Antonio Gramsci

Note sul Machiavelli sulla politica e sullo Stato moderno

a cura di Gerratana, Valentino
Editori riuniti, 1996

Indice

I. Il moderno principe

[Noterelle sulla politica del Machiavelli] (Q. 13)

Oltre che dal modello (Q. 13)

[La scienza della politica] (Q. 13)

[La politica come scienza autonoma] (Q. 13)

La concezione del Croce (Q. 13)

Se il concetto crociano della passione (Q. 8)

Accanto ai meriti della moderna «machiavellistica» (Q. 13)

Elementi di politica (Q. 15)

[Il partito politico] (Q. 13)

È l'azione politica (Q. 17)

Sul concetto di partito politico (Q. 13)

Quando si può dire che un partito sia formato e non possa essere distrutto con mezzi normali (Q. 14)

Partiti politici e funzioni di polizia (Q. 14)

[Industriali e agrari] (Q. 15)

Concezioni del mondo e atteggiamenti pratici totalitari e parziali (Q. 15)

Alcuni aspetti teorici e pratici dell'«economismo» (Q. 13)

Un elemento da aggiungere (Q. 13)

[Previsione e prospettiva] (Q. 13)

Sul concetto di previsione o prospettiva (Q. 15)

Il «troppo» (e quindi superficiale e meccanico) (Q. 13)

[Analisi delle situazioni. Rapporti di forza] (Q. 13)

È il problema dei rapporti (Q. 13)

Osservazioni su alcuni aspetti della struttura dei partiti politici nei periodi di crisi organica (Q. 13)

Il cesarismo (Q. 13)

Cesarismo ed equilibrio «catastrofico» delle forze politico-sociali (Q. 14)

Lotta politica e guerra militare (Q. 1)

Arte militare e arte politica (Q. 1)

A proposito dei confronti (Q. 13)

Guerra di posizione e guerra manovrata o frontale (Q. 7)

[Il concetto di rivoluzione passiva] (Q. 15)

Il concetto di «rivoluzione passiva» (Q. 15)

Il rapporto «rivoluzione passiva - guerra di posizione» (Q. 15)

Sempre a proposito del concetto di rivoluzione passiva (Q. 15)

Sulla burocrazia (Q. 13)

Il teorema delle proporzioni definite (Q. 13)

Sociologia e scienza politica (Q. 15)

Il numero e la qualità nei regimi rappresentativi (Q. 13)

La proposizione che «la società non si pone problemi per la cui soluzione non esistano già le premesse materiali» (Q. 8)

Quistione dell'«uomo collettivo» o del «conformismo sociale» (Q. 13)

Fase economica-corporativa dello Stato (Q. 6)

Egemonia (società civile) e divisione dei poteri (Q. 6)

[Concezione del diritto] (Q. 13)

[Politica e diritto costituzionale] (Q. 5)

Roberto Michels e i partiti politici

R. Michels, Les Partis politiques et la contrainte sociale (Q. 2)

Note sulla vita nazionale francese

Note sulla vita nazionale francese (Q. 13)

Maurras e il «centralismo organico» (Q. 13)

Note sparse

[Internazionalismo e politica nazionale] (Q. 14)

Interpretazione del Principe (Q. 14)

«Doppiezza» e «ingenuità» del Machiavelli (Q. 13)

[I.] Cfr. ciò che scrive l'Alfieri (Q. 17)

Articolo di Luigi Cavina (Q. 18)

Armi e religione (Q. 6)

Nel libro di Clemenceau (Q. 6)

Teoria e pratica (Q. 14)

Machiavelli ed Emanuele Filiberto (Q. 5)

Su Emanuele Filiberto (Q. 2)

Lo Stato (Q. 14)

I limiti dell'attività dello Stato (Q. 3)

Stato e società regolata (Q. 6)

Stato etico o di cultura (Q. 8)

Hegel e l'associazionismo (Q. 1)

Lo Stato e la concezione del diritto (Q. 8)

Concetto di Stato (Q. 6)

Curzio Malaparte (Q. 8)

Lo Stato «veilleur de nuit» (Q. 26)

Stato gendarme-guardiano notturno, ecc. (Q. 6)

Fase economica-corporativa dello Stato (Q. 8)

1) Altro elemento da esaminare (Q. 8)

Organizzazione delle società nazionali (Q. 6)

I costumi e le leggi (Q. 6)

Chi è legislatore? (Q. 14)

In uno studio di teoria finanziaria (Q. 14)

Arte politica e arte militare (Q. 13)

[«Funzione di governo»] (Q. 15)

La quistione posta dal Panunzio (Q. 15)

[La classe politica] (Q. 13)

[Grande politica e piccola politica] (Q. 13)

(Nuovo Machiavelli, cfr. quaderno speciale ecc.) (Q. 15)

Morale e politica (Q. 14)

Distacco tra dirigenti e diretti (Q. 3)

Città e campagna (Q. 2)

[Miti storici] (Q. 15)

Centro (Q. 14)

La forza dei partiti agrari (Q. 14)

[Religione, Stato, partito] (Q. 17)

Classe media (Q. 26)

L'uomo-individuo e l'uomo-massa (Q. 7)

Psicologia e politica (Q. 6)

Storia politica e storia militare (Q. 2)

Sullo sviluppo della tecnica militare (Q. 13)

Una massima del maresciallo Caviglia (Q. 17)

Arte militare e politica (Q. 4)

«Contraddizioni» dello storicismo ed espressioni letterarie di esse (ironia, sarcasmo) (Q. 26)

Feticismo (Q. 15)

[Machiavellismo e antimachiavellismo] (Q. 13)

Miscellanea

Diritto naturale (Q. 15)

Elezioni (Q. 15)

Fortuna «pratica» di Machiavelli (Q. 6)
Machiavelli come figura di transizione (Q. 6)
Prendendo le mosse dall'affermazione del Foscolo (Q. 13)
Lo Schopenhauer avvicina l'insegnamento (Q. 13)
Bacone ha chiamato «Re Magi» (Q. 13)

Il potere indiretto (Q. 17)

Egemonia e democrazia (Q. 8)

Alcune cause d'errore (Q. 3)

Lotta di generazioni (Q. 3)

Società civile e società politica (Q. 7)

Sorel e i giacobini (Q. 5)

Machiavelli e Manzoni (Q. 5)

La «formula» di Léon Blum (Q. 1)

Il pragmatismo americano (Q. 1)

Distinzioni (Q. 17)

Storia e «progresso» (Q. 6)

Principî di metodo (Q. 17)

II. Note di politica internazionale

[Il concetto di grande potenza] (Q. 13)

Nella nozione di grande potenza (Q. 13)

Egemonia politico-culturale (Q. 13)

Sul concetto di grande potenza (Q. 13)

(Cfr. altre note precedenti) (Q. 6)

Sull'origine delle guerre (Q. 13)

La funzione europea dello zarismo nel secolo XIX (Q. 16)

Cfr. la lettera al conte Vimercati di Cavour (Q. 6)

Politica e comando militare (Q. 2)

Documenti diplomatici (Q. 2)

Una politica di pace europea (Q. 2)

Per i rapporti tra il Centro tedesco e il Vaticano (Q. 2)

Sull'Anschluss (Q. 2)

Articolo di Frank Simonds (Q. 2)

Costituzione dell'Impero Inglese (Q. 2)

Funzione del re d'Inghilterra (Q. 6)

Da Regno Unito di Gran Bretagna (Q. 2)

La bilancia commerciale inglese (Q. 5)

Egemonia politica dell'Europa prima della guerra mondiale (Q. 2)

Politica mondiale e politica europea (Q. 2)

America e Europa (Q. 2)

Inghilterra e Stati Uniti dopo la guerra (Q. 2)

Augur, Il nuovo aspetto dei rapporti tra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti d'America (Q. 2)

Formazione della potenza degli Stati Uniti (Q. 2)

Wilson (Q. 2)

Lodovico Luciolli, La politica doganale degli Stati Uniti d'America (Q. 2)

Gli Stati Uniti nel Mar Caraibico (Q. 2)

Gli Stati Uniti e l'America Centrale (Q. 2)

Estremo Oriente (Q. 2)

La Cina (Q. 2)

Atlantico-Pacifico (Q. 2)

Bernardo Sanvisenti, La questione delle Antille (Q. 5)

Armamento della Germania al momento dell'armistizio (Q. 5)

Il problema scandinavo e baltico (Q. 2)

La posizione geopolitica dell'Italia. La possibilità dei blocchi (Q. 19)

III. Note sull'attrezzamento nazionale e sulla politica italiana

L'attrezzamento nazionale (Q. 3)

Economia nazionale (Q. 9)

Struttura economica italiana (Q. 3)

Nella «Riforma Sociale» del maggio-giugno 1932 (Q. 19)

Giuseppe Paratore, La economia, la finanza, il denaro d'Italia alla fine del 1928 (Q. 2)

Sui bilanci dello Stato (Q. 2)

A proposito dei bilanci (Q. 2)

La marina mercantile italiana (Q. 2)

La diplomazia italiana. Costantino Nigra e il trattato di Uccialli (Q. 3)

La diplomazia italiana prima del 1914 (Q. 3)

A proposito dell'incidente del Carthage (Q. 5)

Nella recensione del libro di Salandra (Q. 3)

Tittoni (Q. 2)

Per tutto un lungo periodo (Q. 3)

La quistione italiana (Q. 19)

Italia e Yemen nella nuova politica arabica (Q. 2)

Articolo di Roger Labonne (Q. 2)

Il «Correspondant» del 25 luglio 1927 (Q. 2)

Italia ed Egitto (Q. 2)

L'Etiopia d'oggi (Q. 2)

Roberto Cantalupo, La Nuova Eritrea (Q. 2)

Il nazionalismo italiano (Q. 2)

Direzione politico-militare della guerra 1914-1918 (Q. 5)

Nella «Nuova Antologia» del 16 giugno 1929 (Q. 5)

In alcuni paesi la formazione delle truppe (Q. 5)

Caporetto (Q. 6)

Cfr. il libro del gen. Alberto Baldini (Q. 6)

Gli ufficiali in congedo (Q. 2)

Leggere attentamente (Q. 2)

Per una politica annonaria razionale e nazionale (Q. 2)

1919 (Q. 1)

IV. Recensioni e note bibliografiche

Studi particolari su Machiavelli come «economista» (Q. 8)

La «Rivista d'Italia» del 15 giugno 1927 (Q. 18)

Un'edizione delle Lettere di Niccolò Machiavelli (Q. 5)

Pasquale Villari, Niccolò Machiavelli e i suoi tempi (Q. 18)

In una recensione di Giuseppe Tarozzi (Q. 13)

Gioviano Pontano (Q. 2)

Gino Arias, Il pensiero economico di Niccolò Machiavelli (Q. 6)

Machiavelli ed Emanuele Filiberto (Q. 3)

Ettore Ciccotti (Q. 11)

Corrado Barbagallo (Q. 11)

Quella del Barbagallo sul capitalismo (Q. 7)

Giuseppe Gallavresi, Ippolito Taine storico della Rivoluzione francese (Q. 2)

La scienza della politica e i positivisti (Q. 3)

La funzione degli intellettuali (Q. 17)

G. Gentile e la filosofia della politica (Q. 13)

Il genio nella storia (Q. 6)

Sul sentimento nazionale (Q. 6)

I filosofi e la Rivoluzione francese (Q. 2)

Giuseppe Ferrari, Corso su gli scrittori politici italiani (Q. 2)

Centralismo organico ecc. (Q. 6)

Italo Chittaro, La capacità di comando (Q. 13)

Scritto dal (generale) Luigi Bongiovanni (Q. 17)

Carlo Flumiani, I gruppi sociali (Q. 3)

Rapporti tra città e campagna (Q. 8)

Vittorio Giglio, Milizie ed eserciti d'Italia (Q. 2)

Su Quintino Sella (Q. 2)

Storia del dopoguerra (Q. 5)

Roberto Michels (Q. 7)

Cultura italiana (Q. 3)

Francia (Q. 5)

Alfredo Oriani (Q. 2)

R. Garofalo, Criminalità e amnistia in Italia (Q. 2)

E. De Cillis, Gli aspetti e le soluzioni del problema della colonizzazione agraria in Tripolitania (Q. 2)

Gaspare Ambrosini, La situazione della Palestina e gli interessi dell'Italia (Q. 2)

Andrea Torre, Il principe di Bülow e la politica mondiale germanica (Q. 2)

Stresemann (Q. 5)

Nazionalizzazioni e statizzazioni (Q. 7)

La battaglia dello Jütland (Q. 13)

Argus, Il disarmo navale, i sottomarini e gli aeroplani (Q. 5)

Oscar di Giamberardino, Linee generali della politica marittima dell'Impero Britannico (Q. 2)

Istituzioni internazionali (Q. 2)

G. B., La Banca dei regolamenti internazionali (Q. 5)

Luigi Villari, L'agricoltura in Inghilterra (Q. 2)

Alfonso de Pietri-Tonelli, Wall Street (Q. 2)

La Geopolitica (Q. 2)

Olii, petrolii e benzine (Q. 2)

Domenico Meneghini, Industrie chimiche italiane (Q. 5)

Claudio Faina, Foreste, combustibili e carburante nazionale (Q. 2)

Claudio Faina, Il carburante nazionale (Q. 5)

Carlo Schanzer, Sovranità e giustizia nei rapporti fra gli Stati (Q. 5)

Giorgio Mortara, Natalità e urbanesimo in Italia (Q. 2)

Sull'emigrazione italiana (Q. 2)

Italia e Palestina (Q. 5)

Sulla finanza dello Stato (Q. 2)

Articolo Problemi finanziari firmato Verax (Tittoni) nella «Nuova Antologia» del 1° giugno 1927 (Q. 2)

Bibliografia varia (Q. 2)

V. Azione Cattolica. Gesuiti e modernisti

L'Azione Cattolica

L'Azione Cattolica, nata specificatamente dopo il 1848 (Q. 20)

L'Azione Cattolica e i terziari francescani (Q. 2)

Sulla povertà, il cattolicismo e la gerarchia ecclesiastica (Q. 2)

I «Ritiri operai» (Q. 5)

[Preistoria dell'Azione Cattolica] (Q. 6)

[Origini dell'Azione Cattolica] (Q. 6)

Cfr. in altro quaderno l'annotazione (Q. 7)

La funzione dei cattolici in Italia (Azione Cattolica) (Q. 3)

Gianforte Suardi nella «Nuova Antologia» (Q. 5)

[Il papato nel secolo XIX] (Q. 14)

Sul «pensiero sociale» dei cattolici (Q. 5)

Un articolo da ricordare (Q. 5)

Nell'autunno del 1892 (Q. 17)

Il conflitto di Lilla (Q. 2)

[I cattolici e l'insurrezione] (Q. 7)

Movimento pancristiano (Q. 5)

[La prima comunione] (Q. 5)

Pubblicazioni periodiche cattoliche (Q. 8)

[L'Azione Cattolica in Francia] (Q. 15)

Lucien Romier e l'Azione Cattolica francese (Q. 5)

Ricordare che nel 1925 (Q. 5)

[L'Azione Cattolica in Germania] (Q. 8)

Die Katholische Aktion. Materialen und Akten (Q. 5)

I cattolici tedeschi (Q. 5)

L'Azione Cattolica negli Stati Uniti (Q. 5)

È interessante la corrispondenza (Q. 6)

I Concordati

Quando incominciarono le trattative per il Concordato? (Q. 6)

Rapporti tra Stato e Chiesa (Q. 16)

(Cfr. p. 15 bis) (Q. 16)

La circolare ministeriale (Q. 5)

Allegata alla legge delle Guarantigie (Q. 3)

Natura dei Concordati (Q. 5)

Il padre L. Taparelli (Q. 3)

Chiesa e Stato in Italia prima della Conciliazione (Q. 5)

Conflitto tra Stato e Chiesa come categoria eterna storica (Q. 6)

Cattolici integrali, gesuiti e modernisti

I «cattolici integrali» (Q. 20)

L'articolo: L'equilibrio della verità (Q. 20)

L'Action Française (Q. 20)

Il caso dell'abate Turmel di Rennes (Q. 20)

Cfr. l'articolo «La lunga crisi dell'Action Française» (Q. 20)

In altra nota è citato (Q. 7)

Cfr. l'articolo La catastrofe del caso Turmel e i metodi del modernismo critico (Q. 6)

[Diverse manifestazioni del modernismo] (Q. 14)

[Ugo Mioni] (Q. 4)

[Le encicliche contro il pensiero moderno] (Q. 14)

Roberto Bellarmino (Q. 7)

Santificazione di Roberto Bellarmino (Q. 6)

Giovanni Papini (Q. 6)

Lotta intorno alla filosofia neoscolastica (Q. 9)

[Leone XIII] (Q. 1)

La redazione della «Civiltà Cattolica» (Q. 3)

Nazionalismo culturale cattolico (Q. 5)

[Gesuiti e integralisti in Ispagna] (Q. 6)

Politica del Vaticano. Malta (Q. 6)

Movimenti religiosi (Q. 5)

Pancristianesimo e propaganda del protestantesimo nell'America Meridionale (Q. 2)

La religione, il lotto e l'oppio della miseria

Testimonianze cattoliche (Q. 8)

La religione, il lotto e l'oppio della miseria (Q. 16)

Giulio Lachelier (Q. 16)

Religione (Q. 6)

Note sparse

Il culto degli Imperatori (Q. 5)

La concezione del centralismo organico e la casta sacerdotale (Q. 3)

Religione come principio e clero come classe-ordine feudale (Q. 1)

Clero come intellettuali (Q. 1)

Origine sociale del clero (Q. 1)

Il clero, la proprietà ecclesiastica e le forme affini di proprietà terriera o mobiliare (Q. 3)

Filippo Meda, Statisti cattolici (Q. 1)

Chiesa cattolica. Santi e beati (Q. 6)

Giuseppe De Maistre (Q. 2)

Padre Facchinei (Q. 1)

A proposito del matrimonio religioso (Q. 1)

La quistione sessuale e la Chiesa Cattolica. Elementi dottrinari (Q. 1)

Cattolici, neomaltusianismo, eugenetica (Q. 2)

Il medico cattolico e l'ammalato (moribondo) acattolico (Q.16)

[La contraddizione degli intellettuali] (Q. 8)

Cattolicismo e laicismo. Religione e scienza, ecc. (Q. 3)

Jean Barois (Q. 1)

Eugenio Di Carlo, Un carteggio inedito del P. L. Taparelli D'Azeglio coi fratelli Massimo e Roberto (Q. 2)

Francesco Orestano, La Chiesa Cattolica nello Stato italiano e nel mondo (Q. 2)

Cattolicismo nell'India (Q. 3)

Giuseppe Tucci, La religiosità dell'India (Q. 2)

Note bibliografiche

Chiesa Cattolica (Q. 6)

Ricordare, per uno studio (Q. 5)

Oltre all'Annuario Pontificio (Q. 7)

Azione cattolica italiana (Q. 5)

Il tentativo di riforma religiosa francescana (Q. 2)

Sui letterati cattolici (Q. 8)

Azione sociale cattolica (Q. 5)

Leone XIII (Q. 3)

La dottrina sociale cattolica nei documenti di papa Leone XIII (Q. 5)

Per il significato reale (Q. 7)

Sindacalismo cattolico (Q. 2)

La pace industriale (Q. 5)

L'Azione Cattolica nel Belgio (Q. 5)

Movimenti pancristiani (Q. 3)

Redazione della «Civiltà Cattolica» (Q. 5)

L'Action Française e il Vaticano (Q. 2)

Cfr. La crisi dell'«Action Française» e gli scritti del suo «maestro» (Q. 2)

Francia (Q. 9)

Per l'attività in Francia (Q. 6)

[Italia] (Q. 6)

Spagna (Q. 6)

Cfr. M. De Burgos y Mazo (Q. 6)

La riforma fondiaria cecoslovacca (Q. 2)

Cattolici integrali-gesuiti-modernisti (Q. 8)

Su Enrico Ibsen (Q. 5)

Colonie italiane (Q. 1)

VI. Americanismo e fordismo

Americanismo e fordismo

Serie di problemi (Q. 22)

Razionalizzazione della composizione demografica europea (Q. 22)

Alcune affermazioni sulla quistione di «Stracittà e Strapaese» (Q. 22)

Autarchia finanziaria dell'industria (Q. 22)

Alcuni aspetti della quistione sessuale (Q. 22)

[Femminismo e «maschilismo»] (Q. 22)

«Animalità» e industrialismo (Q. 22)

Razionalizzazione della produzione e del lavoro (Q. 22)

Eugenio Giovannetti (Q. 22)

Quantità e qualità (Q. 22)

Taylorismo e meccanizzazione del lavoratore (Q. 22)

Gli alti salari (Q. 22)

Azioni, obbligazioni, titoli di Stato (Q. 22)

Civiltà americana ed europea (Q. 22)

Rotary Club, massoneria, cattolici

Rotary Club (Q. 5)

Confrontare nella «Civiltà Cattolica» (Q. 5)

America e massoneria (Q. 6)

Owen, Saint-Simon e le scuole infantili di Ferrante Aporti (Q. 5)

Sansimonismo, Massoneria, Rotary Club (Q. 5)

I sansimoniani (Q. 6)

Il Sansimonismo in Italia (Q. 7)

Note sparse

Americanismo (Q. 5)

Ancora Babbitt (Q. 6)

[Cultura e tradizioni culturali] (Q. 15)

Vittorio Macchioro e l'America (Q. 4)

America (Q. 3)

Varie (Q. 22)

[Industria americana] (Q. 2)

Mino Maccari e l'americanismo (Q. 22)

Tendenze contro le città (Q. 2)

Emigrazione (Q. 3)

Americanismo. La delinquenza (Q. 8)

La filosofia americana (Q. 1)

America ed Europa (Q. 3)

L'America e il Mediterraneo (Q. 5)

Sull'americanismo (Q. 2)

Azione Cattolica (Q. 2)

Lello Gangemi, Il problema della durata del lavoro (Q. 1)

L'Unione internazionale dei Soccorsi (Q. 2)

«Mente et Malleo» (Q. 2)

Indice dei nomi


I. Il moderno principe

[Noterelle sulla politica del Machiavelli.] Il carattere fondamentale del Principe è quello di non essere una trattazione sistematica ma un libro «vivente», in cui l'ideologia politica e la scienza politica si fondono nella forma drammatica del «mito». Tra l'utopia e il trattato scolastico, le forme in cui la scienza politica si configurava fino al Machiavelli, questi dette alla sua concezione la forma fantastica e artistica, per cui l'elemento dottrinale e razionale si impersona in un condottiero, che rappresenta plasticamente e «antropomorficamente» il simbolo della «volontà collettiva». Il processo di formazione di una determinata volontà collettiva, per un determinato fine politico, viene rappresentato non attraverso disquisizioni e classificazioni pedantesche di principii e criteri di un metodo d'azione, ma come qualità, tratti caratteristici, doveri, necessità di una concreta persona, ciò che fa operare la fantasia artistica di chi si vuol convincere e dà una piú concreta forma alle passioni politiche. (Sarà da cercare negli scrittori politici precedenti al Machiavelli se esistono scritture configurate come il Principe. Anche la chiusa delPrincipe è legata a questo carattere «mitico» del libro: dopo aver rappresentato il condottiero ideale, il Machiavelli con un passaggio di grande efficacia artistica, invoca il condottiero reale che storicamente lo impersoni: questa invocazione appassionata si riflette su tutto il libro conferendogli appunto il carattere drammatico. Nei Prolegomeni di L. Russo il Machiavelli è detto l'artista della politica e una volta si trova anche l'espressione «mito», ma non precisamente nel senso su indicato).

Il Principe del Machiavelli potrebbe essere studiato come una esemplificazione storica del «mito» sorelliano, cioè di una ideologia politica che si presenta non come fredda utopia né come dottrinario raziocinio, ma come una creazione di fantasia concreta che opera su un popolo disperso e polverizzato per suscitarne e organizzarne la volontà collettiva. Il carattere utopistico del Principe è nel fatto che il «principe» non esisteva nella realtà storica, non si presentava al popolo italiano con caratteri di immediatezza obbiettiva, ma era una pura astrazione dottrinaria, il simbolo del capo, del condottiero ideale; ma gli elementi passionali, mitici, contenuti nell'intero volumetto, con mossa drammatica di grande effetto, si riassumono e diventano vivi nella conclusione, nell'invocazione di un principe, «realmente esistente». Nell'intero volumetto Machiavelli tratta di come deve essere il Principe per condurre un popolo alla fondazione del nuovo Stato, e la trattazione è condotta con rigore logico, con distacco scientifico: nella conclusione il Machiavelli stesso si fa popolo, si confonde col popolo, ma non con un popolo «genericamente» inteso, ma col popolo che il Machiavelli ha convinto con la sua trattazione precedente, di cui egli diventa e si sente coscienza ed espressione, si sente medesimezza: pare che tutto il lavoro «logico» non sia che un'autoriflessione del popolo, un ragionamento interno, che si fa nella coscienza popolare e che ha la sua conclusione in un grido appassionato, immediato. La passione, da ragionamento su se stessa, ridiventa «affetto», febbre, fanatismo d'azione. Ecco perché l'epilogo del Principe non è qualcosa di estrinseco, di «appiccicato» dall'esterno, di retorico, ma deve essere spiegato come elemento necessario dell'opera, anzi come quell'elemento che riverbera la sua vera luce su tutta l'opera e ne fa come un «manifesto politico».

Si può studiare come il Sorel, dalla concezione dell'ideologia-mito non sia giunto alla comprensione del partito politico, ma si sia arrestato alla concezione del sindacato professionale. È vero che per il Sorel il «mito» non trovava la sua espressione maggiore nel sindacato, come organizzazione di una volontà collettiva, ma nell'azione pratica del sindacato e di una volontà collettiva già operante, azione pratica, la cui realizzazione massima avrebbe dovuto essere lo sciopero generale, cioè un'«attività passiva» per cosí dire, di carattere cioè negativo e preliminare (il carattere positivo è dato solo dall'accordo raggiunto nelle volontà associate) di una attività che non prevede una propria fase «attiva e costruttiva». Nel Sorel dunque si combattevano due necessità: quella del mito e quella della critica del mito in quanto «ogni piano prestabilito è utopistico e reazionario». La soluzione era abbandonata all'impulso dell'irrazionale, dell'«arbitrario» (nel senso bergsoniano di «impulso vitale») ossia della «spontaneità». (Sarebbe da notare qui una contraddizione implicita nel modo con cui il Croce pone il suo problema di storia e antistoria con altri modi di pensare del Croce: la sua avversione dei «partiti politici» e il suo modo di porre la quistione della «prevedibilità» dei fatti sociali, cfr. Conversazioni Critiche, Serie prima, pp. 150-52, recensione del libro di Ludovico Limentani, La previsione dei fatti sociali, Torino, Bocca, 1907; se i fatti sociali sono imprevedibili e lo stesso concetto di previsione è un puro suono, l'irrazionale non può non dominare e ogni organizzazione di uomini è antistoria, è un «pregiudizio»: non resta che risolvere volta per volta, e con criteri immediati, i singoli problemi pratici posti dallo svolgimento storico – cfr. articolo di Croce, Il partito come giudizio e come pregiudizio in Cultura e Vita morale – e l'opportunismo è la sola linea politica possibile). Può un mito però essere «non-costruttivo», può immaginarsi, nell'ordine di intuizioni del Sorel, che sia produttivo di effettualità uno strumento che lascia la volontà collettiva nella sua fase primitiva ed elementare del suo mero formarsi, per distinzione (per «scissione») sia pure con violenza, cioè distruggendo i rapporti morali e giuridici esistenti? Ma questa volontà collettiva, cosí formata elementarmente, non cesserà subito di esistere, sparpagliandosi in una infinità di volontà singole che per la fase positiva seguono direzioni diverse e contrastanti? Oltre alla quistione che non può esistere distruzione, negazione senza una implicita costruzione, affermazione, e non in senso «metafisico», ma praticamente, cioè politicamente, come programma di partito. In questo caso si vede che si suppone dietro la spontaneità un puro meccanicismo, dietro la libertà (arbitrio-slancio vitale) un massimo di determinismo, dietro l'idealismo un materialismo assoluto.

Il moderno principe, il mito-principe non può essere una persona reale, un individuo concreto, può essere solo un organismo; un elemento di società complesso nel quale già abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta e affermatasi parzialmente nell'azione. Questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico, la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a divenire universali e totali. Nel mondo moderno solo un'azione storico-politica immediata e imminente, caratterizzata dalla necessità di un procedimento rapido e fulmineo, può incarnarsi miticamente in un individuo concreto: la rapidità non può essere resa necessaria che da un grande pericolo imminente, grande pericolo che appunto crea fulmineamente l'arroventarsi delle passioni e del fanatismo, annichilendo il senso critico e la corrosività ironica che possono distruggere il carattere «carismatico» del condottiero (ciò che è avvenuto nell'avventura di Boulanger). Ma un'azione immediata di tal genere, per la sua stessa natura, non può essere di vasto respiro e di carattere organico: sarà quasi sempre del tipo restaurazione e riorganizzazione e non del tipo proprio alla fondazione di nuovi Stati e nuove strutture nazionali e sociali (come era il caso nel Principe del Machiavelli, in cui l'aspetto di restaurazione era solo un elemento retorico, cioè legato al concetto letterario dell'Italia discendente di Roma e che doveva restaurare l'ordine e la potenza di Roma), di tipo «difensivo» e non creativo originale, in cui, cioè, si suppone che una volontà collettiva, già esistente, si sia snervata, dispersa, abbia subito un collasso pericoloso e minaccioso ma non decisivo e catastrofico e occorra riconcentrarla e irrobustirla, e non già che una volontà collettiva sia da creare ex novo, originalmente e da indirizzare verso mete concrete sí e razionali, ma di una concretezza e razionalità non ancora verificate e criticate da una esperienza storica effettuale e universalmente conosciuta.

Il carattere «astratto» della concezione sorelliana del «mito» appare dall'avversione (che assume la forma passionale di una repugnanza etica) per i giacobini che certamente furono una «incarnazione categorica» del Principe di Machiavelli. Il moderno Principe deve avere una parte dedicata al giacobinismo (nel significato integrale che questa nozione ha avuto storicamente e deve avere concettualmente), come esemplificazione di come si sia formata in concreto e abbia operato una volontà collettiva che almeno per alcuni aspetti fu creazione ex novo, originale. E occorre che sia definita la volontà collettiva e la volontà politica in generale nel senso moderno, la volontà come coscienza operosa della necessità storica, come protagonista di un reale ed effettuale dramma storico.

Una delle prime parti dovrebbe appunto essere dedicata alla «volontà collettiva», impostando cosí la quistione: quando si può dire che esistano le condizioni perché possa suscitarsi e svilupparsi una volontà collettiva nazionale-popolare? Quindi un'analisi storica (economica) della struttura sociale del paese dato e una rappresentazione «drammatica» dei tentativi fatti attraverso i secoli per suscitare questa volontà e le ragioni dei successivi fallimenti. Perché in Italia non si ebbe la monarchia assoluta al tempo di Machiavelli? Bisogna risalire fino all'Impero Romano (questione della lingua, degli intellettuali ecc.), comprendere la funzione dei Comuni medioevali, il significato del Cattolicismo ecc.: occorre insomma fare uno schizzo di tutta la storia italiana, sintetico ma esatto.

La ragione dei successivi fallimenti dei tentativi di creare una volontà collettiva nazionale-popolare è da ricercarsi nell'esistenza di determinati gruppi sociali, che si formano dalla dissoluzione della borghesia comunale, nel particolare carattere di altri gruppi che riflettono la funzione internazionale dell'Italia come sede della Chiesa e depositaria del Sacro Romano Impero ecc. Questa funzione e la posizione conseguente determina una situazione interna che si può chiamare «economico-corporativa», cioè, politicamente, la peggiore delle forme di società feudale, la forma meno progressiva e piú stagnante: mancò sempre, e non poteva costituirsi, una forza giacobina efficiente, la forza appunto che nelle altre nazioni ha suscitato e organizzato la volontà collettiva nazionale-popolare e ha fondato gli Stati moderni. Esistono finalmente le condizioni per questa volontà, ossia quale è il rapporto attuale tra queste condizioni e le forze opposte? Tradizionalmente le forze opposte sono state l'aristocrazia terriera e piú generalmente la proprietà terriera nel suo complesso, col suo tratto caratteristico italiano che è una speciale «borghesia rurale», eredità di parassitismo lasciata ai tempi moderni dallo sfacelo, come classe, della borghesia comunale (le cento città, le città del silenzio). Le condizioni positive sono da ricercare nell'esistenza di gruppi sociali urbani, convenientemente sviluppati nel campo della produzione industriale e che abbiano raggiunto un determinato livello di cultura storico-politica. Ogni formazione di volontà collettiva nazionale-popolare è impossibile se le grandi masse dei contadini coltivatori non irromponosimultaneamente nella vita politica. Ciò intendeva il Machiavelli attraverso la riforma della milizia, ciò fecero i giacobini nella Rivoluzione francese, in questa comprensione è da identificare un giacobinismo precoce del Machiavelli, il germe (piú o meno fecondo) della sua concezione della rivoluzione nazionale. Tutta la storia dal 1815 in poi mostra lo sforzo delle classi tradizionali per impedire la formazione di una volontà collettiva di questo genere, per mantenere il potere «economico-corporativo» in un sistema internazionale di equilibrio passivo.

Una parte importante del moderno Principe dovrà essere dedicata alla quistione di una riforma intellettuale e morale, cioè alla quistione religiosa o di una concezione del mondo. Anche in questo campo troviamo nella tradizione assenza di giacobinismo e paura del giacobinismo (l'ultima espressione filosofica di tale paura è l'atteggiamento maltusiano di B. Croce verso la religione). Il moderno Principe deve e non può non essere il banditore e l'organizzatore di una riforma intellettuale e morale, ciò che poi significa creare il terreno per un ulteriore sviluppo della volontà collettiva nazionale popolare verso il compimento di una forma superiore e totale di civiltà moderna.

Questi due punti fondamentali – formazione di una volontà collettiva nazionale-popolare di cui il moderno Principe è nello stesso tempo l'organizzatore e l'espressione attiva e operante, e riforma intellettuale e morale – dovrebbero costituire la struttura del lavoro. I punti concreti di programma devono essere incorporati nella prima parte, cioè dovrebbero «drammaticamente», risultare dal discorso, non essere una fredda e pedantesca esposizione di raziocini.

Può esserci riforma culturale e cioè elevamento civile degli strati depressi della società, senza una precedente riforma economica e un mutamento nella posizione sociale e nel mondo economico? Perciò una riforma intellettuale e morale non può non essere legata a un programma di riforma economica, anzi il programma di riforma economica è appunto il modo concreto con cui si presenta ogni riforma intellettuale e morale. Il moderno Principe, sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno Principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo. Il Principe prende il posto, nelle coscienze, della divinità o dell'imperativo categorico, diventa la base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume.

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Oltre che dal modello esemplare delle grandi monarchie assolute di Francia e Spagna, il Machiavelli fu mosso alla sua concezione politica della necessità di uno Stato unitario italiano dal ricordo del passato di Roma. Occorre far risaltare però che non perciò il Machiavelli è da confondere con la tradizione letteraria-retorica. Intanto perché questo elemento non è esclusivo e neanche dominante, e la necessità di un grande Stato nazionale non è dedotta da esso; e poi anche perché lo stesso richiamo a Roma è meno astratto di quanto paia, se collocato puntualmente nel clima dell'Umanesimo e del Rinascimento. Nel libro VII dell'Arte della guerra si legge: «questa provincia (l'Italia) pare nata per risuscitare le cose morte, come si è visto della poesia, della pittura e della scultura», perché dunque non ritroverebbe la virtú militare? ecc. Saranno da raggruppare gli altri accenni del genere per stabilirne l'esatto carattere.

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[La scienza della politica.] La innovazione fondamentale introdotta dalla filosofia della praxis nella scienza della politica e della storia è la dimostrazione che non esiste una astratta «natura umana» fissa e immutabile (concetto che deriva certo dal pensiero religioso e dalla trascendenza) ma che la natura umana è l'insieme dei rapporti sociali storicamente determinati, cioè un fatto storico accertabile, entro certi limiti, coi metodi della filologia e della critica. Pertanto la scienza politica deve essere concepita nel suo contenuto concreto (e anche nella sua formulazione logica) come un organismo in sviluppo. È da osservare tuttavia che l'impostazione data dal Machiavelli alla quistione della politica (e cioè l'affermazione implicita nei suoi scritti che la politica è una attività autonoma che [ha] suoi principii e leggi diversi da quelli della morale e della religione, proposizione che ha una grande portata filosofica perché implicitamente innova la concezione della morale e della religione, cioè innova tutta la concezione del mondo) è ancora discussa e contraddetta oggi, non è riuscita a diventare «senso comune». Cosa significa ciò? Significa solo che la rivoluzione intellettuale e morale i cui elementi sono contenuti in nuce nel pensiero del Machiavelli non si è ancora attuata, non è diventata forma pubblica e manifesta della cultura nazionale? Oppure ha un mero significato politico attuale, serve a indicare il distacco esistente tra governanti e governati, a indicare che esistono due colture, quella dei governanti e quella dei governati, e che la classe dirigente, come la Chiesa, ha un suo atteggiamento verso i semplici dettato dalla necessità di non staccarsi da loro da una parte, e dall'altra di mantenerli nella convinzione che il Machiavelli è niente altro che un'apparizione diabolica? Si pone cosí il problema del significato che il Machiavelli ha avuto nel tempo suo e dei fini che egli si proponeva scrivendo i suoi libri e specialmente il Principe. La dottrina del Machiavelli non era, al tempo suo, una cosa puramente «libresca», un monopolio di pensatori isolati, un libro segreto che circola tra iniziati. Lo stile del Machiavelli non è quello di un trattatista sistematico, come ne avevano e il Medio Evo e l'Umanesimo, tutt'altro: è stile di uomo d'azione, di chi vuole spingere all'azione, è stile da «manifesto» di partito. L'interpretazione «moralistica» data dal Foscolo è certo sbagliata, tuttavia è vero che il Machiavelli ha svelato qualcosa e non solo teorizzato il reale; ma quale era il fine dello svelare? Un fine moralistico o politico? Si suol dire che le norme del Machiavelli per l'attività politica «si applicano, ma non si dicono»; i grandi politici, si dice, cominciano con maledire Machiavelli, col dichiararsi antimachiavellici, appunto per poterne applicare le norme «santamente». Non sarebbe stato il Machiavelli poco machiavellico, uno di quelli che «sanno il gioco» e stoltamente lo insegnano, mentre il machiavellismo volgare insegna a fare il contrario? L'affermazione del Croce che essendo il machiavellismo una scienza, serve tanto ai reazionari quanto ai democratici, come l'arte della scherma serve ai gentiluomini e ai briganti, a difendersi e ad assassinare, e che in tal senso occorre intendere il giudizio del Foscolo, è vera astrattamente. Il Machiavelli stesso nota che le cose che egli scrive sono applicate e sono sempre state applicate dai piú grandi uomini della storia; non pare perciò che egli voglia suggerire a chi già sa, né il suo stile è quello di una disinteressata attività scientifica (cfr. in una delle pagine precedenti quanto è scritto a proposito del significato dell'invocazione finale del Principe e dell'ufficio che essa può compiere per riguardo all'intera operetta), né può pensarsi che egli sia giunto alle sue tesi di scienza politica per via di speculazione filosofica, ciò che in questa materia particolare avrebbe un po' del miracoloso al tempo suo, se anche oggi trova tanto contrasto e opposizione. Si può quindi supporre che il Machiavelli abbia in vista «chi non sa», che egli intenda fare l'educazione politica di «chi non sa», educazione politica non negativa, di odiatori di tiranni, come parrebbe intendere il Foscolo, ma positiva, di chi deve riconoscere necessari determinati mezzi, anche se propri dei tiranni, perché vuole determinati fini. Chi è nato nella tradizione degli uomini di governo, per tutto il complesso dell'educazione che assorbe dall'ambiente famigliare, in cui predominano gli interessi dinastici o patrimoniali, acquista quasi automaticamente i caratteri del politico realista. Chi dunque «non sa»? La classe rivoluzionaria del tempo, il «popolo» e la «nazione» italiana, la democrazia cittadina che esprime dal suo seno i Savonarola e i Pier Soderini e non i Castruccio e i Valentino. Si può ritenere che il Machiavelli voglia persuadere queste forze della necessità di avere un «capo» che sappia ciò che vuole e come ottenere ciò che vuole, e di accettarlo con entusiasmo anche se le sue azioni possono essere o parere in contrasto con l'ideologia diffusa del tempo, la religione.

Questa posizione della politica del Machiavelli si ripete per la filosofia della praxis: si ripete la necessità di essere «antimachiavellici», sviluppando una teoria e una tecnica della politica che possono servire alle due parti in lotta, quantunque esse si pensa finiranno col servire specialmente alla parte che «non sapeva», perché in essa è ritenuta esistere la forza progressiva della storia e infatti si ottiene subito un risultato: di spezzare l'unità basata sull'ideologia tradizionale, senza la cui rottura la forza nuova non potrebbe acquistare coscienza della propria personalità indipendente. Il machiavellismo è servito a migliorare la tecnica politica tradizionale dei gruppi dirigenti conservatori, cosí come la politica della filosofia della praxis; ciò non deve mascherare il suo carattere essenzialmente rivoluzionario, che è sentito anche oggi e spiega tutto l'antimachiavellismo, da quello dei gesuiti a quello pietistico di P. Villari.

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[La politica come scienza autonoma.] La quistione iniziale da porre e da risolvere in una trattazione sul Machiavelli è la quistione della politica come scienza autonoma, cioè del posto che la scienza politica occupa o deve occupare in una concezione del mondo sistematica (coerente e conseguente) – in una filosofia della praxis –. Il progresso fatto fare dal Croce, a questo proposito, agli studi sul Machiavelli e sulla scienza politica, consiste precipuamente (come in altri campi dell'attività critica crociana) nella dissoluzione di una serie di problemi falsi, inesistenti o male impostati. Il Croce si è fondato sulla sua distinzione dei momenti dello Spirito e sull'affermazione di un momento della pratica, di uno spirito pratico, autonomo e indipendente, sebbene legato circolarmente all'intera realtà per la dialettica dei distinti. In una filosofia della prassi la distinzione non sarà certo tra i momenti dello Spirito assoluto, ma tra i gradi della soprastruttura e si tratterà pertanto di stabilire la posizione dialettica dell'attività politica (e della scienza corrispondente) come determinato grado superstrutturale: si potrà dire, come primo accenno e approssimazione, che l'attività politica è appunto il primo momento o primo grado, il momento in cui la superstruttura è ancora nella fase immediata di mera affermazione volontaria, indistinta ed elementare.

In che senso si può identificare la politica e la storia e quindi tutta la vita e la politica. Come perciò tutto il sistema delle superstrutture possa concepirsi come distinzioni della politica e quindi si giustifichi l'introduzione del concetto di distinzione in una filosofia della prassi. Ma si può parlare di dialettica dei distinti e come si può intendere il concetto di circolo fra i gradi della superstruttura? Concetto di «blocco storico», cioè unità tra la natura e lo spirito (struttura e superstruttura) unità dei contrari e dei distinti.

Il criterio di distinzione si può introdurre anche nella struttura? Come sarà da intendere la struttura: come nel sistema dei rapporti sociali si potrà distinguere l'elemento «tecnica», «lavoro», «classe» ecc. intesi storicamente e non «metafisicamente». Critica della posizione del Croce per cui, ai fini della polemica, la struttura diventa un «dio ascoso», un «noumeno», in contrapposizione alle «apparenze» della superstruttura. «Apparenze» in senso metaforico e in senso positivo. Perché «storicamente» e come linguaggio si è parlato di «apparenze».

È interessante fissare come il Croce, da questa concezione generale, abbia tratto la sua particolare dottrina dell'errore e della origine pratica dell'errore. Per il Croce l'errore ha origine in una «passione» immediata, cioè di carattere individuale o di gruppo; ma che cosa produrrà la «passione» di portata storica piú vasta, la passione come «categoria»? La passione interesse immediato che è origine dell'«errore» è il momento che nelle Glosse al Feuerbach viene chiamato «schmutzig-jüdisch»: ma come la passione-interesse «schmutzig-jüdisch» determina l'errore immediato, cosí la passione del piú vasto gruppo sociale determina l'«errore» filosofico (intermedio l'errore-ideologia, di cui il Croce tratta a parte): l'importante in questa serie: egoismo (errore immediato) - ideologia - filosofia è il termine comune «errore» legato ai diversi gradi di passione, e che sarà da intendere non nel significato moralistico o dottrinario ma nel senso puramente «storico» e dialettico di «ciò che è storicamente caduco e degno di cadere», nel senso della «non definitività» di ogni filosofia, della «morte-vita», «essere-non essere», cioè del termine dialettico da superare nello svolgimento.

Il termine di «apparente», «apparenza», significa proprio questo e niente altro che questo ed è da giustificare contro il dogmatismo: è l'affermazione della caducità di ogni sistema ideologico, accanto all'affermazione di una validità storica di ogni sistema, e di una necessità di esso («nel terreno ideologico l'uomo acquista coscienza dei rapporti sociali»: dire ciò non è affermare la necessità e la validità delle «apparenze»?)

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La concezione del Croce, della politica-passione, esclude i partiti, perché non si può pensare a una «passione» organizzata e permanente: la passione permanente è una condizione di orgasmo e di spasimo, che determina inettitudine all'operare. Esclude i partiti ed esclude ogni «piano» d'azione concertato preventivamente. Tuttavia i partiti esistono e piani d'azione vengono elaborati, applicati, e spesso realizzati in misura notevolissima; c'è adunque nella concezione del Croce un «vizio». Né vale dire che se i partiti esistono, ciò non ha grande importanza «teorica», perché al momento dell'azione il «partito» che opera non è la stessa cosa del partito che esisteva prima; in parte ciò può esser vero, tuttavia tra i due «partiti» le coincidenze sono tante che in realtà si può dire trattarsi dello stesso organismo. Ma la concezione, per esser valida, dovrebbe potersi applicare anche alla «guerra» e quindi spiegare il fatto degli eserciti permanenti, delle accademie militari, dei corpi di ufficiali. Anche la guerra in atto è «passione», la piú intensa e febbrile, è un momento della vita politica, è la continuazione, in altre forme, di una determinata politica; bisogna dunque spiegare come la «passione» possa diventare «dovere» morale e non dovere di morale politica, ma di etica.

Sui «piani politici» che sono connessi ai partiti come formazioni permanenti, ricordare ciò che Moltke diceva dei piani militari; che essi non possono essere elaborati e fissati in precedenza in tutti i loro dettagli, ma solo nel loro nucleo e disegno centrale, perché le particolarità dell'azione dipendono in una certa misura dalle mosse dell'avversario. La passione si manifesta appunto nei particolari, ma non pare che il principio di Moltke sia tale da giustificare la concezione del Croce: rimarrebbe in ogni caso da spiegare il genere di «passione» dello Stato Maggiore che ha elaborato il piano a mente fredda e «spassionatamente».

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Se il concetto crociano della passione come momento della politica si urta nella difficoltà di spiegare e giustificare le formazioni politiche permanenti come i partiti e ancor piú gli eserciti nazionali e gli Stati maggiori, poiché non si può concepire una passione organizzata permanentemente senza che essa diventi razionalità e riflessione ponderata, cioè non piú passione, la soluzione non può trovarsi se non nella identificazione di politica ed economia; la politica è azione permanente e dà nascita a organizzazioni permanenti in quanto appunto si identifica con l'economia. Ma essa anche se ne distingue e perciò può parlarsi separatamente di economia e di politica e può parlarsi di «passione politica» come di impulso immediato all'azione che nasce sul terreno «permanente e organico» della vita economica, ma lo supera, facendo entrare in gioco sentimenti e aspirazioni nella cui atmosfera incandescente lo stesso calcolo della vita umana individuale ubbidisce a leggi diverse da quelle del tornaconto individuale ecc.

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Accanto ai meriti della moderna «machiavellistica» derivata dal Croce, occorre segnalare anche le «esagerazioni» e le deviazioni cui ha dato luogo. Si è formata l'abitudine di considerare troppo il Machiavelli come il «politico in generale», come lo «scienziato della politica», attuale in tutti i tempi. Bisogna considerare maggiormente il Machiavelli come espressione necessaria del suo tempo e come strettamente legato alle condizioni e alle esigenze del tempo suo che risultano: 1) dalle lotte interne della repubblica fiorentina e dalla particolare struttura dello Stato che non sapeva liberarsi dai residui comunali-municipali, cioè da una forma divenuta inceppante di feudalismo; 2) dalle lotte tra gli Stati italiani per un equilibrio nell'ambito italiano, che era ostacolato dall'esistenza del papato e dagli altri residui feudali, municipalistici della forma statale cittadina e non territoriale; 3) dalle lotte degli Stati italiani piú o meno solidali per un equilibrio europeo, ossia dalle contraddizioni tra le necessità di un equilibrio interno italiano e le esigenze degli Stati europei in lotta per l'egemonia. Su Machiavelli opera l'esempio della Francia e della Spagna che hanno raggiunto una forte unità statale territoriale; il Machiavelli fa un «paragone ellittico» (per usare l'espressione crociana) e desume le regole per uno Stato forte in generale e italiano in particolare. Machiavelli è uomo tutto della sua epoca e la sua scienza politica rappresenta la filosofia del tempo che tende all'organizzazione delle monarchie nazionali assolute, la forma politica che permette e facilita un ulteriore sviluppo delle forze produttive borghesi. In Machiavelli si può scoprire in nuce la separazione dei poteri e il parlamentarismo (il regime rappresentativo): la sua «ferocia» è rivolta contro i residui del mondo feudale, non contro le classi progressive. Il Principe deve porre termine all'anarchia feudale e ciò fa il Valentino in Romagna, appoggiandosi sulle classi produttive, mercanti e contadini. Dato il carattere militare-dittatoriale del capo dello Stato, come si richiede in un periodo di lotta per la fondazione e il consolidamento di un nuovo potere, l'indicazione di classe contenuta nell'Arte della guerra si deve intendere anche per la struttura generale statale: se le classi urbane vogliono porre fine al disordine interno e all'anarchia esterna devono appoggiarsi sui contadini come massa, costituendo una forza armata sicura e fedele di tipo assolutamente diverso dalle compagnie di ventura. Si può dire che la concezione essenzialmente politica è cosí dominante nel Machiavelli che gli fa commettere gli errori di carattere militare: egli pensa specialmente alle fanterie, le cui masse possono essere arruolate con un'azione politica e perciò misconosce il significato dell'artiglieria. Il Russo (nei Prolegomeni a Machiavelli) nota giustamente che l'Arte della guerra integra il Principe, ma non trae tutte le conclusioni della sua osservazione. Anche nell'Arte della guerra il Machiavelli deve essere considerato come un politico che deve occuparsi di arte militare; il suo unilateralismo (con altre «curiosità» come la teoria della falange, che danno luogo a facili spiritosaggini come quella piú diffusa ricavata dal Bandello) è dipendente dal fatto che non nella quistione tecnico-militare è il centro del suo interesse e del suo pensiero, ma egli ne tratta solo in quanto è necessario per la sua costruzione politica.

Ma non solo l'Arte della guerra deve essere connessa al Principe, sibbene anche le Istorie fiorentine, che devono servire appunto come un'analisi delle condizioni reali italiane ed europee da cui scaturiscono le esigenze immediate contenute nel Principe.

Da una concezione del Machiavelli piú aderente ai tempi deriva subordinatamente una valutazione piú storicistica dei cosí detti «antimachiavellici», o almeno dei piú «ingenui» tra essi. Non si tratta, in realtà, di antimachiavellici, ma di politici che esprimono esigenze del tempo loro o di condizioni diverse da quelle che operavano sul Machiavelli; la forma polemica è pura accidentalità letteraria. L'esempio tipico di questi «antimachiavellici» mi pare da ricercare in Jean Bodin (1530-96) che fu deputato agli Stati Generali di Blois del 1576 e vi fece rifiutare dal Terzo Stato i sussidi domandati per la guerra civile. (Opere del Bodin: Methodus ad facilem historiarum cognitionem (1566) dove indica l'influenza del clima sulla forma degli Stati, accenna a un'idea di progresso, ecc.; La Republique (1576) dove esprime le opinioni del Terzo Stato sulla monarchia assoluta e i suoi rapporti col popolo; Hentaplomores (inedito fino all'epoca moderna) in cui confronta tutte le religioni e le giustifica come espressioni diverse della religione naturale, sola ragionevole, e tutte egualmente degne di rispetto e di tolleranza).

Durante le guerre civili in Francia, il Bodin è l'esponente del terzo partito, detto dei «politici», che si pone dal punto di vista dell'interesse nazionale, cioè di un equilibrio interno delle classi in cui l'egemonia appartiene al Terzo Stato attraverso il Monarca. Mi pare evidente che classificare il Bodin fra gli «antimachiavellici» sia quistione assolutamente estrinseca e superficiale. Il Bodin fonda la scienza politica in Francia in un terreno molto piú avanzato e complesso di quello che l'Italia aveva offerto al Machiavelli. Per il Bodin non si tratta di fondare lo Stato unitario-territoriale (nazionale) cioè di ritornare all'epoca di Luigi XI, ma di equilibrare le forze sociali in lotta nell'interno di questo Stato già forte e radicato; non il momento della forza interessa il Bodin, ma quello del consenso. Col Bodin si tende a sviluppare la monarchia assoluta: il Terzo Stato è talmente cosciente della sua forza e della sua dignità, conosce cosí bene che la fortuna della Monarchia assoluta è legata alla propria fortuna e al proprio sviluppo, che pone delle condizioni per il suo consenso, presenta delle esigenze, tende a limitare l'assolutismo. In Francia il Machiavelli serviva già alla reazione, perché poteva servire a giustificare che si mantenesse perpetuamente il mondo in «culla» (secondo l'espressione di Bertrando Spaventa), quindi bisognava essere «polemicamente» antimachiavellici. È da notare che nell'Italia studiata dal Machiavelli non esistevano istituzioni rappresentative già sviluppate e significative per la vita nazionale come quelle degli Stati Generali in Francia. Quando modernamente si osserva tendenziosamente che le istituzioni parlamentari in Italia sono state importate dall'estero, non si tiene conto che ciò riflette solo una condizione di arretratezza e di stagnazione della storia italiana politica sociale dal '500 al '700, condizione che era dovuta in gran parte alla preponderanza dei rapporti internazionali su quelli interni, paralizzati e assiderati. Che la struttura statale italiana, per le preponderanze straniere, sia rimasta alla fase semifeudale di un oggetto di «suzeraineté» straniera, è forse «originalità» nazionale distrutta dall'importazione delle forme parlamentari che invece danno una forma al processo di liberazione nazionale? e al passaggio allo Stato territoriale moderno (indipendente e nazionale)? Del resto istituzioni rappresentative sono esistite, specialmente nel Mezzogiorno e in Sicilia, ma con carattere molto piú ristretto che in Francia, per il poco sviluppo in queste regioni del Terzo Stato, cosa per cui i Parlamenti erano strumenti per mantenere l'anarchia dei baroni contro i tentativi innovatori della monarchia, che doveva appoggiarsi ai «lazzari» in assenza di una borghesia. Ricordare lo studio di Antonio Panella sugli Antimachiavellici pubblicato nel «Marzocco» del 1927 (o anche '26? in undici articoli): vedere come vi è giudicato il Bodin in confronto al Machiavelli e come [è] posto in generale il problema dell'antimachiavellismo.

Che il programma o la tendenza di collegare la città alla campagna potesse avere nel Machiavelli solo un'espressione militare si capisce riflettendo che il giacobinismo francese sarebbe inesplicabile senza il presupposto della cultura fisiocratica, con la sua dimostrazione dell'importanza economica e sociale del coltivatore diretto. Le teorie economiche del Machiavelli sono state studiate da Gino Arias (negli «Annali d'Economia» dell'Università Bocconi) ma è da domandarsi se il Machiavelli abbia avuto teorie economiche: si tratterà di vedere se il linguaggio essenzialmente politico del Machiavelli può tradursi in termini economici e a quale sistema economico possa ridursi. Vedere se il Machiavelli che viveva nel periodo mercantilista abbia politicamente preceduto i tempi e anticipato qualche esigenza che ha poi trovato espressione nei fisiocratici.

Anche Rousseau sarebbe stato possibile senza la cultura fisiocratica? Non mi pare giusto affermare che i fisiocratici abbiano rappresentato meri interessi agricoli e che solo con l'economia classica si affermino gli interessi del capitalismo urbano. I fisiocratici rappresentano la rottura col mercantilismo e col regime delle corporazioni e sono una fase per giungere all'economia classica, ma mi pare appunto per ciò che essi rappresentino una società avvenire ben piú complessa di quella contro cui combattono e anche di quella che risulta immediatamente dalle loro affermazioni: il loro linguaggio è troppo legato al tempo ed esprime il contrasto immediato tra città e campagna, ma lascia prevedere un allargamento del capitalismo all'agricoltura. La formula del lasciar fare lasciar passare, cioè della libertà industriale e d'iniziativa, non è certo legata a interessi agrari.

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Elementi di politica. Bisogna proprio dire che i primi ad essere dimenticati sono proprio i primi elementi, le cose piú elementari; d'altronde, essi, ripetendosi infinite volte, diventano i pilastri della politica e di qualsivoglia azione collettiva. Primo elemento è che esistono davvero governati e governanti, dirigenti e diretti. Tutta la scienza e l'arte politica si basano su questo fatto primordiale, irriducibile (in certe condizioni generali). Le origini di questo fatto sono un problema a sé, che dovrà essere studiato a sé (per lo meno potrà e dovrà essere studiato come attenuare e far sparire il fatto, mutando certe condizioni identificabili come operose in questo senso), ma rimane il fatto che esistono dirigenti e diretti, governanti e governati. Dato questo fatto sarà da vedere come si può dirigere nel modo piú efficace (dati certi fini) e come pertanto preparare nel modo migliore i dirigenti (e in questo piú precisamente consiste la prima sezione della scienza e arte politica), e come d'altra parte si conoscono le linee di minore resistenza o razionali per avere l'obbedienza dei diretti o governati.

Nel formare i dirigenti è fondamentale la premessa: si vuole che ci siano sempre governati e governanti oppure si vogliono creare le condizioni in cui la necessità dell'esistenza di questa divisione sparisca? cioè si parte dalla premessa della perpetua divisione del genere umano o si crede che essa sia solo un fatto storico, rispondente a certe condizioni? Occorre tener chiaro tuttavia che la divisione di governati e governanti, seppure in ultima analisi risalga a una divisione di gruppi sociali, tuttavia esiste, date le cose cosí come sono, anche nel seno dello stesso gruppo, anche socialmente omogeneo; in un certo senso si può dire che essa divisione è una creazione della divisione del lavoro, è un fatto tecnico. Su questa coesistenza di motivi speculano coloro che vedono in tutto solo «tecnica», necessità «tecnica» ecc. per non proporsi il problema fondamentale.

Dato che anche nello stesso gruppo esiste la divisione tra governanti e governati, occorre fissare alcuni principii inderogabili, ed è anzi su questo terreno che avvengono gli «errori» piú gravi, che cioè si manifestano le incapacità piú criminali, ma piú difficili a raddrizzare. Si crede che essendo posto il principio dallo stesso gruppo, l'obbedienza debba essere automatica, debba avvenire senza bisogno di una dimostrazione di «necessità» e razionalità non solo, ma sia indiscutibile (qualcuno pensa e, ciò che è peggio, opera secondo questo pensiero, che l'obbedienza «verrà» senza essere domandata, senza che la via da seguire sia indicata). Cosí è difficile estirpare dai dirigenti il «cadornismo», cioè la persuasione che una cosa sarà fatta perché il dirigente ritiene giusto e razionale che sia fatta: se non viene fatta, «la colpa» viene riversata su chi «avrebbe dovuto» ecc. Cosí è difficile estirpare la abitudine criminale di trascurare di evitare i sacrifizi inutili. Eppure il senso comune mostra che la maggior parte dei disastri collettivi (politici) avvengono perché non si è cercato di evitare il sacrifizio inutile, o si è mostrato di non tener conto del sacrifizio altrui e si è giocato con la pelle altrui. Ognuno ha sentito raccontare da ufficiali del fronte come realmente i soldati arrischiassero la vita quando ciò era necessario, ma come invece si ribellassero quando si vedevano trascurati. Per esempio: una compagnia era capace di digiunare molti giorni perché vedeva che i viveri non potevano giungere per forza maggiore, ma si ammutinava se un pasto solo era saltato per la trascuratezza o il burocratismo ecc.

Questo principio si estende a tutte le azioni che domandano sacrifizio. Per cui sempre, dopo ogni rovescio, occorre prima di tutto ricercare le responsabilità dei dirigenti e ciò in senso stretto (per esempio: un fronte è costituito di piú sezioni e ogni sezione ha i suoi dirigenti: è possibile che di una sconfitta siano piú responsabili i dirigenti di una sezione che di un'altra, ma si tratta di piú e meno, non di esclusione di responsabilità per alcuno, mai).

Posto il principio che esistono diretti e dirigenti, governati e governanti, è vero che i partiti sono finora il modo piú adeguato per elaborare i dirigenti e la capacità di direzione (i «partiti» possono presentarsi sotto i nomi piú diversi, anche quello di anti-partito e di «negazione dei partiti»; in realtà anche i cosí detti «individualisti» sono uomini di partito, solo che vorrebbero essere «capipartito» per grazia di dio o dell'imbecillità di chi li segue).

Svolgimento del concetto generale che è contenuto nell'espressione «spirito statale». Questa espressione ha un significato ben preciso, storicamente determinato. Ma si pone il problema: esiste qualcosa [di simile] a ciò che si chiama «spirito statale» in ogni movimento serio, cioè che non sia l'espressione arbitraria di individualismi, piú o meno giustificati? Intanto lo «spirito statale» presuppone la «continuità» sia verso il passato, ossia verso la tradizione, sia verso l'avvenire, cioè presuppone che ogni atto sia il momento di un processo complesso, che è già iniziato e che continuerà. La responsabilità di questo processo, di essere attori di questo processo, di essere solidali con forze «ignote» materialmente, ma che pur si sentono operanti e attive e di cui si tiene conto, come se fossero «materiali» e presenti corporalmente, si chiama appunto in certi casi «spirito statale». È evidente che tale coscienza della «durata» deve essere concreta e non astratta, cioè, in certo senso, non deve oltrepassare certi limiti; mettiamo che i piú piccoli limiti siano una generazione precedente e una generazione futura, ciò che non è dir poco, poiché le generazioni si conteranno per ognuna non trenta anni prima e trenta anni dopo di oggi, ma organicamente, in senso storico, ciò che per il passato almeno è facile da comprendere: ci sentiamo solidali con gli uomini che oggi sono vecchissimi e che per noi rappresentano il «passato» che ancora vive fra noi, che occorre conoscere, con cui occorre fare i conti, che è uno degli elementi del presente e delle premesse del futuro. E coi bambini, con le generazioni nascenti e crescenti, di cui siamo responsabili. (Altro è il «culto» della «tradizione» che ha un valore tendenzioso, implica una scelta e un fine determinato, cioè è a base di una ideologia). Eppure, se si può dire che uno «spirito statale» cosí inteso è in tutti, occorre volta a volta combattere contro deformazioni di esso e deviazioni da esso. «Il gesto per il gesto», la lotta per la lotta ecc. e specialmente l'individualismo gretto e piccino, che poi è un capriccioso soddisfare impulsi momentanei ecc. (In realtà il punto è sempre quello dell'«apoliticismo» italiano che assume queste varie forme pittoresche e bizzarre).

L'individualismo è solo apoliticismo animalesco; il settarismo è «apoliticismo» e se [ben] si osserva, infatti, il settarismo è una forma di «clientela» personale, mentre manca lo spirito di partito, che è l'elemento fondamentale dello «spirito statale». La dimostrazione che lo spirito di partito è l'elemento fondamentale dello spirito statale è uno degli assunti piú cospicui da sostenere e di maggiore importanza; e viceversa che l'«individualismo» è un elemento animalesco, «ammirato dai forestieri» come gli atti degli abitanti di un giardino zoologico.

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[Il partito politico.] Continua del «Nuovo Principe». Si è detto che protagonista del Nuovo Principe non potrebbe essere nell'epoca moderna un eroe personale, ma il partito politico, cioè volta per volta e nei diversi rapporti interni delle diverse nazioni, quel determinato partito che intende (ed è razionalmente e storicamente fondato a questo fine) fondare un nuovo tipo di Stato. È da osservare come nei regimi che si pongono come totalitari, la funzione tradizionale dell'istituto della corona è in realtà assunta dal partito determinato, che anzi è totalitario appunto perché assolve a tale funzione. Sebbene ogni partito sia espressione di un gruppo sociale, e di un solo gruppo sociale, tuttavia determinati partiti appunto rappresentano un solo gruppo sociale, in certe condizioni date, in quanto esercitano una funzione di equilibrio e di arbitrato tra gli interessi del proprio gruppo e gli altri gruppi, e procurano che lo sviluppo del gruppo rappresentato avvenga col consenso e con l'aiuto dei gruppi alleati, se non addirittura dei gruppi decisamente avversari. La formula costituzionale del re o del presidente di repubblica che «regna e non governa» è la formula giuridica che esprime questa funzione di arbitrato; la preoccupazione dei partiti costituzionali di non «scoprire» la corona o il presidente, le formule sulla non responsabilità, per gli atti governativi, del capo dello Stato, ma sulla responsabilità ministeriale, sono la casistica del principio generale di tutela della concezione dell'unità statale, del consenso dei governati all'azione statale, qualunque sia il personale immediato di governo e il suo partito.

Col partito totalitario queste formule perdono di significato e sono quindi diminuite le istituzioni che funzionavano nel senso di tali formule; ma la funzione stessa è incorporata dal partito, che esalterà il concetto astratto di «Stato» e cercherà con vari modi di dare l'impressione che la funzione «di forza imparziale» è attiva ed efficace.

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È l'azione politica (in senso stretto) necessaria perché si possa parlare di «partito politico»? Si può osservare che nel mondo moderno in molti paesi i partiti organici e fondamentali, per necessità di lotta o per altra causa, si sono frazionati in frazioni, ognuna delle quali assume il nome di Partito e anche di Partito indipendente. Spesso perciò lo Stato Maggiore intellettuale del Partito organico non appartiene a nessuna di tali frazioni ma opera come se fosse una forza direttrice a sé stante, superiore ai partiti e talvolta è anche creduto tale dal pubblico. Questa funzione si può studiare con maggiore precisione se si parte dal punto di vista che un giornale (o un gruppo di giornali), una rivista (o un gruppo di riviste), sono anch'essi «partiti» o «frazioni di partito» o «funzione di determinati partiti». Si pensi alla funzione del «Times» in Inghilterra, a quella che ebbe il «Corriere della Sera» in Italia, e anche alla funzione della cosí detta «stampa d'informazione», sedicente «apolitica», e perfino alla stampa sportiva e a quella tecnica. Del resto il fenomeno offre aspetti interessanti nei paesi dove esiste un partito unico e totalitario di Governo: perché tale Partito non ha piú funzioni schiettamente politiche ma solo tecniche di propaganda, di polizia, di influsso morale e culturale. La funzione politica è indiretta: poiché se non esistono altri partiti legali, esistono sempre altri partiti di fatto o tendenze incoercibili legalmente, contro i quali si polemizza e si lotta come in una partita di mosca cieca. In ogni caso è certo che in tali partiti le funzioni culturali predominano, dando luogo a un linguaggio politico di gergo: cioè le quistioni politiche si rivestono di forme culturali e come tali diventano irrisolvibili.

Ma un partito tradizionale ha un carattere essenziale «indiretto», cioè si presenta esplicitamente come puramente «educativo» (lucus ecc.), moralistico, di cultura (sic): ed è il movimento libertario: anche la cosidetta azione diretta («terroristica») è concepita come «propaganda» con l'esempio: da ciò si può ancora rafforzare il giudizio che il movimento libertario non è autonomo, ma vive al margine degli altri partiti, «per educarli», e si può parlare di un «libertarismo» inerente a ogni partito organico. (Cosa sono i «libertari intellettuali o cerebrali» se non un aspetto di tale «marginalismo» nei riguardi dei grandi partiti dei gruppi sociali dominanti?) La stessa «setta degli economisti» era un aspetto storico di questo fenomeno.

Si presentano pertanto due forme di «partito» che pare faccia astrazione (come tale) dall'azione politica immediata: quello costituito da una élite di uomini di cultura, che hanno la funzione di dirigere dal punto di vista della cultura, dell'ideologia generale, un grande movimento di partiti affini (che sono in realtà frazioni di uno stesso partito organico) e, nel periodo piú recente, partito non di élite, ma di masse, che come masse non hanno altra funzione politica che quella di una fedeltà generica, di tipo militare, a un centro politico visibile o invisibile (spesso il centro visibile è il meccanismo di comando di forze che non desiderano mostrarsi in piena luce ma operare solo indirettamente per interposta persona e per «interposta ideologia»). La massa è semplicemente di «manovra» e viene «occupata» con prediche morali, con pungoli sentimentali, con miti messianici di attesa di età favolose in cui tutte le contraddizioni e miserie presenti saranno automaticamente risolte e sanate.

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Sul concetto di partito politico. Quando si vuol scrivere la storia di un partito politico, in realtà occorre affrontare tutta una serie di problemi molto meno semplici di quanto creda, per es., Roberto Michels che pure è ritenuto uno specialista in materia. Cosa sarà la storia di un partito? Sarà la mera narrazione della vita interna di una organizzazione politica? come essa nasce, i primi gruppi che la costituiscono, le polemiche ideologiche attraverso cui si forma il suo programma e la sua concezione del mondo e della vita? Si tratterebbe in tal caso, della storia di ristretti gruppi intellettuali e talvolta della biografia politica di una singola individualità. La cornice del quadro dovrà, adunque, essere piú vasta e comprensiva. Si dovrà fare la storia di una determinata massa di uomini che avrà seguito i promotori, li avrà sorretti con la sua fiducia, con la sua lealtà, con la sua disciplina o li avrà criticati «realisticamente» disperdendosi o rimanendo passiva di fronte a talune iniziative. Ma questa massa sarà costituita solo dagli aderenti al partito? Sarà sufficiente seguire i congressi, le votazioni, ecc., cioè tutto l'insieme di attività e di modi di esistenza con cui una massa di partito manifesta la sua volontà? Evidentemente occorrerà tener conto del gruppo sociale di cui il partito dato è espressione e parte piú avanzata: la storia di un partito, cioè, non potrà non essere la storia di un determinato gruppo sociale. Ma questo gruppo non è isolato; ha amici, affini, avversari, nemici. Solo dal complesso quadro di tutto l'insieme sociale e statale (e spesso anche con interferenze internazionali) risulterà la storia di un determinato partito, per cui si può dire che scrivere la storia di un partito significa niente altro che scrivere la storia generale di un paese da un punto di vista monografico, per porne in risalto un aspetto caratteristico. Un partito avrà avuto maggiore o minore significato e peso, nella misura appunto in cui la sua particolare attività avrà pesato piú o meno nella determinazione della storia di un paese.

Ecco quindi che dal modo di scrivere la storia di un partito risulta quale concetto si abbia di ciò che è un partito o debba essere. Il settario si esalterà nei fatterelli interni, che avranno per lui un significato esoterico e lo riempiranno di mistico entusiasmo; lo storico, pur dando a ogni cosa l'importanza che ha nel quadro generale, poserà l'accento soprattutto sull'efficienza reale del partito, sulla sua forza determinante, positiva e negativa, nell'aver contribuito a creare un evento e anche nell'aver impedito che altri eventi si compissero.

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Quando si può dire che un partito sia formato e non possa essere distrutto con mezzi normali. Il punto di sapere quando un partito sia formato, cioè abbia un compito preciso e permanente, dà luogo a molte discussioni e spesso anche luogo, purtroppo, a una forma di boria che non è meno ridicola e pericolosa che la «boria delle nazioni» di cui parla il Vico. È vero che si può dire che un partito non è mai compiuto e formato, nel senso che ogni sviluppo crea nuovi compiti e mansioni e nel senso che per certi partiti è vero il paradosso che essi sono compiuti e formati quando non esistono piú, cioè quando la loro esistenza è diventata storicamente inutile. Cosí, poiché ogni partito non è che una nomenclatura di classe, è evidente che per il partito che si propone di annullare la divisione in classi, la sua perfezione e compiutezza consiste nel non esistere piú perché non esistono classi e quindi loro espressioni. Ma qui si vuole accennare a un particolare momento di questo processo di sviluppo, al momento successivo a quello in cui un fatto può esistere e può non esistere, nel senso che la necessità della sua esistenza non è ancora divenuta «perentoria», ma dipende in «gran parte» dall'esistenza di persone di straordinario potere volitivo e di straordinaria volontà. Quando un partito diventa «necessario» storicamente? Quando le condizioni del suo «trionfo», del suo immancabile diventar Stato sono almeno in via di formazione e lasciano prevedere normalmente i loro ulteriori sviluppi. Ma quando si può dire, in tali condizioni, che un partito non può essere distrutto con mezzi normali? Per rispondere occorre sviluppare un ragionamento: perché esista un partito è necessario che confluiscano tre elementi fondamentali (cioè tre gruppi di elementi). 1) Un elemento diffuso, di uomini comuni, medi, la cui partecipazione è offerta dalla disciplina e dalla fedeltà, non dallo spirito creativo ed altamente organizzativo. Senza di essi il partito non esisterebbe, è vero, ma è anche vero che il partito non esisterebbe neanche «solamente» con essi. Essi sono una forza in quanto c'è chi li centralizza, organizza, disciplina, ma in assenza di questa forza coesiva si sparpaglierebbero e si annullerebbero in un pulviscolo impotente. Non si nega che ognuno di questi elementi possa diventare una delle forze coesive, ma di essi si parla appunto nel momento che non lo sono e non sono in condizioni di esserlo, o se lo sono lo sono solo in una cerchia ristretta, politicamente inefficiente e senza conseguenza. 2) L'elemento coesivo principale, che centralizza nel campo nazionale, che fa diventare efficiente e potente un insieme di forze che lasciate a sé conterebbero zero o poco piú; questo elemento è dotato di forza altamente coesiva, centralizzatrice e disciplinatrice e anche (anzi forse per questo, inventiva, se si intende inventiva in una certa direzione, secondo certe linee di forza, certe prospettive, certe premesse anche): è anche vero che da solo questo elemento non formerebbe il partito, tuttavia lo formerebbe piú che non il primo elemento considerato. Si parla di capitani senza esercito, ma in realtà è piú facile formare un esercito che formare dei capitani. Tanto vero che un esercito già esistente è distrutto se vengono a mancare i capitani, mentre l'esistenza di un gruppo di capitani, affiatati, d'accordo tra loro, con fini comuni non tarda a formare un esercito anche dove non esiste. 3) Un elemento medio, che articoli il primo col terzo elemento, che li metta a contatto, non solo «fisico» ma morale e intellettuale. Nella realtà, per ogni partito esistono delle «proporzioni definite» tra questi tre elementi e si raggiunge il massimo di efficienza quando tali «proporzioni definite» sono realizzate.

Date queste considerazioni, si può dire che un partito non può essere distrutto con mezzi normali, quando, esistendo necessariamente il secondo elemento, la cui nascita è legata all'esistenza delle condizioni materiali oggettive (e se questo secondo elemento non esiste, ogni ragionamento è vacuo) sia pure allo stato disperso e vagante, non possono non formarsi gli altri due, cioè il primo che necessariamente forma il terzo come sua continuazione e mezzo di esprimersi. Occorre che perché ciò avvenga si sia formata la convinzione ferrea che una determinata soluzione dei problemi vitali sia necessaria. Senza questa convinzione non si formerà il secondo elemento, la cui distruzione è la piú facile per lo scarso suo numero, ma è necessario che questo secondo elemento, se distrutto, abbia lasciato come eredità un fermento da cui riformarsi. E dove questo fermento sussisterà meglio e potrà meglio formarsi che nel primo e nel terzo elemento, che, evidentemente, sono i piú omogenei col secondo? L'attività del secondo elemento per costituire questo elemento è perciò fondamentale: il criterio di giudizio di questo secondo elemento sarà da cercare: 1) in ciò che realmente fa; 2) in ciò che prepara nell'ipotesi di una sua distruzione. Tra i due fatti è difficile dire quale sia piú importante. Poiché nella lotta si deve sempre prevedere la sconfitta, la preparazione dei propri successori è un elemento altrettanto importante di ciò che si fa per vincere.

A proposito della «boria» del partito, si può dire che essa è peggiore della boria delle nazioni di cui parla Vico. Perché? Perché una nazione non può non esistere e nel fatto che esiste è sempre possibile, sia pure con la buona volontà e sollecitando i testi, trovare che l'esistenza è piena di destino e di significato. Invece un partito può non esistere per forza propria. Non occorre mai dimenticare che nella lotta fra le nazioni, ognuna di esse ha interesse che l'altra sia indebolita dalle lotte interne e che i partiti sono appunto gli elementi delle lotte interne. Per i partiti dunque, è sempre possibile la domanda se essi esistano per forza propria, come propria necessità, o esistano invece solo per interesse altrui (e infatti nelle polemiche questo punto non è mai dimenticato, anzi è motivo d'insistenza anche, specialmente quando la risposta non è dubbia, ciò che significa che ha presa e lascia dubbi). Naturalmente, chi si lasciasse dilaniare da questo dubbio, sarebbe uno sciocco. Politicamente la quistione ha una rilevanza solo momentanea. Nella storia del cosí detto principio di nazionalità, gli interventi stranieri a favore dei partiti nazionali che turbavano l'ordine interno degli Stati antagonisti sono innumerevoli, tanto che quando si parla per esempio della politica «orientale» di Cavour si domanda se si trattava di una «politica» cioè di una linea d'azione permanente, o di uno stratagemma del momento per indebolire l'Austria in vista del '59 e del '66. Cosí nei movimenti mazziniani dei primi del 1870 (esempio, fatto Barsanti) si vede l'intervento di Bismark, che in vista della guerra con la Francia e del pericolo di un'alleanza italo-francese, pensava, con conflitti interni, a indebolire l'Italia. Cosí nei fatti del giugno 1914 alcuni vedono l'intervento dello Stato Maggiore austriaco in vista della successiva guerra. Come si vede, la casistica è numerosa e occorre avere idee chiare in proposito. Ammesso che qualunque cosa si faccia, si fa sempre il gioco di qualcuno, l'importante è di cercare in tutti i modi di fare bene il proprio gioco, cioè di vincere nettamente. In ogni modo occorre disprezzare la «boria» del partito e alla boria sostituire i fatti concreti. Chi ai fatti concreti sostituisce la boria, o fa la politica della boria, è da sospettare di poca serietà senz'altro. Non occorre aggiungere che per i partiti occorre evitare anche l'apparenza «giustificata» che si faccia il gioco di qualcuno, specialmente se il qualcuno è uno Stato straniero: che poi si speculi, nessuno può evitare che non avvenga.

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Partiti politici e funzioni di polizia. È difficile escludere che qualsiasi partito politico (dei gruppi dominanti, ma anche di gruppi subalterni) non adempia anche una funzione di polizia, cioè di tutela di un certo ordine politico e legale. Se questo fosse dimostrato tassativamente, la quistione dovrebbe essere posta in altri termini: e cioè, sui modi e gli indirizzi con cui una tale funzione viene esercitata. Il senso è repressivo o diffusivo, cioè è di carattere reazionario o progressivo? Il partito dato esercita la sua funzione di polizia per conservare un ordine esteriore, estrinseco, pastoia delle forze vive della storia, o la esercita nel senso che tende a portare il popolo a un nuovo livello di civiltà di cui l'ordine politico e legale è un'espressione programmatica? Infatti, una legge trova chi la infrange: 1) tra gli elementi sociali reazionari che la legge ha spodestato; 2) tra gli elementi progressivi che la legge comprime; 3) tra gli elementi che non hanno raggiunto il livello di civiltà che la legge può rappresentare. La funzione di polizia di un partito può dunque essere progressiva e regressiva: è progressiva quando essa tende a tenere nell'orbita della legalità le forze reazionarie spodestate e a sollevare al livello della nuova legalità le masse arretrate. È regressiva quando tende a comprimere le forze vive della storia e a mantenere una legalità sorpassata, antistorica, divenuta estrinseca. Del resto il funzionamento del Partito dato fornisce criteri discriminanti: quando il partito è progressivo esso funziona «democraticamente» (nel senso di un centralismo democratico), quando il partito è regressivo esso funziona «burocraticamente» (nel senso di un centralismo burocratico). Il Partito in questo secondo caso è puro esecutore, non deliberante: esso allora è tecnicamente un organo di polizia e il suo nome di Partito politico è una pura metafora di carattere mitologico.

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[Industriali e agrari.] Si pone il problema se i grandi industriali abbiano un partito politico permanente proprio. La risposta mi pare debba essere negativa. I grandi industriali si servono volta a volta di tutti i partiti esistenti, ma non hanno un partito proprio. Essi non sono perciò «agnostici» o «apolitici» in qualsiasi modo: il loro interesse è un determinato equilibrio, che ottengono appunto rafforzando coi loro mezzi, volta a volta, questo o quello dei partiti del vario scacchiere politico (con eccezione, si intende, del solo partito antagonista, il cui rafforzamento non può essere aiutato neppure per mossa tattica). È certo però che se ciò avviene nella vita «normale», nei casi estremi, che poi sono quelli che contano (come la guerra nella vita nazionale), il partito dei grandi industriali è quello degli agrari, i quali hanno invece un proprio partito permanente.

Si può vedere l'esemplificazione di questa nota in Inghilterra, dove il partito conservatore si è mangiato il partito liberale, che pure tradizionalmente appariva come il partito degli industriali. La situazione inglese, con le sue grandi Trade Unions spiega questo fatto. In Inghilterra non esiste formalmente un partito antagonista agli industriali in grande stile, è vero, ma esistono le organizzazioni operaie di massa, ed è stato osservato come esse, in certi momenti, quelli decisivi, si trasformino costituzionalmente dal basso in alto spezzando l'involucro burocratico (es. nel 1919 e nel 1926). D'altronde esistono interessi permanenti stretti tra agrari e industriali (specialmente ora che il protezionismo è diventato generale, agrario e industriale) ed è innegabile che gli agrari sono «politicamente» molto meglio organizzatori degli industriali, attirano piú gli intellettuali, sono piú «permanenti» nelle loro direttive ecc. La sorte dei partiti «industriali» tradizionali, come quello «liberale-radicale» inglese e quello radicale francese (che però si differenziò sempre molto dal primo) è interessante (cosí quello «radicale italiano» di buona memoria): che cosa rappresentavano essi? Un nesso di classi grandi e piccole, non una sola grande classe; perciò il loro vario divenire e sparire; la truppa di «manovra» era data dalla classe piccola, che si trovò in condizioni sempre diverse nel nesso fino a trasformarsi completamente. Oggi dà la truppa ai «partiti demagogici» e si comprende.

In generale si può dire che in questa storia dei partiti, la comparazione tra i vari paesi è delle piú istruttive e decisive per trovare l'origine delle cause di trasformazione. Ciò anche nelle polemiche tra partiti dei paesi «tradizionalisti» dove cioè sono rappresentati «scampoli» di tutto il «catalogo» storico.

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Concezioni del mondo e atteggiamenti pratici totalitari e parziali. Un criterio primordiale di giudizio sia per le concezioni del mondo, sia e specialmente per gli atteggiamenti pratici è questo: la concezione del mondo o l'atteggiamento pratico può essere concepito «isolato, indipendente» con tutta la responsabilità della vita collettiva su di sé, o ciò è impossibile e la concezione del mondo e l'atteggiamento pratico può solo essere concepito come «integrazione», perfezionamento, contrappeso ecc. di un'altra concezione del mondo e atteggiamento pratico? Se si riflette, si vede che questo criterio è decisivo per un giudizio ideale sui moti ideali e sui moti pratici e si vede anche che esso ha una portata pratica non piccola. Uno degli idoli piú comuni è quello di credere che tutto ciò che esiste è «naturale» esista, non può a meno di esistere e che i propri tentativi di riforma, per male che vadano, non interromperanno la vita, perché le forze tradizionali continueranno ad operare e appunto continueranno la vita. In questo modo di pensare c'è del giusto, certamente, e guai se cosí non fosse, tuttavia questo modo di pensare oltre certi limiti diventa pericoloso (certi casi della politica del peggio) e in ogni modo, come si è detto, sussiste il criterio di giudizio filosofico, politico e storico. È certo che, se si osserva in fondo, certi moti concepiscono se stessi come marginali; presuppongono cioè un moto principale in cui innestarsi per riformare certi presunti o veri mali, cioè certi moti sono puramente riformistici. Questo principio ha importanza politica perché la verità teorica che ogni classe ha un solo partito è dimostrata, nelle svolte decisive, dal fatto che aggruppamenti varii, ognuno dei quali si presentava come partito «indipendente», si riuniscono e bloccano in unità. La molteplicità esistente prima era solo di carattere «riformistico», cioè riguardava questioni parziali, in un certo senso era una divisione del lavoro politico (utile, nei suoi limiti); ma ogni parte presupponeva l'altra, tanto che nei momenti decisivi, cioè appunto quando le quistioni principali sono state messe in gioco, l'unità si è formata, il blocco si è verificato. Da ciò la conclusione che nella costruzione dei partiti, occorre basarsi su un carattere «monolitico» e non su quistioni secondarie, quindi attenta osservazione che ci sia omogeneità tra dirigenti e diretti, tra capi e massa. Se nei momenti decisivi, i capi passano al loro «vero partito» le masse rimangono in tronco, inerti e senza efficacia.

Si può dire che nessun moto reale acquista coscienza della sua totalitarietà d'un colpo, ma solo per esperienze successive, cioè quando s'accorge, dai fatti, che niente di ciò che è, è naturale (nel senso bislacco della parola) ma esiste perché ci sono certe condizioni, la cui sparizione non rimane senza conseguenze. Cosí il moto si perfeziona, perde i caratteri di arbitrarietà, di «simbiosi», diventa davvero indipendente, nel senso che per avere certe conseguenze crea le premesse necessarie e anzi sulla creazione di queste premesse impegna tutte le sue forze.

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Alcuni aspetti teorici e pratici dell'«economismo». Economismo – movimento teorico per il libero scambio – sindacalismo teorico. È da vedere in che misura il sindacalismo teorico abbia avuto origine dalla filosofia della praxis e in quanto dalle dottrine economiche del libero scambio, cioè, in ultima analisi, dal liberalismo. E perciò è da vedere se l'economismo, nella sua forma piú compiuta, non sia una filiazione diretta del liberalismo e abbia avuto, anche alle origini, ben pochi rapporti colla filosofia della praxis, rapporti in ogni modo solo estrinseci e puramente verbali. Da questo punto di vista è da vedere la polemica Einaudi-Croce, determinata dalla prefazione nuova (del 1917) al volume sul Materialismo storico: la esigenza, prospettata dall'Einaudi, di tener conto della letteratura di storia economica suscitata dall'economia classica inglese, può essere soddisfatta in questo senso, che una tale letteratura, per una contaminazione superficiale con la filosofia della praxis, ha originato l'economismo; perciò quando l'Einaudi critica (in modo, a dir vero, impreciso) alcune degenerazioni economistiche, non fa altro che tirare sassi in piccionaia. Il nesso tra ideologie libero-scambiste e sindacalismo teorico è specialmente evidente in Italia, dove sono note l'ammirazione per Pareto dei sindacalisti come Lanzillo e C. Il significato di queste due tendenze è però molto diverso: il primo è proprio di un gruppo sociale dominante e dirigente, il secondo di un gruppo ancora subalterno, che non ha ancora acquistato coscienza della sua forza e delle sue possibilità e modi di sviluppo e non sa perciò uscire dalla fase di primitivismo. L'impostazione del movimento del libero scambio si basa su un errore teorico di cui non è difficile identificare l'origine pratica: sulla distinzione cioè tra società politica e società civile, che da distinzione metodica viene fatta diventare ed è presentata come distinzione organica. Cosí si afferma che l'attività economica è propria della società civile e che lo Stato non deve intervenire nella sua regolamentazione. Ma siccome nella realtà effettuale società civile e Stato si identificano, è da fissare che anche il liberismo è una «regolamentazione» di carattere statale, introdotto e mantenuto per via legislativa e coercitiva: è un fatto di volontà consapevole dei propri fini e non l'espressione spontanea, automatica del fatto economico. Pertanto il liberismo è un programma politico, destinato a mutare, in quanto trionfa, il personale dirigente di uno Stato e il programma economico dello Stato stesso, cioè a mutare la distribuzione del reddito nazionale. Diverso è il caso del sindacalismo teorico, in quanto si riferisce a un gruppo subalterno, al quale con questa teoria si impedisce di diventare mai dominante, di svilupparsi oltre la fase economico-corporativa per elevarsi alla fase di egemonia etico-politica nella società civile e dominante nello Stato. Per ciò che riguarda il liberismo si ha il caso di una frazione del gruppo dirigente che vuole modificare non la struttura dello Stato, ma solo l'indirizzo di governo, che vuole riformare la legislazione commerciale e solo indirettamente industriale (poiché è innegabile che il protezionismo, specialmente nei paesi a mercato povero e ristretto, limita la libertà di iniziativa industriale e favorisce morbosamente il nascere dei monopoli): si tratta di rotazione dei partiti dirigenti al governo, non di fondazione e organizzazione di una nuova società politica e tanto meno di un nuovo tipo di società civile. Nel movimento del sindacalismo teorico la quistione si presenta piú complessa: è innegabile che in esso l'indipendenza e l'autonomia del gruppo subalterno che si dice di esprimere sono invece sacrificate all'egemonia intellettuale del gruppo dominante, poiché appunto il sindacalismo teorico non è che un aspetto del liberismo, giustificato con alcune affermazioni mutilate, e pertanto banalizzate, della filosofia della praxis. Perché e come avviene questo «sacrifizio»? Si esclude la trasformazione del gruppo subordinato in dominante, o perché il problema non è neppure prospettato (fabianesimo, De Man, parte notevole del laburismo) o perché è presentato in forme incongrue e inefficienti (tendenze socialdemocratiche in generale) o perché si afferma il salto immediato dal regime dei gruppi a quello della perfetta eguaglianza e dell'economia sindacale.

È per lo meno strano l'atteggiamento dell'economismo verso le espressioni di volontà, di azione e di iniziativa politica e intellettuale, come se queste non fossero una emanazione organica di necessità economiche e anzi la sola espressione efficiente dell'economia; cosí è incongruo che l'impostazione concreta della quistione egemonica sia interpretata come un fatto che subordina il gruppo egemone. Il fatto dell'egemonia presuppone indubbiamente che sia tenuto conto degli interessi e delle tendenze dei gruppi sui quali l'egemonia verrà esercitata, che si formi un certo equilibrio di compromesso, che cioè il gruppo dirigente faccia dei sacrifizi di ordine economico-corporativo, ma è anche indubbio che tali sacrifizi e tale compromesso non possono riguardare l'essenziale, poiché se l'egemonia è etico-politica, non può non essere anche economica, non può non avere il suo fondamento nella funzione decisiva che il gruppo dirigente esercita nel nucleo decisivo dell'attività economica.

L'economismo si presenta sotto molte altre forme oltre che il liberismo e il sindacalismo teorico. Gli appartengono tutte le forme di astensionismo elettorale (esempio tipico l'astensionismo dei clericali italiani dopo il 1870, dopo il 1900 sempre piú attenuato, fino al 1919 e alla formazione del Partito popolare: la distinzione organica che i clericali facevano tra Italia reale e Italia legale era una riproduzione della distinzione tra mondo economico e mondo politico-legale), che sono molte, nel senso che può esserci semi-astensionismo, un quarto ecc. All'astensionismo è legata la formula del «tanto peggio, tanto meglio» e anche la formula della cosí detta «intransigenza» parlamentare di alcune frazioni di deputati. Non sempre l'economismo è contrario all'azione politica e al partito politico, che viene però considerato mero organismo educativo di tipo sindacale.

Un punto di riferimento per lo studio dell'economismo e per comprendere i rapporti tra struttura e superstrutture è quel passaggio della Miseria della Filosofia dove si dice che una fase importante nello sviluppo di un gruppo sociale è quella in cui i singoli componenti di un sindacato non lottano solo piú per i loro interessi economici, ma per la difesa e lo sviluppo dell'organizzazione stessa (vedere la affermazione esatta; la Miseria della Filosofia è un momento essenziale nella formazione della filosofia della praxis; essa può essere considerata come lo svolgimento delle Tesi su Feuerbach, mentre la Sacra Famiglia è una fase intermedia indistinta e di origine occasionale, come appare dai brani dedicati al Proudhon e specialmente al materialismo francese. Il brano sul materialismo francese è piú che altro un capitolo di storia della cultura e non un brano teoretico, come spesso viene interpretato, e come storia della cultura è ammirevole. Ricordare l'osservazione che la critica contenuta nella Miseria della Filosofia contro Proudhon e la sua interpretazione della dialettica hegeliana può essere estesa al Gioberti e allo hegelismo dei liberali moderati italiani in genere. Il parallelo Proudhon-Gioberti, nonostante rappresentino fasi storico-politiche non omogenee, anzi appunto per questo, può essere interessante e fecondo). È da ricordare insieme l'affermazione di Engels che l'economia solo in «ultima analisi» è la molla della storia (nelle due lettere sulla filosofia della praxis pubblicate anche in italiano) da collegarsi direttamente al passo della prefazione della Critica dell'Economia politica, dove si dice che gli uomini diventano consapevoli dei conflitti che si verificano nel mondo economico sul terreno delle ideologie.

In varie occasioni è affermato in queste note che la filosofia della praxis è molto piú diffusa di quanto non si voglia concedere. L'affermazione è esatta se si intende che è diffuso l'economismo storico, come il prof. Loria chiama ora le sue concezioni piú o meno sgangherate, e che pertanto l'ambiente culturale è completamente mutato dal tempo in cui la filosofia della praxis iniziò le sue lotte; si potrebbe dire, con terminologia crociana, che la piú grande eresia sorta nel seno della «religione della libertà» ha anch'essa, come la religione ortodossa, subito una degenerazione, si è diffusa come «superstizione», cioè è entrata in combinazione col liberismo e ha prodotto l'economismo. È da vedere però se, mentre la religione ortodossa si è ormai imbozzacchita, la superstizione eretica non abbia sempre mantenuto un fermento che la farà rinascere come religione superiore, se cioè le scorie di superstizione non siano facilmente liquidabili.

Alcuni punti caratteristici dell'economismo storico: 1) nella ricerca dei nessi storici non si distingue ciò che è «relativamente permanente» da ciò che è fluttuazione occasionale e si intende per fatto economico l'interesse personale e di piccolo gruppo, in senso immediato e «sordidamente giudaico». Non si tiene conto cioè delle formazioni di classe economica, con tutti i rapporti inerenti, ma si assume l'interesse gretto e usurario, specialmente quando coincide con forme delittuose contemplate dai codici criminali; 2) la dottrina per cui lo svolgimento economico viene ridotto al susseguirsi dei cangiamenti tecnici negli strumenti di lavoro. Il prof. Loria ha fatto un'esposizione brillantissima di questa dottrina applicata nell'articolo sull'influsso sociale dell'aeroplano, pubblicato nella «Rassegna contemporanea» del 1912; 3) la dottrina per cui lo svolgimento economico e storico viene fatto dipendere immediatamente dai mutamenti di un qualche elemento importante della produzione, la scoperta di una nuova materia prima, di un nuovo combustibile ecc., che portano con sé l'applicazione di nuovi metodi nella costruzione e nell'azionamento delle macchine. In questi ultimi tempi c'è tutta una letteratura sul petrolio: si può vedere come tipico un articolo di Antonino Laviosa nella «Nuova Antologia» del 1929. La scoperta di nuovi combustibili e di nuove energie motrici, come di nuove materie prime da trasformare, hanno certo grande importanza, perché può mutare la posizione dei singoli Stati, ma non determina il moto storico ecc.

Avviene spesso che si combatte l'economismo storico, credendo di combattere il materialismo storico. È questo il caso, per esempio, di un articolo dell'«Avenir» di Parigi del 10 ottobre 1930 (riportato nella «Rassegna Settimanale della Stampa Estera» del 21 ottobre 1930, pp. 2303-4) e che si riporta come tipico: «Ci si dice da molto tempo, ma sopratutto dopo la guerra, che le quistioni d'interesse dominano i popoli e portano avanti il mondo. Sono i marxisti che hanno inventato questa tesi, sotto l'appellativo un po' dottrinario di "materialismo storico". Nel marxismo puro, gli uomini presi in massa non obbediscono alle passioni, ma alle necessità economiche. La politica è una passione. La Patria è una passione. Queste due idee esigenti non godono nella storia che una funzione di apparenza perché in realtà la vita dei popoli, nel corso dei secoli, si spiega con un gioco cangiante e sempre rinnovato di cause di ordine materiale. L'economia è tutto. Molti filosofi ed economisti "borghesi" hanno ripreso questo ritornello. Essi assumono una certa aria da spiegarci col corso del grano, dei petroli o del caucciú, la grande politica internazionale. Essi si ingegnano a dimostrarci che tutta la diplomazia è comandata da quistioni di tariffe doganali e di prezzi di costo. Queste spiegazioni sono molto in auge. Esse hanno una piccola apparenza scientifica e procedono da una specie di scetticismo superiore che vorrebbe passare per una eleganza suprema. La passione in politica estera? Il sentimento in materia nazionale? Suvvia! Questa roba è buona per la gente comune. I grandi spiriti, gli iniziati sanno che tutto è dominato dal dare e dall'avere. Ora questa è una pseudo-verità assoluta. È completamente falso che i popoli non si lasciano guidare che da considerazioni di interesse ed è completamente vero che essi obbediscono [piú che mai al sentimento. Il materialismo storico è una buona scemenza. Le nazioni obbediscono] sopratutto a delle considerazioni dettate da un desiderio e da una fede ardente di prestigio. Chi non comprende questo non comprende nulla». La continuazione dell'articolo (intitolato La mania del prestigio) esemplifica con la politica tedesca e italiana, che sarebbe di «prestigio» e non dettata da interessi materiali. L'articolo racchiude in breve una gran parte degli spunti piú banali di polemica contro la filosofia della praxis, ma in realtà la polemica è contro l'economismo sgangherato di tipo loriano. D'altronde lo scrittore non è molto ferrato in argomento anche per altri rispetti: egli non capisce che le «passioni» possono essere niente altro che un sinonimo degli interessi economici e che è difficile sostenere essere l'attività politica uno stato permanente di esasperazione passionale e di spasimo; proprio la politica francese è presentata come una «razionalità» sistematica e coerente, cioè depurata di ogni elemento passionale ecc.

Nella sua forma piú diffusa di superstizione economistica, la filosofia della praxis perde una gran parte della sua espansività culturale nella sfera superiore del gruppo intellettuale, per quanta ne acquista tra le masse popolari e tra gli intellettuali di mezza tacca, che non intendono affaticarsi il cervello ma vogliono apparire furbissimi ecc. Come scrisse Engels, fa molto comodo a molti credere di poter avere, a poco prezzo e con nessuna fatica, in saccoccia, tutta la storia e tutta la sapienza politica e filosofica concentrata in qualche formuletta. Avendo dimenticato che la tesi secondo cui gli uomini acquistano coscienza dei conflitti fondamentali nel terreno delle ideologie non è di carattere psicologico o moralistico, ma ha un carattere organico gnoseologico, si è creata la forma mentis di considerare la politica e quindi la storia come un continuo marché de dupes, un gioco di illusionismi e di prestidigitazione. L'attività «critica» si è ridotta a svelare trucchi, a suscitare scandali, a fare i conti in tasca agli uomini rappresentativi.

Si è cosí dimenticato che essendo o presumendo di essere anche l'«economismo» un canone obbiettivo di interpretazione (obbiettivo-scientifico), la ricerca nel senso degli interessi immediati dovrebbe esser valida per tutti gli aspetti della storia, per gli uomini che rappresentano la «tesi» come per quelli che rappresentano l'«antitesi». Si è dimenticato inoltre un'altra proposizione della filosofia della praxis: quella che le «credenze popolari» o le credenze del tipo delle credenze popolari hanno la validità delle forze materiali.

Gli errori di interpretazione nel senso delle ricerche degli interessi «sordidamente giudaici» sono stati talvolta grossolani e comici e hanno cosí reagito negativamente sul prestigio della dottrina originaria. Occorre perciò combattere l'economismo non solo nella teoria della storiografia, ma anche e specialmente nella teoria e nella pratica politica. In questo campo la lotta può e deve essere condotta sviluppando il concetto di egemonia, cosí come è stata condotta praticamente nello sviluppo della teoria del partito politico e nello sviluppo pratico della vita di determinati partiti politici (la lotta contro la teoria della cosí detta rivoluzione permanente, cui si contrapponeva il concetto di dittatura democratico-rivoluzionaria, importanza avuta dal sostegno dato alle ideologie costituentiste ecc.). Si potrebbe fare una ricerca sui giudizi emessi a mano a mano che si sviluppavano certi movimenti politici, prendendo come tipo il movimento boulangista (dal 1886 al 1890 circa), o il processo Dreyfus o addirittura il colpo di Stato del 2 dicembre (un'analisi del libro classico sul 2 dicembre, per studiare quale importanza relativa vi si dà al fattore economico immediato e quale posto invece vi abbia lo studio concreto delle «ideologie»). Di fronte a questo evento, l'economismo si pone la domanda: a chi giova immediatamente l'iniziativa in quistione? e risponde con un ragionamento tanto semplicistico quanto paralogistico. Giova immediatamente a una certa frazione del gruppo dominante e per non sbagliare questa scelta cade su quella frazione che evidentemente ha una funzione progressiva e di controllo sull'insieme delle forze economiche. Si può esser sicuri di non sbagliare, perché necessariamente, se il movimento preso in esame andrà al potere, prima o poi la frazione progressiva del gruppo dominante finirà col controllare il nuovo governo e col farsene uno strumento per rivolgere a proprio benefizio l'apparato statale. Si tratta adunque di una infallibilità molto a buon mercato e che non solo non ha significato teorico, ma ha scarsissima portata politica ed efficacia pratica: in generale non produce altro che prediche moralistiche e quistioni personali interminabili.

Quando un movimento di tipo boulangista si produce, l'analisi dovrebbe realisticamente essere condotta secondo questa linea: 1) contenuto sociale della massa che aderisce al movimento; 2) questa massa che funzione aveva nell'equilibrio di forze che va trasformandosi come il nuovo movimento dimostra col suo stesso nascere? 3) le rivendicazioni che i dirigenti presentano e che trovano consenso quale significato hanno politicamente e socialmente? a quali esigenze effettive corrispondono? 4) esame della conformità dei mezzi al fine proposto; 5) solo in ultima analisi e presentata in forma politica e non moralistica si prospetta l'ipotesi che tale movimento necessariamente verrà snaturato e servirà a ben altri fini da quelli che le moltitudini seguaci se ne attendono. Invece questa ipotesi viene affermata preventivamente, quando nessun elemento concreto (che cioè appaia tale con l'evidenza del senso comune e non per una analisi «scientifica» esoterica) esiste ancora per suffragarla, cosí che essa appare come un'accusa moralistica di doppiezza e di malafede o di poca furberia, di stupidaggine (per i seguaci). La lotta politica cosí diventa una serie di fatti personali tra chi la sa lunga, avendo il diavolo nell'ampolla, e chi è preso in giro dai propri dirigenti e non vuole convincersene per la sua inguaribile buaggine.

D'altronde, finché questi movimenti non hanno raggiunto il potere, si può sempre pensare che essi falliscano e alcuni infatti sono falliti (il boulangismo stesso, che è fallito come tale ed è poi stato schiacciato definitivamente col movimento dreyfusardo, il movimento di Giorgio Valois, quello del Generale Gajda); la ricerca deve quindi dirigersi all'identificazione degli elementi di forza, ma anche degli elementi di debolezza che essi contengono nel loro intimo: l'ipotesi «economistica» afferma un elemento immediato di forza, cioè la disponibilità di un certo apporto finanziario diretto o indiretto (un grande giornale che appoggi il movimento è anche esso un apporto finanziario indiretto) e basta. Troppo poco.

Anche in questo caso l'analisi dei diversi gradi di rapporto delle forze non può culminare che nella sfera dell'egemonia e dei rapporti etico-politici.

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Un elemento da aggiungere al paragrafo dell'economismo, come esemplificazione delle teorie cosí dette dell'intransigenza, è quello della rigida avversione di principio ai cosí detti compromessi, che ha come manifestazione subordinata quella che si può chiamare la «paura dei pericoli». Che l'avversione di principio ai compromessi sia strettamente legata all'economismo è chiaro, in quanto la concezione su cui si fonda questa avversione non può essere altro che la convinzione ferrea che esistano per lo sviluppo storico leggi obbiettive dello stesso carattere delle leggi naturali, con in piú la persuasione di un finalismo fatalistico di carattere simile a quello religioso: poiché le condizioni favorevoli dovranno fatalmente verificarsi e da esse saranno determinati, in modo alquanto misterioso, avvenimenti palingenetici, risulta l'inutilità non solo, ma il danno di ogni iniziativa volontaria tendente a predisporre queste situazioni secondo un piano. Accanto a queste convinzioni fatalistiche sta tuttavia la tendenza ad affidarsi «in seguito» ciecamente e scriteriatamente alla virtú regolatrice delle armi, ciò che però non è completamente senza una logica e una coerenza, poiché si pensa che l'intervento della volontà è utile per la distruzione, non per la ricostruzione (già in atto nel momento stesso della distruzione). La distruzione viene concepita meccanicamente non come distruzione-ricostruzione. In tali modi di pensare non si tiene conto del fattore «tempo» e non si tiene conto, in ultima analisi, della stessa «economia» nel senso che non si capisce come i fatti ideologici di massa sono sempre in arretrato sui fenomeni economici di massa e come pertanto in certi momenti la spinta automatica dovuta al fattore economico è rallentata, impastoiata o anche spezzata momentaneamente da elementi ideologici tradizionali, che perciò deve esserci lotta cosciente e predisposta per far «comprendere» le esigenze della posizione economica di massa che possono essere in contrasto con le direttive dei capi tradizionali. Una iniziativa politica appropriata è sempre necessaria per liberare la spinta economica dalle pastoie della politica tradizionale, per mutare cioè la direzione politica di certe forze che è necessario assorbire per realizzare un nuovo, omogeneo, senza contraddizioni interne, blocco storico economico-politico, e poiché due forze «simili» non possono fondersi in organismo nuovo che attraverso una serie di compromessi o con la forza delle armi, alleandole su un piano di alleanza o subordinando l'una all'altra con la coercizione, la quistione è se si ha questa forza e se sia «produttivo» impiegarla. Se l'unione di due forze è necessaria per vincere una terza, il ricorso alle armi e alla coercizione (dato che se ne abbia la disponibilità) è una pura ipotesi metodica e l'unica possibilità concreta è il compromesso, poiché la forza può essere impiegata contro i nemici, non contro una parte di se stessi che si vuole rapidamente assimilare e di cui occorre la «buona volontà» e l'entusiasmo.

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[Previsione e prospettiva.] Altro punto da fissare e da svolgere è quello della «doppia prospettiva» nell'azione politica e nella vita statale. Vari gradi in cui può presentarsi la doppia prospettiva, dai piú elementari ai piú complessi, ma che possono ridursi teoricamente a due gradi fondamentali, corrispondenti alla doppia natura del Centauro machiavellico, ferina ed umana, della forza e del consenso, dell'autorità e dell'egemonia, della violenza e della civiltà, del momento individuale e di quello universale (della «Chiesa» e dello «Stato»), dell'agitazione e della propaganda, della tattica e della strategia ecc. Alcuni hanno ridotto la teoria della «doppia prospettiva» a qualcosa di meschino e di banale, a niente altro cioè che a due forme di «immediatezza» che si succedono meccanicamente nel tempo con maggiore o minore «prossimità». Può invece avvenire che quanto piú la prima «prospettiva» è «immediatissima», elementarissima, tanto piú la seconda debba essere «lontana» (non nel tempo, ma come rapporto dialettico) complessa, elevata, cioè può avvenire come nella vita umana, che quanto piú un individuo è costretto a difendere la propria esistenza fisica immediata, tanto piú sostiene e si pone dal punto di vista di tutti i complessi e piú elevati valori della civiltà e dell'umanità.

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Sul concetto di previsione o prospettiva. È certo che prevedere significa solo veder bene il presente e il passato in quanto movimento: veder bene, cioè identificare con esattezza gli elementi fondamentali e permanenti del processo. Ma è assurdo pensare a una previsione puramente «oggettiva». Chi fa la previsione in realtà ha un «programma» da far trionfare e la previsione è appunto un elemento di tale trionfo. Ciò non significa che la previsione debba sempre essere arbitraria e gratuita o puramente tendenziosa. Si può anzi dire che solo nella misura in cui l'aspetto oggettivo della previsione è connesso con un programma esso aspetto acquista oggettività: 1) perché solo la passione aguzza l'intelletto e coopera a rendere piú chiara l'intuizione; 2) perché essendo la realtà il risultato di una applicazione della volontà umana alla società delle cose (del macchinista alla macchina), prescindere da ogni elemento volontario o calcolare solo l'intervento delle altrui volontà come elemento oggettivo del gioco generale mutila la realtà stessa. Solo chi fortemente vuole identifica gli elementi necessari alla realizzazione della sua volontà. Perciò ritenere che una determinata concezione del mondo e della vita abbia in se stessa una superiorità di capacità di previsione è un errore di grossolana fatuità e superficialità. Certo una concezione del mondo è implicita in ogni previsione e pertanto che essa sia una sconnessione di atti arbitrari del pensiero o una rigorosa e coerente visione non è senza importanza, ma l'importanza appunto l'acquista nel cervello vivente di chi fa la previsione e la vivifica con la sua forte volontà. Ciò si vede dalle previsioni fatte dai cosí detti «spassionati»: esse abbondano di oziosità, di minuzie sottili, di eleganze congetturali. Solo l'esistenza nel «previsore» di un programma da realizzare fa sí che egli si attenga all'essenziale, a quegli elementi che essendo «organizzabili», suscettibili di essere diretti o deviati, in realtà sono essi soli prevedibili. Ciò va contro il comune modo di considerare la quistione. Si pensa generalmente che ogni atto di previsione presuppone la determinazione di leggi di regolarità del tipo di quelle delle scienze naturali. Ma siccome queste leggi non esistono nel senso assoluto o meccanico che si suppone, non si tiene conto delle altrui volontà e non si «prevede» la loro applicazione. Pertanto si costruisce su una ipotesi arbitraria e non sulla realtà.

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Il «troppo» (e quindi superficiale e meccanico) realismo politico porta spesso ad affermare che l'uomo di Stato deve operare solo nell'ambito della «realtà effettuale», non interessarsi del «dover essere», ma solo dell'«essere». Ciò significherebbe che l'uomo di Stato non deve avere prospettive oltre la lunghezza del proprio naso. Questo errore ha condotto Paolo Treves a trovare nel Guicciardini e non nel Machiavelli il «vero politico». Bisogna distinguere oltre che tra «diplomatico» e «politico», anche tra scienziato della politica e politico in atto. Il diplomatico non può non muoversi solo nella realtà effettuale, perché la sua attività specifica non è quella di creare nuovi equilibri, ma di conservare entro certi quadri giuridici un equilibrio esistente. Cosí anche lo scienziato deve muoversi solo nella realtà effettuale in quanto mero scienziato. Ma il Machiavelli non è un mero scienziato; egli è un uomo di parte, di passioni poderose, un politico in atto, che vuol creare nuovi rapporti di forze e perciò non può non occuparsi del «dover essere», certo non inteso in senso moralistico. La quistione non è quindi da porre in questi termini, è piú complessa: si tratta cioè di vedere se il «dover essere» è un atto arbitrario o necessario, è volontà concreta, o velleità, desiderio, amore con le nuvole. Il politico in atto è un creatore, un suscitatore, ma né crea dal nulla, né si muove nel vuoto torbido dei suoi desideri e sogni. Si fonda sulla realtà effettuale, ma cos'è questa realtà effettuale? È forse qualcosa di statico e immobile o non piuttosto un rapporto di forze in continuo movimento e mutamento di equilibrio? Applicare la volontà alla creazione di un nuovo equilibrio delle forze realmente esistenti ed operanti, fondandosi su quella determinata forza che si ritiene progressiva, e potenziandola per farla trionfare è sempre muoversi nel terreno della realtà effettuale ma per dominarla e superarla (o contribuire a ciò). Il «dover essere» è quindi concretezza, anzi è la sola interpretazione realistica e storicistica della realtà, è sola storia in atto e filosofia in atto, sola politica. L'opposizione Savonarola-Machiavelli non è l'opposizione tra essere e dover essere (tutto il paragrafo del Russo su questo punto è pura belletristica) ma tra due dover essere, quello astratto e fumoso del Savonarola e quello realistico del Machiavelli, realistico anche se non diventato realtà immediata, poiché non si può attendere che un individuo o un libro mutino la realtà ma solo la interpretino e indichino la linea possibile dell'azione. Il limite e l'angustia del Machiavelli consistono solo nell'essere egli stato una «persona privata», uno scrittore e non il capo di uno Stato o di un esercito, che è pure una singola persona, ma avente a sua disposizione le forze di uno Stato o di un esercito e non solo eserciti di parole. Né perciò si può dire che il Machiavelli sia stato anche egli un «profeta disarmato»: sarebbe fare dello spirito a troppo buon mercato. Il Machiavelli non dice mai di pensare o di proporsi egli stesso di mutare la realtà, ma solo e concretamente di mostrare come avrebbero dovuto operare le forze storiche per essere efficienti.

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[Analisi delle situazioni. Rapporti di forza.] Le note scritte a proposito dello studio delle situazioni e di ciò che occorre intendere per «rapporti di forza». Lo studio di come occorre analizzare le «situazioni», cioè di come occorre stabilire i diversi gradi di rapporto di forze può prestarsi a una esposizione elementare di scienza ed arte politica, intesa come un insieme di canoni pratici di ricerca e di osservazioni particolari utili per risvegliare l'interesse per la realtà effettuale e suscitare intuizioni politiche piú rigorose e vigorose. Insieme è da porre l'esposizione di ciò che occorre intendere in politica per strategia e tattica, per «piano» strategico, per propaganda e agitazione, per organica, o scienza dell'organizzazione e dell'amministrazione in politica. Gli elementi di osservazione empirica che di solito sono esposti alla rinfusa nei trattati di scienza politica (si può prendere come esemplare l'opera di G. Mosca: Elementi di scienza politica) dovrebbero, in quanto non sono quistioni astratte o campate in aria, trovar posto nei vari gradi del rapporto di forze, a cominciare dai rapporti delle forze internazionali (in cui troverebbero posto le note scritte su ciò che è una grande potenza, sugli aggruppamenti di Stati in sistemi egemonici e quindi sul concetto di indipendenza e sovranità per ciò che riguarda le potenze piccole e medie) per passare ai rapporti obbiettivi sociali, cioè al grado di sviluppo delle forze produttive, ai rapporti di forza politica e di partito (sistemi egemonici nell'interno dello Stato) e ai rapporti politici immediati (ossia potenzialmente militari).

I rapporti internazionali precedono o seguono (logicamente) i rapporti sociali fondamentali? Seguono indubbiamente. Ogni innovazione organica nella struttura modifica organicamente i rapporti assoluti e relativi nel campo internazionale, attraverso le sue espressioni tecnico-militari. Anche la posizione geografica di uno Stato nazionale non precede ma segue (logicamente) le innovazioni strutturali, pur reagendo su di esse in una certa misura (nella misura appunto in cui le superstrutture reagiscono sulla struttura, la politica sull'economia ecc.). D'altronde i rapporti internazionali reagiscono passivamente e attivamente sui rapporti politici (di egemonia dei partiti). Quanto piú la vita economica immediata di una nazione è subordinata ai rapporti internazionali, tanto piú un determinato partito rappresenta questa situazione e la sfrutta per impedire il sopravvento dei partiti avversari (ricordare il famoso discorso di Nitti sulla rivoluzione italiana tecnicamente impossibile!). Da questa serie di fatti si può giungere alla conclusione che spesso il cosí detto «partito dello straniero» non è proprio quello che come tale viene volgarmente indicato, ma proprio il partito piú nazionalistico, che, in realtà, piú che rappresentare le forze vitali del proprio paese, ne rappresenta la subordinazione e l'asservimento economico alle nazioni o a un gruppo di nazioni egemoniche (un accenno a questo elemento internazionale «repressivo» delle energie interne si trova negli articoli pubblicati da G. Volpe nel «Corriere della Sera» del 22 e 23 marzo 1932).

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È il problema dei rapporti tra struttura e superstrutture che bisogna impostare esattamente e risolvere per giungere a una giusta analisi delle forze che operano nella storia di un determinato periodo e determinare il loro rapporto. Occorre muoversi nell'ambito di due principii: 1) quello che nessuna società si pone dei compiti per la cui soluzione non esistano già le condizioni necessarie e sufficienti o esse non siano almeno in via di apparizione e di sviluppo; 2) e quello che nessuna società si dissolve e può essere sostituita se prima non ha svolto tutte le forme di vita che sono implicite nei suoi rapporti (controllare l'esatta enunciazione di questi principii).

«Una formazione sociale non perisce, prima che non siano sviluppate tutte le forze produttive per le quali essa è ancora sufficiente e nuovi piú alti rapporti di produzione non ne abbiano preso il posto, prima che le condizioni materiali di esistenza di questi ultimi siano state covate nel seno stesso della vecchia società. Perciò l'umanità si pone sempre solo quei compiti che essa può risolvere; se si osserva con piú accuratezza si troverà sempre che il compito stesso sorge solo dove le condizioni materiali della sua risoluzione esistono già o almeno sono nel processo del loro divenire» (Introduzione a Critica dell'Economia Politica).

Dalla riflessione su questi due canoni si può giungere allo svolgimento di tutta una serie di altri principii di metodologia storica. Intanto nello studio di una struttura occorre distinguere i movimenti organici (relativamente permanenti) da i movimenti che si possono chiamare di congiuntura (e si presentano come occasionali, immediati, quasi accidentali). I fenomeni di congiuntura sono certo dipendenti anch'essi da movimenti organici, ma il loro significato non è di vasta portata storica: essi danno luogo a una critica politica spicciola, del giorno per giorno, che investe i piccoli gruppi dirigenti e le personalità responsabili immediatamente del potere. I fenomeni organici danno luogo alla critica storico-sociale, che investe i grandi aggruppamenti, di là dalle persone immediatamente responsabili e di là dal personale dirigente. Nello studiare un periodo storico appare la grande importanza di questa distinzione. Si verifica una crisi, che talvolta si prolunga per decine di anni. Questa durata eccezionale significa che nella struttura si sono rivelate (sono venute a maturità) contraddizioni insanabili e che le forze politiche operanti positivamente alla conservazione e difesa della struttura stessa si sforzano tuttavia di sanare entro certi limiti e di superare. Questi sforzi incessanti e perseveranti (poiché nessuna forma sociale vorrà mai confessare di essere superata) formano il terreno dell'«occasionale» sul quale si organizzano le forze antagonistiche che tendono a dimostrare (dimostrazione che in ultima analisi riesce solo ed è «vera» se diventa nuova realtà, se le forze antagonistiche trionfano, ma immediatamente si svolge in una serie di polemiche ideologiche, religiose, filosofiche, politiche, giuridiche ecc., la cui concretezza è valutabile dalla misura in cui riescono convincenti e spostano il preesistente schieramento delle forze sociali) che esistono già le condizioni necessarie e sufficienti perché determinati compiti possano e quindi debbano essere risolti storicamente (debbano, perché ogni venir meno al dovere storico aumenta il disordine necessario e prepara piú gravi catastrofi).

L'errore in cui si cade spesso nelle analisi storico-politiche consiste nel non saper trovare il giusto rapporto tra ciò che è organico e ciò che è occasionale: si riesce cosí o ad esporre come immediatamente operanti cause che invece sono operanti mediatamente, o ad affermare che le cause immediate sono le sole cause efficienti; nell'un caso si ha l'eccesso di «economismo» o di dottrinarismo pedantesco, dall'altro l'eccesso di «ideologismo», nell'un caso si sopravalutano le cause meccaniche; nell'altro si esalta l'elemento volontaristico e individuale. (La distinzione tra «movimenti» e fatti organici e movimenti e fatti di «congiuntura» o occasionali deve essere applicata a tutti i tipi di situazione, non solo a quelle in cui si verifica uno svolgimento regressivo o di crisi acuta, ma a quelle in cui si verifica uno svolgimento progressivo o di prosperità e a quelle in cui si verifica una stagnazione delle forze produttive). Il nesso dialettico tra i due ordini di movimento e quindi di ricerca difficilmente viene stabilito esattamente e se l'errore è grave nella storiografia, ancor piú grave diventa nell'arte politica, quando si tratta non di ricostruire la storia passata ma di costruire quella presente e avvenire: i proprii desideri e le proprie passioni deteriori e immediate sono la causa dell'errore, in quanto essi sostituiscono l'analisi obbiettiva e imparziale e ciò avviene non come «mezzo» consapevole per stimolare all'azione ma come autoinganno. La biscia, anche in questo caso, morde il ciarlatano ossia il demagogo è la prima vittima della sua demagogia.

Il non aver considerato il momento immediato dei «rapporti di forza» è connesso a residui della concezione liberale volgare, di cui il sindacalismo è una manifestazione che credeva di essere piú avanzata in quanto faceva realmente un passo indietro. Infatti la concezione liberale volgare dando importanza al rapporto delle forze politiche organizzate nelle diverse forme di partito (lettori di giornali, elezioni parlamentari e locali, organizzazione di massa dei partiti e dei sindacati in senso stretto) era piú avanzata del sindacalismo che dava importanza primordiale al rapporto fondamentale economico-sociale e solo a questo. La concezione liberale volgare teneva conto implicito anche di tale rapporto (come appare da tanti segni) ma insisteva di piú sul rapporto delle forze politiche che era un'espressione dell'altro e in realtà lo conteneva. Questi residui della concezione liberale volgare si possono rintracciare in tutta una serie di trattazioni che si dicono connesse alla filosofia della prassi e hanno dato luogo a forme infantili di ottimismo e di scempiaggine.

Questi criteri metodologici possono acquistare visibilmente e didatticamente tutto il loro significato se applicati all'esame di fatti storici concreti. Si potrebbe farlo utilmente per gli avvenimenti che si svolsero in Francia dal 1789 al 1870. Mi pare che per maggior chiarezza dell'esposizione sia proprio necessario abbracciare tutto questo periodo. Infatti solo nel 1870-71, col tentativo comunalistico si esauriscono storicamente tutti i germi nati nel 1789 cioè non solo la nuova classe che lotta per il potere sconfigge i rappresentanti della vecchia società che non vuole confessarsi decisamente superata, ma sconfigge anche i gruppi nuovissimi che sostengono già superata la nuova struttura sorta dal rivolgimento iniziatosi nel 1789 e dimostra cosí di essere vitale e in confronto al vecchio e in confronto al nuovissimo. Inoltre, col 1870-71, perde efficacia l'insieme di principii di strategia e tattica politica nati praticamente nel 1789 e sviluppati ideologicamente intorno al '48 (quelli che si riassumono nella formula della «rivoluzione permanente»: sarebbe interessante studiare quanto di tale formula è passata nella strategia mazziniana – per es. per l'insurrezione di Milano del 1853 – e se è avvenuto consapevolmente o meno). Un elemento che mostra la giustezza di questo punto di vista è il fatto che gli storici non sono per nulla concordi (ed è impossibile che lo siano) nel fissare i limiti di quel gruppo di avvenimenti che costituisce la rivoluzione francese. Per alcuni (per es. il Salvemini) la rivoluzione è compiuta a Valmy: la Francia ha creato un nuovo Stato e ha saputo organizzare la forza politico-militare che ne afferma e ne difende la sovranità territoriale. Per altri la Rivoluzione continua fino al Termidoro, anzi essi parlano di piú rivoluzioni (il 10 agosto sarebbe una rivoluzione a sé ecc.; cfr. la Rivoluzione francese di A. Mathiez nella collezione Colin). Il modo di interpretare il Termidoro e l'opera di Napoleone offre le piú aspre contradizioni: si tratta di rivoluzione o di controrivoluzione? ecc. Per altri la storia della Rivoluzione continua fino al 1830, 1848, 1870 e persino fino alla guerra mondiale del 1914.

In tutti questi modi di vedere c'è una parte di verità. Realmente le contraddizioni interne della struttura sociale francese che si sviluppano dopo il 1789 trovano una loro relativa composizione solo con la terza repubblica e la Francia ha 60 anni di vita politica equilibrata dopo 80 anni di rivolgimenti a ondate sempre piú lunghe: '89-94-99-1804-1815-1830-1848-1870. È appunto lo studio di queste «ondate» a diversa oscillazione che permette di ricostruire i rapporti tra struttura e superstruttura da una parte e dall'altra tra lo svolgersi del movimento organico e quello del movimento di congiuntura della struttura. Si può dire intanto che la mediazione dialettica tra i due principii metodologici enunziati all'inizio di questa nota si può trovare nella formula politicostorica di rivoluzione permanente.

Un aspetto dello stesso problema è la quistione cosí detta dei rapporti di forza. Si legge spesso nelle narrazioni storiche l'espressione generica: rapporti di forza favorevoli, sfavorevoli a questa o a quella tendenza. Cosí, astrattamente, questa formulazione non spiega nulla o quasi nulla, perché non si fa che ripetere il fatto che si deve spiegare presentandolo una volta come fatto e una volta come legge astratta e come spiegazione. L'errore teorico consiste dunque nel dare un canone di ricerca e di interpretazione come «causa storica».

Intanto nel «rapporto di forza» occorre distinguere diversi momenti o gradi, che fondamentalmente sono questi:

1) Un rapporto di forze sociali strettamente legato alla struttura, obbiettivo, indipendente dalla volontà degli uomini, che può essere misurato coi sistemi delle scienze esatte o fisiche. Sulla base del grado di sviluppo delle forze materiali di produzione si hanno i raggruppamenti sociali, ognuno dei quali rappresenta una funzione e ha una posizione data nella produzione stessa. Questo rapporto è quello che è, una realtà ribelle: nessuno può modificare il numero delle aziende e dei suoi addetti, il numero delle città con la data popolazione urbana ecc. Questo schieramento fondamentale permette di studiare se nella società esistono le condizioni necessarie e sufficienti per una sua trasformazione, permette cioè di controllare il grado di realismo e di attuabilità delle diverse ideologie che sono nate nel suo stesso terreno, nel terreno delle contraddizioni che esso ha generato durante il suo sviluppo.

2) Un momento successivo è il rapporto delle forze politiche, cioè la valutazione del grado di omogeneità, di autocoscienza e di organizzazione raggiunto dai vari gruppi sociali. Questo momento può essere a sua volta analizzato e distinto in vari gradi, che corrispondono ai diversi momenti della coscienza politica collettiva, cosí come si sono manifestati finora nella storia. Il primo e piú elementare è quello economico-corporativo: un commerciante sente di dover essere solidale con un altro commerciante, un fabbricante con un altro fabbricante, ecc., ma il commerciante non si sente ancora solidale col fabbricante; è cioè sentita l'unità omogenea, e il dovere di organizzarla, del gruppo professionale, ma non ancora del gruppo sociale piú vasto. Un secondo momento è quello in cui si raggiunge la coscienza della solidarietà di interessi fra tutti i membri del gruppo sociale, ma ancora nel campo meramente economico. Già in questo momento si pone la quistione dello Stato, ma solo nel terreno di raggiungere una eguaglianza politico-giuridica coi gruppi dominanti, poiché si rivendica il diritto di partecipare alla legislazione e all'amministrazione e magari di modificarle, di riformarle, ma nei quadri fondamentali esistenti. Un terzo momento è quello in cui si raggiunge la coscienza che i propri interessi corporativi, nel loro sviluppo attuale e avvenire, superano la cerchia corporativa, di gruppo meramente economico, e possono e debbono divenire gli interessi di altri gruppi subordinati. Questa è la fase piú schiettamente politica, che segna il netto passaggio dalla struttura alla sfera delle superstrutture complesse, è la fase in cui le ideologie germinate precedentemente diventano «partito», vengono a confronto ed entrano in lotta fino a che una sola di esse o almeno una sola combinazione di esse, tende a prevalere, a imporsi, a diffondersi su tutta l'area sociale, determinando oltre che l'unicità dei fini economici e politici, anche l'unità intellettuale e morale, ponendo tutte le quistioni intorno a cui ferve la lotta non sul piano corporativo ma su un piano «universale» e creando cosí l'egemonia di un gruppo sociale fondamentale su una serie di gruppi subordinati. Lo Stato è concepito sí come organismo proprio di un gruppo, destinato a creare le condizioni favorevoli alla massima espansione del gruppo stesso, ma questo sviluppo e questa espansione sono concepiti e presentati come la forza motrice di una espansione universale, di uno sviluppo di tutte le energie «nazionali», cioè il gruppo dominante viene coordinato concretamente con gli interessi generali dei gruppi subordinati e la vita statale viene concepita come un continuo formarsi e superarsi di equilibri instabili (nell'ambito della legge) tra gli interessi del gruppo fondamentale e quelli dei gruppi subordinati, equilibri in cui gli interessi del gruppo dominante prevalgono ma fino a un certo punto, non cioè fino al gretto interesse economico-corporativo. Nella storia reale questi momenti si implicano reciprocamente, per cosí dire orizzontalmente e verticalmente, cioè secondo le attività economico-sociali (orizzontali) e secondo i territori (verticalmente), combinandosi e scindendosi variamente: ognuna di queste combinazioni può essere rappresentata da una propria espressione organizzata economica e politica. Ancora bisogna tener conto che a questi rapporti interni di uno Stato-nazione si intrecciano i rapporti internazionali, creando nuove combinazioni originali e storicamente concrete. Una ideologia, nata in un paese piú sviluppato, si diffonde in paesi meno sviluppati, incidendo nel gioco locale delle combinazioni. (La religione, per es., è sempre stata una fonte di tali combinazioni ideologico-politiche nazionali e internazionali, e con la religione le altre formazioni internazionali, la massoneria, il Rotary Club, gli ebrei, la diplomazia di carriera che suggeriscono espedienti politici di origine storica diversa e li fanno trionfare in determinati paesi, funzionando come partito politico internazionale che opera in ogni nazione con tutte le sue forze internazionali concentrate; ma religione, massoneria, Rotary, ebrei ecc., possono rientrare nella categoria sociale degli «intellettuali», la cui funzione, su scala internazionale, è quella di mediare gli estremi, di «socializzare» i ritrovati tecnici che fanno funzionare ogni attività di direzione, di escogitare compromessi e vie d'uscita tra le soluzioni estreme). Questo rapporto tra forze internazionali e forze nazionali è ancora complicato dall'esistenza nell'interno di ogni Stato di parecchie sezioni territoriali di diversa struttura e di diverso rapporto di forza in tutti i gradi (cosí la Vandea era alleata con le forze internazionali reazionarie e le rappresentava nel seno dell'unità territoriale francese; cosí Lione nella Rivoluzione Francese rappresentava un nodo particolare di rapporti ecc.).

3) Il terzo momento è quello del rapporto delle forze militari, immediatamente decisivo volta per volta. (Lo sviluppo storico oscilla continuamente tra il primo e il terzo momento, con la mediazione del secondo). Ma anche esso non è qualcosa di indistinto e di identificabile immediatamente in forma schematica; si possono anche in esso distinguere due gradi: quello militare in senso stretto o tecnico-militare e il grado che si può chiamare politico-militare. Nello sviluppo della storia questi due gradi si sono presentati in una grande varietà di combinazioni. Un esempio tipico che può servire come dimostrazione-limite, è quello del rapporto di oppressione militare di uno Stato su una nazione che cerca di raggiungere la sua indipendenza statale. Il rapporto non è puramente militare, ma politico-militare e infatti un tale tipo di oppressione sarebbe inspiegabile senza lo stato di disgregazione sociale del popolo oppresso e la passività della sua maggioranza; pertanto l'indipendenza non potrà essere raggiunta con forze puramente militari, ma militari e politico-militari. Se la nazione oppressa, infatti, per iniziare la lotta d'indipendenza, dovesse attendere che lo Stato egemone le permetta di organizzare un proprio esercito nel senso stretto e tecnico della parola, avrebbe da attendere un pezzo (può avvenire che la rivendicazione di avere un proprio esercito sia soddisfatta dalla nazione egemone, ma ciò significa che già una gran parte della lotta è stata combattuta e vinta sul terreno politico-militare). La nazione oppressa opporrà dunque inizialmente alla forza militare egemone una forza che è solo «politico-militare», cioè opporrà una forma di azione politica che abbia la virtú di determinare riflessi di carattere militare nel senso: 1) che abbia efficacia di disgregare intimamente l'efficienza bellica della nazione egemone; 2) che costringa la forza militare egemone a diluirsi e disperdersi in un grande territorio, annullandone gran parte dell'efficienza bellica. Nel Risorgimento italiano si può notare l'assenza disastrosa di una direzione politico-militare specialmente nel Partito d'Azione (per congenita incapacità), ma anche nel partito piemontese-moderato sia prima che dopo il 1848 non certo per incapacità ma per «maltusianismo economico-politico», cioè perché non si volle neanche accennare alla possibilità di una riforma agraria e perché non si voleva la convocazione di una assemblea nazionale costituente, ma si tendeva solo a che la monarchia piemontese, senza condizioni o limitazioni di origine popolare, si estendesse a tutta Italia, con la pura sanzione di plebisciti regionali.

Altra quistione connessa alle precedenti è quella di vedere se le crisi storiche fondamentali sono determinate immediatamente dalle crisi economiche. La risposta alla quistione è contenuta implicitamente nei paragrafi precedenti, dove [sono] trattate quistioni che sono un altro modo di presentare quella ora trattata, tuttavia è sempre necessario, per ragioni didattiche, dato il pubblico particolare, esaminare ogni modo di presentarsi di una stessa quistione come fosse un problema indipendente e nuovo. Si può escludere che, di per se stesse, le crisi economiche immediate producano eventi fondamentali; solo possono creare un terreno piú favorevole alla diffusione di certi modi di pensare, di impostare e risolvere le quistioni che coinvolgono tutto l'ulteriore sviluppo della vita statale. Del resto, tutte le affermazioni che riguardano i periodi di crisi o di prosperità possono dar luogo a giudizi unilaterali. Nel suo compendio di storia della Rivoluzione francese (ed. Colin) il Mathiez, opponendosi alla storia volgare tradizionale, che aprioristicamente «trova» una crisi in coincidenza con le grandi rotture di equilibri sociali, afferma che verso il 1789 la situazione economica era piuttosto buona immediatamente, per cui non si può dire che la catastrofe dello Stato assoluto sia dovuta a una crisi di immiserimento (cfr. l'affermazione esatta del Mathiez). Occorre osservare che lo Stato era in preda a una mortale crisi finanziaria e si poneva la quistione su quale dei tre ordini sociali privilegiati dovevano cadere i sacrifizi e i pesi per rimettere in sesto le finanze statali e regali. Inoltre: se la posizione economica della borghesia era florida, certamente non era buona la situazione delle classi popolari delle città e delle campagne, specialmente di queste, tormentate da miseria endemica. In ogni caso, la rottura dell'equilibrio delle forze non avvenne per cause meccaniche immediate di immiserimento del gruppo sociale che aveva interesse a rompere l'equilibrio e di fatto lo ruppe, ma avvenne nel quadro di conflitti superiori al mondo economico immediato, connessi al «prestigio» di classe (interessi economici avvenire), ad una esasperazione del sentimento di indipendenza, di autonomia e di potere. La quistione particolare del malessere o benessere economico come causa di nuove realtà storiche è un aspetto parziale della quistione dei rapporti di forza nei loro vari gradi. Possono prodursi novità sia perché una situazione di benessere è minacciata dal gretto egoismo di un gruppo avversario, come perché il malessere è diventato intollerabile e non si vede nella vecchia società nessuna forza che sia capace di mitigarlo e di ristabilire una normalità con mezzi legali. Si può dire pertanto che tutti questi elementi sono la manifestazione concreta delle fluttuazioni di congiuntura dell'insieme dei rapporti sociali di forza, nel cui terreno avviene il passaggio di questi a rapporti politici di forza per culminare nel rapporto militare decisivo. Se manca questo processo di sviluppo da un momento all'altro, ed esso è essenzialmente un processo che ha per attori gli uomini e la volontà e capacità degli uomini, la situazione rimane inoperosa, e possono darsi conclusioni contradditorie: la vecchia società resiste e si assicura un periodo di «respiro», sterminando fisicamente l'élite avversaria e terrorizzando le masse di riserva, oppure anche la distruzione reciproca delle forze in conflitto con l'instaurazione della pace dei cimiteri, magari sotto la vigilanza di una sentinella straniera.

Ma l'osservazione piú importante da fare a proposito di ogni analisi concreta dei rapporti di forza è questa: che tali analisi non possono e non debbono essere fine a se stesse (a meno che non si scriva un capitolo di storia del passato) ma acquistano un significato solo se servono a giustificare una attività pratica, una iniziativa di volontà. Esse mostrano quali sono i punti di minore resistenza, dove la forza della volontà può essere applicata piú fruttuosamente, suggeriscono le operazioni tattiche immediate, indicano come si può meglio impostare una campagna di agitazione politica, quale linguaggio sarà meglio compreso dalle moltitudini ecc. L'elemento decisivo di ogni situazione è la forza permanentemente organizzata e predisposta di lunga mano che si può fare avanzare quando si giudica che una situazione è favorevole (ed è favorevole solo in quanto una tale forza esista e sia piena di ardore combattivo); perciò il compito essenziale è quello di attendere sistematicamente e pazientemente a formare, sviluppare, rendere sempre piú omogenea, compatta, consapevole di se stessa questa forza. Ciò si vede nella storia militare e nella cura con cui in ogni tempo sono stati predisposti gli eserciti ad iniziare una guerra in qualsiasi momento. I grandi Stati sono stati grandi Stati appunto perché erano in ogni momento preparati a inserirsi efficacemente nelle congiunture internazionali favorevoli e queste erano tali perché c'era la possibilità concreta di inserirsi efficacemente in esse.

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Osservazioni su alcuni aspetti della struttura dei partiti politici nei periodi di crisi organica (da connettere con le note sulle situazioni e i rapporti di forza). A un certo punto della loro vita storica i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali, cioè i partiti tradizionali in quella data forma organizzativa, con quei determinati uomini che li costituiscono, li rappresentano e li dirigono non sono piú riconosciuti come loro espressione dalla loro classe o frazione di classe. Quando queste crisi si verificano, la situazione immediata diventa delicata e pericola, perché il campo è aperto alle soluzioni di forza, all'attività di potenze oscure rappresentate dagli uomini provvidenziali o carismatici. Come si formano queste situazioni di contrasto tra rappresentanti e rappresentati, che dal terreno dei partiti (organizzazioni di partito in senso stretto, campo elettorale-parlamentare, organizzazione giornalistica) si riflette in tutto l'organismo statale, rafforzando la posizione relativa del potere della burocrazia (civile e militare), dell'alta finanza, della Chiesa e in generale di tutti gli organismi relativamente indipendenti dalle fluttuazioni dell'opinione pubblica? In ogni paese il processo è diverso, sebbene il contenuto sia lo stesso. E il contenuto è la crisi di egemonia della classe dirigente, che avviene o perché la classe dirigente ha fallito in qualche sua grande impresa politica per cui ha domandato o imposto con la forza il consenso delle grandi masse (come la guerra) o perché vaste masse (specialmente di contadini e di piccoli borghesi intellettuali) sono passati di colpo dalla passività politica a una certa attività e pongono rivendicazioni che nel loro complesso disorganico costituiscono una rivoluzione. Si parla di «crisi di autorità» e ciò appunto è la crisi di egemonia, o crisi dello Stato nel suo complesso.

La crisi crea situazioni immediate pericolose, perché i diversi strati della popolazione non possiedono la stessa capacità di orientarsi rapidamente e di riorganizzarsi con lo stesso ritmo. La classe tradizionale dirigente, che ha un numeroso personale addestrato, muta uomini e programmi e riassorbe il controllo che le andava sfuggendo con una celerità maggiore di quanto avvenga nelle classi subalterne; fa magari dei sacrifizi, si espone a un avvenire oscuro con promesse demagogiche, ma mantiene il potere, lo rafforza per il momento e se ne serve per schiacciare l'avversario e disperderne il personale di direzione, che non può essere molto numeroso e molto addestrato. Il passaggio delle truppe di molti partiti sotto la bandiera di un partito unico che meglio rappresenta e riassume i bisogni dell'intera classe è un fenomeno organico e normale, anche se il suo ritmo sia rapidissimo e quasi fulmineo in confronto di tempi tranquilli: rappresenta la fusione di un intero gruppo sociale sotto un'unica direzione ritenuta sola capace di risolvere un problema dominante esistenziale e allontanare un pericolo mortale. Quando la crisi non trova questa soluzione organica, ma quella del capo carismatico, significa che esiste un equilibrio statico (i cui fattori possono essere disparati, ma in cui prevale l'immaturità delle forze progressive) che nessun gruppo, né quello conservativo né quello progressivo, ha la forza necessaria alla vittoria e che anche il gruppo conservativo ha bisogno di un padrone (cfr. Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte).

Questo ordine di fenomeni è connesso a una delle quistioni piú importanti che riguardano il partito politico, e cioè alla capacità del partito di reagire contro lo spirito di consuetudine, contro le tendenze a mummificarsi e a diventare anacronistico. I partiti nascono e si costituiscono in organizzazione per dirigere la situazione in momenti storicamente vitali per le loro classi; ma non sempre essi sanno adattarsi ai nuovi compiti e alle nuove epoche, non sempre sanno svilupparsi secondo che si sviluppano i rapporti complessivi di forza (e quindi posizione relativa delle loro classi) nel paese determinato o nel campo internazionale. Nell'analizzare questi sviluppi dei partiti occorre distinguere: il gruppo sociale; la massa di partito; la burocrazia e lo stato maggiore del partito. La burocrazia è la forza consuetudinaria e conservatrice piú pericolosa; se essa finisce col costituire un corpo solidale, che sta a sé e si sente indipendente dalla massa, il partito finisce col diventare anacronistico, e nei momenti di crisi acuta viene svuotato del suo contenuto sociale e rimane come campato in aria. Si può vedere cosa avviene a una serie di partiti tedeschi per l'espansione dell'hitlerismo. I partiti francesi sono un campo ricco per tali ricerche: essi sono tutti mummificati e anacronistici, documenti storico-politici delle diverse fasi della storia passata francese, di cui ripetono la terminologia invecchiata: la loro crisi può diventare ancora piú catastrofica di quella dei partiti tedeschi.

Nell'esaminare questo ordine di avvenimenti di solito si trascura di fare un giusto posto all'elemento burocratico, civile e militare, e non si tiene presente, inoltre, che in tali analisi non devono rientrare solo gli elementi militari e burocratici in atto, ma gli strati sociali da cui, nei complessi statali dati, la burocrazia è tradizionalmente reclutata. Un movimento politico può essere di carattere militare anche se l'esercito come tale non vi partecipa apertamente; un governo può essere di carattere militare anche se l'esercito come tale non partecipa al governo. In determinate situazioni può avvenire che convenga non «scoprire» l'esercito, non farlo uscire dalla costituzionalità, non portare la politica tra i soldati, come si dice, per mantenere l'omogeneità tra ufficiali e soldati in un terreno di apparente neutralità e superiorità sulle fazioni: eppure è l'esercito, cioè lo Stato Maggiore e l'ufficialità, che determina la nuova situazione e la domina. D'altronde non è vero che l'esercito, secondo le costituzioni, non deve mai fare della politica; l'esercito dovrebbe appunto difendere la costituzione, cioè la forma legale dello Stato, con le istituzioni connesse; perciò la cosí detta neutralità significa solo appoggio alla parte retriva, ma occorre, in tali situazioni, porre cosí la quistione per impedire che nell'esercito si riproduca il dissenso del paese e quindi sparisca il potere determinante dello Stato Maggiore per la disgregazione dello strumento militare. Tutti questi elementi di osservazione non sono certo assoluti, nei diversi momenti storici e nei vari paesi essi hanno pesi molto diversi.

La prima ricerca da fare è questa: esiste in un determinato paese uno strato sociale diffuso per il quale la carriera burocratica, civile e militare, sia elemento molto importante di vita economica e di affermazione politica (partecipazione effettiva al potere, sia pure indirettamente, per «ricatto»)? Nell'Europa moderna questo strato si può identificare nella borghesia rurale media e piccola che è piú o meno diffusa nei diversi paesi a seconda dello sviluppo delle forze industriali da una parte e della riforma agraria dall'altra. Certo la carriera burocratica (civile e militare) non è un monopolio di questo strato sociale, tuttavia essa gli è particolarmente adatta per la funzione sociale che questo strato svolge e per le tendenze psicologiche che la funzione determina o favorisce, questi due elementi danno all'insieme del gruppo sociale una certa omogeneità ed energia di direttive, e quindi un valore politico e una funzione spesso decisiva nell'insieme dell'organismo sociale. Gli elementi di questo gruppo sono abituati a comandare direttamente nuclei di uomini sia pure esigui e a comandare «politicamente», non «economicamente»; cioè nella loro arte di comando non c'è attitudine a ordinare le «cose», a ordinare «uomini e cose» in un tutto organico, come avviene nella produzione industriale, perché questo gruppo non ha funzioni economiche nel senso moderno della parola. Esso ha un reddito perché giuridicamente è proprietario di una parte del suolo nazionale e la sua funzione consiste nel contendere «politicamente» al contadino coltivatore di migliorare la propria esistenza, perché ogni miglioramento della posizione relativa del contadino sarebbe catastrofica per la sua posizione sociale. La miseria cronica e il lavoro prolungato del contadino, col conseguente abbrutimento, sono per esso una necessità primordiale. Perciò spiega la massima energia nella resistenza e nel contrattacco a ogni minimo tentativo di organizzazione autonoma del lavoro contadino e a ogni movimento culturale contadino che esca dai limiti della religione ufficiale. Questo gruppo sociale trova i suoi limiti e le ragioni della sua intima debolezza nella sua dispersione territoriale e nella «inomogeneità» che è intimamente connessa a tale dispersione; ciò spiega anche altre caratteristiche: la volubilità, la molteplicità dei sistemi ideologici seguiti, la stessa stranezza delle ideologie talvolta seguite. La volontà è decisa verso un fine, ma essa è tarda e ha bisogno, di solito, di un lungo processo per centralizzarsi organizzativamente e politicamente. Il processo si accelera quando la «volontà» specifica di questo gruppo coincide con la volontà e gli interessi immediati della classe alta; non solo il processo si accelera, ma si manifesta subito la «forza militare» di questo strato, che talvolta, organizzatosi, detta legge alla classe alta, almeno per ciò che riguarda la «forma» della soluzione se non per il contenuto. Si vedono qui funzionare le stesse leggi che sono state notate per i rapporti città-campagna nei riguardi delle classi subalterne: la forza della città automaticamente diventa forza della campagna, ma poiché in campagna i conflitti assumono subito una forma acuta e «personale», per l'assenza di margini economici e per la normalmente piú pesante compressione esercitata dall'alto in basso, cosí in campagna i contrattacchi devono essere piú rapidi e decisi. Questo gruppo capisce e vede che l'origine dei suoi guai è nelle città, nella forza delle città e perciò capisce di «dover» dettare la soluzione alle classi alte urbane, affinché il focolaio principale sia spento, anche se ciò alle classi alte urbane non conviene immediatamente o perché troppo dispendioso o perché pericoloso a lungo andare (queste classi vedono cicli piú ampi di sviluppo, in cui è possibile manovrare e non solo l'interesse «fisico» immediato). In questo senso deve intendersi la funzione direttiva di questo strato e non in senso assoluto; tuttavia non è piccola cosa.

Un riflesso di questo gruppo si vede nell'attività ideologica degli intellettuali conservatori, di destra. Il libro di Gaetano Mosca Teorica dei governi e governo parlamentare (II ed. del 1925, I ed. del 1883) è esemplare per questo rispetto; fin dal 1883 il Mosca era terrorizzato da un possibile contatto tra città e campagna. Il Mosca, per la sua posizione difensiva (di contrattacco) comprendeva meglio nel 1883 la tecnica della politica delle classi subalterne di quanto non la comprendessero, anche parecchi decenni dopo, i rappresentanti di queste forze subalterne anche urbane.

(È da notare come questo carattere «militare» del gruppo sociale in quistione, che era tradizionalmente un riflesso spontaneo di certe condizioni di esistenza, viene ora consapevolmente educato e predisposto organicamente. In questo movimento consapevole rientrano gli sforzi sistematici per far sorgere e per mantenere stabilmente associazioni varie di militari in congedo e di ex-combattenti dei vari corpi ed armi, specialmente di ufficiali, che sono legate agli Stati Maggiori e possono essere mobilitate all'occorrenza senza bisogno di mobilitare l'esercito di leva, che manterrebbe cosí il suo carattere di riserva allarmata, rafforzata e immunizzata dalla decomposizione politica da queste forze «private» che non potranno non influire sul suo «morale», sostenendolo e irrobustendolo. Si può dire che si verifica un movimento del tipo «cosacco», non in formazioni scaglionate lungo i confini di nazionalità, come avveniva per i cosacchi zaristi, ma lungo i «confini» di gruppo sociale).

In tutta una serie di paesi, pertanto, influenza dell'elemento militare nella vita statale non significa solo influenza e peso dell'elemento tecnico militare, ma influenza e peso dello strato sociale da cui l'elemento tecnico militare (specialmente gli ufficiali subalterni) trae specialmente origine. Questa serie di osservazioni sono indispensabili per analizzare l'aspetto piú intimo di quella determinata forma politica che si suole chiamare cesarismo o bonapartismo, per distinguerla da altre forme in cui l'elemento tecnico militare, come tale, predomina, in forme forse ancor piú appariscenti ed esclusive. La Spagna e la Grecia offrono due esempi tipici, con tratti simili e dissimili. Nella Spagna occorre tener conto di alcuni particolari: grandezza e scarsa densità della popolazione contadina. Tra il nobile latifondista e il contadino non esiste una numerosa borghesia rurale, quindi scarsa importanza dell'ufficialità subalterna come forza a sé (aveva invece una certa importanza antagonistica l'ufficialità delle armi dotte, artiglieria e genio, di origine borghese urbana, che si opponeva ai generali e tentava di avere una politica propria). I governi militari sono pertanto governi di «grandi» generali. Passività delle masse contadine come cittadinanza e come truppa. Se nell'esercito si verifica disgregazione politica, è in senso verticale, non orizzontale, per la concorrenza delle cricche dirigenti: la truppa si scinde per seguire i capi in lotta tra loro. Il governo militare è una parentesi tra due governi costituzionali; l'elemento militare è la riserva permanente dell'ordine e della conservazione, è una forza politica operante in «modo pubblico» quando la «legalità» è in pericolo. Lo stesso avviene in Grecia con la differenza che il territorio greco è sparpagliato in un sistema di isole e che una parte della popolazione piú energica e attiva è sempre sul mare, ciò che rende piú facile l'intrigo e il complotto militare; il contadino greco è passivo come quello spagnuolo, ma nel quadro della popolazione totale, il greco piú energico ed attivo essendo marinaio e quasi sempre lontano dal suo centro di vita politica, la passività generale deve essere analizzata diversamente e la soluzione del problema non può essere la stessa (le fucilazioni avvenute in Grecia anni fa dei membri di un governo rovesciato, probabilmente sono da spiegarsi con uno scatto di collera di questo elemento energico e attivo che volle dare una sanguinosa lezione). Ciò che è specialmente da osservare è che in Grecia e in Ispagna l'esperienza del governo militare non ha creato una ideologia politica e sociale permanente e formalmente organica, come avviene invece nei paesi potenzialmente bonapartisti per cosí dire. Ma le condizioni storiche generali dei due tipi sono le stesse: equilibrio dei gruppi urbani in lotta, che impedisce il gioco della democrazia «normale», il parlamentarismo; è diverso però l'influsso della campagna in questo equilibrio. Nei paesi come la Spagna, la campagna, completamente passiva, permette ai generali della nobiltà terriera di servirsi politicamente dell'esercito per ristabilire l'equilibrio pericolante, cioè il sopravvento dei gruppi alti. In altri paesi la campagna non è passiva, ma il suo movimento non è politicamente coordinato a quello urbano: l'esercito deve rimanere neutrale poiché è possibile che altrimenti esso si disgreghi orizzontalmente (rimarrà neutrale fino ad un certo punto, s'intende), ed entra invece in azione la classe militare-burocratica che con mezzi militari soffoca il movimento in campagna (immediatamente piú pericoloso), in questa lotta trova una certa unificazione politica e ideologica, trova alleati nelle classi medie urbane (medie in senso italiano) rafforzate dagli studenti di origine rurale che stanno in città, impone i suoi metodi politici alle classi alte, che devono farle molte concessioni e permettere una determinata legislazione favorevole; insomma riesce a permeare lo Stato dei suoi interessi fino ad un certo punto e a sostituire una parte del personale dirigente, continuando a mantenersi armata nel disarmo generale e prospettando il pericolo di una guerra civile tra i propri armati e l'esercito di leva se la classe alta mostra troppe velleità di resistenza.

Queste osservazioni non devono essere concepite come schemi rigidi, ma solo come criteri pratici di interpretazione storica e politica. Nelle concrete analisi di avvenimenti reali le forme storiche sono individuate e quasi «uniche». Cesare rappresenta una combinazione di circostanze reali molto diversa da quella rappresentata da Napoleone I, come Primo De Rivera da quella di Zivkovic ecc.

Nell'analisi del terzo grado o momento del sistema dei rapporti di forza esistenti in una determinata situazione, si può ricorrere utilmente al concetto che nella scienza militare è chiamato della «congiuntura strategica» ossia, con piú precisione, del grado di preparazione strategica del teatro della lotta, uno dei cui principali elementi è dato dalle condizioni qualitative del personale dirigente e delle forze attive che si possono chiamare di prima linea (comprese in queste quelle d'assalto). Il grado di preparazione strategica può dare la vittoria a forze «apparentemente» (cioè quantitativamente) inferiori a quelle dell'avversario. Si può dire che la preparazione strategica tende a ridurre a zero i cosí detti «fattori imponderabili», cioè le reazioni immediate, di sorpresa, da parte, in un momento dato, delle forze tradizionalmente inerti e passive. Tra gli elementi della preparazione di una favorevole congiuntura strategica sono da porre appunto quelli considerati nelle osservazioni su l'esistenza e l'organizzazione di un ceto militare accanto all'organismo tecnico dell'esercito nazionale.

Altri elementi si possono elaborare da questo brano del discorso tenuto al Senato il 19 maggio 1932 dal ministro della guerra generale Gazzera (cfr. «Corriere della Sera» del 20 maggio): «Il regime di disciplina del nostro Esercito per virtú del Fascismo appare oggi una norma direttiva che ha valore per tutta la Nazione. Altri eserciti hanno avuto e tuttora conservano una disciplina formale e rigida. Noi teniamo sempre presente il principio che l'Esercito è fatto per la guerra e che a quella deve prepararsi; la disciplina di pace deve essere quindi la stessa del tempo di guerra, che nel tempo di pace deve trovare il suo fondamento spirituale. La nostra disciplina si basa su uno spirito di coesione tra i capi e i gregari che è frutto spontaneo del sistema seguito. Questo sistema ha resistito magnificamente durante una lunga e durissima guerra fino alla vittoria; è merito del Regime fascista di avere esteso a tutto il popolo italiano una tradizione disciplinare cosí insigne. Dalla disciplina dei singoli dipende l'esito della concezione strategica e delle operazioni tattiche. La guerra ha insegnato molte cose, e anche che vi è un distacco profondo tra la preparazione di pace e la realtà della guerra. Certo è che, qualunque sia la preparazione, le operazioni iniziali della campagna pongono i belligeranti innanzi a problemi nuovi che danno luogo a sorprese da una parte e dall'altra. Non bisogna trarne però la conseguenza che non sia utile avere una concezione a priori e che nessun insegnamento possa derivarsi dalla guerra passata. Se ne può ricavare una dottrina di guerra che deve essere intesa con disciplina intellettuale e come mezzo per promuovere modi di ragionamento non discordi e uniformità di linguaggio tale da permettere a tutti di comprendere e di farsi comprendere. Se, talvolta, l'unità di dottrina ha minacciato di degenerare in schematismo, si è subito reagito prontamente, imprimendo alla tattica, anche per i progressi della tecnica, una rapida rinnovazione. Tale regolamentazione quindi non è statica, non è tradizionale, come taluno crede. La tradizione è considerata solo come forza e i regolamenti sono sempre in corso di revisione non per desiderio di cambiamento, ma per poterli adeguare alla realtà». (Una esemplificazione di «preparazione della congiuntura strategica» si può trovare nelle Memorie di Churchill, dove parla della battaglia dello Yutland).

(A proposito del «ceto militare» è interessante ciò che scrive T. Tittoni nei Ricordi personali di politica interna, «Nuova Antologia», 1° aprile - 16 aprile 1929. Racconta il Tittoni di aver meditato sul fatto che per riunire la forza pubblica necessaria a fronteggiare i tumulti scoppiati in una località, occorreva sguarnire altre regioni: durante la settimana rossa del giugno 1914, per reprimere i moti di Ancona si era sguarnita Ravenna, dove poi il prefetto, privato della forza pubblica, dovette chiudersi nella Prefettura abbandonando la città ai rivoltosi. «Piú volte io ebbi a domandarmi, che cosa avrebbe potuto fare il Governo se un movimento di rivolta fosse scoppiato contemporaneamente in tutta la penisola». Tittoni propose al Governo l'arruolamento dei «volontari dell'ordine », ex-combattenti inquadrati da ufficiali in congedo. Il progetto di Tittoni parve degno di considerazione, ma non ebbe seguito).

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Il cesarismo. Cesare, Napoleone I, Napoleone III, Cromwell, ecc. Compilare un catalogo degli eventi storici che hanno culminato in una grande personalità «eroica». Si può dire che il cesarismo esprime una situazione in cui le forze in lotta si equilibrano in modo catastrofico, cioè si equilibrano in modo che la continuazione della lotta non può concludersi che con la distruzione reciproca. Quando la forza progressiva A lotta con la forza regressiva B, può avvenire non solo che A vinca B o B vinca A, può avvenire anche che non vinca né A né B, ma si svenino reciprocamente e una terza forza C intervenga dall'esterno assoggettando ciò che resta di A e di B. Nell'Italia dopo la morte del Magnifico è appunto successo questo, come era successo nel mondo antico con le invasioni barbariche.

Ma il cesarismo, se esprime sempre la soluzione «arbitrale», affidata a una grande personalità, di una situazione storico-politica caratterizzata da un equilibrio di forze a prospettiva catastrofica, non ha sempre lo stesso significato storico. Ci può essere un cesarismo progressivo e uno regressivo e il significato esatto di ogni forma di cesarismo, in ultima analisi, può essere ricostruito dalla storia concreta e non da uno schema sociologico. È progressivo il cesarismo, quando il suo intervento aiuta la forza progressiva a trionfare sia pure con certi compromessi e temperamenti limitativi della vittoria; è regressivo quando il suo intervento aiuta a trionfare la forza regressiva, anche in questo caso con certi compromessi e limitazioni, che però hanno un valore, una portata e un significato diversi che non nel caso precedente. Cesare e Napoleone I sono esempi di cesarismo progressivo. Napoleone III e Bismark di cesarismo regressivo. Si tratta di vedere se nella dialettica «rivoluzione-restaurazione» è l'elemento rivoluzione o quello restaurazione che prevale, poiché è certo che nel movimento storico non si torna mai indietro e non esistono restaurazioni «in toto». Del resto il cesarismo è una formula polemica-ideologica e non un canone di interpretazione storica. Si può avere soluzione cesarista anche senza un Cesare, senza una grande personalità «eroica» e rappresentativa. Il sistema parlamentare ha dato anch'esso un meccanismo per tali soluzioni di compromesso. I governi «laburisti» di Mac Donald erano soluzioni di tale specie in un certo grado, il grado di cesarismo si intensificò quando fu formato il governo con Mac Donald presidente e la maggioranza conservatrice. Cosí in Italia nell'ottobre 1922, fino al distacco dei popolari e poi gradatamente fino al 3 gennaio 1925 e ancora fino all'8 novembre 1926 si ebbe un moto politico-storico in cui diverse gradazioni di cesarismo si succedettero fino a una forma piú pura e permanente, sebbene anch'essa non immobile e statica. Ogni governo di coalizione è un grado iniziale di cesarismo, che può e non può svilupparsi fino ai gradi piú significativi (naturalmente l'opinione volgare è invece che i governi di coalizione siano il piú «solido baluardo» contro il cesarismo).

Nel mondo moderno, con le sue grandi coalizioni di carattere economico-sindacale e politico di partito, il meccanismo del fenomeno cesarista è molto diverso da quello che fu fino a Napoleone III. Nel periodo fino a Napoleone III le forze militari regolari o di linea erano un elemento decisivo per l'avvento del cesarismo, che si verificava con colpi di Stato ben precisi, con azioni militari ecc. Nel mondo moderno, le forze sindacali e politiche, coi mezzi finanziari incalcolabili di cui possono disporre piccoli gruppi di cittadini, complicano il problema. I funzionari dei partiti e dei sindacati economici possono essere corrotti o terrorizzati, senza bisogno di azione militare in grande stile, tipo Cesare o 18 brumaio. Si riproduce in questo campo la stessa situazione esaminata a proposito della formula giacobina-quarantottesca della cosí detta «rivoluzione permanente». La tecnica politica moderna è completamente mutata dopo il '48, dopo l'espansione del parlamentarismo, del regime associativo sindacale e di partito, del formarsi di vaste burocrazie statali e «private» (politico-private, di partiti e sindacali) e le trasformazioni avvenute nell'organizzazione della polizia in senso largo, cioè non solo del servizio statale destinato alla repressione della delinquenza, ma dell'insieme delle forze organizzate dallo Stato e dai privati per tutelare il dominio politico ed economico delle classi dirigenti. In questo senso, interi partiti «politici» e altre organizzazioni economiche o di altro genere devono essere considerati organismi di polizia politica, di carattere investigativo e preventivo.

Lo schema generico delle forze A e B in lotta con prospettiva catastrofica, cioè con la prospettiva che non vinca né A né B nella lotta per costituire (o ricostituire) un equilibrio organico, da cui nasce (può nascere) il cesarismo, è appunto un'ipotesi generica, uno schema sociologico (di comodo per l'arte politica). L'ipotesi può essere resa sempre piú concreta, portata a un grado sempre maggiore di approssimazione alla realtà storica concreta e ciò può ottenersi precisando alcuni elementi fondamentali. Cosí, parlando di A e di B si è solo detto che esse sono una forza genericamente progressiva e una forza genericamente regressiva: si può precisare di quale tipo di forze progressive e regressive si tratta e ottenere cosí maggiori approssimazioni. Nel caso di Cesare e di Napoleone I si può dire che A e B, pur essendo distinte e contrastanti, non erano però tali da non poter venire «assolutamente» ad una fusione ed assimilazione reciproca dopo un processo molecolare, ciò che infatti avvenne, almeno in una certa misura (sufficiente tuttavia ai fini storico-politici della cessazione della lotta organica fondamentale e quindi del superamento della fase catastrofica). Questo è un elemento di maggiore approssimazione. Un altro elemento è il seguente: la fase catastrofica può emergere per una deficienza politica «momentanea» della forza dominante tradizionale e non già per una deficienza organica necessariamente insuperabile. Ciò si è verificato nel caso di Napoleone III. La forza dominante in Francia dal 1815 al 1848 si era scissa politicamente (faziosamente) in quattro frazioni: quella legittimista, quella orleanista, quella bonapartista, quella giacobino-repubblicana. Le lotte interne di fazione erano tali da rendere possibile l'avanzata della forza antagonista B (progressista) in forma «precoce»; tuttavia la forma sociale esistente non aveva ancora esaurito le sue possibilità di sviluppo, come la storia successiva dimostrò abbondantemente. Napoleone III rappresentò (a suo modo, secondo la statura dell'uomo, che non era grande) queste possibilità latenti e immanenti: il suo cesarismo dunque ha un colore particolare. È obbiettivamente progressivo sebbene non come quello di Cesare e di Napoleone I. Il cesarismo di Cesare e di Napoleone I è stato, per cosí dire, di carattere quantitativo-qualitativo, ha cioè rappresentato la fase storica di passaggio da un tipo di Stato a un altro tipo, un passaggio in cui le innovazioni furono tante e tali da rappresentare un completo rivolgimento. Il cesarismo di Napoleone III fu solo e limitatamente quantitativo, non ci fu passaggio da un tipo di Stato ad un altro tipo, ma solo «evoluzione» dello stesso tipo, secondo una linea ininterrotta.

Nel mondo moderno i fenomeni di cesarismo sono del tutto diversi, sia da quelli del tipo progressivo Cesare-Napoleone I, come anche da quelli del tipo Napoleone III, sebbene si avvicinino a quest'ultimo. Nel mondo moderno l'equilibrio a prospettive catastrofiche non si verifica tra forze che in ultima analisi potrebbero fondersi e unificarsi, sia pure dopo un processo faticoso e sanguinoso, ma tra forze il cui contrasto è insanabile storicamente e anzi si approfondisce specialmente coll'avvento di forme cesaree. Tuttavia il cesarismo ha anche nel mondo moderno un certo margine, piú o meno grande, a seconda dei paesi e del loro peso relativo nella struttura mondiale, perché una forma sociale ha «sempre» possibilità marginali di ulteriore sviluppo e sistemazione organizzativa e specialmente può contare sulla debolezza relativa della forza progressiva antagonistica, per la natura e il modo di vita peculiare di essa, debolezza che occorre mantenere: perciò si è detto che il cesarismo moderno piú che militare è poliziesco.

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Cesarismo ed equilibrio «catastrofico» delle forze politico-sociali. Sarebbe un errore di metodo (un aspetto del meccanicismo sociologico) ritenere che, nei fenomeni di cesarismo, sia progressivo, sia regressivo, sia di carattere intermedio episodico, tutto il nuovo fenomeno storico sia dovuto all'equilibrio delle forze «fondamentali»; occorre anche vedere i rapporti che intercorrono tra i gruppi principali (di vario genere, sociale-economico e tecnico-economico) delle classi fondamentali e le forze ausiliarie guidate o sottoposte all'influenza egemonica. Cosí non si comprenderebbe il colpo di Stato del 2 dicembre senza studiare la funzione dei gruppi militari e dei contadini francesi.

Un episodio storico molto importante da questo punto di vista è il cosí detto movimento per l'affare Dreyfus in Francia; anche esso rientra in questa serie di osservazioni non perché abbia portato al «cesarismo», anzi proprio per il contrario, perché ha impedito l'avvento di un cesarismo che si stava preparando, di carattere nettamente reazionario. Tuttavia il movimento Dreyfus è caratteristico perché sono elementi dello stesso blocco sociale dominante che sventano il cesarismo della parte piú reazionaria del blocco stesso, appoggiandosi non ai contadini, alla campagna, ma agli elementi subordinati della città guidati dal riformismo socialista (però anche alla parte piú avanzata del contadiname). Del tipo Dreyfus troviamo altri movimenti storico-politici moderni, che non sono certo rivoluzioni, ma non sono completamente reazioni, nel senso almeno che anche nel campo dominante spezzano cristallizzazioni statali soffocanti, e immettono nella vita dello Stato e nelle attività sociali un personale diverso e piú numeroso di quello precedente: anche questi movimenti possono avere un contenuto relativamente «progressivo» in quanto indicano che nella vecchia società erano latenti forze operose non sapute sfruttare dai vecchi dirigenti, sia pure «forze marginali», ma non assolutamente progressive, in quanto non possono «fare epoca». Sono rese storicamente efficienti dalla debolezza costruttiva dell'antagonista, non da una intima forza propria, e quindi sono legate a una situazione determinata di equilibrio delle forze in lotta, ambedue incapaci nel proprio campo a esprimere una volontà ricostruttiva in proprio.

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Lotta politica e guerra militare. Nella guerra militare, raggiunto il fine strategico, distruzione dell'esercito nemico e occupazione del suo territorio, si ha la pace. È inoltre da osservare che perché la guerra finisca, basta che il fine strategico sia raggiunto solo potenzialmente: basta cioè che non ci sia dubbio che un esercito non può piú combattere e che l'esercito vittorioso «può» occupare il territorio nemico. La lotta politica è enormemente piú complessa: in un certo senso può essere paragonata alle guerre coloniali o alle vecchie guerre di conquista, quando cioè l'esercito vittorioso occupa o si propone di occupare stabilmente tutto o una parte del territorio conquistato. Allora l'esercito vinto viene disarmato e disperso, ma la lotta continua nel terreno politico e di «preparazione» militare. Cosí la lotta politica dell'India contro gli Inglesi (e in una certa misura della Germania contro la Francia o dell'Ungheria contro la Piccola Intesa) conosce tre forme di guerre: di movimento, di posizione e sotterranea. La resistenza passiva di Gandhi è una guerra di posizione, che diventa guerra di movimento in certi momenti e in altri guerra sotterranea: il boicottaggio è guerra di posizione, gli scioperi sono guerra di movimento, la preparazione clandestina di armi e di elementi combattivi d'assalto è guerra sotterranea. C'è una forma di arditismo, ma essa è impiegata con molta ponderazione. Se gli Inglesi avessero la convinzione che si prepara un grande movimento insurrezionale destinato ad annientare l'attuale loro superiorità strategica (che consiste in un certo senso nella loro possibilità di manovrare per linee interne e di concentrare le loro forze nel punto «sporadicamente» piú pericoloso) col soffocamento di massa, cioè costringendoli a diluire le forze in un teatro bellico divenuto simultaneamente generale, ad essi converrebbe provocare l'uscita prematura delle forze combattenti indiane per identificarle e decapitare il movimento generale. Cosí alla Francia converrebbe che la destra nazionalista tedesca fosse coinvolta in un colpo di stato avventuroso, che costringerebbe l'organizzazione militare illegale sospettata a manifestarsi prematuramente, permettendo un intervento, tempestivo dal punto di vista francese. Ecco che in queste forme di lotta miste, a carattere militare fondamentale e a carattere politico preponderante (ma ogni lotta politica ha sempre un sostrato militare), l'impiego degli arditi domanda uno sviluppo tattico originale, alla concezione del quale l'esperienza di guerra può dare solo uno stimolo, non un modello.

Una trattazione a parte deve avere la quistione dei «comitagi» balcanici, che sono legati a particolari condizioni dell'ambiente fisico-geografico regionale, alla formazione delle classi rurali e anche all'efficienza reale dei governi. Cosí è delle bande irlandesi, la cui forma di guerra e di organizzazione era legata alla struttura sociale irlandese. I comitagi, gli irlandesi, e le altre forme di guerra da partigiani devono essere staccate dalla quistione dell'arditismo, sebbene paiano avere con esso punti di contatto. Queste forme di lotta sono proprie di minoranze deboli ma esasperate contro maggioranze bene organizzate: mentre l'arditismo moderno presuppone una grande riserva, immobilizzata per varie ragioni, ma potenzialmente efficiente, che lo sostiene e lo alimenta con apporti individuali.

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Arte militare e arte politica. Ancora degli arditi. I rapporti che esistettero nel '17-18 tra le formazioni di arditi e l'esercito nel *
suo complesso possono portare ed hanno portato già i dirigenti politici ad erronee impostazioni di piani di lotta. Si dimentica: 1°) che gli arditi sono semplici formazioni tattiche e presuppongono sí un esercito poco efficiente, ma non completamente inerte: perché se la disciplina e lo spirito militare si sono allentati fino a consigliare una nuova disposizione tattica, essi esistono ancora in una certa misura, cui appunto corrisponde la nuova formazione tattica; altrimenti ci sarebbe stata, senz'altro, la disfatta e la fuga; 2°) che non bisogna considerare l'arditismo come un segno della combattività generale della massa militare, ma viceversa, come un segno della sua passività e della sua relativa demoralizzazione.

Ciò sia detto mantenendo implicito il criterio generale che i paragoni tra l'arte militare e la politica sono sempre da stabilire cum grano salis, cioè solo come stimoli al pensiero e come termini semplificativi ad absurdum: infatti nella milizia politica manca la sanzione penale implacabile per chi sbaglia o non obbedisce esattamente, manca il giudizio marziale, oltre al fatto che lo schieramento politico non è neanche lontanamente paragonabile allo schieramento militare. Nella lotta politica oltre alla guerra di movimento e alla guerra d'assedio o di posizione, esistono altre forme. Il vero arditismo, cioè l'arditismo moderno, è proprio della guerra di posizione, cosí come si è rivelata nel '14-18. Anche la guerra di movimento e la guerra d'assedio dei periodi precedenti avevano i loro arditi, in un certo senso: la cavalleria leggera e pesante, i bersaglieri ecc., le armi celeri in generale avevano in parte una funzione di arditi; cosí nell'arte di organizzare le pattuglie era contenuto il germe dell'arditismo moderno. Nella guerra d'assedio piú che nella guerra di movimento era contenuto questo germe: servizio di pattuglie piú estese e specialmente arte di organizzare sortite improvvise e improvvisi assalti con elementi scelti.

Un altro elemento da tener presente è questo: che nella lotta politica non bisogna scimiottare i metodi di lotta delle classi dominanti, senza cadere in facili imboscate. Nelle lotte attuali questo fenomeno si verifica spesso: una organizzazione statale indebolita è come un esercito infiacchito: entrano in campo gli arditi, cioè le organizzazioni armate private, che hanno due compiti: usare l'illegalità, mentre lo Stato sembra rimanere nella legalità, come mezzo di riorganizzare lo Stato stesso. Credere che alla attività privata illegale si possa contrapporre un'altra attività simile, cioè combattere l'arditismo con l'arditismo è una cosa sciocca; vuol dire credere che lo Stato rimanga eternamente inerte, ciò che non avviene mai, a parte le altre condizioni diverse. Il carattere di classe porta a una differenza fondamentale: una classe che deve lavorare ogni giorno a orario fisso non può avere organizzazioni d'assalto permanenti e specializzate, come una classe che ha ampie disponibilità finanziarie e non è legata, in tutti i suoi membri, a un lavoro fisso. In qualsiasi ora del giorno e della notte, queste organizzazioni, divenute professionali, possono vibrare colpi decisivi e cogliere alla sprovvista. La tattica degli arditi non può avere dunque per certe classi la stessa importanza che per altre; a certe classi è necessaria, perché propria, la guerra di movimento e di manovra, che nel caso della lotta politica, può combinare un utile e forse indispensabile uso della tattica da arditi. Ma fissarsi nel modello militare è da sciocchi: la politica deve, anche qui, essere superiore alla parte militare e solo la politica crea la possibilità della manovra e del movimento.

Da tutto ciò che si è detto risulta che nel fenomeno dell'arditismo militare, occorre distinguere tra funzione tecnica di arma speciale legata alla moderna guerra di posizione e funzione politico-militare: come funzione di arma speciale l'arditismo si è avuto in tutti gli eserciti della guerra mondiale; come funzione politico-militare si è avuta nei paesi politicamente non omogenei e indeboliti, quindi aventi come espressione un esercito nazionale poco combattivo e uno stato maggiore burocratizzato e fossilizzato nella carriera.

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A proposito dei confronti tra i concetti di guerra manovrata e guerra di posizione nell'arte militare e i concetti relativi nell'arte politica è da ricordare il libretto della Rosa tradotto in italiano nel 1919 da C. Alessandri (tradotto dal francese). Nel libretto si teorizzano un po' affrettatamente e anche superficialmente le esperienze storiche del 1905: la Rosa infatti trascurò gli elementi «volontari» e organizzativi che in quegli avvenimenti furono molto piú diffusi ed efficienti di quanto la Rosa fosse portata a credere per un certo suo pregiudizio «economistico» e spontaneista. Tuttavia questo libretto (e altri saggi dello stesso autore) è uno dei documenti piú significativi della teorizzazione della guerra manovrata applicata all'arte politica. L'elemento economico immediato (crisi, ecc.) è considerato come l'artiglieria campale che in guerra apriva il varco nella difesa nemica, varco sufficiente perché le proprie truppe facciano irruzione e ottengano un successo definitivo (strategico) o almeno un successo importante nella direttrice della linea strategica. Naturalmente nella scienza storica l'efficacia dell'elemento economico immediato è ritenuta molto piú complessa di quella dell'artiglieria pesante nella guerra di manovra, perché questo elemento era concepito come avente un doppio effetto: 1) di aprire il varco nella difesa nemica dopo aver scompaginato e fatto perdere la fiducia in sé e nelle sue forze e nel suo avvenire al nemico stesso; 2) di organizzare fulmineamente le proprie truppe, di creare i quadri, o almeno di porre i quadri esistenti (elaborati fino allora dal processo storico generale) fulmineamente al loro posto di inquadramento delle truppe disseminate; 3) di creare fulmineamente la concentrazione ideologica dell'identità di fine da raggiungere. Era una forma di ferreo determinismo economistico, con l'aggravante che gli effetti erano concepiti come rapidissimi nel tempo e nello spazio; perciò era un vero e proprio misticismo storico, l'aspettazione di una specie di fulgurazione miracolosa.

L'osservazione del generale Krasnov (nel suo romanzo) che l'Intesa (che non voleva una vittoria della Russia imperiale, perché non fosse risolta definitivamente a favore dello zarismo la quistione orientale) impose allo Stato Maggiore russo la guerra di trincea (assurda dato l'enorme sviluppo del fronte dal Baltico al mar Nero, con grandi zone paludose e boscose) mentre unica possibile era la guerra manovrata, è una mera scempiaggine. In realtà l'esercito russo tentò la guerra di manovra e di sfondamento, specialmente nel settore austriaco (ma anche nella Prussia orientale) ed ebbe successi brillantissimi, per quanto effimeri. La verità è che non si può scegliere la forma di guerra che si vuole, a meno di avere subito una superiorità schiacciante sul nemico, ed è noto quante perdite abbia costato l'ostinazione degli Stati Maggiori nel non voler riconoscere che la guerra di posizione era «imposta» dai rapporti generali delle forze in contrasto. La guerra di posizione non è infatti solo costituita dalle trincee vere e proprie, ma da tutto il sistema organizzativo e industriale del territorio che è alle spalle dell'esercito schierato, ed è imposta specialmente dal tiro rapido dei cannoni delle mitragliatrici dei moschetti, dalla concentrazione delle armi in un determinato punto, oltre che dall'abbondanza del rifornimento che permette di sostituire rapidamente il materiale perduto dopo uno sfondamento e un arretramento. Un altro elemento è la grande massa d'uomini che partecipano allo schieramento, di valore molto diseguale e che appunto possono operare solo come massa. Si vide come nel fronte orientale altra cosa era fare irruzione nel settore tedesco e altra nel settore austriaco e come anche nel settore austriaco, rinforzato da truppe scelte tedesche e comandato da tedeschi, la tattica irruenta finí nel disastro. Lo stesso si vide nella guerra polacca del 1920, quando l'avanzata che sembrava irresistibile fu fermata dinanzi a Varsavia dal generale Weygand sulla linea comandata da ufficiali francesi. Gli stessi tecnici militari che ormai si sono fissati sulla guerra di posizione come prima lo erano su quella manovrata, non sostengono certo che il tipo precedente debba essere considerato come espunto dalla scienza; ma nelle guerre tra gli Stati piú avanzati industrialmente e civilmente esso deve considerarsi ridotto a funzione tattica piú che strategica, deve considerarsi nella stessa posizione in cui era prima la guerra d'assedio in confronto a quella manovrata. La stessa riduzione deve avvenire nell'arte e nella scienza politica, almeno per ciò che riguarda gli Stati piú avanzati, dove la «società civile» è diventata una struttura molto complessa e resistente alle «irruzioni» catastrofiche dell'elemento economico immediato (crisi, depressioni ecc.); le superstrutture della società civile sono come il sistema delle trincee nella guerra moderna. Come in questa avveniva che un accanito attacco d'artiglieria sembrava aver distrutto tutto il sistema difensivo avversario ma ne aveva solo invece distrutto la superficie esterna e al momento dell'attacco e dell'avanzata gli assalitori si trovavano di fronte una linea difensiva ancora efficiente, cosí avviene nella politica durante le grandi crisi economiche; né le truppe assalitrici, per effetto della crisi, si organizzano fulmineamente nel tempo e nello spazio, né tanto meno acquistano uno spirito aggressivo; per reciproca, gli assaliti non si demoralizzano né abbandonano le difese, pur tra le macerie, né perdono la fiducia nella propria forza e nel proprio avvenire. Le cose certo non rimangono tali e quali, ma è certo che viene a mancare l'elemento della rapidità, del tempo accelerato, della marcia progressiva definitiva come si aspetterebbero gli strateghi del cadornismo politico. L'ultimo fatto del genere nella storia della politica sono stati gli avvenimenti del 1917. Essi hanno segnato una svolta decisiva nella storia dell'arte e della scienza della politica. Si tratta dunque di studiare con «profondità» quali sono gli elementi della società civile che corrispondono ai sistemi di difesa nella guerra di posizione. Si dice con «profondità» a disegno, perché essi sono stati studiati, ma da punti di vista superficiali e banali, come certi storici del costume studiano le stranezze della moda femminile, o da un punto di vista «razionalistico» cioè con la persuasione che certi fenomeni sono distrutti appena spiegati «realisticamente», come se fossero superstizioni popolari (che del resto anch'esse non si distruggono con lo spiegarle).

A questo nesso di problemi è da riattaccare la quistione dello scarso successo ottenuto da nuove correnti nel movimento sindacale.

Un tentativo di iniziare una revisione dei metodi tattici avrebbe dovuto essere quello esposto da L. Davidovic Bronstein alla quarta riunione quando fece un confronto tra il fronte orientale e quello occidentale, quello cadde subito ma fu seguito da lotte inaudite: in questo le lotte si verificherebbero «prima». Si tratterebbe cioè se la società civile resiste prima o dopo l'assalto, dove questo avviene ecc. La quistione però è stata esposta solo in forma letteraria brillante, ma senza indicazioni di carattere pratico.

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Guerra di posizione e guerra manovrata o frontale. È da vedere se la famosa teoria di Bronstein sulla permanenza del movimento non sia il riflesso politico della teoria della guerra manovrata (ricordare osservazione del generale dei cosacchi Krasnov), in ultima analisi il riflesso delle condizioni generali-economiche-culturali-sociali di un paese in cui i quadri della vita nazionale sono embrionali e rilasciati e non possono diventare «trincea o fortezza». In questo caso si potrebbe dire che Bronstein, che appare come un «occidentalista» era invece un cosmopolita, cioè superficialmente nazionale e superficialmente occidentalista o europeo. Invece Ilici era profondamente nazionale e profondamente europeo. Bronstein nelle sue memorie ricorda che gli fu detto che la sua teoria si era dimostrata buona dopo... quindici anni e risponde all'epigramma con un altro epigramma. In realtà la sua teoria, come tale, non era buona né quindici anni prima né quindici anni dopo: come avviene agli ostinati, di cui parla il Guicciardini, egli indovinò all'ingrosso, cioè ebbe ragione nella previsione pratica piú generale; come a dire che si predice che una bambina di quattro anni diventerà madre e quando lo diventa a venti anni si dice «l'avevo indovinato», non ricordando però che quando aveva quattro anni si voleva stuprare la bambina sicuri che sarebbe diventata madre. Mi pare che Ilici aveva compreso che occorreva un mutamento dalla guerra manovrata, applicata vittoriosamente in Oriente nel '17, alla guerra di posizione che era la sola possibile in Occidente, dove, come osserva Krasnov, in breve spazio gli eserciti potevano accumulare sterminate quantità di munizioni, dove i quadri sociali erano di per sé ancora capaci di diventare trincee munitissime. Questo mi pare significare la formula del «fronte unico» che corrisponde alla concezione di un solo fronte dell'Intesa sotto il comando unico di Foch. Solo che Ilici non ebbe il tempo di approfondire la sua formula, pur tenendo conto che egli poteva approfondirla solo teoricamente, mentre il compito fondamentale era nazionale, cioè domandava una ricognizione del terreno e una fissazione degli elementi di trincea e di fortezza rappresentati dagli elementi di società civile ecc. In Oriente lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell'Occidente tra Stato e società civile c'era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di casematte; piú o meno, da Stato a Stato, si capisce, ma questo appunto domandava un'accurata ricognizione di carattere nazionale.

La teoria del Bronstein può essere paragonata a quella di certi sindacalisti francesi sullo sciopero generale e alla teoria di Rosa nell'opuscolo tradotto da Alessandri: l'opuscolo di Rosa e la teoria di Rosa hanno del resto influenzato i sindacalisti francesi come appare da certi articoli di Rosmer sulla Germania nella «Vie Ouvrière» (prima serie in fascicoletti): dipende in parte anche dalla teoria della spontaneità.

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[Il concetto di rivoluzione passiva.] Il concetto di rivoluzione passiva deve essere dedotto rigorosamente dai due principii fondamentali di scienza politica: 1) che nessuna formazione sociale scompare fino a quando le forze produttive che si sono sviluppate in essa trovano ancora posto per un loro ulteriore movimento progressivo; 2) che la società non si pone compiti per la cui soluzione non siano già state covate le condizioni necessarie ecc. S'intende che questi principii devono prima essere svolti criticamente in tutta la loro portata e depurati da ogni residuo di meccanicismo e fatalismo. Cosí devono essere riportati alla descrizione dei tre momenti fondamentali in cui può distinguersi una «situazione» o un equilibrio di forze, col massimo di valorizzazione del secondo momento, o equilibrio delle forze politiche e specialmente del terzo momento o equilibrio politico-militare. Si può osservare che il Pisacane, nei suoi Saggi, si preoccupa appunto di questo terzo momento: egli comprende, a differenza del Mazzini, tutta l'importanza che ha la presenza in Italia di un agguerrito esercito austriaco, sempre pronto a intervenire in ogni parte della penisola, e che inoltre ha dietro di sé tutta la potenza militare dell'Impero absburgico, cioè una matrice sempre pronta a formare nuovi eserciti di rincalzo.

Altro elemento storico da richiamare è lo sviluppo del Cristianesimo nel seno dell'Impero Romano, cosí come il fenomeno attuale del Gandhismo in India e la teoria della non resistenza al male di Tolstoi che tanto si avvicinano alla prima fase del Cristianesimo (prima dell'editto di Milano). Il Gandhismo e il tolstoismo sono teorizzazioni ingenue e a tinta religiosa della «rivoluzione passiva». Sono anche da richiamare alcuni movimenti cosí detti «liquidazionisti» e le reazioni che suscitarono, in rapporto ai tempi e alle forme determinate di situazioni (specialmente del terzo momento).

Il punto di partenza dello studio sarà la trattazione di Vincenzo Cuoco, ma è evidente che l'espressione del Cuoco a proposito della Rivoluzione Napoletana del 1799 non è che uno spunto, poiché il concetto è completamente modificato e arricchito.

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Il concetto di «rivoluzione passiva» nel senso di Vincenzo Cuoco attribuita al primo periodo del Risorgimento italiano può essere messo in rapporto col concetto di «guerra di posizione» in confronto alla guerra manovrata? Cioè questi concetti si sono avuti dopo la Rivoluzione francese e il binomio Proudhon-Gioberti può essere giustificato col panico creato dal terrore del 1793 come il sorellismo col panico successivo alle stragi parigine del 1871? Cioè esiste una identità assoluta tra guerra di posizione e rivoluzione passiva? O almeno esiste o può concepirsi tutto un periodo storico in cui i due concetti si debbano identificare, fino al punto in cui la guerra di posizione ridiventa guerra manovrata? È un giudizio «dinamico» che occorre dare sulle «Restaurazioni» che sarebbero una «astuzia della provvidenza» in senso vichiano. Un problema è questo: nella lotta Cavour-Mazzini, in cui Cavour è l'esponente della rivoluzione passiva – guerra di posizione e Mazzini dell'iniziativa popolare – guerra manovrata, non sono indispensabili ambedue nella stessa precisa misura? Tuttavia bisogna tener conto che mentre Cavour era consapevole del suo compito (almeno in una certa misura) in quanto comprendeva il compito di Mazzini, Mazzini non pare fosse consapevole del suo e di quello del Cavour; se invece Mazzini avesse avuto tale consapevolezza, cioè fosse stato un politico realista e non un apostolo illuminato (cioè non fosse stato Mazzini) l'equilibrio risultante dal confluire delle due attività sarebbe stato diverso, piú favorevole al mazzinianismo: cioè lo Stato italiano si sarebbe costituito su basi meno arretrate e piú moderne. E poiché in ogni evento storico si verificano quasi sempre situazioni simili, è da vedere se non si possa trarre da ciò qualche principio generale di scienza e di arte politica. Si può applicare al concetto di rivoluzione passiva (e si può documentare nel Risorgimento italiano) il criterio interpretativo delle modificazioni molecolari che in realtà modificano progressivamente la composizione precedente delle forze e quindi diventano matrice di nuove modificazioni. Cosí nel Risorgimento italiano si è visto come il passaggio al Cavourrismo dopo il 1848 di sempre nuovi elementi del Partito d'Azione ha modificato progressivamente la composizione delle forze moderate, liquidando il neoguelfismo da una parte e dall'altra impoverendo il movimento mazziniano (a questo processo appartengono anche le oscillazioni di Garibaldi ecc.). Questo elemento pertanto è la fase originaria di quel fenomeno che è stato chiamato piú tardi «trasformismo» e la cui importanza non è stata, pare, finora, messa nella luce dovuta come forma di sviluppo storico.

Insistere nello svolgimento del concetto che mentre Cavour era consapevole del suo compito in quanto era consapevole criticamente del compito di Mazzini, Mazzini, per la scarsa o nulla consapevolezza del compito di Cavour, era in realtà anche poco consapevole del suo proprio compito, perciò i suoi tentennamenti (cosí a Milano nel periodo successivo alle cinque giornate e in altre occasioni) e le sue iniziative fuori tempo, che pertanto diventavano elementi solo utili alla politica piemontese. È questa una esemplificazione del problema teorico del come doveva essere compresa la dialettica, impostato nella Miseria della Filosofia: che ogni membro dell'opposizione dialettica debba cercare di essere tutto se stesso e gettare nella lotta tutte le proprie «risorse» politiche e morali, e che solo cosí si abbia un superamento reale, non era capito né da Proudhon né da Mazzini. Si dirà che non era capito neanche da Gioberti e dai teorici della rivoluzione passiva e «rivoluzione-restaurazione», ma la quistione cambia: in costoro la «incomprensione» teorica era l'espressione pratica delle necessità della «tesi» di sviluppare tutta se stessa, fino al punto di riuscire a incorporare una parte dell'antitesi stessa, per non lasciarsi «superare», cioè nell'opposizione dialettica solo la tesi in realtà sviluppa tutte le sue possibilità di lotta, fino ad accaparrarsi i sedicenti rappresentanti dell'antitesi: proprio in questo consiste la rivoluzione passiva o rivoluzione-restaurazione. Certo è da considerare a questo punto la quistione del passaggio della lotta politica da «guerra manovrata» a «guerra di posizione», ciò che in Europa avvenne dopo il 1848 e che non fu compreso da Mazzini e dai mazziniani come invece fu compreso da qualche altro; lo stesso passaggio si ebbe dopo il 1871 ecc. La quistione era difficile da capire allora per uomini come il Mazzini, dato che le guerre militari non avevano dato il modello, ma anzi le dottrine militari si sviluppavano nel senso della guerra di movimento: sarà da vedere se in Pisacane, che del mazzinianismo fu il teorico militare, ci siano accenni in questo senso. (Sarà da vedere la letteratura politica sul '48 dovuta a studiosi della filosofia della prassi; ma non pare che ci sia molto da aspettarsi in questo senso. Gli avvenimenti italiani, per esempio, furono esaminati solo con la guida dei libri di Bolton King ecc.). Pisacane è tuttavia da vedere perché fu il solo che tentò di dare al Partito d'Azione un contenuto non solo formale, ma sostanziale di antitesi superatrice delle posizioni tradizionali. Né è da dire che per ottenere questi risultati storici fosse necessaria perentoriamente l'insurrezione armata popolare, come pensava Mazzini fino all'ossessione, cioè non realisticamente, ma da missionario religioso. L'intervento popolare che non fu possibile nella forma concentrata e simultanea dell'insurrezione, non si ebbe neanche nella forma «diffusa» e capillare della pressione indiretta, ciò che invece era possibile e forse sarebbe stata la premessa indispensabile della prima forma. La forma concentrata o simultanea era resa impossibile dalla tecnica militare del tempo, ma solo in parte, cioè l'impossibilità esistette in quanto alla forma concentrata e simultanea non fu fatto precedere una preparazione politica ideologica di lunga lena, organicamente predisposta per risvegliare le passioni popolari e renderne possibile la concentrazione e lo scoppio simultaneo.

Dopo il 1848 una critica dei metodi precedenti al fallimento fu fatta solo dai moderati e infatti tutto il movimento moderato si rinnovò, il neoguelfismo fu liquidato, uomini nuovi occuparono i primi posti di direzione. Nessuna autocritica invece da parte del mazzinianismo oppure autocritica liquidatrice, nel senso che molti elementi abbandonarono Mazzini e formarono l'ala sinistra del partito piemontese; unico tentativo «ortodosso», cioè dall'interno, furono i saggi del Pisacane, che però non divennero mai piattaforma di una nuova politica organica e ciò nonostante che il Mazzini stesso riconoscesse che il Pisacane aveva una «concezione strategica» della Rivoluzione nazionale italiana.

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Il rapporto «rivoluzione passiva - guerra di posizione» nel Risorgimento italiano può essere studiato anche in altri aspetti. Importantissimo quello che si può chiamare del «personale» e l'altro della «radunata rivoluzionaria». Quello del «personale» può essere appunto paragonato a quanto si verificò nella guerra mondiale nel rapporto tra ufficiali di carriera e ufficiali di complemento da una parte e tra soldati di leva e volontari-arditi dall'altra. Gli ufficiali di carriera corrisposero nel Risorgimento ai partiti politici regolari, organici, tradizionali, ecc., che al momento dell'azione (1884) si dimostrarono inetti o quasi e furono nel 1848-49 soverchiati dall'ondata popolare-mazziniana-democratica, ondata caotica, disordinata, «estemporanea» per cosí dire, ma che tuttavia, al seguito di capi improvvisati o quasi (in ogni caso non di formazioni precostituite com'era il partito moderato) ottennero successi indubbiamente maggiori di quelli ottenuti dai moderati: la Repubblica romana e Venezia mostrarono una forza di resistenza molto notevole. Nel periodo dopo il '48 il rapporto tra le due forze, quella regolare e quella «carismatica», si organizzò intorno a Cavour e Garibaldi e diede il massimo risultato, sebbene questo risultato fosse poi incamerato dal Cavour.

Questo aspetto è connesso all'altro, della «radunata». È da osservare che la difficoltà tecnica contro cui andarono sempre a spezzarsi le iniziative mazziniane fu quella appunto della «radunata rivoluzionaria». Sarebbe interessante, da questo punto di vista, studiare il tentativo di invadere la Savoia col Ramorino, poi quello dei fratelli Bandiera, del Pisacane ecc., paragonato con la situazione che si offrí a Mazzini nel '48 a Milano e nel '49 a Roma e che egli non ebbe la capacità di organizzare. Questi tentativi di pochi non potevano non essere schiacciati in germe, perché sarebbe stato maraviglioso che le forze reazionarie, che erano concentrate e potevano operare liberamente (cioè non trovavano nessuna opposizione in larghi movimenti della popolazione) non schiacciassero le iniziative tipo Ramorino, Pisacane, Bandiera, anche se queste fossero state preparate meglio di quanto furono in realtà. Nel secondo periodo (1859-60) la radunata rivoluzionaria, come fu quella dei Mille di Garibaldi, fu resa possibile dal fatto che Garibaldi si innestava nelle forze statali piemontesi prima e poi che la flotta inglese protesse di fatto lo sbarco di Marsala, la presa di Palermo, e sterilizzò la flotta borbonica. A Milano dopo le cinque giornate, a Roma repubblicana, Mazzini avrebbe avuto la possibilità di costituire piazze d'armi per radunate organiche, ma non si propose di farlo, onde il suo conflitto con Garibaldi a Roma e la sua inutilizzazione a Milano di fronte a Cattaneo e al gruppo democratico milanese.

In ogni modo lo svolgersi del processo del Risorgimento, se pose in luce l'importanza enorme del movimento «demagogico» di massa, con capi di fortuna, improvvisati ecc., in realtà fu riassunto dalle forze tradizionali organiche, cioè dai partiti formati di lunga mano, con elaborazione razionale dei capi ecc. In tutti gli avvenimenti politici dello stesso tipo sempre si ebbe lo stesso risultato (cosí nel 1830, in Francia, la prevalenza degli orleanisti sulle forze popolari radicali democratiche, e cosí in fondo anche nella Rivoluzione Francese del 1789, in cui Napoleone, rappresenta, in ultima analisi, il trionfo delle forze borghesi organiche contro le forze piccolo-borghesi giacobine). Cosí nella guerra mondiale il sopravvento dei vecchi ufficiali di carriera su quelli di complemento ecc. (su questo argomento cfr. note in altri quaderni). In ogni caso, l'assenza nelle forze radicali popolari di una consapevolezza del compito dell'altra parte impedí ad esse di avere piena consapevolezza del loro proprio compito e quindi di pesare nell'equilibrio finale delle forze, in rapporto al loro effettivo peso d'intervento, e quindi di determinare un risultato piú avanzato, su una linea di maggiore progresso e modernità.

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Sempre a proposito del concetto di rivoluzione passiva o rivoluzione-restaurazione nel Risorgimento italiano è da notare che occorre porre con esattezza il problema che in alcune tendenze storiografiche è chiamato dei rapporti tra condizioni oggettive e condizioni soggettive dell'evento storico. Appare evidente che mai possono mancare le cosidette condizioni soggettive quando esistano le condizioni oggettive in quanto si tratta di semplice distinzione di carattere didascalico: pertanto è nella misura delle forze soggettive e della loro intensità che può vertere discussione, e quindi nel rapporto dialettico tra le forze soggettive contrastanti. Occorre evitare che la quistione sia posta in termini «intellettualistici» e non storico-politici. Che la «chiarezza» intellettuale dei termini della lotta sia indispensabile, è pacifico, ma questa chiarezza è un valore politico in quanto diventa passione diffusa ed è la premessa di una forte volontà. Negli ultimi tempi, in molte pubblicazioni sul Risorgimento, è stato «rivelato» che esistevano personalità che vedevano chiaro ecc. (ricordare la valorizzazione dell'Ornato fatta da Piero Gobetti), ma queste «rivelazioni» si distruggono da se stesse appunto perché rivelazioni; esse dimostrano che si trattava di elucubrazioni individuali, che oggi rappresentano una forma del «senno di poi». Infatti mai si cimentarono con la realtà effettuale, mai diventarono coscienza popolare-nazionale diffusa e operante. Tra il Partito d'Azione e il Partito moderato quale rappresentò le effettive «forze soggettive» del Risorgimento? Certo il Partito moderato, e appunto perché ebbe consapevolezza del compito anche del Partito d'Azione: per questa consapevolezza la sua «soggettività» era di una qualità superiore e piú decisiva. Nell'espressione sia pure da sergente maggiore, di Vittorio Emanuele II: «Il Partito d'Azione noi l'abbiamo in tasca» c'è piú senso storico-politico che in tutto Mazzini.

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Sulla burocrazia. 1) Il fatto che nello svolgimento storico delle forme politiche ed economiche si sia venuto formando il tipo del funzionario «di carriera», tecnicamente addestrato al lavoro burocratico (civile e militare) ha un significato primordiale nella scienza politica e nella storia delle forme statali. Si è trattato di una necessità o di una degenerazione in confronto dell'autogoverno (self-government) come pretendono i liberisti «puri»? È certo che ogni forma sociale e statale ha avuto un suo problema dei funzionari, un suo modo di impostarlo e risolverlo, un suo sistema di selezione, un suo tipo di funzionario da educare. Ricostruire lo svolgimento di tutti questi elementi è di importanza capitale. Il problema dei funzionari coincide in parte col problema degli intellettuali. Ma se è vero che ogni nuova forma sociale e statale ha avuto bisogno di un nuovo tipo di funzionario, è vero anche che i nuovi gruppi dirigenti non hanno mai potuto prescindere, almeno per un certo tempo, dalla tradizione e dagli interessi costituiti, cioè dalle formazioni di funzionari già esistenti e precostituiti al loro avvento (ciò specialmente nella sfera ecclesiastica e in quella militare). L'unità del lavoro manuale e intellettuale e un legame piú stretto tra il potere legislativo e quello esecutivo (per cui i funzionari eletti, oltre che del controllo, si interessino dell'esecuzione degli affari di Stato) possono essere motivi ispiratori sia per un indirizzo nuovo nella soluzione del problema degli intellettuali che di quello dei funzionari.

2) Connessa con la quistione della burocrazia e della sua organizzazione «ottima» è la discussione sui cosidetti «centralismo organico» e «centralismo democratico» (che d'altronde non ha niente a che fare con la democrazia astratta, tanto che la Rivoluzione francese e la terza Repubblica hanno sviluppato delle forme di centralismo organico che non avevano conosciuto né la monarchia assoluta né Napoleone I). Saranno da ricercare ed esaminare i reali rapporti economici e politici che trovano la loro forma organizzativa, la loro articolazione e la loro funzionalità nelle diverse manifestazioni di centralismo organico e democratico in tutti i campi: nella vita statale (unitarismo, federazione, unione di Stati federati, federazione di Stati o Stato federale ecc.), nella vita interstatale (alleanza, forme varie di «costellazione» politica internazionale), nella vita delle associazioni politiche e culturali (massoneria, Rotary Club, Chiesa cattolica), sindacali economiche (cartelli, trusts), in uno stesso paese, in diversi paesi ecc.

Polemiche sorte nel passato (prima del 1914) a proposito del predominio tedesco nella vita dell'alta cultura e di alcune forze politiche internazionali: era poi reale questo predominio o in che cosa realmente consisteva? Si può dire: a) che nessun nesso organico e disciplinare stabiliva una tale supremazia, che pertanto era un mero fenomeno di influsso culturale astratto e di prestigio molto labile; b) che tale influsso culturale non toccava per nulla l'attività effettuale, che viceversa era disgregata, localistica, senza indirizzo d'insieme. Non si può parlare perciò di nessun centralismo, né organico né democratico né d'altro genere o misto. L'influsso era sentito e subito da scarsi gruppi intellettuali, senza legame con le masse popolari e appunto questa assenza di legame caratterizzava la situazione. Tuttavia un tale stato di cose è degno di esame perché giova a spiegare il processo che ha condotto a formulare le teorie del centralismo organico, che sono state appunto una critica unilaterale e da intellettuali di quel disordine e di quella dispersione di forze.

Occorre intanto distinguere nelle teorie del centralismo organico tra quelle che velano un preciso programma di predominio reale di una parte sul tutto (sia la parte costituita da un ceto come quello degli intellettuali, sia costituita da un gruppo territoriale «privilegiato») e quelle che sono una pura posizione unilaterale di settari e fanatici, e che pur potendo nascondere un programma di predominio (di solito di una singola individualità, come quella del papa infallibile per cui il cattolicismo si è trasformato in una specie di culto del pontefice), immediatamente non pare nascondere un tale programma come fatto politico consapevole. Il nome piú esatto sarebbe quello di centralismo burocratico. L'«organicità» non può essere che del centralismo democratico il quale è un «centralismo» in movimento, per cosí dire, cioè una continua adeguazione dell'organizzazione al movimento reale, un contemperare le spinte dal basso con il comando dall'alto, un inserimento continuo degli elementi che sbocciano dal profondo della massa nella cornice solida dell'apparato di direzione che assicura la continuità e l'accumularsi regolare delle esperienze: esso è «organico» perché tiene conto del movimento, che è il modo organico di rivelarsi della realtà storica e non si irrigidisce meccanicamente nella burocrazia, e nello stesso tempo tiene conto di ciò che è relativamente stabile e permanente o che per lo meno si muove in una direzione facile a prevedersi ecc. Questo elemento di stabilità nello Stato si incarna nello sviluppo organico del nucleo centrale del gruppo dirigente cosí come avviene in piú ristretta scala nella vita dei partiti. Il prevalere del centralismo burocratico nello Stato indica che il gruppo dirigente è saturato diventando una consorteria angusta che tende a perpetrare i suoi gretti privilegi regolando o anche soffocando il nascere di forze contrastanti, anche se queste forze sono omogenee agli interessi dominanti fondamentali (per es. nei sistemi protezionistici a oltranza in lotta col liberismo economico). Nei partiti che rappresentano gruppi socialmente subalterni l'elemento di stabilità è necessario per assicurare l'egemonia non a gruppi privilegiati ma agli elementi progressivi, organicamente progressivi in confronto di altre forze affini e alleate ma composite e oscillanti.

In ogni caso occorre rilevare che le manifestazioni morbose di centralismo burocratico sono avvenute per deficienza di iniziativa e responsabilità nel basso, cioè per la primitività politica delle forze periferiche, anche quando esse sono omogenee con il gruppo territoriale egemone (fenomeno del piemontesismo nei primi decenni dell'unità italiana). Il formarsi di tali situazioni può essere estremamente dannoso e pericoloso negli organismi internazionali (Società delle Nazioni).

Il centralismo democratico offre una formula elastica, che si presta a molte incarnazioni; essa vive in quanto è interpretata e adattata continuamente alle necessità: essa consiste nella ricerca critica di ciò che è uguale nell'apparente disformità e invece distinto e anche opposto nell'apparente uniformità per organare e connettere strettamente ciò che è simile, ma in modo che l'organamento e la connessione appaiano una necessità pratica e «induttiva», sperimentale e non il risultato di un processo razionalistico, deduttivo, astrattistico, cioè proprio degli intellettuali puri (o puri asini). Questo lavorio continuo per sceverare l'elemento «internazionale» e «unitario» nella realtà nazionale e localistica è in realtà l'azione politica concreta, l'attività sola produttiva di progresso storico. Esso richiede una organica unità tra teoria e pratica, tra ceti intellettuali e masse popolari, tra governanti e governati. Le formule di unità e federazione perdono gran parte del loro significato da questo punto di vista, mentre conservano il loro veleno nella concezione burocratica, per la quale finisce col non esistere unità ma palude stagnante, superficialmente calma e «muta» e non federazione ma «sacco di patate», cioè giustapposizione meccanica di singole «unità» senza nesso tra loro.

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Il teorema delle proporzioni definite. Questo teorema può essere impiegato utilmente per rendere piú chiari e di uno schematismo piú evidente molti ragionamenti riguardanti la scienza dell'organizzazione (lo studio dell'apparato amministrativo, della composizione demografica ecc.) e anche la politica generale (nelle analisi delle situazioni, dei rapporti di forza, nel problema degli intellettuali ecc.). S'intende che occorre sempre ricordare come il ricorso al teorema delle proporzioni definite ha un valore schematico e metaforico, cioè non può essere applicato meccanicamente, poiché negli aggregati umani l'elemento qualitativo (o di capacità tecnica e intellettuale dei singoli componenti) ha una funzione predominante, mentre non può essere misurato matematicamente. Perciò si può dire che ogni aggregato umano ha un suo particolare principio ottimo di proporzioni definite. Specialmente la scienza dell'organizzazione può ricorrere utilmente a questo teorema e ciò appare con chiarezza nell'esercito. Ma ogni forma di società ha un suo tipo di esercito e ogni tipo di esercito ha un suo principio di proporzioni definite, che del resto cambia anche per le diverse armi o specialità. C'è un determinato rapporto tra uomini di truppa, graduati, sottufficiali, ufficiali subalterni, ufficiali superiori, stati maggiori, stato maggiore generale ecc. C'è un rapporto tra le varie armi e specialità tra loro ecc. Ogni mutamento in una parte determina la necessità di un nuovo equilibrio col tutto ecc. Politicamente il teorema si può vedere applicato nei partiti, nei sindacati, nelle fabbriche e vedere come ogni gruppo sociale ha una propria legge di proporzioni definite, che varia a seconda del livello di cultura, di indipendenza mentale, di spirito d'iniziativa e di senso della responsabilità e della disciplina dei suoi membri piú arretrati e periferici.

La legge delle proporzioni definite è cosí riassunta dal Pantaleoni nei Principii di Economia pura: «... I corpi si combinano chimicamente soltanto in proporzioni definite e ogni quantità di un elemento che superi la quantità richiesta per una combinazione con altri elementi, presenti in quantità definite, resta libera; se la quantità di un elemento è deficiente per rapporto alla quantità di altri elementi presenti, la combinazione non avviene che nella misura in cui è sufficiente la quantità dell'elemento che è presente in quantità minore degli altri». Si potrebbe servirsi metaforicamente di questa legge per comprendere come un «movimento» o tendenza di opinioni, diventa partito, cioè forza politica efficiente dal punto di vista dell'esercizio del potere governativo; nella misura appunto in cui possiede (ha elaborato nel suo interno) dirigenti di vario grado e nella misura in cui essi dirigenti hanno acquisito determinate capacità. L'«automatismo» storico di certe premesse (l'esistenza di certe condizioni obbiettive) viene potenziato politicamente dai partiti e dagli uomini capaci: la loro assenza o deficienza (quantitativa e qualitativa) rende sterile l'«automatismo» stesso (che pertanto non è automatismo): ci sono astrattamente le premesse, ma le conseguenze non si realizzano perché il fattore umano manca. Perciò si può dire che i partiti hanno il compito di elaborare dirigenti capaci, sono la funzione di massa che seleziona, sviluppa, moltiplica i dirigenti necessari perché un gruppo sociale definito (che è una quantità «fissa», in quanto si può stabilire quanti sono i componenti di ogni gruppo sociale) si articoli e da caos tumultuoso diventi esercito politico organicamente predisposto. Quando in elezioni successive dello stesso grado o di grado diverso (per esempio nella Germania prima di Hitler: elezioni per il presidente della repubblica, per il Reichstag, per le diete dei Länder, per i consigli comunali e giú giú fino ai comitati d'azienda) un partito oscilla nella sua massa di suffragi da massimi a minimi che sembrano strani e arbitrari, si può dedurre che i quadri di esso sono deficienti per quantità e per qualità, o per quantità e non per qualità (relativamente) o per qualità e non per quantità. Un partito che ha molti voti nelle elezioni locali e meno in quelle di piú alta importanza politica, è certo deficiente qualitativamente nella sua direzione centrale: possiede molti subalterni o almeno in numero sufficiente, ma non possiede uno stato maggiore adeguato al paese e alla sua posizione nel mondo, ecc. Analisi di questo genere sono accennate in altri paragrafi.

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Sociologia e scienza politica (vedere i paragrafi sul Saggio popolare). La fortuna della sociologia è in relazione con la decadenza del concetto di scienza politica e di arte politica verificatasi nel secolo XIX (con piú esattezza nella seconda metà, con la fortuna delle dottrine evoluzionistiche e positivistiche). Ciò che di realmente importante è nella sociologia non è altro che scienza politica. «Politica» divenne sinonimo di politica parlamentare o di cricche personali. Persuasione che con le costituzioni e i parlamenti si fosse iniziata un'epoca di «evoluzione» «naturale», che la società avesse trovato i suoi fondamenti definitivi perché razionali ecc. ecc. Ecco che la società può essere studiata col metodo delle scienze naturali. Impoverimento del concetto di Stato conseguente a tal modo di vedere. Se scienza politica significa scienza dello Stato e Stato è tutto il complesso di attività pratiche e teoriche con cui la classe dirigente giustifica e mantiene il suo dominio non solo ma riesce a ottenere il consenso attivo dei governati, è evidente che tutte le quistioni essenziali della sociologia non sono altro che le quistioni della scienza politica. Se c'è un residuo, questo non può essere che di falsi problemi cioè di problemi oziosi. La quistione che pertanto si poneva all'autore del Saggio popolare era quella di determinare in che rapporti poteva essere posta la scienza politica con la filosofia della praxis, se tra le due esiste identità (cosa non sostenibile, o sostenibile solo da un punto di vista del piú gretto positivismo) o se la scienza politica è l'insieme di principii empirici o pratici che si deducono da una piú vasta concezione del mondo o filosofia propriamente detta, o se questa filosofia è solo la scienza dei concetti o categorie generali che nascono dalla scienza politica ecc. Se è vero che l'uomo non può essere concepito se non come uomo storicamente determinato, cioè che si è sviluppato e vive in certe condizioni, in un determinato complesso sociale o insieme di rapporti sociali, si può concepire la sociologia come studio solo di queste condizioni e delle leggi che ne regolano lo sviluppo? Poiché non si può prescindere dalla volontà e dall'iniziativa degli uomini stessi, questo concetto non può non essere falso.

Il problema di che cosa è la «scienza» stessa è da porre.

La scienza non è essa stessa «attività politica» e pensiero politico, in quanto trasforma gli uomini, li rende diversi da quelli che erano prima? Se tutto è «politico» occorre, per non cadere in un frasario tautologico e noioso distinguere con concetti nuovi la politica che corrisponde a quella scienza che tradizionalmente si chiama «filosofia», dalla politica che si chiama scienza politica in senso stretto. Se la scienza è «scoperta» di realtà ignorata prima, questa realtà non viene concepita come trascendente in un certo senso? e non si pensa che esiste ancora qualcosa di «ignoto» e quindi di trascendente? E il concetto di scienza come «creazione» non significa poi come «politica»? Tutto sta nel vedere se si tratta di creazione «arbitraria» o razionale, cioè «utile» agli uomini per allargare il loro concetto della vita, per rendere superiore (sviluppare) la vita stessa.

A proposito del Saggio popolare e della sua appendice Teoria e pratica è da vedere nella «Nuova Antologia» del 16 marzo 1933 la rassegna filosofica di Armando Carlini, da cui risulta che l'equazione, Teoria: pratica = matematica pura: matematica applicata, è stata enunziata da un inglese (mi pare Whittaker).

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Il numero e la qualità nei regimi rappresentativi. Uno dei luoghi comuni piú banali che si vanno ripetendo contro il sistema elettivo di formazione degli organi statali è questo, che il «numero sia in esso legge suprema» e che la «opinione di un qualsiasi imbecille che sappia scrivere (e anche di un analfabeta, in certi paesi), valga, agli effetti di determinare il corso politico dello Stato, esattamente quanto quella di chi allo Stato e alla Nazione dedichi le sue migliori forze» ecc. (le formulazioni sono molte, alcune anche piú felici di questa riportata, che è di Mario da Silva, nella «Critica Fascista» del 15 agosto 1932, ma il contenuto è sempre uguale). Ma il fatto è che non è vero, in nessun modo, che il numero sia «legge suprema», né che il peso dell'opinione di ogni elettore sia «esattamente» uguale. I numeri, anche in questo caso, sono un semplice valore strumentale, che danno una misura e un rapporto e niente di piú. E che cosa poi si misura? Si misura proprio l'efficacia e la capacità di espansione e di persuasione delle opinioni di pochi, delle minoranze attive, delle élites, delle avanguardie ecc. ecc. cioè la loro razionalità o storicità o funzionalità concreta. Ciò vuol dire che non è vero che il peso delle opinioni dei singoli sia «esattamente» uguale. Le idee e le opinioni non «nascono» spontaneamente nel cervello di ogni singolo: hanno avuto un centro di formazione, di irradiazione, di diffusione, di persuasione, un gruppo di uomini o anche una singola individualità che le ha elaborate e presentate nella forma politica d'attualità. La numerazione dei «voti» è la manifestazione terminale di un lungo processo in cui l'influsso massimo appartiene proprio a quelli che «dedicano allo Stato e alla Nazione le loro migliori forze» (quando lo sono). Se questo presunto gruppo di ottimati, nonostante le forze materiali sterminate che possiede, non ha il consenso della maggioranza, sarà da giudicare o inetto o non rappresentante gli interessi «nazionali» che non possono non essere prevalenti nell'indurre la volontà nazionale in un senso piuttosto che in un altro. «Disgraziatamente» ognuno è portato a confondere il proprio «particulare» con l'interesse nazionale e quindi a trovare «orribile» ecc. che sia la «legge del numero» a decidere; è certo miglior cosa diventare élite per decreto. Non si tratta pertanto di chi «ha molto» intellettualmente che si sente ridotto al livello dell'ultimo analfabeta, ma di chi presume di aver molto e che vuole togliere all'uomo «qualunque» anche quella frazione infinitesima di potere che egli possiede nel decidere sul corso della vita statale.

Dalla critica (di origine oligarchica e non di élite) al regime parlamentaristico (è strano che esso non sia criticato perché la razionalità storicistica del consenso numerico è sistematicamente falsificata dall'influsso della ricchezza), queste affermazioni banali sono state estese a ogni sistema rappresentativo, anche non parlamentaristico, e non foggiato secondo i canoni della democrazia formale. Tanto meno queste affermazioni sono esatte. In questi altri regimi il consenso non ha nel momento del voto una fase terminale, tutt'altro. Il consenso è supposto permanentemente attivo, fino al punto che i consenzienti potrebbero essere considerati come «funzionari» dello Stato e le elezioni un modo di arruolamento volontario di funzionari statali di un certo tipo, che in un certo senso potrebbe ricollegarsi (in piani diversi) al self-government. Le elezioni avvenendo non su programmi generici e vaghi, ma di lavoro concreto immediato, chi consentite si impegna a fare qualcosa di piú del comune cittadino legale, per realizzarli, a essere cioè una avanguardia di lavoro attivo e responsabile. L'elemento «volontariato» nell'iniziativa non potrebbe essere stimolato in altro modo per le piú larghe moltitudini, e quando queste non siano formate di cittadini amorfi, ma di elementi produttivi qualificati, si può intendere l'importanza che la manifestazione del voto può avere. (Queste osservazioni potrebbero essere svolte piú ampiamente e organicamente, mettendo in rilievo anche altre differenze tra i diversi tipi di elezionismo, a seconda che mutano i rapporti generali sociali e politici: rapporto tra funzionari elettivi e funzionari di carriera ecc.).

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La proposizione che «la società non si pone problemi per la cui soluzione non esistano già le premesse materiali». È il problema della formazione di una volontà collettiva che dipende immediatamente da questa proposizione e analizzare criticamente cosa la proposizione significhi importa ricercare come appunto si formino le volontà collettive permanenti, e come tali volontà si propongano dei fini immediati e mediati concreti, cioè una linea d'azione collettiva. Si tratta di processi di sviluppo piú o meno lunghi, e raramente di esplosioni «sintetiche» improvvise. Anche le «esplosioni» sintetiche si verificano, ma, osservando da vicino, si vede che allora si tratta di distruggere piú che ricostruire, di rimuovere ostacoli esteriori e meccanici allo sviluppo autoctono e spontaneo: cosí può assumersi come esemplare il Vespro Siciliano.

Si potrebbe studiare in concreto la formazione di un movimento storico collettivo, analizzandolo in tutte le sue fasi molecolari, ciò che di solito non si fa perché appesantirebbe ogni trattazione: si assumono invece le correnti d'opinione già costituite intorno a un gruppo o a una personalità dominante. È il problema che modernamente si esprime in termini di partito o di coalizione di partiti affini: come si inizia la costituzione di un partito, come si sviluppa la sua forza organizzata e di influenza sociale ecc. Si tratta di un processo molecolare, minutissimo, di analisi estrema, capillare, la cui documentazione è costituita da una quantità sterminata di libri, di opuscoli, di articoli di rivista e di giornale, di conversazioni e dibattiti a voce che si ripetono infinite volte e che nel loro insieme gigantesco rappresentano questo lavorio da cui nasce una volontà collettiva di un certo grado di omogeneità, di quel certo grado che è necessario e sufficiente per determinare un'azione coordinata e simultanea nel tempo e nello spazio geografico in cui il fatto storico si verifica.

Importanza delle utopie e delle ideologie confuse e razionalistiche nella fase iniziale dei processi storici di formazione delle volontà collettive: le utopie, il razionalismo astratto hanno la stessa importanza delle vecchie concezioni del mondo storicamente elaborate per accumulazione di esperienze successive. Ciò che importa è la critica a cui tale complesso ideologico viene sottoposto dai primi rappresentanti della nuova fase storica: attraverso questa critica si ha un processo di distinzione e di cambiamento nel peso relativo che gli elementi delle vecchie ideologie possedevano: ciò che era secondario e subordinato o anche incidentale, viene assunto come principale, diventa il nucleo di un nuovo complesso ideologico e dottrinale. La vecchia volontà collettiva si disgrega nei suoi elementi contradittori, perché di questi elementi quelli subordinati si sviluppano socialmente ecc.

Dopo la formazione del regime dei partiti, fase storica legata alla standardizzazione di grandi masse della popolazione (comunicazioni, giornali, grandi città ecc.) i processi molecolari avvengono piú rapidamente che nel passato, ecc.

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Quistione dell'«uomo collettivo» o del «conformismo sociale». Compito educativo e formativo dello Stato, che ha sempre il fine di creare nuovi e piú alti tipi di civiltà, di adeguare la «civiltà» e la moralità delle piú vaste masse popolari alle necessità del continuo sviluppo dell'apparato economico di produzione, quindi di elaborare anche fisicamente dei tipi nuovi d'umanità. Ma come ogni singolo individuo riuscirà a incorporarsi nell'uomo collettivo e come avverrà la pressione educativa sui singoli ottenendone il consenso e la collaborazione, facendo diventare «libertà» la necessità e la coercizione? Quistione del «diritto», il cui concetto dovrà essere esteso, comprendendovi anche quelle attività che oggi cadono sotto la formula di «indifferente giuridico» e che sono di dominio della società civile che opera senza «sanzioni» e senza «obbligazioni» tassative, ma non per tanto esercita una pressione collettiva e ottiene risultati obbiettivi di elaborazione nei costumi, nei modi di pensare e di operare, nella moralità ecc.

Concetto politico della cosí detta «rivoluzione permanente» sorto prima del 1848, come espressione scientificamente elaborata delle esperienze giacobine dal 1789 al Termidoro. La formula è propria di un periodo storico in cui non esistevano ancora i grandi partiti politici di massa e i grandi sindacati economici e la società era ancora, per dir cosí, allo stato di fluidità sotto molti aspetti: maggiore arretratezza della campagna e monopolio quasi completo dell'efficienza politico-statale in poche città o addirittura in una sola (Parigi per la Francia), apparato statale relativamente poco sviluppato e maggiore autonomia della società civile dall'attività statale, determinato sistema delle forze militari e dell'armamento nazionale, maggiore autonomia delle economie nazionali dai rapporti economici del mercato mondiale ecc. Nel periodo dopo il 1870, con l'espansione coloniale europea, tutti questi elementi mutano, i rapporti organizzativi interni e internazionali dello Stato diventano piú complessi e massicci e la formula quarantottesca della «rivoluzione permanente» viene elaborata e superata nella scienza politica nella formula di «egemonia civile». Avviene nell'arte politica ciò che avviene nell'arte militare: la guerra di movimento diventa sempre piú guerra di posizione e si può dire che uno Stato vince una guerra in quanto la prepara minutamente e tecnicamente nel tempo di pace. La struttura massiccia delle democrazie moderne, sia come organizzazioni statali che come complesso di associazioni nella vita civile costituiscono per l'arte politica come le «trincee» e le fortificazioni permanenti del fronte nella guerra di posizione: essi rendono solo «parziale» l'elemento del movimento che prima era «tutta» la guerra ecc.

La quistione si pone per gli Stati moderni, non per i paesi arretrati e per le colonie, dove vigono ancora le forme che altrove sono superate e divenute anacronistiche. Anche la quistione del valore delle ideologie (come si può trarre dalla polemica Malagodi-Croce) – con le osservazioni del Croce sul «mito» soreliano, che si possono ritorcere contro la «passione» – deve essere studiata in un trattato di scienza politica.

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Fase economica-corporativa dello Stato. Il Guicciardini segna un passo indietro nella scienza politica di fronte al Machiavelli. Il maggiore «pessimismo» del Guicciardini significa solo questo. Il Guicciardini ritorna a un pensiero politico puramente italiano, mentre il Machiavelli si era innalzato a un pensiero europeo. Non si comprende il Machiavelli se non si tiene conto che egli supera l'esperienza italiana nell'esperienza europea (internazionale in quell'epoca): la sua «volontà» sarebbe utopistica, senza l'esperienza europea. La stessa concezione della «natura umana» diventa per questo fatto diversa nei due. Nella «natura umana» del Machiavelli è compreso l'«uomo europeo» e questo uomo in Francia e in Ispagna ha effettualmente superato la fase feudale disgregata nella monarchia assoluta: dunque non è la «natura umana» che si oppone a che in Italia sorga una monarchia assoluta unitaria, ma condizioni transitorie che la volontà può superare. Il Machiavelli è «pessimista» (o meglio «realista») nel considerare gli uomini e i moventi del loro operare; il Guicciardini non è pessimista, ma scettico e gretto.

Paolo Treves (cfr. Il realismo politico di Francesco Guicciardini, in «Nuova Rivista Storica», novembre-dicembre 1930) commette molti errori nei giudizi sul Guicciardini e Machiavelli. Non distingue bene «politica» da «diplomazia», ma proprio in questa non distinzione è la causa dei suoi errati apprezzamenti. Nella politica infatti l'elemento volitivo ha un'importanza molto piú grande che nella diplomazia. La diplomazia sanziona e tende a conservare le situazioni create dall'urto delle politiche statali; è creativa solo per metafora o per convenzione filosofica (tutta l'attività umana è creativa). I rapporti internazionali riguardano un equilibrio di forze in cui ogni singolo elemento statale può influire molto debolmente: Firenze poteva influire rafforzando se stessa, per esempio, ma questo rafforzamento, se pure avesse migliorato la sua posizione nell'equilibrio italiano ed europeo non poteva certo essere pensato come decisivo per capovolgere l'insieme dell'equilibrio stesso. Perciò il diplomatico, per lo stesso abito professionale, è portato allo scetticismo e alla grettezza conservatrice.

Nei rapporti interni di uno Stato, la situazione è incomparabilmente piú favorevole all'iniziativa centrale, a una volontà di comando, cosí come la intendeva il Machiavelli. Il giudizio dato dal De Sanctis del Guicciardini è molto piú realistico di quanto il Treves creda. È da porre la domanda perché il De Sanctis fosse meglio preparato del Treves a dare questo giudizio storicamente e scientificamente piú esatto. Il De Sanctis partecipò a un momento creativo della storia politica italiana, a un momento in cui l'efficienza della volontà politica, rivolta a suscitare forze nuove ed originali e non solo a calcolare su quelle tradizionali, concepite come impossibili di sviluppo e di riorganizzazione (scetticismo politico guicciardinesco), aveva mostrato tutta la sua potenzialità non solo nell'arte di fondare uno stato dall'interno ma anche di padroneggiare i rapporti internazionali, svecchiando i metodi professionali e abitudinari della diplomazia (con Cavour). L'atmosfera culturale era propizia a una concezione piú comprensivamente realistica della scienza e dell'arte politica. Ma anche senza questa atmosfera era impossibile al De Sanctis di comprendere Machiavelli? L'atmosfera data dal momento storico arricchisce i saggi del De Sanctis di un pathos sentimentale che rende piú simpatico e appassionante l'argomento, piú artisticamente espressiva e cattivante l'esposizione scientifica, ma il contenuto logico della scienza politica potrebbe essere stato pensato anche nei periodi di peggiore reazione. Non è forse la reazione anch'essa un atto costruttivo di volontà? E non è atto volontario la conservazione? Perché dunque sarebbe «utopistica» la volontà del Machiavelli perché rivoluzionaria e non utopistica la volontà di chi vuol conservare l'esistente e impedire il sorgere e l'organizzarsi di forze nuove che turberebbero e capovolgerebbero l'equilibrio tradizionale? La scienza politica astrae l'elemento «volontà» e non tiene conto del fine a cui una volontà determinata è applicata. L'attributo di «utopistico» non è proprio della volontà politica in generale, ma delle particolari volontà che non sanno connettere il mezzo al fine e pertanto non sono neanche volontà, ma velleità, sogni, desideri, ecc.

Lo scetticismo del Guicciardini (non pessimismo dell'intelligenza, che può essere unito a un ottimismo della volontà nei politici realistici attivi) ha diverse origini: 1) l'abito diplomatico, cioè di una professione subalterna, subordinata, esecutivo-burocratica che deve accettare una volontà estranea (quella politica del proprio governo o principe) alle convinzioni particolari del diplomatico (che può, è vero, sentire quella volontà come propria, in quanto corrisponde alle proprie convinzioni, ma può anche non sentirla: l'essere la diplomazia divenuta necessariamente una professione specializzata, ha portato a questa conseguenza, di poter staccare il diplomatico dalla politica dei governi mutevoli ecc.), quindi scetticismo e, nell'elaborazione scientifica, pregiudizi extrascientifici; 2) le convinzioni stesse del Guicciardini che era conservatore, nel quadro generale della politica italiana, e perciò teorizza le proprie opinioni, la propria posizione politica, ecc.

Gli scritti del Guicciardini sono piú segno dei tempi, che scienza politica, e questo è il giudizio del De Sanctis; come segno dei tempi e non saggio di storia della scienza politica è lo scritto di Paolo Treves.

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Egemonia (società civile) e divisione dei poteri. La divisione dei poteri e tutta la discussione avvenuta per la sua realizzazione e la dogmatica giuridica nata dal suo avvento, sono il risultato della lotta tra la società civile e la società politica di un determinato periodo storico, con un certo equilibrio instabile delle classi, determinato dal fatto che certe categorie d'intellettuali (al diretto servizio dello Stato, specialmente burocrazia civile e militare) sono ancora troppo legate alle vecchie classi dominanti. Si verifica cioè nell'interno della società quello che il Croce chiama il «perpetuo conflitto tra Chiesa e Stato», in cui la Chiesa è presa a rappresentare la società civile nel suo insieme (mentre non ne è che un elemento gradatamente meno importante) e lo Stato ogni tentativo di cristallizzare permanentemente un determinato stadio di sviluppo, una determinata situazione. In questo senso la Chiesa stessa può diventare Stato e il conflitto può manifestarsi tra Società civile laica e laicizzante e Stato-Chiesa (quando la Chiesa è diventata una parte integrante dello Stato, della società politica monopolizzata da un determinato gruppo privilegiato che si aggrega la Chiesa per sostenere meglio il suo monopolio col sostegno di quella zona di società civile rappresentata dalla Chiesa). Importanza essenziale della divisione dei poteri per il liberalismo politico ed economico: tutta l'ideologia liberale, con le sue forze e le sue debolezze, può essere racchiusa nel principio della divisione dei poteri e appare quale sia la fonte della debolezza del liberalismo: è la burocrazia, cioè la cristallizzazione del personale dirigente che esercita il potere coercitivo e che a un certo punto diventa casta. Onde la rivendicazione popolare della eleggibilità di tutte le cariche, rivendicazione che è estremo liberalismo e nel tempo stesso sua dissoluzione (principio della Costituente in permanenza ecc.; nelle Repubbliche l'elezione a tempo del capo dello Stato dà una soddisfazione illusoria a questa rivendicazione popolare elementare).

Unità dello Stato nella distinzione dei poteri: il Parlamento piú legato alla società civile, il potere giudiziario tra Governo e Parlamento, rappresenta la continuità della legge scritta (anche contro il Governo). Naturalmente tutti e tre i poteri sono anche organi dell'egemonia politica, ma in diversa misura: 1) Parlamento; 2) Magistratura; 3) Governo. È da notare come nel pubblico facciano specialmente impressione disastrosa le scorrettezze della amministrazione della giustizia: l'apparato egemonico è piú sensibile in questo settore, al quale possono ricondursi anche gli arbitri della polizia e dell'amministrazione politica.

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[Concezione del diritto.] Una concezione del diritto che deve essere essenzialmente rinnovatrice. Essa non può essere trovata, integralmente, in nessuna dottrina preesistente (neanche nella dottrina della cosí detta scuola positiva, e particolarmente nella dottrina del Ferri). Se ogni Stato tende a creare e a mantenere un certo tipo di civiltà e di cittadino (e quindi di connivenza e di rapporti individuali), tende a far sparire certi costumi e attitudini e a diffonderne altri, il diritto sarà lo strumento per questo fine (accanto alla scuola ed altre istituzioni ed attività) e deve essere elaborato affinché sia conforme al fine, sia massimamente efficace e produttivo di risultati positivi. La concezione del diritto dovrà essere liberata da ogni residuo di trascendenza e di assoluto, praticamente di ogni fanatismo moralistico, tuttavia mi pare non possa partire dal punto di vista che lo Stato non «punisce» (se questo termine è ridotto al suo significato umano) ma lotta solo contro la «pericolosità» sociale. In realtà lo Stato deve essere concepito come «educatore» in quanto tende appunto a creare un nuovo tipo o livello di civiltà. Per il fatto che si opera essenzialmente sulle forze economiche, che si riorganizza e si sviluppa l'apparato di produzione economica, che si innova la struttura, non deve trarsi la conseguenza che i fatti di soprastruttura debbano abbandonarsi a se stessi, al loro sviluppo spontaneo, a una germinazione casuale e sporadica. Lo Stato, anche in questo campo, è uno strumento di «razionalizzazione», di accelerazione e di taylorizzazione, opera secondo un piano, preme, incita, sollecita, e «punisce», poiché, create le condizioni in cui un determinato modo di vita è «possibile», l'«azione o l'omissione criminale» devono avere una sanzione punitiva, di portata morale, e non solo un giudizio di pericolosità generica. Il diritto è l'aspetto repressivo e negativo di tutta l'attività positiva di incivilimento svolta dallo Stato. Nella concezione del diritto dovrebbero essere incorporate anche le attività «premiatrici» di individui, di gruppi ecc.; si premia l'attività lodevole e meritoria, come si punisce l'attività criminale (e si punisce in modi originali, facendo intervenire l'«opinione pubblica», come sanzionatrice).

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[Politica e diritto costituzionale.] Nella «Nuova Antologia» del 16 dicembre 1929 è pubblicata una noticina di certo M. Azzalini, La politica, scienza ed arte di Stato, che può essere interessante come presentazione degli elementi tra cui si dibatte lo schematismo scientifico. L'Azzalini incomincia affermando che fu gloria «fulgidissima» del Machiavelli «l'aver circoscritto nello Stato l'ambito della politica». Cosa voglia dire l'Azzalini non è facile da capire: egli riporta dal cap. III del Principe il periodo: «Dicendomi el cardinale di Roano che li italiani non si intendevano della guerra, io li risposi ch'e' Franzesi non si intendevano dello Stato» e su questa sola citazione basa l'affermazione che, dunque, per Machiavelli «la politica dovesse intendersi come scienza e come scienza dello Stato» e che fu sua gloria ecc. (il termine «scienza di Stato» per politica sarebbe stato adoperato, nel corretto significato moderno, prima di Machiavelli solo da Marsilio da Padova). L'Azzalini è abbastanza leggero e superficiale. L'aneddoto del cardinale di Roano, avulso dal testo, non significa nulla. Nel contesto assume un significato che non si presta a deduzioni scientifiche: si tratta evidentemente di un motto di spirito, di una battuta di ritorsione immediata. Il cardinale di Roano aveva affermato che gli italiani non si intendono di guerra: per ritorsione il Machiavelli risponde che i francesi non si intendono dello Stato, perché altrimenti non avrebbero permesso al Papa di ampliare il suo potere in Italia, ciò che era contro gli interessi dello Stato francese. Il Machiavelli era ben lungi dal pensare che i francesi non s'intendevano di Stato, perché anzi egli ammirava il modo con cui la monarchia (Luigi XI) aveva ridotto a unità statale la Francia e dell'attività francese di Stato faceva un termine di paragone per l'Italia. In quel suo discorso col cardinale di Roano egli fece della «politica» in atto e non della «scienza politica» poiché, secondo lui, se era dannoso alla «politica estera» francese che il Papa si rafforzasse, ciò era ancor piú dannoso alla politica interna italiana.

Il curioso è che partendo da tale incongrua citazione l'Azzalini continui che «pur enunciandosi che quella scienza studia lo Stato, si dà una definizione (!?) del tutto imprecisa (!) perché non si indica con che criterio debba riguardarsi l'oggetto dell'indagine. E la imprecisione è assoluta dato che tutte le scienze giuridiche in generale ed il diritto pubblico in particolare, si riferiscano indirettamente e direttamente a quell'elemento». Cosa vuol dire tutto ciò, riferito al Machiavelli? Meno di niente: confusione mentale.

Il Machiavelli ha scritto dei libri di «azione politica immediata», non ha scritto un'utopia in cui uno Stato già costituito, con tutte le sue funzioni e i suoi elementi costituiti, fosse vagheggiato. Nella sua trattazione, nella sua critica del presente, ha espresso dei concetti generali, che pertanto si presentano in forma aforistica e non sistematica, e ha espresso una concezione del mondo originale, che si potrebbe anch'essa chiamare «filosofia della praxis» o «neo-umanesimo» in quanto non riconosce elementi trascendentali o immanentici (in senso metafisico) ma si basa tutta sull'azione concreta dell'uomo che per le sue necessità storiche opera e trasforma la realtà. Non è vero, come pare credere l'Azzalini, che nel Machiavelli non sia tenuto conto del «diritto costituzionale», perché in tutto il Machiavelli si trovano sparsi principii generali di diritto costituzionale ed anzi egli afferma, abbastanza chiaramente, la necessità che nello Stato domini la legge, dei principi fissi, secondo i quali i cittadini virtuosi possano operare sicuri di non cadere sotto i colpi dell'arbitrario. Ma giustamente il Machiavelli riconduce tutto alla politica, cioè all'arte di governare gli uomini, di procurarsene il consenso permanente, di fondare quindi i «grandi Stati». Bisogna ricordare che il Machiavelli sentiva che non era Stato il Comune o la Repubblica e la signoria comunale, perché mancava loro con il vasto territorio una popolazione tale da essere la base di una forza militare che permettesse una politica internazionale autonoma: egli sentiva che in Italia, col Papato, permaneva una situazione di non-Stato e che essa sarebbe durata finché anche la religione non fosse diventata «politica» dello Stato e non piú politica del Papa per impedire la formazione di forti Stati in Italia intervenendo nella vita interna dei popoli da lui non dominati temporalmente per interessi che non erano quelli degli Stati e perciò erano perturbatori e disgregatori.

Si potrebbe trovare nel Machiavelli la conferma di ciò che ho altrove notato, che la borghesia italiana medioevale non seppe uscire dalla fase corporativa per entrare in quella politica perché non seppe completamente liberarsi dalla concezione medioevale-cosmopolitica rappresentata dal Papa, dal clero e anche dagli intellettuali laici (umanisti), cioè non seppe creare uno Stato autonomo, ma rimase nella cornice medioevale feudale e cosmopolita.

Scrive l'Azzalini che «basta [...] la sola definizione di Ulpiano e, meglio ancora, gli esempi di lui, recati nel digesto, [...] la identità estrinseca (e allora?) dell'oggetto delle due scienze: "Ius publicum ad statum rei (publicae) romanae spectat. – Publicum ius, in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus consistit". Si ha quindi una identità d'oggetto nel diritto pubblico e nella scienza politica, ma non sostanziale perché i criteri con cui l'una o l'altra scienza riguardano la medesima materia sono del tutto diversi. Diverse infatti sono le sfere dell'ordine giuridico e dell'ordine politico. E per vero mentre la prima osserva l'organismo pubblico sotto un punto di vista statico, come il prodotto naturale di una determinata evoluzione storica, la seconda osserva quel medesimo organismo da un punto di vista dinamico, come un prodotto che può essere valutato nei suoi pregi e nei suoi difetti e che, conseguentemente, deve essere modificato a seconda delle nuove esigenze e delle ulteriori evoluzioni». Perciò si potrebbe dire che «l'ordine giuridico è ontologico ed analitico, perché studia ed analizza i diversi istituti pubblici nel loro reale essere» mentre «l'ordine politico, deontologico e critico perché studia i vari istituti non come sono, ma come dovrebbero essere e cioè con criteri di valutazione e giudizi di opportunità che non sono né possono essere giuridici».

E un tal barbassore crede di essere un ammiratore di Machiavelli e di esserne discepolo, magari, anzi, perfezionatore!

«Da ciò consegue che alla formale identità suddescritta si oppone una sostanziale diversità tanto profonda e notevole da non consentire, forse, il giudizio espresso da uno dei massimi pubblicisti contemporanei che riteneva difficile se non impossibile creare una scienza politica completamente distinta dal diritto costituzionale. A noi sembra che il giudizio espresso sia vero solo se si arresta a questo punto l'analisi dell'aspetto giuridico e dell'aspetto politico, ma non se si prosegue oltre individuando quell'ulteriore campo che è di esclusiva competenza della scienza politica. Quest'ultima, infatti, non si limita a studiare l'organizzazione dello Stato con un criterio deontologico e critico e però diverso da quello usato per il medesimo oggetto dal diritto pubblico, ma amplia la sua sfera ad un campo che le è proprio, indagando le leggi che regolano il sorgere, il divenire, il declinare degli Stati. Né vale raffermare che tale studio è della storia (!) intesa con significato generale (!), perché pur ammettendo che sia indagine storica la ricerca delle cause, degli effetti, dei mutui vincoli d'interdipendenza delle leggi naturali che governano l'essere e il divenire degli Stati, rimarrà sempre di pertinenza esclusivamente politica, non storica quindi, né giuridica, la ricerca di mezzi idonei per presiedere praticamente all'indirizzo generale politico. La funzione che il Machiavelli si riprometteva di svolgere e sintetizzava dicendo: "disputerò come questi principati si possano governare e tenere" (Principe, c. II) è tale per importanza intrinseca di argomento e per specificazione, non solo da legittimare l'autonomia della politica, ma da consentire, almeno sotto l'aspetto ultimamente delineato, una distinzione anche formale fra essa ed il diritto pubblico». Ed ecco cosa intende per autonomia della politica!

Ma, dice l'Azzalini, oltre una scienza, esiste un'arte politica. «Esistono uomini che traggono o trassero dall'intuizione personale la visione dei bisogni e degli interessi dei paesi governati, che nell'opera di governo attuarono nel mondo esterno la visione dell'intuito personale. Con ciò non vogliamo certamente dire che l'attività intuitiva e però artistica sia l'unica e la prevalente nell'uomo di Stato; vogliamo solo dire che in esso, accanto alle attività pratiche, economiche e morali, deve sussistere anche quell'attività teoretica sopraindicata, sia sotto l'aspetto soggettivo dell'intuizione che sotto l'aspetto oggettivo (!) dell'espressione e che, mancando tali requisiti, non può sussistere l'uomo di governo e tanto meno (!) l'uomo di Stato il cui fastigio è caratterizzato appunto da quella inacquistabile (?) facoltà. Anche nel campo politico, quindi, oltre lo scienziato in cui prevale la attività teoretica conoscitiva, sussiste l'artista in cui prevale l'attività teoretica intuitiva. Né con ciò si esaurisce interamente la sfera d'azione dell'arte politica che oltre all'essere osservata in relazione allo statista che colle funzioni pratiche del governo estrinseca la rappresentazione interna dell'intuito, può essere valutata in relazione allo scrittore che realizza nel mondo esterno (!) la verità politica intuita non con atti di potere ma con opere e scritti che traducono l'intuito dell'autore. È il caso dell'indiano Kamandaki (III secolo d. C.), del Petrarca nelTrattatello pei Carraresi, del Botero nella Ragion di Stato e, sotto certi aspetti, del Machiavelli e del Mazzini».

È veramente un bel pasticcio, degno del... Machiavelli, ma specialmente di Tittoni, direttore della «Nuova Antologia». L'Azzalini non sa orientarsi né nella filosofia, né nella scienza della politica. Ma ho voluto prendere tutte queste note per cercare di sbrogliarne l'intrigo e vedere di giungere a concetti chiari per conto mio.

È da distrigare, per es., ciò che può significare «intuizione» nella politica e l'espressione «arte» politica, ecc. – Ricordare insieme alcuni punti del Bergson: «L'intelligenza non ci offre della vita (la realtà in movimento) che una traduzione in termini di inerzia. Essa gira tutt'attorno, prendendo dal di fuori il piú gran numero possibile di vedute dell'oggetto che essa attira presso di sé invece di entrare in esso. Ma nell'interno stesso della vita ci condurrà l'intuizione: intendo dire l'istinto divenuto disinteressato». «Il nostro occhio percepisce i tratti dell'essere vivente, ma avvicinati l'uno all'altro, non organizzati tra loro. L'intenzione della vita, il movimento semplice che corre attraverso le linee, che le lega una con l'altra e dà loro un significato, gli sfugge; ed è questa intenzione che l'artista tende ad affermare collocandosi nell'interno dell'oggetto con una specie di simpatia, abbassando con uno sforzo di intuizione la barriera che lo spazio pone fra lui e il modello. È vero però che l'intuizione estetica non afferra che l'individuale». «L'intelligenza è caratterizzata da una incomprensibilità naturale della vita poi che essa non rappresenta chiaramente che il discontinuo e l'immobilità». Distacco, intanto, dell'intuizione politica dall'intuizione estetica, o lirica, o artistica: solo per metafora si parla di arte politica. L'intuizione politica non si esprime nell'artista, ma nel «capo» e si deve intendere per «intuizione» non la «conoscenza degli individuali» ma la rapidità di connettere fatti apparentemente estranei tra loro e di concepire i mezzi adeguati al fine per trovare gli interessi in gioco e suscitare le passioni degli uomini e indirizzare questi a una determinata azione. L'«espressione» del «capo» è l'«azione» (in senso positivo o negativo: scatenare un'azione o impedire che avvenga una determinata azione, congruente o incongruente col fine che si vuol raggiungere). D'altronde il «capo in politica» può essere un individuo, ma anche un corpo politico piú o meno numeroso, nel qual ultimo caso la unità d'intenti sarà raggiunta da un individuo o da un piccolo gruppo interno e nel piccolo gruppo da un individuo che può mutare volta a volta pur rimanendo il gruppo unitario e coerente nella sua opera continuativa.

Se si dovesse tradurre in linguaggio politico moderno la nozione di «Principe», cosí come essa serve nel libro del Machiavelli, si dovrebbe fare una serie di distinzioni: «principe» potrebbe essere un capo di Stato, un capo di governo, ma anche un capo politico che vuole conquistare uno Stato o fondare un nuovo tipo di Stato; in questo senso «principe» potrebbe tradursi in lingua moderna «partito politico». Nella realtà di qualche Stato il «capo dello Stato», cioè l'elemento equilibratore dei diversi interessi in lotta contro l'interesse prevalente, ma non esclusivista in senso assoluto, è appunto il «partito politico»; esso però a differenza che nel diritto costituzionale tradizionale né regna, né governa giuridicamente: ha «il potere di fatto», esercita la funzione egemonica e quindi equilibratrice di interessi diversi, nella «società civile», che però è talmente intrecciata di fatto con la società politica che tutti i cittadini sentono che esso invece regna e governa. Su questa realtà che è in continuo movimento, non si può creare un diritto costituzionale, del tipo tradizionale, ma solo un sistema di principii che affermano come fine dello Stato la sua propria fine, il suo proprio sparire, cioè il riassorbimento della società politica nella società civile.

Roberto Michels e i partiti politici

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R. Michels, Les Partis politiques et la contrainte sociale, «Mercure de France», 1° maggio 1928, pp. 513-535. «Le parti politique ne saurait être étymologiquement et logiquement qu'une partie de l'ensemble des citoyens, organisée sur le terrain de la politique. Le parti n'est donc qu'une fraction, pars pro toto» (?).

Secondo Max Weber (Wirtschaft und Gesellschaft. Grundriss der Sozialökonomik, III, 2a ediz., Tubinga 1925, pp. 167, 639) ha la sua origine da due specie di cause: sarebbe specialmente una associazione spontanea di propaganda e d'agitazione, che tende al potere per procurare cosí ai suoi aderenti attivi (militanti) possibilità morali e materiali per realizzare fini oggettivi o vantaggi personali o ancora le due cose insieme. L'orientazione generale dei partiti politici consisterebbe pertanto nel Machtstreben, personale o impersonale. Nel primo caso i partiti personali sarebbero basati sulla protezione accordata a degli inferiori da un uomo potente. Nella storia (?) dei partiti politici i casi di tal genere sono frequenti. Nella vecchia dieta prussiana del 1855, che comprendeva molti gruppi politici, tutti avevano il nome dei loro capi: il solo gruppo che si diede il vero nome fu un gruppo nazionale, quello polacco (cfr. Friedrich Naumann, Die politischen Parteien, Berlino, 1910, «Die Hilfe», p. 8).

La storia del movimento operaio dimostra che i socialisti non hanno sprezzato questa tradizione borghese. Spesso i partiti socialisti hanno preso il nome dai loro capi («comme pour faire aveu public de leur assujettissement complet à ces chefs») (!). In Germania, tra il 1863 e il 1875, le frazioni socialiste rivali erano i Marxisti e i Lassalliani. In Francia, in un'epoca piú recente, le grandi correnti socialiste erano divise in Broussistes, Allemanistes, Blanquistes, Guesdistes e Jaurèssistes. È vero che gli uomini che davano cosí il nome ai diversi movimenti personificavano il piú completamente possibile le idee e le tendenze che ispiravano il partito e li guidarono durante tutta la sua evoluzione (Maurice Charnay, Les Allemanistes, Parigi, Rivière, 1912, p. 25).

Forse c'è analogia tra i partiti politici e le sette religiose e gli ordini monastici; Yves Guyot ha notato che l'individuo appartenente al partito moderno opera come i frati del Medio Evo, che presero il nome da S. Domenico, S. Benedetto, Agostino, Francesco (Yves Guyot, La Comédie socialiste, Parigi, 1897, Charpentier, p. 111). Ecco dei partiti-tipo, che potrebbero essere chiamati «partis de patronage». Quando il capo esercita un influsso sui suoi aderenti per qualità cosí eminenti che sembrano soprannaturali a questi ultimi, esso può essere chiamato capo charismatico (χάρισμα, dono di dio, ricompensa; cfr. M. Weber, op. cit., p. 140). (Questa nota è segnata 4 bis, cioè è stata inserita nelle bozze; non certo per la traduzione di «χάρισμα», ma forse per la citazione del Weber. Il Michels ha fatto molto baccano in Italia per la «sua» trovata del «capo charismatico» che probabilmente (occorrerebbe confrontare) era già nel Weber; bisognerebbe vedere anche il libro del Michels sulla Sociologia politica del '27: non accenna neanche che una concezione del capo per grazia di dio è già esistita e come!)

Tuttavia questa specie di partito [si] presenta talvolta in forme piú generali. Lo stesso Lassalle, il capo dei Lassalliani, officialmente non era che presidente a vita dell'Allgemeiner Deutscher Arbeiterverein. Egli si compiaceva di vantarsi dinanzi ai suoi fautori dell'idolatria che godeva da parte delle masse deliranti e delle vergini vestite di bianco che gli cantavano dei cori e gli offrivano dei fiori. Questa fede charismatica non era solo frutto di una psicologia esuberante e un po' megalomane, ma corrispondeva anche a una concezione teorica. Noi dobbiamo – disse agli operai renani esponendo loro le sue idee sull'organizzazione del partito – di tutte le nostre volontà disperse foggiare un martello e metterlo nelle mani d'un uomo la cui intelligenza, il carattere e l'attaccamento ci siano una garanzia che colpisca energicamente (cfr. Michels, Les partis politiques, 1914, p. 130; non rimanda all'edizione italiana ampliata e del '24). Era il martello del dittatore. Piú tardi le masse domandarono almeno un simulacro di democrazia e di potere collettivo, si formarono gruppi sempre piú numerosi di capi che non ammettevano la dittatura di un solo. Jaurès e Bebel sono due tipi di capi charismatici. Bebel, orfano di un sottufficiale di Pomerania, parlava altezzosamente (?) ed era imperativo (Hervé lo chiamò il Kaiser Bebel: cfr. Michels, Bedeutende Männer, Lipsia, 1927, p. 29). Jaurès, oratore straordinario, senza uguali, infiammato, romantico e insieme realista, che cercava di sormontare le difficoltà, «seriando» i problemi, per abbatterli a misura che si presentavano. (cfr. Rappoport, Jean Jaurès. L'homme. Le Penseur. Le Socialiste, 2a ed., Parigi, 1916, p. 366). I due grandi capi, amici e nemici, avevano in comune una fede indomita tanto nell'efficacia della loro azione, che nei destini delle legioni delle quali erano i portabandiera. Furono ambedue deificati: Bebel ancor vivo, Jaurès da morto.

Mussolini è un altro esempio di capo partito che ha del veggente e del credente. Egli, inoltre, non è solo capo unico di un grande partito, ma è anche il capo unico di un grande Stato. Con lui anche la nozione dell'assioma: «il partito sono io», ha avuto, nel senso della responsabilità e del lavoro assiduo, il massimo sviluppo. (Storicamente inesatto. Intanto [è] proibita la formazione di gruppi e ogni discussione di assemblea, perché esse si erano verificate disastrose. Mussolini si serve dello Stato per dominare il partito e del partito, solo in parte, nei momenti difficili, per dominare lo Stato. Inoltre il cosidetto «charisma», nel senso del Michels, nel mondo moderno coincide sempre con una fase primitiva dei partiti di massa, con la fase in cui la dottrina si presenta alle masse come qualcosa di nebuloso e incoerente, che ha bisogno di un papa infallibile per essere interpretata e adattata alle circostanze; tanto piú avviene questo fenomeno, quanto piú il partito nasce e si forma non sulla base di una concezione del mondo unitaria e ricca di sviluppi perché espressione di una classe storicamente essenziale e progressiva, ma sulla base di ideologie incoerenti e arruffate, che si nutrono di sentimenti ed emozioni che non hanno raggiunto ancora il punto terminale di dissolvimento, perché le classi (o la classe) di cui è espressione, quantunque in dissoluzione, storicamente, hanno ancora una certa base e si attaccano alle glorie del passato per farsene scudo contro l'avvenire).

L'esempio che Michels dà come prova della risonanza nelle masse di questa concezione è infantile, per chi conosce la facilità delle folle italiane all'esagerazione sentimentale e all'entusiasmo «emotivo»: una voce su diecimila presenti dinanzi a palazzo Chigi avrebbe gridato: «No, sei tu l'Italia», in un'occasione di commozione obbiettivamente reale della folla fascista. Mussolini avrebbe poi manifestato l'essenza charismatica del suo carattere nel telegramma inviato a Bologna in cui diceva di essere sicuro, assolutamente sicuro (e certamente lo era, pour cause) che niente di grave poteva capitargli prima d'aver portato a termine la sua missione.

«Nous n'avons pas ici à indiquer les dangers que la conception charismatique peut entraîner» (?). La direzione charismatica porta in sé un dinamismo politico vigorosissimo. Saint-Simon, nel suo letto di morte, disse ai suoi discepoli di ricordarsi che per fare grandi cose, bisogna essere appassionati. Essere appassionati significa avere il dono di appassionare gli altri. È uno stimolante formidabile. Questo è il vantaggio dei partiti charismatici su gli altri basati su un programma ben definito e sull'interesse di classe. È vero, però, che la durata dei partiti charismatici è spesso regolata dalla durata del loro slancio e dal loro entusiasmo, che talvolta danno una base molto fragile. Perciò vediamo i partiti charismatici portati ad appoggiare i loro valori psicologici (!) sulle organizzazioni piú durature degli interessi umani.

Il capo carismatico può appartenere a qualsiasi partito, sia autoritario sia antiautoritario (dato che esistano partiti antiautoritari, come partiti; avviene anzi che i «movimenti» antiautoritari, anarchici, sindacalisti-anarchici, diventano «partito» perché l'aggruppamento avviene intorno a personalità «irresponsabili» organizzativamente, in un certo senso «carismatiche»).

La classificazione dei partiti del Michels è molto superficiale e sommaria, per caratteri esterni e generici: 1) partiti «carismatici», cioè raggruppamenti intorno a certe personalità, con programmi rudimentali; la base di questi partiti è la fede e l'autorità d'un solo. (Di tali partiti non se n'è mai visti; certe espressioni d'interessi sono in certi momenti rappresentate da certe personalità piú o meno eccezionali: in certi momenti di «anarchia permanente» dovuta all'equilibrio statico delle forze in lotta, un uomo rappresenta l'«ordine» cioè la rottura con mezzi eccezionali dell'equilibrio mortale e intorno a lui si raggruppano gli «spauriti», le «pecore idrofobe» della piccola borghesia: ma c'è sempre un programma, sia pure generico, anzi generico appunto perché tende solo a rifare l'esteriore copertura politica a un contenuto sociale che non attraversa una vera crisi costituzionale, ma solo una crisi dovuta al troppo numero di malcontenti, difficili da domare per la loro mera quantità e per la simultanea ma meccanicamente simultanea manifestazione del malcontento su tutta l'area della nazione); 2) partiti che hanno per base interessi di classe, economici e sociali, partiti di operai, contadini o di «petites gens» (poiché) i borghesi non possono da soli formare un partito; 3) partiti politici generati (!) da idee politiche o morali, generali e astratte: quando questa concezione si basa su un dogma piú sviluppato ed elaborato fino nei dettagli si potrebbe parlare di partiti dottrinari, le cui dottrine sarebbero privilegio dei capi: partiti libero scambisti o protezionisti o che proclamano dei diritti di libertà o di giustizia come: «a ciascuno il prodotto del suo lavoro! a ciascuno secondo le sue forze! a ciascuno secondo i suoi bisogni!»

Il Michels trova, meno male, che questa distinzione non può essere netta né completa, perché i partiti «concreti» rappresentano per lo piú sfumature intermedie o combinazioni di tutte e tre. A questi tre tipi ne aggiunge altri due: i partiti confessionali e i partiti nazionali (bisognerebbe ancora aggiungere i partiti repubblicani in regime monarchico e i partiti monarchici in regime repubblicano). Secondo il Michels i partiti confessionali piú che una Weltanschauung professano unaUeberweltanschauung (che poi è lo stesso). I partiti nazionali professano il principio generale del diritto di ogni popolo e di ogni frazione di popolo alla completa sovranità senza condizioni (teorie di P. S. Mancini). Ma dopo il '48 questi partiti sono spariti, e sono sorti i partiti nazionalisti, senza principi generali perché negano agli altri ecc. (sebbene i partiti nazionalisti non sempre neghino «teoricamente» agli altri popoli ciò che affermano per il proprio: pongono la risoluzione del conflitto nelle armi, quando non partano da concezioni vaghe di missioni nazionali, come poi il Michels dice).

L'articolo [è] pieno di parole vuote e imprecise. «Il bisogno dell'organizzazione [...] e le tendenze ineluttabili (!) della psicologia umana, individuale e collettiva, cancellano alla lunga la maggior parte delle distinzioni originarie». (Cosa vuol dire tutto ciò: il tipo «sociologico» non corrisponde al fatto concreto). «Il partito politico come tale ha la sua propria anima (!), indipendente dai programmi e dai regolamenti che si è dato e dai principi eterni di cui è imbevuto». Tendenza all'oligarchia. «Dandosi dei capi, gli stessi operai si creano, con le proprie mani, nuovi padroni, la cui principale arma di dominio consiste nella loro superiorità tecnica e intellettuale, e nell'impossibilità d'un controllo efficace da parte dei loro mandanti». Gli intellettuali hanno una funzione (in questa manifestazione). I partiti socialisti, grazie ai numerosi posti retribuiti e onorifici di cui dispongono, offrono agli operai (a un certo numero di operai, naturalmente!) una possibilità di far carriera, ciò che esercita su di essi una forza di attrazione considerevole (questa forza si esercita, però, piú sugli intellettuali).

Complessità progressiva del mestiere politico per cui i capi dei partiti diventano sempre piú dei professionisti, che devono avere nozioni sempre piú estese, un tatto, una pratica burocratica, e spesso una furberia sempre piú vasta. Cosí i dirigenti si allontanano sempre piú dalla massa e si vede la flagrante contraddizione che nei partiti avanzati esiste tra le dichiarazioni e le intenzioni democratiche e la realtà oligarchica (bisogna però osservare che altra è la democrazia di partito e altra la democrazia nello Stato: per conquistare la democrazia nello Stato può essere necessario – anzi è quasi sempre necessario – un partito fortemente accentrato; e poi ancora: le quistioni di democrazia e di oligarchia hanno un significato preciso che è loro dato dalla differenza di classe tra capi e gregari: la quistione diventa politica, acquista un valore reale cioè e non piú solo di schematismo sociologico, quando nell'organizzazione c'è scissione di classe: ciò è avvenuto nei sindacati e nei partiti socialdemocratici: se non c'è differenza di classe la quistione diventa puramente tecnica – l'orchestra non crede che il direttore sia un padrone oligarchico – di divisione del lavoro e di educazione, cioè l'accentramento deve tener conto che nei partiti popolari l'educazione e l'«apprendissaggio» politico si verifica in grandissima parte attraverso la partecipazione attiva dei gregari alla vita intellettuale – discussioni – e organizzativa dei partiti. La soluzione del problema, che si complica appunto per il fatto che nei partiti avanzati hanno una grande funzione gli intellettuali, può trovarsi nella formazione tra i capi e le masse di uno strato medio quanto piú numeroso è possibile che serva di equilibrio per impedire ai capi di deviare nei momenti di crisi radicale e per elevare sempre piú la massa).

Le idee di Michels sui partiti politici sono abbastanza confuse e schematiche, ma sono interessanti come raccolta di materiale grezzo e di osservazioni empiriche e disparate. Anche gli errori di fatto non sono pochi (il partito bolscevico sarebbe nato dalle idee minoritarie di Blanqui e dalle concezioni, piú severe e piú diversificate, del movimento sindacalista francese, inspirate da G. Sorel). La bibliografia degli scritti del Michels si può sempre ricostruire dai suoi stessi scritti, perché egli si cita abbondantemente.

La ricerca può incominciare dai libri che ho già. Un'osservazione interessante per il modo di lavorare e di pensare del Michels: le sue scritture sono zeppe di citazioni bibliografiche, in buona parte oziose e ingombranti. Egli appoggia anche i piú banali truismi con l'autorità degli scrittori piú disparati. Si ha spesso l'impressione che non è il corso del pensiero che determina le citazioni, ma il mucchio di citazioni già pronte che determina il corso del pensiero, dandogli un che di saltellante e improvvisato. Il Michels deve aver costruito un immenso schedario, ma da dilettante, da autodidatta. Può avere una certa importanza sapere chi ha fatto per la prima volta una certa osservazione, tanto piú se questa osservazione ha dato uno stimolo a una ricerca o ha fatto progredire in qualsiasi modo una scienza. Ma annotare che il tale o il tal altro ha detto che due e due fanno quattro è per lo meno inetto.

Altre volte le citazioni sono molto addomesticate: il giudizio settario, o, nel caso migliore, epigrammatico, di un polemista, viene assunto come fatto storico o come documento di fatto storico. Quando a p. 514 di questo articolo sul «Mercure de France», egli dice che in Francia la corrente socialista era divisa in Broussisti, Allemanisti, Blanquisti, Guesdisti e Jauressisti per trarne l'osservazione che nei partiti moderni avviene come negli ordini monastici medioevali (benedettini, francescani, ecc.), con la citazione della Comédie socialiste di Yves Guyot, da cui deve aver preso lo spunto, egli non dice che quelle non erano le denominazioni ufficiali dei partiti, ma denominazioni di «comodo» nate dalle polemiche interne, anzi quasi sempre contenevano implicitamente una critica e un rimprovero di deviazione personalistica, critica e rimprovero scambievoli che si irrigidivano poi nell'effettivo uso della denominazione personalistica (per la stessa ragione «corporativa» e «settaria» per cui i «Gueux» si chiamarono anch'essi cosí). Per questa ragione tutte le considerazioni epigrammatiche del Michels cadono nel superficialismo da salotto reazionario.

La pura descrittività e classificazione esterna della vecchia sociologia positivistica sono un altro carattere essenziale di queste scritture del Michels: egli non ha nessuna metodologia intrinseca ai fatti, nessun punto di vista critico che non sia un amabile scetticismo da salotto o da caffè reazionario che ha sostituito la sbarazzineria altrettanto superficiale del sindacalismo rivoluzionario e del sorellismo.

Rapporti tra Michels e Sorel: lettera di Sorel a Croce in cui accenna alla superficialità di Michels e tentativo meschino del Michels per togliersi di dosso il giudizio del Sorel. Nella lettera al Croce del 30 maggio 1916 («Critica», 20 settembre 1929, p. 357) il Sorel scrive: «Je viens de recevoir une brochure de R. Michels, tirée de Scientia, mai 1916: "La débacle de L'Internationale ouvrière et l'avenir". Je vous prie d'y jeter les yeux; elle me semble prouver que l'auteur n'a jamais rien compris à ce qui est important dans le marxisme. Il nous présente Garibaldi, L. Blanc, Benoit Malon (!!) comme les vrais maîtres de la pensée socialiste...». (L'impressione del Sorel deve essere esatta – io non ho letto questo scritto del Michels – perché essa colpisce in modo piú evidente nel libro del Michels sul movimento socialista italiano, Edizioni della «Voce»).

Nei «Nuovi studi di Diritto, Economia e Politica» del settembre-ottobre 1929, il Michels pubblica cinque letterine inviategli dal Sorel (1a nel 1905, 2a nel 1912, 3anel 1917, 4a nel '17, 5a nel '17) di carattere tutt'altro che confidenziale, ma piuttosto di corretta e fredda convenienza, e in una nota (v. p. 291) scrive a proposito del su citato giudizio: «Il Sorel evidentemente non aveva compreso (!) il senso piú diretto dell'articolo incriminato, in cui io avevo accusato (!) il marxismo di lasciarsi sfuggire (!) il lato etico del socialismo mazziniano ed altro, e di aver, esagerando il lato meramente economico, portato il socialismo alla rovina. D'altronde, come risulta dalle lettere già pubblicate (quali lettere? quelle pubblicate dal Michels, queste cinque in parola? esse non dicono nulla), lo scatto (in corsivo dal Michels, ma si tratta di ben altro che scatto; per il Sorel si tratta, pare, di conferma di un giudizio già fatto da un pezzo) del Sorel nulla tolse ai buoni rapporti (!) coll'autore di queste righe». In queste note nei «Nuovi Studi», il Michels mi pare tende ad alcuni fini discretamente interessanti e ambigui: a gettare un certo discredito sul Sorel come uomo e come «amico» dell'Italia e a far apparire se stesso come patriotta italiano di vecchia data. Ritorna questo motivo molto equivoco nel Michels (credo di aver notato altrove la sua situazione allo scoppio della guerra). È interessante la letterina di Sorel a Michels del 10 luglio 1912: «Je lis le numéro de la Vallée d'Aoste che vous avez bien voulu m'envoyer. J'y ai remarqué que vous affirmez un droit au séparatisme qui est bien de nature à rendre suspect aux Italiens le maintien de la langue française dans la Vallée d'Aoste». Michels nota che si tratta di un numero unico: «La Vallée d'Aoste pour sa langue française», pubblicato nel maggio 1912 ad Aosta dalla tipografia Margherittaz, sotto gli auspici di un Comitato locale valdostano per la protezione della lingua francese (collaboratori, Michels, Croce, Prezzolini, Graf, ecc.). «Inutile dire che nessuno di questi autori aveva fatta sua, come con soverchia licenza poetica si esprime il Sorel, una qualsiasi tesi separatista». Il Sorel accenna solo al Michels ed io sono portato a credere che egli abbia veramente per lo meno accennato al diritto al separatismo (bisognerebbe controllare nel caso di una presentazione del Michels che sarà necessaria un giorno).

Note sulla vita nazionale francese

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Note sulla vita nazionale francese. Il partito monarchico in regime repubblicano, come il partito repubblicano in regime monarchico, o il partito nazionale in regime di soggezione del paese a uno Stato straniero, non possono non essere partiti sui generis: devono essere, cioè, se vogliono ottenere successi relativamente rapidi, le centrali di federazioni di partiti, piú che partiti caratterizzati in tutti i punti particolari dei loro programmi di governo; partiti di un sistema generale di governo e non di governi particolari (in questa stessa serie spetta un posto a parte ai partiti confessionali, come il Centro tedesco o i diversi partiti cristiano-sociali o popolari). Il partito monarchico si fonda in Francia sui residui ancora tenaci della vecchia nobiltà terriera e su una parte della piccola borghesia e degli intellettuali. Su che sperano i monarchici per diventare capaci di assumere il potere e restaurare la monarchia? Sperano sul collasso del regime parlamentare-borghese e sulla incapacità di qualsiasi altra forza organizzata esistente ad essere il nucleo politico di una dittatura militare prevedibile o da loro stessi preordinata; in nessun altro modo le loro forze sociali sarebbero in grado di conquistare il potere. In attesa, il centro dirigente dell'Action Française svolge sistematicamente una serie di attività: un'azione organizzativa politico-militare (militare nel senso di partito e nel senso di avere cellule attive fra gli ufficiali dell'esercito) per raggruppare nel modo piú efficiente l'angusta base sociale su cui storicamente il movimento s'appoggia. Essendo questa base costituita di elementi in generale piú scelti per intelligenza, cultura, ricchezza, pratica di amministrazione ecc. che qualsiasi altro movimento, è possibile avere un partito notevole, imponente persino, ma che però si esaurisce in se stesso, che non ha, cioè, riserve da gettare nella lotta in una crisi risolutiva. Il partito è notevole, pertanto, solo nei tempi normali, quando gli elementi attivi nella lotta politica si contano a decine di migliaia, ma diventerà insignificante (numericamente) nei periodi di crisi, quando gli attivi si conteranno a centinaia di migliaia e forse a milioni.

Lo sviluppo del giacobinismo (di contenuto) e della formula della rivoluzione permanente attuata nella fase attiva della Rivoluzione francese ha trovato il suo «perfezionamento» giuridico-costituzionale nel regime parlamentare, che realizza, nel periodo piú ricco di energie «private» nella società, l'egemonia permanente della classe urbana su tutta la popolazione, nella forma hegeliana del governo col consenso permanentemente organizzato (ma l'organizzazione del consenso è lasciata all'iniziativa privata, è quindi di carattere morale o etico, perché consenso «volontariamente» dato in un modo o nell'altro). Il «limite» trovato dai giacobini nella legge Chapelier e in quella del maximum, viene superato e respinto piú lontano progressivamente attraverso un processo completo, in cui si alternano l'attività propagandistica e quella pratica (economica, politico-giuridica): la base economica, per lo sviluppo industriale e commerciale, viene continuamente allargata e approfondita, dalle classi inferiori si innalzano fino alle classi dirigenti gli elementi sociali piú ricchi di energia e di spirito d'intrapresa, la società intera è in continuo processo di formazione e di dissoluzione seguita da formazioni piú complesse e ricche di possibilità; ciò dura, in linea generale, fino all'epoca dell'imperialismo e culmina nella guerra mondiale. In questo processo si alternano tentativi di insurrezione e repressioni spietate, allargamento e restrizioni del suffragio politico, libertà di associazione e restrizioni o annullamenti di questa libertà, libertà nel campo sindacale ma non in quello politico, forme diverse di suffragio, scrutinio di lista o circoscrizioni uninominali, sistema proporzionale o individuale, con le varie combinazioni che ne risultano – sistema delle due camere o di una sola camera elettiva, con vari modi di elezione per ognuna (camera vitalizia ed ereditaria, Senato a termine, ma con elezione dei Senatori diversa da quella dei deputati ecc.) –, vario equilibrio dei poteri, per cui la magistratura può essere un potere indipendente o solo un ordine, controllato e diretto dalle circolari ministeriali, diverse attribuzioni del capo del governo e dello Stato, diverso equilibrio interno degli organismi territoriali (centralismo o decentramento, maggiori o minori poteri dei prefetti, dei Consigli provinciali, dei Comuni, ecc.), diverso equilibrio tra le forze armate di leva e quelle professionali (polizia, gendarmeria), con la dipendenza di questi corpi professionali dall'uno o dall'altro organo statale (dalla magistratura, dal ministero dell'interno o dallo Stato maggiore); la maggiore o minore parte lasciata alla consuetudine o alla legge scritta, per cui si sviluppano forme consuetudinarie che possono ad un certo punto essere abolite in virtú delle leggi scritte (in alcuni paesi «pareva» si fossero costituiti regimi democratici, ma essi si erano costituiti solo formalmente, senza lotta, senza sanzione costituzionale e fu facile disgregarli senza lotta, o quasi, perché privi di sussidi giuridico-morali e militari, ripristinando la legge scritta o dando della legge scritta interpretazioni reazionarie); il distacco piú o meno grande tra le leggi fondamentali e i regolamenti d'esecuzione che annullano le prime o ne danno un'interpretazione restrittiva; l'impiego piú o meno esteso dei decreti-legge che tendono a sostituire la legislazione ordinaria e la modificano in certe occasioni, «forzando la pazienza» del parlamento fino a giungere a un vero e proprio «ricatto della guerra civile». A questo processo contribuiscono i teorici-filosofi, i pubblicisti, i partiti politici ecc. per lo sviluppo della parte formale e i movimenti o le pressioni di massa per la parte sostanziale, con azioni e reazioni reciproche, con iniziative «preventive» prima che un fenomeno si manifesti pericolosamente e con repressioni quando le prevenzioni sono mancate o sono state tardive e inefficaci.

L'esercizio «normale» dell'egemonia nel terreno divenuto classico del regime parlamentare, è caratterizzato dalla combinazione della forza e del consenso che si equilibrano variamente, senza che la forza soverchi di troppo il consenso, anzi cercando di ottenere che la forza appaia appoggiata sul consenso della maggioranza, espresso dai cosí detti organi dell'opinione pubblica – giornali e associazioni – i quali, perciò, in certe situazioni, vengono moltiplicati artificiosamente. Tra il consenso e la forza sta la corruzione-frode (che è caratteristica di certe situazioni di difficile esercizio della funzione egemonica, presentando l'impiego della forza troppi pericoli) cioè lo snervamento e la paralisi procurati all'antagonista o agli antagonisti con l'accaparrarne i dirigenti sia copertamente sia in caso di pericolo emergente, apertamente, per gettare lo scompiglio e il disordine nelle file antagoniste.

Nel periodo del dopoguerra, l'apparato egemonico si screpola e l'esercizio dell'egemonia diviene permanentemente difficile e aleatorio. Il fenomeno viene presentato e trattato con vari nomi e in aspetti secondari e derivati. I piú triviali sono: «crisi del principio d'autorità» e «dissoluzione del regime parlamentare». Naturalmente del fenomeno si descrivono sole le manifestazioni «teatrali» sul terreno parlamentare e del governo politico ed esse appunto si spiegano col fallimento di alcuni «principii» (parlamentare, democratico, ecc.) e con la «crisi» del principio d'autorità (del fallimento di questo principio parleranno altri non meno superficiali e superstiziosi). La crisi si presenta praticamente nella sempre crescente difficoltà di formare i governi e nella sempre crescente instabilità dei governi stessi: essa ha la sua origine immediata nella moltiplicazione dei partiti parlamentari, e nelle crisi interne permanenti di ognuno di questi partiti (si verifica cioè nell'interno di ogni partito ciò che si verifica nell'intero parlamento: difficoltà di governo e instabilità di direzione). Le forme di questo fenomeno sono anche, in una certa misura, di corruzione e dissoluzione morale: ogni frazione di partito crede di avere la ricetta infallibile per arrestare l'indebolimento dell'intero partito, e ricorre a ogni mezzo per averne la direzione o almeno per partecipare alla direzione, cosí come nel parlamento il partito crede di essere il solo a dover formare il governo per salvare il paese o almeno pretende, per dare l'appoggio al governo, di doverci partecipare il piú largamente possibile; quindi contrattazioni cavillose e minuziose, che non possono non essere personalistiche in modo da apparire scandalose, e che spesso sono infide e perfide. Forse, nella realtà, la corruzione personale è minore di quanto appare, perché tutto l'organismo politico è corrotto dallo sfacelo della funzione egemonica. Che gli interessati a che la crisi si risolva dal loro punto di vista, fingano di credere e proclamino a gran voce che si tratta della «corruzione» e della «dissoluzione» di una serie di «principii» (immortali o no), potrebbe anche essere giustificato: ognuno è il giudice migliore nella scelta delle armi ideologiche che sono piú appropriate ai fini che vuol raggiungere e la demagogia può essere ritenuta arma eccellente. Ma la cosa diventa comica quando il demagogo non sa di esserlo ed opera praticamente come fosse vero nella realtà effettuale che l'abito è il monaco e il berretto il cervello. Machiavelli diventa cosí Stenterello.

La crisi in Francia. Sua grande lentezza di sviluppi. I partiti politici francesi: essi erano molto numerosi anche prima del 1914. La loro molteplicità formale dipende dalla ricchezza di eventi rivoluzionari e politici in Francia dal 1789 all'Affare Dreyfus: ognuno di questi eventi ha lasciato sedimenti e strascichi che si sono consolidati in partiti, ma le differenze essendo molto meno importanti delle coincidenze, in realtà ha sempre regnato nel Parlamento il regime dei due partiti, liberali-democratici (varie gamme del radicalismo) e conservatori. Si può anzi dire che la molteplicità dei partiti, date le circostanze particolari della formazione politico-nazionale francese è stata molto utile nel passato: ha permesso una vasta opera di selezioni individuali e ha creato il gran numero di abili uomini di governo che è caratteristica francese. Attraverso questo meccanismo molto snodato e articolato, ogni movimento dell'opinione pubblica trovava un immediato riflesso e una composizione. L'egemonia borghese è molto forte e ha molte riserve. Gli intellettuali sono molto concentrati (Istituto di Francia, Università, grandi giornali e riviste di Parigi) e quantunque numerosissimi sono in fondo molto disciplinati ai centri nazionali di cultura. La burocrazia militare e civile ha una grande tradizione e ha raggiunto un alto grado di omogeneità attiva.

La debolezza interna piú pericolosa per l'apparato statale (militare e civile) consisteva nell'alleanza del clericalismo e del monarchismo. Ma la massa popolare, se pure cattolica, non era clericale. Nell'affare Dreyfus è culminata la lotta per paralizzare l'influsso clericale-monarchico nell'apparato statale e per dare all'elemento laico la netta prevalenza. La guerra non ha indebolito ma rafforzato l'egemonia; non si è avuto il tempo di pensare: lo Stato è entrato in guerra e quasi subito il territorio è stato invaso. Il passaggio dalla disciplina di pace a quella di guerra non ha domandato una crisi troppo grande: i vecchi quadri militari erano abbastanza vasti ed elastici; gli ufficiali subalterni e i sottufficiali erano forse i piú selezionati del mondo e i meglio allenati alle funzioni di comando immediato sulle truppe. Confronto con altri paesi. La quistione degli arditi e del volontarismo; la crisi dei quadri, determinata dal sopravvento degli ufficiali di complemento, che altrove avevano una mentalità antitetica con gli ufficiali di carriera. Gli arditi, in altri paesi, hanno rappresentato un nuovo esercito di volontari, una selezione militare, che ebbe una funzione tattica primordiale. Il contatto col nemico fu cercato solo attraverso gli arditi, che formavano come un velo tra il nemico e l'esercito di leva (funzione delle stecche nel busto). La fanteria francese era formata in grandissima maggioranza di coltivatori diretti, cioè di uomini forniti di una riserva muscolare e nervosa molto ricca che rese piú difficile il collasso fisico procurato dalla lunga vita di trincea (il consumo medio di un cittadino francese è di circa 1.500.000 calorie annue, mentre quello italiano è minore di 1.000.000); in Francia il bracciantato agricolo è minimo, il contadino senza terra è servo di fattoria, cioè vive la stessa vita dei padroni e non conosce l'inedia della disoccupazione neanche stagionale; il vero bracciantato si confonde con la mala vita rurale ed è formato di elementi irrequieti che viaggiano da un angolo all'altro del paese per piccoli lavori marginali. Il vitto in trincea era migliore che in altri paesi e il passato democratico, ricco di lotte e di ammaestramenti reciproci, aveva creato il tipo diffuso del cittadino moderno anche nelle classi subalterne, cittadino nel doppio senso, che l'uomo del popolo si sentiva qualche cosa non solo, ma era ritenuto qualche cosa anche dai superiori, dalle classi dirigenti, cioè non era sfottuto e bistrattato per bazzecole. Non si formarono cosí, durante la guerra, quei sedimenti di rabbia avvelenata e sorniona che si formarono altrove. Le lotte interne del dopoguerra mancarono perciò di grande asprezza e specialmente, non si verificò l'inaudita oscillazione delle masse rurali verificatasi altrove.

La crisi endemica del parlamentarismo francese indica che c'è un malessere diffuso nel paese ma questo malessere non ha avuto finora un carattere radicale, non ha posto in gioco quistioni intangibili. C'è stato un allargamento della base industriale e quindi un accresciuto urbanesimo. Masse di rurali si sono riversate in città, ma non perché ci fosse in campagna disoccupazione o fame insoddisfatta di terra; perché in città si sta meglio, ci sono piú soddisfazioni ecc. (il prezzo della terra è bassissimo e molte terre buone sono abbandonate agli Italiani). La crisi parlamentare riflette (finora) piuttosto uno spostamento normale di masse (non dovuto ad acuta crisi economica), con una ricerca laboriosa di nuovi equilibri di rappresentanza e di partiti e un malessere vago che è solo premonitore di una possibile grande crisi politica. La stessa sensibilità dell'organismo politico porta ad esagerare formalmente i sintomi del malessere. Finora si è trattato di una serie di lotte per la divisione dei carichi e dei benefici statali, piú che altro, perciò crisi dei partiti medi e di quello radicale in primo luogo, che rappresenta le città medie e piccole e i contadini piú avanzati. Le forze politiche si preparano alle grandi lotte future e cercano un migliore assestamento; le forze extrastatali fanno sentire piú sensibilmente il loro peso e impongono i loro uomini in modo piú brutale.

Il punto culminante della crisi parlamentare francese fu raggiunto nel 1925 e dall'atteggiamento verso quegli avvenimenti, ritenuti decisivi, occorre partire per dare un giudizio sulla consistenza politica e ideologica dell'Action Française. Maurras gridò allo sfacelo del regime repubblicano e il suo gruppo si preparò alla presa del potere. Maurras è spesso esaltato come un grande statista e come un grandissimo Realpolitiker: in realtà egli è solo un giacobino alla rovescia. I giacobini impiegavano un certo linguaggio, erano convinti fautori di una determinata ideologia; nel tempo e nelle circostanze date, quel linguaggio e quella ideologia erano ultrarealistici, perché ottenevano di mettere in moto le energie politiche necessarie ai fini della Rivoluzione e a consolidare permanentemente l'andata al potere della classe rivoluzionaria; furono poi staccati, come avviene quasi sempre, dalle condizioni di luogo e di tempo e ridotti in formule e divennero una cosa diversa, una larva, parole vacue e inerti. Il comico consiste nel fatto che il Maurras capovolse banalmente quelle formule, creandone altre che sistemò in un ordine logico-letterario impeccabile, le quali non potevano anche esse che rappresentare il riflesso del piú puro e triviale illuminismo. In realtà è proprio Maurras il piú rappresentativo campione dello «stupido secolo XIX», la concentrazione di tutti i luoghi comuni massonici meccanicamente rovesciati: la sua relativa fortuna dipende appunto da ciò che il suo metodo piace perché è quello della ragione ragionante da cui è nato l'enciclopedismo, e tutta la tradizione culturale massonica francese. L'illuminismo creò una serie di miti popolari, che erano solo la proiezione nel futuro delle piú profonde e millenarie aspirazioni delle grandi masse, aspirazioni legate al cristianesimo e alla filosofia del senso comune, miti semplicistici quanto si vuole, ma che avevano un'origine realmente radicata nei sentimenti e che, in ogni caso, non potevano essere controllati sperimentalmente (storicamente); Maurras ha creato il mito «semplicistico» di un passato monarchico francese fantastico; ma questo mito è stato «storia» e le deformazioni intellettualistiche di essa possono essere facilmente corrette: tutta la istruzione pubblica francese è una implicita rettifica del mito monarchico, che in tal modo diventa un «mito» difensivo piú che creatore di passioni. Una delle formule fondamentali di Maurras è «Politique d'abord», ma egli è il primo a non seguirla. Per lui, prima della politica c'è sempre l'«astrazione politica», l'accoglimento integrale di una concezione del mondo «minuziosissima», che prevede tutti i particolari, come fanno le utopie dei letterati, che domanda una determinata concezione della storia, ma della storia concreta di Francia e d'Europa, cioè una determinata e fossilizzata ermeneutica.

Léon Daudet ha scritto che la grande forza dell'Action Française è stata la incrollabile omogeneità e unita del suo gruppo dirigente: sempre d'accordo, sempre solidali politicamente e ideologicamente. Certo l'unità e omogeneità del gruppo dirigente è una grande forza, ma di carattere settario e massonico, non di un grande partito di governo. Il linguaggio politico è diventato un gergo, si è formata l'atmosfera di una conventicola: a forza di ripetere sempre le stesse formule, di maneggiare gli stessi schemi mentali irrigiditi, si finisce, è vero, col pensare allo stesso modo, perché si finisce col non pensare piú. Maurras a Parigi e Daudet a Bruxelles pronunziano la stessa frase, senza accordo, sullo stesso avvenimento perché l'accordo c'era già prima, perché si tratta di due macchinette di frasi, montate da venti anni per dire le stesse frasi nello stesso momento.

Il gruppo dirigente dell'Action Française si è formato per cooptazione: in principio c'era Maurras col suo verbo, poi si uní Vaugeois, poi Daudet, poi Pujo, ecc. ecc. Ogni volta che dal gruppo si staccò qualcuno, fu una catastrofe di polemiche e di accuse interminabili e perfide e si capisce: Maurras è come un papa infallibile e che da lui si stacchi uno dei piú prossimi ha un significato veramente catastrofico.

Dal punto di vista dell'organizzazione l'Action Française è molto interessante e meriterebbe uno studio approfondito. La sua forza relativa è costituita specialmente da ciò che i suoi elementi di base sono tipi sociali intellettualmente selezionati, la cui «radunata» militare è estremamente facile come sarebbe quella di un esercito costituito di soli ufficiali. La selezione intellettuale è relativa, si capisce, poiché è stupefacente come gli aderenti all'Action Française siano facili a ripetere pappagallescamente le formule del leader (se pure non si tratti di una necessità di guerra, sentita come tale) e anzi a trarne profitto «snobistico». In una repubblica può essere segno di distinzione l'essere monarchico, in una democrazia parlamentare l'essere reazionario conseguente. Il gruppo, per la sua composizione, possiede (a parte le sovvenzioni di certi gruppi industriali) molti fondi, tanti da permettere iniziative molteplici che danno l'apparenza di una certa vitalità e attività. La posizione sociale di molti aderenti palesi ed occulti permette al giornale e al centro dirigente di avere una massa di informazioni e documenti riservati che permettono una molteplicità di polemiche personali. Nel passato, ma piú limitatamente anche ora, il Vaticano doveva essere una fonte di prim'ordine d'informazioni (la Segreteria di Stato e l'alto clero francese). Molte campagne personalistiche devono essere a chiave o a mezza chiave: si pubblica una parte di vero per far capire che si sa tutto, o si fanno allusioni furbesche comprensibili agli interessati. Queste campagne violente personalistiche hanno per l'Action Française vari significati: galvanizzano gli aderenti perché lo sfoggio della conoscenza delle cose piú segrete dà l'impressione di gran capacità a penetrare nel campo avversario e di una forte organizzazione cui nulla sfugge, mostrano il regime repubblicano come un'associazione a delinquere, paralizzano una serie di avversari con la minaccia di disonorarli e di alcuni fanno dei fautori segreti. La concezione empirica che si può ricavare da tutta l'attività dell'Action Française è questa: il regime parlamentare repubblicano si dissolverà ineluttabilmente perché esso è un «monstrum» storico-razionale, che non corrisponde alle leggi «naturali» della società francese rigidamente stabilite dal Maurras. I nazionalisti integrali devono pertanto: 1) appartarsi dalla vita reale della politica francese, non riconoscendone la «legalità» storico-razionale (astensionismo, ecc.) e combattendola in blocco; 2) creare un antigoverno, sempre pronto a insediarsi nei «palazzi tradizionali» con un colpo di mano: questo antigoverno si presenta già oggi con tutti gli uffici embrionali, che corrispondono alle grandi attività nazionali.

Nella realtà furono fatti molti strappi a tanto rigore; nel '19 furono presentate alcune candidature, e riuscí eletto per miracolo il Daudet. Nelle altre elezioni l'Action Française appoggiò quei candidati di destra che accettavano alcuni suoi principii marginali (questa attività pare sia stata imposta al Maurras dai suoi collaboratori piú esperti di politica reale, ciò che dimostra che l'unità non è senza crepe). Per uscire dall'isolamento fu progettata la pubblicazione di un grande giornale d'informazione, ma finora non se ne fece nulla (esiste solo la «Revue Universelle» e lo «Charivari» che compiono ufficio di divulgazione indiretta tra il grande pubblico). L'acre polemica col Vaticano e la riorganizzazione del clero e delle associazioni cattoliche che ne fu una conseguenza, ha rotto il solo legame che l'Action Française aveva con le grandi masse nazionali, legame che era anch'esso piuttosto aleatorio. Il suffragio universale che è stato introdotto in Francia da tanto tempo ha già determinato il fatto che le masse, formalmente cattoliche, politicamente aderiscano ai partiti repubblicani di centro, sebbene questi siano anticlericali e laicisti: il sentimento nazionale, organizzato intorno al concetto di patria, è altrettanto forte, e in certi casi è indubbiamente piú forte, del sentimento religioso-cattolico, che del resto ha caratteristiche proprie. La formula che «la religione è una quistione privata» si è radicata come forma popolare del concetto di separazione della Chiesa dallo Stato. Inoltre, il complesso di associazioni che costituiscono l'Azione Cattolica è in mano all'aristocrazia terriera (ne è capo, o era, il generale Castelnau), senza che il basso clero eserciti quella funzione di guida spirituale-sociale che esercitava in Italia (in quella settentrionale). Il contadino francese, nella quasi totalità, rassomiglia piuttosto al nostro contadino meridionale, che dice volentieri: «il prete è prete sull'altare, ma fuori è un uomo come tutti gli altri» (in Sicilia: «monaci e parrini, sienticci la missa e stoccacci li rini»). L'Action Française attraverso lo strato dirigente cattolico pensava di poter dominare, nel momento decisivo, tutto l'apparato di massa del cattolicismo francese. In questo calcolo c'era un po' di verità e molta illusione: in epoche di grandi crisi politico-morali, il sentimento religioso, rilassato in tempi normali, può diventare vigoroso e assorbente; ma se l'avvenire appare pieno di nubi tempestose, anche la solidarietà nazionale, espressa nel concetto di patria, diventa assorbente in Francia, dove la crisi non può non assumere il carattere di crisi internazionale e allora la «Marsigliese» è piú forte dei Salmi penitenziali. In ogni caso, anche la speranza in questa riserva possibile è svanita per Maurras. Il Vaticano non vuole piú astenersi dagli affari interni francesi e ritiene che il ricatto di una possibile restaurazione monarchica sia divenuto inoperante: il Vaticano è piú realista di Maurras, e concepisce meglio la formula «politique d'abord». Finché il contadino francese dovrà scegliere tra Herriot e un Hobereau, sceglierà Herriot: bisogna perciò creare il tipo del «radicale cattolico» cioè del «popolare», bisogna accettare senza riserve la repubblica e la democrazia e su questo terreno organizzare le masse contadine, superando il dissidio tra religione e politica, facendo del prete non solo la guida spirituale (nel campo individuale-privato) ma anche la guida sociale nel campo economico-politico. La sconfitta di Maurras è certa (come quella di Hugenberg in Germania). È la concezione di Maurras che è falsa per troppa perfezione logica: questa sconfitta, d'altronde, fu sentita dallo stesso Maurras proprio all'inizio della polemica col Vaticano, che coincise con la crisi parlamentare francese del 1925 (non certo per caso). Quando i ministeri si succedevano a rotazione, l'Action Française pubblicò di essere pronta ad assumere il potere e apparve un articolo in cui si giunse ad invitare Caillaux a collaborare, Caillaux per il quale si annunziava continuamente il plotone d'esecuzione. L'episodio è classico: la politica irrigidita e razionalistica del Maurras, dell'astensionismo aprioristico, delle leggi naturali «siderali» che reggono la società francese, era condannata al marasma, al crollo, all'abdicazione nel momento risolutivo. Nel momento risolutivo si vede che le grandi masse di energie entrate in movimento per la crisi non si riversano affatto nei serbatoi creati artificialmente, ma seguono le vie realmente tracciate dalla politica reale precedente, si spostano secondo i partiti che sono sempre stati attivi, o perfino che sono nati come funghi sul terreno stesso della crisi. A parte la stoltezza di credere che nel 1925 potesse avvenire il crollo del regime repubblicano per una crisi parlamentare (l'intellettualismo antiparlamentarista porta a simili allucinazioni monomaniache) se ci fu crollo fu quello morale del Maurras, che magari non si sarà scosso dal suo stato di illuminazione apocalittica, e del suo gruppo, che si sentí isolato e dovette fare appello a Caillaux e C.

Nella concezione di Maurras esistono molti tratti simili a quelli di certe teorie formalmente catastrofiche di certo economismo e sindacalismo. È spesso avvenuta questa trasposizione nel campo politico e parlamentare di concezioni nate sul terreno economico e sindacale. Ogni astensionismo politico in generale e non solo quello parlamentare si basa su una simile concezione meccanicamente catastrofica: la forza dell'avversario crollerà matematicamente se con metodo rigorosamente intransigente lo si boicotterà nel campo governativo (allo sciopero economico si accoppia lo sciopero e il boicottaggio politico). L'esempio classico è quello italiano dei clericali dopo il '70, che imitarono e generalizzarono alcuni episodi della lotta dei patrioti contro il dominio austriaco verificatisi specialmente a Milano.

L'affermazione, spesso ripetuta da Jacques Bainville nei suoi saggi storici, che il suffragio universale e il plebiscito potevano (avrebbero potuto) e potranno quindi servire anche al legittimismo come servirono ad altre correnti politiche (specialmente ai Bonaparte) è molto ingenua, perché legata a un ingenuo e astrattamente scemo sociologismo: il suffragio universale e il plebiscito sono concepiti come schemi astratti dalle condizioni di tempo e di luogo. Occorre notare: 1) che ogni sanzione data dal suffragio universale e dal plebiscito è avvenuta dopo che la classe fondamentale si era concentrata fortemente o nel campo politico o piú ancora nel campo politico-militare intorno a una personalità «cesarista», o dopo una guerra che aveva creato una situazione di emergenza nazionale; 2) che nella realtà della storia francese ci sono stati diversi tipi di «suffragio universale», a mano a mano che mutarono storicamente i rapporti economico-politici. Le crisi del suffragio universale sono state determinate dai rapporti tra Parigi e la provincia, ossia tra la città e la campagna, tra le forze urbane e quelle contadinesche. Durante la Rivoluzione, il blocco urbano parigino guida in modo quasi assoluto la provincia e si forma cosí il mito del suffragio universale che dovrebbe sempre dar ragione alla democrazia radicale parigina. Perciò Parigi vuole il suffragio universale nel 1848, ma esso esprime un parlamento reazionario-clericale che permette a Napoleone III la sua carriera. Nel 1871 Parigi ha fatto un gran passo in avanti, perché si ribella all'Assemblea Nazionale di Versailles, formata dal suffragio universale, cioè implicitamente «capisce» che tra «progresso» e suffragio può esserci conflitto; ma questa esperienza storica, di valore inestimabile, è perduta immediatamente perché i portatori di essa vengono immediatamente soppressi. D'altronde dopo il '71 Parigi perde in gran parte la sua egemonia politico-democratica sulla restante Francia per diverse ragioni: 1) perché si diffonde in tutta la Francia il capitalismo urbano e si crea il movimento radicale socialista in tutto il territorio; 2) perché Parigi perde definitivamente la sua unità rivoluzionaria e la sua democrazia si scinde in gruppi sociali e partiti antagonistici. Lo sviluppo del suffragio universale e della democrazia coincide sempre piú con l'affermarsi in tutta la Francia del partito radicale e della lotta anticlericale, affermazione resa piú facile e anzi favorita dallo sviluppo del cosí detto sindacalismo rivoluzionario. In realtà l'astensionismo elettorale e l'economismo dei sindacalisti sono l'apparenza «intransigente» dell'abdicazione di Parigi al suo ruolo di testa rivoluzionaria della Francia, sono l'espressione di un piatto opportunismo seguito al salasso del 1871. Il radicalismo unifica cosí in un piano intermedio, della mediocrità piccolo-borghese, l'aristocrazia operaia di città e il contadino agiato di campagna. Dopo la guerra c'è una ripresa dello sviluppo storico troncato col ferro e col fuoco nel 1871, ma esso è incerto, informe, oscillante, e specialmente privo di cervelli pensanti.

La «Rivista d'Italia» del 15 gennaio 1927 riassume un articolo di J. Vialatoux pubblicato nella «Chronique Sociale de France» di qualche settimana prima; il Vialatoux respinge la tesi sostenuta da Jacques Maritain, in Une opinion sur Charles Maurras et le devoir des catholiques (Parigi, Plon, 1926) secondo cui tra la filosofia e la morale pagane di Maurras e la sua politica non vi sarebbe che un rapporto contingente, di modo che se si prende la dottrina politica, astraendo dalla filosofia, si può andare incontro a qualche pericolo, come in ogni movimento umano, ma non vi ha nulla di condannabile. Per il Vialatoux, giustamente, la dottrina politica scaturisce (o per lo meno è inscindibilmente legata – G.) dalla concezione pagana del mondo (su questo paganesimo occorre distinguere e chiarire, tra la veste letteraria piena di riferimenti e metafore pagane e il nocciolo essenziale che è poi il positivismo naturalistico, preso da Comte e mediatamente dal sansimonismo, ciò che rientra nel paganesimo solo per il gergo e la nomenclatura ecclesiastica – G.). Lo Stato è il fine ultimo dell'uomo: esso realizza l'ordine umano con le sole forze della natura (cioè «umane», in contrapposizione a «soprannaturali»). Maurras è definibile per i suoi odii ancor piú che per i suoi amori. Odia il cristianesimo primitivo (la concezione del mondo contenuta negli Evangeli, nei primi apologisti ecc., il cristianesimo fino all'editto di Milano, insomma, la cui credenza fondamentale era che la venuta di Cristo avesse annunziato la fine del mondo e che perciò determinava la dissoluzione dell'ordine politico romano in una anarchia morale corrosiva di ogni valore civile e statale) che per lui è una concezione giudaica. In questo senso Maurras vuole scristianizzare la società moderna. Per Maurras la Chiesa cattolica è stata e sarà sempre piú lo strumento di questa scristianizzazione. Egli distingue tra cristianesimo e cattolicismo ed esalta quest'ultimo come la reazione dell'ordine romano all'anarchia giudaica. Il culto cattolico, le sue devozioni superstiziose, le sue feste, le sue pompe, le sue solennità, la sua liturgia, le sue immagini, le sue formule, i suoi riti sacramentali, la sua gerarchia imponente, sono come un incantesimo salutare per domare l'anarchia cristiana, per immunizzare il veleno giudaico del cristianesimo autentico. Secondo il Vialatoux il nazionalismo dell'Action Française non è che un episodio della storia religiosa del nostro tempo (in questo senso ogni movimento politico non controllato dal Vaticano è un episodio della storia religiosa, ossia tutta la storia è storia religiosa. In ogni modo occorre aggiungere che l'odio di Maurras contro tutto ciò che sa di protestante ed è di origine anglo-germanica – Romanticismo, Rivoluzione francese, capitalismo ecc. – non è che un aspetto di questo odio contro il cristianesimo primitivo. Occorrerebbe cercare in Augusto Comte le origini di questo atteggiamento generale verso il cattolicismo, che non è indipendente dalla rinascita libresca del tomismo e dell'aristotelismo).

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Maurras e il «centralismo organico». Il cosidetto «centralismo organico» si fonda sul principio che un gruppo politico viene selezionato per «cooptazione» intorno a un «portatore infallibile della verità», a un «illuminato dalla ragione» che ha trovato le leggi naturali infallibili dell'evoluzione storica, infallibili anche se a lunga portata e se gli eventi immediati «sembrano» dar loro torto. L'applicazione delle leggi della meccanica e della matematica ai fatti sociali, ciò che non dovrebbe avere che un valore metaforico, diventa il solo e allucinante motore intellettuale (a vuoto). Il nesso tra il centralismo organico e le dottrine di Maurras è evidente.

Note sparse

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[Internazionalismo e politica nazionale.] Scritto (a domande e risposte) di Giuseppe Bessarione del settembre 1927 su alcuni punti essenziali di scienza e di arte politica. Il punto che mi pare sia da svolgere è questo: come secondo la filosofia della prassi (nella sua manifestazione politica) sia nella formulazione del suo fondatore, ma specialmente nella precisazione del suo piú recente grande teorico, la situazione internazionale debba essere considerata nel suo aspetto nazionale. Realmente il rapporto «nazionale» è il risultato di una combinazione «originale» unica (in un certo senso) che in questa originalità e unicità deve essere compresa e concepita se si vuole dominarla e dirigerla. Certo lo sviluppo è verso l'internazionalismo, ma il punto di partenza è «nazionale» ed è da questo punto di partenza che occorre prender le mosse. Ma la prospettiva è internazionale e non può essere che tale. Occorre pertanto studiare esattamente la combinazione di forze nazionali che la classe internazionale dovrà dirigere e sviluppare secondo la prospettiva e le direttive internazionali. La classe dirigente è tale solo se interpreterà esattamente questa combinazione, di cui essa stessa è componente e in quanto tale appunto può dare al movimento un certo indirizzo in certe prospettive. Su questo punto mi pare sia il dissidio fondamentale tra Leone Davidovici e Bessarione come interprete del movimento maggioritario. Le accuse di nazionalismo sono inette se si riferiscono al nucleo della quistione. Se si studia lo sforzo dal 1902 al 1917 da parte dei maggioritari si vede che la sua originalità consiste nel depurare l'internazionalismo di ogni elemento vago e puramente ideologico (in senso deteriore) per dargli un contenuto di politica realistica. Il concetto di egemonia è quello in cui si annodano le esigenze di carattere nazionale e si capisce come certe tendenze di tale concetto non parlino o solo lo sfiorino. Una classe di carattere internazionale in quanto guida strati sociali strettamente nazionali (intellettuali) e anzi spesso meno ancora che nazionali, particolaristi e municipalisti (i contadini), deve «nazionalizzarsi», in un certo senso, e questo senso non è d'altronde molto stretto, perché prima che si formino le condizioni di una economia secondo un piano mondiale, è necessario attraversare fasi molteplici in cui le combinazioni regionali (di gruppi di nazioni) possono essere varie. D'altronde non bisogna mai dimenticare che lo sviluppo storico segue le leggi della necessità fino a quando l'iniziativa non sia nettamente passata dalla parte delle forze che tendono alla costruzione secondo un piano, di pacifica e solidale divisione del lavoro.

Che i concetti non nazionali (cioè non riferibili a ogni singolo paese) siano sbagliati si vede per assurdo: essi hanno portato alla passività e all'inerzia in due fasi ben distinte: 1) nella prima fase, nessuno credeva di dover incominciare, cioè riteneva che incominciando si sarebbe trovato isolato; nell'attesa che tutti insieme si muovessero, nessuno intanto si muoveva e organizzava il movimento; 2) la seconda fase è forse peggiore, perché si aspetta una forma di «napoleonismo» anacronistico e antinaturale (poiché non tutte le fasi storiche si ripetono nella stessa forma). Le debolezze teoriche di questa forma moderna del vecchio meccanicismo sono mascherate dalla teoria generale della rivoluzione permanente che non è altro che una previsione generica presentata come dogma e che si distrugge da sé, per il fatto che non si manifesta effettualmente.

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Interpretazione del Principe. Se, come è stato scritto in altre note, l'interpretazione del Principe deve (o può) esser fatta ponendo come centro del libro l'invocazione finale, è da rivedere quanto di «reale» ci sia nella interpretazione cosí detta «satirica e rivoluzionaria» di esso (come si esprime Enrico Carrara nella nota al passo rispettivo dei Sepolcri nella sua opera scolastica Storia ed esempi della Letteratura Italiana, VII, L'ottocento, p. 59 (ed. Signorelli, Milano). Per ciò che riguarda il Foscolo non pare debba parlarsi di una particolare interpretazione del Principe, cioè dell'attribuzione al Machiavelli di intenzioni riposte democratiche e rivoluzionarie; piú giusto pare l'accenno del Croce (nel libro sulla Storia del Barocco) che risponde alla lettera dei Sepolcri, e cioè: «Il Machiavelli, per il fatto stesso di "temprare" lo scettro, ecc., di rendere il potere dei principi piú coerente e consapevole, ne sfronda gli allori, distrugge i miti, mostra cosa sia realmente questo potere ecc.»; cioè la scienza politica, in quanto scienza, è utile sia ai governanti che ai governati per comprendersi reciprocamente.

Nei Ragguagli del Parnaso del Boccalini la quistione del Principe è invece posta in modo tutto diverso che nei Sepolcri. Ma è da domandare: chi vuole satireggiare il Boccalini? Machiavelli o i suoi avversari? La quistione è dal Boccalini posta cosí: «I nemici del Machiavelli reputano il Machiavelli uomo degno di punizione perché ha esposto come i principi governano e cosí facendo ha istruito il popolo; ha "messo alle pecore denti di cane", ha distrutto i miti del potere, il prestigio dell'autorità, ha reso piú difficile il governare, poiché i governati ne possono sapere quanto i governanti, le illusioni sono rese impossibili ecc.». È da vedere tutta l'impostazione politica del Boccalini, che in questo ragguaglio mi pare faccia la satira degli antimachiavellici, i quali non sono tali perché non facciano in realtà ciò che il Machiavelli ha scritto, cioè non sono antimachiavellici perché il Machiavelli abbia avuto torto, ma perché ciò che il Machiavelli scrive «si fa e non si dice», anzi è fattibile appunto perché non è criticamente spiegato e sistemato. Il Machiavelli è odiato perché «ha scoperto gli altarini» dell'arte di governo ecc.

La quistione si pone anche oggi e l'esperienza della vita dei partiti moderni è istruttiva; quante volte si è sentito il rimprovero per aver mostrato criticamente gli errori dei governanti: «mostrando ai governanti gli errori che essi fanno, voi insegnate loro a non fare errori», cioè «fate il loro gioco» Z.. Questa concezione [è] legata alla teoria fanciullesca del «tanto peggio, tanto meglio». La paura di «fare il gioco» degli avversari è delle piú comiche ed è legata al concetto balordo di ritenere sempre gli avversari degli stupidi; è anche legata alla non comprensione delle «necessità» storico-politiche, per cui «certi errori devono essere fatti» e il criticarli è utile per educare la propria parte.

Pare che le intenzioni del Machiavelli nello scrivere il Principe siano state piú complesse e anche «piú democratiche» di quanto non sarebbero secondo l'interpretazione «democratica». Cioè il Machiavelli ritiene che la necessità dello Stato unitario nazionale è cosí grande che tutti accetteranno che per raggiungere questo altissimo fine siano impiegati i soli mezzi che sono idonei. Si può quindi dire che il Machiavelli si sia proposto di educare il popolo, ma non nel senso che di solito si dà a questa espressione o almeno gli hanno dato certe correnti democratiche. Per il Machiavelli «educare il popolo» può aver significato solo renderlo convinto e consapevole che può esistere una sola politica, quella realistica, per raggiungere il fine voluto e che pertanto occorre stringersi intorno e obbedire proprio a quel principe che tali metodi impiega per raggiungere il fine, perché solo chi vuole il fine vuole i mezzi idonei a raggiungerlo. La posizione del Machiavelli, in tal senso, sarebbe da avvicinare a quella dei teorici e dei politici della filosofia della prassi, che anche essi hanno cercato di costruire e diffondere un «realismo» popolare, di massa e hanno dovuto lottare contro una forma di «gesuitismo» adeguato ai tempi diversi. La «democrazia» del Machiavelli è di un tipo adatto ai tempi suoi, è cioè il consenso attivo delle masse popolari per la monarchia assoluta, in quanto limitatrice e distruttrice dell'anarchia feudale e signorile e del potere dei preti, in quanto fondatrice di grandi Stati territoriali nazionali, funzione che la monarchia assoluta non poteva adempiere senza l'appoggio della borghesia e di un esercito stanziale, nazionale, centralizzato, ecc.

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«Doppiezza» e «ingenuità» del Machiavelli. Cfr. articolo di Adolfo Oxilia Machiavelli nel teatro («Cultura» dell'ottobre-dicembre 1933). Interpretazione romantico-liberale del Machiavelli (Rousseau nel Contratto Sociale, III, 6; Foscolo nei Sepolcri; Mazzini nel breve saggio sul Machiavelli). Mazzini scrive: «Ecco ciò che i vostri principi, deboli e vili quanti sono, faranno per dominarvi: or pensateci». Rousseau vede nel Machiavelli un «gran republicano», il quale fu costretto dai tempi – senza che ne derivi alcuna menomazione della sua dignità morale – a «déguiser son amour pour la liberté» e a fingere di dare lezioni ai re per darne «des grandes aux peuples». Filippo Burzio ha notato che una tale interpretazione, invece di giustificare moralmente il machiavellismo, in realtà prospetta un «machiavellismo al quadrato»: giacché l'autore del Principe non solo darebbe consigli di frode bensí anche con frode, a rovina di coloro stessi cui sono rivolti.

Questa interpretazione «democratica» del Machiavelli risalirebbe al Cardinale Polo e ad Alberico Gentili (sarà da vedere il libro del Villari e quello del Tommasini nella parte che riguarda la fortuna del Machiavelli). A me pare che il brano di Traiano Boccalini nei Ragguagli del Parnaso sia molto piú significativo di tutte le impostazioni dei «grandi studiosi di politica» e che tutto si riduca a un'applicazione del proverbio volgare «chi sa il gioco non l'insegni». La corrente «antimachiavellica» non è che la manifestazione teorica di questo principio di arte politica elementare: che certe cose si fanno ma non si dicono.

Proprio da questo pare nasca il problema piú interessante: perché il Machiavelli ha scritto il Principe, non come una «memoria» segreta o riservata, come «istruzioni» di un consigliere a un principe, ma come un libro che avrebbe dovuto andare nelle mani di tutti? Per scrivere un'opera di «scienza» disinteressata, come potrebbe arguirsi dagli accenni del Croce? Pare ciò sia contro lo spirito dei tempi, sia una concezione anacronistica. Per «ingenuità», dato che il Machiavelli è visto come un teorico e non come uomo d'azione? Non pare accettabile l'ipotesi dell'«ingenuità» vanitosa e «chiacchierona». Bisogna ricostruire i tempi, e le esigenze che il Machiavelli vedeva in essi. In realtà, pare si possa dire, nonostante che il Principe abbia una destinazione precisa, che il libro non è scritto per nessuno e per tutti: è scritto per un ipotetico «uomo della provvidenza» che potrebbe manifestarsi cosí come si era manifestato il Valentino o altri condottieri, dal nulla, senza tradizione dinastica, per le sue qualità militari eccezionali. La conclusione del Principe giustifica tutto il libro anche verso le masse popolari che realmente dimenticano i mezzi impiegati per raggiungere un fine se questo fine è storicamente progressivo, cioè risolve i problemi essenziali dell'epoca e stabilisce un ordine in cui sia possibile muoversi, operare, lavorare tranquillamente. Nell'interpretare il Machiavelli si dimentica che la monarchia assoluta era in quei tempi una forma di reggimento popolare e che essa si appoggiava sui borghesi contro i nobili e anche contro il clero. (L'Oxilia accenna all'ipotesi che l'interpretazione democratica del Machiavelli nel periodo '700-800 sia stata rafforzata e resa piú ovvia dal Giorno del Parini, «satirico istitutore del giovin signore, come il Machiavelli – in altri tempi, con altre nature e misure d'uomini – sarebbe stato il tragico istitutore del principe»).


[1.] Cfr. ciò che scrive l'Alfieri sul Machiavelli nel libro Del principe e delle lettere. Parlando delle «massime immorali e tiranniche» che si potrebbero ricavare «qua e là» dal Principe l'Alfieri nota: «e queste dall'autore sono messe in luce (a chi ben riflette) molto piú per disvelare ai popoli le ambizioni ed avvedute crudeltà dei principi che non certamente per insegnare ai principi a praticarle: poiché essi piú o meno sempre le adoprano, le hanno adoperate e le adopereranno, secondo il loro bisogno, ingegno e destrezza». A parte l'interpretazione democratica, la nota è giusta: ma certo il Machiavelli non voleva «solo» insegnare ai principi le «massime» che essi conoscevano e adoperavano. Voleva invece insegnare la «coerenza» nell'arte di governo e la coerenza impiegata ad un certo fine: la creazione di uno Stato unitario italiano. Cioè il Principe non è un libro di «scienza», accademicamente inteso, ma di «passione politica immediata», un «manifesto» di partito, che si fonda su una concezione «scientifica» dell'arte politica. Il Machiavelli insegna davvero la «coerenza» dei mezzi «bestiali», e ciò è contro la tesi dell'Alderisio (di cui occorre vedere lo scritto Intorno all'arte dello Stato del Machiavelli. Discussione ulteriore dell'interpretazione di essa come «pura politica», nei «Nuovi Studi» del giugno-ottobre 1932) ma questa «coerenza» non è una cosa meramente formale, ma la forma necessaria di una determinata linea politica attuale. Che poi dalla esposizione del Machiavelli si possano trarre elementi di una «pura politica» è altra quistione: ciò riguarda il posto che il Machiavelli occupa nel processo di formazione della scienza politica «moderna», che non è piccolo. L'Alderisio imposta male tutto il problema, e le qualche buone ragioni che può avere si perdono nella sconnessione del quadro generale sbagliato.

II. La quistione del perché il Machiavelli abbia scritto il Principe e le altre opere non è una semplice quistione di cultura o di psicologia dell'autore: essa serve a spiegare in parte il fascino di questi scritti, la loro vivacità e originalità. Non si tratta certo di «trattati» del tipo medioevale; neppure si tratta di opere di un avvocato curiale che voglia giustificare le operazioni o il modo di operare dei suoi «sostentatori» o sia pure del suo principe. Le opere del Machiavelli sono di carattere «individualistico», espressioni di una personalità che vuole intervenire nella politica e nella storia del suo paese e in tal senso sono di origine «democratica». C'è la «passione» del «giacobino» nel Machiavelli e perciò egli doveva tanto piacere ai giacobini e agli illuministi: è questo un elemento «nazionale» in senso proprio e dovrebbe essere studiato preliminarmente in ogni ricerca sul Machiavelli.


Articolo di Luigi Cavina nella «Nuova Antologia» del 16 agosto 1927: Il sogno nazionale di Niccolò Machiavelli in Romagna e il governo di Francesco Guicciardini.

L'argomento del saggio è interessante, ma il Cavina non ne sa trarre tutte le conseguenze necessarie, dato il carattere superficialmente descrittivo e retorico dello scritto.

Dopo la battaglia di Pavia e la definitiva sconfitta dei Francesi, che assicurava l'egemonia spagnola nella penisola, i signori italiani sono invasi dal panico. Il Machiavelli che si era recato a Roma per consegnare personalmente a Clemente VII le Istorie Fiorentine che aveva ultimato, propone al papa di creare una milizia nazionale (significato preciso del termine) e lo convince a fare un esperimento. Il papa invia il Machiavelli in Romagna presso Francesco Guicciardini che ne era Presidente, con un breve in data 6 giugno 1525. Il Machiavelli doveva esporre al Guicciardini il suo progetto e il Guicciardini doveva dare il suo parere.

Il breve di Clemente VII deve essere tutto interessante; egli espone lo sconvolgimento in cui si trova l'Italia, cosí grande da indurre a cercare anche rimedi nuovi e inconsueti e conclude: «Res magna est, ut iudicamus, et salus est in ea cum status ecclesiastici, tum totius Italiae ac prope universae cristianitatis reposita», dove si vede come l'Italia era per il papa il termine medio tra lo Stato ecclesiastico e la cristianità.

Perché l'esperienza in Romagna? Oltre alla fiducia che il papa aveva nella prudenza politica del Guicciardini, occorre forse pensare ad altri elementi: i Romagnoli erano buoni soldati, avevano combattuto con valore e fedeltà ad Agnadello, sia pure da mercenari. C'era poi stato in Romagna il precedente del Valentino, che aveva reclutato tra il popolo buoni soldati, ecc.

Il Guicciardini fino dal 1512 aveva scritto che il dare le armi ai cittadini «non è cosa aliena da uno vivere di repubblica e populare, perché quando vi si dà una giustizia buona e ordinate leggi, quelle armi non si adoperano in pernizie, ma in utilità della patria» e aveva lodato anche l'istituzione dell'ordinanza ideata dal Machiavelli (tentativo di creare a Firenze una milizia cittadina, che preparò la resistenza durante l'assedio).

Ma il Guicciardini non credeva possibile fare il tentativo in Romagna per le fierissime divisioni di parte che vi dominavano (interessanti i giudizi del Guicciardini sulla Romagna): i ghibellini dopo la vittoria di Pavia sono pronti ad ogni novità; anche se non si danno le armi nascerà qualche subbuglio; non si può dare le armi per opporsi agli imperiali proprio ai fautori degli imperiali. La difficoltà inoltre è accresciuta dal fatto che lo Stato è ecclesiastico, cioè senza direttive a lunga scadenza e con facili grazie e impunità, alla piú lunga ad ogni nuova elezione di papa. In altro Stato le fazioni si potrebbero domare, non nello Stato della Chiesa. Poiché Clemente VII col suo breve aveva detto che al buon risultato dell'impresa occorrevano non solo ordine e diligenza, ma anche l'impegno e l'amore del popolo, il Guicciardini dice che ciò non può essere perché «La Chiesa in effetto non ci ha amici, né quelli che desidererebbero bene vivere, né per diverse ragioni i faziosi e tristi».

Ma l'iniziativa non ebbe altro seguito, perché il papa lasciò cadere il progetto. L'episodio è tuttavia del massimo interesse, per mostrare quanto grande fosse la volontà e la virtú di persuasione del Machiavelli, per i giudizi pratici immediati del Guicciardini e anche per l'atteggiamento del papa che evidentemente rimase per qualche tempo sotto l'influsso del Machiavelli; il breve può assumersi come un compendio della concezione del Machiavelli adattata alla mentalità pontificia.

Non si conoscono le ragioni che il Machiavelli (deve) aver contrapposto alle osservazioni del Guicciardini, perché questi non ne parla nelle sue lettere e le lettere del Machiavelli a Roma non si conoscono. Si può osservare che le innovazioni militari sostenute dal Machiavelli non potevano essere improvvisate in pieno sviluppo dell'invasione spagnola e che le sue proposte al papa in quel momento non potevano avere risultati concreti.

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Armi e religione. Affermazione del Guicciardini che per la vita di uno Stato due cose sono assolutamente necessarie: le armi e la religione. La formula del Guicciardini può essere tradotta in varie formule, meno drastiche: forza e consenso, coercizione e persuasione, Stato e Chiesa, società politica e società civile, politica e morale (storia etico-politica del Croce), diritto e libertà, ordine e disciplina, o, con un giudizio implicito di sapore libertario, violenza e frode. In ogni caso nella concezione politica del Rinascimento la religione era il consenso e la Chiesa era la Società civile, l'apparato di egemonia del gruppo dirigente, che non aveva un apparato proprio, cioè non aveva una propria organizzazione culturale e intellettuale, ma sentiva come tale l'organizzazione ecclesiastica universale. Non si è fuori del Medio Evo che per il fatto che apertamente si concepisce e si analizza la religione come «instrumentum regni».

Da questo punto di vista è da studiare l'iniziativa giacobina dell'istituzione del culto dell'«Ente supremo», che appare pertanto come un tentativo di creare identità tra Stato e società civile, di unificare dittatorialmente gli elementi costitutivi dello Stato in senso organico e piú largo (Stato propriamente detto e società civile) in una disperata ricerca di stringere in pugno tutta la vita popolare e nazionale, ma appare anche come la prima radice dello Stato moderno laico, indipendente dalla Chiesa, che cerca e trova in se stesso, nella sua vita complessa, tutti gli elementi della sua personalità storica.


Nel libro di Clemenceau, Grandeurs et misères d'une victoire, Plon, 1930, nel capitolo «Les critiques de l'escalier» sono contenute alcune delle osservazioni generali da me fatte nella nota sull'articolo di Paolo Treves, Il realismo politico di Guicciardini: per es. la distinzione tra politici e diplomatici. I diplomatici sono stati formati (dressés) per l'esecuzione, non per l'iniziativa, dice Clemenceau, ecc. Il capitolo è tutto di polemica contro Poincaré che aveva rimproverato il non impiego dei diplomatici nella preparazione dei trattato di Versailles. Clemenceau, da puro uomo d'azione, da puro politico, è estremamente sarcastico contro Poincaré, il suo spirito avvocatesco, le sue illusioni che si possa creare la storia coi cavilli, coi sotterfugi, con le abilità formali, ecc. «La diplomatie est instituée [plutôt] pour le maintien des inconciliables que pour l'innovation des imprévus. Dans le mot "diplomate" il y a la racine double, au sens de plier». (È vero però che questo concetto di doppio non si riferisce ai «diplomatici» ma ai «diplomi» che i diplomatici conservavano e aveva un significato materiale, di foglio piegato).

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Teoria e pratica. Riletta la famosa dedica del Bandello a Giovanni delle Bande Nere dove si parla del Machiavelli e dei suoi tentativi inutili per ordinare secondo le sue teorie dell'arte della guerra una moltitudine di soldati in campo, mentre Giovanni delle Bande Nere «in un batter d'occhio con l'aita dei tamburini» ordinò «quella gente in vari modi e forme, con ammirazione grandissima di chi vi si ritrovò». Appare chiaro che né in Bandello e neanche in Giovanni vi fu alcun proposito di «sfottere» il Machiavelli per la sua incapacità, e che lo stesso Machiavelli non se l'ebbe a male. L'impiego di questo aneddoto per trarre conseguenze sull'astrattezza del Machiavelli è un non senso e dimostra che non si capisce la sua portata esatta. Il Machiavelli non era un militare di professione, ecco tutto; cioè non sapeva il «linguaggio» degli ordini e dei segnali militari (trombe, tamburi ecc.). D'altronde prima che un complesso di soldati, graduati, sottufficiali, ufficiali, abbia preso l'abitudine a evolvere in un certo senso, ci vuole molto tempo. Un ordinamento teorico delle milizie può essere ottimo in tutto, ma per essere applicato deve diventare «regolamento», disposizioni d'esercizio, ecc., «linguaggio» subito capito e quasi automaticamente attuato. Si sa che molti legislatori di primo ordine non sanno compilare i «regolamenti» burocratici e organizzare gli uffici e selezionare il personale atto ad applicare le leggi, ecc. Si può dire dunque solo questo del Machiavelli, che fu troppo corrivo ad improvvisarsi «tamburino».

La quistione è tuttavia importante: non si può scindere l'amministratore-funzionario dal legislatore, l'organizzatore dal dirigente, ecc. Ma ciò non si è attuato neanche oggi e la «divisione del lavoro» supplisce non solo all'incapacità relativa, ma integra «economicamente» l'attività principale del grande stratega, del legislatore, del capo politico, che si fanno aiutare da specialisti in compilare «regolamenti», «istruzioni», «ordinamenti pratici», ecc.

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Machiavelli ed Emanuele Filiberto. Un articolo della «Civiltà Cattolica» del 15 dicembre 1928 (Emanuele Filiberto di Savoia nel IV Centenario della nascita) si inizia cosí: «La coincidenza della morte del Machiavelli con la nascita di Emanuele Filiberto, non è senza ammaestramento. È piena di alto significato l'antitesi rappresentata dai due personaggi, l'uno dei quali scompare dalla scena del mondo, amareggiato e deluso, mentre l'altro sta per affacciarsi alla vita, ancora circondata di mistero, in quegli anni appunto che possiamo considerare come la linea di distacco tra l'età del Rinascimento e la Riforma cattolica. Machiavelli ed Emanuele Filiberto: chi può meglio personificare i due volti diversi, le due correnti opposte che si contendono il dominio del secolo XVI? Avrebbe mai immaginato il Segretario Fiorentino che proprio quel secolo, al quale aveva auspicato un Principe, in sostanza, pagano nel pensiero e nell'opera, avrebbe invece veduto il monarca che piú si avvicinò all'ideale del perfetto principe cristiano?».

Le cose sono molto diverse da quelle che paiono allo scrittore della «Civiltà Cattolica», ed Emanuele Filiberto continua e realizza Machiavelli piú di quanto non possa sembrare per esempio nell'ordinamento delle milizie nazionali. D'altronde, Emanuele Filiberto per altre cose poteva richiamarsi al Machiavelli; egli non rifuggiva anche dal far sopprimere con la violenza e con la frode i suoi nemici.

Questo articolo della «Civiltà Cattolica» interessa per i rapporti tra Emanuele Filiberto e i gesuiti e per la parte presa da questi nella lotta contro i Valdesi.


Su Emanuele Filiberto, è interessante, scritto con serietà (non agiografico) l'articolo di Pietro Egidi nella «Nuova Antologia» del 16 aprile 1928, Emanuele Filiberto di Savoia. Le capacità militari di Emanuele Filiberto sono delineate con perspicuità: Emanuele Filiberto segna il passaggio dalla strategia degli eserciti di ventura alla nuova strategia che troverà poi i suoi rappresentanti in Federico II e in Napoleone: la grande guerra di movimento per obbiettivi capitali e decisivi. A Cateau Cambrésis riesce a riottenere, per l'aiuto della Spagna, il suo Stato, ma nel trattato è stabilita la «neutralità» del Piemonte, cioè è stabilita l'indipendenza sia da Francia che da Spagna (l'Egidi sostiene che sia stato Emanuele Filiberto a suggerire ai francesi di domandare questa neutralità, per essere in grado di sfuggire alla soggezione spagnola, ma si tratta di ipotesi: in questo caso gli interessi della Francia e quelli del Piemonte coincidevano perfettamente): cosí si inizia la politica estera moderna dei Savoia di equilibrio tra le due potenze principali dell'Europa. Ma dopo questa pace il Piemonte perde già da allora irreparabilmente alcune terre: Ginevra e le terre intorno al lago di Ginevra.

In una storia bisognerebbe almeno accennare alle varie fasi territoriali attraversate dal Piemonte, da prevalentemente francese a franco-piemontese, a italiano. (Emanuele Filiberto fu fondamentalmente un generale della Controriforma).

L'Egidi delinea abbastanza perspicuamente anche la politica estera di Emanuele Filiberto, ma non dà che cenni insufficienti sulla politica interna e specialmente militare, e i pochi cenni sono legati a quei fatti di politica interna che dipendevano strettamente dall'estero, cioè dall'unificazione territoriale dello Stato per le retrocessioni delle terre ancora occupate da francesi e spagnoli dopo Cateau Cambrésis o dagli accordi coi Cantoni Svizzeri per riacquistare qualche elemento delle terre perdute. (Per lo studio su Machiavelli studiare specialmente gli ordinamenti militari di Emanuele Filiberto e la sua politica interna per rispetto all'equilibrio di classi su cui si fondò il principato assoluto dei Savoia).

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Lo Stato. Il prof. Giulio Miskolczy, direttore dell'Accademia ungherese di Roma, nella «Magyar Szemle» (articolo riportato nella «Rassegna della Stampa Estera» del 3-10 gennaio 1933) scrive che in Italia il «Parlamento, che prima era, per cosí dire, fuori dello Stato, è rimasto un collaboratore prezioso, ma è stato inserito nello Stato ed ha subito un cambiamento essenziale nella sua composizione ecc.». Che il Parlamento possa essere «inserito» nello Stato è una scoperta di scienza e di tecnica politica degna dei Cristoforo Colombo del forcaiolismo moderno. Tuttavia l'affermazione è interessante, per vedere come concepiscono lo Stato praticamente molti uomini politici. E in realtà è da porsi la domanda: i Parlamenti fanno parte della struttura degli Stati, anche nei paesi dove pare che i Parlamenti abbiano il massimo di efficienza, oppure che funzione reale hanno? E in che modo, se la risposta è positiva, essi fanno parte dello Stato, e in che modo esplicano la loro funzione particolare? Tuttavia: l'esistenza dei Parlamenti, anche se essi organicamente non fanno parte dello Stato, è senza significato statale? E quale fondamento hanno le accuse che si fanno al parlamentarismo e al regime dei partiti, che è inseparabile dal parlamentarismo? (fondamento obbiettivo, s'intende, cioè legato al fatto che l'esistenza dei Parlamenti, di per sé, ostacola e ritarda l'azione tecnica del governo). Che il regime rappresentativo possa politicamente «dar noia» alla burocrazia di carriera s'intende; ma non è questo il punto. Il punto è se [il] regime rappresentativo e dei partiti invece di essere un meccanismo idoneo a scegliere funzionari eletti che integrino ed equilibrino i burocratici nominati, per impedire [ad essi] di pietrificarsi, sia divenuto un inciampo e un meccanismo a rovescio e per quali ragioni. Del resto, anche una risposta affermativa a queste domande non esaurisce la quistione: perché anche ammesso (ciò che è da ammettere) che il parlamentarismo è divenuto inefficiente e anzi dannoso, non è da concludere che il regime burocratico sia riabilitato ed esaltato. È da vedere se parlamentarismo e regime rappresentativo si identificano e se non sia possibile una diversa soluzione sia del parlamentarismo che del regime burocratico, con un nuovo tipo di regime rappresentativo.

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I limiti dell'attività dello Stato. Vedere la discussione avvenuta in questi anni a questo proposito: è la discussione piú importante di dottrina politica e serve a segnare i confini tra liberali e non liberali. Può servire di punto di riferimento il volumetto di Carlo Alberto Biggini, Il fondamento dei limiti all'attività dello Stato, Città di Castello, Casa ed. «Il Solco», pp. 150, L. 10. L'affermazione del Biggini che si ha tirannia solo se si vuol regnare fuor «delle regole costitutive della struttura sociale» può avere ampliamenti ben diversi da quelli che il Biggini suppone, purché per «regole costitutive» non si intendano gli articoli delle Costituzioni, come pare non intenda neanche il Biggini (prendo lo spunto da una recensione dell'ICS dell'ottobre 1929 scritta da Alfredo Poggi). (In quanto lo Stato è la stessa società ordinata, è sovrano. Non può avere limite giuridico: non può avere limite nei diritti pubblici soggettivi, né può dirsi che si autolimiti. Il diritto positivo non può essere limite allo Stato perché può essere dallo Stato ad ogni momento modificato in nome di nuove esigenze sociali, ecc.).

A questo risponde il Poggi che sta bene e che ciò è già implicito nella dottrina del limite giuridico cioè finché un ordinamento giuridico è, lo Stato vi è costretto; se lo vuol modificare, lo sostituirà con un altro ordinamento, cioè lo Stato non può agire che [per] via giuridica (ma siccome tutto ciò che fa lo Stato, è per ciò stesso giuridico, si può continuare all'infinito). Veder quanto delle concezioni del Biggini è marxismo camuffato e reso astratto.

Per lo svolgimento storico di queste due concezioni dello Stato mi pare debba essere interessante il libretto di Widar Cesarini Sforza, «Jus» et «directum». Note sull'origine storica dell'idea di diritto, in 8°, pp. 90, Bologna, Stab. tipogr. riuniti, 1930. I romani foggiarono la parola jus per esprimere il diritto come potere della volontà e intesero l'ordine giuridico come un sistema di poteri non contenuti nella loro sfera reciproca da norme oggettive e razionali: tutte le espressioni da essi usate di aequitas, Justitia, recta o naturalis ratio devono intendersi nei limiti di questo significato fondamentale. Il Cristianesimo piú che il concetto di jus ha elaborato il concetto di directum nella sua tendenza a subordinare la volontà alla norma, a trasformare il potere in dovere. Il concetto di diritto come potenza è riferito solo a Dio, la cui volontà diventa norma di condotta inspirata al principio dell'eguaglianza. La Justitia non si distingue ormai dall'aequitas ed entrambe implicano la rectitudo che è qualità soggettiva del volere di conformarsi a ciò che è retto e giusto. Traggo questi spunti da una recensione (nel «Leonardo» dell'agosto 1930) di G. Solari che fa rapide obbiezioni al Cesarini Sforza.

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Stato e società regolata. Nelle nuove tendenze «giuridiche» rappresentate specialmente dai «Nuovi Studi» del Volpicelli e dello Spirito è da notare, come spunto critico iniziale, la confusione tra il concetto di Stato-classe e il concetto di società regolata. Questa confusione è specialmente notevole nella memoria La libertà economica svolta dallo Spirito nella XIX Riunione della Società per il progresso delle Scienze tenuta a Bolzano nel settembre 1930 e stampata nei «Nuovi Studi» del settembre-ottobre 1930. Finché esiste lo Stato-classe non può esistere la società regolata, altro che per metafora, cioè solo nel senso che anche lo Stato-classe è una società regolata. Gli utopisti, in quanto esprimevano una critica della società esistente al loro tempo, comprendevano benissimo che lo Stato-classe non poteva essere la società regolata, tanto vero che nei tipi di società rappresentati dalle diverse utopie, s'introduce l'uguaglianza economica come base necessaria della riforma progettata: ora in questo gli utopisti non erano utopisti, ma concreti scienziati della politica e critici congruenti. Il carattere utopistico di alcuni di essi era dato dal fatto che ritenevano si potesse introdurre la uguaglianza economica con leggi arbitrarie, con un atto di volontà, ecc. Rimane però esatto il concetto, che si trova anche in altri scrittori di politica (anche di destra, cioè nei critici della democrazia, in quanto essa si serve del modello svizzero o danese per ritenere il sistema ragionevole in tutti i paesi) che non può esistere eguaglianza politica completa e perfetta senza eguaglianza economica: negli scrittori del Seicento questo concetto si ritrova, per esempio, in Ludovico Zuccolo e nel suo libro Il Belluzzi e credo anche in Machiavelli. Il Maurras ritiene che in Svizzera sia possibile quella certa forma di democrazia, appunto perché c'è una certa mediocrità delle fortune economiche, ecc.

La confusione di Stato-classe e Società regolata è propria delle classi medie e dei piccoli intellettuali, che sarebbero lieti di una qualsiasi regolarizzazione che impedisse le lotte acute e le catastrofi: è concezione tipicamente reazionaria e regressiva.

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Stato etico o di cultura. Mi pare che ciò che di piú sensato e concreto si possa dire a proposito dello Stato etico e di cultura è questo: ogni Stato è etico in quanto una delle sue funzioni piú importanti è quella di elevare la grande massa della popolazione a un determinato livello culturale e morale, livello (o tipo) che corrisponde alle necessità di sviluppo delle forze produttive e quindi agli interessi delle classi dominanti. La scuola come funzione educativa positiva e i tribunali come funzione educativa repressiva e negativa sono le attività statali piú importanti in tal senso: ma in realtà alfine tendono una molteplicità di altre iniziative e attività cosidette private che formano l'apparato dell'egemonia politica e culturale delle classi dominanti. La concezione di Hegel è propria di un periodo in cui lo sviluppo in estensione della borghesia poteva apparire illimitato, quindi l'eticità o universalità di essa poteva essere affermata: tutto il genere umano sarà borghese. Ma in realtà solo il gruppo sociale che pone la fine dello Stato e di se stesso come fine da raggiungere, può creare uno Stato etico, tendente a porre fine alle divisioni interne di dominati ecc. e a creare un organismo sociale unitario tecnico-morale.

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Hegel e l'associazionismo. La dottrina di Hegel sui partiti e le associazioni come trama «privata» dello Stato. Essa derivò storicamente dalle esperienze politiche della Rivoluzione francese e doveva servire a dare una maggiore concretezza al costituzionalismo. Governo col consenso dei governati, ma col consenso organizzato, non generico e vago quale si afferma nell'istante delle elezioni: lo Stato ha e domanda il consenso, ma anche «educa» questo consenso con le associazioni politiche e sindacali, che però sono organismi privati, lasciati all'iniziativa privata della classe dirigente. Hegel, in un certo senso, supera già, cosí, il puro costituzionalismo e teorizza lo Stato parlamentare col suo regime dei partiti. La sua concezione dell'associazione non può essere che ancora vaga e primitiva, tra il politico e l'economico, secondo l'esperienza storica del tempo, che era molto ristretta e dava un solo esempio compiuto di organizzazione, quello «corporativo» (politica innestata nell'economia).

Marx non poteva avere esperienze storiche superiori a quelle di Hegel (almeno molto superiori), ma aveva il senso delle masse, per la sua attività giornalistica e agitatoria. Il concetto di Marx dell'organizzazione rimane ancora impigliato tra questi elementi: organizzazione di mestiere, clubs giacobini, cospirazioni segrete di piccoli gruppi, organizzazione giornalistica. La Rivoluzione francese offre due tipi prevalenti: i clubs, che sono organizzazioni non rigide, tipo «comizio popolare», centralizzate da singole individualità politiche, ognuna delle quali ha il suo giornale, con cui tiene desta l'attenzione e l'interesse di una determinata clientela sfumata ai margini, che poi sostiene le tesi del giornale nelle riunioni del club. È certo che in mezzo agli assidui dei clubs dovevano esistere aggruppamenti ristretti e selezionati di gente che si conosceva reciprocamente, che si riuniva a parte e preparava l'atmosfera delle riunioni per sostenere l'una o l'altra corrente secondo i momenti e anche secondo gli interessi concreti in gioco. Le cospirazioni segrete, che poi ebbero tanta diffusione in Italia prima del '48, dovettero svilupparsi dopo il Termidoro in Francia, tra i seguaci di seconda linea del giacobinismo, con molte difficoltà nel periodo napoleonico per l'occhiuto controllo della polizia, con piú facilità dal '15 al '30 sotto la Restaurazione, che fu abbastanza liberale alla base e non aveva certe preoccupazioni. In questo periodo dal '15 al '30 dovette avvenire la differenziazione del campo politico popolare, che appare già notevole nelle «gloriose giornate» del 1830, in cui affiorano le formazioni venutesi costituendo nel quindicennio precedente. Dopo il '30 e fino al '48 questo processo di differenziazione si perfeziona e dà dei tipi abbastanza compiuti con Blanqui e con Filippo Buonarroti.

È difficile che Hegel potesse conoscere da vicino queste esperienze storiche, che invece erano piú vivaci in Marx (su questa serie di fatti vedere come primo materiale le pubblicazioni di Paul Louis e il Dizionario politico di Maurice Block; per la Rivoluzione francese specialmente Aulard; vedere anche le note dell'Andler al Manifesto; per l'Italia il libro del Luzio sulla Massoneria e il Risorgimento, molto tendenzioso).

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Lo Stato e la concezione del diritto. La rivoluzione portata dalla classe borghese nella concezione del diritto e quindi nella funzione dello Stato consiste specialmente nella volontà di conformismo (quindi eticità del diritto e dello Stato). Le classi dominanti precedenti erano essenzialmente conservatrici nel senso che non tendevano ad elaborare un passaggio organico dalle altre classi alla loro, ad allargare cioè la loro sfera di classe «tecnicamente» e ideologicamente: la concezione di casta chiusa. La classe borghese pone se stessa come un organismo in continuo movimento, capace di assorbire tutta la società, assimilandola al suo livello culturale ed economico: tutta la funzione dello Stato è trasformata: lo Stato diventa «educatore», ecc. Come avvenga un arresto e si ritorni alla concezione dello Stato come pura forza ecc. La classe borghese è «saturata»: non solo non si diffonde, ma si disgrega; non solo non assimila nuovi elementi, ma disassimila una parte di se stessa (o almeno le disassimilazioni sono enormemente piú numerose delle assimilazioni). Una classe che ponga se stessa come passibile di assimilare tutta la società, e sia nello stesso tempo realmente capace di esprimere questo processo, porta alla perfezione questa concezione dello Stato e del diritto, tanto da concepire la fine dello Stato e del diritto come diventati inutili per aver esaurito il loro compito ed essere stati assorbiti dalla società civile.

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Concetto di Stato. Che il concetto comune di Stato sia unilaterale e conduca a errori madornali si può dimostrare parlando del recente libro di Daniele HalévyDecadenza della libertà di cui ho letto una recensione nelle «Nouvelles Littéraires». Per Halévy «Stato» è l'apparato rappresentativo ed egli scopre che i fatti piú importanti della storia francese dal '70 ad oggi non sono dovuti ad iniziative degli organismi politici derivanti dal suffragio universale, ma o da organismi privati (società capitalistiche, Stato maggiore, ecc.) o da grandi funzionari sconosciuti al paese, ecc. Ma cosa significa ciò se non che per Stato deve intendersi oltre all'apparato governativo anche l'apparato «privato» di egemonia o società civile. È da notare come da questa critica dello «Stato» che non interviene, che è alla coda degli avvenimenti, ecc., nasce la corrente ideologica dittatoriale di destra, col suo rafforzamento dell'esecutivo, ecc. Bisognerebbe però leggere il libro dell'Halévy per vedere se anch'egli è entrato in questa via: non è difficile in linea di principio, dati i suoi precedenti (simpatie soreliane, per Maurras, ecc.).


Curzio Malaparte nell'introduzione al suo volumetto sulla Tecnica del colpo di Stato pare affermi l'equivalenza della formula: «Tutto nello Stato, nulla fuori dello Stato, nulla contro lo Stato» con la proposizione: «dove c'è la libertà non c'è lo Stato». In questa proposizione il termine «libertà» non è inteso nel significato comune di «libertà politica, ossia di stampa ecc.», ma come contrapposto a «necessità» ed è in relazione alla proposizione di Engels sul passaggio dal regno della necessità al regno della libertà. Il Malaparte non ha neanche annasato il significato della proposizione.

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Lo Stato «veilleur de nuit». Nella polemica (del resto superficiale) sulle funzioni dello Stato (e si intende dello Stato come organizzazione politico-giuridica in senso stretto) l'espressione di «Stato - veilleur de nuit» corrisponde all'italiano di «Stato carabiniere» e vorrebbe significare uno Stato le cui funzioni sono limitate alla tutela dell'ordine pubblico e del rispetto delle leggi. Non si insiste sul fatto che in questa forma di regime (che poi non è mai esistito altro che, come ipotesi-limite, sulla carta) la direzione dello sviluppo storico appartiene alle forze private, alla società civile, che è anch'essa «Stato», anzi è lo Stato stesso. Pare che l'espressione «veilleur de nuit», che dovrebbe avere un valore piú sarcastico di «Stato carabiniere» o di «Stato poliziotto», sia di Lassalle. Il suo opposto dovrebbe essere lo «Stato etico» o lo «Stato intervenzionista» in generale, ma ci sono differenze tra una e l'altra espressione: il concetto di Stato etico è di origine filosofica e intellettuale (propria degli intellettuali: Hegel) e in verità potrebbe essere congiunta con quello di «Stato - veilleur de nuit», poiché si riferisce piuttosto all'attività, autonoma, educativa e morale dello Stato laico in contrapposto al cosmopolitismo e all'ingerenza dell'organizzazione religioso-ecclesiastica come residuo medioevale; il concetto di Stato intervenzionista è di origine economica ed è connesso, da una parte, alle correnti protezionistiche o di nazionalismo economico e, dall'altra, al tentativo di far assumere a un personale statale determinato, di origine terriera e feudale, la «protezione» delle classi lavoratrici contro gli eccessi del capitalismo (politica di Bismarck e Disraeli). Queste diverse tendenze possono combinarsi in vario modo e di fatto si sono combinate. Naturalmente i liberali «economisti» sono per lo «Stato - veilleur de nuit» e vorrebbero che l'iniziativa storica fosse lasciata alla società civile e alle diverse forze che vi pullulano con lo «Stato» guardiano della «lealtà del gioco» e delle leggi di esso: gli intellettuali fanno distinzioni molto importanti quando sono liberali e anche quando sono intervenzionisti (possono essere liberali nel campo economico e intervenzionisti in quello culturale, ecc.).

I cattolici vorrebbero lo Stato intervenzionista in loro completo favore; in mancanza di ciò, o dove sono minoranza, domandano lo Stato «indifferente», perché non sostenga i loro avversari.

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Stato gendarme-guardiano notturno, ecc. È da meditare questo argomento: la concezione dello Stato gendarme - guardiano notturno, ecc. (a parte la specificazione di carattere polemico: gendarme, guardiano notturno, ecc.) non è poi la concezione dello Stato che sola superi le estreme fasi «corporative-economiche»? Siamo sempre nel terreno della identificazione di Stato e Governo, identificazione che appunto è un ripresentarsi della forma corporativa-economica, cioè della confusione tra società civile e società politica, poiché è da notare che nella nozione generale di Stato entrano elementi che sono da riportare alla nozione di società civile (nel senso, si potrebbe dire, che Stato = società politica + società civile, cioè egemonia corazzata di coercizione). In una dottrina dello Stato che concepisca questo come passibile tendenzialmente di esaurimento e di risoluzione nella società regolata, l'argomento è fondamentale. L'elemento Stato-coercizione si può immaginare esaurentesi mano a mano che si affermano elementi sempre piú cospicui di società regolata (o Stato etico o società civile). Le espressioni di Stato etico o di società civile verrebbero a significare che quest'«immagine» di Stato senza Stato era presente ai maggiori scienziati della politica e del diritto in quanto si ponevano nel terreno della pura scienza (= pura utopia, in quanto basata sul presupposto che tutti gli uomini sono realmente uguali e quindi ugualmente ragionevoli e morali, cioè passibili di accettare la legge spontaneamente, liberamente e non per coercizione, come imposta da altra classe, come cosa esterna alla coscienza). Occorre ricordare che l'espressione di guardiano notturno per lo Stato liberale è di Lassalle, cioè di uno statalista dogmatico e non dialettico. (Cfr. bene la dottrina di Lassalle su questo punto e sullo Stato in generale, in contrasto col marxismo). Nella dottrina dello Stato → società regolata, da una fase in cui Stato sarà uguale Governo, e Stato si identificherà con società civile, si dovrà passare a una fase di Stato-guardiano notturno, cioè di una organizzazione coercitiva che tutelerà lo sviluppo degli elementi di società regolata in continuo incremento, e pertanto riducente gradatamente i suoi interventi autoritari e coattivi. Né ciò può far pensare a un nuovo «liberalismo», sebbene sia per essere l'inizio di un'era di libertà organica.

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Fase economica-corporativa dello Stato. Se è vero che nessun tipo di Stato non può non attraversare una fase di primitivismo economico-corporativa, se ne deduce che il contenuto dell'egemonia politica del nuovo gruppo sociale che ha fondato il nuovo tipo di Stato deve essere prevalentemente di ordine economico: si tratta di riorganizzare la struttura e i rapporti reali tra gli uomini e il mondo economico o della produzione. Gli elementi di superstruttura non possono che essere scarsi e il loro carattere sarà di previsione e di lotta, ma con elementi «di piano» ancora scarsi: il piano culturale sarà soprattutto negativo, di critica del passato, tenderà a far dimenticare e a distruggere: le linee della costruzione saranno ancora «grandi linee», abbozzi, che potrebbero (e dovrebbero) essere cambiate in ogni momento, perché siano coerenti con la nuova struttura in formazione. Ciò appunto non si verifica nel periodo dei Comuni; anzi la cultura, che rimane funzione della Chiesa, è proprio di carattere antieconomico (dell'economia capitalistica nascente), non è indirizzata a dare l'egemonia alla nuova classe, ma anzi a impedire che questa l'acquisti: l'Umanesimo e il Rinascimento perciò sono reazionari, perché segnano la sconfitta della nuova classe, la negazione del mondo economico che le è proprio ecc.


1) Altro elemento da esaminare è quello dei rapporti organici tra la politica interna e la politica estera di uno Stato. È la politica interna che determina quella estera o viceversa? Anche in questo caso occorrerà distinguere: tra grandi potenze, con relativa autonomia internazionale, e altre potenze, e ancora tra diverse forme di governo (un governo come quello di Napoleone III aveva due politiche, apparentemente, reazionaria all'interno e liberale all'estero).

2) Condizioni di uno Stato prima e dopo una guerra. È evidente che contano, in una alleanza, le condizioni in cui uno Stato si trova al momento della pace. Può avvenire perciò che chi ha avuto l'egemonia durante la guerra, finisca col perderla per l'indebolimento subito nella lotta e debba vedere un «subalterno» che è stato piú abile o piú «fortunato» diventare egemone. Ciò si verifica nelle «guerre mondiali» quando la situazione geografica costringe uno Stato a gettare tutte le sue risorse nel crogiolo: vince per le alleanze, ma la vittoria lo trova prostrato ecc. Ecco perché nel concetto di «grande potenza» occorre tener conto di molti elementi e specialmente di quelli «permanenti», cioè specialmente «potenzialità economica e finanziaria» e popolazione.

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Organizzazione delle società nazionali. Ho notato altra volta che in una determinata società nessuno è disorganizzato e senza partito, purché si intendano organizzazione e partito in senso largo e non formale. In questa molteplicità di società particolari, di carattere duplice, naturale e contrattuale o volontario, una o piú prevalgono relativamente o assolutamente, costituendo l'apparato egemonico di un gruppo sociale sul resto della popolazione (o società civile), base dello Stato inteso strettamente come apparato governativo-coercitivo.

Avviene sempre che le singole persone appartengano a piú di una società particolare e spesso a società che essenzialmente sono in contrasto fra loro. Una politica totalitaria tende appunto: 1) a ottenere che i membri di un determinato partito trovino in questo solo partito tutte le soddisfazioni che prima trovavano in una molteplicità di organizzazioni, cioè a rompere tutti i fili che legano questi membri ad organismi culturali estranei; 2) a distruggere tutte le altre organizzazioni o a incorporarle in un sistema di cui il partito sia il solo regolatore. Ciò avviene: 1) quando il partito dato è portatore di una nuova cultura e si ha una fase progressiva; 2) quando il partito dato vuole impedire che un'altra forza, portatrice di una nuova cultura, diventi essa «totalitaria»; e si ha una fase regressiva e reazionaria oggettivamente, anche se la reazione (come sempre avviene) non confessi se stessa e cerchi di sembrare essa portatrice di una nuova cultura.


Luigi Einaudi, nella «Riforma Sociale» del maggio-giugno 1931, recensisce un volume francese Les sociétés de la nation. Étude sur les éléments constitutifs de la nation française, di Etienne Martin - Saint-Léon (vol. di pp. 413, Ed. Spes, 17, rue Soufflot, Parigi, 1930, frs. 45) dove una parte di queste organizzazioni sono studiate, ma solo quelle che esistono formalmente. (Per es., i lettori di un giornale formano o no una organizzazione?, ecc.). In ogni modo, se l'argomento fosse trattato, vedere il libro e anche la recensione dell'Einaudi.

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I costumi e le leggi. È opinione molto diffusa e anzi è opinione ritenuta realistica e intelligente che le leggi devono essere precedute dal costume, che la legge è efficace solo in quanto sanziona i costumi. Questa opinione è contro la storia reale dello sviluppo del diritto, che ha domandato sempre una lotta per affermarsi e che in realtà è lotta per la creazione di un nuovo costume. Nell'opinione su citata esiste un residuo molto appariscente di moralismo intruso nella politica.

Si suppone che il diritto sia espressione integrale dell'intera società, ciò che è falso: invece espressione piú aderente della società sono quelle regole di condotta che i giuristi chiamano «giuridicamente indifferenti» e la cui zona cambia coi tempi e con l'estensione dell'intervento statale nella vita dei cittadini. Il diritto non esprime tutta la società (per cui i violatori del diritto sarebbero esseri antisociali per natura, o minorati psichici), ma la classe dirigente, che «impone» a tutta la società quelle norme di condotta che sono piú legate alla sua ragion d'essere e al suo sviluppo. La funzione massima del diritto è questa: di presupporre che tutti i cittadini devono accettare liberamente il conformismo segnato dal diritto, in quanto tutti possono diventare elementi della classe dirigente; nel diritto moderno cioè è implicita l'utopia democratica del secolo XVIII.

Qualche cosa di vero tuttavia esiste nell'opinione che il costume deve precedere il diritto: infatti nelle rivoluzioni contro gli Stati assoluti, esisteva già come costume e come aspirazione una gran parte di ciò che poi divenne diritto obbligatorio: è con il nascere e lo svilupparsi delle disuguaglianze che il carattere obbligatorio del diritto andò aumentando, cosí come andò aumentando la zona dell'intervento statale e dell'obbligazionismo giuridico. Ma in questa seconda fase, pur affermando che il conformismo deve essere libero e spontaneo, si tratta di ben altro: si tratta di reprimere e soffocare un diritto nascente e non di conformare.

L'argomento rientra in quello piú generale della diversa posizione che hanno avuto le classi subalterne prima di diventare dominanti. Certe classi subalterne devono avere un lungo periodo di intervento giuridico rigoroso e poi attenuato, a differenza di altre; c'è differenza anche nei modi: in certe classi l'espansività non cessa mai, fino all'assorbimento completo della società; in altre, al primo periodo di espansione succede un periodo di repressione. Questo carattere educativo, creativo, formativo del diritto è stato messo poco in luce da certe correnti intellettuali: si tratta di un residuo dello spontaneismo, del razionalismo astratto che si basa su un concetto della «natura umana» astrattamente ottimistico e facilone. Un altro problema si pone per queste correnti: quale deve essere l'organo legislativo «in senso lato», cioè la necessità di portare le discussioni legislative in tutti gli organismi di massa: una trasformazione organica del concetto di «referendum», pur mantenendo al governo la funzione di ultima istanza legislativa.

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Chi è legislatore? Il concetto di «legislatore» non può non identificarsi col concetto di «politico». Poiché tutti sono «uomini politici» tutti sono anche «legislatori». Ma occorrerà fare delle distinzioni. «Legislatore» ha un preciso significato giuridico-statale, cioè significa quelle persone che sono abilitate dalle leggi a legiferare. Ma può avere anche altri significati. Ogni uomo, in quanto è attivo, cioè vivente, contribuisce a modificare l'ambiente sociale in cui si sviluppa (a modificarne determinati caratteri o a conservarne altri), cioè tende a stabilire «norme», regole di vita e di condotta. La cerchia di attività sarà maggiore o minore, la consapevolezza della propria azione e dei fini sarà maggiore o minore; inoltre, il potere rappresentativo sarà maggiore o minore, e sarà piú o meno attuato dai «rappresentati» nella sua espressione sistematica normativa. Un padre è un legislatore per i figli, ma l'autorità paterna sarà piú o meno consapevole e piú o meno obbedita e cosí via. In generale si può dire che tra la comune degli uomini e altri uomini piú specificatamente legislatori la distinzione è data dal fatto che questo secondo gruppo non solo elabora direttive che dovrebbero diventare norma di condotta per gli altri, ma nello stesso tempo elabora gli strumenti attraverso i quali le direttive stesse saranno «imposte» e se ne verificherà l'esecuzione. Di questo secondo gruppo il massimo di potere legislativo è nel personale statale (funzionari elettivi e di carriera) che hanno a loro disposizione le forze coercitive legali dello Stato. Ma non è detto che anche i dirigenti di organismi e organizzazioni «private» non abbiano sanzioni coercitive a loro disposizione, fino anche alla pena di morte. Il massimo di capacità del legislatore si può desumere dal fatto che alla perfetta elaborazione delle direttive corrisponde una perfetta predisposizione degli organismi di esecuzione e di verifica e una perfetta preparazione del consenso «spontaneo» delle masse che devono «vivere» quelle direttive, modificando le proprie abitudini, la propria volontà, le proprie convinzioni conformemente a queste direttive e ai fini che esse si propongono di raggiungere.

Se ognuno è legislatore nel senso piú largo del concetto, ognuno continua ad essere legislatore anche se accetta direttive di altri, ed eseguendole controlla che anche gli altri le eseguano, avendole comprese nel loro spirito, le divulga, quasi facendone dei regolamenti di applicazione particolare a zone di vita ristretta e individuata.


In uno studio di teoria finanziaria (delle imposte) di Mauro Fasiani (Schemi teorici ed «exponibilia» finanziari, nella «Riforma Sociale» del settembre-ottobre 1932) si parla di «volontà supposta di quell'essere un po' mitico, chiamato legislatore». L'espressione cautelosa ha due significati, cioè si riferisce a due ordini ben distinti di osservazioni critiche. Da una parte, si riferisce al fatto che le conseguenze di una legge possono essere diverse da quelle «previste» cioè volute coscientemente dal legislatore individuale, per cui «obbiettivamente», alla «voluntas legislatoris», cioè agli effetti previsti dal legislatore individuale, si sostituisce la «voluntas legis», cioè l'insieme di conseguenze effettuali che il legislatore individuale non aveva previsto ma che di fatto conseguono dalla legge data. (Naturalmente sarebbe da vedere se gli effetti che il legislatore individuale prevede a parole sono da lui previsti «bona fide» oppure solo per creare l'ambiente favorevole all'approvazione della legge, se i «fini» che il legislatore individuale pretende di voler conseguire non sono un semplice mezzo di propaganda ideologica o demagogica). Ma l'espressione cautelosa ha anche un altro significato che precisa il primo e lo definisce: la parola «legislatore» può essere infatti interpretata in senso molto ampio, «fino ad indicare con essa l'insieme di credenze, di sentimenti, di interessi e di ragionamenti diffusi in una collettività in un dato periodo storico». Ciò in realtà significa: 1) che il legislatore individuale (e legislatore individuale deve intendersi non solo nel caso ristretto dell'attività parlamentare-statale, ma anche in ogni altra attività «individuale» che cerchi, in sfere piú o meno larghe di vita sociale, di modificare la realtà secondo certe linee direttive) non può mai svolgere azioni «arbitrarie», antistoriche, perché il suo atto d'iniziativa, una volta avvenuto, opera come una forza a sé nella cerchia sociale determinata, provocando azioni e reazioni che sono intrinseche a questa cerchia oltre che all'atto in sé; 2) che ogni atto legislativo, o di volontà direttiva e normativa, deve anche e specialmente essere valutato obbiettivamente, per le conseguenze effettuali che potrà avere; 3) che ogni legislatore non può essere che astrattamente e per comodità di linguaggio considerato come individuo, perché in realtà esprime una determinata volontà collettiva disposta a rendere effettuale la sua «volontà», che è volontà solo perché la collettività è disposta a darle effettualità; 4) che pertanto ogni individuo che prescinda da una volontà collettiva e non cerchi di crearla, suscitarla, estenderla, rafforzarla, organizzarla, è semplicemente una mosca cocchiera, un «profeta disarmato», un fuoco fatuo.

Su questo argomento è da vedere ciò che dice il Pareto sulle azioni logiche e non logiche nella sua Sociologia. Secondo il Fasiani per il Pareto sono «azioni logichequelle che uniscono logicamente il mezzo al fine non solo secondo il giudizio del soggetto agente (fine soggettivo) ma anche secondo il giudizio dell'osservatore (fine oggettivo). Le azioni non-logiche non hanno tale carattere. Il loro fine oggettivo differisce dal fine soggettivo». Il Fasiani non è soddisfatto da questa terminologia paretiana, ma la sua critica rimane nello stesso terreno puramente formale e schematico del Pareto.

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Arte politica e arte militare. Lo scrittore italiano di cose militari generale De Cristoforis nel suo libro Che cosa sia la guerra dice che per «distruzione dell'esercito nemico» (fine strategico) non si intende «la morte dei soldati, ma lo scioglimento del loro legame come massa organica». La formula è felice e può essere impiegata anche nella terminologia politica. Si tratta di identificare quale sia nella vita politica il legame organico essenziale, che non può consistere solo nei rapporti giuridici (libertà di associazione e riunione ecc., con la sequela dei partiti e dei sindacati ecc.) ma si radica nei piú profondi rapporti economici, cioè nella funzione sociale nel mondo produttivo (forme di proprietà e di direzione ecc.).

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[«Funzione di governo».] Articolo di Sergio Panunzio nella «Gerarchia» dell'aprile 1933 (La fine del parlamentarismo e l'accentramento delle responsabilità). Superficiale. Un punto curioso è quello in cui il Panunzio scrive che le funzioni dello Stato non sono solo tre «secondo i vecchi figurini costituzionalisti» e cioè la «legislativa», l'«amministrativa» e la «giudiziaria», ma «che a queste bisogna aggiungerne un'altra, che è poi, anche nel regime parlamentare, la principale, la primigenia, e la fondamentale, la «funzione di governo», ossia la determinazione dell'indirizzo politico. Indirizzo politico rispetto al quale la stessa legislazione si comporta come un esecutivo (!), inquantoché è il programma politico di governo che si traduce come in tanti capitoli successivi nelle leggi ed è il presupposto di queste». Presupposto e contenuto, e quindi nesso inscindibile? Il Panunzio in realtà ragiona per figurini, cioè formalisticamente, peggio dei vecchi costituzionalisti. Ciò che egli dovrebbe spiegare, per il suo assunto, è come mai sia avvenuto il distacco e la lotta tra parlamento e governo in modo che l'unità di queste due istituzioni non riesca piú a costruire un indirizzo permanente di governo, ma ciò non si può spiegare per schemi logici ma solo riferendosi ai mutamenti avvenuti nella struttura politica del paese, cioè realisticamente, con un'analisi storico-politica. Si tratta infatti di difficoltà di costruire un indirizzo politico permanente e di vasta portata, non di difficoltà senz'altro. L'analisi non può prescindere dall'esame: 1) del perché si siano moltiplicati i partiti politici; 2) del perché sia diventato difficile formare una maggioranza permanente tra tali partiti parlamentari; 3) quindi del perché i grandi partiti tradizionali abbiano perduto il potere di guidare, il prestigio ecc. Questo fatto è puramente parlamentare, o è il riflesso parlamentare di radicali mutazioni avvenute nella società stessa, nella funzione che i gruppi sociali hanno nella vita produttiva ecc.? Pare che la sola via di ricercare l'origine del decadimento dei regimi parlamentari sia questa, cioè sia da ricercare nella società civile e certo in questa via non si può fare a meno di studiare il fenomeno sindacale; ma ancora, non il fenomeno sindacale inteso nel suo senso elementare di associazionismo di tutti i gruppi sociali e per qualsiasi fine, ma quello tipico per eccellenza, cioè degli elementi sociali di nuova formazione, che precedentemente non avevano «voce in capitolo» e che per il solo fatto di unirsi modificano la struttura politica della società.

Sarebbe da ricercare come sia avvenuto che i vecchi sindacalisti sorelliani (o quasi) a un certo punto siano divenuti semplicemente degli associazionisti o unionisti in generale. Forse il germe di questo decadimento era nello stesso Sorel, cioè in un certo feticismo sindacale o economistico.


La quistione posta dal Panunzio sull'esistenza di un «quarto» potere statale, quello di «determinazione dell'indirizzo politico» pare che debba essere posta in connessione coi problemi suscitati dalla scomparsa dei partiti politici e quindi dallo svuotamento del Parlamento. È un modo «burocratico» di porre un problema che prima era risolto dal normale funzionamento della vita politica nazionale, ma non appare come possa essere la soluzione «burocratica» di esso. I partiti erano appunto gli organismi che nella società civile elaboravano gli indirizzi politici non solo, ma educavano e presentavano gli uomini supposti in grado di applicarli. Nel terreno parlamentare gli «indirizzi» elaborati, totali o parziali, di lunga portata o di carattere immediato, venivano confrontati, sfrondati dai caratteri particolaristici ecc. e uno di essi diventava «statale» in quanto il gruppo parlamentare del partito piú forte diventava il «governo» o guidava il governo. Che, per la disgregazione parlamentare, i partiti siano divenuti incapaci di svolgere questo compito non ha annullato il compito stesso né ha mostrato una via nuova di soluzione: cosí anche per l'educazione e la messa in valore delle personalità. La soluzione «burocratica» di fatto maschera un regime di partiti della peggiore specie in quanto operano nascostamente, senza controllo; i partiti sono sostituiti da camarille e influssi personali non confessabili: senza contare che restringe le possibilità di scelta e ottunde la sensibilità politica e l'elasticità tattica. È opinione di Max Weber, per esempio, che una gran parte delle difficoltà attraversate dallo Stato tedesco nel dopoguerra sono dovute all'assenza di una tradizione politico-parlamentare e di vita di partito prima del 1914.

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[La classe politica.] La quistione della classe politica, come è presentata nelle opere di Gaetano Mosca, è diventata un puzzle. Non si capisce esattamente cosa il Mosca intenda precisamente per classe politica, tanto la nozione è elastica ed ondeggiante. Talvolta pare che per classe politica si intenda la classe media, altre volte l'insieme delle classi possidenti, altre volte ciò che si chiama la «parte colta» della società, o il «personale politico» (ceto parlamentare) dello Stato: talvolta pare che la burocrazia, anche nel suo strato superiore, sia esclusa dalla classe politica in quanto deve appunto essere controllata e guidata dalla classe politica. La deficienza della trattazione del Mosca appare nel fatto che egli non affronta nel suo complesso il problema del «partito politico» e ciò si capisce, dato il carattere dei libri del Mosca e specialmente degli Elementi di scienza politica: l'interesse del Mosca infatti ondeggia tra una posizione «obbiettiva» e disinteressata di scienziato e una posizione appassionata di immediato uomo di parte che vede svolgersi avvenimenti che lo angustiano e ai quali vorrebbe reagire. D'altronde il Mosca inconsapevolmente riflette le discussioni suscitate dal materialismo storico, ma le riflette come il provinciale che «sente nell'aria» le discussioni che avvengono nella capitale e non ha il mezzo di procurarsene i documenti e i testi fondamentali: nel caso del Mosca «non avere i mezzi» di procurarsi i testi e i documenti del problema che tuttavia tratta significa che il Mosca appartiene a quella parte di universitari che mentre ritengono loro dovere fare sfoggio di tutte le cautele del metodo storico quando studiano le ideuzze di un pubblicista medioevale di terzo ordine, non ritengono o non ritenevano degne «del metodo» le dottrine del materialismo storico, non ritenevano necessario risalire alle fonti e si accontentavano di orecchiare articolucci di giornale e opuscoletti popolari.

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[Grande politica e piccola politica.] Grande politica (alta politica) – piccola politica (politica del giorno per giorno, politica parlamentare, di corridoio, d'intrigo). La grande politica comprende le quistioni connesse con la fondazione di nuovi Stati, con la lotta per la distruzione, la difesa, la conservazione di determinate strutture organiche economico-sociali. La piccola politica le quistioni parziali e quotidiane che si pongono nell'interno di una struttura già stabilita per le lotte di preminenza tra le diverse frazioni di una stessa classe politica. È pertanto grande politica il tentare di escludere la grande politica dall'ambito interno della vita statale e di ridurre tutto a piccola politica (Giolitti, abbassando il livello delle lotte interne faceva della grande politica; ma i suoi succubi, eranooggetto di grande politica, ma facevano essi della piccola politica). È invece da dilettanti porre le quistioni in modo tale che ogni elemento di piccola politica debba necessariamente diventare quistione di grande politica, di radicale riorganizzazione dello Stato. Gli stessi termini si ripresentano nella politica internazionale: 1) la grande politica nelle quistioni che riguardano la statura relativa dei singoli Stati nei confronti reciproci; 2) la piccola politica nelle quistioni diplomatiche che nascono nell'interno di un equilibrio già costituito e che non tentano di superare l'equilibrio stesso per creare nuovi rapporti.

Il Machiavelli esamina specialmente le quistioni di grande politica: creazione di nuovi Stati, conservazione e difesa di strutture organiche nel complesso; quistioni di dittatura e di egemonia su vasta scala, cioè su tutta l'area statale. Il Russo nei Prolegomeni fa del Principe il trattato della dittatura (momento dell'autorità e dell'individuo) e dei Discorsi quello dell'egemonia (momento dell'universale e della libertà). L'osservazione del Russo è esatta, sebbene anche nel Principe non manchino gli accenni al momento dell'egemonia o del consenso accanto a quelli dell'autorità o della forza. Cosí è giusta l'osservazione che non c'è opposizione di principio tra principato e repubblica, ma si tratti piuttosto della ipostasi dei due momenti di autorità e universalità.


(Nuovo Machiavelli, cfr. quaderno speciale ecc). A proposito del Rinascimento, di Lorenzo dei Medici ecc., quistione di «grande politica e di piccola politica», politica creativa, e politica di equilibrio, di conservazione, anche se si tratta di conservare una situazione miserabile. Accusa ai francesi (e ai Galli fin da Giulio Cesare) di essere volubili ecc. E in questo senso gli italiani del Rinascimento non sono mai stati «volubili», anzi forse occorre distinguere tra la grande politica che gli italiani facevano all'«estero», come forza cosmopolita (finché la funzione cosmopolita durò) e la piccola politica all'interno, la piccola diplomazia, l'angustia dei programmi ecc., quindi la debolezza di coscienza nazionale che avrebbe domandato una attività audace e di fiducia nelle forze popolari-nazionali. Finito il periodo della funzione cosmopolita, rimase quello della «piccola politica» all'interno, lo sforzo immane per impedire ogni mutamento radicale. In realtà il «piede di casa», le mani nette ecc. che tanto sono rimproverati alle generazioni dell'Ottocento non sono che la coscienza della fine di una funzione cosmopolita nel modo tradizionale e l'incapacità di crearsene una nuova facendo leva sul popolo-nazione.

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Morale e politica. Si verifica una lotta. Si giudica della «equità» e della «giustizia» delle pretese delle parti in conflitto. Si giunge alla conclusione che una delle parti non ha ragione, che le sue pretese non sono eque, o addirittura che esse mancano di senso comune. Queste conclusioni sono il risultato di modi di pensare diffusi, popolari, condivisi dalla stessa parte che in tal modo viene colpita da biasimo. Eppure questa parte continua a sostenere di «aver ragione», di essere nell'«equo» e ciò che piú conta, continua a lottare, facendo dei sacrifici, ciò che significa che le sue convinzioni non sono superficiali e a fior di labbra, non sono ragioni polemiche, per salvar la faccia, ma realmente profonde e operose nelle coscienze. Significherà che la quistione è mal posta e mal risolta. Che i concetti di equità e di giustizia sono puramente formali. Infatti può avvenire che di due parti in conflitto, ambedue abbiano ragione, «cosí stando le cose», e una appaia aver piú ragione dell'altra «cosí stando le cose», ma non abbia ragione «se le cose dovessero mutare». Ora appunto in un conflitto ciò che occorre valutare non sono le cose cosí come stanno, ma il fine che le parti in conflitto si propongono col conflitto stesso; e come questo fine, che non esiste ancora come realtà effettuale e giudicabile, potrà essere giudicato? E da chi potrà essere giudicato? Il giudizio stesso non diventerà un elemento del conflitto, cioè non sarà niente altro che una forza del giuoco a favore o a danno di una o dell'altra parte? In ogni caso si può dire: 1) che in un conflitto ogni giudizio di moralità è assurdo perché esso può essere fatto sui dati di fatto esistenti che appunto il conflitto tende a modificare; 2) che l'unico giudizio possibile è quello «politico» cioè di conformità del mezzo al fine (quindi implica una identificazione del fine o dei fini graduati in una scala successiva di approssimazione). Un conflitto è «immorale» in quanto allontana dal fine o non crea condizioni che approssimano al fine (cioè non crea mezzi piú conformi al raggiungimento del fine) ma non è «immorale» da altri punti di vista «moralistici». Cosí non si può giudicare l'uomo politico dal fatto che esso è o meno onesto, ma dal fatto che mantiene o no i suoi impegni (e in questo mantenimento può essere compreso l'«essere onesto», cioè l'essere onesto può essere un fattore politico necessario, e in generale lo è, ma il giudizio è politico e non morale), viene giudicato non dal fatto che opera equamente, ma dal fatto che ottiene o no dei risultati positivi o evita un male e in questo può essere necessario l'«operare equamente», ma come mezzo politico e non come giudizio morale.

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Distacco tra dirigenti e diretti. Assume aspetti diversi a seconda delle circostanze e delle condizioni generali. Diffidenza reciproca: il dirigente dubita che il «diretto» lo inganni, esagerando i dati positivi e favorevoli all'azione e perciò nei suoi calcoli deve tener conto di questa incognita che complica l'equazione. Il «diretto» dubita dell'energia e dello spirito di risolutezza del dirigente e perciò è tratto anche inconsciamente a esagerare i dati positivi e a nascondere o sminuire i dati negativi. C'è un inganno reciproco, origine di nuove esitazioni, di diffidenze, di quistioni personali ecc. Quando ciò avviene, significa che: 1) c'è crisi di comando; 2) l'organizzazione, il blocco sociale del gruppo in parola, non ha ancora avuto il tempo di saldarsi, creando l'affiatamento reciproco, la reciproca lealtà; 3) ma c'è un terzo elemento: l'incapacità del «diretto» a svolgere il suo compito che significa poi incapacità del «dirigente» a scegliere, a controllare, a dirigere il suo personale.

Esempi pratici: un ambasciatore può ingannare il suo governo: 1) perché vuole ingannarlo per interesse personale; caso di slealtà per tradimento di carattere nazionale o statale: l'ambasciatore è o diventa l'agente di un governo diverso da quello che rappresenta; 2) perché vuole ingannarlo, essendo avversario della politica del governo e favorevole alla politica di altro partito governativo del suo stesso paese, quindi perché vuole che nel suo paese al governo vada un partito piuttosto che un altro: caso di slealtà che in ultima analisi può diventare altrettanto grave che il precedente, sebbene possa essere accompagnato da circostanze attenuanti, come sarebbe il caso che il governo non faccia una politica nazionale e l'ambasciatore ne abbia le prove perentorie: sarebbe allora slealtà verso uomini transitori per poter essere leali verso lo Stato immanente: quistione terribile perché questa giustificazione ha servito a uomini indegni moralmente (Fouché, Talleyrand e, meno, i marescialli di Napoleone); 3) perché non sa d'ingannarlo, per incapacità o incompetenza o per scorrettezza (trascura il servizio) ecc. In questo caso la responsabilità del governo deve essere graduata: 1) se avendo possibilità di scelta adeguate ha scelto male per ragioni estrinseche al servizio (nepotismo, corruzione, limitazioni di spese per servizio importante per cui invece di capaci si scelgono i «ricchi» per la diplomazia o i «nobili» ecc.); 2) se non ha possibilità di scelta (Stato nuovo, come l'Italia nel 1861-70) e non crea le condizioni generali per sanare la deficienza e procurarsi la possibilità di scelta.

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Città e campagna. Giuseppe De Michelis, Premesse e contributo allo studio dell'esodo rurale, «Nuova Antologia», 16 gennaio 1930. Articolo interessante da molti punti di vista. Il De Michelis pone il problema abbastanza realisticamente. Intanto cos'è l'esodo rurale? Se ne parla da 200 anni e la quistione non è mai stata posta nei termini economici precisi.

(Anche il De Michelis dimentica due elementi fondamentali della quistione: 1) i lamenti per l'esodo rurale hanno una delle loro ragioni negli interessi dei proprietari che vedono elevarsi i salari per la concorrenza delle industrie urbane e per la vita piú «legale», meno esposta agli arbitrii ed abusi che sono la trama quotidiana della vita rurale; 2) per l'Italia non accenna all'emigrazione dei contadini che è la forma internazionale dell'esodo rurale verso paesi industriali ed è una critica reale del regime agrario italiano, in quanto il contadino si reca a fare il contadino altrove, migliorando il proprio tenor di vita).

È giusta l'osservazione del De Michelis che l'agricoltura non ha sofferto per l'esodo: 1) perché la popolazione agraria su scala internazionale non è diminuita; 2) perché la produzione non è diminuita, anzi c'è sopraproduzione, come dimostra la crisi dei prezzi di prodotti agricoli. (Nella passata crisi, quando cioè esse corrispondevano a fasi di prosperità industriale, ciò era vero; oggi, però, che la crisi agraria accompagna la crisi industriale, non si può parlare di sopraproduzione, ma di sottoconsumo). Nell'articolo sono citate statistiche che dimostrano la progressiva estensione della superficie coltivata a cereali e piú ancora di quella coltivata per prodotti per le industrie (canapa, cotone, ecc.) e dell'aumento della produzione. Il problema è osservato da un punto di vista internazionale (per un gruppo di 21 paesi) cioè di divisione internazionale del lavoro. (Dal punto di vista delle singole nazioni il problema può cambiare e in ciò consiste la crisi odierna: essa è una resistenza reazionaria ai nuovi rapporti mondiali, all'intensificarsi dell'importanza del mercato mondiale).

L'articolo cita qualche fonte bibliografica: occorrerà rivederlo. Finisce con un colossale errore: secondo il De Michelis: «La formazione delle città nei tempi remoti non fu che il lento e progressivo distacco del mestiere dall'attività agricola, con cui era prima confuso, per assurgere ad attività distinta. Il progresso dei venturi decenni consisterà, grazie soprattutto all'incremento della forza elettrica, nel riportare il mestiere alla campagna per ricongiungerlo, con forme mutate e con procedimenti perfezionati, al lavoro propriamente agricolo. In questa opera redentrice dell'artigianato rurale l'Italia si appresta ad essere anche una volta antesignana e maestra». Il De Michelis fa molte confusioni: 1) il ricongiungimento della città alla campagna non può avvenire sulla base dell'artigianato, ma solo sulla base della grande industria razionalizzata e standardizzata. L'utopia «artigianesca» si è basata sull'industria tessile: si pensava che con la verificatasi possibilità di distribuire l'energia elettrica a distanza, sarebbe diventato possibile ridare alla famiglia contadina il telaio meccanico moderno mosso dall'elettricità; ma già oggi un solo operaio fa azionare (pare) fino a 24 telai, ciò che pone nuovi problemi di concorrenza e di capitale ingenti, oltre che di organizzazione generale irrisolvibili dalla famiglia contadina; 2) l'utilizzazione industriale del tempo che il contadino deve rimanere disoccupato (questo è il problema fondamentale dell'agricoltura moderna, che pone il contadino in condizione di inferiorità economica di fronte alla città che «può» lavorare tutto l'anno) può avvenire solo in un'economia secondo un piano, molto sviluppata, che sia in grado di essere indipendente dalle fluttuazioni temporali di vendita che già si verificano e portano alle morte stagioni anche nell'industria; 3) La grande concentrazione dell'industria e la produzione a serie di pezzi intercambiabili permette di trasportare reparti di fabbrica in campagna, decongestionando la grande città e rendendo piú igienica la vita industriale. Non l'artigiano tornerà in campagna, ma viceversa l'operaio piú moderno e standardizzato.

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[Miti storici.] Studio delle parole d'ordine come quella del «terzo Reich» delle correnti di destra germaniche, di questi miti storici, che non sono altro che una forma concreta ed efficace di presentare il mito della «missione storica» di un popolo. Il punto da studiare è appunto questo: perché una tale forma sia «concreta ed efficace» o piú efficace di un'altra. In Germania la continuità ininterrotta (non interrotta da invasioni straniere permanenti) tra il periodo medioevale del Sacro Romano Impero (primo Reich) e quello moderno (da Federico il Grande al 1914) rende immediatamente comprensibile il concetto di terzo Reich. In Italia, il concetto di «terza Italia» del Risorgimento non poteva essere facilmente compreso dal popolo per la non continuità storica e la non omogeneità tra la Roma antica e quella papale (in vero anche tra la Roma repubblicana e quella imperiale non c'era omogeneità perfetta). Quindi la relativa fortuna della parola mazziniana di «Italia del popolo» che tendeva a indicare un rinnovamento completo, in senso democratico, di iniziativa popolare, della nuova storia italiana in contrapposto al «primato» giobertiano che tendeva a presentare il passato come continuità ideale possibile col futuro, cioè con un determinato programma politico presente presentato come di larga portata. Ma il Mazzini non riuscí a radicare la sua formula mitica e i suoi successori la diluirono e la immeschinirono nella retorica libresca. Un precedente per il Mazzini sarebbero potuti essere i Comuni medioevali che furono un rinnovamento storico effettivo e radicale, ma essi furono sfruttati piuttosto dai federalisti come Cattaneo. (L'argomento è da porre in rapporto con le prime note scritte nel quaderno speciale su Machiavelli).

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Centro. Uno studio accurato dei partiti di centro in senso largo sarebbe oltremodo educativo. Termine esatto, estensione del termine, cambiamento storico del termine e dell'accezione. Per esempio, i giacobini furono un partito estremo: oggi sono tipicamente di centro; cosí i cattolici (nella loro massa); cosí anche i socialisti, ecc. Credo che un'analisi dei partiti di centro e della loro funzione sia parte importante della storia contemporanea.

E non lasciarsi illudere dalle parole o dal passato: è certo per esempio che i «nichilisti» russi sono da considerarsi partito di centro, e cosí perfino gli «anarchici» moderni. La quistione è se per simbiosi un partito di centro non serva a un partito «storico», esempio il partito hitleriano (di centro) a Hugenberg e Papen (estremisti: estremisti in un certo senso, agrari e in parte industriali, data la storia tedesca particolare). Partiti di centro e partiti «demagogici» o borghesi-demagogici.

Lo studio della politica tedesca e francese nell'inverno 1932-33 dà una massa di materiale per questa ricerca, cosí la contrapposizione della politica estera a quella interna (mentre è sempre la politica interna che detta le decisioni, s'intende di un paese determinato: infatti è chiaro che l'iniziativa, dovuta a ragioni interne, di un paese, diventerà «estera» per il paese che subisce l'iniziativa).

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La forza dei partiti agrari. Uno dei fenomeni caratteristici dell'epoca moderna è questo: che nei parlamenti, o almeno in una serie di essi, i partiti agrari hanno una forza relativa che non corrisponde alla loro funzione storica, sociale, economica. Ciò è dovuto al fatto che nelle campagne si è mantenuto un blocco di tutti gli elementi della produzione agraria, blocco che spesso è guidato dalla parte piú retriva di questi elementi, mentre nelle città e nelle popolazioni di tipo urbano, già da alcune generazioni, un blocco simile si è disciolto, se pure è mai esistito (poiché non poteva esistere, non si allargava il suffragio elettorale). Cosí avviene che in paesi eminentemente industriali, dato il disgregarsi dei partiti medi, gli agrari abbiano il sopravvento «parlamentare» e impongano indirizzi politici «antistorici». È da fissare perché questo avvenga e se non ne siano responsabili i partiti urbani e il loro corporativismo o gretto economismo.

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[Religione, Stato, partito.] Nel Mein Kampf, Hitler scrive: «La fondazione o la distruzione di una religione è gesto incalcolabilmente piú rilevante che la fondazione o la distruzione di uno Stato: non dico di un partito...». Superficiale e acritico: i tre elementi: religione (o concezione del mondo «attiva»), Stato, partito, sono indissolubili e nel processo reale dello sviluppo storico-politico si passa dall'uno all'altro necessariamente. Nel Machiavelli, nei modi e nel linguaggio del tempo, si osserva la comprensione di questa necessaria omogeneità e interferenza dei tre elementi. Perdere l'anima per salvare la patria o lo Stato, è un elemento di laicismo assoluto, di concezione del mondo positiva e negativa (contro la religione o concezione dominante). Nel mondo moderno, un partito è tale, integralmente e non, come avviene, frazione di un partito piú grande, quando esso è concepito, organizzato e diretto in modi e forme tali da svilupparsi integralmente in uno Stato (integrale, e non in un governo tecnicamente inteso) e in una concezione del mondo. Lo sviluppo del partito in Stato reagisce sul partito e ne domanda una continua riorganizzazione e sviluppo, cosí come lo sviluppo del partito e dello Stato in concezione del mondo, cioè in trasformazione totale e molecolare (individuale) dei modi di pensare e operare, reagisce sullo Stato e sul partito, costringendoli a riorganizzarsi continuamente e ponendo loro dei problemi nuovi e originali da risolvere. È evidente che tale concezione è intralciata nello sviluppo pratico dal fanatismo cieco e unilaterale di «partito» (in questo caso di setta, di frazione di un piú ampio partito, nel cui seno si lotta), cioè dall'assenza sia di una concezione statale sia di una concezione del mondo che siano capaci di sviluppo in quanto storicamente necessarie. La vita politica attuale dà una larga testimonianza di queste angustie e ristrettezze mentali, che d'altronde provocano lotte drammatiche, perché esse stesse sono il modo con cui lo sviluppo storico si verifica praticamente. Ma il passato, e il passato italiano che piú interessa, da Machiavelli in poi, non è meno ricco di esperienze; perché tutta la storia è testimone del presente.

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Classe media. Il significato dell'espressione «classe media» muta da un paese all'altro (come muta quello di «popolo» o di «volgo» in rapporto alla boria di certi strati sociali) e perciò dà luogo spesso a equivoci molto curiosi (ricordare come il sindaco Frola di Torino firmasse un manifesto in inglese col titolo «Lord Mayor»). Il termine è venuto dalla letteratura politica inglese ed esprime la particolare forma dello sviluppo sociale inglese. Pare che in Inghilterra la borghesia non sia mai stata concepita come una parte integrante del popolo, ma sempre come una entità staccata da questo: è avvenuto anzi, nella storia inglese, che non la borghesia abbia guidato il popolo e si sia fatta aiutare da esso per abbattere i privilegi feudali, ma la nobiltà (o una frazione di essa) abbia formato il blocco nazionale-popolare contro la Corona prima e poi contro la borghesia industriale. Tradizione inglese di un torismo popolare (Disraeli, ecc.). Dopo le grandi riforme liberali che conformarono lo Stato agli interessi e ai bisogni della classe media, i due partiti fondamentali della vita politica inglese si distinsero su quistioni interne riguardanti la stessa classe, la nobiltà acquistò sempre piú un carattere particolare di «aristocrazia borghese» legata a certe funzioni della società civile e di quella politica (Stato) riguardanti la tradizione, l'educazione del ceto dirigente, la conservazione di una data mentalità che garantisce da bruschi rivolgimenti, ecc., la consolidazione della struttura imperiale, ecc.

In Francia il termine «classe media» dà luogo ad equivoci, nonostante che l'aristocrazia, di fatto, abbia conservato molta importanza come casta chiusa: il termine viene adoperato sia nel senso inglese, sia nel senso italiano di piccola e media borghesia. In Italia dove l'aristocrazia feudale è stata distrutta dai Comuni (fisicamente distrutta nelle guerre civili, eccetto che nell'Italia meridionale e in Sicilia), poiché manca la classe «alta» tradizionale, il termine di «media» si è abbassato di un gradino. Classe media significa «negativamente» non-popolo, cioè «non operai e contadini»; significa positivamente i ceti intellettuali, i professionisti, gli impiegati.

È da notare come il termine «signore» sia diffuso in Italia da molto tempo per indicare anche i non-nobili; il «don» meridionale, «galantuomini», «civili», «borghesi», ecc.; in Sardegna «signore» non è mai il rurale, anche quello ricco ecc.

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L'uomo-individuo e l'uomo-massa. Il proverbio latino: «Senatores boni viri, senatus mala bestia» è diventato un luogo comune. Cosa significa questo proverbio e quale significato ha assunto? Che una folla di persone dominate dagli interessi immediati o in preda alla passione suscitata dalle impressioni del momento trasmesse acriticamente di bocca in bocca, si unifica nella decisione collettiva peggiore, che corrisponde ai piú bassi istinti bestiali. L'osservazione è giusta e realistica in quanto si riferisce alle folle casuali, raccoltesi come «una moltitudine durante un acquazzone sotto una tettoia», composte di uomini che non sono legati da vincoli di responsabilità verso altri uomini o gruppi di uomini o verso una realtà economica concreta, il cui sfacelo si ripercuota nel disastro degli individui. Si può dire perciò che in tali folle l'individualismo non solo non è superato ma è esasperato per la certezza dell'impunità e della irresponsabilità.

È però anche osservazione comune che un'assemblea «bene ordinata» di elementi riottosi e indisciplinati si unifica in decisioni collettive superiori alla media individuale: la quantità diventa qualità. Se cosí non fosse, non sarebbe possibile l'esercito, per esempio non sarebbero possibili i sacrifizi inauditi che gruppi umani ben disciplinati sanno compiere in determinate occasioni, quando il loro senso di responsabilità sociale è svegliato fortemente dal senso immediato del pericolo comune e l'avvenire appare piú importante del presente. Si può far l'esempio di un comizio in piazza che è diverso da un comizio in sala chiusa ed è diverso da un comizio sindacale di categoria professionale e cosí via. Una seduta di ufficiali di Stato Maggiore sarà ben diversa da un'assemblea di soldati di un plotone ecc.

Tendenza al conformismo nel mondo contemporaneo piú estesa e piú profonda che nel passato: [la] standardizzazione del modo di pensare e di operare assume estensioni nazionali o addirittura continentali. La base economica dell'uomo-collettivo: grandi fabbriche, taylorizzazione, razionalizzazione ecc. Ma nel passato esisteva o no l'uomo-collettivo? Esisteva sotto forma della direzione carismatica, per dirla con Michels: cioè si otteneva una volontà collettiva sotto l'impulso e la suggestione immediata di un «eroe», di un uomo rappresentativo; ma questa volontà collettiva era dovuta a fattori estrinseci e si componeva e scomponeva continuamente. L'uomo-collettivo odierno si forma invece essenzialmente dal basso in alto, sulla base della posizione occupata dalla collettività nel mondo della produzione: l'uomo rappresentativo ha anche oggi una funzione nella formazione dell'uomo-collettivo, ma inferiore di molto a quella del passato, tanto che esso può sparire senza che il cemento collettivo si disfaccia e la costruzione crolli.

Si dice che «gli scienziati occidentali ritengono che la psiche delle masse non sia altro che il risorgere degli antichi istinti dell'orda primordiale e pertanto un regresso a stadi culturali da tempo superati»; ciò è da riferirsi alla cosí detta «psicologia delle folle» cioè delle moltitudini casuali e l'affermazione è pseudo-scientifica, è legata alla sociologia positivistica.

Sul «conformismo» sociale occorre notare che la quistione non è nuova e che l'allarme lanciato da certi intellettuali è solamente comico. Il conformismo è sempre esistito: si tratta oggi di lotta tra «due conformismi» cioè di una lotta di egemonia, di una crisi della società civile. I vecchi dirigenti intellettuali e morali della società sentono mancarsi il terreno sotto i piedi, si accorgono che le loro «prediche» sono diventate appunto «prediche», cioè cose estranee alla realtà, pura forma senza contenuto, larva senza spirito; quindi la loro disperazione e le loro tendenze reazionarie e conservative: poiché la particolare forma di civiltà, di cultura, di moralità che essi hanno rappresentato si decompone, essi gridano alla morte di ogni civiltà, di ogni cultura, di ogni moralità e domandano misure repressive allo Stato o si costituiscono in gruppo di resistenza appartato dal processo storico reale, aumentando in tal modo la durata della crisi, poiché il tramonto di un modo di vivere e di pensare non può verificarsi senza crisi. I rappresentanti del nuovo ordine in gestazione, d'altronde, per odio «razionalistico» al vecchio, diffondono utopie e piani cervellotici. Quale il punto di riferimento per il nuovo mondo in gestazione? Il mondo della produzione, il lavoro. Il massimo utilitarismo deve essere alla base di ogni analisi degli istituti morali e intellettuali da creare e dei principii da diffondere: la vita collettiva e individuale deve essere organizzata per il massimo rendimento dell'apparato produttivo. Lo sviluppo delle forze economiche sulle nuove basi e l'instaurazione progressiva della nuova struttura saneranno le contraddizioni che non possono mancare e avendo creato un nuovo «conformismo» dal basso, permetteranno nuove possibilità di autodisciplina, cioè di libertà anche individuale.

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Psicologia e politica. Specialmente nei periodi di crisi finanziaria si sente molto parlare di «psicologia» come di causa efficiente di determinati fenomeni marginali. Psicologia (sfiducia), panico, ecc. Ma cosa significa in questo caso «psicologia»? È una pudica foglia di fico per indicare la «politica», cioè una determinata situazione politica. Poiché di solito per «politica» s'intende l'azione delle frazioni parlamentari, dei partiti, dei giornali e in generale ogni azione che si esplica secondo una direttiva palese e predeterminata, si dà il nome di «psicologia» ai fenomeni elementari di massa, non predeterminati, non organizzati, non diretti palesemente, i quali manifestano una frattura nell'unità sociale tra governati e governanti. Attraverso queste «pressioni psicologiche» i governati esprimono la loro sfiducia nei dirigenti e domandano che siano mutate le persone e gli indirizzi dell'attività finanziaria e quindi economica. I risparmiatori non investono risparmi e disinvestono da determinate attività che appaiono particolarmente rischiose, ecc.: si accontentano di interessi minimi e anche di interessi zero; qualche volta preferiscono perdere addirittura una parte del capitale per mettere al sicuro il resto.

Può bastare l'«educazione» per evitare queste crisi di sfiducia generica? Esse sono sintomatiche appunto perché «generiche» e contro la «genericità» è difficile educare una nuova fiducia. Il succedersi frequente di tali crisi psicologiche indica che un organismo è malato, cioè che l'insieme sociale non è piú in grado di esprimere dirigenti capaci. Si tratta dunque di crisi politiche e anzi politico-sociali del raggruppamento dirigente.

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Storia politica e storia militare. Nel «Marzocco» del 10 marzo 1929 è riassunto un articolo di Ezio Levi nella «Glossa perenne» sugli Almògavari, interessante per due rispetti. Da un lato gli Almògavari (truppe leggere catalane, addestrate nelle aspre lotte della «reconquista» a combattere contro gli arabi col modo stesso degli arabi, cioè in ordine sparso, senza una disciplina di guerra, ma con impeti, agguati, avventure individuali) segnano l'introduzione in Europa di una nuova tattica, che può essere paragonata a quella degli arditi, sebbene in condizioni diverse. Dall'altro lato essi, secondo alcuni eruditi, segnano l'inizio delle compagnie di ventura. Un corpo di Almògavari fu mandato in Sicilia dagli Aragonesi per le guerre del Vespro: finisce la guerra, ma parte degli Almògavari si reca in Oriente al servizio del basileus dell'Impero bizantino Andronico. L'altra parte fu arruolata da Roberto d'Angiò per la guerra contro i ghibellini toscani. Poiché gli Almògavari avevano mantelli neri, mentre i fiorentini, in processione o in «cavallata» vestivano il camice bianco crociato e gigliato, da ciò sarebbe nata, secondo Gino Masi, la denominazione di Bianchi e Neri. Certo è che, quando gli Angioini lasciarono Firenze, molti Almògavari rimasero al soldo del Comune, rinnovando d'anno in anno la loro «condotta».

La «compagnia di ventura» nacque cosí come un mezzo per determinare uno squilibrio del rapporto delle forze politiche a favore della parte piú ricca della borghesia, a danno dei ghibellini e del popolo minuto.

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Sullo sviluppo della tecnica militare. Il tratto piú caratteristico e significativo dello stadio attuale della tecnica militare e quindi anche dell'indirizzo delle ricerche scientifiche in quanto sono connesse con lo sviluppo della tecnica militare (o tendono a questo fine) pare sia da ricercare in ciò, che la tecnica militare in alcuni suoi aspetti tende a rendersi indipendente dal complesso della tecnica generale e a diventare un'attività a parte, autonoma. Fino alla guerra mondiale la tecnica militare era una semplice applicazione specializzata della tecnica generale e pertanto la potenza militare di uno Stato o di un gruppo di Stati (alleati per integrarsi a vicenda) poteva essere calcolata con esattezza quasi matematica sulla base della potenza economica (industriale, agricola, finanziaria, tecnico-culturale). Dalla guerra mondiale in poi questo calcolo non è piú possibile, almeno con pari esattezza, e ciò costituisce la piú formidabile incognita dell'attuale situazione politico-militare. Come punto di riferimento basta accennare ad alcuni elementi: il sottomarino, l'aeroplano da bombardamento, il gas e i mezzi chimici e batteriologici applicati alla guerra. Ponendo la questione nei suoi termini limite, per assurdo, si può dire che Andorra può produrre mezzi bellici in gas e bacteri da sterminare l'intera Francia.

Questa situazione della tecnica militare è uno degli elementi piú «silenziosamente» operanti di quella trasformazione dell’arte politica che ha portato al passaggio, anche in politica, dalla guerra di movimento alla guerra di posizione o di assedio.


Una massima del maresciallo Caviglia: «L'esperienza della meccanica applicata che la forza si esaurisce allontanandosi dal centro di produzione si ritrova dominante nell'arte della guerra. L'attacco si esaurisce avanzando; perciò la vittoria deve essere cercata quanto piú è possibile nelle vicinanze del punto di partenza» (Le tre battaglie del Piave, p. 244).

Massima simile in Clausewitz. Ma lo stesso Caviglia osserva che le truppe di rottura devono essere aiutate da truppe di manovra: le truppe di rottura tendono a fermarsi dopo ottenuta la «vittoria» immediata nel loro obbiettivo di rompere il fronte avversario. Un'azione strategica ai fini non territoriali ma decisivi ed organici può essere svolta in due momenti: con la rottura del fronte avversario e con una successiva manovra, operazioni assegnate a truppe distinte.

La massima, applicata all'arte politica, deve essere adattata alle diverse condizioni; ma rimane il punto che tra il punto di partenza e l'obbiettivo occorre una gradazione organica, cioè una serie di obbiettivi parziali. Si può avvicinare alla parola d'ordine quarantottesca.

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Arte militare e politica. Sentenze tradizionali rispondenti al senso comune delle masse di uomini: «I generali, dice Senofonte, devono avanzar gli altri non nella sontuosità della tavola e nei piaceri, ma nella capacità e nelle fatiche». «Difficilmente si possono indurre i soldati a soffrire la penuria e i disagi che derivano da ignoranza o da colpa nel loro comandante; ma quando sono prodotti dalla necessità, ognuno è pronto a soffrirli». «L'ardire col proprio pericolo è valore, con l'altrui è arroganza (Pietro Colletta)».

Differenza tra ardimento-intrepidità e coraggio: il primo è istintivo e impulsivo; il coraggio invece è acquisito con l'educazione e attraverso i costumi. A stare a lungo in trincea ci vuole «coraggio», cioè perseveranza nell'intrepidità, che può esser data o dal terrore (certezza di morire se non si rimane) o dalla convinzione di fare cosa necessaria (coraggio).

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«Contraddizioni» dello storicismo ed espressioni letterarie di esse (ironia, sarcasmo). Vedere le pubblicazioni di Adriano Tilgher contro lo storicismo. Da un articolo di Bonaventura Tecchi (Il Demiurgo di Burzio, «Italia Letteraria», 20 ottobre 1929) sono estratti alcuni spunti di F. Burzio che sembrano mostrare nel Burzio una certa profondità (se si astrae dal linguaggio sforzato e dalle costruzioni a tendenza paradossale-letteraria) nello studio delle contraddizioni «psicologiche» che nascono sul terreno dello storicismo idealistico, ma anche in quello dello storicismo integrale.

È da meditare l'affermazione: «essere sopra alle passioni e ai sentimenti pur provandoli», che potrebbe essere ricca di conseguenze. Infatti il nodo delle quistioni che sorgono a proposito dello storicismo, e che il Tilgher non riesce di districare, è proprio nella constatazione che «si può essere critici e uomini d'azione nello stesso tempo, in modo non solo che l'uno aspetto non indebolisca l'altro, ma anzi lo convalidi». Il Tilgher molto superficialmente e meccanicamente scinde i due termini della personalità umana (dato che non esiste e non è mai esistito [un] uomo tutto critico e uno tutto passionale), mentre invece si deve cercare di determinare come in diversi periodi storici i due termini si combinano sia nei singoli, sia per strati sociali (aspetto della quistione della funzione sociale degli intellettuali) facendo prevalere (apparentemente) un aspetto o l'altro (si parla di epoche di critica, di epoche di azione, ecc.). Ma non pare che neanche il Croce abbia analizzato a fondo il problema negli scritti dove vuol determinare il concetto «politica = passione»: se l'atto concreto politico, come dice il Croce, si attua nella persona del capo politico, è da osservare che la caratteristica del capo come tale non è certo la passionalità, ma il calcolo freddo, preciso, obbiettivamente quasi impersonale, delle forze in lotta e dei loro rapporti (tanto piú ciò vale se si tratta di politica nella sua forma piú decisiva e determinante, la guerra o qualsiasi altra forma di lotta armata). Il capo suscita e dirige le passioni, ma egli stesso ne è «immune» o le domina per meglio scatenarle, raffrenarle al momento dato, disciplinarle, ecc.; deve piú conoscerle, come elemento obbiettivo di fatto, come forza, che «sentirle» immediatamente, deve conoscerle e comprenderle, sia pure con «grande simpatia» (e allora la passione assume una forma superiore, che occorre analizzare, sulla traccia dello spunto del Burzio; tutta la quistione è da vedere sui «testi» autentici).

Dallo scritto del Tecchi pare che il Burzio accenni spesso all'elemento «ironia» come caratteristica (o una delle caratteristiche) della posizione riferita e condensata nella affermazione «essere sopra alle passioni e ai sentimenti pur provandoli». Pare evidente che l'atteggiamento «ironico» non possa essere quello del capo politico o militare nei confronti delle passioni e sentimenti dei seguaci e diretti. «Ironia» può essere giusto per l'atteggiamento di intellettuali singoli, individuali, cioè senza responsabilità immediata sia pure nella costruzione di un mondo culturale o per indicare il distacco dell'artista dal contenuto sentimentale della sua creazione (che può «sentire» ma non «condividere», o può condividere ma in forma intellettualmente piú raffinata); ma nel caso dell'azione storica, l'elemento «ironia» sarebbe solo letterario o intellettualistico e indicherebbe una forma di distacco piuttosto connessa allo scetticismo piú o meno dilettantesco dovuto a disillusione, a stanchezza, a «super-ominismo». Invece nel caso dell'azione storico-politica l'elemento stilistico adeguato, l'atteggiamento caratteristico del distacco-comprensione, è il «sarcasmo» e ancora in una forma determinata, il «sarcasmo appassionato». Nei fondatori della filosofia della prassi si trova l'espressione piú alta, eticamente ed esteticamente, del sarcasmo appassionato. Altre forme. Di fronte alle credenze e illusioni popolari (credenza nella giustizia, nell'eguaglianza, nella fraternità, cioè negli elementi ideologici diffusi dalle tendenze democratiche eredi della Rivoluzione francese), c'è un sarcasmo appassionatamente «positivo», creatore, progressivo: si capisce che non si vuol dileggiare il sentimento piú intimo di quelle illusioni e credenze, ma la loro forma immediata, connesso a un determinato mondo «perituro», il puzzo di cadavere che trapela attraverso il belletto umanitario dei professionisti degli «immortali principii». Perché esiste anche un sarcasmo di «destra», che raramente è appassionato, ma è sempre «negativo», scettico e distruttivo non solo della «forma» contingente, ma del contenuto «umano» di quei sentimenti e credenze. (E a proposito dell'attributo «umano» si può vedere in alcuni libri, ma specialmente nella Sacra Famiglia, quale significato occorre dargli). Si cerca di dare al nucleo vivo delle aspirazioni contenute in quelle credenze una nuova forma (quindi di innovare, determinare meglio quelle aspirazioni), non di distruggerle. Il sarcasmo di destra cerca invece di distruggere proprio il contenuto delle aspirazioni (non, beninteso, nelle masse popolari, che allora si distruggerebbe anche il cristianesimo popolare, ma negli intellettuali), e perciò l'attacco alla «forma» non è che un espediente «didattico».

Come sempre avviene, le prime e originali manifestazioni del sarcasmo hanno avuto imitatori e pappagalli; lo stile è diventato una «stilistica», è divenuto una specie di meccanismo, una cifra, un gergo, che potrebbero dar luogo ad osservazioni piccanti (per es., quando la parola «civiltà» è sempre accompagnata dall'aggettivo «sedicente», è lecito pensare che si creda nell'esistenza di una «civiltà» esemplare, astratta, o almeno ci si comporta come se ciò si credesse, cioè dalla mentalità critica e storicistica si passa alla mentalità utopistica). Nella forma originaria il sarcasmo è da considerare come una espressione che mette in rilievo le contraddizioni di un periodo di transizione; si cerca di mantenere il contatto con le espressioni subalterne umane delle vecchie concezioni e nello stesso tempo si accentua il distacco da quelle dominanti e dirigenti, in attesa che le nuove concezioni, con la saldezza acquistata attraverso lo sviluppo storico, dominino fino ad acquistare la forza delle «credenze popolari». Queste nuove concezioni sono già acquisite saldamente in chi adopera il sarcasmo, ma devono essere espresse e divulgate in atteggiamento «polemico», altrimenti sarebbero una «utopia» perché apparirebbero «arbitrio» individuale o di conventicola: d'altronde, per la sua natura stessa, lo «storicismo» non può concepire se stesso come esprimibile in forma apodittica o predicatoria, e deve creare un gusto stilistico nuovo, persino un linguaggio nuovo come mezzi di lotta intellettuale. Il «sarcasmo» (come, nel piano letterario ristretto dell'educazione di piccoli gruppi, l'«ironia») appare pertanto come la componente letteraria di una serie di esigenze teoriche e pratiche che superficialmente, possono apparire come insanabilmente contraddittorie; il suo elemento essenziale è la «passionalità» che diventa criterio della potenza stilistica individuale (della sincerità, della profonda convinzione in opposto al pappagallismo e al meccacinismo).

Da questo punto di vista occorre esaminare le ultime notazioni del Croce nella prefazione del 1917 al volume sul Materialismo storico, dove si parla della «maga Alcina», e alcune osservazioni sullo stile del Loria. Cosí è da vedere il saggio di Mehring sull'«allegoria» nel testo tedesco, ecc.

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Feticismo. Come si può descrivere il feticismo. Un organismo collettivo è costituito di singoli individui, i quali formano l'organismo in quanto si sono dati e accettano attivamente una gerarchia e una direzione determinata. Se ognuno dei singoli componenti pensa l'organismo collettivo come un'entità estranea a se stesso, è evidente che questo organismo non esiste piú di fatto, ma diventa un fantasma dell'intelletto, un feticcio. È da vedere se questo modo di pensare, molto diffuso, non sia un residuo della trascendenza cattolica e dei vecchi regimi paternalistici: esso è comune per una serie di organismi, dallo Stato, alla Nazione, ai Partiti politici ecc. È naturale che avvenga per la Chiesa, poiché, almeno in Italia, il lavorio secolare del centro vaticano per annientare ogni traccia di democrazia interna e di intervento dei fedeli nell'attività religiosa è pienamente riuscito ed è divenuto una seconda natura del fedele, sebbene abbia determinato per l'appunto quella speciale forma di cattolicismo che è propria del popolo italiano. Ciò che fa meraviglia, e che è caratteristico, è che il feticismo di questa specie si riproduca per organismi «volontari», di tipo non «pubblico» o statale, come i partiti e i sindacati. Si è portati a pensare i rapporti tra il singolo e l'organismo come un dualismo, e ad un atteggiamento critico esteriore del singolo verso l'organismo (se l'atteggiamento non è di una ammirazione entusiastica acritica). In ogni caso un rapporto feticistico. Il singolo s'aspetta che l'organismo faccia, anche se egli non opera e non riflette che appunto, essendo il suo atteggiamento molto diffuso, l'organismo è necessariamente inoperante.

Inoltre è da riconoscere che essendo molto diffusa una concezione deterministica e meccanica della storia (concezione che è del senso comune ed è legata alla passività delle grandi masse popolari) ogni singolo, vedendo che, nonostante il suo non intervento, qualcosa tuttavia avviene, è portato a pensare che appunto al disopra dei singoli esiste una entità fantasmagorica, l'astrazione dell'organismo collettivo, una specie di divinità autonoma, che non pensa con nessuna testa concreta, ma tuttavia pensa, che non si muove con determinate gambe di uomini, ma tuttavia si muove ecc.

Potrebbe sembrare che alcune ideologie, come quella dell'idealismo attuale (di Ugo Spirito) per cui si identifica l'individuo e lo Stato, dovrebbero rieducare le coscienze individuali, ma non pare ciò avvenga di fatto, perché questa identificazione è meramente verbale e verbalistica. Cosí è da dire di ogni forma del cosí detto «centralismo organico», il quale si fonda sul presupposto, che è vero solo in momenti eccezionali, di arroventatura delle passioni popolari, che il rapporto tra governanti e governati sia dato dal fatto che i governanti fanno gli interessi dei governati e pertanto «devono» averne il consenso, cioè deve verificarsi l'identificazione del singolo col tutto, il tutto (qualunque organismo esso sia) essendo rappresentato dai dirigenti. È da pensare che, come per la Chiesa cattolica, un tale concetto non solo è utile, ma necessario e indispensabile: ogni forma di intervento dal basso, disgregherebbe infatti la Chiesa (si vede ciò nelle chiese protestantiche); ma per altri organismi è quistione di vita non il consenso passivo e indiretto, ma quello attivo e diretto, la partecipazione quindi dei singoli, anche se ciò provoca un'apparenza di disgregazione e di tumulto. Una coscienza collettiva, e cioè un organismo vivente, non si forma se non dopo che la molteplicità si è unificata attraverso l'attrito dei singoli: né si può dire che il «silenzio» non sia molteplicità. Un'orchestra che fa le prove, ogni strumento per conto suo, dà l'impressione della piú orribile cacofonia; eppure queste prove sono la condizione perché l'orchestra viva come un solo «strumento».

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[Machiavellismo e antimachiavellismo.] Charles Benoist nella prefazione al Le Machiavélisme, Prima parte: Avant Machiavel (Parigi, Plon, 1907) scrive: «C'è machiavellismo e machiavellismo: c'è un machiavellismo vero e un machiavellismo falso; vi è un machiavellismo che è di Machiavelli e un machiavellismo che è qualche volta dei discepoli, piú spesso dei nemici di Machiavelli; sono già due, anzi tre machiavellismi, quello di Machiavelli, quello dei machiavellisti, e quello degli antimachiavellisti; ma eccone un quarto: quello di coloro che non han mai letto una riga di Machiavelli e che si servono a sproposito dei verbi (!), dei sostantivi e degli aggettivi derivati dal suo nome. Machiavelli perciò non dovrebbe essere tenuto responsabile di quel che dopo di lui il primo o l'ultimo venuto si sono compiaciuti di fargli dire». Un po' allumacato, il signor Carlo Benoist.

Miscellanea

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Diritto naturale. Uno degli imparaticci dei teorici di origine nazionalista (es. M. Maraviglia) è quello di contrapporre la storia al diritto naturale. Ma cosa significa una tale contrapposizione? Nulla o solo la confusione nel cervello dello scrittore. Intanto il «diritto naturale» è un elemento della storia, indica un «senso comune politico e sociale» e come tale è un «fermento» di operosità. La quistione potrebbe esser questa: che un teorico spieghi i fatti col cosí detto «diritto naturale», ma questo è un problema di carattere individuale, di critica a opere individuali ecc. e in fondo non è altro che critica al «moralismo» come canone d'interpretazione storica. Roba che ha la barba. Ma in realtà, al di sotto di questo sproposito c'è un interesse concreto. Quello di voler sostituire un «diritto naturale» a un altro. E infatti tutta la teoria nazionalista non è basata su «diritti naturali»? Si vuole al modo di pensare «popolare» sostituire un modo di pensare non popolare, altrettanto mancante di critica del primo.

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Elezioni. In un giornale polacco (la «Gazeta Polska» degli ultimi giorni di gennaio o dei primi di febbraio del 1933) si trova questo enunciato: «Il potere si conquista sempre con un grande plebiscito. Si vota o con delle schede elettorali o con delle fucilate. Il primo metodo è quantitativo, il secondo qualitativo. Col primo bisogna contare sulla maggioranza dei piccoli, col secondo sulla minoranza dei grandi caratteri». Qualche verità affogata in grandi vasche di spropositi. Perché la «fucilata» deve sempre coincidere col grande carattere? Perché chi spara deve sempre essere un grande carattere? Spesso questi grandi caratteri si arruolano con poche lire al giorno, cioè spesso la «fucilata» è piú economica dell'elezione, ecco tutto. Dopo il suffragio universale, corrompere l'elettore è diventato caruccio; con venti lire e un fucile si sbandano venti elettori. La legge del tornaconto funziona anche per i «grandi caratteri» di cui parla la «Gazeta Polska».

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[Fortuna «pratica» di Machiavelli.] Carlo V lo studiava. Enrico IV. Sisto V ne fece un sunto. Caterina de' Medici lo portò in Francia e se ne ispirò forse per la lotta contro gli Ugonotti e la strage di S. Bartolomeo. Richelieu, ecc. Cioè Machiavelli serví realmente gli Stati assoluti nella loro formazione, perché era stato l'espressione della «filosofia dell'epoca» europea piú che italiana.


Machiavelli come figura di transizione tra lo Stato corporativo repubblicano e lo Stato monarchico assoluto. Non sa staccarsi dalla repubblica ma capisce che solo un monarca assoluto può risolvere i problemi dell'epoca. Questo dissidio tragico della personalità umana machiavellica (dell'uomo Machiavelli) sarebbe da vedere.


Prendendo le mosse dall'affermazione del Foscolo, nei Sepolcri, che il Machiavelli «temprando lo scettro ai regnatori, gli allor ne sfronda, ed alle genti svela di che lacrime grondi e di che sangue», si potrebbe fare una raccolta di tutte le massime «universali» di prudenza politica contenute negli scritti del Machiavelli e ordinarle con un commento opportuno (forse una raccolta di tal genere esiste già).


Lo Schopenhauer avvicina l'insegnamento di scienza politica del Machiavelli a quello impartito dal maestro di scherma che insegna l'arte di ammazzare (ma anche di non farsi ammazzare) ma non perciò insegna a diventare sicari e assassini. (Trovare il riferimento esatto).


Bacone ha chiamato «Re Magi» i tre re che operano piú energicamente per la fondazione delle monarchie assolute: Luigi XI di Francia, Ferdinando il Cattolico in Spagna, Enrico VII in Inghilterra.

Filippo di Commynes (1447-1511), al servizio di Carlo il Temerario fino al 1472; nel 1472 passa al servizio di Luigi XI ed è lo strumento della politica di questo re. Scrive la Chronique de Louis XI, pubblicata la prima volta nel 1524. (Una mercantessa di Tours che mosse causa al di Commynes quando fu in disgrazia, sostenendo di essere stata strozzata in un contratto stipulato sotto Luigi XI, scrisse nella sua memoria giuridica: «le sieur d'Argenton qui pour lors était roy»). Studiare i possibili rapporti del Machiavelli col di Commynes: il Machiavelli come apprezzava l'attività e la funzione del di Commynes sotto Luigi XI e in seguito?

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Il potere indiretto. Una serie di manifestazioni in cui la teoria e la pratica del potere indiretto, dalla sfera dell'organizzazione ecclesiastica e dei suoi rapporti con gli Stati, vengono applicate a rapporti tra partito e partito, tra gruppi intellettuali ed economici e partiti ecc. Caso classico quello del tentativo dell'Action Française e dei suoi capi atei e increduli che cercarono di valersi delle masse cattoliche organizzate dall'Azione Cattolica come truppa di manovra a favore della monarchia.

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Egemonia e democrazia. Tra i tanti significati di democrazia, quello piú realistico e concreto mi pare si possa trarre in connessione col concetto di egemonia. Nel sistema egemonico, esiste democrazia tra il gruppo dirigente e i gruppi diretti, nella misura in cui lo sviluppo dell'economia e quindi la legislazione che esprime tale sviluppo favorisce il passaggio molecolare dai gruppi diretti al gruppo dirigente. Nell'Impero Romano esisteva una democrazia imperiale-territoriale nella concessione della cittadinanza ai popoli conquistati ecc. Non poteva esistere democrazia nel feudalismo per la costituzione dei gruppi chiusi ecc.

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Alcune cause d'errore. Un governo, o un uomo politico, o un gruppo sociale applica una disposizione politica od economica. Se ne trae troppo facilmente delle conclusioni generali d'interpretazione della realtà presente e di previsione sullo sviluppo di questa realtà. Non si tiene abbastanza conto del fatto che la disposizione applicata, l'iniziativa promossa ecc. può essere dovuta a un errore di calcolo, e quindi non rappresentare nessuna «concreta attività storica». Nella vita storica come nella vita biologica, accanto ai nati vivi, ci sono gli aborti. Storia e politica sono strettamente unite, sono anzi la stessa cosa, ma pure occorre distinguere nell'apprezzamento dei fatti storici e dei fatti e atti politici. Nella storia, data la sua larga prospettiva verso il passato e dato che i risultati stessi delle iniziative sono un documento della vitalità storica, si commettono meno errori che nell'apprezzamento dei fatti e degli atti politici in corso. Il grande politico perciò non può che essere «coltissimo», cioè deve «conoscere» il massimo di elementi della vita attuale; conoscerli non «librescamente», come «erudizione» ma in modo «vivente», come sostanza concreta di «intuizione» politica (tuttavia perché in lui diventino sostanza vivente di «intuizione» occorrerà apprenderli anche «librescamente»).

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Lotta di generazioni. Il fatto che la generazione anziana non riesca a guidare la generazione piú giovane è in parte anche l'espressione della crisi dell'istituto famigliare e della nuova situazione dell'elemento femminile nella società. L'educazione dei figli è affidata sempre piú allo Stato o a iniziative scolastiche private e ciò determina un impoverimento «sentimentale» per rispetto al passato e una meccanizzazione della vita. Il piú grave è che la generazione anziana rinunzia al suo compito educativo in determinate situazioni, sulla base di teorie mal comprese o applicate in situazioni diverse da quelle di cui erano l'espressione. Si cade anche in forme statolatriche: in realtà ogni elemento sociale omogeneo è «Stato», rappresenta lo Stato, in quanto aderisce al suo programma: altrimenti si confonde lo Stato con la burocrazia statale. Ogni cittadino è «funzionario» se è attivo nella vita sociale nella direzione tracciata dallo Stato-governo, ed è tanto piú «funzionario» quanto piú aderisce al programma statale e lo elabora intelligentemente.

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Società civile e società politica. Distacco della società civile da quella politica: si è posto un nuovo problema di egemonia, cioè la base storica dello Stato si è spostata. Si ha una forma estrema di società politica: o per lottare contro il nuovo e conservare il traballante rinsaldandolo coercitivamente, o come espressione del nuovo per spezzare le resistenze che incontra nello svilupparsi ecc.

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Sorel e i giacobini. Nell'articolo riferito nella nota precedente è riportato questo giudizio di Proudhon sui giacobini: Il giacobinismo è «l'applicazione dell'assolutismo di diritto divino alla sovranità popolare». «Il giacobinismo si preoccupa poco del diritto: procede volentieri per mezzi violenti, esecuzioni sommarie. La rivoluzione per esso sono i colpi di folgore, le razzie, le requisizioni, il prestito forzato, l'epurazione, il terrore. Diffidente, ostile alle idee, si rifugia nell'ipocrisia e nel machiavellismo: i giacobini sono i gesuiti della rivoluzione». Queste definizioni sono estratte dal libro: La justice dans la révolution. L'atteggiamento di Sorel contro i giacobini è preso da Proudhon.

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Machiavelli e Manzoni. Qualche accenno al Machiavelli del Manzoni si può trovare nei Colloqui col Manzoni di N. Tommaseo, pubblicati per la prima volta e annotati da Teresa Lodi, Firenze, G. C. Sansoni, 1929. Da un articolo di G. S. Gargano nel «Marzocco» del 3 febbraio 1929 (Manzoni in Tommaseo) riporto questo brano: «E pur attribuito al Manzoni è il giudizio sul Machiavelli, la cui autorità empí di pregiudizi le teste italiane e le cui massime alcuni ripetevano senza osare od operarle e alcuni operavano senza osare dirle; "e sono i liberali che le cantano e i re che le fanno"; commento quest'ultimo che è forse del trascrittore, il quale aggiunge che il Manzoni aveva pochissima fede nelle guarantigie degli Statuti e nella potenza dei Parlamenti e che l'unico suo desiderio era per allora di fare la nazione una e potente anche a costo della libertà, "quando pure l'idea della libertà fosse in tutti i cervelli vera e uno il sentimento di lei in tutti i cuori"».

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La «formula» di Léon Blum. Le pouvoir est tentant. Mais seule l'opposition est confortable

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Il pragmatismo americano. Si potrebbe dire del pragmatismo americano (James), ciò che Engels ha detto dell'agnosticismo inglese? (Mi pare nella prefazione inglese alPassaggio dall'Utopia alla Scienza).

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Distinzioni. Nello studio dei diversi «gradi» o «momenti» delle situazioni militari o politiche non si è soliti fare le distinzioni tra: «causa efficiente», che prepara l'evento storico o politico di diverso grado o significato (o estensione) e la «causa determinante» che immediatamente produce l'evento ed è la risultante generale e concreta della causa efficiente, la «precipitazione» concreta degli elementi realmente attivi e necessari della causa efficiente per produrre la determinazione.

Causa efficiente e causa sufficiente, cioè «totalmente» efficiente, o almeno sufficiente nella direttrice necessaria per produrre l'evento.

Naturalmente queste distinzioni possono avere diversi momenti o gradi: cioè occorre studiare se ogni momento è efficiente (sufficiente) e determinante per il passaggio da uno sviluppo all'altro o se può essere distrutto dall'antagonista prima della sua «produttività».

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Storia e «progresso». La storia ha raggiunto un certo stadio; pare che perciò sia antistorico ogni movimento che appare in contrasto con quel certo stadio, in quanto «riproduce» uno stadio precedente; in questi casi si arriva a parlare di reazione, ecc. La quistione nasce dal non concepire la storia come storia di classi. Una classe ha raggiunto un certo stadio, ha costruito una certa forma di vita statale: la classe dominata, che insorge, in quanto spezza questa realtà acquisita, è perciò reazionaria?

Stati unitari, movimenti autonomisti; lo Stato unitario è stato un progresso storico, necessario, ma non perciò si può dire che ogni movimento tendente a spezzare gli Stati unitari sia antistorico e reazionario; se la classe dominata non può raggiungere la sua storicità altro che spezzando questi involucri, significa che si tratta di «unità» amministrative-militari-fiscali, non di «unità» moderne; può darsi che la creazione di tale unità moderna domandi che sia spezzata l'unità «formale» precedente, ecc. Dove esiste piú unità moderna: nella Germania «federale» o nella «Spagna» unitaria di Alfonso e dei proprietari-generali-gesuiti? ecc. Questa osservazione può essere estesa a molte altre manifestazioni storiche, per esempio al grado di «cosmopolitismo» raggiunto nei diversi periodi dello sviluppo culturale internazionale. Nel '700 il cosmopolitismo degli intellettuali è stato «massimo», ma quanta frazione dell'insieme sociale esso toccava? E non si trattava in gran parte di una manifestazione egemonica della cultura e dei grandi intellettuali francesi?

È certo tuttavia che ogni classe dominante nazionale è piú vicina alle altre classi dominanti, come cultura e costumi, che non avvenga tra classi subalterne, anche se queste [sono] «cosmopolite» per programma e destinazione storica. Un gruppo sociale può essere «cosmopolita» per la sua politica e la sua economia e non esserlo per i costumi e anche per la cultura (reale).

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Principî di metodo. Prima di giudicare (e per la storia in atto o politica il giudizio è l'azione) occorre conoscere e per conoscere occorre sapere tutto ciò che è possibile sapere. Ma cosa s'intende per «conoscere»? Conoscenza libresca, statistica, «erudizione» meccanica, – conoscenza storica –, intuizione, «contatto» reale con la realtà viva e in movimento, capacità di «simpatizzare» psicologicamente fino al singolo uomo. «Limiti» della conoscenza (non cose inutili), cioè conoscenza critica, o del «necessario»: pertanto, una «concezione generale» critica.

II. Note di politica internazionale

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[Il concetto di grande potenza.] Elementi per calcolare la gerarchia di potenza fra gli Stati: 1) estensione del territorio, 2) forza economica, 3) forza militare. Il modo in cui si esprime l'essere grande potenza è dato dalla possibilità di imprimere alla attività statale una direzione autonoma, di cui gli altri Stati devono subire l'influsso e la ripercussione: la grande potenza è potenza egemone, capo e guida di un sistema di alleanze e di intese di maggiore o minore estensione. La forza militare riassume il valore dell'estensione territoriale (con popolazione adeguata, naturalmente) e del potenziale economico. Nell'elemento territoriale è da considerare in concreto la posizione geografica. Nella forza economica è da distinguere la capacità industriale e agricola (forze produttive) dalla capacità finanziaria. Un elemento «imponderabile» è la posizione «ideologica» che un paese occupa nel mondo in ogni momento dato, in quanto ritenuto rappresentante delle forze progressive della storia (esempio della Francia durante la Rivoluzione del 1789 e il periodo napoleonico).

Questi elementi sono calcolati nella prospettiva di una guerra. Avere tutti gli elementi che, nei limiti del prevedibile, danno sicurezza di vittoria, significa avere un potenziale di pressione diplomatica da grande potenza, cioè significa ottenere una parte dei risultati di una guerra vittoriosa senza bisogno di combattere.


Nella nozione di grande potenza è da considerare anche l'elemento «tranquillità interna» cioè il grado e l'intensità della funzione egemonica del gruppo sociale dirigente; (questo elemento è da ricercare nella valutazione della potenza di ogni Stato, ma acquista maggiore importanza nella considerazione delle grandi potenze. Né vale ricordare la storia dell'antica Roma e delle lotte interne che non impedirono l'espansione vittoriosa ecc.; oltre agli altri elementi differenziali, basta considerare questo, che Roma era la sola grande potenza dell'epoca, e che non aveva da temere la concorrenza di rivali potenti, dopo la distruzione di Cartagine). Si potrebbe perciò dire che quanto piú forte è l'apparato di polizia, tanto piú debole è l'esercito e quanto piú debole (cioè relativamente inutile) la polizia, tanto piú forte è l'esercito (di fronte alla prospettiva di una lotta internazionale).

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Egemonia politico-culturale. È ancora possibile, nel mondo moderno, l'egemonia culturale di una nazione sulle altre? Oppure il mondo è già talmente unificato nella sua struttura economico-sociale, che un paese, se può avere «cronologicamente» l'iniziativa di una innovazione, non ne può però conservare il «monopolio politico» e quindi servirsi di tale monopolio come base di egemonia? Quale significato quindi può avere oggi il nazionalismo? Non è esso possibile come «imperialismo» economico-finanziario ma non piú come «primato» civile o egemonia politico-intellettuale?

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Sul concetto di grande potenza. La misura decisiva per stabilire cosa deve intendersi per grande potenza è data dalla guerra. Il concetto di grande potenza è strettamente legato alle guerre. È grande potenza quello Stato che – entrato in un sistema di alleanze per una guerra – (e oggi ogni guerra presuppone dei sistemi di forze antagonistiche) al momento della pace è riuscito a conservare un tale rapporto di forze con gli alleati da essere in grado di far mantenere i patti e le promesse fatte all'inizio della campagna. Ma uno Stato che per entrare in guerra ha bisogno di grossi prestiti, ha bisogno continuo di armi e munizioni per i suoi soldati, di vettovaglie per l'esercito e per la popolazione civile, di navi per i trasporti, che cioè non può far la guerra senza l'aiuto continuo dei suoi alleati e che per qualche tempo anche dopo la pace ha ancora bisogno di aiuti, specialmente di vettovaglie, di prestiti o altre forme di sussidi finanziari, come può essere uguale ai suoi alleati e imporsi perché mantengano i patti? Un simile Stato è considerato grande potenza solo nelle carte diplomatiche, ma nella realtà è considerato come un probabile fornitore di uomini per la coalizione che ha i mezzi non solo di sostenere le proprie forze militari ma anche per finanziare quelle degli altri alleati.

Nella politica estera: «Cosí la politica estera italiana, mirando sempre alla stessa meta, è stata sempre rettilinea, e le sue pretese oscillazioni sono state in realtà determinate soltanto dalle incertezze e dalle contraddizioni altrui, com'è inevitabile nel campo internazionale dove infiniti sono gli elementi in contrasto» (Aldo Valori, «Corriere della Sera» del 12 maggio 1932). Che siano infiniti gli elementi di equilibrio di un sistema politico internazionale, è verissimo, ma appunto per ciò il sistema deve essere stabilito in modo che nonostante le fluttuazioni esterne, la propria linea non oscilli (è poi difficile definire cosa s'intende in tal caso per oscillazione – che non può essere intesa meccanicamente al modo dei farmacisti di villaggio e di una mera coerenza formale). La linea di uno Stato egemonico (cioè di una grande potenza) non oscilla, perché esso stesso determina la volontà altrui e non ne è determinato, perché la linea politica è fondata su ciò che vi è di permanente e non di casuale e immediato e nei propri interessi e in quelli delle altre forze che concorrono in modo decisivo a formare un sistema e un equilibrio.


(Cfr. altre note precedenti). Secondo il capo del governo italiano: «Sono le marine da guerra che classificano le grandi potenze». È da notare che le marine da guerra possono essere misurate in ogni momento col sistema matematico assoluto, ciò che non può avvenire per gli eserciti terrestri. Ricordare l'epigramma di Anatole France: «Tutti gli eserciti sono i primi del mondo, ma per la marina è il numero delle navi che conta».

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Sull'origine delle guerre. Come si può dire che le guerre tra gli Stati possono avere la loro origine nelle lotte dei gruppi nell'interno di ogni singola nazione? È certo che in ogni nazione deve esistere una certa (e specifica per ogni nazione) espressione della legge delle proporzioni definite nella composizione sociale: i vari gruppi cioè devono trovarsi in certi rapporti di equilibrio, il cui turbamento radicale potrebbe condurre a una catastrofe sociale. Questi rapporti variano a seconda che un paese è prevalentemente agricolo o industriale e a seconda dei diversi gradi di sviluppo delle forze produttive materiali e del tenore di vita Il gruppo dirigente tenderà a mantenere l'equilibrio migliore per il suo permanere, non solo, ma per il suo permanere in condizioni determinate di floridezza, e anzi a incrementare tali condizioni. Ma siccome l'area sociale di ogni paese è limitata, sarà portato a estenderla nelle zone coloniali e d'influenza e quindi a entrare in conflitto con altri gruppi dirigenti che aspirano allo stesso fine o ai cui danni l'espansione di esso dovrebbe necessariamente avvenire, poiché anche il globo terrestre è limitato. Ogni gruppo dirigente tende in astratto ad allargare la base della società lavoratrice da cui prelevare plusvalore, ma la tendenza astratta diventa concreta e immediata quando il prelevamento di plusvalore nella sua base storica è diventato difficile o pericoloso oltre certi limiti che sono tuttavia insufficienti.

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La funzione europea dello zarismo nel secolo XIX. Il principe di Bülow nelle sue Memorie racconta di essersi trovato da Bethmann-Holwegg subito dopo la dichiarazione di guerra della Germania alla Russia nell'agosto 1914. Bethmann, interrogato perché avesse cominciato dal dichiarare la guerra alla Russia, rispose: «Per aver subito dalla mia parte i socialdemocratici». Bülow fa a questo proposito alcune osservazioni sulla psicologia di Bethmann-Holwegg, ma ciò che importa dal punto di vista di questa rubrica è la sicurezza del Cancelliere di poter avere dalla sua parte la socialdemocrazia contro lo zarismo russo; il Cancelliere sfruttava abilmente la tradizione del '48, ecc., del «gendarme d'Europa».


Cfr. la lettera al conte Vimercati di Cavour (del 4 gennaio 1861) pubblicata da A. Luzio nella «Nuova Antologia» del 16 gennaio 1930 (I carteggi cavouriani). Cavour, dopo aver esposto i suoi accordi con l'emigrazione ungherese per la preparazione di un'insurrezione in Ungheria e nei paesi slavi dell'Impero austriaco, cui avrebbe seguito un attacco italiano per la liberazione delle Venezie, continua: «Depuis lors deux événements ont profondément modifié la situation. Les conférences de Varsovie et les concessions successives de l'Empereur d'Autriche. Si, comme il est à craindre, l'Empereur de Russie s'est montré disposé à Varsovie à intervenir en Hongrie dans le cas oú une insurrection éclaterait dans ce pays, il est évident qu'un mouvement ne pourrait avoir lieu avec chance de succès qu'autant que la France serait disposée à s'opposer par la force à l'intervention Russe», ecc. ecc. Questo articolo del Luzio è anche interessante perché accenna alle mutilazioni subite dai documenti del Risorgimento nelle pubblicazioni di storia e nelle raccolte di materiali. Il Luzio doveva essere già all'Archivio di Stato di Torino (o all'Archivio reale) quando fu perquisita l'abitazione del prof. Bollea per la pubblicazione di lettere del D'Azeglio che pure non importavano quistioni diplomatiche (si era in guerra proprio contro l'Austria e la Germania). Sarebbe interessante sapere se il Luzio protestò allora per la perquisizione e i sequestri o se non fu lui a consigliarli alla questura di Torino.

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Politica e comando militare. Confrontare nella «Nuova Antologia» del 16 ottobre e 1° novembre 1930 l'articolo di Saverio Nasalli Rocca La politica tedesca dell'impotenza nella guerra mondiale.

L'articolo, sulla base dell'esperienza tedesca (vincere le battaglie, perdere la guerra) raccoglie materiale per corroborare la tesi che, anche in guerra, è il comando politico che dà la vittoria, comando politico, che deve incorporarsi nel comando militare, creando un nuovo tipo di comando proprio al tempo di guerra. Il Nasalli Rocca si serve specialmente delle memorie e degli altri scritti di von Tirpitz. (Il titolo dell'articolo è anche il titolo di un libro di Tirpitz tradotto in italiano). Scrive il Nasalli Rocca: «...una delle piú grandi difficoltà della guerra è rappresentata dalle relazioni fra il comando militare e il Governo: vecchio militare, non esito a riconoscere che le relazioni fra Governo e le Forze Armate corrispondono rispettivamente a quelle che corrono fra la strategia e la tattica. Al Governo la strategia della guerra, alle Forze Armate la tattica: ma come il tattico per raggiungere gli scopi fissatigli ha piena libertà di manovra nei larghi limiti fissatigli dalla strategia, cosí questo non ha facoltà di invadere il campo del tattico. L'assenteismo e l'invadenza sono i due grandi scogli del comando qualunque nome esso abbia: e il senso della misura è quello che fissa i limiti dell'invadenza».

La formula non mi pare molto esatta: esiste certamente una «strategia militare» che non spetta tecnicamente al governo, ma essa è compresa in una piú ampia strategia politica che inquadra quella militare. La quistione può allargarsi: i conflitti tra militari e governanti non sono conflitti tra tecnici e politici, ma tra politici e politici, sono i conflitti tra «due direzioni politiche» che entrano in concorrenza all'inizio di ogni guerra. Le difficoltà del comando unico interalleato durante la guerra non erano di carattere tecnico, ma politico: conflitto di egemonie nazionali.

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Documenti diplomatici. Un articolo di A. De Bosdari nella «Nuova Antologia» del 1° luglio 1927: I documenti ufficiali britannici sull'origine della guerra (1898-1914).

Il De Bosdari pone la quistione se i documenti tanto tedeschi che inglesi siano effettivamente riprodotti nella loro integrità e senza omissione di nulla che abbia vera importanza per lo svolgimento storico dei fatti. «Per ciò che riguarda le pubblicazioni tedesche, posso, come mio ricordo personale, asserire che essendomi un giorno doluto al Ministero tedesco degli Affari Esteri che fra i documenti pubblicati ne fossero stati inseriti alcuni scioccamente ingiuriosi per l'Italia, specialmente i rapporti dell'Ambasciatore Monts, mi fu risposto che ciò era una circostanza assai dolorosa, ma che quei documenti non si sarebbero potuti sopprimere senza togliere alla pubblicazione il carattere di imparziale documentazione storica». Dopo questo suo ricordo personale, il De Bosdari era pronto a giurare sull'integrità della documentazione tedesca.

Per i documenti inglesi, dopo aver ricordato la buona fede del Governo inglese, di cui non si ha motivo di dubitare, dice che costituiscono una prova abbastanza sicura di autenticità e di completezza, le numerose integrazioni che vi avvengono di documenti che, per motivi politici abbastanza plausibili, erano stati mutilati nei libri blú (ma i libri inglesi sono bianchi, mi pare!) antecedentemente pubblicati. (Veramente altri «motivi politici abbastanza plausibili» possono aver indotto a non pubblicare altri documenti e a non integrarne qualcuno: per es. i documenti dovuti a spionaggio saranno mai pubblicati?)

Il De Bosdari ha una buona osservazione: nota la scarsezza, tanto nei documenti inglesi che in quelli tedeschi, di quei documenti che riguardano le deliberazioni del Governo, le discussioni e le decisioni dei Consigli dei ministri (che non sono «diplomatici» in senso tecnico, ma che sono evidentemente i decisivi). Nota invece la grande abbondanza di telegrammi e rapporti di funzionari diplomatici e consolari, la cui importanza è relativa, perché questi funzionari, nei momenti di crisi, telegrafano a getto continuo (per non essere accusati di negligenza e di distrazione) senza avere il tempo di controllare le proprie notizie e le proprie impressioni. (Questa osservazione nasce da esperienza personale del De Bosdari e può essere una prova di come lavorano i funzionari diplomatici italiani: forse per gli inglesi le cose vanno diversamente).

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Una politica di pace europea, di Argus, «Nuova Antologia», 1° giugno 1927. Parla delle frequenti visite in Inghilterra di uomini politici e letterati tedeschi. Questi intellettuali tedeschi, interrogati, dichiarano che ogni qual volta riescono a prendere contatto con influenti personalità anglosassoni viene loro posto questo problema: «Qual è l'atteggiamento della Germania di fronte alla Russia?» e soggiungono con disperazione (!): «Ma noi non possiamo prendere parte nelle controversie tra Londra e Mosca!» Al fondo della concezione britannica della politica estera sta la convinzione che il conflitto con la Russia non solo è inevitabile ma è già impegnato, benché sotto forme strane e insolite che lo rendono invisibile agli occhi della grande massa nazionale. Articolo ultra-anglofilo (nello stesso periodo ricordo un articolo di Manfredi Gravina nel «Corriere della Sera» di una anglofilia cosí scandalosa da maravigliare: si predicava la subordinazione dichiarata dell'Italia all'Inghilterra): gli Inglesi vogliono la pace, ma hanno dimostrato di saper fare la guerra. Sono sentimentali e altruisti: pensano agli interessi europei; se Chamberlain non ha rotto con la Russia è perché ciò poteva nuocere a altri Stati in condizioni meno favorevoli dell'Inghilterra ecc.

Politica inglese di intesa con la Francia è la base, ma il governo inglese può favorire anche altri Stati: l'Inghilterra vuol essere amica di tutti. Quindi avvicinamento all'Italia e alla Polonia. In Inghilterra un certo numero di persone non favorevoli al regime italiano. Ma la politica inglese lealmente amica e sarà tale anche mutando regime, anche perché la politica italiana è coraggiosa, ecc. ecc.

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Per i rapporti tra il Centro tedesco e il Vaticano e quindi per studiare concretamente la politica tradizionale del Vaticano nei vari paesi e le forme che essa assume è interessantissimo un articolo di André Lavedan nella «Revue Hebdomadaire» riassunto nella «Rivista d'Italia» del 15 marzo 1927. Leone XIII domandava al Centro di votare a favore della legge sul settennato di Bismarck, avendo avuto assicurazioni che ciò avrebbe portato a una soddisfacente modificazione delle leggi politico-ecclesiastiche. Franckenstein e Windthorst non vollero uniformarsi all'invito del Vaticano. Del Centro solo 7 votarono la legge: 83 si astennero.

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Sull'Anschluss. Tener presente: 1) la posizione della socialdemocrazia austriaca come è stata espressa da Otto Bauer: favorevoli all'Anschluss ma attendere, per realizzarlo, quando la socialdemocrazia tedesca sia padrona dello Stato tedesco, cioè in definitiva Anschluss socialdemocratico; 2) posizione della Francia: non coincide con quella dell'Italia: la Francia è contro l'unione dell'Austria alla Germania ma spinge l'Austria ad entrare in una Confederazione danubiana: l'Italia è contro l'Anschluss e contro la Confederazione. Se si ponesse il problema come una scelta tra le due soluzioni probabilmente l'Italia preferirebbe l'Anschluss alla Confederazione.

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Articolo di Frank Simonds, Vecchi torbidi nei nuovi Balcani, nella «American Review of Reviews». Il Simonds fa un parallelo tra Mussolini e Stresemann, come uomini politici piú attivi di Europa. L'uno e l'altro sacrificano allo spirito di opportunismo (forse vuol dire «del momento», ma anche forse si riferisce alla mancanza di prospettive larghe e lontane e quindi di principii). I trattati di Mussolini come quelli di Stresemann non rappresentano una politica permanente. Sono cose fatte al momento per le condizioni contemporanee. E poiché possono intervenire dei fatti atti a precipitare il conflitto, l'uno e l'altro sono egualmente ansiosi di evitare le ostilità acquistando pei rispettivi paesi e per se stessi il necessario prestigio con vittorie diplomatiche incidentali.

Costituzione dell'Impero Inglese. Articolo nella «Nuova Antologia» del 16 settembre 1927 di «Junius», Le prospettive dell'Impero Britannico dopo l'ultima conferenza imperiale.

Ricerca di equilibrio tra esigenze di autonomia dei Dominions e esigenze di unità imperiale. (Nel Commonwealth l'Inghilterra porta il peso politico della sua potenza industriale e finanziaria, della sua flotta, delle sue colonie o domini della Corona o stabilimenti d'altro nome – India, Gibilterra, Suez, Malta, Singapore, Hong Kong, ecc. –, della sua esperienza politica, ecc. Elementi di disgregazione dopo la guerra sono stati: la potenza degli Stati Uniti, anglosassoni anch'essi e che esercitano un influsso su certi dominions, e i movimenti nazionali e nazionalistici che sono in parte una reazione al movimento operaio – nei paesi a capitalismo sviluppato – e in parte un movimento contro il capitalismo stimolato dal movimento operaio: India, negri, cinesi, ecc. Gli inglesi trovano una soluzione al problema nazionale per i dominions a capitalismo sviluppato, e questo aspetto [è] molto interessante: ricordare che Iliic sosteneva appunto che non è impossibile che le quistioni nazionali abbiano una soluzione pacifica anche in regime borghese: esempio classico la separazione pacifica della Norvegia dalla Svezia. Ma gli inglesi sono specialmente colpiti dai movimenti nazionali nei paesi coloniali e semicoloniali: India, negri dell'Africa, ecc.).

La difficoltà maggiore dell'equilibrio tra autonomia e unità si presenta naturalmente nella politica estera. Giacché i Dominions non riconoscono piú il Governo di Londra come rappresentante della loro volontà nel campo della politica internazionale, si discusse di creare una nuova entità giuridico-politica destinata ad indicare ed attuare l'unità dell'Impero: si parlò di costituire un organo di politica estera imperiale. Ma esiste una reale unità «internazionale»? I Dominions attraverso l'Impero partecipano alla politica mondiale, sono potenze mondiali; ma la politica estera dell'Inghilterra, europea e mondiale, è talmente complicata che i Dominions sono riluttanti ad essere trascinati in quistioni che non li interessano direttamente; d'altronde attraverso la politica estera l'Inghilterra potrebbe togliere o limitare ai Dominions qualcuno di quei diritti di indipendenza che hanno conquistato. Per l'Inghilterra stessa questo organo di politica imperiale potrebbe essere ragione di difficoltà, specialmente appunto nella politica estera, in cui si esige prontezza e unità di volere, difficili da realizzare in un organo collettivo rappresentante paesi sparsi in tutto il mondo.

Incidente col Canadà a proposito del trattato di Losanna: il Canadà rifiutò di ratificarlo perché non firmato dai propri rappresentanti. Baldwin lasciò cadere la quistione dell'«organo imperiale» e temporeggiò. Il Governo conservatore riconobbe al Canadà e all'Irlanda il diritto di aver propri rappresentanti a Washington (primo passo verso il diritto attivo e passivo di Legazione ai Domini); all'Australia il diritto di avere a Londra oltre all'Alto Commissario (con mansioni specialmente economiche) un funzionario per il diretto collegamento politico; favorí e incoraggiò la formazione di flotte autonome (flotta australiana, canadese, indiana); base navale di Singapore per la difesa del Pacifico; esposizione di Wembley per valorizzare l'economia dei dominions in Europa; Comitato Economico Imperiale per associare i Dominions all'Inghilterra di fronte alle difficoltà commerciali e industriali, e parziale attuazione del principio preferenziale.

Nella politica estera: il Patto di Locarno fu firmato dall'Inghilterra con la dichiarazione di assumere per sé sola gli impegni in esso contemplati. (Prima vari metodi: per il Trattato di Losanna l'Inghilterra firmò a nome di tutto l'Impero, onde incidente col Canadà; nella Conferenza di Londra per le riparazioni tedesche, nel luglio 1924, intervennero i dominions singoli, con apposite delegazioni, ciò che domandò un meccanismo pesante e complicato, non sempre praticamente applicabile; nel Patto di Sicurezza di Ginevra del 1928, l'Inghilterra si riservò di firmare dopo aver consultato i dominions e averne ottenuta la preventiva approvazione).

La Conferenza Imperiale (del novembre 1926) ha voluto dare una definizione precisa dei membri dell'Impero: essi sono «comunità autonome, uguali in diritto, in nessun modo subordinate l'una all'altra nei rispetti dei loro affari interni ed esteri, sebbene unite da un comune dovere di obbedienza alla Corona e liberamente associate quali membri dell'Impero britannico». Uguaglianza di status non significa uguaglianza di funzioni, e viene espressamente dichiarato che la funzione della politica estera, e della difesa militare e navale incombe principalmente alla Gran Bretagna. Ciò non esclude che determinate mansioni di questi due rami dell'attività statale vengano in parte assunte da qualcuno dei Dominions: flotta australiana e indiana (l'India però non è un Dominion); rappresentanza a Washington dell'Irlanda e del Canadà, ecc. Viene infine stabilito il principio generale che nessun obbligo internazionale incombe su uno qualsiasi dei soci dell'Impero se quest'obbligo non è stato volontariamente riconosciuto e assunto.

È stato fissato il rapporto dei Domini con la Corona, che diviene il vero organo supremo imperiale. I Governatori Generali nei Dominions, essendo puri rappresentanti del Re, non possono avere nel riguardo dei Dominions che l'esatta posizione che ha il re nell'Inghilterra: essi perciò non sono rappresentanti od agenti del governo inglese, le cui comunicazioni coi governi dei Dominions avverranno per altro tramite.

La politica estera inglese non può non subire l'influenza dei Dominions.


Funzione del re d'Inghilterra come nesso politico imperiale: cioè del Consiglio privato della Corona, e specialmente del Comitato giuridico del Consiglio privato, che non soltanto accoglie i reclami contro le decisioni delle Alte Corti dei Dominions, ma anche giudica le controversie tra i membri dello stesso Impero. Questo Comitato è il piú forte legame organizzativo dell'Impero. Lo Stato libero d'Irlanda e l'Africa del Sud aspirano a sottrarsi al Comitato giuridico. Gli uomini politici responsabili non sanno come sostituirlo. Augur è favorevole alla massima libertà interna nell'Impero: chiunque può uscirne, ma ciò, secondo lui, dovrebbe anche voler dire che chiunque può domandare di entrarvi: egli prevede che il Commonwealth può diventare un organismo mondiale dopo però che siano chiarite le relazioni dell'Inghilterra con gli altri paesi, e specialmente con gli Stati Uniti (Augur sostiene l'egemonia inglese nell'Impero, dell'Inghilterra propriamente detta, data, anche in regime di uguaglianza, dal peso economico e culturale).


Da Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda è diventato l'«Unione britannica di Nazioni» (British Commonwealth of Nations). Tendenze particolaristiche. Canadà, Australia e Nuova Zelanda in una posizione intermedia tra Inghilterra e Stati Uniti. Rapporti tra Stati Uniti e Canadà sempre piú intimi. Canadà speciale ministro plenipotenziario a Washington. Se urto serio tra Stati Uniti e Inghilterra l'Impero inglese si sgretolerebbe.


La bilancia commerciale inglese già da circa 50 anni prima della guerra andava modificando la sua struttura interna. La parte costituita dalle esportazioni di merci perdeva relativamente e l'equilibrio si fondava sempre piú sulle cosí dette esportazioni invisibili, cioè gli interessi dei capitali collocati all'estero, i noli della marina mercantile e gli utili realizzati da Londra come centro finanziario internazionale. Dopo la guerra, per la concorrenza degli altri paesi, l'importanza delle esportazioni invisibili è ancora aumentata. Da ciò la cura dei cancellieri dello Scacchiere e della Banca d'Inghilterra di riportare la sterlina alla parità dell'oro e quindi reintegrarla nella sua posizione di moneta internazionale. Questo fine fu raggiunto, ma ha determinato il rincaro del prezzo di costo della produzione industriale, che ha perduto terreno nei mercati stranieri.

Ma è stata questa la causa (almeno l'elemento piú importante) della crisi industriale inglese? In che misura il governo sacrificò gli interessi degli industriali a quelli dei finanziari, portatori di prestiti all'estero e organizzatori del mercato finanziario mondiale londinese? Incanto: il ristabilimento del valore della sterlina può aver anticipato la crisi, non averla determinata, poiché tutti i paesi, anche quelli rimasti per qualche tempo a moneta fluttuante e che l'hanno consolidata a un valore piú basso dell'originario, hanno subito e subiscono la crisi: si potrebbe dire che avere anticipato la crisi in Inghilterra avrebbe dovuto indurre gli industriali a correre prima ai ripari e a rimettersi quindi prima degli altri paesi, ritrovando cosí l'egemonia mondiale. D'altronde il ritorno immediato alla parità aurea ha evitato in Inghilterra le crisi sociali determinate dai passaggi di proprietà e dalla decadenza fulminea delle classi medie piccolo-borghesi: in un paese tradizionalista, conservatore, ossificato nella sua struttura sociale, come l'Inghilterra, quali risultati avrebbero avuto i fenomeni di inflazione, di oscillazione, di stabilizzazione in perdita della moneta? Certo molto piú gravi che negli altri paesi.

In ogni modo bisognerebbe fissare con esattezza il rapporto tra l'esportazione di merci e le esportazioni invisibili, tra il fatto industriale e quello finanziario: ciò servirebbe a spiegare la relativa scarsa importanza politica degli operai e il carattere ambiguo del partito laburista e la scarsezza di stimoli alla sua differenziazione e al suo sviluppo.

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Egemonia politica dell'Europa prima della guerra mondiale. Il Tommasini [dice] che la politica mondiale è stata diretta dall'Europa fino alla guerra mondiale, dalla battaglia di Maratona (490 a. C.). (Però fino a poco tempo fa non esisteva il «mondo» e non esisteva una politica mondiale; d'altronde la civiltà cinese e quella indiana hanno pur contato qualcosa). All'inizio del secolo esistevano tre potenze mondiali europee, mondiali per l'estensione dei loro territori, per la loro potenza economica e finanziaria, per la possibilità di imprimere alla loro attività una direzione assolutamente autonoma, di cui tutte le altre potenze, grandi e minori, dovevano subire l'influsso: Inghilterra, Russia, Germania. (Il Tommasini non considera la Francia come potenza mondiale!) Inghilterra: aveva battuto tre grandi potenze coloniali (Spagna, Paesi Bassi, Francia) e asservito la quarta (Portogallo), aveva vinto le guerre napoleoniche ed era stata per un secolo arbitra del mondo intero. Two powers standard. Punti strategici mondiali nelle sue mani (Gibilterra, Malta, Suez, Aden, isole Bahrein, Singapore, Hong-Kong). Industrie, commercio, finanze. Russia: minacciava India, tendeva a Costantinopoli. Grande esercito. Germania: attività intellettuale, concorrenza industriale all'Inghilterra, grande esercito, flotta minacciosa per il two powers standard.

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Politica mondiale e politica europea. Non sono una stessa cosa. Un duello tra Berlino e Parigi o tra Parigi e Roma non fa del vincitore il padrone del mondo. L'Europa ha perduto la sua importanza e la politica mondiale dipende da Londra, Washington, Mosca, Tokyo piú che dal continente.

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America e Europa. Madison Grant (scienziato e scrittore di grande fama), presidente della Società biologica di New York, ha scritto un libro Una grande stirpe in pericolo in cui «denuncia» il pericolo di un'invasione «fisica e morale» dell'America da parte degli Europei, ma restringe questo pericolo nell'invasione dei «mediterranei», cioè dei popoli che abitano nei paesi mediterranei. Il Madison Grant sostiene che, fin dal tempo di Atene e di Roma, l'aristocrazia greca e romana era composta di uomini venuti dal Nord e soltanto le classi plebee erano composte di mediterranei. Il progresso morale e intellettuale dell'umanità fu dunque dovuto ai «nordici». Per il Grant i mediterranei sono una razza inferiore e la loro immigrazione è un pericolo; essa è peggiore di una conquista armata e va trasformando New York e gran parte degli Stati Uniti in una «cloaca gentium». Questo modo di pensare non è individuale: rispecchia una notevole e predominante corrente di opinione pubblica degli Stati Uniti, la quale pensa che l'influsso esercitato dal nuovo ambiente sulle masse degli emigranti è sempre meno importante dell'influsso che le masse degli emigranti esercitano sul nuovo ambiente e che il carattere essenziale della «miscela delle razze» è nelle prime generazioni un difetto di armonia (unità) fisica e morale nei popoli e nelle generazioni seguenti un lento ma fatale ritorno al tipo dei vari progenitori.

Su questa quistione delle «razze» e delle «stirpi» e della loro boria alcuni popoli europei sono serviti secondo la misura della loro stessa pretesa. Se fosse vero che esistono razze biologicamente superiori, il ragionamento del Madison Grant sarebbe abbastanza verosimile. Storicamente, data la separazione di classe-casta, quanti romani-ariani sono sopravvissuti alle guerre e alle invasioni? Ricordare la lettera di Sorel al Michels, «Nuovi Studi di Diritto, Economia e Politica», settembre-ottobre 1929: «Ho ricevuto il vostro articolo su la "sfera storica di Roma", le cui tesi sono quasi tutte contrarie a ciò che lunghi studi m'hanno mostrato essere la verità piú probabile. Non c'è paese meno romano dell'Italia; l'Italia è stata conquistata dai Romani perché essa era altrettanto anarchica quanto i paesi berberi; essa è rimasta anarchica per tutto il Medio Evo, e la sua propria civiltà è morta quando gli Spagnoli le imposero il loro regime amministrativo; i Piemontesi hanno compiuto l'opera nefasta degli Spagnoli. Il solo paese di lingua latina che possa rivendicare l'eredità romana è la Francia, dove la monarchia si è sforzata di mantenere il potere imperiale. Quanto alla facoltà d'assimilazione dei Romani, si tratta di uno scherzo. I Romani hanno distrutto la nazionalità sopprimendo le aristocrazie». Tutte queste quistioni sono assurde se si vuole fare di esse elementi di una scienza e di una sociologia politica. Rimane solo il materiale per qualche osservazione di carattere secondario che spiega qualche fenomeno di secondo piano.

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Inghilterra e Stati Uniti dopo la guerra. L'Inghilterra è uscita dalla guerra come trionfatrice. La Germania privata della flotta e delle colonie. La Russia, che poteva ridiventare rivale, ridotta a fattore secondario per almeno qualche decennio (questa opinione è discutibile molto: forse gli inglesi avrebbero preferito come rivale la Russia zarista, anche vittoriosa, all'attuale Russia, che non solo influisce sulla politica imperiale, ma anche sulla politica interna inglese). Ha acquistato circa altri 10 milioni di Km2 di possedimenti con circa 35 milioni di abitanti. Tuttavia l'Inghilterra ha dovuto riconoscere tacitamente la supremazia degli Stati Uniti, e ciò sia per ragioni economiche sia per la trasformazione dell'Impero. La ricchezza degli Stati Uniti che si calcolava in 925 miliardi di franchi oro nel 1912, era salita nel 1922 a 1.600 miliardi. La marina mercantile: 7.928.688 tonn. nel 1914, 12.500.000 nel 1919. Le esportazioni: 1913, 15 miliardi franchi oro; nel 1919, 37 miliardi e 1/2, ridiscendendo a circa 24 miliardi nel 1924-25. Importazioni: 10 miliardi circa nel 1913, 16 nel 1919, 19 nel 1924-25.

La ricchezza della Gran Bretagna nel decennio 1912-22 è salita solo da 387 a 445 miliardi di franchi oro. Marina mercantile: 1912, 13.850.000 tonn.; 1922, 11.800.000. Esportazioni: 1913, 15 miliardi circa di franchi oro; 1919, 17 miliardi; 1924, 20 miliardi. Importazioni: 1913, 19 miliardi; 1919, 28 1/2 miliardi circa; 1924, 27 1/2 miliardi. Debito pubblico: 31 marzo 1915: 1.162 milioni di sterline; 1919: 7.481 milioni; 1929: 8.482 milioni; all'attivo vi erano, dopo la guerra, crediti per prestiti a Potenze alleate, colonie e domíni, nuovi Stati dell'Europa orientale ecc., che nel 1919 ascendevano a 2.541 milioni di sterline e nel 1924 a 2.162. Ma non erano di sicura riscossione integrale. Per es. il debito italiano era nel 1924 di 553 e nel 1925 di 584 mil. di sterline, ma con l'accordo del 27 gennaio 1926 l'Italia pagherà in 62 anni solo 276.750.000 sterline interessi compresi. Nel 1922 l'Inghilterra invece consolidò il suo debito verso gli Stati Uniti in 4.600 milioni di dollari, rimborsabili in 62 anni con interesse del 3% fino al 1932 e del 3 1/2% in seguito.

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Augur, Il nuovo aspetto dei rapporti tra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti d'America, «Nuova Antologia» del 16 dicembre 1928. (Espone questa ipotesi: che gli Stati Uniti cerchino di diventare la forza politica egemone dell'Impero inglese, cioè conquistino l'impero inglese dall'interno e non dall'esterno con una guerra).

Nello stesso fascicolo della «Nuova Antologia» vedi anche Oscar di Giamberardino, La politica marittima degli Stati Uniti d'America; questo articolo è molto interessante e da tener presente.

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Formazione della potenza degli Stati Uniti. Indipendenza nel 1783, riconosciuta dall'Inghilterra col trattato di Versailles: comprendevano allora 13 Stati, di cui 10 di originaria colonizzazione britannica e 3 (New-York, New Jersey e Delaware) ceduti dai Paesi Bassi all'Inghilterra nel 1667, con circa 2 milioni di Km2, ma la parte effettivamente popolata era solo quella sulla costa orientale dell'Atlantico. Secondo il censimento del 1790, la popolazione non arrivava a 4 milioni, compresi 700.000 schiavi. Su quello stesso territorio nel 1920 esistevano 20 Stati con 71 milioni di abitanti. Allora gli Stati Uniti confinavano a Nord col Canadà, che la Francia aveva ceduto all'Inghilterra nel 1763, dopo la guerra dei 7 anni; ad Ovest con la Luisiana, colonia francese che fu comperata nel 1803 per 15 milioni di dollari (territorio di 1.750.000 Km2) cosí che tutto il bacino del Mississipí si trovò in suo dominio e il confine cadde sul fiume Sabine colla colonia spagnola del Messico. A Sud colla Florida spagnola che fu acquistata nel 1819.

Il Messico, che allora era il doppio dell'attuale, insorse nel 1810 contro la Spagna e nel 1821 fece riconoscere la sua indipendenza col trattato di Cordova. Da quel momento gli Stati Uniti iniziarono una politica intesa ad accaparrarsi il Messico: l'Inghilterra sosteneva l'imperatore Iturbide, gli Stati Uniti favorirono un movimento repubblicano che trionfò nel 1823. Intervento francese in Spagna. Opposizione dell'Inghilterra e degli Stati Uniti alla politica della Santa Alleanza di aiutare la Spagna a riconquistare le colonie americane. Da ciò è determinato il messaggio del Presidente Monroe al Congresso (2 dicembre 1823) in cui enunciata la teoria famosa. Si domanda di non intervenire contro le ex-colonie che hanno proclamato la loro indipendenza, che l'hanno mantenuta e che è stata riconosciuta dagli Stati Uniti, i quali non potrebbero rimanere indifferenti spettatori di un simile intervento qualunque forma fosse per assumere.

Nel 1835 il Texas (690 mila Km2) si dichiarò indipendente dal Messico e dopo un decennio si uní agli Stati Uniti. Guerra fra Stati Uniti e Messico. Col trattato di Guadalupa Hidalgo (1848) il Messico dovette cedere il territorio costituente gli attuali Stati della California, dell'Arizona, del Nevada, dell'Utah e del Nuovo Messico (circa 1.700.000 Km2). Gli Stati Uniti arrivarono cosí sulla costa del Pacifico, che fu occupata poi fino alla frontiera del Canadà, e raggiunsero le dimensioni attuali.

Dal '60 al '65 guerra di secessione: Francia e Inghilterra incoraggiarono il movimento separatista del Sud e Napoleone III cercò di approfittare della crisi per rafforzare il Messico con Massimiliano. Gli Stati Uniti, finita la guerra civile, ricordarono la dottrina di Monroe a Parigi, esigendo il ritiro delle truppe francesi dal Messico. Nel 1867 acquisto dell'Alaska. L'espansione degli Stati Uniti come grande potenza mondiale, comincia alla fine dell'800.

Problemi principali americani: 1°, regolamento dell'emigrazione per assicurare una maggiore omogeneità della popolazione (veramente questo problema si pose dopo la guerra ed è legato, oltre che alla quistione nazionale, anche e specialmente alla rivoluzione industriale); 2°, egemonia sul mar Caraibico e sulle Antille; 3°, dominio sull'America Centrale, specialmente sulle regioni dei canali; 4°, espansione nell'Estremo Oriente.

Guerra mondiale. Imperi centrali bloccati: l'Intesa padrona dei mari: gli S. U. rifornirono l'Intesa, sfruttando tutte le buone occasioni che si offrivano. Il costo colossale della guerra, i profondi turbamenti della produzione europea (la rivoluzione russa), hanno fatto degli Stati Uniti gli arbitri della finanza mondiale. Quindi la loro affermazione politica.

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Wilson. Politica mondiale di Wilson. Suo contrasto con le forze politiche preponderanti negli Stati Uniti. Fallimento della sua politica mondiale. Warren G. Harding diventa presidente il 4 marzo 1921. Colla sua nota del 4 aprile seguente Harding, a proposito della quistione dell'isola di Yap, precisa che gli Stati Uniti non intendono intervenire nei rapporti fra gli Alleati e la Germania, né chiedere la revisione del trattato di Versailles, ma mantenere tutti i diritti che le derivano dal suo intervento nella guerra. Questi principii [furono] svolti nel messaggio del 12 aprile e condussero alla conferenza di Washington che durò dal 12 novembre 1921 al 6 febbraio 1922 e si occupò della Cina, dell'equilibrio nei mari dell'Estremo Oriente e della limitazione degli armamenti navali.

Popolazione degli Stati Uniti. Sua composizione nazionale data dall'immigrazione. Politica governativa. Nel 1882 proibito l'accesso agli operai cinesi. Col Giappone furono dapprima usati certi riguardi, ma nel 1907 col cosí detto Gentlemen's agreement Root-Takahira l'immigrazione giapponese, senza essere respinta come tale, fu grandemente ostacolata mediante clausole circa la cultura, le condizioni igieniche e la fortuna degli immigranti. Ma il gran mutamento della politica d'immigrazione è avvenuto dopo la guerra: la legge 19 maggio 1921, rimasta in vigore fino al 1° luglio 1924, stabilí che la quota annua d'immigrazione di ogni singola nazione dovesse limitarsi al 3% dei cittadini americani della rispettiva nazione, secondo il censimento del 1910. (Successive modifiche). L'immigrazione gialla definitivamente esclusa.

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Lodovico Luciolli, La politica doganale degli Stati Uniti d'America, «Nuova Antologia» del 16 agosto 1929.

Articolo molto interessante e utile da consultare perché fa un riassunto della storia tariffaria negli Stati Uniti e della funzione particolare che le tariffe doganali hanno sempre avuto nella politica degli Stati Uniti. Sarà interessante una rassegna storica delle varie forme che ha assunto e sta assumendo la politica doganale dei vari paesi, ma specialmente dei piú importanti economicamente e politicamente, ciò che in fondo significa dei vari tentativi di organizzare il mercato mondiale e di inserirsi in esso nel modo piú favorevole dal punto di vista dell'economia nazionale, o delle industrie essenziali dell'attività economica nazionale. Una nuova tendenza del nazionalismo economico contemporaneo da seguire è questa: alcuni Stati cercano di ottenere che le loro importazioni da un determinato paese siano «controllate» in blocco con un corrispettivo di «esportazione» ugualmente controllato. Che una tale misura giovi alle nazioni la cui bilancia commerciale (visibile) sia in deficit, è manifesto. Ma come spiegare che un tale principio si incominci ad affermare da parte della Francia, che esporta merci piú che non ne importi? Si tratta inizialmente di una politica commerciale rivolta a boicottare le importazioni da un determinato paese, ma da questo inizio può svilupparsi una politica generale da inquadrare in una cornice piú ampia e di carattere positivo che può (svilupparsi) in Europa in conseguenza della politica tariffaria americana e per cercare di stabilizzare certe economie nazionali. Cioè: ogni nazione importante può tendere a dare un sostrato economico organizzato alla propria egemonia politica su le nazioni che le sono subordinate. Gli accordi politici regionali potrebbero diventare accordi economici regionali, in cui l'importazione e l'esportazione «concordata» non avverrebbe piú tra due soli Stati, ma tra un gruppo di Stati, eliminando molti inconvenienti non piccoli evidentissimi. In questa tendenza mi pare si possa far rientrare la politica di libero scambio interimperiale e di protezionismo verso il non-Impero del gruppo nuovamente formatosi in Inghilterra intorno a lord Beaverbrook (o nome simile), cosí come l'intesa agraria di Sinaia poi ampliata a Varsavia.

Questa tendenza politica potrebbe essere la forma moderna di Zollverein che ha portato all'Impero Germanico federale, o dei tentativi di lega doganale fra gli Stati italiani prima del 1848, e piú innanzi del mercantilismo settecentesco: e potrebbe diventare la tappa intermedia della Paneuropa di Briand, in quanto essa corrisponde a un'esigenza delle economie nazionali di uscire dai quadri nazionali senza perdere il carattere nazionale.

Il mercato mondiale, secondo questa tendenza, verrebbe ad essere costituito di una serie di mercati non piú nazionali ma internazionali (interstatali) che avrebbero organizzato nel loro interno una certa stabilità delle attività economiche essenziali, e che potrebbero entrare in rapporto tra loro sulla base dello stesso sistema. Questo sistema terrebbe piú conto della politica che dell'economia nel senso che nel campo economico darebbe piú importanza all'industria finita che all'industria pesante. Ciò nel primo stadio dell'organizzazione. Infatti: i tentativi di cartelli internazionali basati sulle materie prime (ferro, carbone, potassa, ecc.) hanno messo di fronte Stati egemonici, come la Francia e la Germania, delle quali né l'una né l'altra può cedere nulla della sua posizione e della sua funzione mondiale. Troppo difficile e troppi ostacoli. Piú semplice invece un accordo della Francia e dei suoi Stati vassalli per un mercato economico organizzato sul tipo dell'Impero Inglese, che potrebbe far crollare la posizione della Germania e costringerla a entrare nel sistema, ma sotto l'egemonia francese.

Sono tutte ipotesi molto vaghe ancora, ma da tener presenti per studiare gli sviluppi delle tendenze su accennate.

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Gli Stati Uniti nel Mar Caraibico. Guerra ispano-americana. Col trattato di pace di Parigi (10 dicembre 1898) la Spagna rinunciò a ogni suo diritto su Cuba e cedette agli Stati Uniti Porto Rico e le altre sue isole minori. L'isola di Cuba, che domina l'entrata del golfo del Messico, doveva essere indipendente e si promulgò una costituzione il 12 febbraio 1901; ma gli Stati Uniti, per riconoscere l'indipendenza e ritirare le truppe, si fecero garantire il diritto d'intervento. Col trattato di reciprocità del 2 luglio 1903 gli Stati Uniti ottennero vantaggi commerciali e l'affitto come base navale della baia di Guantanamo.

Gli Stati Uniti intervennero nel 1914 ad Haiti: il 16 settembre 1915 un accordo dette il diritto agli Stati Uniti di avere a Port-au-Prince un loro alto commissario da cui dipende l'amministrazione delle dogane. La repubblica di San Domingo fu posta sotto il controllo finanziario americano nel 1907 e durante la guerra vi furono sbarcate truppe, ritirate nel 1924. Nel 1917 gli Stati Uniti comprarono dalla Danimarca l'arcipelago delle Vergini. Cosí gli Stati Uniti dominano il golfo di Messico e il Mare Caraibico.

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Gli Stati Uniti e l'America Centrale. Canale di Panama e altri possibili canali. La repubblica di Panama si è impegnata col trattato di Washington del 15 dicembre 1926 a dividere le sorti degli Stati Uniti in caso di guerra. Il trattato non ancora ratificato perché incompatibile con lo Statuto della Società delle Nazioni di cui il Panama fa parte, ma la ratifica non necessaria. Quistione del Nicaragua.

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Estremo Oriente. Possessi degli Stati Uniti: le Filippine e l'isola di Guam (Marianne); le Hawai; l'isola di Tutuila nel gruppo della Samoa. Prima del trattato di Washington la situazione nell'Estremo Oriente era dominata dall'alleanza anglo-giapponese, conclusa col trattato difensivo di Londra del 30 gennaio 1902, basato sull'indipendenza della Cina e della Corea, con prevalenza di interessi inglesi in Cina e giapponesi in Corea; dopo la disfatta russa, fu sostituito dal trattato del 12 agosto 1905: l'integrità della Cina ribadita e l'eguaglianza economica e commerciale di tutti gli stranieri, i contraenti si garantivano reciprocamente i loro diritti territoriali e i loro interessi speciali nell'Asia Orientale e in India: supremazia giapponese in Corea e diritto dell'Inghilterra di difendere l'India nelle regioni cinesi vicine, cioè il Tibet. Questa alleanza vista di malocchio da Stati Uniti. Attriti durante la guerra. Nella seduta del 10 dicembre 1921 della Conferenza di Washington lord Balfour annunziò la fine dell'alleanza, sostituita col trattato 13 dicembre 1921 con cui la Francia, l'Inghilterra, gli Stati Uniti e il Giappone si impegnano per dieci anni: 1°, a rispettare i loro possedimenti e domini insulari nel Pacifico e a deferire ad una Conferenza degli Stati stessi le controversie che potessero sorgere fra alcuni di loro circa il Pacifico e i possedimenti e domini in quistione; 2°, a concertarsi nel caso di attitudine aggressiva di altra potenza. Il trattato si limita ai possedimenti insulari e per ciò che riguarda il Giappone si applica a Karafuto (Sakhalin meridionale) a Formosa e alle Pescadores, ma non alla Corea e a Porto Arthur. Una separata dichiarazione specifica che il trattato si applica anche alle isole sotto mandato nel Pacifico, ma che ciò non implica il consenso ai mandati da parte degli Stati Uniti. La reciproca garanzia dello statu quo ha speciale importanza per le Filippine, poiché impedisce al Giappone di fomentarvi il malcontento degli indigeni.

Nel trattato per la limitazione degli armamenti navali c'è una disposizione importantissima (art. 19) con cui Francia, Inghilterra, Stati Uniti, Giappone, si impegnano fino al 31 dicembre 1936 di mantenere lo statu quo per ciò che riguarda le fortificazioni e le basi navali nei possedimenti e domíni situati ad oriente del meridiano 110 di Greenwich, che passa per l'isola di Hainan. Il Giappone è sacrificato, perché ha le mani legate anche per i piccoli arcipelaghi vicini alle grandi isole metropolitane. L'Inghilterra può fortificare Singapore e gli Stati Uniti le Hawai, dominando cosí entrambi gli accessi al Pacifico. Limitazione delle navi di linea. Ottenimento della parità navale tra Stati Uniti e Inghilterra.

Egemonia degli Stati Uniti. Il Tommasini prevede alleanza tra Stati Uniti e Inghilterra e che dall'Asia partirà la riscossa contro di essa per una coalizione che può comprendere la Cina, il Giappone e la Russia col concorso tecnico-industriale della Germania. Egli si basa ancora sulla prima fase del movimento nazionalista cinese.

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La Cina. L'America nel 1899 proclamò la politica dell'integrità territoriale cinese e della porta aperta. Nel 1908, con lo scambio di note Root-Takahira, Stati Uniti e Giappone rinnovarono dichiarazioni solenni sull'integrità e l'indipendenza politica della Cina. Dopo l'accettazione da parte della Cina delle cosí dette «ventun domande» del Giappone (ultimatum 1915) gli Stati Uniti dichiarano (note del 13 maggio 1915 a Pekino e Tokio) che non riconoscevano gli accordi conclusi. Alla Conferenza di Washington gli Stati Uniti ottennero che le potenze europee e il Giappone rinunziassero a buona parte dei vantaggi speciali e dei privilegi che si erano assicurati. Il Giappone si impegnò a sgombrare il Kiau-Ceu. Solo in Manciuria il Giappone mantenne la sua posizione. Fin dal 1908 gli Stati Uniti avevano rinunziato alle indennità loro spettanti dopo la rivolta dei boxers e avevano adibito le somme relative a scopi culturali in Cina. Nel 1917 la Cina sospese i pagamenti. Accordi: Giappone e Inghilterra hanno rinunziato come gli Stati Uniti; la Francia si è servita dei fondi per risarcire i danneggiati del fallimento della Banca industriale di Cina: Italia e Belgio hanno consentito a consacrare a scopi culturali circa i 4/5 delle somme ancora dovute.

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Atlantico-Pacifico. Funzione dell'Atlantico nella civiltà e nell'economia moderna. Si sposterà questo asse nel Pacifico? Le masse piú grandi di popolazione del mondo sono nel Pacifico: se la Cina e l'India diventassero nazioni moderne con grandi masse di produzione industriale, il loro distacco dalla dipendenza europea romperebbe appunto l'equilibrio attuale: trasformazione del continente americano, spostamento dalla riva atlantica alla riva del Pacifico dell'asse della vita americana, ecc. Vedere tutte queste quistioni nei termini economici e politici (traffici, ecc.).

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Bernardo Sanvisenti, La questione delle Antille, «Nuova Antologia», 1° giugno 1929. Sulla dottrina di Monroe, sui rapporti tra Stati Uniti e America Spagnola ecc. Contiene citazioni bibliografiche su questi argomenti di libri di scrittori sudamericani e riporta notizie su movimenti culturali legati al predominio degli Stati Uniti che possono essere utili.

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Armamento della Germania al momento dell'armistizio. Al momento dell'armistizio furono consegnati dall'esercito operante: cannoni 5.000; mitragliatrici 25.000; bombarde 3.000; aeroplani 1.700; autocarri 5.000; locomotive 5.000; carri ferroviari 150.000. La Commissione per il disarmo distrusse nel territorio tedesco: cannoni 39.600; affusti finiti 23.061; fucili e pistole 4.574.000; mitragliatrici 88.000; proietti d'artiglieria 39.254.000; proietti per bombarde 4.028.000; cartucce 500.294.000; bombe a mano 11.530.000; esplosivi 2.131.646 tonnellate (e molte armi non furono consegnate).

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Il problema scandinavo e baltico, articolo di A. M. (?) nella «Nuova Antologia» del 1° agosto 1927. Articolo un po' balzellante e pieno di fumosità pretenziose ma interessante nel complesso, anche perché l'argomento è di solito poco trattato. Unità culturale dei popoli scandinavi molto piú intima di quella dei popoli di cultura latina. Esiste un movimento per una Lega interscandinava, che dà luogo a riunioni periodiche e solenni, ma la Lega non può divenire realtà concreta di organismo politico: rimangono i vincoli culturali e di razza da cui il movimento nasce e che da esso sono mantenuti e rinforzati. Le ragioni della impossibilità della Lega sono piú sostanziali che non quella del pericolo di una egemonia svedese. La Svezia e la Finlandia hanno interessi diversi della Danimarca e Norvegia. Eliminate le flotte tedesca e russa il Baltico è in certo qual modo neutralizzato, ma tale neutralità è controllata dall'Inghilterra. La Lega creerebbe un'altra situazione di cui l'Inghilterra potrebbe non essere soddisfatta, almeno che la Lega stessa fosse una sua creatura. Cosí si dica per la Germania (e anche per la Russia, anzi piú di tutto per la Russia) restituita a grande potenza.

Danimarca nell'anteguerra gravitava nell'orbita inglese. Oggi ancor piú. Ha rinunziato a ogni apparato militare (bisogna vedere se ciò non sia avvenuto per suggerimento inglese, che cosí può entrare nel Baltico senza violare nessun «piccolo Belgio»). In ogni modo la neutralità disarmata della Danimarca pone il Baltico sotto il controllo inglese, quindi diminuisce la posizione della Germania, che tende a esercitare una influenza nel Nord. La Danimarca, col suo disarmo, ha rinunziato alla sua posizione e funzione internazionale. Paese piccolo borghese.

La Svezia è apatica e quietista, senza volontà di potenza. La Norvegia sotto influsso inglese, in istato di quasi disarmo, ma in ascesa. Piena di vigore la Finlandia, dotata di un forte sistema statale e di governo. La Svezia paese di grande industria e di alta borghesia con rigida differenziazione di classi (tradizione aristocratica-militare e conservatrice); riduzione di spese militari e navali; sotto influenza tedesca; il suo prestigio decaduto; avrebbe potuto forse annettersi la Finlandia: invece vide assegnare alla Finlandia le isole Aland, la Gibilterra baltica.

La Finlandia ha assorbito dalla Svezia la cultura occidentale. I suoi interessi permanenti e profondi legati alla Germania. Atteggiamento riservato verso la Polonia. La Polonia vorrebbe costituirsi grande protettrice degli Stati baltici e raggrupparli intorno a sé di fronte alla Russia e alla Germania. (Ma Lituania avversa, Finlandia molto riservata e altri Stati baltici diffidenti e sospettosi). La Russia ha finora sventato queste manovre polacche.

Inghilterra, potenza navale contro blocco tedesco-russo (l'autore prevede una ripresa della potenza tedesca che organizza la Russia sotto il suo controllo e le si unisce territorialmente): in cui la tradizionale supremazia del mare (inglese) sul continente verrebbe a perdere la sua efficienza data la grandezza territoriale del blocco tedesco-russo. L'Inghilterra in posizione di difesa, perché satura di territori dominati e la sua flotta diminuita come fattore egemonico. Il blocco russo-tedesco rappresenterebbe la rivolta anti-inglese. Verrebbe a formarsi una continuità ininterrotta dal Mar Glaciale al Mediterraneo e dal Reno al Pacifico: la Turchia sarebbe il secondo fattore in sottordine; l'adesione della Bulgaria e dell'Ungheria non sarebbe improbabile in caso di conflitto. (Lituania già congiunge Russia e Germania).

La minaccia dell'Inghilterra di forzare gli stretti danesi (a parte la funzione germanica del canale di Kiel) neutralizzata dai possibili campi di mine che la Germania può disporre ai confini meridionali della Danimarca e della Svezia. L'influenza francese nel Nord è irrilevante. La Svezia e la Finlandia rifuggono dall'inimicarsi l'Inghilterra, ma tendono sempre piú verso la Germania.

Risorgere del germanesimo. La Germania «potenzialmente» è ancora la piú forte nazione continentale. L'unità nazionale è rafforzata; la compagine statale è intatta. Essa oggi si destreggia fra Occidente e Oriente in attesa di riprendere la sua libertà politica di fronte all'Inghilterra che tenta invano di separarla dalla Russia, per avere ragione di entrambe.

La Russia: i concetti dell'autore sulla Russia sono molto superficiali e fumosi. «L'amorfismo russo è incapace di organizzare lo Stato e neppure di concepirlo. Tutti i fondatori di Stato russo furono stranieri o d'origine straniera (Rurik, i Romanoff). La potenza organizzatrice non può essere che la Germania, per ragioni storiche e geografiche e politiche. Non conquista militare ma solo subordinazione economica, politica, culturale. Sarebbe antistorico frazionare la Russia e sottoporla ad esperimenti coloniali, come avrebbero voluto certi teorici della politica. Il popolo russo è mistico, ma non religioso, per eccellenza femmineo e dissolvitore», ecc. ecc. (La quistione è molto meno verbalmente complessa: la Russia è troppo contadina e di un'agricoltura primitiva, per potere con «facilità» organizzare uno Stato moderno: la sua industrializzazione è il processo della sua modernizzazione).

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La posizione geopolitica dell'Italia. La possibilità dei blocchi. Nella sesta seduta della Conferenza di Washington (23 dicembre 1921) il delegato inglese Balfour disse, parlando dell'Italia: «L'Italia non è un'isola, ma può considerarsi come un'isola. Mi ricordo dell'estrema difficoltà che abbiamo avuto a rifornirla anche con il minimo di carbone necessario per mantenere la sua attività, i suoi arsenali e le sue officine, durante la guerra. Dubito che essa possa nutrirsi e approvvigionarsi, o continuare ad essere una effettiva unità di combattimento, se fosse realmente sottomessa ad un blocco e se il suo commercio marittimo fosse arrestato. L'Italia ha cinque vicini nel Mediterraneo. Spero e credo che la pace, pace eterna, possa regnare negli antichi focolari della civiltà. Ma noi facciamo un esame freddo e calcolatore come quello di un membro qualsiasi dello Stato Maggiore Generale. Questi, considerando il problema senza alcun pregiudizio politico e soltanto come una questione di strategia, direbbe all'Italia: voi avete cinque vicini, ciascuno dei quali può, se vuole, stabilire un blocco delle vostre coste senza impiegare una sola nave di superficie. Non sarebbe necessario che sbarcasse truppe e desse battaglia. Voi perireste senza essere conquistati». (Balfour parlava specialmente sotto l'impressione della guerra sottomarina e prima dei grandi progressi realizzati dall'aviazione di bombardamento, che non pare possa permettere un blocco immune da rappresaglie; tuttavia per alcuni aspetti la sua analisi è abbastanza giusta).

III. Note sull'attrezzamento

nazionale e sulla politica italiana

L'attrezzamento nazionale. Nella ricerca sulle condizioni economiche e sulla struttura dell'economia italiana, inquadrare nel concetto di «attrezzamento nazionale». Fissare questo concetto esattamente ecc.

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Economia nazionale. Tutta l'attività economica di un paese può essere giudicata solo in rapporto al mercato internazionale, «esiste» ed è da valutarsi in quanto è inserita in una unità internazionale. Da ciò l'importanza del principio dei costi comparati e la saldezza che mantengono i teoremi fondamentali dell'economia classica di contro alle critiche verbalistiche dei teorici di ogni nuova forma di mercantilismo (protezionismo, economia diretta, corporativismo ecc.). Non esiste un «bilancio» puramente nazionale dell'economia, né per il suo complesso, e neppure per una attività particolare. Tutto il complesso economico nazionale si proietta nell'eccedente che viene esportato in cambio di una corrispondente importazione, e se nel complesso economico nazionale una qualsiasi merce o servizio costa troppo, è prodotta in modo antieconomico, questa perdita si riflette nell'eccedente esportato, diventa un «regalo» che il paese fa all'estero, o per lo meno (giacché non sempre può parlarsi di «regalo») una perdita secca del paese, nei confronti con l'estero, nella valutazione della sua statura relativa e assoluta nel mondo economico internazionale.

Se il grano in un paese è prodotto a caro prezzo, le merci industriali esportate e prodotte da lavoratori nutriti con quel grano, a prezzo uguale con l'equivalente merce estera, contengono congelata una maggior quantità di lavoro nazionale, una maggior quantità di sacrifizi di quanto contenga la stessa merce estera. Si lavora per l'«estero» a sacrifizio; i sacrifizi sono fatti per l'estero, non per il proprio paese. Le classi che all'interno si giovano esse di tali sacrifizi, non sono la «nazione» ma rappresentano uno sfruttamento esercitato da «stranieri» sulle forze realmente nazionali ecc.

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Struttura economica italiana. Giuseppe Paratore in un articolo della «Nuova Antologia» del 1° marzo 1929 La Economia, la Finanza, il Denaro d'Italia scrive che l'Italia ha «una doppia costituzione economica (industriale capitalistica al nord, agraria di risparmio al sud)» e nota come tale situazione abbia reso difficile nel '26-27 la stabilizzazione della lira. Il metodo piú semplice e diretto, di consolidare rapidamente la svalutazione monetaria, creando subito una nuova parità – secondo le prescrizioni di Kemmerer, Keynes, Cassel ecc. – non era consigliabile ecc.

Sarebbe interessante sapere quale fattore risultò, in ultima analisi, meglio difeso: se l'economia del Nord o quella del Sud, e ciò perché, in realtà, la stabilizzazione fu compiuta dopo molte esitazioni e sotto il panico di un crollo fulmineo (corso del dollaro nel 1928: gennaio 477,93, febbraio 479,93, marzo 480,03, aprile 479,63, maggio 500,28, giugno 527,72, luglio 575,41); bisogna inoltre tener conto che il Sud era piú omogeneo rispetto al Nord nelle sue rivendicazioni e aveva la solidarietà di tutti i risparmiatori nazionali; nel Nord i capitalisti divisi, esportatori favorevoli inflazione, per il mercato interno ecc. ecc. Inoltre: la bassa stabilizzazione avrebbe provocato una crisi sociale-politica e non solo puramente economica, perché avrebbe mutato la posizione sociale di milioni di cittadini.


Nella «Riforma Sociale» del maggio-giugno 1932 è stata pubblicata una recensione del libro di Rodolfo Morandi (Storia della grande industria in Italia, ed. Laterza, Bari, 1931) recensione che contiene alcuni spunti metodici di un certo interesse (la recensione è anonima, ma l'autore potrebbe essere identificato nel prof. De Viti De Marco).

Si obbietta prima di tutto al Morandi di non tener conto di ciò che è costata l'industria italiana: «All'economista non basta che gli vengano mostrate fabbriche che danno lavoro a migliaia di operai, bonifiche che creano terre coltivabili, ed altri simili fatti di cui il pubblico generalmente si contenta nei suoi giudizi su un paese, su un'epoca. L'economista sa bene che lo stesso risultato può rappresentare un miglioramento o un peggioramento di una certa situazione economica, a seconda che sia ottenuto con un complesso di sacrifici minori o maggiori».

(È giusto il criterio generale che occorra esaminare il costo dell'introduzione di una certa industria in un paese, chi ne ha fatto le spese, chi ne ha ricavato i vantaggi e se i sacrifizi fatti non potevano essere fatti in altra direzione piú utilmente, ma tutto questo esame deve essere fatto con una prospettiva non immediata, ma di larga portata. D'altronde il solo criterio dell'utilità economica non è sufficiente per esaminare il passaggio da una forma di organizzazione economica ad un'altra; occorre tener conto anche del criterio politico, cioè se il passaggio sia stato obbiettivamente necessario e corrispondente a un interesse generale certo, anche se a scadenza lunga. Che l'unificazione della penisola dovesse costare sacrifizi a una parte della popolazione per le necessità inderogabili di un grande Stato moderno è da ammettere; però occorre esaminare se tali sacrifizi sono stati distribuiti equamente e in che misura potevano essere risparmiati e se sono stati applicati in una direzione giusta. Che l'introduzione e lo sviluppo del capitalismo in Italia non sia avvenuto da un punto di vista nazionale, ma da angusti punti di vista regionali e di ristretti gruppi e che abbia in gran parte fallito ai suoi compiti, determinando un'emigrazione morbosa, mai riassorbita e di cui mai è cessata la necessità, e rovinando economicamente intere regioni, è certissimo. L'emigrazione infatti deve essere considerata come un fenomeno di disoccupazione assoluta da una parte, e dall'altra come una manifestazione del fatto che il regime economico interno non assicurava uno standard di vita che si avvicinasse a quello internazionale tanto da non far preferire i rischi e i sacrifizi connessi con l'abbandono del proprio paese a lavoratori già occupati).

Il Morandi non riesce a valutare il significato del protezionismo nello sviluppo della grande industria italiana. Cosí il Morandi rimprovera assurdamente alla borghesia «il proposito deliberato e funestissimo di non aver tentato l'avventura salutare del sud, dove malamente la produzione agricola può ripagare i grandi sforzi che all'uomo richiede». Il Morandi non si domanda se la miseria del Sud non fosse determinata dalla legislazione protezionistica che ha consentito lo sviluppo industriale del Nord e come poteva esistere un mercato interno da sfruttare coi dazi e altri privilegi, se il sistema protettivo si fosse esteso a tutta la penisola, trasformando l'economia rurale del Sud in economia industriale (tuttavia si può pensare a un tale regime protezionistico panitaliano, come un sistema per assicurare determinati redditi a certi gruppi sociali, cioè come un «regime salariale»; e si può vedere qualcosa del genere nella protezione cerealicola, connessa alla protezione industriale, che funziona solo a favore dei grandi proprietari e dell'industria molitoria ecc.). Si rimprovera al Morandi l'eccessiva severità con cui giudica e condanna uomini e cose del passato, poiché basta fare un confronto tra le condizioni prima e dopo l'indipendenza per vedere che qualcosa si è pur fatta.

Pare dubbio che si possa fare una storia della grande industria astraendo dai principali fattori (sviluppo demografico, politica finanziaria e doganale, ferrovie ecc.) che hanno contribuito a determinare le caratteristiche economiche del periodo considerato (critica molto giusta; una gran parte dell'attività della Destra storica da Cavour al 1876 fu dedicata infatti a creare le condizioni tecniche generali in cui una grande industria fosse possibile e un grande capitalismo potesse diffondersi e prosperare; solo con l'avvento della Sinistra e specialmente con Crispi si ha la «fabbricazione dei fabbricanti» attraverso il protezionismo e i privilegi d'ogni genere. La politica finanziaria della Destra rivolta al pareggio rende possibile la politica «produttivistica» successiva). «Cosí, ad esempio, non si riesce a capire come mai vi fosse tanta abbondanza di mano d'opera in Lombardia nei primi decenni dopo la unificazione, e quindi il livello dei salari rimanesse tanto basso, se si rappresenta il capitalismo come una piovra che allunga i suoi tentacoli per far sempre nuove prede nelle campagne, invece di tener conto della trasformazione che contemporaneamente avviene nei contratti agrari ed in genere nell'economia rurale. Ed è facile concludere semplicisticamente sulla caparbietà e sulla ristrettezza di mente delle classi padronali osservando la resistenza che esse fanno ad ogni richiesta di miglioramento delle condizioni delle classi operaie, se non si tiene anche presente quello che è stato l'incremento della popolazione rispetto alla formazione di nuovi capitali». (La quistione però non è cosí semplice. Il saggio del risparmio o di capitalizzazione era basso perché i capitalisti avevano voluto mantenere tutta l'eredità di parassitismo del periodo precedente, affinché non venisse meno la forza politica della loro classe e dei loro alleati).

Critica della definizione di «grande industria» data dal Morandi, il quale, non si sa perché, ha escluso dal suo studio molte delle piú importanti attività industriali (trasporti, industrie alimentari ecc.). Eccessiva simpatia del Morandi per i colossali organismi industriali, considerati troppo spesso, senz'altro, come forme superiori di attività economica, malgrado siano ricordati i crolli disastrosi dell'Ilva, dell'Ansaldo, della Banca di Sconto, della Snia Viscosa, dell'Italgas. «Un altro punto di dissenso, il quale merita di essere rilevato, perché nasce da un errore molto diffuso, è quello in cui l'A. considera che un paese debba necessariamente rimaner soffocato dalla concorrenza degli altri paesi se inizia dopo di essi la propria organizzazione industriale. Questa inferiorità economica, a cui sarebbe condannata anche l'Italia, non sembra affatto dimostrata, perché le condizioni del mercato, della tecnica, degli ordinamenti politici, sono in continuo movimento e quindi le mète da raggiungere e le strade da percorrere si spostano tanto spesso e subitamente che possono trovarsi in vantaggio individui e popoli che erano rimasti piú indietro o quasi non s'erano mossi. Se ciò non fosse si spiegherebbe male come continuamente possono sorgere e prosperare nuove industrie accanto alle piú vecchie nello stesso paese e come abbia potuto realizzarsi l'enorme sviluppo industriale del Giappone alla fine del secolo scorso». (A questo proposito sarebbe da ricercare se molte industrie italiane, invece di nascere sulla base della tecnica piú progredita nel paese piú progredito, come sarebbe stato razionale, non siano nate con le macchine fruste di altri paesi, acquistate a buon prezzo sí, ma ormai superate, e se questo fatto non si presentasse «piú utile» per gli industriali che speculavano sul basso prezzo della mano d'opera e sui privilegi governativi piú che su una produzione tecnicamente perfezionata).

Nel fare l'analisi della relazione della Banca Commerciale Italiana all'assemblea sociale per l'esercizio 1931, Attilio Cabiati (nella «Riforma Sociale» luglio-agosto 1932, p. 464) scrive: «Risalta da queste considerazioni il vizio fondamentale che ha sempre afflitto la vita economica italiana: la creazione e il mantenimento di una impalcatura industriale troppo superiore sia alla rapidità di formazione di risparmio nel paese, che alla capacità di assorbimento dei consumatori interni; vivente quindi per una parte cospicua solo per la forza del protezionismo e di aiuti statali di svariate forme. Ma il patrio protezionismo che in taluni casi raggiunge e supera il cento per cento del valore internazionale del prodotto, rincarando la vita rallentava a sua volta la formazione del risparmio, che per di piú veniva conteso all'industria dallo Stato stesso, spesso stretto dai suoi bisogni, sproporzionati alla nostra impalcatura. La guerra, allargando oltre misura tale impalcatura, costrinse le nostre banche, come scrive la relazione precitata, "ad una politica di tesoreria coraggiosa e pertinace", la quale consisté nel prendere a prestito "a rotazione" all'estero, per prestare a piú lunga scadenza all'interno. "Una tale politica di tesoreria aveva però – dice la relazione – il suo limite naturale nella necessità per le banche di conservare ad ogni costo congrue riserve di investimenti liquidi o di facile realizzo". Quando scoppiò la crisi mondiale, gli "investimenti liquidi" non si potevano realizzare se non ad uno sconto formidabile: il risparmio estero arrestò il suo flusso: le industrie nazionali non poterono ripagare. Sicché, exceptis excipiendis, il sistema bancario italiano si trovò in una situazione per piú aspetti identica a quella del mercato finanziario inglese nella metà del 1931... (l'errore) antico consisteva nell'aver voluto dare vita ad un organismo industriale sproporzionato alle nostre forze, creato con lo scopo di renderci "indipendenti dall'estero": senza riflettere che, a mano a mano che non "dipendevamo" dall'estero per i prodotti, si rimaneva sempre piú dipendenti per il capitale».

Si pone il problema se in un altro stato di cose si potrà allargare la base industriale del paese senza ricorrere all'estero per i capitali. L'esempio di altri paesi (per esempio il Giappone) mostra che ciò è possibile: ogni forma di società ha una sua legge di accumulazione del risparmio ed è da ritenere che anche in Italia si può ottenere una piú rapida accumulazione. L'Italia è il paese, che, nelle condizioni create dal Risorgimento e dal suo modo di svolgimento, ha il maggior peso di popolazione parassitaria, che vive cioè senza intervenire per nulla nella vita produttiva, è il paese di maggior quantità di piccola e media borghesia rurale e urbana che consuma una frazione grande del reddito nazionale per risparmiarne una frazione insufficiente alle necessità nazionali.

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Giuseppe Paratore, La economia, la finanza, il denaro d'Italia alla fine del 1928, «Nuova Antologia», 1° marzo 1929.

Articolo interessante ma troppo rapido e troppo conformista. Da tener presente per ricostruire la situazione del '26 fino alle leggi eccezionali. Il Paratore fa una lista delle principali contraddizioni del dopo guerra: 1) le divisioni territoriali hanno moltiplicato le barriere doganali; 2) ad una complessiva riduzione di capacità di consumo ha risposto dappertutto un aumento di impianti industriali; 3) ad una tendenziale depressione economica, un accentuato spirito di nazionalismo economico (ogni nazione vuole produrre tutto e vuole vendere senza comprare); 4) ad un impoverimento complessivo, una tendenza all'aumento reale delle spese statali; 5) ad una maggiore disoccupazione, una minore emigrazione (nell'anteguerra lasciavano annualmente l'Europa circa 1.300.000 lavoratori, oggi emigrano solo 600-700 mila uomini); 6) la ricchezza distrutta dalla guerra in parte è stata capitalizzata e dà luogo ad interessi che per molto tempo sono stati pagati con altro debito; 7) un indebitamento verso gli Stati Uniti d'America (per debiti politici e commerciali) che se dovesse dar luogo a reali trasferimenti, metterebbe in pericolo qualunque stabilità monetaria.

Per l'Italia il Paratore nota questi elementi della sua situazione post-bellica: 1) considerevole diminuzione del suo capitale umano; 2) debito di circa 100 miliardi di lire; 3) volume di debito fluttuante preoccupante; 4) bilancio statale dissestato; 5) ordinamento monetario sconvolto, espresso da una profonda riduzione e da una pericolosa instabilità del valore interno ed esterno della unità di denaro; 6) bilancia commerciale singolarmente passiva, aggravata da un completo disorientamento dei suoi rapporti commerciali con l'estero; 7) molti ordinamenti finanziari riguardanti la pubblica e privata economia logorati.

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Sui bilanci dello Stato. Vedere i discorsi in Senato dell'on. Federico Ricci, ex Sindaco di Genova. Questi discorsi sono da leggere prima di ogni lavoro sulla storia di questi anni.

Nel discorso del 16 dicembre 1929 sul rendiconto dell'esercizio finanziario 1927-28 il Ricci osservò:

1) A proposito della Cassa d'ammortamento del debito estero istituito con decreto-legge 3 marzo 1926 dopo gli accordi di Washington (14 novembre 1925) e di Londra (27 gennaio 1926): che gli avanzi realizzati sulla differenza fra quota pagata dalla Germania e quota pagata dall'Italia all'America e all'Inghilterra viene imprestata alla Tesoreria che a un certo punto dovrà restituirla (si arriverà a miliardi) quando l'Italia dovrà pagare piú di quanto riceve. Pericolo che la Tesoreria non possa pagare. L'Italia ha ricevuto dalla Germania pagamenti in natura e in denaro. Non vengono piú pubblicati i resoconti dettagliati delle vendite fatte dallo Stato delle merci ricevute dalla Germania, e delle somme realizzate: non si sa se esse sono maggiori o minori di quelle accreditate.

2) A proposito della Cassa d'ammortamento dei debiti interni, istituita con decreto-legge 5 agosto 1927 per provvedere all'estinzione del Consolidato e degli altri debiti di Stato. Doveva essere dotata cogli avanzi di bilancio, coi proventi degli interessi dei capitali, coi ricuperi per capitale e interesse dei prestiti fatti dallo Stato a certe industrie private, ecc. Dopo il primo anno, tutti i cespiti principali sono mancati, specialmente gli avanzi di bilancio. Essa è accreditata semplicemente per tali somme, sicché nei residui passivi il suo credito è di lire 1.728 milioni. Le offerte dei privati nel resoconto ultimo fino al dicembre 1928 sono di 4.800.000 [lire], somma molto inferiore a quella pubblicata nei giornali.

3) Polizze di assicurazione per i combattenti, istituite con decreto-legge 10 dicembre 1917, in ragione di 500 lire per i soldati, 1.000 lire per i sottufficiali e 5.000 lire per gli ufficiali (è esatto? O non si parlava di 1.000 lire per i soldati?) Esse verranno a scadenza nel 1947 o 1948, rappresentando un carico grandissimo per il bilancio (naturalmente gli interessati non hanno avuto quasi nulla e gli accaparratori saranno loro a riscuotere: ecco un argomento interessante). Il Governo con decreto 10 maggio 1923 aveva provvisto alla costituzione di una riserva presso la Cassa depositi e prestiti dando una prima dotazione di 600 milioni e piú di 50 milioni annui. 1600 milioni però non furono mai versati: sono iscritti fra i residui all'attivo come prestito da contrarre al 3,50% (portato poi al 4,75% con decreto 10 maggio 1925, n. 852) e al passivo come credito della C.D.P. Quanto ai 50 milioni, furono inscritti in bilancio per qualche anno e poi intervenne un decreto ministeriale il quale cancellò per l'anno in corso (1927) e per i successivi quel versamento (Decreto ministeriale 6 ottobre 1927, n. 116635). («È curioso (!!?) che sia possibile mutare radicalmente la fisionomia del bilancio solennemente (!) approvato dalle Camere, con semplici decreti ministeriali, che non compaiono sulla "Gazzetta Ufficiale", dei quali lo stesso Capo del Governo potrebbe non saper nulla; e lo stesso ministro competente potrebbe averli firmati inavvertitamente»; queste parole del Ricci sono di colore oscuro).

Una osservazione del Ricci: La Cassa di ammortamento del debito interno, ha fatto un «debituccio» di 80 milioni per ammortizzare il Debito Pubblico!!! La Tesoreria, non sapendo dove sbattere la testa, si fece prestare denaro dall'Alto Commissario della Città di Napoli, dal Consorzio del Porto di Genova, ecc. Si fece prestare dalle Casse d'ammortamento del debito estero e di quello interno, facendo loro un trattamento curioso, non pagando cioè gli interessi!, ecc.

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A proposito dei bilanci. Occorre sempre confrontare il bilancio preventivo normale con le aggiunte, correzioni e variazioni che di solito vengono fatte dopo qualche mese; spesso in questo supplemento di bilancio, si annidano delle voci interessanti (per es. nel preventivo le spese segrete degli Esteri erano 1.500.000: nel supplemento ci fu un aumento di 10.000.000). Certo è che il supplemento interessa meno del preventivo ordinario, e perciò suscita meno curiosità e meno indagini: pare sia ordinaria amministrazione.

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La marina mercantile italiana. Estratti dall'articolo La nostra marina transatlantica di L. Fontana Russo, nella «Nuova Antologia» del 16 aprile 1927.

Le perdite complessive della marina mercantile italiana per sottomarini e sequestri durante la guerra salirono a 872.341 tonn. lorde (238 piroscafi per 769.450 tonn. e 395 velieri per 10.891), cioè il 49% dell'intera flotta, mentre le perdite inglesi furono del 41% e le francesi del 46% («ciò nonostante la piú tarda entrata in guerra, e la ritardata dichiarazione di guerra alla Germania»; A. G.: come spiegare questa percentuale cosí alta?) Inoltre altri 9 piroscafi per 57.440 tonn. affondarono per disgraziati accidenti dovuti allo speciale regime imposto alla navigazione (incagli per sfuggire ad attacchi di sommergibili, collisioni nella navigazione in convoglio ecc.) («quanto fu la percentuale di questi casi nelle altre marine», A. G.; la risposta interessa per giudicare nostra organizzazione e capacità dei comandi; inoltre interessante sapere l'età di questi piroscafi, per vedere come era esposta la vita dei nostri marinai). Il danno finanziario (navi e carico) fu di L. 2.202.733.047, cosí ripartito: naviglio da pesca L. 4.391.706; velieri L. 59.792.591; piroscafi di bandiera nazionale L. 1.595.467.786; piroscafi di bandiera estera noleggiati dall'Italia (216 piroscafi affondati, 2 danneggiati: L. 543.080.964). (Evidentemente questi piroscafi esteri non sono calcolati nel tonnellaggio precedente e anche in questo caso sarebbe interessante sapere se essi furono affondati essendo guidati da personale italiano: inoltre se le altre nazioni subirono perdite dello stesso genere).

Il totale dei carichi perduti fu di 1.271.252 tonn. I rifornimenti italiani durante la guerra furono: 49 mil. di tonn. da Gibilterra e 2 milioni dal Mediterraneo e da Suez. Le perdite subite durante la guerra furono riparate subito. Il naviglio mondiale [perduto] durante la guerra fu di 12.804.902 tonn. (piroscafi e velieri), cioè il 27% del tonnellaggio complessivo. Nel 1913 la marina mondiale era di 43.079.000 tonn.; nel 1919 era di 48 milioni, nel '21 di 58.841.000, nel '26 di 62.671.000. I cantieri, dal '13 al '19, dopo aver colmato le perdite, accrebbero di 4 milioni il tonnellaggio. Le navi impostate furono continuate dopo l'armistizio: cosí si spiega che, nel '19, le navi varate raggiunsero i 7 milioni di tonnellate («ciò spiega la crisi dei noli del dopoguerra, in cui coincise un naviglio anormale con una caduta del commercio»).

Italia. Il 31 dicembre 1914 il nostro naviglio (piroscafi superiori a 250 tonn. lorde) era di 644 piroscafi per tonn. D. W. C. 1.958.838; le perdite al 31 dicembre 1921 furono: piroscafi 354, per tonn. 1.270.348. Della vecchia flotta rimanevano 290 piroscafi, per tonn. 688.496. Fino al 31 dicembre 1921 furono costruiti 122 piroscafi per tonn. D. W. C. 698.979 e comprati all'estero 143 per 845.049, furono ricuperati dalla Regia Marina 60 per 131.725 e incorporati dalla Venezia Giulia 210 per 763.945, cioè l'aumento complessivo fu di 535 per 2.437.698, portando la flotta complessiva a 856 per 3.297.987. Alla fine del 1926 l'Italia aveva costruito inoltre 33 navi per 239.776 tonn. lorde. Le motonavi tendono ad aumentare in confronto dei piroscafi. Le 763.945 tonn. provenienti dalla Venezia Giulia furono il risultato di negoziati al Congresso della Pace con l'Inghilterra, la Francia e la Jugoslavia.

Le perdite della marina di linea (piroscafi per viaggiatori) furono meno gravi che per la flotta da carico e perciò non prontamente riparate. Cosí, nel dopoguerra si ebbe naviglio da carico eccessivo e di linea manchevole. Disarmo e caduta di noli per quello, richiesta e rialzo di noli per questo. Avvenne cosí specializzazione delle compagnie: alcune si dedicarono al carico, altre alla linea, alienando la propria flotta di carico e specializzandosi («teoricamente la specializzazione è un progresso, perché porta a minor costo: ma in caso di crisi di uno o altro ramo, la specializzazione porta al fallimento, perché non esiste piú il compenso reciproco»; A. G.). Alla flotta di linea si pose un problema fondamentale: navi per emigranti o navi per viaggiatori di classe? Le maggiori compagnie si decisero nel senso di dare maggior peso ai piroscafi di lusso. Crisi dell'emigrazione per restrizioni legislative. Cosí si ebbe sviluppo di grandi piroscafi di lusso, per i quali non c'è limitazione di spazio e di comfort dati i noli alti.

Tendenza verso il grande tonnellaggio. Per legge economica del rendimento crescente. L'aumento della lunghezza, altezza, larghezza porta ad un aumento piú che proporzionale della portata utile, cioè dello spazio dedito al carico. Cresce pure, piú che proporzionalmente alla spesa di costruzione e d'esercizio, il rendimento dell'armatore. La velocità invece deve essere moderata, per essere economica (non può oltrepassare per ora i 24 nodi). Altra è la questione per la marina di guerra, i cui scopi sono bellici, non di carattere economico. Le macchine marine capaci di imprimere grandi velocità sono insaziabili divoratrici di combustibile. La velocità segue la legge dei rendimenti decrescenti, all'opposto di quella che regola la portata delle navi. Venti anni fa: velocità di 11 nodi, costo orario 295 lire, 13 nodi 370 lire, 21 nodi 1.800 lire. Al criterio dei viaggi brevi, si sostituí quello dei viaggi comodi («oggi la radio, e specialmente l'aeroplano per chi ha veramente fretta, compensano la relativa scarsa velocità delle navi di lusso; con la radio si può sempre mantenersi in comunicazione e non interrompere gli affari; con l'aeroplano si ottengono due effetti: 1°, percorrere in poche ore spazi relativamente brevi – Parigi-Londra, ecc. – con sicurezza; 2°, i transatlantici trasportano anche aeroplani e giunti a una distanza dal capolinea che dà sicurezza di traversata, permettono ai piú frettolosi di abbreviare il viaggio»; A. G.). Alla velocità di 23 nodi si è giunti sia trasformando le macchine motrici, sia adottando nuovo combustibile. La turbina sostituí le macchine alternative: il motore Diesel tende a sostituire la turbina. Il combustibile liquido sostituisce il carbone. Notevole risparmio che permise una nuova velocità economica (23 nodi).

Nuove e vecchie costruzioni. Una nave nuova, che rappresenti un forte progresso, svaluta subito, automaticamente, tutte le precedenti. Il vecchio naviglio deve essere radiato, trasformato se possibile, o adibito ad altri trasporti. Le vecchie navi rendono poco o nulla (anche se in parte ammortizzate), se non sono addirittura passive. Perciò, dati i continui progressi tecnici, gli attuali transatlantici devono ammortizzare il capitale in poco meno d'un decennio. («Ed ecco perché nel valutare l'efficienza reale delle varie flotte nazionali, oltre al numero delle unità e alla somma complessiva delle tonnellate, bisogna badare all'età del naviglio; ciò spiega anche come il rendimento di flotte inferiori per tonnellaggio sia superiore a quello di flotte che statisticamente sono piú elevate: oltre al fatto dei maggiori rischi – assicurazioni – e pericoli per le vite umane rappresentati dalle vecchie navi»).

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La diplomazia italiana. Costantino Nigra e il trattato di Uccialli. Nella «Nuova Antologia» del 16 novembre 1928 in un articolo di Carlo Richelmy, Lettere inedite di Costantino Nigra, è pubblicata una lettera (o estratti di una lettera) del 28 agosto 1896 del Nigra a un «caro amico» che il Richelmy crede di poter identificare col marchese Visconti-Venosta perché con lo stesso, in quei giorni, il Nigra scambiò alcuni telegrammi sul medesimo argomento. Nigra informa che il principe Lobanov (forse ambasciatore russo a Vienna, dove il Nigra era ambasciatore) lo ha informato di alcune pratiche che il Negus Menelik ha fatto presso lo Zar. Il Negus aveva fatto sapere allo Zar di essere disposto ad accettare la mediazione della Russia per la conclusione della pace coll'Italia ecc. Il Nigra conchiude: «Per me è evidente una cosa. Dopo l'affare del trattato di Uccialli, il Negus è diffidente verso di noi, sospettando sempre che dal nostro plenipotenziario gli si cangino le clausole pattuite. Questa diffidenza, che è invincibile, ha consigliato il Negus di chiedere di trattare per mezzo della Russia al fine di avere un testimone idoneo e potente. La cosa è dura per il nostro amor proprio, ma ormai il nostro paese deve persuadersi che quando si adoperano diplomatici come Antonelli, generali come Baratieri, e ministri come Mocenni, non si possono avere pretese soverchie». («Mani vuote, ma sporche» – machiavellismo da rigattieri ecc.).

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La diplomazia italiana prima del 1914. Un documento molto interessante e curioso su questo argomento è il volume di Alessandro De Bosdari, Delle guerre balcaniche, della grande guerra e di alcuni fatti preceduti ad esse, (ed. Mondadori). La «Nuova Antologia» del 1° settembre 1927 ne riproduce un capitolo: «Lo scoppio della guerra balcanica visto da Sofia», dove si leggono amenità di questo genere: «Non posso negare che la profonda convinzione dell'orientazione austriaca, sicura e permanente guida dello Zar dei Bulgari in tutta la sua politica estera, da me acquisita fin dagli ultimi mesi del 1911, non mi abbia impedito di vederci chiaro nella Lega balcanica e nella imminenza della guerra contro la Turchia. A tanti anni di distanza non so troppo (!) rimproverarmelo perché se non vidi venire un fatto accessorio (?!) e per cosí dire (!) episodico della politica bulgara, ciò fu unicamente perché vedevo troppo chiara (e lo dice sul serio!) la linea principale. Fu come chi dicesse un fenomeno di presbitismo politico, ed in politica il presbitismo è migliore della miopia, come questa è senza dubbio migliore di quella cecità assoluta di cui debbo dire a mio discarico (!), fecero prova, in quella ed in tante susseguenti occasioni, molti miei colleghi».

Il brano è interessante anche da altri punti di vista, oltre quello particolare del giudizio sulla diplomazia italiana. Il candore ameno porta il De Bosdari a dire manifestamente ciò che altri pensano per giustificare i propri errori e non dicono apertamente in questa forma. Esiste una linea non formata di «fatti accessori» e di «episodi» come dice il De Bosdari? E comprendere una linea non significa riuscire a comprendere e quindi a prevedere e organizzare questa catena di fatti accessori? Chi parla di linea in questo senso, in realtà intende dire una «categoria sociologica», un'«astrazione». Qualche volta indovina? È vero, ma a questo proposito si potrebbe citare il pensiero di Guicciardini sull'«ostinazione».


A proposito dell'incidente del Carthage e del Manouba tra Italia e Francia occorre confrontare la versione che sull'origine dei fatti dà Alberto Lumbroso nel secondo volume della sua opera-zibaldone sulle Origini economiche e diplomatiche della guerra mondiale (Collezione Gatti, ed. Mondadori) col paragrafo di Tittoni (Veracissimus!) dedicato all'incidente stesso nell'articolo I documenti diplomatici francesi (1911-1912), pubblicato nella «Nuova Antologia» del 16 agosto 1929 e forse ristampato in volume (nelle edizioni Treves dei libri di Tittoni). L'esposizione del Tittoni è evidentemente non chiara e reticente: ora egli era appunto l'ambasciatore italiano a Parigi al quale, secondo il Lumbroso, Poincaré si era rivolto assicurandolo che il Carthage e il Manouba non contenevano contrabbando di guerra e pregandolo di telegrafare a Roma perché i due battelli non fossero fermati. È strano come il Tittoni, che è cosí sensibile per tutto ciò che riguarda la sua carriera, non accenni al Lumbroso o per smentirlo o per sminuire l'effetto della sua versione. Bisogna però ricordare che il Tittoni pare abbia in disdegno le abborracciature del Lumbroso, e questi gli rimprovera di non tener conto dei documenti tedeschi sulla guerra e quindi di essere perciò tedescofobo (per ciò che riguarda le responsabilità dello scatenamento del conflitto).


Nella recensione del libro di Salandra La neutralità italiana di Giuseppe A. Andriulli pubblicata nell'ICS del maggio 1928 si accenna al fatto che già prima che Sonnino andasse agli Esteri, il ministro di San Giuliano aveva intavolato trattative con l'Intesa e che i collaboratori di San Giuliano affermavano che queste trattative erano impostate in modo ben diverso che da Sonnino, specialmente rispetto alla parte coloniale. Perché queste trattative furono troncate da Sonnino e si aprirono invece le trattative con l'Austria? Salandra ancora non spiega le ragioni dell'accordo con la Germania del maggio '15 per le proprietà private (accordo fatto subito divulgare dai tedeschi per mezzo del «Bund», giornale svizzero) e le ragioni della ritardata dichiarazione di guerra alla Germania (cosa che creò diffidenza verso l'Italia da parte dell'Intesa, di cui si giovò Sisto di Borbone).

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Tittoni. Ha certamente avuto sempre molta importanza l'opinione di Tittoni nello stabilire i programmi di politica estera del governo dal '23 in poi: seguire l'attività pratica e letteraria di Tittoni in questi anni. Alla sua raccolta di articoli di politica estera del 1928, Quistioni del giorno, ha fatto precedere una interessante prefazione politica il Capo del Governo. Passato di Tittoni. Sua attività. Giudizi su Tittoni di diplomatici stranieri (vedi i Carnets di Georges Louis, ecc.). Suoi rapporti con Isvolsky. (Libro nero di Marchand).

Tittoni come letterato e la sua fissazione linguaiola, curiosa perché la «Nuova Antologia» pubblica cose errorose per la lingua, specialmente traduzioni, ecc. Vedi l'articolo Per la verità storica, firmato «Veracissimus», nella «Nuova Antologia» del 16 marzo-1° aprile 1928: l'autore (Tittoni) vi parla dei suoi rapporti con Isvolsky, dei suoi rapporti con la stampa francese (Isvolsky in un rapporto pubblicato dal Libro Nero aveva accennato al molto denaro che Tittoni distribuí alla stampa al tempo della guerra libica, ecc.), fa degli accenni interessanti al convegno di Racconigi del 1909. Ricordare il libro di Alberto Lumbroso sulle cause economiche della guerra e i suoi accenni a Tittoni (nell'episodio del Carthage e Manouba accennato dal Lumbroso quanta responsabilità spetta a Tittoni?). Nell'articolo c'è anche un accenno rozzo (da mercante di campagna, direbbe Georges Louis) all'ambasciata attuale russa a Parigi e ai suoi possibili contatti col conte Manzoni. (Perché questo animusparticolarmente aggressivo di Tittoni? Ricordare lo scandalo provocato nel 1925 – mi pare – dal Tittoni come Presidente del Senato e per cui il governo dovette domandare scusa. L'episodio piú interessante della vita di Tittoni è la sua permanenza a Napoli come prefetto in un tempo di grandi scandali: nella stampa del tempo si potrà trovare il materiale; forse nella «Propaganda», ecc.).


Per tutto un lungo periodo dovette esistere una specie di censura preventiva o un impegno di non scrivere le proprie memorie da parte dei diplomatici e in genere degli uomini di Stato italiani, tanto poca è la letteratura in proposito. Dal 1919 in poi abbiamo una certa abbondanza, relativa, ma la qualità è molto scadente. (Le memorie di Salandra sono «inconcepibili» in quella forma pacchiana). Il libro di Alessandro De Bosdari, Delle guerre balcaniche e della grande guerra e di alcuni fatti precedenti ad esse (Milano, Mondadori, 1927, pp. 225, L. 15), secondo una breve nota di P. Silva nell'«Italia che scrive» dell'aprile 1928, è privo d'importanza per il fatto che l'autore insiste specialmente sui fatterelli personali e non sa organicamente rappresentare la propria attività in una esposizione degli avvenimenti che getti su di essi una qualche luce utile. (Su un capitolo di questo libro, pubblicato dalla «Nuova Antologia» ho scritto una nota a proposito dei giudizi del Bosdari sulla diplomazia italiana).

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La quistione italiana. Sono da vedere i discorsi tenuti dal Ministro degli Esteri Dino Grandi al Parlamento nel 1932 e le discussioni che da quei discorsi derivarono nella stampa italiana e internazionale. L'on. Grandi impostò la quistione italiana come quistione mondiale, da risolversi necessariamente insieme alle altre che costituiscono l'espressione politica della crisi generale del dopoguerra, intensificatasi nel 1929 in modo quasi catastrofico, e cioè: il problema francese della sicurezza, il problema tedesco della parità di diritti, il problema di un nuovo assetto degli Stati danubiani e balcanici. L'impostazione dell'on. Grandi è un abile tentativo di costringere ogni possibile Congresso mondiale chiamato a risolvere questi problemi (e ogni tentativo della normale attività diplomatica) ad occuparsi della «questione italiana» come elemento fondamentale della ricostruzione e pacificazione europea e mondiale. In che consiste la questione italiana secondo questa impostazione? Consiste in ciò che l'incremento demografico è in contrasto con la relativa povertà del paese, e cioè nell'esistenza di un superpopolamento. Occorrerebbe pertanto che all'Italia fosse data la possibilità di espandersi, sia economicamente, sia demograficamente ecc. Ma non pare che la quistione cosí impostata sia di facile soluzione e non possa dar luogo ad obbiezioni fondamentali. Se è vero che i rapporti generali internazionali, cosí come si vengono sempre piú irrigidendo dopo il 1929, sono molto sfavorevoli all'Italia (specialmente il nazionalismo economico ed il «razzismo» che impediscono la libera circolazione non solo delle merci e dei capitali ma soprattutto del lavoro umano), può anche essere domandato se a suscitare e irrigidire tali nuovi rapporti non abbia contribuito e contribuisca tuttora la stessa politica italiana. La ricerca principale pare debba essere in questo senso: il basso saggio individuale di reddito nazionale è dovuto alla povertà «naturale» del paese oppure a condizioni storico-sociali create e mantenute da un determinato indirizzo politico che fanno dell'economia nazionale una botte delle Danaidi? Lo Stato, cioè, non costa troppo caro, intendendo per Stato, come è necessario, non solo l'amministrazione dei servizi statali, ma anche l'insieme delle classi che lo compongono in senso stretto e lo dominano? Pertanto è possibile pensare che senza un mutamento di questi rapporti interni, la situazione possa mutare in meglio anche se internazionalmente i rapporti migliorassero? Può anche essere osservato che la proiezione nel campo internazionale della questione può essere un alibi politico di fronte alle masse del paese.

Che il reddito nazionale sia basso, può concedersi, ma non viene poi esso distrutto (divorato) dalla troppa popolazione passiva, rendendo impossibile ogni capitalizzazione progressiva, sia pure con ritmo rallentato? Dunque la quistione demografica deve essere a sua volta analizzata, e occorre stabilire se la composizione demografica sia «sana» anche per un regime capitalistico e di proprietà. La povertà relativa «naturale» dei singoli paesi nella civiltà moderna (e in tempi normali) ha una importanza anch'essa relativa; tutt'al piú impedirà certi profitti marginali di «posizione» geografica. La ricchezza nazionale è condizionata dalla divisione internazionale del lavoro e dall'aver saputo scegliere, tra le possibilità che questa divisione offre, la piú razionale e redditizia per ogni paese dato. Si tratta dunque essenzialmente di «capacità direttiva» della classe economica dominante, del suo spirito d'iniziativa e di organizzazione. Se queste qualità mancano, e l'azienda economica è fondata essenzialmente sullo sfruttamento di rapina delle classi lavoratrici e produttrici, nessun accordo internazionale può sanare la situazione.

Non si ha esempio, nella storia moderna, di colonie di «popolamento»; esse non sono mai esistite. L'emigrazione e la colonizzazione seguono il flusso dei capitali investiti nei vari paesi e non viceversa. La crisi attuale che si manifesta specialmente come caduta dei prezzi delle materie prime e dei cereali mostra che il problema appunto non è di ricchezza «naturale» per i vari paesi del mondo, ma di organizzazione sociale e di trasformazione delle materie prime per certi fini e non per altri. Che si tratti di organizzazione e di indirizzo politico-economico appare anche dal fatto che ogni paese a civiltà moderna ha avuto «emigrazione» in certe fasi del suo sviluppo economico, ma tale emigrazione è cessata e spesso è stata riassorbita.

Che non si vogliano (o non si possa) mutare i rapporti interni (e neppure rettificarli razionalmente) appare dalla politica del debito pubblico, che aumenta continuamente il peso della passività «demografica», proprio quando la parte attiva della popolazione è ristretta dalla disoccupazione e dalla crisi. Diminuisce il reddito nazionale, aumentano i parassiti, il risparmio si restringe ed è disinvestito dal processo produttivo e viene riversato nel debito pubblico, cioè fatto causa di nuovo parassitismo assoluto e relativo.

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Italia e Yemen nella nuova politica arabica. Articolo di «tre stelle» nella «Rivista d'Italia» del 15 luglio 1927. Trattato di Sana del 2 settembre 1926 tra Italia e Yemen. Lo Yemen è la parte piú fertile dell'Arabia (Arabia felice). È stato sempre autonomo di fatto, sotto una dinastia di imam che discende da el-Usein, secondo figlio del califfo Alí e di Fatimah, figlia di Maometto. Solo nel 1872 i turchi stabilirono il loro dominio nello Yemen. Nel 1903 insurrezione, che nel 1904 trovò nel nuovo imamYahyà ibn-Mohammed Hamid, di 28 anni, il suo capo. Vinto nel 1905, Yahyà riprese la lotta nel 1911 aiutato dall'Italia che era in guerra con la Turchia e consolidò la sua indipendenza. Nella guerra europea Yahyà parteggiò per la Turchia per opporsi alla politica inglese imperniata sull'ingrandimento dello sceriffo Husein (proclamatosi re dell'Arabia il 6 novembre 1916) e sull'indipendenza dell'Asir. Dopo la pace, tramontato il programma unitario di Husein che abdicò nel '24 e nel '25 fu relegato a Cipro, rimase la quistione dell'Asir. L'Asir è un emirato creato durante la guerra italo-turca. Nell'Asir si era stabilito il famoso santone marocchino Ahmed ibn-Idris el-Hasani el-Idrisi, il cui discendente Mohammed Alí, noto come lo sceicco Idris durante la guerra libica, appoggiato dall'Italia, sollevò le tribú dell'Asir. Riconosciuto emiro indipendente dagli Inglesi nel 1914, Mohammed collaborò con Husein ed ebbe dagli Inglesi la Tihamah con Hodeidah; fece la concessione a una compagnia inglese di giacimenti petroliferi delle isole Farsan. Stretto tra Husein a Nord e Yahyà a Sud, l'emiro si legò nel 1920 al sultano del Negged (Ibn Saud) cedendogli, per averne la protezione, Abha, Muhail e Beni Shahr, cioè la parte estrema dell'Asir settentrionale e assicurandogli uno sbocco sul mar Rosso. I Wahhabiti occuparono quelle terre e se ne servirono per combattere meglio l'Heggias (Husein). Nel 1926 (8 gennaio) i Wahhabiti vittoriosi proclamarono Ibn Saud re dell'Heggias. I Wahhabiti si mostravano i piú capaci di unificare l'Arabia; Yahyà con un proclama del 18 giugno 1923 aveva posto la sua candidatura a califfo e a campione della nazione araba. Riuscí con imprese fortunate ad assicurarsi l'effettivo controllo dei numerosi sultanati e tribú del cosí detto Hadramaut e a restringere notevolmente l'hinterland di Aden, senza nascondere le sue mire su Aden stessa. Si gettò poi contro l'emiro dell'Asir (che per lui era un usurpatore) e conquistò tutta la parte meridionale sino a Loheyyah e compresa Hodeidah, venendo a contatto coi Wahhabiti che avevano allargato, a richiesta dell'emiro, la loro occupazione dell'Asir. L'emiro dell'Asir si lasciò spingere dall'ex-senusso ad atti di ostilità verso l'Italia (l'ex-senusso era ospite alla Mecca di Ibn Saud dopo la sua espulsione da Damasco – dicembre 1924 –).

Col trattato italo-yemenita, a Yahyà è riconosciuto il titolo regio e la piena e assoluta indipendenza. Lo Yemen importerà le sue forniture dall'Italia, ecc. (Ibn Saud fece un trattato con l'Inghilterra il 26 dicembre 1915 ed ebbe il possesso non solo del Negged, ma anche di el-Hasa, el-Qatif e Giubeil, in cambio del suo disinteressamento per Koweit, el-Bahrein e Oman che, come è noto, sono sotto il protettorato inglese. In una discussione ai Comuni del 28 novembre 1922 risultò ufficialmente che Ibn Saud percepiva dal governo inglese regolare stipendio. Coi trattati del 1° e 2 novembre 1925, dopo la conquista dello Heggias, Ibn Saud accettò confini molto infelici con l'Irak e la Transgiordania che Husein non aveva voluto accettare, ciò che dimostrò la sua stretta intesa con l'Inghilterra). Il trattato italo-yemenita fece rumore: si parlò di una alleanza politica e militare segreta; in ogni modo i Wahhabiti non attaccarono lo Yemen (si parlò di attriti italo-inglesi ecc.). Rivalità tra Ibn Saud e Yahyà: ambedue aspirano a promuovere e dominare l'unità araba.

Wahhabiti: setta musulmana fondata da Abd-el-Wahhab che cercò di allargarsi con le armi; ebbe molte vittorie ma fu ricacciata nel deserto dal famoso Mehemet Alí e da suo figlio Ibrahim pascià. Il sultano Abdallah, catturato, fu giustiziato a Costantinopoli (dicembre 1818) e suo figlio Turki a stento riuscí a mantenere uno staterello nel Negged. I Wahhabiti vogliono tornare alla pura lettera del Corano, sfrondando tutte le superstrutture tradizionali (culto dei santi, ricche decorazioni delle moschee, pompe religiose). Appena conquistata la Mecca, hanno abbattuto cupole e minareti, distrutto i mausolei di santoni celebri, fra cui quello di Khadigia, la prima moglie di Maometto, ecc. Ibn Saud emanò ordinanze contro il vino e il fumo, per la soppressione del bacio della «pietra nera» e dell'invocazione a Maometto nella formula della professione di fede e nelle preghiere.

Le iniziative puritane dei Wahhabiti sollevarono proteste nel mondo musulmano; i governi di Persia e dell'Egitto fecero rimostranze. Ibn Saud si moderò. Yahyà cerca di speculare su questa reazione religiosa. Yahyà e la maggioranza degli yemeniti seguono il rito zeidita, cioè sono eretici per la maggioranza sunnita degli arabi. La religione è contro di lui, egli cerca di premere perciò sulla nazionalità e sul fatto della sua discendenza dal profeta che gli fa rivendicare la dignità di califfo. (Nel tallero da lui coniato c'è la scritta: «coniato nella sede del califfato a Sana»). La sua regione, essendo delle piú fertili dell'Arabia, e la sua posizione geografica gli danno una certa possibilità economica.

Pare che lo Yemen abbia 170.000 Km2 di superficie, con una popolazione tra 1 e 2 milioni. Sull'altipiano la popolazione è araba pura, bianca, sulla costa è prevalentemente negra. C'è un certo apparato amministrativo, scuole embrionali, esercito con leva obbligatoria. Yahyà è intraprendente e di tendenze moderne sebbene geloso della sua indipendenza. Per l'Italia lo Yemen è la pedina per il mondo arabico.

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Articolo di Roger Labonne nel «Correspondant» del 10 gennaio 1927 su Italia e Asia Minore. L'Italia si interessa per la prima volta nel 1900 dell'Asia Minore: invia una serie di missioni che studiano l'Anatolia meridionale, stabilisce ad Adalia un vice-console, delle scuole, un ospedale, sovvenziona le linee di navigazione che portano la sua bandiera lungo il litorale. S'interessa soprattutto di Smirne, del cui porto fa il centro della sua influenza nel Levante. Gli articoli 8 e 9 del Patto di Londra dicono: «L'Italia riceverà l'intera sovranità del Dodecanneso. In caso di divisione totale o parziale della Turchia, essa otterrà la regione mediterranea che avvicina la provincia di Adalia e che ha già fatto (!) una convenzione coll'Inghilterra». A San Giovanni di Moriana l'Italia precisa nuovamente la sua richiesta (21 aprile 1917). Venizelos, approfittando della partenza di Orlando e Sonnino da Parigi, spinse gli alleati ad assegnare Smirne alla Grecia. Il 1° gennaio 1926, nel discorso di Milano, Mussolini dice: «Bisogna aver fede nella Rivoluzione, che avrà nel 1926 il suo anno napoleonico». Nel '26 non si produsse nulla di veramente notevole, ma per due volte si fu alla vigilia di avvenimenti serii. Cessione di Mossul all'Irak (cioè agli inglesi). La Turchia cedette davanti all'imminenza di un intervento italiano, dopo di aver invano domandato il concorso militare di Mosca in caso di conflitto sul Meandro e sul Tigri. I giornali londinesi confessano ingenuamente che il successo di Mossul è dovuto alla pressione italiana, ma il governo inglese non si preoccupa troppo dell'Italia. Nel gioco anatolico l'Italia ha perduto nel 1926 le sue due carte migliori: con l'accordo di Mossul e con la caduta di Pangalos.


Il «Correspondant» del 25 luglio 1927 (vedi «Rivista d'Italia» del 15 luglio 1927: forse c'è errore nelle date, a meno che la «Rivista d'Italia» non sia uscita molto piú tardi della sua datazione) in un articolo, La pression italienne, ha scritto: «Il Duce, lo teniamo da fonte eccellente, avrebbe già voluto due volte la guerra dopo il suo avvento al potere: due volte il maresciallo Badoglio avrebbe rifiutato di prenderne la responsabilità ed avrebbe domandato ed ottenuto di attendere fino al 1935 per essere sicuro». Il discorso sull'anno cruciale è del giugno 1927: il «Correspondant» cercherebbe quindi di dare una spiegazione di questa determinazione avvenire. Il «Correspondant» è rivista molto autorevole conservatrice-cattolica.

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Italia ed Egitto. Articolo di Romolo Tritoni nella «Nuova Antologia» del 16 aprile 1928, Le Capitolazioni e l'Egitto (che sarebbe un capitolo di un Manuale di questioni politiche dell'Oriente musulmano di prossima pubblicazione ma che non ho visto annunziato o recensito. Il Tritoni è anche autore di un volume, È giunto il momento di abolire le Capitolazioni in Turchia?, pubblicato a Roma nel 1916, e collabora spesso alla «Nuova Antologia» e alla «Politica» di Coppola. Chi è? È uno dei vecchi nazionalisti? Non ricordo. Mi pare serio e informato: è specialista nelle quistioni del prossimo Oriente. Vedere).

È favorevolissimo alle Capitolazioni, specialmente in Egitto, da un punto di vista europeo e italiano: sostiene la necessità della unità fra gli Stati europei nella quistione, ma prevede che questa unità d'azione non sarà mantenuta per il distacco dell'Inghilterra. Coi 4 punti sull'Egitto già l'Inghilterra tentò di staccarsi dall'Europa affermando di riservarsi la «protezione degli interessi stranieri», clausola non chiara perché sembrava che l'Inghilterra si arrogasse la protezione, escludendone le altre potenze; ma fu spiegato che alla prossima conferenza sulle Capitolazioni l'Inghilterra parteciperebbe su di un piede di uguaglianza con gli altri Stati capitolari.

L'Inghilterra ha in Egitto una colonia molto esigua (se si tolgono i funzionari britannici nell'Amministrazione egiziana e i militari) e accettando l'abolizione delle Capitolazioni venderebbe la pelle degli altri. Per ingraziarsi i nazionalisti, metterebbe in cattiva luce gli altri europei (questo è il punto delicato che preme agli italiani: essi vorrebbero aver amici i nazionalisti, ma fare la politica della colonia italiana in Egitto lasciando l'odiosità della situazione creata dall'Europa all'Egitto sulle spalle dell'Inghilterra: vedere nelle riviste i giudizi sugli avvenimenti egiziani nel 1929-30: sono contradditori, impacciati: l'Italia è favorevole alle nazionalità ma... ecc.; la stessa situazione per l'India, ma nell'Egitto gli interessi sono molto forti e le ripercussioni dei giudizi piú immediate).

La colonia italiana in Egitto è molto selezionata, cioè è di quel tipo i cui elementi sono giunti già alla terza o quarta generazione passando dall'emigrato proletario all'industriale, commerciante, professionista; mantenuto il carattere nazionale, aumentano la clientela commerciale dell'Italia, ecc. ecc. (sarebbe interessante vedere la composizione sociale della colonia italiana: è però probabile che un ragguardevole numero di emigrati dopo tre o quattro generazioni sia salito di classe sociale: in ogni modo le Capitolazioni dànno unità alla colonia e permettono ai funzionari italiani e ai borghesi di controllare tutta la massa degli emigrati).

Nei paesi del Mediterraneo dove [sono] abolite le Capitolazioni, l'emigrazione italiana o è cessata, o viene gradualmente eliminata (Turchia) o si trova nelle condizioni della Tunisia, dove si cerca di snazionalizzarla. Abolizione delle Capitolazioni significa snazionalizzazione dell'emigrazione (altra quistione, data dal fatto che l'Italia è potenza esclusivamente mediterranea e ogni mutamento in questo mare la interessa piú che ogni altra potenza).

Naturalmente il Tritoni vorrebbe mantenersi amici gli Egiziani con queste sue opinioni e riconosce che «è di capitale importanza per noi essere amici del loro Paese».

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L'Etiopia d'oggi (articolo della «Rivista d'Italia» firmato tre stelle). L'Etiopia è il solo Stato indigeno indipendente in un'Africa ormai tutta europea (oltre la Liberia). Menelik è stato il fondatore della moderna unità etiopica: i nazionalisti abissini si richiamano a Menelik, il «grande e buono imperatore». Degli elementi che hanno contribuito ad assicurare l'indipendenza dell'Etiopia due sono evidenti: la struttura geografica del paese e la gelosia fra le potenze. La struttura geografica fa dell'Etiopia un immenso campo trincerato naturale, espugnabile solo con forze smisurate e sacrifizi non proporzionati alle scarse risorse economiche che il paese può offrire all'eventuale conquistatore. Lo Scioa, che ha creato l'unità abissina, è a sua volta una fortezza nel campo trincerato e tutto lo guarda e lo domina. Nell'ultimo trentennio è stato creato un esercito imperiale, distinto dai piccoli eserciti dei ras e ad essi superiore tecnicamente; la creazione dell'esercito nazionale è dovuta a Menelik. Già prima della morte di Menelik (1913) la Corte, dato lo sfacelo intellettuale del vecchio imperatore, aveva proclamato (14 aprile 1910) imperatore Ligg Jasu, figlio di una figlia di Menelik, e di ras Mikael. Alla morte di Menelik (11 dicembre 1913) le lotte si scatenarono: Zeoditú, altra figlia di Menelik, e ras Tafari, figlio di ras Makonnen, si coalizzarono e riuscirono ad avere un imponente numero di partigiani. Tafari aveva con sé i giovani. Ras Mikael, tutore di Ligg Jasu minorenne, fu incapace di imporsi alle fazioni e di assicurare l'ordine pubblico come risultò in occasione dell'assalto del 17 maggio 1916 alla Legazione d'Italia. La guerra europea salvò l'Abissinia da un intervento straniero e dette la possibilità all'Abissinia di superare la crisi da sé. Zeoditú e Tafari si unirono per detronizzare Ligg Jasu e dividersi il potere, Zeoditú come imperatrice nominale, l'altro quale erede al trono e reggente (27 settembre 1916). Tafari, appoggiato dai capi militari, ha saputo con energia e scaltrezza ridurre all'obbedienza il paese. Ma il condominio con Zeoditú offrí spesso il destro a intrighi di palazzo non sempre innocui. (Alla fine del '26 o principio del '27) sparirono quasi contemporaneamente il ministro della guerra, fitaurari Hapte Gheorghes e il capo della Chiesa, abuna Mattheos.

La morte dell'abuna ha scatenato la quistione della chiesa nazionale. La chiesa etiopica riconosceva la suprema autorità del patriarca copto di Alessandria che nominava all'alto ufficio di abuna un egiziano (Mattheos era egiziano). Il nazionalismo etiopico vuole un abuna abissino. L'abuna ha in Abissinia una grandissima importanza (piú che l'arcivescovo-primate delle Gallie in Francia) e il fatto che sia straniero presenta dei pericoli, nonostante che la sua autorità sia corretta e in un certo senso controllata dall'echegheh indigeno dal quale dipendono direttamente i numerosi ordini monastici. La parte presa da Mattheos nel colpo di Stato del 27 settembre 1912 a favore di Tafari ha mostrato ciò che potrebbe avvenire. (Quando l'articolo [veniva] pubblicato il patriarca d'Alessandria resisteva ancora alla pretesa abissina: vedere il seguito della quistione). (L'Abissinia ha una capitale religiosa: Aksum). Tafari ha cercato di imprimere un ritmo nuovo alla politica estera abissina. Menelik aveva cercato di limitare la schiavitú e di introdurre l'istruzione obbligatoria, avviando lo Stato verso forme moderne, ma si teneva in un'attitudine di dissidente isolamento. Tafari invece ha cercato di partecipare alla vita europea e si è fatto ammettere nella Lega delle Nazioni, impegnandosi formalmente a estirpare nel piú breve termine possibile la schiavitú. E infatti emanò un bando che imponeva la graduale liberazione degli schiavi, ma finora senza risultato. Gli schiavisti molto forti. (D'altronde l'Etiopia ancora feudale).

Convenzione di Londra del 13 dicembre 1906 fra Italia, Francia, Inghilterra, con cui i tre confinanti si impegnarono: a rispettare lo statu quo politico e territoriale dell'Etiopia; a mantenere, in caso di contese o mutamenti interni, la piú stretta neutralità, astenendosi da ogni intervento negli affari interni del paese; qualora lostatu quo fosse turbato, a cercare di mantenere l'integrità dell'Etiopia, tutelando in ogni caso i rispettivi interessi: per l'Inghilterra il bacino del Nilo e la regolarizzazione delle acque di quel fiume e dei suoi affluenti; per l'Italia l'hinterland dei suoi possedimenti dell'Eritrea e della Somalia e l'unione territoriale tra essi ad ovest di Addis Abeba; per la Francia l'hinterland di Gibuti e la zona necessaria per la costruzione e il traffico della ferrovia Gibuti - Addis Abeba. Le tre potenze si impegnavano di aiutarsi scambievolmente per la protezione dei loro rispettivi interessi.

L'accordo fu concepito in pieno «giro di valzer» dell'Italia con le potenze occidentali, e cioè in pieno sviluppo di quel vasto programma di intese mediterranee (l'accordo di Londra era stato conchiuso in massima il 6 luglio, tre mesi dopo Algesiras) che fu troncato un paio d'anni dopo sotto il ricatto (!) dello stato maggiore austriaco. Cosí alla politica di cooperazione succedette una lotta a colpi di spillo: la sola a guadagnarci fu la Francia che poté prolungare la ferrovia fino ad Addis Abeba (la diplomazia sostiene che l'accordo di Londra fu sottoposto preventivamente a Menelik e firmato solo quand'egli ebbe dato il nulla osta ai ministri delle tre potenze accreditati presso di lui, cosicché le stipulazioni dell'accordo sarebbero anche concessioni implicitamente (!) promesse dall'Abissinia, qualcosa come la situazione del famoso trattato di Uccialli, ancora peggiorato).

Dopo la guerra europea, durante le trattative per i compensi coloniali fissati dal patto di Londra, l'Italia propose di ravvivare l'accordo del 1906, volendo risolvere il problema del congiungimento ferroviario tra l'Eritrea e la Somalia. Ma Londra e Parigi rifiutarono. La Francia non aveva nulla da chiedere all'Abissinia dopo la ferrovia Gibuti - Addis Abeba; l'Inghilterra credeva di ottenere tutto senza unirsi all'Italia. Ma l'Inghilterra fece poi l'accordo del 1925 (due note scambiate tra Mussolini e l'ambasciatore inglese a Roma il 14 e il 20 dicembre 1925). Per esso: l'Italia si impegna ad appoggiare l'Inghilterra nei suoi tentativi per ottenere dall'Etiopia la concessione di lavori di sbarramento al Lago Tana, nella zona che nel 1906 era riservata all'influenza italiana e la concessione di un'autostrada fra il Sudan e il Tana; l'Inghilterra ad appoggiare l'Italia per ottenere la costruzione e l'esercizio di una ferrovia tra l'Eritrea e la Somalia italiana ad ovest di Addis Abeba; l'Inghilterra riconosce all'Italia l'influenza esclusiva (!) nella zona occidentale dell'Etiopia e in tutto il territorio destinato ad essere attraversato dalla ferrovia, con l'impegno da parte dell'Italia di non compiere in quella zona, sulle sorgenti del Nilo Azzurro e del Nilo Bianco e dei loro affluenti, alcuna opera che possa sensibilmente modificare il loro afflusso nel fiume principale. La Francia sollevò gran rumore su questo accordo, presentato come una minaccia dell'indipendenza abissina. La campagna francese ebbe gravi ripercussioni sul nazionalismo etiopico. Ras Tafari [ha] creato due tipografie per la stampa in lingua amarica: sviluppo di letteratura nazionalista incoraggiato da Tafari: xenofobia. Il Giappone è il modello del nazionalismo abissino.

L'articolo della «Rivista d'Italia» riporta brani di articoli e opuscoli: uno studente che [è stato] educato in America scrive: «Impariamo fortemente, apprendiamo molto, perché non vengano gli stranieri a governarci!... Dobbiamo studiare piú che possiamo, perché, se non studiamo, la nostra patria è finita». La Francia desta meno sospetti ad Addis Abeba, perché dopo Fascioda, Gibuti ha per essa solo l'importanza di uno scalo sulla via dell'Indocina. Inoltre, la ferrovia Gibuti - Addis Abeba, che serve tutto il traffico esterno dell'Etiopia, dà alla Francia un monopolio che essa vorrebbe conservare: la Francia può quindi fare una politica di apparente disinteressamento. Ma Ras Tafari vuol far progredire l'Etiopia e quindi [è] favorevole ad altre ferrovie, opere idrauliche ecc.

Esiste ancora tra l'Etiopia e l'Italia una piccola quistione a proposito dei confini tra Etiopia e Somalia. Quando dopo la convenzione di Addis Abeba del 16 maggio 1908 fu definita la frontiera, la missione Citerni eseguí il tracciato sul terreno per quel che riguardava il Benadir. Si lasciò da parte la frontiera del sultanato di Obbia che non presentava urgenza data la speciale situazione di quel protettorato. Ma oggi Obbia [è] occupata dalle armi italiane e bisognerà fissare il tracciato del confine con l'Etiopia.

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Roberto Cantalupo, La Nuova Eritrea, «Nuova Antologia», 1° ottobre 1927. (Funzioni dell'Eritrea: 1) economica: intensificare la sua capacità produttiva e commerciale di esportazione e di importazione, cercando di farne un complemento della Madre Patria e di renderla attiva finanziariamente; 2) politica: dare all'Eritrea una posizione e una funzione tali da rendere possibile un maggior contatto con gli stati arabici della riva asiatica del Mar Rosso, nel restaurare i rapporti economici tra Asmara ed il confinante Ovest etiopico, in modo che l'Eritrea diventi il naturale sbocco al mare delle regioni dell'Abissinia settentrionale e naturale porto di transito delle zone centrali e meridionali della Penisola arabica, dopo che Porto Sudan è diventato sbocco di tutto l'Ovest sudanese e entrepôt dell'Arabia settentrionale).

Dati del Cantalupo ormai invecchiati. Problemi dell'Etiopia: oltre a lotta d'influenza tra Inghilterra, Italia, Francia, potenze confinanti, quali influssi esercitano o possono esercitare ad Addis Abeba gli Stati Uniti e la Russia. Come unico Stato indigeno libero dell'Africa, l'Etiopia può diventare la chiave di tutta la politica mondiale africana, cioè il punto di collisione delle tre potenze mondiali (Inghilterra, Stati Uniti, Russia). L'Etiopia potrebbe mettersi alla testa di un movimento per l'Africa agli Africani.

Sulla situazione sociale etiopica, in cui la chiesa [ha] grande importanza per struttura feudale, cfr. Alberto Pollera, Lo Stato etiopico e la sua Chiesa, pubblicato a cura della Regia Società Geografica (il Pollera è un funzionario coloniale italiano).

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Il nazionalismo italiano. Primo congresso del Partito Nazionalista (Associazione Nazionalista) a Firenze nel dicembre 1910, con la presidenza di Scipio Sighele: Gualtiero Castellini, Federzoni, Corradini, Paolo Arcari, Bevione, Bodrero, Gray, Rocco, Del Vecchio. Gruppo ancora indistinto, che cercava di cristallizzare intorno ai problemi della politica estera e dell'emigrazione le correnti meno pacchiane del tradizionale patriottismo (è un'osservazione poco fatta che in Italia, accanto al cosmopolitismo e apatriottismo piú superficiale è sempre esistito uno sciovinismo frenetico, che si collegava alle glorie romane e delle repubbliche marinaresche e alle fioriture individuali di artisti, letterati, scienziati di fama mondiale. Lo sciovinismo italiano è caratteristico ed ha dei tipi assolutamente suoi: esso era accompagnato da una xenofobia popolaresca anch'essa caratteristica). Il primo nazionalismo comprendeva molti democratici e liberali e anche massoni. Poi il movimento si andò distinguendo e precisando per opera di un piccolo gruppo di intellettuali che saccheggiarono le ideologie e i modi di ragionare secchi, imperiosi, pieni di mutria e di suffisance di Carlo Maurras: Coppola, Forges Davanzati, Federzoni. (Importazione sindacalista nel nazionalismo). In realtà i nazionalisti erano antirredentisti: la loro posizione fondamentale era antifrancese. Subirono l'irredentismo perché non volevano fosse un monopolio dei repubblicani e dei radicali massoni, cioè un'arma dell'influenza francese in Italia. Teoricamente la politica estera dei nazionalisti non aveva fini precisi: si poneva come una astratta rivendicazione imperiale contro tutti; in realtà voleva sopprimere la francofilia democratica e rendere popolare la alleanza tedesca.

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Direzione politico-militare della guerra 1914-1918. Confronta l'articolo di Mario Caracciolo (colonnello) Il comando unico e il comando italiano nel 1918 nella «Nuova Antologia» del 16 luglio 1929. Molto interessante e indispensabile per compilare definitivamente questa rubrica. Il Caracciolo è scrittore militare molto serio e che difficilmente si lascia trasportare dalla retorica. Ha scritto un volume nella Collezione Gatti presso Mondadori, Le truppe italiane in Francia.

Per ora mi interessa un particolare (che potrebbe apparire nella rubrica «Passato e presente»), legato alla ripetuta affermazione del Caracciolo della insufficienza dell'apparato industriale italiano: verso il gennaio-febbraio 1918 (cfr. il volume del Caracciolo citato per stabilire esattamente il fatto) l'Italia mandò in Francia 60.000 uomini, lavoratori ausiliari, «che avevamo disponibili perché la nostra industria ancora non aveva potuto darci tutte le armi necessarie per armarli». Questo elemento può dar luogo ad alcune conseguenze: 1) Come sia politicamente erroneo chiamare «imboscati» gli addetti all'industria in tempo di guerra. Erano essi necessari e indispensabili all'attività bellica? Erano tanto necessari che risulta esserci stati troppo pochi «imboscati», tanto da rendere inutilizzabili in Italia 60.000 uomini. Questa propaganda contro i pseudo-imboscati ebbe conseguenze deplorevoli: già prima dell'armistizio furono mandati a Torino dei reparti d'assalto che incominciarono subito la caccia all'«imboscato»; all'uscita dalle officine gli uomini dal bracciale di esonero, e poi nelle vie centrali, erano aggrediti, bastonati e spesso sfregiati in faccia; gli avvenimenti alla spicciolata culminarono nella notte di capodanno 1919 coi fatti di palazzo Siccardi. La censura non permise di fare neanche un cenno a questi avvenimenti.

2) La contrapposizione di combattenti e di esonerati e imboscati da fatto privato diventò fatto di diritto pubblico e ciò è l'aspetto piú grave della quistione, perché lasciò formarsi l'opinione che gli esonerati fossero dei veri «imboscati», non elementi indispensabili per l'attività bellica anche se non combattenti, con sanzione ufficiale. Per legge si deve preferire un ex combattente nelle officine, ecc. (Se nelle officine ci furono degli imboscati veri questi sono da ricercare specialmente nei tecnici di secondo grado: la riduzione al minimo delle operazioni di lavoro determinata dal limitato numero di oggetti fabbricati e dalla loro struttura elementare e il lavoro a serie, avevano ridotto la funzione da quella di maestro d'arte a quella di pura sorveglianza disciplinare: ciò unito all'ampliamento degli impianti dette la possibilità di imboscarsi a molta gente che non aveva mai avuto a che fare coll'industria; questi sono veri imboscati, perché il posto poteva essere assegnato a dipendenti anziani della fabbrica stessa. Cosí non può parlarsi di imboscati per i contadini che entrarono allora in quantità notevoli nelle fabbriche, direttamente dalle campagne o comandati dall'autorità militare. A Torino, la manovalanza delle officine era in gran parte costituita da soldati comandati d'origine contadina). In questi regolamenti sulla assunzione dei disoccupati non si fa neanche il caso speciale dei riformati, per i quali non essere stati combattenti è stato ancora piú involontario.

In Italia, col ristretto apparato industriale in confronto delle necessità del tempo di guerra, il problema è spinoso: necessariamente, l'industria metallurgica e meccanica, ma parzialmente anche altre industrie (chimiche, del legno, tessili) devono essere mobilitate e siccome la produzione deve essere teoricamente illimitata, anche ampliate: quindi non solo devono rimanere in officina le maestranze vecchie, ma dovranno farsi nuove assunzioni. La composizione dell'esercito sarà perciò in prevalenza contadina, mentre la maggior parte degli operai, o almeno una porzione ragguardevole, dovrà lavorare per l'attrezzamento e il munizionamento. Fare di questa necessità un elemento di agitazione demagogica e sanzionarla di inferiorità per gli addetti all'industria, potrà avere questa conseguenza (in assenza di una soluzione organica che è difficile: rotazione tra officina e fronte, ecc.): che realmente nelle officine vorranno rimanere i panciafichisti e che il problema della produzione subirà una crisi, cioè la guerra potrà essere perduta nelle officine per mancanza di rendimento.


Nella «Nuova Antologia» del 16 giugno 1929 è pubblicata una piccola nota a firma G. S. (o non era forse C. S., cioè Cesare Spellanzon? Sarebbe grossa!) Beneš l'immemore, abbastanza curiosa, perché si afferma che la «politica delle nazionalità» fu voluta dai nostri piú avveduti uomini politici, caldeggiata con pronto intuito dai maggiori giornali dell'interventismo, adottata spontaneamente dal governo italiano. È vero che G. S. scrive che questa politica si precisava sin d'allora «nei suoi veri termini», cioè favorevole specialmente all'Italia, ma non è neppure vero in questo senso ristretto, perché la politica delle nazionalità si «impose» solo dopo l'ottobre 1917. Ora G. S. si lamenta che Beneš nei suoi Souvenirs de guerre et de révolution (Ernest Leroux, Parigi) attenui i ricordi dell'amicizia «bellica» e giunga alla conclusione che tutti i guai dell'Italia durante e dopo la guerra siano da attribuirsi alla mancanza di chiarezza e di decisione della politica di guerra del paese.


In alcuni paesi la formazione delle truppe scelte d'assalto è stata catastrofica, a quanto pare: si è mandato alla distruzione la parte combattiva dell'esercito, invece di tenerla come elemento «strutturale» del morale della massa dei soldati. Secondo il generale Krasnov (nel suo famigerato romanzo) questo appunto era successo in Russia già nel 1915. Questa osservazione può valere come correttivo critico delle recenti opinioni espresse dal generale tedesco von Seeckt sulle armate specializzate di mestiere, che sarebbero buone specialmente per l'offensiva.

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Caporetto. Sul libro del Volpe Ottobre 1917. Dall'Isonzo al Piave, cfr. la recensione di Antonio Panella nel «Pègaso» dell'ottobre 1930. La recensione è benevola ma superficiale. Caporetto fu essenzialmente un «infortunio militare»; che il Volpe abbia dato, con tutta la sua autorità di storico e di uomo politico, a questa formula il valore di un luogo comune soddisfa molta gente che sentiva tutta l'insufficienza storica e morale (l'abbiezione morale) della polemica su Caporetto come «crimine» dei disfattisti o come «sciopero militare». Ma è troppa la compiacenza per la validità di questo nuovo luogo comune, perché non debba esserci una reazione, che d'altronde è piú difficile di quella al precedente luogo comune, come appare dalla critica fatta dall'Omodeo al libro del Volpe. «Assolti» i soldati, la massa militare esecutiva e strumentale («l'outil tactique élémentaire» come Anatole France fa dire a un generale dei soldati), si sente che il processo non è finito: la polemica tra il Volpe e l'Omodeo sugli «ufficiali di complemento» è interessante come indizio. Pare, dall'Omodeo, che il Volpe misconosca l'apporto bellico degli ufficiali di complemento, cioè della piccola borghesia intellettuale e quindi indirettamente indichi questa come responsabile dell'«infortunio», pur di salvare la classe superiore, che è già messa al sicuro dalla parola «infortunio». La responsabilità storica deve essere cercata nei rapporti generali di classe in cui soldati, ufficiali di complemento e stati maggiori occupano una posizione determinata, quindi nella struttura nazionale, di cui sola responsabile è la classe dirigente appunto perché dirigente (vale anche qui l'«ubi maior, minor cessat»). Ma questa critica che sarebbe veramente feconda, anche dal punto di vista nazionale, brucia le dita.


Cfr. il libro del gen. Alberto Baldini sul generale Diaz (Diaz, in 8°, pp. 263, Barbèra ed., L. 15, 1929). Il generale Baldini pare critichi implicitamente Cadorna e cerchi di dimostrare che Diaz ebbe una importanza molto maggiore di quanto non gli sia riconosciuta.

In questa polemica sul significato di Caporetto bisognerebbe fissare alcuni punti chiari e precisi:

1) Caporetto fu un fatto puramente militare? Questa spiegazione pare ormai acquisita agli storici della guerra, ma essa è basata su un equivoco. Ogni fatto militare è anche un fatto politico e sociale. Subito dopo la sconfitta si cercò di diffondere la convinzione che le responsabilità politiche di Caporetto fossero da ricercare nella massa militare, cioè nel popolo e nei partiti che ne erano l'espressione politica. Questa tesi è oggi universalmente respinta, anche ufficialmente. Ma ciò non vuol dire che Caporetto perciò solo diventi puramente militare, come si tende a far credere, come se fattore politico fosse solo il popolo, cioè i responsabili della gestione politico-militare. Anche se fosse dimostrato (come invece si esclude universalmente) che Caporetto sia stato uno «sciopero militare», ciò non vorrebbe dire che la responsabilità politica debba essere accollata al popolo ecc. (dal punto di vista giudiziario può spiegarsi, ma il punto di vista giudiziario è un atto di volontà unilaterale tendente a integrare col terrorismo l'insufficienza governativa): storicamente, cioè dal punto di vista politico piú alto, la responsabilità sarebbe sempre dei governanti, e della loro incapacità a prevedere che determinati fatti avrebbero potuto portare allo sciopero militare e quindi a provvedere a tempo, con misure adeguate (sacrifici di classe) a impedire una tale possibile emergenza. Che ai fini immediati di psicologia della resistenza, in caso di forza maggiore, si affermi che «occorre rompere i reticolati coi denti» è comprensibile, ma che si abbia la convinzione che in ogni caso i soldati debbano rompere i reticolati coi denti, perché cosí vuole l'astratto dovere militare, e si trascuri di provvederli delle tenaglie, è criminoso. Che si abbia la convinzione che la guerra non si fa senza vittime umane è comprensibile, ma che non si tenga conto che le vite umane non debbono essere sacrificate inutilmente, è criminoso ecc. Questo principio, dal rapporto militare si estende al rapporto sociale. Che si abbia la convinzione, e la si sostenga senza limitazioni, che la massa militare debba fare la guerra e sopportarne tutti i sacrifizi, è comprensibile, ma che si ritenga che ciò avverrà in ogni caso senza tener conto del carattere sociale della massa militare e senza venire incontro alle esigenze di questo carattere, è da semplicioni, cioè da politici incapaci.

2) Cosí la responsabilità, se è esclusa quella della massa militare, non può neanche essere del capo supremo, cioè di Cadorna, oltre certi limiti, cioè oltre i limiti segnati dalle possibilità di un capo supremo, della tecnica militare, e delle attribuzioni politiche che un capo supremo ha in ogni caso. Cadorna ha avuto gravi responsabilità, certamente, sia tecniche che politiche, ma queste ultime non possono essere state decisive. Se Cadorna non ha capito la necessità di un «governo politico determinato» delle masse comandate e non le ha esposte al governo, è certo responsabile, ma non quanto il governo e in generale quanto la classe dirigente, di cui, in ultima analisi, ha espresso la mentalità e la comprensione politica. Il fatto che non ci sia stata una analisi obbiettiva dei fattori che hanno determinato Caporetto e un'azione concreta per eliminarli, dimostra «storicamente» questa responsabilità estesa.

3) L'importanza di Caporetto nel decorso dell'intera guerra. La tendenza attuale tende a diminuire il significato di Caporetto e a farne un semplice episodio del quadro generale. Questa tendenza ha un significato politico e avrà delle ripercussioni politiche nazionali e internazionali: dimostra che non si vogliono eliminare i fattori generali che hanno determinato la sconfitta, ciò che ha un peso nel regime delle alleanze e nelle condizioni che saranno fatte al paese nel caso di una nuova combinazione bellica, poiché le critiche di se stessi che non si vogliono fare nel campo nazionale per evitare determinate conseguenze necessarie all'indirizzo politico-sociale, saranno fatte indubbiamente dagli organismi responsabili degli altri paesi in quanto l'Italia è presunta poter far parte di alleanze belliche. Gli altri paesi, nei calcoli in vista di alleanze, dovranno tener conto di nuovi Caporetto e vorranno dei premi di assicurazione, cioè vorranno l'egemonia anche oltre certi limiti.

4) L'importanza di Caporetto nel quadro della guerra mondiale. È data anche dai mezzi forniti al nemico (tutti i magazzini di viveri e di munizioni ecc.) che permisero una piú lunga resistenza, e la necessità imposta agli alleati di ricostituire questi depositi con turbamento di tutti i servizi e piani generali.

È vero che in tutte le guerre e anche in quella mondiale, si ebbero altri fatti simili a Caporetto. Ma occorre vedere (all'infuori della Russia) se ebbero la stessa importanza assoluta e relativa, se ebbero cause simili o paragonabili, se ebbero conseguenze simili o paragonabili per la posizione politica del paese il cui esercito subí la sconfitta. Dopo Caporetto l'Italia, materialmente (per gli armamenti, per gli approvvigionamenti, ecc.) cadde in balia degli alleati, la cui attrezzatura economica non era paragonabile per efficienza. L'assenza di autocritica significa non volontà di eliminare le cause del male ed è quindi un sintomo di grave debolezza politica.

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Gli ufficiali in congedo. Traggo le notizie dal discorso del senatore Libertini tenuto al Senato il 10 giugno 1929. L'Unione Nazionale degli Ufficiali in congedo illimitato (U.N.U.C.I.) è sorta in relazione al R. D. L. 9 dicembre 1926 (n. 2.352) convertito in legge il 12 febbraio 1928 n. 261: diede frutti molto scarsi, perché, dice il Libertini, «mancava in essa lo spirito necessario a darle vita».

(Questa affermazione è interessante, in quanto per «spirito» si intende precisamente la concessione di benefici materiali, i quali, in questo caso, vengono velati eufemisticamente nell'espressione «giuste aspirazioni della benemerita classe degli ufficiali in congedo, i quali sentivano di avere bene meritato dalla Patria per i servizi da loro prestati nella guerra di redenzione ed intendono perciò esser tenuti nella considerazione che meritano, moralmente e materialmente». Se si fosse trattato di classi popolari, non si sarebbe trattato di «spirito» ma di basse avidità materialistiche, suscitate dalla demagogia, ecc. Questo modo di pretendere «gratuitamente» dalle masse popolari ciò che invece è «pagato» alle altre classi è caratteristico dei dirigenti italiani: se le masse rimangono passive, la colpa non è dell'insipienza dei dirigenti e del loro gretto egoismo, ma dei demagoghi: è poi notevole il modo di ragionare per cui è «materialistico» chi vuole migliorare le proprie condizioni economiche ma non è tale chi non vuole peggiorare sia pure di poco le proprie: si domanda «materialisticamente», si rifiuta «idealisticamente»; chi non ha è gretto, chi ha è altruista perché non dà, ecc.).

Nuova legge del 24 dicembre 1928, n. 3.242, che concede benefizi. Il Libertini a questo punto esamina la situazione degli ufficiali in congedo in Jugoslavia e in Francia. In Francia gli ufficiali di riserva, se viaggiano per recarsi alle conferenze ed esercitazioni nelle scuole di perfezionamento fuori residenza, ricevono indennità dai 12 ai 32 franchi giornalieri a seconda della durata dell'assenza; indennità chilometriche di prima classe (tariffa militare) andata e ritorno, ecc. ecc. A partire dal 1° gennaio 1925 l'ufficiale di riserva francese riceve 700 franchi a titolo di indennità di prima vestizione; a chi non ha riscosso questa indennità, si dà un vestito gratis.

In Jugoslavia: sono iscritti all'Albo degli ufficiali in congedo ed ex combattenti costituito nel 1922, 18.000 ufficiali di riserva e 35.000 ex combattenti, cioè a dire la quasi totalità degli ufficiali in congedo. In caso di «servizio» per istruzione, ecc., [sono] vettovagliati, alloggiati e rimborsati delle spese di viaggio.

Ancora a proposito dello «spirito», nel discorso alla Camera il generale Gazzera, sottosegretario alla guerra, ammise che il provvedimento di invitare gli ufficiali in congedo a prestare volontariamente servizio durante il periodo estivo di esercitazioni ha avuto questo risultato: nel 1926 si presentarono 1.007 ufficiali, nel '27 206 e nel 28 165!!

(Lo Stato deve curare gli ufficiali in congedo per due fondamentali ordini di ragioni: la prima di carattere tecnico, perché questi ufficiali, che saranno richiamati come tali in caso di mobilitazione, non perdano la qualifica professionale acquistata e la sviluppino anzi coll'apprendimento teorico-pratico delle innovazioni che vengono introdotte nei sistemi tattici e strategici; la seconda di carattere ideologico facilmente comprensibile.

A proposito dello «spirito» e della «materia» le osservazioni non riguardano naturalmente gli ufficiali, ma i dirigenti. Le cifre del Gazzera sono molto interessanti, piú ancora se si considera che molti sono gli ufficiali appartenenti alle organizzazioni ufficiali politiche: sono da mettere insieme alle cifre sull'appartenenza alle associazioni di propaganda coloniale citate da Carlo Curcio nella «Critica fascista» del luglio 1930: da tener presente per la rubrica Passato e Presente).


Leggere attentamente le discussioni specialmente del Senato sui bilanci militari. Si possono trovare molte osservazioni interessanti sulla reale efficienza delle forze armate e per il confronto tra il vecchio e nuovo regime.

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Per una politica annonaria razionale e nazionale di Guido Borghesani, nella «Nuova Antologia» del 1° luglio 1927, è un mediocre articolo, con dati poco sicuri e elaborati primitivamente. Sostiene la tesi generale che in Italia si consuma troppo grano e che perciò oltre alla lotta per avere un miglior raccolto granario dove è tecnicamente piú produttiva la semina di questo cereale, si dovrebbe tendere a sostituire il grano con altri cibi. La quistione è però questa, che per es. la Francia, le cui abitudini sono nel mangiare molto simili a quelle dell'Italia, non solo consuma per abitante tanto grano quanto l'Italia, ma consuma molto piú di altri cibi fondamentali (zucchero: Francia, kg. 24,5; Italia, kg. 8), (formaggio e burro calcolati in latte: Francia, hl. 3; Italia, hl. 0,8). Il problema del grano in Italia è di miseria, non di soverchio consumo, anche se la tesi generale è giusta, nel senso del grande squilibrio: in Italia il maggior consumo di grano in confronto del granoturco, ecc., è l'unico indice di un certo miglioramento dietetico.

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1919. Articoli della «Stampa» contro i tecnici d'officina e clamorose pubblicazioni degli stipendi piú alti. Bisognerebbe vedere se a Genova, la stampa degli armatori, fece la stessa campagna contro gli stati maggiori quando essi entrarono in agitazione e furono aiutati dagli equipaggi.

IV. Recensioni e note bibliografiche.

Studi particolari su Machiavelli come «economista»: Gino Arias negli «Annali di Economia della Università Bocconi» [pubblica] uno studio dove [si trova] qualche indicazione. (Studio di Vincenzo Tangorra). Pare che lo Chabod, in qualche suo scritto sul Machiavelli, trovi che sia una deficienza del fiorentino, in confronto, per es., al Botero, il fatto della quasi assenza di riferimenti economici nei suoi scritti (sull'importanza del Botero per lo studio della storia del pensiero economico cfr. Mario De Bernardi e recensione di L. Einaudi nella «Riforma Sociale» di marzo-aprile 1932).

Occorre fare alcune osservazioni generali sul pensiero politico del Machiavelli e sul suo carattere di «attualità» a differenza di quello del Botero, che ha carattere piú sistematico e organico sebbene meno vivo e originale. Occorre anche richiamare il carattere del pensiero economico di quel tempo (spunti nel citato articolo dell'Einaudi) e la discussione sulla natura del mercantilismo (scienza economica o politica economica?) Se è vero che il mercantilismo è una [mera] politica economica, in quanto non può presupporre un «mercato determinato» e l'esistenza di un preformato «automatismo economico», i cui elementi si formano storicamente solo a un certo grado di sviluppo del mercato mondiale, è evidente che il pensiero economico non può fondersi nel pensiero politico generale, cioè nel concetto di Stato e delle forze che si crede debbano entrare a comporlo. Se si prova che il Machiavelli tendeva a suscitare legami tra città e campagna e ad allargare la funzione delle classi urbane fino a domandar loro di spogliarsi di certi privilegi feudali-corporativi nei rispetti della campagna, per incorporare le classi rurali nello Stato, si dimostrerà anche che il Machiavelli implicitamente ha superato in idea la fase mercantilista e ha già degli accenni di carattere «fisiocratico», cioè egli pensa a un ambiente politico-sociale che è quello presupposto dall'economia classica.

Il prof. Sraffa attira l'attenzione su un possibile avvicinamento del Machiavelli a un economista inglese del 1600, William Petty, che Marx chiama il «fondatore dell'economia classica» e le cui opere complete sono state tradotte anche in francese. (Marx ne parlerà nei volumi del Mehrwert, Storia delle dottrine economiche).

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La «Rivista d'Italia» del 15 giugno 1927 è interamente dedicata al Machiavelli in occasione del IV centenario della morte. Eccone l'indice: 1) Charles Benoist, Le Machiavélisme perpétuel; 2) Filippo Meda, Il machiavellismo; 3) Guido Mazzoni, Il Machiavelli drammaturgo; 4) Michele Scherillo, Le prime esperienze politiche del Machiavelli; 5) Vittorio Cian, Machiavelli e Petrarca; 6) Alfredo Galletti, Niccolò Machiavelli umanista; 7) Francesco Ercole, Il Principe; 8) Antonio Panella,Machiavelli storico; 9) Plinio Carli, N. Machiavelli scrittore; 10) Romolo Caggese, Ciò che è vivo nel pensiero politico di Machiavelli.

L'articolo del Mazzoni è mediocre e prolisso: erudito-storico-divagativo. Come capita spesso a questo tipo di critici, il Mazzoni non ha ben capito il contenuto letterario della Mandragola, falsifica il carattere di messer Nicia e quindi tutto il complesso dei personaggi, che sono in funzione dell'avventura di messer Nicia; il quale non si aspettava un figlio dall'accoppiamento di sua moglie con Callimaco travestito, ma si aspettava invece di avere la moglie resa feconda per virtú dell'erba mandragola e liberata per l'accoppiamento con un estraneo dalle supposte conseguenze micidiali della pozione, che altrimenti sarebbero state subite da lui stesso. Il genere di scimunitaggine di messer Nicia è ben circoscritto e rappresentato: egli crede che la sterilità delle sue nozze non dipenda da lui stesso, vecchio, ma dalla moglie giovane ma fredda e a questa presunta infecondità della moglie vuole riparare, non col farla fecondare da un altro, ma ottenendo che da infeconda sia trasformata in feconda.

Che messer Nicia si lasci convincere a far accoppiar la moglie con uno che dovrà morire per liberarla da un presunto maleficio che altrimenti sarebbe causa di allontanamento per lui dalla moglie o di morte per lui, è un elemento comico che si trova in altre forme nella novellistica popolare dove si suol dipingere la protervia delle donne che per dare la sicurezza agli amanti si fanno possedere in presenza e col consenso del marito (motivo che, in altra forma, appare anche nel Boccaccio). Ma nella Mandragola è rappresentata la stoltezza del marito e non la protervia della donna, la cui resistenza può essere domata anzi solo con l'intervento dell'autorità materna e di quella del confessore.

L'articolo di Vittorio Cian è anche inferiore a quello del Mazzoni: la retorica stopposa del Cian trova modo di abbarbicarsi anche sul bronzo. È evidente che il Machiavelli reagisce alla tradizione petrarchesca e cerca di spiantarla, nonché di continuarla; ma il Cian vede col senno di poi infantilmente applicato, precursori da per tutto e divinazioni miracolose in ogni frasetta banale e occasionale e distende dieci pagine sull'argomento per non dire che i soliti luoghi comuni amplificati dei manuali per le scuole medie ed elementari.

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Un'edizione delle Lettere di Niccolò Machiavelli è stata fatta dalla Società Editrice «Rinascimento del libro», Firenze, nella «Raccolta nazionale dei classici», curata e con prefazione di Giuseppe Lesca (la prefazione è stata pubblicata nella «Nuova Antologia» del 1° novembre 1929). Le lettere erano già state stampate nel 1883 dall'Alvisi presso il Sansoni di Firenze con lettere di altri al Machiavelli (del libro dell'Alvisi è stata fatta una nuova edizione con prefazione di Giovanni Papini).

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Pasquale Villari, Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, a cura di Michele Scherillo, Ed. Ulrico Hoepli, Milano, 1927, due volumi, L. 60,00. (È la ristampa della nota opera del Villari, con in meno i documenti che nell'edizione Le Monnier occupano l'intero terzo volume e parte del secondo. In questa edizione dello Scherillo i documenti sono stati elencati con cenni sommari sul loro contenuto, in modo che facilmente si può andarli a ricercare nell'edizione Le Monnier).

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In una recensione di Giuseppe Tarozzi del 1° volume sulla Costituzione russa di Mario Sertoli (Firenze, Le Monnier, 1928, in 8°, pp. 435, L. 50) pubblicata dall'«Italia che scrive», è citato un libro del Vorländer Von Machiavelli bis Lenin, senz'altra indicazione. (Sarà da vedere la rassegna sulla letteratura machiavellica piú recente pubblicata nel 1929 dai «Nuovi Studi»).

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Gioviano Pontano. Sua attività politica come affine a quella del Machiavelli. (cfr. M. Scherillo, Origini e svolgimento della letteratura italiana, II, dove [sono] riportati due memoriali del Pontano sulla situazione italiana nel periodo della calata di Carlo VIII; e Gothein, Il Rinascimento nell'Italia Meridionale, tradotto nella Biblioteca storica del Rinascimento, Firenze, 1915). Il Pontano era membro napoletanizzato. (La religione come strumento di governo. Contro il potere temporale del Papa: doversi «li Stati temporali» governare da «re e principi secolari»).

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Gino Arias, Il pensiero economico di Niccolò Machiavelli. (Negli «Annali di Economia» dell'Università Bocconi del 1928 (o '27?).

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Machiavelli ed Emanuele Filiberto. Nel volume miscellaneo su Emanuele Filiberto pubblicato nel 1928 dal Lattes, Torino (pp. 477 in 8°) l'attività militare di Emanuele Filiberto come stratega e come organizzatore dell'esercito piemontese è studiata dai generali Maravigna e Brancaccio.

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Ettore Ciccotti. Il suo volume: Confronti storici, Biblioteca della «Nuova Rivista Storica» n. 10, Società Ed. Dante Alighieri, 1929, pp. XXXIX-262, è stato recensito favorevolmente da Guido De Ruggiero nella «Critica» del gennaio 1930 e invece con molta cautela e in fondo sfavorevolmente da Mario de Bernardi nella «Riforma Sociale» (vedere). Un capitolo del libro del Ciccotti (forse l'introduzione generale) è stato pubblicato nella «Rivista d'Italia» del 15 giugno-15 luglio 1927: «Elementi di "verità" e di "certezza" nella tradizione storica romana» e solo a questo capitolo qui si accenna. Il Ciccotti esamina e combatte una serie di deformazioni professionali della storiografia romana e molte sue osservazioni sono giuste negativamente: è per le affermazioni positive che sussistono dubbi e sono necessarie molte cautele. La recensione del De Ruggiero è molto superficiale: egli giustifica il metodo «analogico» del Ciccotti come un riconoscimento dell'identità fondamentale dello spirito umano, ma cosí si va molto lontano, fino alla giustificazione dell'evoluzionismo volgare e delle leggi sociologiche astratte, che anch'esse, a loro modo, si fondano, con un linguaggio particolare, sull'ipotesi dell'identità fondamentale dello spirito umano.

Uno degli errori teorici piú gravi del Ciccotti pare consista nell'interpretazione sbagliata del principio vichiano che il «certo si converte nel vero». La storia non può essere che certezza (con l'approssimazione della ricerca della «certezza»). La conversione del «certo» nel «vero» può dar luogo a costruzioni filosofiche (della cosí detta storia eterna) che non hanno che poco in comune con la storia «effettuale»: ma la storia deve essere «effettuale » e non romanzata: la sua certezza deve essere prima di tutto certezza dei documenti storici (anche se la storia non si esaurisce tutta nei documenti storici, la cui nozione d'altronde è talmente complessa ed estesa, da poter dare luogo a concetti sempre nuovi sia di certezza che di verità). La parte sofistica della metodologia del Ciccotti appare molto chiara là dove egli afferma che la storia è dramma, perché ciò non vuol dire che ogni rappresentazione drammatica di un dato periodo storico sia quella «effettuale», anche se viva, artisticamente perfetta, ecc. Il sofisma del Ciccotti porta a dare un valore eccessivo alla belletristica storica come reazione all'erudizione pedantesca e petulante: dalle piccole «congetture» filologiche si passa alle «grandiose» congetture sociologiche, con poco guadagno per la storiografia.

In un esame della attività storica del Ciccotti occorre tenere molto conto di questo libro. La «filosofia della prassi» del Ciccotti è molto superficiale: è la concezione di Guglielmo Ferrero e di C. Barbagallo, cioè un aspetto della sociologia positivistica, condita di qualche degnità vichiana. La metodologia del Ciccotti ha dato luogo appunto alle storie tipo Ferrero e alle curiose elucubrazioni del Barbagallo che finisce col perdere il concetto di distinzione e di concretezza «individua» di ogni momento dello sviluppo storico e con lo scoprire due originali degnità: che «tutto il mondo è paese» e che «piú tutto cambia e piú si rassomiglia».

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Corrado Barbagallo. Il suo libro L'oro e il fuoco deve essere esaminato, tenendo conto del partito preso dell'autore di trovare nell'antichità ciò che è essenzialmente moderno, come il capitalismo, la grande industria e le manifestazioni che ad essi sono collegate. Occorre specialmente esaminare le sue conclusioni a proposito delle corporazioni professionali e delle loro funzioni, ponendole a confronto con le ricerche degli studiosi del mondo classico e del Medio Evo. Cfr. le conclusioni del Mommsen e del Marquardt a proposito dei collegia opificum et artificum; per il Marquardt essi erano istituzioni di carattere erariale e servivano all'economia e alla finanza dello Stato in senso stretto e poco o punto istituzioni sociali (cfr. il mir russo). A parte l'osservazione che in ogni caso il sindacalismo moderno dovrebbe trovare corrispondenza in istituzioni proprie degli schiavi del mondo classico. Ciò che caratterizza, da questo punto di vista, il mondo moderno è che al disotto dei proletari non c'è classe alla quale sia proibito l'organizzarsi, come avveniva nel Medio Evo e anche nel mondo classico con ogni probabilità; l'artigiano romano poteva servirsi degli schiavi come lavoranti ed essi non appartenevano certo ai collegia e non è escluso che, nella stessa plebe, qualche categoria non servile fosse esclusa dall'organizzazione.


Quella del Barbagallo sul capitalismo antico è una storia ipotetica, congetturale, possibile, un abbozzo storico, uno schema sociologico, non una storia certa e determinata. Gli storici come il Barbagallo cadono, mi pare, in un errore filologico-critico molto curioso: che la storia antica debba essere fatta sui documenti del tempo, su cui si fanno ipotesi ecc., senza tener conto che tutto lo sviluppo storico susseguente è un «documento» per la storia precedente ecc. Gli emigrati inglesi nell'America del Nord hanno portato con loro l'esperienza tecnico-economica dell'Inghilterra; come mai si sarebbe perduta l'esperienza del capitalismo antico se questo fosse veramente esistito nella misura in cui il Barbagallo lascia supporre o vuole che si supponga?

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Giuseppe Gallavresi, Ippolito Taine storico della Rivoluzione francese, «Nuova Antologia», 1° novembre 1928. Cabanis (Giorgio) 1750-1808, sue teorie materialiste esposte nel libro dedicato allo studio dei rapporti tra le physique et le moral. Il Manzoni ammirava profondamente l'angélique Cabanis e anche quando si convertí continuò ad ammirare questo suo libro. Il Taine discepolo del Cabanis.

Il metodo induttivo e le norme dell'osservazione presi a prestito dalle scienze naturali dovevano portare il Taine, secondo il Gallavresi, alla conclusione che la Rivoluzione francese sia stata una mostruosità, una malattia. «La democrazia egualitaria è una mostruosità alla luce delle leggi della natura; ma il fatto che è stata concepita dall'uomo ed anche realizzata tratto tratto nella storia di taluni popoli deve far riflettere gli spiriti piú riluttanti ad accettare un regime pur cosí convenzionale». (Interessanti questi concetti di «convenzionale», di «artificiale», ecc., applicati a certe manifestazioni storiche: «convenzionale» e «artificiale» sono implicitamente contrapposti a «naturale», cioè a uno schema «conservatore» veramente convenzionale e artificiale perché la realtà lo ha distrutto: in verità i peggiori «scientifisti» sono i reazionari che si proiettano una «evoluzione» di proprio comodo e ammettono l'importanza e l'efficacia dell'intervento della volontà umana fortemente organizzata e concentrata, solo quando è reazionaria, quando tende a restaurare ciò che è stato, come se ciò che è stato ed è stato distrutto non sia altrettanto «ideologico», «astratto», «convenzionale», ecc., di ciò che ancora non è stato effettuato e anzi molto piú).

Questa quistione del Taine e della Rivoluzione Francese deve essere studiata perché ha avuto una certa importanza, nella storia della cultura del secolo scorso: confronta i libri di Aulard contro Taine e le pubblicazioni di Augustin Cochin su tutti e due. Questo articolo del Gallavresi è molto superficiale. (Confronta anche il fatto per cui la letteratura pamphletistica che precedette e accompagnò la Rivoluzione Francese sembra stomachevole agli spiriti raffinati: ma la letteratura gesuitica contro la Rivoluzione fu migliore o non fu peggiore? La classe rivoluzionaria intellettualmente è sempre debole da questo punto di vista: essa lotta per farsi una cultura ed esprimere una classe colta consapevole e responsabile: di piú, tutti i malcontenti e i falliti delle altre classi si buttano dalla sua parte per rifarsi una posizione. Lo stesso non può dirsi della vecchia classe conservatrice, anzi il contrario: eppure la sua letteratura di propaganda è peggiore e piú demagogica, ecc.).

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La scienza della politica e i positivisti. La politica non è che una determinata «fenomenologia» della delinquenza, è la «delinquenza settaria»: questo mi pare il succo del libro di Scipio Sighele, Morale privata e Morale politica, Nuova edizione de La delinquenza settaria riveduta ed aumentata dall'autore, Milano, Treves, 1913 (con in appendice riprodotto l'opuscolo Contro il parlamentarismo). Può servire come «fonte» per vedere come i positivisti intendevano la «politica», sebbene sia superficiale, prolisso e sconnesso. La bibliografia è compilata senza metodo, senza precisione e senza necessità (se un autore è citato nel libro per un'affermazione incidentale, nella bibliografia è riportato il libro da cui [è] presa la citazione). Il libro può servire come elemento per comprendere i rapporti che sono esistiti nel decennio 1890-1900 tra gli intellettuali socialisti e i positivisti della scuola lombrosiana, ossessionati dal problema della criminalità, tanto da farne una concezione del mondo o quasi (cadevano in una strana forma di «moralismo» astratto, poiché il bene e il male era qualcosa di trascendente e di dogmatico, che in concreto coincideva con la morale del «popolo», del «senso comune»). Il libro del Sighele deve essere stato recensito da Guglielmo Ferrero, perché nella bibliografia è citato un articolo del Ferrero Morale individuale e morale politica nella «Riforma Sociale», anno I, n. XI-XII. Libro di Ferri: Socialismo e criminalità; di Turati: Il delitto e la questione sociale. Vedere bibliografia di Lombroso, Ferri, Garofalo (antisocialista), Ferrero, e altri da ricercare.

L'opuscolo contro il parlamentarismo è anch'esso superficialissimo e senza sugo: può essere citato come una curiosità dati i tempi in cui fu scritto: è tutto imperniato sul concetto che le grandi assemblee, i collegi sono organismi tecnicamente inferiori al comando unico o di pochi, come se questa fosse la quistione principale. E pensare che il Sighele era un democratico e che appunto per ciò si staccò a un certo punto dal movimento nazionalista. In ogni caso forse è da collegare questo opuscolo del Sighele alle concezioni «organiche» del Comte.

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La funzione degli intellettuali. Sulla funzione degli intellettuali nello sviluppo della vita politica, sui rapporti del popolo e degli intellettuali è da vedere ciò che scrive il Gioberti specialmente nel Rinnovamento. Il Gioberti non adopera il termine «intellettuali» ma parla dell'«ingegno». È da notare che il Gioberti distingue la democrazia dalla demagogia appunto dalla funzione che nella democrazia ha l'«ingegno».

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G. Gentile e la filosofia della politica. Cfr. l'articolo pubblicato da G. Gentile nello «Spectator» del 3 novembre 1928 e ristampato nell'«Educazione fascista». «Filosofia che non si pensa (!?), ma che si fa, e perciò si enuncia ed afferma non con le formule ma con l'azione». Poiché da quando esiste l'uomo, si è sempre «fatto», è sempre esistita l'«azione», questa filosofia è sempre esistita, è stata pertanto la filosofia di... Nitti e di Giolitti. Ogni Stato ha «due filosofie»: quella che si enuncia per formule ed è una semplice arte di governo, e quella che si afferma con l'azione ed è la filosofia reale, cioè la storia. Il problema è di vedere in che misura queste due filosofie coincidono, divergono, sono in contrasto, sono coerenti intimamente e tra loro. La «formula» gentiliana non è, in realtà, che la mascheratura sofistica della «filosofia» politica piú nota col nome di «opportunismo» ed empirismo. Se Bouvard e Pécuchet avessero conosciuto Gentile, avrebbero trovato nella sua filosofia la giusta interpretazione della loro attività rinnovatrice e rivoluzionaria (nel senso non corrotto della parola, come si dice).

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Il genio nella storia. Nello scritto inedito di Niccolò Tommaseo Pio IX e Pellegrino Rossi pubblicato da Teresa Lodi nel «Pègaso» dell'ottobre 1931 si legge a proposito di Pio IX (p. 407): «E fosse stato anco un genio, gli conveniva trovare aiutatori ed interpreti; perché l'uomo che sorge solo, solo si rimane, e cade assai volte o deserto o calpesto. In ogni educazione e privata e pubblica importa conoscere lo strumento che s'ha tra mani, e chiedergli quel suono ch'ei può dare, e non altro; e prima d'ogni cosa saperlo suonare». Dello stesso Tommaseo: «Io non entro nelle cose private dell'uomo se non quanto aiutino a spiegare le pubbliche»; la proposizione è giusta, anche se il Tommaseo non vi si sia attenuto quasi mai.

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Sul sentimento nazionale. L'editore Grasset ha pubblicato un gruppo di Lettres de jeunesse dell'allora capitano Lyautey. Le lettere sono del 1883 e il Lyautey era allora monarchico, devoto al conte di Chambord; il Lyautey apparteneva alla grande borghesia che era strettamente alleata all'aristocrazia. Piú tardi, morto il conte di Chambord e dopo l'azione di Leone XIII per il ralliement, il Lyautey si uní al movimento di Albert de Mun che seguí le direttive di Leone XIII, e cosí divenne un alto funzionario della Repubblica, conquistò il Marocco, ecc.

Il Lyautey era ed è rimasto un nazionalista integrale, ma ecco come concepiva nell'83 la solidarietà nazionale: a Roma aveva conosciuto il tedesco conte von Dillen, capitano degli ulani, e cosí ne scrisse al suo amico Antoine de Margerie: «Un gentleman, d'une éducation parfaite, de façons charmantes, ayant en toutes choses, religion, politique, toutes nos idées. Nous parlons la même langue et nous nous entendons à merveille. Que veux-tu? J'ai au coeur, une haine féroce, celle du désordre, de la revolution. Je me sens, certes, plus près de tous ceux qui la combattent, de quelque nationalité qu'ils soient, que de tels de nos compatriotes avec qui je n'ai pas une idée commune et que je regarde comme des ennemis publics».

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I filosofi e la Rivoluzione francese. Nello stesso zibaldone il Bonghi scrive di aver letto un articolo di Carlo Louandre nella «Revue des deux mondes» in cui si parla di un giornale (diario) di Barbier allora pubblicato, che riguarda la società francese dal 1718 al 1762. Il Bonghi ne trae la conclusione che la società francese di Luigi XV era peggiore per ogni parte di quella che seguí la rivoluzione. Superstizione religiosa in forme morbose, mentre l'incredulità cresceva nell'ombra. Il Louandre dimostra che i «filosofi» dettero la teoria di una pratica già fatta, non la fecero.

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Giuseppe Ferrari, Corso su gli scrittori politici italiani. Nuova edizione completa con prefazione di A. O. Olivetti. 1928, Milano, Monanni, pp. 700, L. 25.

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Centralismo organico ecc. Lo Schneider cita queste parole di Foch: «Commander n'est rien. Ce qu'il faut, c'est bien comprendre ceux avec qui on a affaire et bien se faire comprendre d'eux. Le bien comprendre, c'est tout le secret de la vie...». Tendenza a separare il «comando» da ogni altro elemento e a farne un «toccasana» di nuovo genere. E ancora occorre distinguere tra il «comando» espressione di diversi gruppi sociali: da gruppo a gruppo l'arte del comando e il suo modo di esplicarsi muta di molto, ecc. Il centralismo organico, col comando caporalesco e «astrattamente» concepito, è legato a una concezione meccanica della storia e del movimento, ecc.

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Italo Chittaro, La capacità di comando, Casa Editrice De Alberti, Roma. Da una recensione di V. Varanini nella «Fiera Letteraria» del 4 novembre 1928 pare che nel libro del Chittaro sono contenuti spunti molto interessanti anche per la scienza politica. Necessità degli studi storici per la preparazione professionale degli ufficiali. Per comandare non basta il semplice buon senso: questo, se mai, è il frutto di un profondo sapere e di lungo esercizio. La capacità di comando è specialmente importante per la fanteria: se nelle altre armi si diventa specialisti di compiti particolari, nella fanteria si diventa specialisti nel comando, cioè del compito di insieme: necessità quindi che tutti gli ufficiali destinati a gradi elevati abbiano tenuto comandi di fanteria (cioè prima di essere capaci a ordinare le «cose» occorre essere capaci a ordinare e guidare gli uomini). Considera infine la necessità della formazione di uno Stato Maggiore numeroso, valido, popolare tra le truppe.

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Scritto dal (generale) Luigi Bongiovanni nella «Nuova Antologia» del 16 gennaio 1934 (La Marna: giudizi in contrasto): «La guerra nel suo duro realismo avanza solo per via di fatti. Ciò che importa è vincere. La vittoria non si misura a sacrifici, ma a risultati. Di piú, la vittoria è sempre l'effetto di una superiorità: anzi, ne è la innegabile constatazione. Quando costa poco sangue, vuol dire che la superiorità era insita in uno dei due contendenti, per effetto di eventi anteriori».

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Carlo Flumiani, I gruppi sociali. Fondamenti di scienza politica, Milano, Istituto Editoriale Scientifico, 1928, pp. 126, L. 20. (Procurarsi il catalogo di questa casa che ha stampato altri libri di scienza politica).

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Rapporti tra città e campagna. Per avere dei dati sui rapporti tra le nazioni industriali e quelle agrarie e quindi spunti per la quistione della situazione di semicolonie dei paesi agrari (e delle colonie interne nei paesi capitalistici) è da vedere il libro del Mihail Manoilesco, La teoria del protezionismo e dello scambio internazionale, Milano, Treves, 1931. Il Manoilesco scrive che «il prodotto del lavoro di un operaio industriale è in generale sempre scambiato con il prodotto del lavoro di parecchi operai agricoli, in media uno contro cinque». Perciò il Manoilesco parla di uno «sfruttamento invisibile» dei paesi industriali sui paesi agricoli. Il Manoilesco è attuale governatore della Banca nazionale rumena e il suo libro esprime le tendenze ultraprotezioniste della borghesia rumena.

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Vittorio Giglio, Milizie ed eserciti d'Italia, in 8°, 404 pp., illustr., L. 80, C. E. Ceschina (Dall'epoca romana alle milizie comunali, all'esercito piemontese, alla M.V.S.N.). Cercare come mai nel '48 in Piemonte non esistesse nessun capo militare e sia stato necessario ricorrere a un generale polacco. Nel Quattrocento-Cinquecento e anche dopo, buonissimi capitani (condottieri, ecc.), sviluppo notevole della tattica e strategia, eppure impossibilità di creare esercito nazionale, per il distacco tra il popolo e le classi alte.

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Su Quintino Sella, cfr. nella «Nuova Antologia» del 16 settembre 1927: P. Boselli, Roma e Quintino Sella; Alberto De Stefani, Quintino Sella (1827-1884) ; Bruno Minoletti, Quintino Sella storico, archeologo e paleografo.

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Storia del dopoguerra. Vedi l'articolo di Giovanni Marietti, Il trattato di Versailles e la sua esecuzione, nei fascicoli del 16 settembre e 16 ottobre 1929 della «Nuova Antologia». È un riassunto diligente dei principali avvenimenti legati all'esecuzione del trattato di Versailles, una trama schematica che può essere utile come inizio di una ricostruzione analitica o per fissare le concordanze internazionali agli avvenimenti interni dei vari paesi.

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Roberto Michels. Nell'articolo Il pangermanismo coloniale tra le cause del conflitto mondiale di Alberto Giaccardi («Nuova Antologia», 16 maggio 1930), a p. 238 è scritto: «Il "posto al sole" reclamato dalla Germania cominciò troppo presto a diventare di una tale ampiezza, che avrebbe ridotto tutti gli altri all'ombra o quasi: perfino al popolo italiano, la cui situazione era analoga a quella del popolo tedesco, un dotto germanico, Roberto Michels, negava il diritto di esigere colonie, perché "l'Italia, pur essendo demograficamente forte, è povera di capitali"». Il Giaccardi non dà il riferimento bibliografico dell'espressione del Michels.

Nel fascicolo del 1° luglio successivo il Giaccardi pubblica una «rettifica» della sua affermazione, evidentemente per impulso del Michels; ricorda: L'Imperialismo italiano del Michels (Milano, 1914, Società editrice libraria) e del 1912 gli Elemente zur Entstehungsgeschichte des Imperialismus in Italien, nell'«Archiv für Sozialwissenschaft», gennaio-febbraio 1912, pp. 91-92, e conclude: «Il che corrisponde perfettamente ai sentimenti di italianità costantemente (!) dimostrati dall'illustre professore dell'Ateneo perugino, che, sebbene renano d'origine, ha scelto l'Italia come sua Patria di adozione, svolgendo in ogni occasione una intensa ed efficace attività in nostro favore».

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Cultura italiana. Vedere l'attività culturale delle «Edizioni Doxa» di Roma: mi pare sia di tendenze protestanti. Cosí l'attività di «Bilychnis». Cosí bisognerà farsi una nozione esatta dell'attività intellettuale degli ebrei italiani in quanto organizzata e centralizzata: periodici come il «Vessillo Israelitico» e «Israel», pubblicazioni di case editrici specializzate, ecc.: centri di cultura piú importanti. In che cosa il nuovo movimento sionista nato dopo la dichiarazione Balfour ha influito sugli ebrei italiani?

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Francia. André Siegfried, Tableau des Partis en France, Paris, Grasset, 1930.

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Alfredo Oriani. È interessante una nota di Piero Zama, Alfredo Orfani candidato politico, nella «Nuova Antologia» del 16 novembre 1928.

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R. Garofalo, Criminalità e amnistia in Italia, «Nuova Antologia» del 1° maggio 1928. Per la figura del Garofalo.

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E. De Cillis, Gli aspetti e le soluzioni del problema della colonizzazione agraria in Tripolitania, «Nuova Antologia», 1° luglio 1928. Vedere la letteratura in proposito e seguire le pubblicazioni del De Cillis. L'articolo è interessante perché realistico.

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Gaspare Ambrosini, La situazione della Palestina e gli interessi dell'Italia, «Nuova Antologia» del 16 giugno 1930. (Indicazioni bibliografiche sulla quistione).

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Andrea Torre, Il principe di Bülow e la politica mondiale germanica, «Nuova Antologia», 1° dicembre 1929 (scritto in occasione della morte del Bülow e in base al libro dello stesso Bülow, Germania imperiale: è interessante e sobrio).

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Stresemann. Cfr. nella «Nuova Antologia» del 16 novembre 1929 l'articolo di Francesco Tommasini, Il pensiero e l'opera di Gustavo Stresemann, interessante per studiare la Germania del dopoguerra e il mutamento nella psicologia dei nazionalisti borghesi e piccolo borghesi.

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Nazionalizzazioni e statizzazioni. Cfr. M. Saitzew, Die öffentliche Unternehmung der Gegenwart, Tübingen, Mohor, 1930, RM. 3,40. Il Saitzew è professore dell'Università di Zurigo. Secondo il Saitzew l'area d'azione delle imprese pubbliche, specialmente in certi rami, è molto maggiore di ciò che si crede; in Germania il capitale delle imprese pubbliche sarebbe un quinto dell'intera ricchezza nazionale (durante la guerra e l'immediato dopoguerra l'impresa pubblica si è dilatata). Il Saitzew non crede che le imprese pubbliche siano una forma di socialismo, ma crede siano parte integrante del capitalismo. Le obbiezioni contro l'impresa pubblica potrebbero farsi anche per le società anonime; si ripetono argomenti che erano buoni quando le imprese private erano individuali, eppure le anonime sono oggi prevalenti ecc.

Sarà utile il volumetto per vedere l'estensione che ha avuto l'impresa pubblica in alcuni paesi: il carattere dell'impresa pubblica non sarebbe, secondo il Saitzew, quello di avere come scopo principale il reddito fiscale, ma quello di impedire che in certi rami, in cui la concorrenza è tecnicamente impossibile, si stabilisca un monopolio privato pericoloso per la collettività.

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La battaglia dello Jütland. È da rivedere la descrizione della battaglia dello Jütland fatta da Winston Churchill nelle sue memorie di guerra. Appare da essa come il piano e la direzione strategica della battaglia da parte del comando inglese e di quello tedesco siano in contrasto con la raffigurazione tradizionale del carattere dei due popoli. Il comando inglese aveva centralizzato «organicamente» l'esecuzione del piano nella nave ammiraglia: le unità della flotta dovevano «attendere ordini» volta per volta. Il comando tedesco invece aveva spiegato a tutti i comandi subalterni il piano strategico generale e aveva lasciato alle singole unità quella certa libertà di manovra che le circostanze potevano richiedere. La flotta tedesca si comportò molto bene. La flotta inglese invece fu impacciata, corse molti rischi, ebbe gravi perdite, e nonostante la sua superiorità, non poté conseguire fini strategici positivi: a un certo punto l'ammiraglio perdette le comunicazioni con le unità combattenti e queste commisero errori su errori. (Sulla battaglia dello Jütland ha scritto un libro Epicarmo Corbino).

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Argus, Il disarmo navale, i sottomarini e gli aeroplani, «Nuova Antologia», 16 novembre 1929. Brevi cenni alle prime trattative tra Stati Uniti e Inghilterra per il disarmo e la parità navale. Accenna anche rapidamente all'innovazione che nell'armamento navale è portata dal sottomarino e dall'aeroplano, che, con costi relativamente bassi, possono dare risultati molto rilevanti, e alla sempre maggiore inutilità delle grandi corazzate.

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Oscar di Giamberardino, Linee generali della politica marittima dell'Impero britannico, «Nuova Antologia», 16 settembre 1928. Utile.

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Istituzioni internazionali. La Camera di Commercio Internazionale. (Un articolo sul IV Congresso della Camera di Commercio Internazionale tenuto a Stoccolma nel giugno-luglio 1927 è nella «Nuova Antologia» del 16 settembre 1927).

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G. B., La Banca dei regolamenti internazionali, «Nuova Antologia», 16 novembre 1929.

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Luigi Villari, L'agricoltura in Inghilterra, «Nuova Antologia», 1° settembre 1930. Interessante.

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Alfonso de Pietri-Tonelli, Wall Street, «Nuova Antologia» del 1° dicembre 1929 (commenta in termini molto generali la crisi di borsa americana della fine del '29: bisognerà rivederlo per studiare l'organizzazione finanziaria americana).

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La Geopolitica. Già prima della guerra Rodolfo Kjellén, sociologo svedese, cercò di costruire su nuove basi una scienza dello Stato o Politica, partendo dallo studio del territorio organizzato politicamente (sviluppo delle scienze geografiche: geografia fisica, geografia antropica, geopolitica) e della massa di uomini viventi in società in quel territorio (geopolitica e demopolitica). I suoi libri, specialmente i due: Lo Stato come forma di vita e Le grandi potenze attuali (Die Grossmächte der Gegenwart, del 1912, rielaborato dall'autore, divenne Die Grossmächte und die Weltkrise, pubblicato nel 1921; il Kjellén [è] morto nel 1922) ebbero grande diffusione in Germania dando luogo a una corrente di studi. Esiste una «Zeitschrift für Geopolitik»; e appaiono opere voluminose di geografia politica (una di esse, Weltpolitisches, Handbuch, vuol essere un manuale per gli uomini di Stato) e di geografia economica. In Inghilterra e in America e in Francia.

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Olii, petrolii e benzine, di Manfredi Gravina nella «Nuova Antologia» del 16 dicembre 1927 (l'articolo continua nella «Nuova Antologia» del 1° gennaio 1928 ed è interessante per avere un accenno generale al problema del petrolio). L'articolo è un riassunto delle recenti pubblicazioni sul problema del petrolio. Estraggo qualche notizia bibliografica e qualche osservazione: Karl Hoffmann, Oelpolitik und angelsächsischer Imperialismus (Ring-Verlag, Berlino, 1927) che il Gravina dice lavoro magistrale, un compendio eccellente dei grandi problemi petrolieri del mondo ed indispensabile per chi voglia, sulla scorta di dati precisi, approfondirne lo studio (con la riserva che vede troppo «petrolio» in ogni atto internazionale). Il «Federal Oil Conservation Board» formato in America nel 1924 con la missione di studiare ogni mezzo atto a razionalizzare l'eccessivo sfruttamento del patrimonio petrolifero americano ed assicurargli il massimo e il migliore rendimento (lo Hoffmann definisce questo Ufficio «grandioso ente di preparazione industriale alla eventuale guerra del Pacifico»). In questo Board il senatore Hughes, già ministro degli affari Esteri, rappresenta gli interessi diretti di due Società del gruppo Standard (la «Standard» di New York e la «Vacuum Oil»). Lo «Standard Oil Trust» costituito nel 1882 da John D. Rockefeller dovette adattarsi alle leggi contro i trusts. La «Standard» di New Jersey è considerata tuttora come una vera e propria centrale della attività petrolifera della Casa Rockefeller: essa controlla il 20-25% della produzione mondiale, il 40-45% delle raffinerie, il 50-60% delle condutture dai pozzi alle stazioni di avviamento. Accanto alla Standard e società affiliate sono sorte altre imprese, fra cui da ricordare i cosí detti Big Independents.

La «Standard» è collegata con il Consorzio Harriman (trasporti ferroviari e marittimi, 8 società di navigazione) e col gruppo bancario Kuhn Loeb & Co. di New York, del quale è a capo Otto Kahn. Nel campo inglese i due gruppi piú importanti sono la «Shell Royal-Dutch» e l'«Anglo-Persian Burmah». Direttore generale della «Shell» è l'olandese sir Henry Deterding. La Shell è asservita all'Impero Inglese nonostante i grandi interessi finanziari e politici dell'Olanda. L'«Anglo-Persian Burmah» può considerarsi governativa britannica e piú specialmente dell'Ammiragliato che vi è rappresentato da tre fiduciari. Presidente dell'«Anglo-Persian» è sir Charles Greenway, coadiuvato da un consulente tecnico, sir John Cadman, che durante la guerra fu a capo del servizio governativo dei petroli. Greenway, Cadman, Deterding e i fratelli Samuel (fondatori della «Shell» inglese poi fusasi colla «Royal-Dutch») sono considerati di fatto i dirigenti della politica petroliera inglese.

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Domenico Meneghini, Industrie chimiche italiane, «Nuova Antologia», 16 giugno 1929.

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Claudio Faina, Foreste, combustibili e carburante nazionale, «Nuova Antologia» del 1° maggio 1928. Interessante. Dimostra che la selvicultura italiana, se coltivata e sfruttata industrialmente, può aumentare di molto il suo rendimento e dare sottoprodotti numerosi. (In questo articolo del Faina, che è il figlio del senatore Eugenio Faina, relatore dell'inchiesta parlamentare sul Mezzogiorno e che si occupa assiduamente di attività organizzative e propagandistiche di carattere agrario – scuole rurali istituite dal padre nell'Umbria, ecc. – si accenna a un disboscamento intensivo e irrazionale nella montagna della Sardegna meridionale per vendere carbone alla Spagna. Ricordare questo accenno alla Sardegna).

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Claudio Faina, Il carburante nazionale, «Nuova Antologia» del 16 aprile 1929 (continua l'articolo dello stesso Faina pubblicato precedentemente dalla «Nuova Antologia»e rubricato altrove).

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Carlo Schanzer, Sovranità e giustizia nei rapporti fra gli Stati, «Nuova Antologia», 1° novembre 1929. Moderato nella forma e nella sostanza. Può essere preso come documento dell'atteggiamento ufficioso del Governo verso la Società delle Nazioni e i problemi di politica internazionale che le sono connessi.

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Giorgio Mortara, Natalità e urbanesimo in Italia, «Nuova Antologia», 16 giugno - 1° luglio 1929.

Tratta le quistioni piú strettamente statistiche, osservando una grande cautela nel dare giudizi, specialmente di portata piú immediata. Il numero annuo dei nati vivi in Italia è andato aumentando, attraverso oscillazioni, nel primo quarto di secolo successivo all'unità nazionale (massimo di 1.152.906 nel 1887), ha declinato gradualmente fino a un minimo di 1.042.090 nel 1903, è risalito ad un massimo secondario di 1.144.410 nel 1910 e si è mantenuto negli anni prima della guerra a 1.100.000. Nel 1920 (molte nozze dopo l'armistizio) si ha il massimo assoluto di 1.158.041, che scende rapidamente a 1.054.082 nel 1927, e circa 1.040.000 nel 1928 (territorio antebellico; nei nuovi confini 1.093.054 nel '27, e 1.077.000 nel '28), cifra la piú bassa negli ultimi 48 anni. In altri paesi la diminuzione assai maggiore. Diminuzione correlativa nelle morti: da un massimo di 869.992 nel 1880 ad un minimo di 635.788 nel 1912, diminuzione che, dopo il periodo bellico, con 1.240.425 morti nel '18, è ricominciata: nel 1927 solo 611.362 morti, nel 1928 614 mila (vecchi confini; nei nuovi confini, 635.996 morti nel '27 e 639.000 nel '28). Cosí l'eccedenza dei nati sui morti nel 1928 è stata di 426.000 circa (nuovi confini 438.000) cioè piú favorevole che nel 1887, in cui solo 323.914, per l'alta percentuale di morti. Il massimo di eccedenza, 448 mila circa, si è avuto nel quinquennio 1910-14. (Si può dire, approssimativamente, che in un certo periodo storico, il grado di benessere di un popolo non può desumersi dal numero alto delle nascite, ma piuttosto dalla percentuale dei morti e dall'eccedenza dei nati sui morti: ma anche in questa fase storica incidono delle variabili che devono essere analizzate, infatti, piú che di benessere popolare assoluto può parlarsi di migliore organizzazione statale e sociale per l'igiene, ciò che impedisce a una epidemia, per esempio, di diffondersi tra una popolazione a basso livello, decimandola, ma non eleva per nulla questo livello stesso, se non si può dire che lo mantenga addirittura, evitando la sparizione dei piú deboli e improduttivi che vivono sul sacrificio degli altri).

Le cifre assolute delle nascite e delle morti danno solo l'incremento assoluto della popolazione. L'intensità dell'incremento è data dal rapporto di questo incremento col numero degli abitanti. Da 39,3 per 1.000 abitanti del 1876 la frequenza delle nascite scende a 26 nel 1928, con una diminuzione del 33%; la frequenza delle morti da 34,2% nel 1867 scende a 15,6 nel '28, con una diminuzione del 54%. La mortalità comincia a discendere nettamente col quinquennio 1876-80; la natalità inizia la discesa nel quinquennio '91-95.

Per gli altri paesi d'Europa, su 1.000 abitanti: Gran Bretagna 17 nati - 12,5 morti, Francia 18,2 - 16,6, Germania 18,4 - 12, Italia 26,9 - 15,7, Spagna 28,6 - 18,9, Polonia 31,6 - 17,4, Urss (europea) 44,9 - 24,4, Giappone 36,2 - 19,2. (I dati si riferiscono, per l'Urss, al 1925, per il Giappone al 1926, per gli altri paesi al 1927).

Per la diminuzione della mortalità il Mortara fissa tre cause principali: progresso dell'igiene, progresso della medicina, progresso del benessere, che riassumono in forma schematica un gran numero di fattori di minore mortalità (un fattore è anche la minore natalità, in quanto le età infantili sono soggette ad alta mortalità). Il fattore preponderante della bassa natalità è la decrescente fecondità di matrimoni, dovuta a volontaria limitazione, inizialmente per previdenza, poi per egoismo. Se il movimento si svolgesse uniformemente in tutto il mondo, non altererebbe le condizioni relative delle varie nazioni, pur avendo effetti gravi per lo spirito d'iniziativa, e potendo essere causa d'inerzia e di regresso morale ed economico. Ma il movimento non è uniforme: vi sono oggi popoli che si accrescono rapidamente mentre altri lentamente, vi saranno domani popoli che cresceranno celermente mentre altri diminuiranno.

Già oggi in Francia l'equilibrio tra nascite e morti è faticosamente mantenuto coll'immigrazione, che determina altri gravi problemi morali e politici: in Francia la situazione è aggravata dalla relativamente alta percentuale di mortalità in confronto dell'Inghilterra e della Germania.

Calcolo regionale per il 1926: Piemonte (proporzione per 1.000 abitanti, nati e morti) 17,7-15,4, Liguria 17,1-13,8, Lombardia 25,1-17,9, Venezia Tridentina 25,0-17,5, Venezia Euganea 29,3-15,3, Venezia Giulia 22,8-16,1, Emilia 25,0-15,3, Toscana 22,2-14,3, Marche 28,0-15,7, Umbria 28,4-16,5, Lazio 28,1-16,3, Abruzzi 32,1-18,9, Campania 32,0-18,3, Puglie 34,0-20,8, Basilicata 36,6-23,1, Calabria 32,5-17,3, Sicilia 26,7-15,7, Sardegna 31,7-18,9. Prevalgono i livelli medi, ma con tendenza piuttosto verso il basso che verso l'alto.

Per il Mortara la causa della denatalità è da ricercarsi nella limitazione volontaria. Altri elementi possono contribuirvi saltuariamente, ma sono trascurabili (emigrazione degli uomini). C'è stato un «contagio» della Francia nel Piemonte e in Liguria, dove il fenomeno è piú grave (emigrazione temporanea ha servito di veicolo) e di piú lontana origine, ma non si può parlare di contagio «francese» per la Sicilia, che nel Mezzogiorno è un focolaio di denatalità. Non mancano indizi di limitazione volontaria in tutto il Mezzogiorno. Campagna e città: la città [ha] meno nascite che la campagna. Torino, Genova, Milano, Bologna, Firenze hanno (nel 1926) una media di natalità inferiore a Parigi.

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Sull'emigrazione italiana. Articolo di Luigi Villari nella «Nuova Antologia» del 16 febbraio 1928: L'emigrazione italiana vista dagli stranieri. Sull'emigrazione il Villari ha scritto parecchio: vedere.. (In questo articolo recensisce alcuni libri americani, inglesi e francesi che parlano dell'emigrazione italiana).

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Italia e Palestina. Confrontare nella «Nuova Antologia» del 16 ottobre 1929 l'articolo La riforma del mandato sulla Palestina, di Romolo Tritonj. Vi si espone il programma minimo italiano, cioè l'internazionalizzazione della Palestina, secondo il progetto concordato durante la guerra fra le potenze dell'Intesa e abbandonato da Francia e Inghilterra dopo la caduta dello zarismo in Russia, lasciando l'Italia in asso, poiché la Francia ebbe la Siria e l'Inghilterra la Palestina stessa. L'articolo è moderato in generale, ma accanito contro il sionismo. Si dovrà rivedere per ricostruire la politica italiana in Oriente (nel prossimo Oriente).

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Sulla finanza dello Stato. Le riforme del Tesoro, di «Alacer», nella «Nuova Antologia» del 16 novembre 1928. Integra l'articolo di Tittoni del giugno '27: da tener presente per seguire tutte le varie fasi della lotta sorda che gli elementi conservatori conducono intorno alla politica finanziaria.

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Articolo «Problemi finanziari» firmato Verax (Tittoni) nella «Nuova Antologia» del 1° giugno 1927. Nella «Nuova Antologia» del 1925 (16 maggio), Tittoni aveva pubblicato un articolo, I problemi finanziari dell'ora, nel quale trattava questi punti: equilibrio del bilancio; economie; perequazione del sistema tributario; mania spendereccia e tassatrice degli enti locali; circolazione monetaria e suoi problemi: deflazione; stabilizzazione; debiti interalleati; regime bancario; ordinamento delle società anonime; difesa del risparmio nazionale.

Equilibrio del bilancio raggiunto; le confusioni, sperequazioni e duplicazioni del sistema tributario eliminate con la riforma De Stefani; i debiti interalleati regolati dal Volpi, il quale ha preso provvedimento per la rapida liquidazione della sezione autonoma del Consorzio valori, per l'unificazione dell'emissione, per il trasferimento delle operazioni di cambio all'Istituto dei cambi sotto il patronato della Banca d'Italia, per la vigilanza in difesa del risparmio nazionale: discorso di Pesaro per la politica monetaria.

Nuovi problemi, attuali: consolidamento del pareggio del bilancio; freno alle crescenti spese; sano impiego delle eccedenze di bilancio; condizioni della tesoreria; necessità di un ammortamento graduale e continuativo del debito pubblico; i prestiti esteri e il miglioramento dei cambi; la difesa della riforma tributaria da iniziate deviazioni; eliminazione di ogni inutile fiscalismo.

L'esercizio '25-26 chiuso con un avanzo di competenza di 2.268 milioni ridotto con due regi decreti a 468 milioni. Ma occorre esaminare l'esercizio '25-26 considerando 1) le maggiori spese sopravvenute durante l'esercizio; 2) quelle deliberate dopo chiuso l'esercizio, ma attribuite a questo; 3) rapporti tra le risultanze del bilancio di competenza ed il conto di cassa; 4) i conti fuori bilancio. Durante l'esercizio '25-26 furono deliberate maggiori spese, oltre quelle preventivate in bilancio, per 3.605 milioni e, chiuso l'esercizio, con due regi decreti (ricordati) furono deliberate 1.800 milioni di nuove spese, addebitate all'esercizio stesso mediante iscrizione nel bilancio delle finanze di un capitolo aggiunto. Senza tener conto del movimento dei capitali e delle spese per le PP. e TT. che dal bilancio generale sono state trasferite in quello speciale dell'azienda autonoma, e detratti 247 milioni di economie realizzate durante l'esercizio, si ha, malgrado la diminuzione delle spese residuali della guerra, un aumento di 4.158 milioni di spesa sui 17.217 preventivati (aumento del 24%). Ma anche le entrate, preventivate in 17.394 milioni, salirono a 21.043 milioni, e perciò avanzo di 468 milioni.

È necessario un piú rigoroso e completo accertamento delle spese, i risultati dell'esercizio devono allontanarsi il meno possibile dalle previsioni, altrimenti il bilancio preventivo diverrebbe inutile, e per una ragione psicologica (!), perché l'annunzio di grandi avanzi incita alle spese. Un insigne economista, R. C. Adams, è giunto a dire che preferisce un bilancio presentato con un lievissimo disavanzo a quello presentato con un eccessivo avanzo poiché il primo incita alle economie, il secondo sospinge alle prodigalità («e a imporre nuove tasse se successivamente l'avanzo è in pericolo sul nuovo piano di spese»; A. G.). Questi avanzi sono fondati su incrementi di entrate che non sono necessariamente continuativi. L'avanzo di un bilancio di competenza può non coincidere con una cassa egualmente florida. «Perciò a situazioni di bilancio eccellenti possono corrispondere situazioni di cassa richiedenti provvedimenti eccezionali come quelli adottati dal Governo Nazionale nello scorso autunno». Politica di economie. Se non riduzione delle spese, desiderabile almeno freno alle nuove spese.

Bilancio italiano non è un conto di fatto, di tipo inglese, che registra incassi e spese effettivamente avvenuti, ma un conto di diritto, di tipo francese, comprendente da una parte le entrate accertate e scadute, da un'altra parte le spese ordinate, liquidate ed impegnate nei modi prescritti dalla legge. Il bilancio di competenza, a quelli che non sanno leggerlo, non dà una chiara visione della situazione finanziaria del paese. L'inconveniente maggiore del bilancio di competenza è nel fatto che nessun esercizio si esaurisce in sé; esso lascia sempre dei residui attivi e passivi, in modo che alla gestione del bilancio proprio dell'esercizio si aggiunge quella dei residui attivi e passivi dei precedenti esercizi che la cassa va a sopportare. Ne deriva pertanto che aumentando le spese di competenza si è normalmente avuto un aumento di residui, specialmente di residui passivi che malamente si contrappongono agli attivi e la maturazione dei quali può depauperare la cassa al di là del prevedibile. I residui passivi mal si contrappongono agli attivi perché questi, dati i nostri congegni di esazione, non possono essere e non sono di un ammontare ragguardevole per la parte effettiva, la sola che costituisce una vera entrata, giacché i residui attivi per movimenti di capitale rappresentano prestiti da contrarsi o da collocarsi. Costituirebbe quindi un grave errore il valutare alla stessa stregua i residui attivi e passivi circa la possibilità di trasformarsi rispettivamente in incassi e pagamenti. A questo si aggiunge una consuetudine che ormai comincia a trovare larga applicazione: l'art. 154 del regolamento per l'amministrazione del patrimonio e per la contabilità di Stato stabilisce che in nessun caso si possa iscrivere fra i residui degli anni decorsi alcuna somma in entrata o in spesa che non sia stata compresa fra la competenza degli esercizi anteriori; ma purtroppo la parola della legge non vieta che per lo stesso esercizio si cancelli la iscrizione di un capitolo per aumentarne un altro: cosí è, ad esempio, quando tra i residui passivi si trova iscritta una somma che presumibilmente non sarà spesa e che non traducendosi quindi in un pagamento sarebbe passata in economia, e viceversa si viene ad aumentare un altro capitolo di spesa, sempre dei residui, e, s'intende, dello stesso esercizio, spesa che sarà realmente effettuata e si tradurrà in un pagamento. Cosí la contabilità è salva, l'ammontare di residui passivi non viene aumentato, ma le condizioni della cassa vengono peggiorate. La gestione dei residui, e in special modo il saldo dei residui, va tenuto in seria considerazione, tanto piú che esso è in continuo aumento, ed infatti la differenza passiva dei residui era al 30 giugno 1926 di 10.513 milioni contro 9.442 milioni al 30 giugno 1925.

Francia, Belgio, Italia. I tre paesi, dopo aver assicurato l'equilibrio del bilancio, dovettero fronteggiare una crisi di Tesoreria; il deficit, cioè, non era scomparso, ma passando dal bilancio alla tesoreria si era semplicemente spostato. Si è dovuto correre ai ripari procurando di eliminare anzitutto il pericolo del debito fluttuante, divenuto enorme dopo la guerra, poiché le Tesorerie si trasformarono di fatto in Banche di deposito. («Questo è un paragone capzioso: non si trasformarono per nulla in Banche di deposito, ma commisero una truffa in grande stile, perché le somme incassate furono spese come entrate ordinarie di bilancio, senza che i futuri bilanci potessero prevedersi talmente incrementabili da assicurare la restituzione delle somme alla data fissata: si rastrellò il risparmio diffuso, sotto la pressione del pericolo nazionale, per esonerare da aggravi la ricchezza imponibile; fu una decimazione larvata del capitale, ma di quello delle classi medie, per non decimare apertamente e realmente il capitale delle classi alte dei maggiori detentori di ricchezza: il confronto tra paesi latini e paesi anglosassoni mette piú in rilievo questa truffa colossale, che si è risolta in parte con l'inflazione e in parte con colpi di Stato»). Il primo progetto di stabilizzazione del franco belga del ministro Jansens fallí in gran parte per aver omesso la sistemazione preventiva del debito fluttuante. La Francia provvide al debito fluttuante con la creazione di una cassa autonoma di consolidamento ed ammortamento. A questa cassa furono destinati i proventi di alcune tasse e quelli della gestione dei tabacchi, in tutto 3.700 milioni di franchi all'anno. Il pagamento di queste tasse può farsi con titoli di Stato, che vengono annullati: colla diminuzione dei titoli diminuisce l'interesse e la differenza disponibile va ad aumentare il fondo di ammortamento. Per un emendamento al progetto primitivo del governo l'ammortamento fu esteso a tutto il debito pubblico («cioè fu prolungata l'esistenza presumibile della Cassa»). Cosí in Francia si ottenne non solo di arrestare la ressa dei rimborsi, ma si ottennero nuove sottoscrizioni: il Tesoro fu rinsanguato; coi mezzi ordinari di Tesoreria poté procurarsi 14 miliardi, di cui 9 furono rimborsati alla Banca di Francia e 5 per acquisto di divise estere. Belgio: si procedette ad una conversione semicoattiva. Ai portatori dei buoni fu posta l'alternativa: o consentire il cambio dei buoni con azioni della società nazionale delle ferrovie belghe costituite dallo Stato, o farli stampigliare. I buoni dati in cambio delle azioni ferroviarie, i 3/4, furono distrutti; gli altri furono convertiti in nuovi buoni coll'interesse ridotto dal 7 al 5% e col rimborso subordinato non a scadenza fissa ma alle disponibilità avvenire del bilancio. Italia: conversione obbligatoria dei buoni del Tesoro in titoli del debito consolidato, con un premio ai portatori che ha aumentato il debito pubblico di circa 3 miliardi. «Non è il caso di discutere teoricamente quest'operazione che in fatto era inevitabile». Un recentissimo comunicato ai giornali, illustrando il conto del Tesoro a fine marzo, segnala l'esistenza di un fondo di cassa, al 31 marzo (1927) di 2.311 milioni. La cifra «lascia fredda una parte dell'opinione pubblica, la quale non riesce a vedere come sí floride condizioni di cassa e di bilancio si concilino con la recente necessità di assai drastici provvedimenti, che investirono una parte cospicua della popolazione e toccarono a fondo molte private economie». La cassa del Tesoro può presentare un'apparente floridezza ed una reale penuria. Ciò rilevò già la Commissione di finanza del Senato, il cui relatore, on. Mayer, nella sua relazione sugli stati di previsione del Ministero delle Finanze e del Bilancio dell'entrata pel 1926-27, constatava che, mentre dai conti mensili del Tesoro risultavano disponibilità cospicue di cassa (al 31 marzo 1926 quasi 4 miliardi) risultava anche l'aumento dei debiti pubblici per oltre 1.800 milioni. Ciò avviene perché il fondo di cassa esposto nella accennata cifra di 2.311 milioni non rappresenta tutto danaro di cui il Tesoro possa effettivamente disporre come contante. Cosí nei 2.311 milioni è inclusa la somma di 1.554 milioni attribuita alle «contabilità speciali» le quali comprendono numerose assegnazioni fatte ad enti come: fondo per il culto, monte pensioni insegnanti elementari, cassa di previdenza degli enti locali, ospedali riuniti di Roma ecc., epperò rappresentano somme erogate dall'Erario o destinate a pagamenti preveduti dall'amministrazione, e quindi vincolate. Piú significativa è la cifra denotante l'ammontare del fondo di cassa presso la Tesoreria provinciale, vale a dire del fondo cui attingonsi i mezzi per la massima parte dei pagamenti nel Regno; certamente sarebbe un errore considerare questo soltanto, perché il Tesoro ha altre disponibilità liquide, presso la Tesoreria centrale, e fra esse dovrebbero avere una certa importanza quelle in divisa presso i suoi corrispondenti esteri, ma il fondo di dotazione rappresenta sempre la condizione fondamentale delle disponibilità di cassa del Tesoro per fronteggiare i suoi bisogni correnti. Nulla può essere piú eloquente della differenza fra il cosí detto «fondo generale di cassa» del Tesoro e la situazione del «fondo di dotazione» dello Stato per l'esercizio della Tesoreria provinciale presso la Banca d'Italia, cioè del vero e proprio conto corrente del Tesoro presso l'Istituto di Emissione [vedi tabella].

Fondo generale di cassa


30 Settembre

1926

421.860.578

Senza le contabilità speciali

1.816.505.000

Comprese le contabilità speciali

+ 632.100.000

Conto corrente presso la Banca d'Italia

31 Ottobre

»

61.850.763

1.534.561.000

– 129.700.000

30 Novembre

»

109.814.566

875.004.000

– 687.700.000

31 Dicembre

»

768.467.255

1.974.689.000

+ 95.800.000

31 Gennaio

1927

804.426.967

2.225.661.000

+ 51.000.000

28 Febbraio

»

990.835.383

2.407.212.000

+ 248.100.000

31 Marzo

»

777.283.292

2.311.802.000

+ 31.400.000


Come si vede, al 31 ottobre e al 30 novembre, cioè prima degli incassi ottenuti con l'emissione del Prestito del Littorio, il detto conto corrente si presentava indeficit, per cui la Banca dovette provvedere a pagamenti del Tesoro con propri biglietti. Nel conto dei debiti della Tesoreria richiama l'attenzione l'ammontare di vaglia del Tesoro nel 1925-1926 in 71.349 milioni per rimborsi e 70.498 milioni per incassi. Queste enormi cifre richiederebbero qualche chiarimento affinché il pubblico potesse rendersi ragione delle operazioni che rappresentavano. Ad esso intanto una cosa appare evidente e cioè che la politica di Tesoreria ha preso il sopravvento su quella di bilancio i cui risultati sono subordinati a quelli della prima.

Bisogna dunque provvedere a rinforzare la cassa del Tesoro (la Francia e il Belgio l'hanno già fatto). Come? Non ricorrendo ad antecipazioni da parte della Banca d'Italia che non potrebbe fornirle che mediante restrizioni del credito al commercio o mediante l'inflazione. Non mediante emissioni di Buoni del Tesoro, perché sarebbe impossibile dopo il recente consolidamento. Non mediante nuovo prestito consolidato. Il debito pubblico va diminuito, non aumentato, è poi recente il consolidamento e prestito del Littorio. Bisogna invece rifornire la cassa mediante le eccedenze di bilancio, nelle quali, se non ci saranno gravi perturbazioni dei cambi e se faremo una politica di economie, potremo continuare a contare. («Ma in realtà avanzi reali di bilancio non ce ne sono mai stati, come risulta dall'esposizione precedente, ma solo spostamenti contabili e mascherature di deficit attraverso i residui passivi, il debito pubblico aumentato surrettiziamente e il ricorso a partite incontrollabili, senza contare l'assorbimento dei bilanci locali, tutti deficitari in misura spaventevole. Bisognerebbe fissare con esattezza cos'è l'avanzo di bilancio effettivo, anche dopo aver fissato una quota ragionevole per rafforzare il tesoro e per ammortare il debito pubblico: è quello che, oltre a tutto ciò, permette di diminuire le imposte effettivamente, e di migliorare le condizioni del personale; diminuire specialmente le imposte indirette che pesano di piú sulla parte piú povera della popolazione, cioè che permettono un piú elevato tenore di vita»). Con decreto regio 3 dicembre 1926 fu elevata a 4/5 la quota dell'avanzo di bilancio da destinare ad opere inerenti alla ricostruzione economica e alla difesa militare della nazione già fissato in 3/4 dal R. D. del 5 giugno. Nessuno ha contestato le ragioni impellenti (!) che indussero il governo a prendere questo provvedimento eccezionalissimo, che è contrario alla dottrina finanziaria di tutti gli economisti senza distinzioni di scuole e che non trova riscontro nella pratica finanziaria di nessun altro paese. Non dovrebbe diventare una consuetudine: il Direttore Generale della Banca d'Italia nella relazione all'assemblea degli azionisti del '27 l'ha «denunziata cautamente come una tendenza nuova di far pesare sugli avanzi passati spese riguardanti l'avvenire». Il relatore della Giunta del Bilancio della Camera dei Deputati, Olivetti, parlando sul disegno di legge per la conversione in legge del R. D. 3 dicembre 1926 fece l'obbiezione che, come ai disavanzi registrati dall'esercizio 1911-12 a quello '23-24 si era fatto fronte con mezzi di tesoreria e accensioni di debito, cosí bisognerebbe devolvere integralmente alla riduzione dei debiti prebellici gli avanzi registrati dal '24-25 in poi; inoltre l'avanzo potrebbe essere assegnato a dare maggiore elasticità alla Tesoreria. Però date le gravi ragioni contingenti, la Giunta concludeva per l'approvazione, augurandosi un futuro graduale ammortamento del debito pubblico. (A parole tutti sostengono questa necessità ma non se ne fa niente lo stesso). (Il senato fin dal 1920 domandò sempre: prudente riduzione della circolazione, rigorose economie, sosta nell'indebitamento ed inizio del pagamento dei debiti, vigile attenzione alla cassa del Tesoro, alleviamento delle imposte).

Necessità di chiarezza nei conti finanziari. Il denaro deve trovarsi non solo sui conti, ma nelle casse dello Stato. «Occorre studiare a fondo la quistione delle operazioni fuori bilancio le quali costituiscono una minaccia permanente a danno dei risultati attivi del bilancio. Ed invero piú che una minaccia noi avemmo il danno effettivo nel periodo dall'agosto al novembre 1926 come lo dimostra il progressivo impoverimento, durante quei mesi, della cassa».

Le operazioni finanziarie sono quelle che si fondano sul credito pubblico ed hanno effetto sul patrimonio dello Stato: l'emissione di un prestito, il rimborso di obbligazioni rientrano propriamente fra queste. Esse dovrebbero far parte delle operazioni di bilancio e direttamente essere contabilizzate fra le spese e le entrate, fra gli incassi e i pagamenti in conto bilancio. Le operazioni di Tesoreria propriamente dette riguardano invece i provvedimenti che servono ai bisogni immediati della cassa e perciò comprenderebbero l'emissione di buoni del Tesoro ordinari. Tra queste operazioni sono anche operazioni fuori bilancio, almeno temporaneamente, mentre non dovrebbero essere tali in una situazione normale. Ora le operazioni fuori bilancio tendono ad eliminare gli effetti della gestione di bilancio assorbendone le eccedenze attive. L'azienda del Portafoglio ha un significato cosí delicato che delle principali operazioni si redige processo verbale (art. 534 del regolamento di contabilità). Il Contabile del Portafoglio è tenuto a rendere ogni anno il conto giudiziale. La gestione del Contabile del Portafoglio dà luogo a profitti e perdite. Dal 1° luglio 1917 al 30 giugno 1925 non fu presentato conto giudiziale e con R. decreto-legge 7 maggio 1925 fu concesso di potere eseguire un sol conto giudiziale per gli otto esercizi finanziari precedenti riguardanti la guerra. Il Governo deve attenersi alla pratica del conto giudiziale e restringere l'azienda del portafoglio alle sue proprie specifiche funzioni.

Ammortamento del debito pubblico. L'Inghilterra, gli Stati Uniti, l'Olanda da piú di un secolo compiono ammortamenti. Hamilton pel primo dimostrò nel 1814 che un vero ammortamento non può farsi che mediante l'eccedenza delle entrate sulle spese e pose il principio che la creazione di un debito deve essere accompagnata dal piano della sua graduale estinzione. Dal '19 al '24 l'Inghilterra diminuí il suo debito di 650 milioni di sterline, cioè l'intiero debito prebellico. Il debito può essere ammortizzato: 1°, con una cassa speciale; 2°, con le eccedenze di bilancio; 3°, con lo stanziamento di una somma fissa. Si danno le cifre degli ammortamenti stanziati in bilancio e degli avanzi di bilancio dal '21 al '26-27. È notevole e significativo il fatto che se è vero che nel '26-27 c'è stato un deficit di 36.694.000 sterline, però in quell'esercizio furono stanziate in bilancio per ammortamento 60.000.000 di sterline, cifra superiore e di molto a quelle degli anni precedenti: 25.000.000 nel '21-22, 24.000.000 nel '22-23, 40.000.000 nel '23-24, 45.000.000 nel '24-25, 50.000.000 nel '25-26 (con deficit di 14.000.000). C'è una flessione di bilancio che comincia dal '24-25: nel '26-27 il deficit di 36 milioni è ottenuto aumentando lo stanziamento fisso per propaganda contro i minatori, cioè si aumenta la quota di bilancio a favore dei capitalisti a danno della classe operaia.

Per la storia della finanza inglese ricordare che alla fine del XVIII secolo fu adottato da Pitt il meccanismo del sinking fund – fondo di ammortamento – di Price, che poi fu dovuto abbandonare. Hamilton. Fino al 1857 l'eccedenza del bilancio fu destinata di preferenza ad alleviare l'imposta. In seguito l'ammortamento regolare del debito fu ripreso e costituí la base fondamentale delle finanze britanniche. Sospeso durante la guerra fu ripreso dopo l'armistizio. Per andamento del bilancio ricordare le cifre dedicate all'ammortamento dal '21 in poi – prese dal Financial Statements. Prima cifra = ammortamenti stanziati in bilancio; seconda cifra = l'avanzo ulteriore impiegato pure all'ammortamento: '21-22: 25.010.000 e 45.693.000; '22-23: 24.711.000 e 101.516.000; '23-24: 40.000.000 e 48.329.000; '24-25: 45.000.000 e 3.659.000; '25-26: 50.000.000, deficit 14 milioni 38.000; '26-27: 60.000.000, deficit 36.694.000. Il calcolo dell'avanzo reale dà queste cifre: 70.703.000; 126 milioni 227.000; 88.329.000; 48.659.000; 35.962.000; 23 milioni 306.000: c'è una flessione di bilancio, ma non un deficit reale.

La Commissione d'inchiesta per lo studio dei debiti pubblici, presieduta da Lord Colwyn, in una sua recente relazione conchiude raccomandando di intensificare l'ammortamento portando il fondo da 75 a 100 milioni di sterline l'anno. Si capisce benissimo il significato politico di questa proposta, data la crisi industriale inglese: si vuole evitare ogni intervento efficace dello Stato, ponendo tutte le larghe possibilità di bilancio nelle mani dei privati, i quali poi, probabilmente, invece di investire nell'industria nazionale in crisi questi enormi capitali, li investiranno all'estero, mentre lo Stato potrebbe riorganizzare, con questi fondi, le industrie fondamentali a favore degli operai.

Negli Stati Uniti il sistema di amministrazione è fondato sulla conversione dei debiti consolidati in debiti redimibili con riduzione degli interessi.

In Francia, la Cassa costituzionalmente autonoma e indipendente dal Tesoro, per diffidenza verso il Tesoro, che potrebbe mettere le mani sui fondi di ammortamento se si trovasse all'asciutto.

Nel Belgio il ministro Francqui aumentò il fondo di ammortamento.

Italia. Con R. D. 3 marzo 1926 fu costituita una Cassa per l'ammortamento del debito inglese e americano. Ma non è stata fissata una somma annua fissa ed intangibile, secondo il sistema inglese (senza pregiudizio degli avanzi di bilancio, che dopo aver provveduto alle esigenze della cassa e a temperare certi fiscalismi esagerati, dovrebbero essere destinati all'amministrazione. 500 milioni annui sono già stanziati per la graduale riduzione del debito verso la Banca d'Italia per i biglietti anticipati allo Stato; i 90 milioni di dollari del prestito Morgan passati alla Banca d'Italia hanno diminuito di 2 miliardi e mezzo il debito della circolazione per conto dello Stato: coi 500 milioni stanziati l'intero debito sarà estinto in 8 anni (questo debito fu estinto quando la riserva aurea della Banca d'Italia fu valutata secondo la stabilizzazione della lira col passaggio allo Stato della plusvalenza). Nell'ultimo conto del Tesoro il debito consolidato apparisce al 31 marzo 1927 in circa 44 miliardi e mezzo, cui vanno aggiunti circa 23 miliardi e mezzo provenienti dall'operazione dei Buoni del Tesoro e circa 3 miliardi e mezzo del prestito del Littorio; circa 71 miliardi e mezzo, nei quali la parte relativa al periodo prebellico concorre per circa 10 miliardi; e ciò senza dire né dei debiti redimibili inscritti nel gran Libro del Debito Pubblico per 3.784 milioni, dei quali la metà relativi alla guerra, né dei buoni poliennali che formano una massa di 7 miliardi e 1/3; né degli altri debiti, quasi tutti redimibili, gestiti dal Debito Pubblico; né del debito per circolazione bancaria, che è ancora di 4.229 milioni (estinto in seguito come detto sopra). Trascurando i debiti redimibili, pei quali è in regolare corso l'estinzione graduale e lasciando da parte i buoni (!), poliennali, rimane il debito perpetuo.

Benefizi dell'ammortamento del debito: 1°, allevia il bilancio, se pure in misura modesta; 2°, rialza il credito dello Stato; 3°, rende possibile ottenere un nuovo prestito in circostanze gravi e imprevedute; 4°, rende possibili future conversioni; 5°, mette a disposizione della produzione le somme ammortate, creando nuovi cespiti di entrata; 6°, tiene alta la quotazione dei titoli di Stato.

Sir Felix Schuster sostenne innanzi alla Commissione d'inchiesta dei debiti pubblici che anche ed anzi specialmente nei momenti piú difficili della pubblica finanza l'ammortamento del debito deve essere mantenuto perché costituisce il miglior modo di salvare il credito dello Stato ed impedisce il crollo dei suoi titoli. Ridurre il debito vuol dire rivalutare il consolidato («perciò l'impostare una volta tanto una somma per ridurre il debito pubblico, cioè la mancanza di stanziamenti fissi e intangibili, si riduce ad essere un vero e proprio agiotaggio: lo Stato compra i suoi titoli non per estinguerli gradatamente ma come operazione di borsa che ne faccia elevare la quotazione, magari per emetterne subito degli altri», A. G.). L'ammortamento deve essere necessariamente lento e moderato per non determinare bruschi spostamenti di capitale.

Prestiti americani. Da prima tali prestiti non erano assecondati. Sistemati i debiti di guerra con l'America e l'Inghilterra, la direttiva del Tesoro è mutata, con questo nuovo elemento essenziale, che il piú delle volte l'alea dei cambi per i rimborsi anziché dagli enti contrattanti il debito viene assunto dallo Stato, il che imprime agli occhi dei prestatori uno speciale carattere a tutta l'operazione. Questa garanzia va giudicata in relazione all'accentramento del controllo dei cambi prima presso il Tesoro, ed ora, molto opportunamente, presso l'Istituto dei cambi. Debiti per industria, opportuni. Debiti ai Comuni pericolosi, perché si spende e non si saprà come restituire. La contrazione di debiti all'estero è sottoposta al consenso del governo.

Imposte. 12.577 milioni d'imposte nell'esercizio 1922-1923. 16.417 milioni nell'esercizio '25-26 con un aumento in tre anni di 3.840 milioni. Inoltre nel 1925 le imposte locali erano previste in 4.947 milioni, sicché carico annuale di 22 miliardi, cioè un onere superiore a quelli di tutti gli Stati europei e americani. Stati Uniti, diminuite le imposte in quattro anni, di 2 milioni di dollari. Inghilterra diminuite le imposte. In Italia, almeno non aumento e cessazione di terrore fiscale. Cosí nei Comuni, che affetti da mania spendereccia e tassatrice. Mantenere le basi fondamentali della riforma tributaria unificatrice, semplificatrice e perequatrice De Stefani. Già si sono avute deviazioni da questa riforma. La nuova imposta complementare sul reddito aveva il pregio di aver ripudiato il sistema di accertamento indiziario. Ma la nuova imposta sul celibato, che varia secondo il reddito, dà luogo a un nuovo accertamento a base indiziaria, invece di essere basata sul reddito accertato agli effetti della complementare. Cosí si hanno due accertamenti del reddito che conducono a risultati diversi, e poiché il contrasto non è ammissibile, finisce col prevalere per ambedue la procedura indiziaria. Scopo della imposta complementare sul reddito con partecipazione degli enti locali al provento era di eliminare tutte le forme imperfette e sperequate di tasse locali sul reddito quali la tassa di famiglia e il valore locativo. Un tentativo per l'istituzione di una strana tassa sul reddito consumato fu sventato (sic) per l'opportuno intervento del Senato. Poiché l'imposta complementare sul reddito doveva eliminare le tasse di famiglia e sul valore locativo quando fossero pagate insieme ad essa, per evitare una doppia tassazione sullo stesso reddito, era giusto che continuassero a pagarle coloro che non erano stati iscritti sui ruoli della complementare perché in questo caso non esisteva duplicato. Invece si lasciò ai Comuni facoltà o di continuare ad applicare la tassa di famiglia a coloro che non erano inscritti ai ruoli della complementare, ovvero applicare la tassa sul valore locativo anche a quelli che pagavano la complementare. Quasi tutti i Comuni hanno scelto quest'ultima e cosí siamo tornati alla doppia tassazione. Inoltre. Gli agenti del fisco hanno sostenuto e la Commissione centrale delle imposte dirette ha sanzionato che i vecchi accertamenti della tassa di famiglia, di cui tutti avevano riconosciuto le sperequazioni, possono essere presi a base dell'accertamento per l'imposta della complementare sul reddito. Invece di essere soppressa, cioè, ha preso il sopravvento. Certo la complementare ha dato un gettito inferiore allo sperato, ma perché il gettito delle imposte nuove è sempre nel primo anno inferiore a quello che dovrebbe essere, e perché per tre anni la complementare risente delle notevolissime riduzioni che sono state accordate a chi ha riscattato la tassa sul patrimonio. Contro il fiscalismo. Nella seduta del Senato del 14 giugno