse alla prolissità, all’insignificanza degli svolgimenti teatrali tradizionali e alla regola della verosimiglianza dell’intreccio cui erano contrapposte la rapidità, la sinteticità dell’azione drammatica futurista in cui dovevano «concentrarsi innumerevoli situazioni, sensibilità, idee, sensazioni, fatti e simboli» e che «non somiglierà che a se stessa, pur traendo dalla realtà elementi da combinarsi a capriccio» (Paglia, p. 96). Per raggiungere la finalità di «divertire» e di meravigliare cui il teatro futurista avrebbe dovuto tendere, la ricerca sperimentale del M. si sviluppò in molteplici direzioni: la caricatura, il ridicolo, il grottesco, la satira e l’assurdo; vennero realizzate nuove concrete sperimentazioni relative agli elementi fondativi del linguaggio teatrale: la luce, il suono, il rumore, la parola. Carattere specifico del teatro futurista doveva essere quello della imprevedibilità, dello shock emotivo prodotti dalla alogicità e irrealtà dell’assunto, come teorizzò qualche anno dopo, procedendo lungo questa linea di sviluppo, il manifesto Il teatro della sorpresa (1° ott. 1921) firmato dal M. e da F. Cangiullo. Nell’ambito della sperimentazione tecnico-linguistica delle sintesi del M. – del resto strettamente correlata a quella letteraria –, proposte particolarmente originali e significative furono quella della compenetrazione di ambienti diversi, due abitualmente, e della «simultaneità» delle azioni che a questi ambienti corrispondevano; e quella tesa a rendere esplicita la «vitalità» narrativa insita negli oggetti inanimati. Di fatto il M. imponeva alle sue pièces una «forma binaria, di contrapposizione più che di sintesi […] che si può far ascendere all’istanza polemologica» (Paglia, p. 104), o più semplicemente dissacratoria e polemica, insita in tutta la sua produzione, e le sintesi, pur essendo indubbiamente originali e innovative, non riuscirono comunque a definirsi come coerente linguaggio drammatico. Affrontarono, comunque, tematiche nuove (come quella dello sdoppiamento della personalità), rivoluzionarono la concezione dello spazio scenico, moltiplicandolo e stabilendo connessioni fra la scena e la platea, e in definitiva aprirono la strada alle realizzazioni di autori contemporanei o posteriori al M.: il «teatro dell’assurdo o del grottesco» di L. Chiarelli e L. Antonelli, le «tragedie in due battute» di A. Campanile, le azioni sceniche dello stesso L. Pirandello e, nel secondo Novecento, il teatro di E. Jonesco e S. Beckett.

La prospettiva della confluenza o interazione delle arti, che il M. aveva mutuato dal decadentismo (Gesamtkunstwerk), e la visione globalizzante imposta al movimento fin dagli inizi comportarono che, nel corso degli anni, altre espressioni artistiche fossero prese in esame e reinterpretate in chiave futurista (La danza futurista, 1917; Il grande manifesto della fotografia futurista, 1931); né il M. si peritò successivamente di occuparsi di sport e di cucina (Mie proposte di nuovi sports, 1928; Il manifesto della cucina futurista, in collab. con Fillia [L.E. Colombo], 1930; Verso una imperiale arte cucinaria, 1938), antropologicamente parificati alle altre manifestazioni della vita e dell’arte. Meno estrinseco e casuale il rapporto con le nuove forme espressive, significativamente a cavaliere fra arte e tecnologia, nate e velocemente sviluppatesi in quegli anni: la radio (Perché mi piace la radio, 1932; Manifesto futurista della radio, in Futurismo, n. 55, 1° ott. 1933) e, soprattutto, il cinema.

Benché non si possa parlare in senso stretto di un cinema futurista, il mezzo era comunque vicinissimo alla sensibilità e alla visione poetica del movimento. Si possono quindi evidenziare l’interesse costante e le momentanee convergenze: in particolare il manifesto La cinematografia futurista (in L’Italia futurista, n. 9, 11 sett. 1916) in cui il M. (firmatario con Corra, Settimelli, A. Ginna [A. Ginanni Corradini], Balla e R. Chiti) pone un’ipoteca sul nuovo linguaggio e, corrispettivo concreto del manifesto, il film Vita futurista (1916; la pellicola, a eccezione di alcuni fotogrammi, è perduta, ed ebbe scarsissima diffusione), diretto e prodotto da Ginna cui il M. dette un contributo anche come attore. Lo stesso M. fu, inoltre, soggettista del film Velocità di A.G. Bragaglia (1917) e, più tardi, avrebbe dedicato al cinema altri manifesti e articoli (La cinematografia, 1938; I poeti e la cinematografia, 1938).

Nella prima fase del movimento si registrarono importanti, anche se temporanee, adesioni al gruppo futurista e il suo influsso, rivoluzionario e stimolante, si fece sentire anche fuori dalla Francia, seconda patria culturale del M., e dall’Italia: in Russia, in Catalogna, in Inghilterra, fino al Brasile e al Giappone.

Con l’approssimarsi della guerra il M. – la cui accesa ideologia nazionalista, antiparlamentare e antidemocratica, era mutuata dai teorici dell’Action française, quali L. Daudet e Ch. Maurras – si diede a un’intensa campagna interventista organizzando, con i compagni futuristi, una serie di dimostrazioni: dalla manifestazione milanese del settembre 1914 a quelle romane del febbraio e dell’aprile 1915, cui fu presente, tra gli altri, B. Mussolini; tutte corredate, per il M., da fermo e arresto. Arruolatosi, fin dall’agosto 1914, nel battaglione lombardo volontari ciclisti, all’ingresso dell’Italia nel conflitto vi prese parte come alpino.

Partecipò ai combattimenti sul monte Altissimo, in particolare alla presa delle alture di Doss Casina (ottobre 1915); alla battaglia del monte Cucco (Kuk) – dove, il 14 marzo 1917, fu ferito all’inguine e alle gambe e ricoverato all’ospedale di Udine, si guadagnò la promozione a tenente e la medaglia di bronzo –; quindi, all’offensiva finale di Vittorio Veneto, nel corso della quale ottenne la seconda medaglia di bronzo, entrando, il 4 nov. 1918, a Tolmezzo con la sua autoblinda.

L’esperienza bellica del M., in base alla conclamata identificazione tra speculazione teorica, arte e vita vissuta, ebbe un immediato riflesso sul piano dell’attività culturale: a fini propagandistici furono pubblicati, cofirmati da altri esponenti futuristi, documenti e manifesti.

In particolare, in data 20 sett. 1914: Sintesi futurista della guerra e nel gennaio 1915: L’orgoglio italiano (Manifesto futurista) (due volantini, il primo contenente un diagramma realizzato da Carrà, ambedue diffusi dalla «Direzione del movimento futurista»); sempre nel 1915, il volume Guerra sola igiene del mondo (Milano, raccolta di articoli e saggi, molti dei quali in traduzione da Le futurisme, Paris 1911).

Nel contempo, non si interrompeva la sua produzione letteraria. Furono pubblicati la traduzione dei Versi e prose di S. Mallarmé (Milano 1916); una Scelta di poesie e Parole in libertà (ibid. 1918); e, in collaborazione con Corra, L’isola dei baci. Romanzo erotico-sociale (ibid. 1918), un divertissement scritto a due mani durante un periodo di riposo trascorso nell’isola di Capri. Il tema del sesso e, in generale, del rapporto con la donna è ripreso in Come si seducono le donne (Firenze 1917; poi, rivista e ampliata, Milano 1920).

Il volume è una sorta di ars amatoria, «in bilico tra il romanzo autobiografico ed il trattato psicologico» (Paglia, p. 93), in cui il M., argomentando l’antitesi tra libero amore e istituzione matrimoniale, ripropone la sua classica formulazione teorica sulla morte della famiglia. Il disprezzo per la donna (per la dimensione «naturale» che la contraddistingue, per la sua forza stabilizzatrice e fecondatrice) in antitesi all’esaltazione della guerra, è uno dei caratteri fondanti del pensiero del M., almeno in questa fase: per l’uomo futurista la donna rappresenta «una conquista da moltiplicare infinitamente per sottolineare il suo dominio e la sua forza» (ibid., p. 148). Sulla stessa lunghezza d’onda il Manifesto contro il lusso femminile (11 maggio 1920) e il Manifesto del tattilismo (11 genn. 1921), in cui la designazione di una vasta orchestrazione di sensazioni tattili sembra adombrare la tendenza a una «erotizzazione di tutto il corpo» in contrasto col «primato genitale della sessualità» (De Maria).

L’Italia del dopoguerra – un paese scosso da una profonda inquietudine sociale e morale, in cui covava un diffuso risentimento per la «vittoria mutilata» – offrì al M. e al suo movimento ampie prospettive di intervento nella vita pubblica e, di fatto, l’azione politica dei futuristi si espresse in molteplici iniziative. Sul piano teorico il Manifesto del Partito politico futurista (11 febbr. 1918) anticipò, a guerra non ancora conclusa, l’itinerario futurista. Il futurismo, più come movimento culturale che politico, durante il conflitto si era appoggiato al fiorentino L’Italia futurista (1916-18), ma nel settembre 1919, a Roma – fondato e diretto dal M., Settimelli e M. Carli – nacque Roma futurista, prima decadario poi settimanale, come giornale di un partito al momento ancora in fieri. Inoltre i futuristi furono i primi che, insieme con gli arditi, riuscirono a costituire formazioni da combattimento, fondando, dal dicembre 1918, i fasci politici futuristi (un anno dopo, erano già una ventina diffusi in parecchie città italiane); alla stessa data, aderirono al progetto mussoliniano della Costituzione dell’interventismo.

Il futurismo politico di anteguerra si era limitato a un generico assemblaggio di idee provenienti soprattutto dal nazionalismo, accompagnate da motivi anarchici e da vaghe suggestioni di progresso politico e sociale. Il nuovo Manifesto, di cui il M. fu il principale estensore, oltre all’intenzione di scendere in piazza e usare senza remore la violenza contro i propri avversari (mai fino ad allora esplicitata con tale evidenza), presentava significativi e specifici elementi caratterizzanti: una assoluta avversione all’istituto monarchico, sentito come espressione tradizionalista e passatista, e un altrettanto assoluto anticlericalismo; un nazionalismo diverso da quello tradizionale, meno chiuso e retorico, clericale e imperialista; punti programmatici di indirizzo progressista tra cui: contratti di lavoro collettivi, le otto ore lavorative, previdenza e assistenza per gli operai – nell’intenzione di favorire l’inserimento della classe operaia nel sistema produttivo necessario allo sviluppo della civiltà tecnologica e industriale cui il futurismo mirava –, la socializzazione progressiva della terra; il suffragio universale esteso alle donne, giustizia gratuita e giudici elettivi, l’introduzione del divorzio. Proprio alcuni di questi caratteri fecero sì che la coincidenza delle formule futuriste con la prassi fascista non durasse a lungo, anche se indubbiamente il futurismo all’inizio ebbe un notevole peso sull’evoluzione politica di Mussolini.

Gli anni 1919-20 sul piano della teoria e dell’azione segnarono comunque il periodo di maggiore vicinanza tra futurismo e movimento fascista e l’adesione del M. si realizzò anche come partecipazione alle «azioni» del fascismo e piena collaborazione alla formazione delle sue strutture.

L’11 genn. 1919 il M. partecipò a fianco di Mussolini alla manifestazione tenuta alla Scala contro L. Bissolati; il 23 marzo fu presente all’atto fondativo dei Fasci di combattimento a piazza S. Sepolcro e fu eletto nel comitato centrale del nuovo partito. Il 15 aprile, insieme con altri futuristi, prese parte attiva alla «battaglia di via dei Mercanti» che si concluse con l’assalto e l’incendio della redazione dell’Avanti!; si presentò, infine, alle elezioni politiche del novembre 1919, ma non risultò eletto.

A conclusione del periodo eroico del suo impegno politico il M. pubblicò Al di là del comunismo (Milano 1920), insieme con Democrazia futurista (ibid. 1919), la sua elaborazione più importante dal punto di vista della visione ideologica e politica.

Le due opere configurano un progetto visionario, una sorta di «città del sole» tecnologica, la cui linea di progresso si alimenta di violente contraddizioni sociali, della dialettica tra sfruttatori e sfruttati; ma se è impossibile risolvere il permanente conflitto sociale («La rivoluzione futurista […] non potrà certo sopprimere il tormento umano che è la forza ascensionale della razza», Al di là del comunismo: cfr. Paglia, p. 154) esiste comunque la via di fuga dell’arte («un grandioso miraggio: la trasformazione della città divisa in città riconciliata dall’arte», ibid.). In definitiva il M. chiude la fase costruttiva della sua teorizzazione politica sotto il segno dell’ambiguità, se non addirittura della cosciente mistificazione, accettando per un verso lo statu quo della struttura capitalistica, rifugiandosi, per l’altro, nell’illusione e nel miraggio della creazione artistica.

Questa sostanziale resa teorica del M. si concretò in un iniziale e momentaneo distacco dal modus operandi del fascismo, quello sì assolutamente politico, emerso con chiarezza nel comportamento di Mussolini in rapporto all’avventura fiumana, e trovandosi di fronte all’impossibilità di imporre alla maggioranza fascista la discriminante antimonarchica e anticlericale. Dopo il II congresso dei Fasci di combattimento (Milano, 24-25 maggio 1920) il M., con altri futuristi, uscì dal movimento; vi sarebbe rientrato tra il 1923 e il 1924 (il volume di scritti politici Futurismo e fascismo, Foligno 1924, ne dà testimonianza), accettando il sostanziale mutamento di rotta e il nuovo corso del fascismo considerato, in ogni caso, come «la realizzazione del programma minimo futurista».

Il M., comunque, anche negli anni a venire, sarebbe sempre rimasto ai margini della vita del regime e il movimento da lui creato, malgrado le pretese e i tentativi, non ebbe mai un ruolo ufficiale nell’ambito dell’arte fascista, saldamente inquadrata nelle istituzioni statali e da queste ben controllata. Sopportato, più che accettato, per le sue benemerenze della prima ora – e in questa cornice sarebbe rientrato anche il suo ingresso all’Accademia d’Italia, nel 1929 –, il M., per il suo atteggiamento anarcoide mai completamente dismesso, fu piuttosto fonte di preoccupazione e di fastidio per le autorità fasciste.

Tra il 1919 e il 1920, a intervalli ravvicinati, uscirono anche i tre romanzi che si è soliti designare come la «trilogia della guerra» e che, sul piano narrativo, ugualmente segnarono la conclusione del periodo più innovativo, preludendo, anche nello stile, a una fase di riflusso e recupero, almeno parziale, di modalità stilistiche più fluenti e discorsive.

Il «romanzo esplosivo» 8 anime in una bomba (Milano 1919) rievoca gli eventi bellici alternandoli a illustrazioni erotiche in una chiave autobiografico-psicologica che, al solito, coniuga erotismo e aggressività. Un ventre di donna (ibid. 1919), scritto in collaborazione appunto con una donna, Enif Robert, registra a due voci, nelle forme abbinate del diario e dello scambio epistolare, un’esperienza ospedaliera vissuta dalla signora la quale, nel corso della degenza, riceve le lettere del M. dal fronte: si alternano, quindi, le impressioni e le sensazioni del tutto private e personali della malata, al di fuori di ogni definizione medica, e le cruente descrizioni del teatro di guerra, elaborate dal M. con una tecnica in presa diretta, quasi cinematografica, polifonica e simultanea, da lui concepite in funzione terapeutica per indurre la malata a reagire mediante le rievocazioni-shock. Infine, L’alcova d’acciaio (ibid. 1921) è nuovamente una sorta di diario costruito anch’esso per sequenze di stampo cinematografico, con «primi piani» che ripropongono l’abituale antitesi tra vita militare e vita amorosa.

Nel corso dei primi anni Venti l’attività letteraria postbellica del M. proseguì lungo la linea di un recupero, almeno parziale, delle strutture espressive tradizionali, secondo un processo che, nonostante il diverso parere del M., rappresentò di fatto una sorta di riconversione del paroliberismo del periodo eroico.

Così nel romanzo Gli indomabili (ibid. 1922), visionaria descrizione di un mondo fluttuante tra surreale (le fosforescenti aeree visioni della città dei Cartacei) e crudo realismo (l’istintualità animalesca degli Indomabili e la barbarica repressione dei negri custodi). E ancora nei racconti Gli amori futuristi (Cremona 1922; poi ristampati, con quelli di Scatole d’amore in conserva e nuovi racconti, nelle Novelle con le labbra tinte, Milano 1930), «“programmi futuristi di vita con varianti a scelta” che propongono soluzioni finali alternative all’iter narrativo» (Paglia, p. 111), realizzando una tecnica di scioglimenti multipli che anticipa, per certi versi, le «finzioni» di J.L. Borges.

In campo teatrale si avverte, altresì, un riflusso verso forme drammatiche più distese. Anche se, come indicato nel manifesto Teatro antipsicologico astratto di puri elementi e il teatro tattile (in Noi, s. 2, II [1924]), i personaggi, privi di una definizione psicologica, acquistano un rilievo esclusivamente metaforico e simbolico, e si caratterizzano come proiezioni mitiche o ideologiche, il più ampio contesto di scrittura fa sì che la forma teatrale, liberata dalle rigide strettoie delle «sintesi», riacquisti una definizione narrativa più tradizionale.

Si veda la serie di azioni teatrali: Il tamburo di fuoco (Pisa, teatro Verdi, 11 maggio 1922; poi Milano 1923), metafora della volontà di emancipazione dell’Africa, in cui sono inseriti l’accompagnamento intermittente di rumori, musiche (di F.B. Pratella), colori (attraverso l’uso di toni cromatici dominanti); Prigionieri (Roma, teatro di Villa Ferrari, 22 maggio 1925; Milano 1927), oscura parabola della condizione umana in quanto estensione progressiva della condizione di prigionia a tutti i personaggi del dramma; Vulcano (Roma, teatro Valle, 31 marzo 1926; Milano 1927), sorta di mitografia del fuoco; L’Oceano del cuore (Milano, teatro Eden, 24 nov. 1927; in Comoedia, X [1928], 6), che propone invece una metafora acquatica per connotare astrattamente e simbolicamente i moti profondi della psiche, di nuovo presi in considerazione, questa volta in rapporto alla creazione poetica, in Luci veloci (Torino, 4 genn. 1929; in Comoedia, XI [1929], 3).

A questo gruppo di testi teatrali del M. seguirono quelli dell’ultima fase in cui la concatenazione degli eventi è affidata esclusivamente al libero svolgersi della fantasia, senza preoccuparsi di stabilire alcun legame logico o realistico, precorrendo le sperimentazioni del teatro contemporaneo e, in particolare, del teatro dell’assurdo.

Fra gli esiti maggiori di questo periodo: Locomotive, i cui protagonisti (il capostazione Imprecisi, il Liberatore di orologi, il Seduttore di treni) riusciranno a trasformare il meccanismo cronometrico di una stazione in una serie illogica di eventi che riverberano i loro caotici effetti su tutto l’universo. Ricostruire l’Italia con architettura futurista Sant’Elia, in cui la concezione architettonica è assunta a metafora della vita umana, costituendo la discriminante fondamentale tra passatisti e progressisti, orientati verso soluzioni costruttive non coincidenti. A conclusione del ciclo teatrale del M. – che si realizza anche nelle «sintesi» contemplate da Il teatro radiofonico (manifesto dell’ottobre 1933) – si ricordano ancora: Il suggeritore nudo (Roma, teatro degli Indipendenti, 12 dic. 1929; in Comoedia, XI-XII [1929-30, n. 12]) e Simultanina (Padova, teatro Garibaldi, 2 giugno 1930).

Dal luglio 1924 il M. si era trasferito a Roma, con la moglie Benedetta Cappa, pittrice e scrittrice che aveva conosciuto nel 1918 nello studio di Balla e sposato nel 1923, con rito civile, dopo quattro anni di convivenza.

I rapporti del M. con la moglie, improntati sempre alla massima delicatezza e tenerezza (testimoniate nelle Poesie a Beny [Torino 1971, ma composte tra il 1920 e il 1938]), così come la sua figura di padre affettuoso delle tre figlie – Vittoria, Ala e Luce –, in contrasto con la violenza iconoclasta contro la famiglia e con la dissacrazione dell’amore presenti in tanta parte della sua opera, rivelano il dato volontaristico, e pubblico, delle sue teorie sulla donna.

Gli anni Trenta segnarono per il M. e per il movimento un ripiegamento su se stesso, una parabola discendente durante la quale egli fondamentalmente si limitò a mettere in atto una sorta di retorica rappresentazione del futurismo, cui pochi credevano ancora, continuando a curarne l’attività di diffusione e di pubblicizzazione con conferenze e dibattiti condotti in giro per il mondo. Non mancarono, comunque, interessanti intuizioni e realizzazioni quali il poema in prosa Spagna veloce e toro futurista (Milano 1931).

In esso, contestualmente al diradarsi delle modalità tipografiche proprie del paroliberismo, si ritrova il ricorso all’analogia del primo M., frutto della sua educazione simbolista, ma divenuto più veloce e rapido, sottolineato dalla intensa gamma cromatica delle descrizioni, dalla tecnica dei cambiamenti dei punti di vista, utilizzata soprattutto nella descrizione della corrida.

Risale ai primi anni Trenta la formulazione della poetica dell’aeropoesia, teorizzata nel Manifesto dell’aeropoesia del 1931 (preceduto dal Primo dizionario aereo, in collaborazione con F. Azari, Milano 1929: raccolta sistematica della terminologia aviatoria e testimonianza dell’interesse del M. per lo sfruttamento estensivo del settore aeronautico), cui seguì, quale testo creativo e dimostrativo, L’aeropoema del golfo della Spezia (ibid. 1935).

Gli elementi dell’aeropoesia sono mutuati dal dinamismo aereo: tutte le sensazioni, auditive, visive e tattili dovevano venire rappresentate con una simultaneità in grado di riprodurre le caratteristiche della velocità dell’aeroplano. Di fatto tra paroliberismo e aeropoesia, di là da qualche variazione di modalità, non vi erano differenze di grande rilievo.

Negli anni 1933-37 il polo di attrazione per il M. si spostò sull’Africa, sia sul piano letterario in una sorta di ritorno alle origini, nell’avvincente e sottovalutato Il fascino dell’Egitto (ibid. 1933) – doppia proiezione nell’infanzia e nella terra nativa – sia, concretamente, con la partecipazione alla guerra di Etiopia, nel novembre 1935, come volontario e col grado di seniore nella divisione «28 Ottobre», con la quale partecipò alla battaglia del passo Uarieu (20-24 genn. 1936), guadagnandosi una medaglia di bronzo al valor militare (si veda il resoconto, gridato e violento, delle operazioni in Il poema africano della divisione «28 Ottobre», ibid. 1937).

Gli ultimi anni, coincidenti con la seconda guerra mondiale, videro il M. ancora impegnato in opere di propaganda e di appoggio allo sforzo bellico (si veda la raccolta Il poema non umano dei tecnicismi, ibid. 1940; Canto eroi e macchine della guerra mussoliniana, ibid. 1942; Quarto d’ora di poesia della X Mas, ibid. 1945, postumo), e nella stesura dell’ennesimo Manifesto del romanzo sintetico (25 dic. 1939) che seguiva il romanzo «legislativo» Patriottismo insetticida (ibid. 1939).

Colpito da una grave forma di ulcera duodenale, tra il 1939 e il 1940 il M. fu costretto a subire un difficile intervento chirurgico; durante la prolungata convalescenza si accostò alla religione cattolica e ai sacramenti. Nonostante la cattiva salute si arruolò volontario e raggiunse in Russia, come primo seniore del gruppo «23 Marzo», le truppe italiane combattenti, ottenendo la croce di guerra al valor militare. Rientrato a Roma alla fine di novembre del 1942, sofferente di miocardite scrisse i già ricordati «poemi in prosa» autobiografici (La grande Milano tradizionale e futurista e Una sensibilità italiana nata in Egitto).

Nell’ottobre 1943 si trasferì, insieme con la moglie e le figlie, a Venezia, poi a Cadenabbia infine a Bellagio, sul lago di Como, dove morì il 2 dic. 1944.