www.treccani.it
di Luigi Paglia
MARINETTI, Filippo Tommaso (all’anagrafe Emilio Angelo Carlo). –
Nacque il 22 dic. 1876, ad Alessandria d’Egitto, da Enrico e da
Amalia Grolli.
I genitori, che vivevano more uxorio, si erano trasferiti in Egitto
qualche anno prima della nascita del M. (preceduta nel 1874 da
quella del primogenito Leone). Il padre, avvocato civilista
originario di Voghera, inizialmente impiegato presso gli uffici
commerciali della Società del Canale di Suez, aveva aperto
studi anche a Ramleh, al Cairo e a Khartum e, soprattutto, era il
legale personale del chedivè, Muhammad Tawfiq pascià;
la sua frenetica operosità e l’abilità professionale
gli permisero di accumulare un cospicuo patrimonio cui poi il M.
avrebbe attinto per organizzare la sua futura attività
cultural-imprenditoriale. A fronte del vorticoso ed esuberante
attivismo paterno, la dolcezza comprensiva, la tenerezza della madre
costituirono il punto alternativo di riferimento, e di abbandono,
del M. ragazzo, il quale non tardò a manifestare la sua
esplosiva vitalità nell’atmosfera sovreccitata di
Alessandria.
I primi anni di vita del M. non hanno una precisa documentazione in
quanto le rievocazioni autobiografiche (Scatole d’amore in conserva,
Roma 1927; La grande Milano tradizionale e futurista - Una
sensibilità italiana nata in Egitto, a cura di G. Ferrata,
Milano 1969 – da lui scritti negli ultimi anni) si presentano in
un’aura di suggestiva mitizzazione.
Se il racconto del M. risulta perciò parzialmente
inaffidabile ai fini di una attendibile ricostruzione di eventi
biografici, esso mette comunque in evidenza alcune costanti
psicologico-esistenziali del personaggio: «la
disponibilità alla lotta e alla guerra; il nazionalismo
esasperato; l’individualismo presuntuoso; l’orgogliosa esaltazione
delle invenzioni estetiche e vitali; il gusto del teatrale, del
retorico, del barocco; il compiaciuto lirismo; la mitizzazione
erotica, espressa soprattutto come volontà conquistatrice; la
coloritura esotica» (Paglia, p. 32).
Di certo il M., nel 1888, iniziò a frequentare, ad
Alessandria, il collegio St. François-Xavier dei padri
gesuiti francesi.
Alle sollecitazioni ambientali e familiari, che condizionarono la
struttura psicologica e la formazione umana e letteraria del M. –
per esempio, le letture di Dante, volute dalla madre a parziale
correttivo di un’istruzione scolastica prevalentemente francese,
seguite da quelle di G. D’Annunzio, il Giovanni Episcopo, e di F.
Petruccelli della Gattina, Il Re dei re –, si aggiunsero gli stimoli
e le rivelazioni che gli provenivano dagli studi, suscitando in lui
un acceso amore per la letteratura in generale e aprendogli, nello
specifico, la possibilità di scoperte personali nell’ambito
della letteratura francese. Inoltre, in questi anni dette una prima
dimostrazione della sua abilità di organizzatore culturale
fondando, con lo pseudonimo di Hespérus, una rivistina
letteraria, Le Papyrus.
Nel 1893 il M. fu espulso dal collegio, fra l’altro per avervi
introdotto alcune opere di É. Zola, autore all’Indice. Mentre
il resto della famiglia rientrava a Milano, il M., per conseguire il
baccalauréat – che ottenne col minimo dei voti il 13 luglio
1894 –, si stabilì a Parigi, approdando in una città
che sarebbe rimasta suo costante punto di riferimento. Ottenuto il
diploma, raggiunse la famiglia nell’appartamento di via Senato 2 e
prese quindi a seguire, insieme con lo sfortunato fratello Leone
(morto nel 1895 per le complicazioni cardiache di un’artrite
trascurata), i corsi di giurisprudenza dapprima
nell’Università di Pavia e poi in quella di Genova dove si
laureò, il 17 luglio 1899, discutendo una tesi su «La
Corona nel governo parlamentare» col prof. A. Ponsiglioni.
Contemporaneamente il M. aveva dato inizio alla sua attività
di poeta e scrittore: nella rivista italo-francese Anthologie-Revue,
stampata a Milano e diretta da E. Sansot-Orland, uscirono, nel 1898,
sul n. 6 (20 marzo) la poesia L’échanson e, sul n. 12 (20
settembre), il poemetto Les vieux marins, in «versi
liberi», con il quale vinse il concorso bandito nell’ambito
dei Samedis populaires (o Samedis de poésie ancienne et
moderne), pubbliche letture organizzate a Parigi dai simbolisti C.
Mendès e G. Kahn. Nella rivista fiorentina Il Marzocco
apparve poi un altro poema, La tour d’amour (19 nov. 1899, n. 43).
Le opere del periodo iniziale del M., che può definirsi di
«incubazione futurista», sono scritte in francese e
della ricerca letteraria all’epoca in atto in Francia principalmente
si alimentano: in primis dell’esperienza del decadentismo ma
soprattutto di quella della poesia simbolista, con un insistito
utilizzo di metafore e procedimenti analogici che privilegiano le
figure di «maggiore carica dialettica» (Paglia, p. 55),
in funzione di linee tematiche aderenti principalmente al mondo
della natura (sere, tramonti, vento, alberi, prati, luna).
Conclusi gli studi, il M. proseguì quindi, e
intensificò tra Parigi e Milano, in veste di autore e
promotore, l’attività culturale: il temperamento vulcanico e
le notevoli disponibilità economiche, garantite dalla
ricchezza paterna, gli consentirono di inserirsi con una certa
facilità negli ambienti letterari e nella buona
società della metropoli lombarda, dove venne a contatto con
gli scrittori più noti (da M. Praga a E.A. Butti, da Guido da
Verona a S. Benelli, da G. Botta a L. Capuana, da A. Colautti a U.
Notari). Si dedicò anche a un’intensa collaborazione con
importanti riviste francesi (La Plume, La Vogue, La Revue blanche,
il Mercure de France) e cominciò a prodursi come
conferenziere.
In Italia, in particolare, si ritagliò il ruolo di
«difensore e profeta» del simbolismo francese, tenendo
non solo conferenze ma anche vere e proprie esibizioni, in cui
manifestò doti di buon declamatore al servizio di
composizioni di Ch. Baudelaire, S. Mallarmé, P. Verlaine, A.
Rimbaud. Contemporaneamente valorizzava e metteva a fuoco la propria
immagine in un costante e riuscito esercizio di autopromozione che
praticò di fatto per tutta la vita.
Nel 1902 il M. perse la madre, cui era molto legato e, nello stesso
anno, apparve il suo primo volume, La conquête des
étoiles (Paris; trad. it. di D. Cinti La conquista delle
stelle, Milano 1920), cui seguirono, oltre a un volumetto su
D’Annunzio intime (Milano 1903) – autore che per il M. fu oggetto
sempre di un ambiguo sentimento di amore-odio –, La momie sanglante
(ibid. 1904), Destruction (Paris 1904; trad. it. di D. Cinti
Distruzione, Milano 1920) e la tragedia ilare Le roi Bombance (Paris
1905; trad. it. di D. Cinti Re Baldoria, Milano 1910; prima
rappresentazione Parigi, théâtre de l’Oeuvre, 3 apr.
1909, direzione di A. Lugné-Poë; prima rappresentazione
italiana, Roma, teatro del 2000, 4 apr. 1929).
Il trittico iniziale riecheggia ancora motivi e modalità
della poesia simbolista i quali però, espressi con un ritmo
accelerato e barocco, accompagnati da una stupefacente
quantità di immagini analogiche e da un’accentuata
semplificazione delle strutture sintattiche, preludono ai folgoranti
accostamenti delle «parole in libertà». In questi
primi lavori, non infrequenti figurazioni di derivazione romantica
si pongono spesso a contrasto con raffigurazioni prefuturiste,
secondo una linea di sviluppo che conduce alla doppia
polarità dell’amore e della sensualità da una parte e
del vitalismo e dell’esaltazione dell’universo tecnologico
dall’altra. In La conquête des étoiles, poema epico in
19 canti per complessivi tremila versi, si racconta un sogno in cui
il Mare tenta la conquista delle Stelle descrivendo «i due
eserciti di acque oceaniche che si scavalcano per addentare gli
spalti della Via Lattea» (La grande Milano…, p. 62); La momie
sanglante è l’apocalittica descrizione della
«resurrezione» di una mummia, ancora immersa in un clima
macabro e fantastico di chiara ascendenza tardoromantica; infine, in
Destruction, uno fra gli esiti maggiori del primo periodo del M., si
raffigura, in stretto rapporto con quanto narrato nella
Conquête, «lo scatenamento contro i Continenti, contro
le Città e contro la donna» degli «eserciti
simbolici del Mare che dovevano poi scagliarsi alla Conquista delle
stelle», in una spirale vorticosa di immagini plastiche e
figurali, fortemente deformate dalla carica visionaria, dalla
violenza espressionistica e dall’aggressività linguistica del
Marinetti.
Alle stesse leggi espressive delle opere di poesia rispondono i
lavori teatrali di questo primo periodo: nel giovanile Dramma senza
titolo (dramma storico di «amore e morte» ambientato a
Venezia, scritto tra Otto e Novecento, ripudiato dal M. e pubblicato
per la prima volta nel 1960 in Teatro, a cura di G. Calendoli, nella
trad. it. di Benedetta Marinetti) si incontra la torrenziale carica
retorica tipica del M. presente anche nella pantagruelica metafora
gastronomica Le roi Bombance, in cui la fame inesauribile che muove
tutta l’azione costituisce e rappresenta una sorta di violenta
energia primordiale di stampo oramai futurista.
Nel 1905 il M. fondò la rivista internazionale Poesia,
diretta per i primi sette numeri con Benelli e V. Ponti, quindi da
solo fino al 1910.
L’ampia rete di rapporti che il M. aveva saputo stabilire e una
linea programmatica iniziale di vaga intonazione estetizzante, tale
da permettere la convivenza di personalità anche diverse, ne
fecero subito un polo di attrazione per scrittori e poeti di varia
collocazione artistica, di cui venivano pubblicati testi inediti;
tra gli altri: D’Annunzio, C. Roccatagliata Ceccardi, G. Pascoli,
Mendès, Kahn, Trilussa (C.A. Salustri), R. Bracco, G.
Gozzano. In seguito, il M. ne accentuò il carattere
innovativo soprattutto con la pubblicazione di un’inchiesta
internazionale sul verso libero (1907) che rappresentò
l’antecedente immediato dei manifesti futuristi.
Nel 1908 il M. pubblicò il libello Les dieux s’en vont,
d’Annunzio reste (Paris) e la raccolta poetica La ville charnelle
(ibid.; in parziale trad. it.: Lussuria-Velocità, Milano
1921).
Il primo, ispiratogli dalla partecipazione, nel 1907, ai funerali di
G. Carducci, affermava la superiorità di quest’ultimo, in
nome di una sua «virilità» poetica, sulla
«femminile leggiadria» di D’Annunzio (ma, a ulteriore
testimonianza dell’ambivalente rapporto che il M. ebbe sempre con il
pescarese, se ne veda la commossa rievocazione, pubblicata dal M. in
Gazzetta del popolo di Torino il 3 marzo 1938). Il secondo, ben
più significativo, raccoglie una serie di liriche ispirate
alla città moderna, il cui tratto comune è
rappresentato dall’esaltazione della modernità, della
velocità, della macchina, con particolare riguardo
all’«Automobile da corsa», immagine dinamica del
progresso.
L’evoluzione dell’estetica marinettiana – secondo una prospettiva
che fu sempre globale, implicando sia l’attività letteraria o
genericamente artistica sia quella politica – si alimentò, e
giunse a maturazione, nel clima di intenso fervore produttivo e
tecnologico, ma anche di presentimenti di guerra che si respirava in
quegli anni in Italia. In quello stesso 1908, a Trieste, con un
gesto rivelatore delle sue posizioni politiche, il M.
partecipò ai funerali della madre di G. Oberdan e
successivamente intervenne alla Società ginnastica triestina
in merito ai gravi incidenti occorsi a Vienna agli studenti
italiani, provocando tumulti che gli costarono l’arresto.
L’anno dopo, nel 1909, pubblicò l’azione teatrale
Poupées électriques (Paris; rappresentata in italiano
col titolo La donna è mobile: Torino, teatro Alfieri, 15
genn. 1909) e nel 1910 il romanzo Mafarka le futuriste (Paris; trad.
it. di D. Cinti Mafarka il futurista, Milano 1910). Fu a causa di
questo romanzo che il M. subì, in Italia, un processo per
oltraggio al pudore per cui venne inizialmente assolto l’8 ott.
1910, quindi condannato in appello e in Cassazione.
Ambedue le opere sono testimonianza di una fase sperimentale di
transizione: la pièce alterna modi e situazioni del teatro
tradizionale borghese (un intreccio amoroso tra due coppie) a
strutture e idee anticipatrici del teatro di avanguardia, collocate
particolarmente nel secondo atto che il M. avrebbe più tardi
rappresentato isolatamente col titolo di Elettricità
sessuale. Nel romanzo è evidente lo squilibrio tra la
modulazione artisticamente controllata di alcuni passi e la
proliferazione, altrove, delle più diverse modalità
stilistiche e narrative.
Ma il 1909 riveste particolare significato nella biografia del M.
soprattutto per la pubblicazione, il 20 febbraio, di Fondazione e
Manifesto del futurismo – apparso in francese, in forma di articolo
accompagnato da una breve presentazione, in Le Figaro e preceduto da
almeno altre 11 versioni, a cominciare da quella originale sulla
Gazzetta d’Emilia di Bologna del 5 febbraio –, comunemente
considerato l’atto fondativo del movimento futurista: movimento
concepito dal M., e dai suoi numerosi adepti, non solo come fenomeno
artistico globale, concernente, quindi, tutti i linguaggi
espressivi, ma anche come attivo fattore politico. In effetti
Fondazione e Manifesto fu immediatamente accompagnato da un primo
manifesto politico, di tono violentemente anticlericale, diffuso in
volantini lanciati in occasione delle elezioni generali del marzo
1909 (vedi in M. e il futurismo, Roma-Milano 1929, pp. 39 s.);
seguì, nello stesso 1909, Uccidiamo il Chiaro di Luna! (del
successivo aprile, in Poesia, V, n. 7-8-9; poi in volume, Milano
1911).
Il «manifesto», in quanto scritto programmatico e
teorico che imposta, definisce e indirizza un movimento artistico
e/o politico, fu di fatto «reinventato» dal M. che
riuscì «a trasformare un’arida presentazione teorica,
in una vivace rappresentazione artistica, quasi una
prerealizzazione, speculare, delle linee programmatiche»
(Paglia, p. 64), creando in pratica un nuovo genere letterario. E,
in effetti, il Manifesto del futurismo del 1909 presenta un vero e
proprio andamento narrativo, carico di immagini barocche e sfarzose
alternate a passaggi incisivi che impongono una velocizzazione al
ritmo del discorso: si apre con la descrizione della notte insonne
dei pionieri del futurismo, continua con quella della corsa
turbinosa in automobile e del bagno nell’acqua fangosa del fossato
dell’officina, simboleggiante la rinascita dell’uomo dalla
«grande madre industriale», e, quindi, prosegue
presentando il quadro programmatico globale della nuova
civiltà futurista, sintetizzabile nelle polarità
tematico-espressive comuni alle avanguardie del Novecento –
l’attivismo-vitalismo, l’antagonismo a ogni ordine costituito, il
nichilismo violento e distruttivo, l’agonismo spinto fino al
superamento di ogni limite (cfr. R. Poggioli, Teoria dell’arte di
avanguardia, Bologna 1962) –, cui si aggiungono le idee più
proprie al M.: l’esaltazione del mondo industriale e della
velocità; il disprezzo della donna collegato alla
glorificazione della guerra, del militarismo, del patriottismo; la
polemica contro i passatisti, nella proiezione verso il futuro e
nella prefigurazione dell’«uomo meccanico e moltiplicato e del
regno della macchina». Altrettanto torrenziale e violento
risulta lo svolgimento narrativo di Uccidiamo il Chiaro di Luna!, in
cui il discorso allegorico vede protagonisti i Podagrosi e i
Paralitici, a rappresentare i passatisti, contrapposti ai Pazzi e
alle Belve, le forze istintive e vergini della natura, e l’uccisione
del «Chiaro di Luna», sostituito da trecento lune
elettriche, esprime l’avvento della civiltà tecnologica.
Il M., con intuizione autenticamente precorritrice, aveva afferrato
il nesso che collega i metodi pubblicitari dell’industria alla
diffusione delle idee, sia nel campo dell’arte sia in quello della
politica, e la fondamentale influenza delle «diverse forme di
comunicazione, di trasporto, d’informazione, per cui arte e
industria si scambiano di continuo le parti»; si
lanciò, dunque, in una frenetica attività di
propaganda del movimento, procurando nuove e numerose adesioni che
trovavano ottimo terreno di coltura negli ambienti dell’avanguardia
protonovecentesca italiana. Tra il 1909 e il 1911 entrarono a farne
parte, tra gli altri, A. Palazzeschi, E. Cavacchioli, C. Govoni, L.
Altomare, L. Folgore, il musicista F.B. Pratella, i pittori U.
Boccioni, C. Carrà, L. Russolo, G. Balla e G. Severini.
Si susseguirono così, fra i primi e più significativi
manifesti relativi alle diverse espressioni artistiche: Manifesto
dei musicisti futuristi dell’11 ott. 191o e il Manifesto tecnico
della musica futurista dell’11 marzo 1911, entrambi redatti da
Pratella; per la pittura, Manifesto dei pittori futuristi dell’11
febbr. 1910, firmato da Boccioni, Carrà, Russolo, Balla e
Severini; per la scultura, Manifesto tecnico della scultura
futurista dell’11 apr. 1912, firmato da Boccioni oltre ai manifesti
politici (per tutti e anche per quelli a seguire si rimanda in breve
a: Manifesti proclami interviste e documenti teorici del futurismo
1909-1944, rist. anast., Firenze 1980; nonché Archivi del
futurismo, Milano-Roma 1986).
Altra manifestazione originale e caratteristica della prima fase del
movimento furono le serate futuriste che ebbero inizio il 12 genn.
1910, al politeama Rossetti di Trieste, e proseguirono poi in
numerose altre città italiane.
Tenute in teatri, ritrovi letterari, gallerie d’arte, sin
dall’inizio si configurarono secondo un «copione» che
prevedeva lo scontro dialettico – con corollario di proteste e
discussioni che spesso degeneravano in rissa – tra i futuristi, i
quali dal palco, ma anche dalla platea, propugnavano in vario modo
il loro credo e dissacravano l’arte tradizionale e gli spettatori
dissenzienti. Per il M. rappresentarono l’opportunità di dare
sfogo al lato istrionico del suo carattere improvvisando discorsi,
declamando versi, presentando quadri o esecuzioni musicali.
Nel 1911 il M. – da poco trasferita la sua residenza milanese da via
Senato alla «casa rossa» di corso Venezia 61 – accolse
entusiasticamente lo scoppio della guerra italo-turca e si
recò in Libia come osservatore, inviato del giornale francese
L’Intransigeant (le sue corrispondenze, raccolte in volume, furono
pubblicate come La battaglia di Tripoli, Padova 1912). Proprio la
conquista di Tripoli gli dette occasione per scrivere il secondo
manifesto politico, datato 11 ott. 1911, in cui compare la celebre
definizione della guerra «sola igiene del mondo» (cfr.
Archivi del futurismo, cit., p. 31). In sintonia con l’esaltazione
bellica di questo periodo, uscì in Francia il «romanzo
profetico» Le monoplan du pape (Paris 1912; trad. it.
L’aeroplano del papa, Milano 1914), una dilungata fantasticheria
grottesca, ferocemente antipacifista, dominata dalla figura dello
scrittore-protagonista in veste di aviatore.
Nel biennio 1912-14, comunque, il M. si adoperò
fondamentalmente sul versante delle enunciazioni teoriche di poetica
e tecnica letteraria pubblicando – dal 1913 spesso anche nel
periodico fiorentino Lacerba, allineatosi al futurismo, con i suoi
più importanti collaboratori, G. Papini, G. Prezzolini, A.
Soffici – Manifesto tecnico della letteratura futurista (11 maggio
1912) con le conseguenti, chiarificatrici, Risposte alle obiezioni
(11 ag. 1912) e con, alla stessa data, il primo esempio di scrittura
parolibera: Battaglia Peso+Odore (tutti inseriti nell’Antologia dei
poeti futuristi, Milano 1912); Distruzione della sintassi -
Immaginazione senza fili - Parole in libertà (Milano, 11
maggio 1913); e Lo splendore geometrico e meccanico e la
sensibilità numerica (ibid., 18 marzo 1914). Questi
fondamentali documenti, stilisticamente lineari, incisivi e, a
differenza dei primi manifesti, raramente percorsi da accensioni
liriche, inaugurano una nuova fase dell’attività del M.
quella, appunto, delle parole in libertà e delle tavole
parolibere, intesa a delineare il quadro delle modalità
«tecniche» poste a fondamento della letteratura
futurista, articolate principalmente intorno a tre poli.
Il primo è focalizzato sulla velocità di registrazione
del reale da raggiungersi attraverso una rivoluzione linguistica –
di fatto la prima radicale rivoluzione linguistica del nuovo secolo
di cui il M. ebbe, al solito, una precoce intuizione – attuata
attraverso la distruzione della sintassi tradizionale per il
tramite, soprattutto, dell’uso del verbo all’infinito, della
sistemazione a caso dei sostantivi, dell’eliminazione di aggettivi,
avverbi, congiunzioni e della punteggiatura, sostituita, per le
indicazioni di movimento e di direzione, con segni matematici e
grafici e, per regolamentare la velocità dello stile, con
indicazioni musicali (presto, più presto, ecc.). Il secondo
polo prendeva in considerazione le molteplici modalità della
percezione del reale, che andava collegata, anche in letteratura, a
stimoli inerenti a tutti e cinque i sensi (visivo, olfattivo,
auditivo, tattile e gustativo) e alla diversità delle
prospettive atte a moltiplicarla; la scomposizione degli oggetti che
ne derivava doveva essere ricondotta a unità, sulla pagina,
attraverso gli strumenti di trascrizione utilizzando la deformazione
delle parole, che confluisce nell’onomatopea – dal M. suddivisa in
diverse tipologie in rapporto al grado più o meno alto di
rarefazione realistica, di precisione imitativa e di
complessità figurativa –, cui corrisponde una rivoluzione
tipografica operata attraverso la diversità dei caratteri
tipografici e la colorazione delle lettere. Il terzo polo, di sicura
derivazione simbolista, si riferisce all’ampiezza e alla
concatenazione del sistema analogico.
Attraverso questa complessa teorizzazione il M., mosso da una sorta
di ossessione lirica della materia, mirava a cancellare dall’ambito
della letteratura l’Io come oggetto di analisi e come soggetto
ordinatore e filtro del reale, nell’aspirazione di «penetrare
l’essenza della materia e distruggere la sorda ostilità che
la separa da noi».
Zang Tumb Tumb (Milano 1914; cui si può aggiungere Dune, in
Lacerba, n. 4, 15 febbr. 1914) trasferisce sul piano della
realizzazione artistica le teorie del Marinetti.
Diviso in dieci settori, il poema ha per centro tematico la prima
guerra balcanica alla quale il M. aveva assistito come inviato del
francese Gil Blas. La scrittura dell’opera, fondata sulle
modalità stilistiche teorizzate nei Manifesti, è
caratterizzata dall’addizione vorticosa del narrato e dal senso di
sforzo che nasce appunto dalla volontà di costruirla secondo
tali modalità. La scomposizione in segmenti minimi del reale,
così come risulta nelle tavole parolibere, spinge il M. a
tentare poi una tessitura di infiniti collegamenti per ricostituirne
la globalità, tentativo spesso non riuscito a causa
dell’automatismo analogico troppo ricercato e arbitrario. Anche la
moltiplicazione del significante (l’espressione sintagmatica, la
rappresentazione iconica, l’estensione fonica e onomatopeica), che
appare la soluzione più suggestiva attuata dal M., risulta
viziata da una certa meccanicità di composizione e non sempre
giunge a realizzare l’invenzione risolutiva.
Nel vasto ambito della teorizzazione futurista anche il teatro,
luogo deputato di molte serate futuriste, medium e genere letterario
di vasta diffusione, fu oggetto dell’azione rivoluzionaria e
contestatrice animata dal M. e concretata, al solito, nei manifesti
accompagnati dalla relativa sperimentazione. Già nel gennaio
1911 era comparso (Milano) un primo Manifesto dei drammaturghi
futuristi firmato dal M., ma più significativo fu Il teatro
di varietà (in Lacerba, n. 19, 1° ott. 1913) dove un
articolato e argomentato attacco era portato al teatro tradizionale
«che ondeggia stupidamente tra la ricostruzione storica […] e
la riproduzione fotografica della […] vita quotidiana»
(Paglia, p. 95), seguito da Il teatro futurista sintetico in due
volumetti, curati con B. Corra (B. Corradini) ed E. Settimelli (I,
Milano s.d. [ma 1915] e II, Suppl. teatrale alla rivista
Avvenimenti, 2-9 apr. 1916, pp. 3-30), i quali raccolgono, nel
primo, la parte propriamente critica e programmatica del Manifesto
(datato 11 genn. 1915) più 36 esemplificazioni (sintesi); nel
secondo 43 sintesi del M. e di altri scrittori futuristi.
Nella pars destruens del Manifesto venivano ribadite pesanti accuse
alla prolissità, all’insignificanza degli svolgimenti
teatrali tradizionali e alla regola della verosimiglianza
dell’intreccio cui erano contrapposte la rapidità, la
sinteticità dell’azione drammatica futurista in cui dovevano
«concentrarsi innumerevoli situazioni, sensibilità,
idee, sensazioni, fatti e simboli» e che «non
somiglierà che a se stessa, pur traendo dalla realtà
elementi da combinarsi a capriccio» (Paglia, p. 96). Per
raggiungere la finalità di «divertire» e di
meravigliare cui il teatro futurista avrebbe dovuto tendere, la
ricerca sperimentale del M. si sviluppò in molteplici
direzioni: la caricatura, il ridicolo, il grottesco, la satira e
l’assurdo; vennero realizzate nuove concrete sperimentazioni
relative agli elementi fondativi del linguaggio teatrale: la luce,
il suono, il rumore, la parola. Carattere specifico del teatro
futurista doveva essere quello della imprevedibilità, dello
shock emotivo prodotti dalla alogicità e irrealtà
dell’assunto, come teorizzò qualche anno dopo, procedendo
lungo questa linea di sviluppo, il manifesto Il teatro della
sorpresa (1° ott. 1921) firmato dal M. e da F. Cangiullo.
Nell’ambito della sperimentazione tecnico-linguistica delle sintesi
del M. – del resto strettamente correlata a quella letteraria –,
proposte particolarmente originali e significative furono quella
della compenetrazione di ambienti diversi, due abitualmente, e della
«simultaneità» delle azioni che a questi ambienti
corrispondevano; e quella tesa a rendere esplicita la
«vitalità» narrativa insita negli oggetti
inanimati. Di fatto il M. imponeva alle sue pièces una
«forma binaria, di contrapposizione più che di sintesi
[…] che si può far ascendere all’istanza polemologica»
(Paglia, p. 104), o più semplicemente dissacratoria e
polemica, insita in tutta la sua produzione, e le sintesi, pur
essendo indubbiamente originali e innovative, non riuscirono
comunque a definirsi come coerente linguaggio drammatico.
Affrontarono, comunque, tematiche nuove (come quella dello
sdoppiamento della personalità), rivoluzionarono la
concezione dello spazio scenico, moltiplicandolo e stabilendo
connessioni fra la scena e la platea, e in definitiva aprirono la
strada alle realizzazioni di autori contemporanei o posteriori al
M.: il «teatro dell’assurdo o del grottesco» di L.
Chiarelli e L. Antonelli, le «tragedie in due battute»
di A. Campanile, le azioni sceniche dello stesso L. Pirandello e,
nel secondo Novecento, il teatro di E. Jonesco e S. Beckett.
La prospettiva della confluenza o interazione delle arti, che il M.
aveva mutuato dal decadentismo (Gesamtkunstwerk), e la visione
globalizzante imposta al movimento fin dagli inizi comportarono che,
nel corso degli anni, altre espressioni artistiche fossero prese in
esame e reinterpretate in chiave futurista (La danza futurista,
1917; Il grande manifesto della fotografia futurista, 1931);
né il M. si peritò successivamente di occuparsi di
sport e di cucina (Mie proposte di nuovi sports, 1928; Il manifesto
della cucina futurista, in collab. con Fillia [L.E. Colombo], 1930;
Verso una imperiale arte cucinaria, 1938), antropologicamente
parificati alle altre manifestazioni della vita e dell’arte. Meno
estrinseco e casuale il rapporto con le nuove forme espressive,
significativamente a cavaliere fra arte e tecnologia, nate e
velocemente sviluppatesi in quegli anni: la radio (Perché mi
piace la radio, 1932; Manifesto futurista della radio, in Futurismo,
n. 55, 1° ott. 1933) e, soprattutto, il cinema.
Benché non si possa parlare in senso stretto di un cinema
futurista, il mezzo era comunque vicinissimo alla sensibilità
e alla visione poetica del movimento. Si possono quindi evidenziare
l’interesse costante e le momentanee convergenze: in particolare il
manifesto La cinematografia futurista (in L’Italia futurista, n. 9,
11 sett. 1916) in cui il M. (firmatario con Corra, Settimelli, A.
Ginna [A. Ginanni Corradini], Balla e R. Chiti) pone un’ipoteca sul
nuovo linguaggio e, corrispettivo concreto del manifesto, il film
Vita futurista (1916; la pellicola, a eccezione di alcuni
fotogrammi, è perduta, ed ebbe scarsissima diffusione),
diretto e prodotto da Ginna cui il M. dette un contributo anche come
attore. Lo stesso M. fu, inoltre, soggettista del film
Velocità di A.G. Bragaglia (1917) e, più tardi,
avrebbe dedicato al cinema altri manifesti e articoli (La
cinematografia, 1938; I poeti e la cinematografia, 1938).
Nella prima fase del movimento si registrarono importanti, anche se
temporanee, adesioni al gruppo futurista e il suo influsso,
rivoluzionario e stimolante, si fece sentire anche fuori dalla
Francia, seconda patria culturale del M., e dall’Italia: in Russia,
in Catalogna, in Inghilterra, fino al Brasile e al Giappone.
Con l’approssimarsi della guerra il M. – la cui accesa ideologia
nazionalista, antiparlamentare e antidemocratica, era mutuata dai
teorici dell’Action française, quali L. Daudet e Ch. Maurras
– si diede a un’intensa campagna interventista organizzando, con i
compagni futuristi, una serie di dimostrazioni: dalla manifestazione
milanese del settembre 1914 a quelle romane del febbraio e
dell’aprile 1915, cui fu presente, tra gli altri, B. Mussolini;
tutte corredate, per il M., da fermo e arresto. Arruolatosi, fin
dall’agosto 1914, nel battaglione lombardo volontari ciclisti,
all’ingresso dell’Italia nel conflitto vi prese parte come alpino.
Partecipò ai combattimenti sul monte Altissimo, in
particolare alla presa delle alture di Doss Casina (ottobre 1915);
alla battaglia del monte Cucco (Kuk) – dove, il 14 marzo 1917, fu
ferito all’inguine e alle gambe e ricoverato all’ospedale di Udine,
si guadagnò la promozione a tenente e la medaglia di bronzo
–; quindi, all’offensiva finale di Vittorio Veneto, nel corso della
quale ottenne la seconda medaglia di bronzo, entrando, il 4 nov.
1918, a Tolmezzo con la sua autoblinda.
L’esperienza bellica del M., in base alla conclamata identificazione
tra speculazione teorica, arte e vita vissuta, ebbe un immediato
riflesso sul piano dell’attività culturale: a fini
propagandistici furono pubblicati, cofirmati da altri esponenti
futuristi, documenti e manifesti.
In particolare, in data 20 sett. 1914: Sintesi futurista della
guerra e nel gennaio 1915: L’orgoglio italiano (Manifesto futurista)
(due volantini, il primo contenente un diagramma realizzato da
Carrà, ambedue diffusi dalla «Direzione del movimento
futurista»); sempre nel 1915, il volume Guerra sola igiene del
mondo (Milano, raccolta di articoli e saggi, molti dei quali in
traduzione da Le futurisme, Paris 1911).
Nel contempo, non si interrompeva la sua produzione letteraria.
Furono pubblicati la traduzione dei Versi e prose di S.
Mallarmé (Milano 1916); una Scelta di poesie e Parole in
libertà (ibid. 1918); e, in collaborazione con Corra, L’isola
dei baci. Romanzo erotico-sociale (ibid. 1918), un divertissement
scritto a due mani durante un periodo di riposo trascorso nell’isola
di Capri. Il tema del sesso e, in generale, del rapporto con la
donna è ripreso in Come si seducono le donne (Firenze 1917;
poi, rivista e ampliata, Milano 1920).
Il volume è una sorta di ars amatoria, «in bilico tra
il romanzo autobiografico ed il trattato psicologico» (Paglia,
p. 93), in cui il M., argomentando l’antitesi tra libero amore e
istituzione matrimoniale, ripropone la sua classica formulazione
teorica sulla morte della famiglia. Il disprezzo per la donna (per
la dimensione «naturale» che la contraddistingue, per la
sua forza stabilizzatrice e fecondatrice) in antitesi
all’esaltazione della guerra, è uno dei caratteri fondanti
del pensiero del M., almeno in questa fase: per l’uomo futurista la
donna rappresenta «una conquista da moltiplicare infinitamente
per sottolineare il suo dominio e la sua forza» (ibid., p.
148). Sulla stessa lunghezza d’onda il Manifesto contro il lusso
femminile (11 maggio 1920) e il Manifesto del tattilismo (11 genn.
1921), in cui la designazione di una vasta orchestrazione di
sensazioni tattili sembra adombrare la tendenza a una
«erotizzazione di tutto il corpo» in contrasto col
«primato genitale della sessualità» (De Maria).
L’Italia del dopoguerra – un paese scosso da una profonda
inquietudine sociale e morale, in cui covava un diffuso risentimento
per la «vittoria mutilata» – offrì al M. e al suo
movimento ampie prospettive di intervento nella vita pubblica e, di
fatto, l’azione politica dei futuristi si espresse in molteplici
iniziative. Sul piano teorico il Manifesto del Partito politico
futurista (11 febbr. 1918) anticipò, a guerra non ancora
conclusa, l’itinerario futurista. Il futurismo, più come
movimento culturale che politico, durante il conflitto si era
appoggiato al fiorentino L’Italia futurista (1916-18), ma nel
settembre 1919, a Roma – fondato e diretto dal M., Settimelli e M.
Carli – nacque Roma futurista, prima decadario poi settimanale, come
giornale di un partito al momento ancora in fieri. Inoltre i
futuristi furono i primi che, insieme con gli arditi, riuscirono a
costituire formazioni da combattimento, fondando, dal dicembre 1918,
i fasci politici futuristi (un anno dopo, erano già una
ventina diffusi in parecchie città italiane); alla stessa
data, aderirono al progetto mussoliniano della Costituzione
dell’interventismo.
Il futurismo politico di anteguerra si era limitato a un generico
assemblaggio di idee provenienti soprattutto dal nazionalismo,
accompagnate da motivi anarchici e da vaghe suggestioni di progresso
politico e sociale. Il nuovo Manifesto, di cui il M. fu il
principale estensore, oltre all’intenzione di scendere in piazza e
usare senza remore la violenza contro i propri avversari (mai fino
ad allora esplicitata con tale evidenza), presentava significativi e
specifici elementi caratterizzanti: una assoluta avversione
all’istituto monarchico, sentito come espressione tradizionalista e
passatista, e un altrettanto assoluto anticlericalismo; un
nazionalismo diverso da quello tradizionale, meno chiuso e retorico,
clericale e imperialista; punti programmatici di indirizzo
progressista tra cui: contratti di lavoro collettivi, le otto ore
lavorative, previdenza e assistenza per gli operai – nell’intenzione
di favorire l’inserimento della classe operaia nel sistema
produttivo necessario allo sviluppo della civiltà tecnologica
e industriale cui il futurismo mirava –, la socializzazione
progressiva della terra; il suffragio universale esteso alle donne,
giustizia gratuita e giudici elettivi, l’introduzione del divorzio.
Proprio alcuni di questi caratteri fecero sì che la
coincidenza delle formule futuriste con la prassi fascista non
durasse a lungo, anche se indubbiamente il futurismo all’inizio ebbe
un notevole peso sull’evoluzione politica di Mussolini.
Gli anni 1919-20 sul piano della teoria e dell’azione segnarono
comunque il periodo di maggiore vicinanza tra futurismo e movimento
fascista e l’adesione del M. si realizzò anche come
partecipazione alle «azioni» del fascismo e piena
collaborazione alla formazione delle sue strutture.
L’11 genn. 1919 il M. partecipò a fianco di Mussolini alla
manifestazione tenuta alla Scala contro L. Bissolati; il 23 marzo fu
presente all’atto fondativo dei Fasci di combattimento a piazza S.
Sepolcro e fu eletto nel comitato centrale del nuovo partito. Il 15
aprile, insieme con altri futuristi, prese parte attiva alla
«battaglia di via dei Mercanti» che si concluse con
l’assalto e l’incendio della redazione dell’Avanti!; si
presentò, infine, alle elezioni politiche del novembre 1919,
ma non risultò eletto.
A conclusione del periodo eroico del suo impegno politico il M.
pubblicò Al di là del comunismo (Milano 1920), insieme
con Democrazia futurista (ibid. 1919), la sua elaborazione
più importante dal punto di vista della visione ideologica e
politica.
Le due opere configurano un progetto visionario, una sorta di
«città del sole» tecnologica, la cui linea di
progresso si alimenta di violente contraddizioni sociali, della
dialettica tra sfruttatori e sfruttati; ma se è impossibile
risolvere il permanente conflitto sociale («La rivoluzione
futurista […] non potrà certo sopprimere il tormento umano
che è la forza ascensionale della razza», Al di
là del comunismo: cfr. Paglia, p. 154) esiste comunque la via
di fuga dell’arte («un grandioso miraggio: la trasformazione
della città divisa in città riconciliata
dall’arte», ibid.). In definitiva il M. chiude la fase
costruttiva della sua teorizzazione politica sotto il segno
dell’ambiguità, se non addirittura della cosciente
mistificazione, accettando per un verso lo statu quo della struttura
capitalistica, rifugiandosi, per l’altro, nell’illusione e nel
miraggio della creazione artistica.
Questa sostanziale resa teorica del M. si concretò in un
iniziale e momentaneo distacco dal modus operandi del fascismo,
quello sì assolutamente politico, emerso con chiarezza nel
comportamento di Mussolini in rapporto all’avventura fiumana, e
trovandosi di fronte all’impossibilità di imporre alla
maggioranza fascista la discriminante antimonarchica e
anticlericale. Dopo il II congresso dei Fasci di combattimento
(Milano, 24-25 maggio 1920) il M., con altri futuristi, uscì
dal movimento; vi sarebbe rientrato tra il 1923 e il 1924 (il volume
di scritti politici Futurismo e fascismo, Foligno 1924, ne dà
testimonianza), accettando il sostanziale mutamento di rotta e il
nuovo corso del fascismo considerato, in ogni caso, come «la
realizzazione del programma minimo futurista».
Il M., comunque, anche negli anni a venire, sarebbe sempre rimasto
ai margini della vita del regime e il movimento da lui creato,
malgrado le pretese e i tentativi, non ebbe mai un ruolo ufficiale
nell’ambito dell’arte fascista, saldamente inquadrata nelle
istituzioni statali e da queste ben controllata. Sopportato,
più che accettato, per le sue benemerenze della prima ora – e
in questa cornice sarebbe rientrato anche il suo ingresso
all’Accademia d’Italia, nel 1929 –, il M., per il suo atteggiamento
anarcoide mai completamente dismesso, fu piuttosto fonte di
preoccupazione e di fastidio per le autorità fasciste.
Tra il 1919 e il 1920, a intervalli ravvicinati, uscirono anche i
tre romanzi che si è soliti designare come la «trilogia
della guerra» e che, sul piano narrativo, ugualmente segnarono
la conclusione del periodo più innovativo, preludendo, anche
nello stile, a una fase di riflusso e recupero, almeno parziale, di
modalità stilistiche più fluenti e discorsive.
Il «romanzo esplosivo» 8 anime in una bomba (Milano
1919) rievoca gli eventi bellici alternandoli a illustrazioni
erotiche in una chiave autobiografico-psicologica che, al solito,
coniuga erotismo e aggressività. Un ventre di donna (ibid.
1919), scritto in collaborazione appunto con una donna, Enif Robert,
registra a due voci, nelle forme abbinate del diario e dello scambio
epistolare, un’esperienza ospedaliera vissuta dalla signora la
quale, nel corso della degenza, riceve le lettere del M. dal fronte:
si alternano, quindi, le impressioni e le sensazioni del tutto
private e personali della malata, al di fuori di ogni definizione
medica, e le cruente descrizioni del teatro di guerra, elaborate dal
M. con una tecnica in presa diretta, quasi cinematografica,
polifonica e simultanea, da lui concepite in funzione terapeutica
per indurre la malata a reagire mediante le rievocazioni-shock.
Infine, L’alcova d’acciaio (ibid. 1921) è nuovamente una
sorta di diario costruito anch’esso per sequenze di stampo
cinematografico, con «primi piani» che ripropongono
l’abituale antitesi tra vita militare e vita amorosa.
Nel corso dei primi anni Venti l’attività letteraria
postbellica del M. proseguì lungo la linea di un recupero,
almeno parziale, delle strutture espressive tradizionali, secondo un
processo che, nonostante il diverso parere del M.,
rappresentò di fatto una sorta di riconversione del
paroliberismo del periodo eroico.
Così nel romanzo Gli indomabili (ibid. 1922), visionaria
descrizione di un mondo fluttuante tra surreale (le fosforescenti
aeree visioni della città dei Cartacei) e crudo realismo
(l’istintualità animalesca degli Indomabili e la barbarica
repressione dei negri custodi). E ancora nei racconti Gli amori
futuristi (Cremona 1922; poi ristampati, con quelli di Scatole
d’amore in conserva e nuovi racconti, nelle Novelle con le labbra
tinte, Milano 1930), «“programmi futuristi di vita con
varianti a scelta” che propongono soluzioni finali alternative
all’iter narrativo» (Paglia, p. 111), realizzando una tecnica
di scioglimenti multipli che anticipa, per certi versi, le
«finzioni» di J.L. Borges.
In campo teatrale si avverte, altresì, un riflusso verso
forme drammatiche più distese. Anche se, come indicato nel
manifesto Teatro antipsicologico astratto di puri elementi e il
teatro tattile (in Noi, s. 2, II [1924]), i personaggi, privi di una
definizione psicologica, acquistano un rilievo esclusivamente
metaforico e simbolico, e si caratterizzano come proiezioni mitiche
o ideologiche, il più ampio contesto di scrittura fa
sì che la forma teatrale, liberata dalle rigide strettoie
delle «sintesi», riacquisti una definizione narrativa
più tradizionale.
Si veda la serie di azioni teatrali: Il tamburo di fuoco (Pisa,
teatro Verdi, 11 maggio 1922; poi Milano 1923), metafora della
volontà di emancipazione dell’Africa, in cui sono inseriti
l’accompagnamento intermittente di rumori, musiche (di F.B.
Pratella), colori (attraverso l’uso di toni cromatici dominanti);
Prigionieri (Roma, teatro di Villa Ferrari, 22 maggio 1925; Milano
1927), oscura parabola della condizione umana in quanto estensione
progressiva della condizione di prigionia a tutti i personaggi del
dramma; Vulcano (Roma, teatro Valle, 31 marzo 1926; Milano 1927),
sorta di mitografia del fuoco; L’Oceano del cuore (Milano, teatro
Eden, 24 nov. 1927; in Comoedia, X [1928], 6), che propone invece
una metafora acquatica per connotare astrattamente e simbolicamente
i moti profondi della psiche, di nuovo presi in considerazione,
questa volta in rapporto alla creazione poetica, in Luci veloci
(Torino, 4 genn. 1929; in Comoedia, XI [1929], 3).
A questo gruppo di testi teatrali del M. seguirono quelli
dell’ultima fase in cui la concatenazione degli eventi è
affidata esclusivamente al libero svolgersi della fantasia, senza
preoccuparsi di stabilire alcun legame logico o realistico,
precorrendo le sperimentazioni del teatro contemporaneo e, in
particolare, del teatro dell’assurdo.
Fra gli esiti maggiori di questo periodo: Locomotive, i cui
protagonisti (il capostazione Imprecisi, il Liberatore di orologi,
il Seduttore di treni) riusciranno a trasformare il meccanismo
cronometrico di una stazione in una serie illogica di eventi che
riverberano i loro caotici effetti su tutto l’universo. Ricostruire
l’Italia con architettura futurista Sant’Elia, in cui la concezione
architettonica è assunta a metafora della vita umana,
costituendo la discriminante fondamentale tra passatisti e
progressisti, orientati verso soluzioni costruttive non coincidenti.
A conclusione del ciclo teatrale del M. – che si realizza anche
nelle «sintesi» contemplate da Il teatro radiofonico
(manifesto dell’ottobre 1933) – si ricordano ancora: Il suggeritore
nudo (Roma, teatro degli Indipendenti, 12 dic. 1929; in Comoedia,
XI-XII [1929-30, n. 12]) e Simultanina (Padova, teatro Garibaldi, 2
giugno 1930).
Dal luglio 1924 il M. si era trasferito a Roma, con la moglie
Benedetta Cappa, pittrice e scrittrice che aveva conosciuto nel 1918
nello studio di Balla e sposato nel 1923, con rito civile, dopo
quattro anni di convivenza.
I rapporti del M. con la moglie, improntati sempre alla massima
delicatezza e tenerezza (testimoniate nelle Poesie a Beny [Torino
1971, ma composte tra il 1920 e il 1938]), così come la sua
figura di padre affettuoso delle tre figlie – Vittoria, Ala e Luce
–, in contrasto con la violenza iconoclasta contro la famiglia e con
la dissacrazione dell’amore presenti in tanta parte della sua opera,
rivelano il dato volontaristico, e pubblico, delle sue teorie sulla
donna.
Gli anni Trenta segnarono per il M. e per il movimento un
ripiegamento su se stesso, una parabola discendente durante la quale
egli fondamentalmente si limitò a mettere in atto una sorta
di retorica rappresentazione del futurismo, cui pochi credevano
ancora, continuando a curarne l’attività di diffusione e di
pubblicizzazione con conferenze e dibattiti condotti in giro per il
mondo. Non mancarono, comunque, interessanti intuizioni e
realizzazioni quali il poema in prosa Spagna veloce e toro futurista
(Milano 1931).
In esso, contestualmente al diradarsi delle modalità
tipografiche proprie del paroliberismo, si ritrova il ricorso
all’analogia del primo M., frutto della sua educazione simbolista,
ma divenuto più veloce e rapido, sottolineato dalla intensa
gamma cromatica delle descrizioni, dalla tecnica dei cambiamenti dei
punti di vista, utilizzata soprattutto nella descrizione della
corrida.
Risale ai primi anni Trenta la formulazione della poetica
dell’aeropoesia, teorizzata nel Manifesto dell’aeropoesia del 1931
(preceduto dal Primo dizionario aereo, in collaborazione con F.
Azari, Milano 1929: raccolta sistematica della terminologia
aviatoria e testimonianza dell’interesse del M. per lo sfruttamento
estensivo del settore aeronautico), cui seguì, quale testo
creativo e dimostrativo, L’aeropoema del golfo della Spezia (ibid.
1935).
Gli elementi dell’aeropoesia sono mutuati dal dinamismo aereo: tutte
le sensazioni, auditive, visive e tattili dovevano venire
rappresentate con una simultaneità in grado di riprodurre le
caratteristiche della velocità dell’aeroplano. Di fatto tra
paroliberismo e aeropoesia, di là da qualche variazione di
modalità, non vi erano differenze di grande rilievo.
Negli anni 1933-37 il polo di attrazione per il M. si spostò
sull’Africa, sia sul piano letterario in una sorta di ritorno alle
origini, nell’avvincente e sottovalutato Il fascino dell’Egitto
(ibid. 1933) – doppia proiezione nell’infanzia e nella terra nativa
– sia, concretamente, con la partecipazione alla guerra di Etiopia,
nel novembre 1935, come volontario e col grado di seniore nella
divisione «28 Ottobre», con la quale partecipò
alla battaglia del passo Uarieu (20-24 genn. 1936), guadagnandosi
una medaglia di bronzo al valor militare (si veda il resoconto,
gridato e violento, delle operazioni in Il poema africano della
divisione «28 Ottobre», ibid. 1937).
Gli ultimi anni, coincidenti con la seconda guerra mondiale, videro
il M. ancora impegnato in opere di propaganda e di appoggio allo
sforzo bellico (si veda la raccolta Il poema non umano dei
tecnicismi, ibid. 1940; Canto eroi e macchine della guerra
mussoliniana, ibid. 1942; Quarto d’ora di poesia della X Mas, ibid.
1945, postumo), e nella stesura dell’ennesimo Manifesto del romanzo
sintetico (25 dic. 1939) che seguiva il romanzo
«legislativo» Patriottismo insetticida (ibid. 1939).
Colpito da una grave forma di ulcera duodenale, tra il 1939 e il
1940 il M. fu costretto a subire un difficile intervento chirurgico;
durante la prolungata convalescenza si accostò alla religione
cattolica e ai sacramenti. Nonostante la cattiva salute si
arruolò volontario e raggiunse in Russia, come primo seniore
del gruppo «23 Marzo», le truppe italiane combattenti,
ottenendo la croce di guerra al valor militare. Rientrato a Roma
alla fine di novembre del 1942, sofferente di miocardite scrisse i
già ricordati «poemi in prosa» autobiografici (La
grande Milano tradizionale e futurista e Una sensibilità
italiana nata in Egitto).
Nell’ottobre 1943 si trasferì, insieme con la moglie e le
figlie, a Venezia, poi a Cadenabbia infine a Bellagio, sul lago di
Como, dove morì il 2 dic. 1944.