Fabrizio Maramaldo

 

www.treccani.it

di Maurizio Arfaioli

Nacque a Napoli da una famiglia nobile appartenente al seggio di Nido, primogenito di Francesco, signore di Lusciano, e di Francesca Aiossa. La data esatta della nascita è sconosciuta ma, considerando la sua carriera militare, assai probabilmente essa fu di pochi anni antecedente al 1500.

Per quanto non verificabile, la data del 28 ott. 1494, citata in una laconica e anonima biografia del M. (Firenze, Biblioteca nazionale, Mss. II.IV.382, c. 203r), non dovrebbe essere comunque troppo lontana dalla realtà.

Quasi nulla si sa degli anni giovanili a Napoli. Egli ricevette senz'altro una educazione all'altezza delle sue origini nobiliari, come dimostra anche la sua capacità di muoversi a proprio agio nelle principali corti dell'epoca, e crebbe come leale suddito prima di Ferdinando il Cattolico e poi di Carlo V d'Asburgo. Con ogni probabilità, iniziò la sua carriera militare come esule, dopo aver ucciso nei primi mesi del 1522 la prima moglie "sforzato dal honor suo" (Arch. di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga, copialettere, 2965, 25, c. 67r).

Le cause e le circostanze di tale delitto d'onore rimangono ignote, come pure il nome della moglie. Bandito dal Regno, si rifugiò presso Ferdinando Francesco d'Avalos, marchese di Pescara, uno dei comandanti dell'esercito imperiale che nel 1521 aveva invaso il Ducato di Milano, allora in mano francese. La scelta del M. non fu certo casuale: anche i d'Avalos appartenevano al seggio di Nido, e la protezione prima di Ferdinando Francesco e poi di suo cugino Alfonso, marchese del Vasto, fu di fondamentale importanza per la sua carriera militare.

In Lombardia, il marchese di Pescara abbandonò momentaneamente il campo imperiale a causa dei contrasti con il capitano generale Prospero Colonna. Alla ricerca di un nuovo protettore, il M. entrò al servizio di Federico II Gonzaga, marchese di Mantova e capitano generale della Chiesa, all'epoca alleata dell'Impero contro la Francia. Il M. servì bene i Gonzaga, che si adoperarono presso la corte spagnola perché gli fosse mitigato, se non revocato, il bando dal Regno di Napoli. Il nome del M. acquistò una certa notorietà quando, il 3 ag. 1523, egli uccise in duello il nobile napoletano Giovanni Tommaso Carafa, conte di Cerreto e famoso spadaccino che, durante un banchetto a Milano, aveva pubblicamente denigrato il suo lignaggio. Nel corso della campagna del 1523-24 contro i Francesi in Lombardia partecipò alla difesa di Lodi e poi a quella di Cremona, e alla conclusione delle operazioni si trovava al comando di 1000 fanti, "prestati" dal marchese di Mantova alla Serenissima. Nel maggio 1524 il M. lasciò il servizio di Federico Gonzaga e tornò a quello dell'imperatore, seguendo il marchese di Pescara durante l'invasione della Provenza e combattendo a Pavia (24 febbr. 1525), dove le fanterie italo-spagnole di Ferdinando Francesco e Alfonso d'Avalos dettero un contributo determinante alla disfatta dell'esercito francese. Poco prima di morire (3 dic. 1525), Ferdinando Francesco d'Avalos conferì al M. il titolo di colonnello delle fanterie napoletane veterane dell'esercito imperiale.

All'epoca del M. la fanteria aveva già da tempo sostituito la cavalleria come nerbo degli eserciti europei. La fanteria italiana si era adattata al nuovo modello di fanteria tattica impostosi nel corso delle guerre d'Italia e composto da percentuali variabili di picchieri e di tiratori, prevalentemente archibugieri. La necessità di integrare efficacemente l'azione di queste due componenti aveva portato anche in Italia alla creazione di strutture intermedie tra la singola compagnia - fino ad allora la sottounità di base della fanteria - e la fanteria nel suo insieme, con la costituzione di unità tattico-amministrative autonome composte di più compagnie. In questo contesto nacque una nuova figura di imprenditore militare, denominato colonnello - termine che indicava sia l'unità sia il suo proprietario-comandante - destinato a organizzare e guidare tali strutture intermedie.

Come colonnello di fanteria il M. fu uno degli imprenditori militari italiani di maggior successo della sua generazione, riuscendo a organizzare intorno a sé per più di un decennio la parte più solida delle fanterie italiane del Regno di Napoli, uno dei pilastri del sistema militare asburgico in Italia. Il suo "colonnello" (reggimento) - che giunse a superare le 3000 unità - fu al tempo stesso unità di élite, scuola militare ed espressione degli interessi politici ed economici di una parte importante della nobiltà napoletana.

Le vittorie dei generali di Carlo V e l'occupazione militare del Ducato di Milano (dicembre 1525) da parte imperiale portarono alla formazione di un vasto fronte antiasburgico. Francia, Roma, Venezia, Firenze, Mantova e Ferrara - sostenute esternamente dall'Inghilterra - si unirono (22 maggio 1526) nella Lega santa di Cognac, destinata a scongiurare l'affermarsi dell'egemonia asburgica sulla penisola.

Dopo aver partecipato con alterna fortuna alla difesa del Ducato di Milano dagli attacchi delle truppe pontificie, veneziane e francesi, nel febbraio 1527 il M. e i suoi fanti si unirono all'esercito comandato dal connestabile Carlo duca di Borbone nella sua avanzata verso il Mezzogiorno d'Italia, partecipando al sacco di Roma, iniziato il 6 maggio 1527. Solo il 17 febbr. 1528 le truppe imperiali lasciarono la città per spostarsi nel Meridione allo scopo di fronteggiare l'invasione del Regno di Napoli da parte di un esercito della Lega di Cognac. Quando iniziò l'assedio di Napoli, i primi di aprile del 1528, il colonnello del M. era l'unica unità di fanteria italiana dell'esercito imperiale: tutte le altre erano state sciolte per mancanza di denaro e, soprattutto, di fiducia.

Fu proprio per aprire una grave spaccatura nel fronte imperiale che alcuni nobili napoletani filofrancesi fecero cadere (23 giugno) in mano imperiale alcune lettere che svelavano inesistenti trattative avviate dal M. con gli assedianti. Philibert de Châlon, principe d'Orange, comandante in capo imperiale, avrebbe voluto sbrigativamente giustiziare il M., ma l'opposizione di gran parte della nobiltà napoletana lo costrinse a ordinare un'accurata indagine che si concluse con la totale assoluzione dell'accusato e il reintegro al comando del suo colonnello.

Due mesi dopo, il M. uscito da Napoli con i suoi, occupò prima Somma (8 agosto) e poi Capua (28 agosto), contribuendo in misura rilevante alla conclusione dell'assedio e al collasso dell'esercito avversario (30 agosto). Come compenso per i suoi servigi e la sua fedeltà, ricevette dal principe d'Orange - nuovo viceré di Napoli - il feudo di Ottaviano. Nel maggio del 1529 guidò il suo colonnello in Puglia per unirsi alle truppe del marchese del Vasto, Alfonso d'Avalos, impegnate ad annientare le ultime sacche di resistenza dei baroni filofrancesi e della Lega nel Regno di Napoli. Nel febbraio 1530, regolata la questione delle paghe arretrate sue e delle sue truppe, e preso formalmente possesso del suo feudo, alla testa di 3000 fanti marciò verso la Toscana per unirsi all'esercito imperiale che già da mesi assediava Firenze allo scopo di costringere il locale regime repubblicano - ostinatamente filofrancese - ad accettare il ritorno dei Medici al potere.

Da metà maggio a fine giugno 1530 il M. pose l'assedio alla città di Volterra, ma la vigorosa difesa delle truppe fiorentine, guidata e animata dal commissario Francesco Ferrucci, determinò il fallimento dell'impresa anche dopo che alle forze del M. si erano unite quelle di Alfonso d'Avalos. Il 3 ag. 1530 il colonnello del M. fu però tra le unità imperiali che intercettarono e sconfissero, presso il borgo di Gavinana, le residue forze fiorentine che, guidate dal Ferrucci, tentavano di raggiungere Firenze per stringere gli assedianti tra due fuochi. A combattimento concluso, il comandante fiorentino, ferito e prigioniero, fu portato di fronte al M. che, dopo un breve scambio di battute, lo ferì mortalmente e ordinò poi ai propri uomini di finirlo.

Lo scontro di Gavinana era stato inaspettatamente violento e sanguinoso - il principe d'Orange fu tra i caduti - e sin dal suo inizio quella campagna era stata condotta in modo particolarmente brutale da entrambe le parti, senza rispettare molte delle convenzioni che regolavano i conflitti armati. Nel caso specifico, la particolare animosità del M. contro il Ferrucci era alimentata dalla recente memoria dei molti insulti personali che il commissario gli aveva rivolto durante l'assedio di Volterra - in particolare l'impiccagione di un emissario mandato dal M. ai Priori di Volterra - e del grave smacco professionale che gli era derivato dall'essere stato obbligato a togliere l'assedio a quella città da un funzionario "civile" e non da un militare par suo. Ben difficilmente il M., celebrato già in vita come uno dei soldati e gentiluomini migliori e più famosi della sua epoca, avrebbe potuto immaginare che il suo illustre cognome avrebbe indicato per antonomasia "uomo malvagio, spavaldo e prepotente soprattutto con i deboli, gli indifesi e gli sconfitti" (Vocabolario della lingua italiana, diretto da A. Duro, III, Roma 1989, p. 75). E ancora meno avrebbe potuto immaginare che l'essere assunto a modello di uomo vile e spregevole sarebbe derivato - fra i molti deboli, indifesi e sconfitti su cui pure si era trovato effettivamente a infierire nel corso della propria carriera - proprio dall'uccisione di un nemico che aveva praticato la "cattiva guerra" contro lui e i suoi, ma che secondo il suo punto di vista non aveva nessun diritto di essere trattato come un suo pari, visto che "di mercatante s'era fatto soldato" (Nardi, p. 207). Nonostante l'ostilità degli storici fiorentini filorepubblicani, all'epoca dei fatti e per molto tempo dopo, l'uccisione del commissario fiorentino non pesò in alcun modo sulla figura e la reputazione del condottiere napoletano. I valori "aristocratici" di cui il M. era espressione si erano già imposti su quelli "repubblicani" difesi dal Ferrucci già molto prima della battaglia di Gavinana.

Le cose cambiarono radicalmente al principio del XIX secolo, con l'inizio del processo di elaborazione del mito fondativo dell'identità nazionale italiana. A quel punto fu la visione del cittadino-soldato Ferrucci, visto come l'estremo difensore della libertà della propria patria a prendere il sopravvento su quella del M., un "mercenario" (termine che all'epoca dell'apoteosi degli eserciti nazionali, fondati sulla coscrizione obbligatoria, era considerato sinonimo di miserabile venduto allo straniero) al servizio di un oppressore degli Italiani. In base a questa inversione di parametri, e grazie alle opere di scrittori come Francesco Domenico Guerrazzi e Massimo d'Azeglio, ogni atto del M. precedente o successivo al 3 ag. 1530 è stato studiato e presentato come la necessaria premessa o la logica conseguenza del "delitto" da lui commesso nelle ore che seguirono la conclusione della battaglia di Gavinana. Nella voce a lui dedicata nell'Enciclopedia biografica e bibliografica "Italiana", ben poco viene detto della sua vita e della sua carriera, se non che egli fu "l'uccisore di Francesco Ferrucci a Gavinana. Tutta la sua vita è concentrata, si può dire, in questo suo atto crudele, in questo inutile scempio". Anche quegli intellettuali italiani che, con motivazioni diverse e a volte opposte - citiamo emblematicamente Vittorio Imbriani da una parte e Antonio Gramsci dall'altra - si sono trovati a difendere o a rivalutare la figura del M., lo hanno fatto per contrapporla a quella di Ferrucci. Questa situazione si è protratta fino al periodo successivo alla fine della seconda guerra mondiale, quando profondi mutamenti negli orientamenti, nelle metodologie e negli obiettivi della ricerca storica italiana hanno fatto scivolare entrambi i personaggi in un sostanziale oblio.

Dopo la resa della Repubblica fiorentina, congedate le sue truppe, il M. tornò brevemente a Napoli, per poi recarsi nel marzo del 1531 presso la corte imperiale a Bruxelles. Qui rimase per alcuni mesi, godendo del favore di Carlo V e coltivando amicizie e contatti utili per la prosecuzione della propria carriera. Nel 1532 il M. comandava 3000 dei più di 14.000 fanti italiani che varcarono le Alpi per unirsi all'esercito imperiale destinato a difendere Vienna dall'imminente attacco turco. Sfumata la possibilità di affrontare l'esercito ottomano in campo aperto, Carlo V destinò le truppe italiane alla riconquista di Buda in Ungheria, nominando il M. loro "capitano generale". Tuttavia, il malcontento degli altri comandanti italiani, risentiti per essere stati scavalcati dal M., e quello dei soldati, già esasperati dalle pessime condizioni di vita e dai ritardi delle paghe - nonché dall'idea di servire sotto un comandante dalla reputazione tirannica - fecero sì che, fatta eccezione per le truppe napoletane, i fanti degli altri colonnelli si ammutinassero quasi tutti e si mettessero in marcia alla volta dell'Italia.

Il 26 sett. 1533 il M., tornato a Napoli, sposò la nobile napoletana Porzia Cantelmo. Nel 1535 partecipò alla spedizione di Carlo V contro Tunisi col rango di "maestro di campo generale", ufficiale incaricato di mettere in pratica le decisioni del comandante in capo, gestendo l'acquartieramento delle truppe e il loro dispiegamento durante le marce e sul campo. Il M. ricoprì lo stesso ruolo l'anno seguente nell'esercito comandato da Alfonso d'Avalos e destinato alla riconquista del Piemonte, invaso dai Francesi nel marzo 1536. Per i servigi resi durante questa campagna ricevette dall'imperatore una rendita annuale e la nomina a suo gentiluomo di camera. Rientrato in patria nel 1538 dopo l'armistizio decennale stipulato tra imperatore e re di Francia a Nizza (18 giugno 1538), non partecipò attivamente a nessuna altra impresa militare.

Quella conclusiva è una delle fasi meno conosciute e studiate della sua vita. La saggistica risorgimentale, sempre alla ricerca di prove della debole fibra morale del M., lo ritrasse come un gaudente intento solo a sperperare le proprie sostanze e quelle della moglie in una Napoli che sprofondava in una secolare decadenza sotto il peso dell'oppressione straniera che lui stesso aveva contribuito a instaurare; una figura ridicola destinata a rimanere viva nella memoria del popolo in alcune filastrocche e nei panni di una maschera della commedia dell'arte napoletana. In realtà, il M. si ritirò dal servizio attivo dopo aver raggiunto il grado più alto a cui potesse aspirare. Ricco, ammirato dai contemporanei, celebrato da scrittori e poeti, nominato infine anche membro del Consiglio di Stato e della Guerra del Regno di Napoli, il M. fu un personaggio influente e attivo della società napoletana in un periodo in cui questa era scossa da una serie di profonde trasformazioni istituzionali, culturali e religiose. Arrivato in alto grazie all'appoggio dei d'Avalos, avversari tradizionali dei Toledo, nel 1536 egli fu tra i baroni che chiesero, senza successo, all'imperatore di rimuovere il viceré di Napoli don Pedro de Toledo dal suo incarico, e che nel 1547 cercarono di usare i gravi tumulti scoppiati a Napoli per provocarne la destituzione.

Il M. morì a Napoli, probabilmente alla fine del 1552.