Indice
I. Il moderno
principe
[Noterelle sulla politica del Machiavelli] (Q. 13)
Oltre che dal modello (Q. 13)
[La scienza della politica] (Q. 13)
[La politica come scienza autonoma] (Q. 13)
La concezione del Croce (Q. 13)
Se il concetto crociano della passione (Q. 8)
Accanto ai meriti della moderna «machiavellistica»
(Q. 13)
Elementi di politica (Q. 15)
[Il partito politico] (Q. 13)
È l'azione politica (Q. 17)
Sul concetto di partito politico (Q. 13)
Quando si può dire che un partito sia formato e non
possa essere distrutto con mezzi normali (Q. 14)
Partiti politici e funzioni di polizia (Q. 14)
[Industriali e agrari] (Q. 15)
Concezioni del mondo e atteggiamenti pratici
totalitari e parziali (Q. 15)
Alcuni aspetti teorici e pratici dell'«economismo»
(Q. 13)
Un elemento da aggiungere (Q. 13)
[Previsione e prospettiva] (Q. 13)
Sul concetto di previsione o prospettiva (Q. 15)
Il «troppo» (e quindi superficiale e meccanico) (Q.
13)
[Analisi delle situazioni. Rapporti di forza] (Q. 13)
È il problema dei rapporti (Q. 13)
Osservazioni su alcuni aspetti della struttura dei
partiti politici nei periodi di crisi organica (Q. 13)
Il cesarismo (Q. 13)
Cesarismo ed equilibrio «catastrofico» delle forze
politico-sociali (Q. 14)
Lotta politica e guerra militare (Q. 1)
Arte militare e arte politica (Q. 1)
A proposito dei confronti (Q. 13)
Guerra di posizione e guerra manovrata o frontale (Q.
7)
[Il concetto di rivoluzione passiva] (Q. 15)
Il concetto di «rivoluzione passiva» (Q. 15)
Il rapporto «rivoluzione passiva - guerra di
posizione» (Q. 15)
Sempre a proposito del concetto di rivoluzione
passiva (Q. 15)
Sulla burocrazia (Q. 13)
Il teorema delle proporzioni definite (Q. 13)
Sociologia e scienza politica (Q. 15)
Il numero e la qualità nei regimi rappresentativi (Q.
13)
La proposizione che «la società non si pone problemi
per la cui soluzione non esistano già le premesse
materiali» (Q. 8)
Quistione dell'«uomo collettivo» o del «conformismo
sociale» (Q. 13)
Fase economica-corporativa dello Stato (Q. 6)
Egemonia (società civile) e divisione dei poteri (Q.
6)
[Concezione del diritto] (Q. 13)
[Politica e diritto costituzionale] (Q. 5)
Roberto Michels e i partiti politici
R. Michels, Les Partis politiques et la
contrainte sociale (Q. 2)
Note sulla vita nazionale francese
Note sulla vita nazionale francese (Q. 13)
Maurras e il «centralismo organico» (Q. 13)
Note sparse
[Internazionalismo e politica nazionale] (Q. 14)
Interpretazione del Principe (Q. 14)
«Doppiezza» e «ingenuità» del Machiavelli (Q. 13)
[I.] Cfr. ciò che scrive l'Alfieri (Q. 17)
Articolo di Luigi Cavina (Q. 18)
Armi e religione (Q. 6)
Nel libro di Clemenceau (Q. 6)
Teoria e pratica (Q. 14)
Machiavelli ed Emanuele Filiberto (Q. 5)
Su Emanuele Filiberto (Q. 2)
Lo Stato (Q. 14)
I limiti dell'attività dello Stato (Q. 3)
Stato e società regolata (Q. 6)
Stato etico o di cultura (Q. 8)
Hegel e l'associazionismo (Q. 1)
Lo Stato e la concezione del diritto (Q. 8)
Concetto di Stato (Q. 6)
Curzio Malaparte (Q. 8)
Lo Stato «veilleur de nuit» (Q. 26)
Stato gendarme-guardiano notturno, ecc. (Q. 6)
Fase economica-corporativa dello Stato (Q. 8)
1) Altro elemento da esaminare (Q. 8)
Organizzazione delle società nazionali (Q. 6)
I costumi e le leggi (Q. 6)
Chi è legislatore? (Q. 14)
In uno studio di teoria finanziaria (Q. 14)
Arte politica e arte militare (Q. 13)
[«Funzione di governo»] (Q. 15)
La quistione posta dal Panunzio (Q. 15)
[La classe politica] (Q. 13)
[Grande politica e piccola politica] (Q. 13)
(Nuovo Machiavelli, cfr. quaderno speciale ecc.) (Q.
15)
Morale e politica (Q. 14)
Distacco tra dirigenti e diretti (Q. 3)
Città e campagna (Q. 2)
[Miti storici] (Q. 15)
Centro (Q. 14)
La forza dei partiti agrari (Q. 14)
[Religione, Stato, partito] (Q. 17)
Classe media (Q. 26)
L'uomo-individuo e l'uomo-massa (Q. 7)
Psicologia e politica (Q. 6)
Storia politica e storia militare (Q. 2)
Sullo sviluppo della tecnica militare (Q. 13)
Una massima del maresciallo Caviglia (Q. 17)
Arte militare e politica (Q. 4)
«Contraddizioni» dello storicismo ed espressioni
letterarie di esse (ironia, sarcasmo) (Q. 26)
Feticismo (Q. 15)
[Machiavellismo e antimachiavellismo] (Q. 13)
Miscellanea
Diritto naturale (Q. 15)
Elezioni (Q. 15)
Fortuna «pratica» di Machiavelli (Q. 6)
Machiavelli come figura di transizione (Q. 6)
Prendendo le mosse dall'affermazione del Foscolo (Q.
13)
Lo Schopenhauer avvicina l'insegnamento (Q. 13)
Bacone ha chiamato «Re Magi» (Q. 13)
Il potere indiretto (Q. 17)
Egemonia e democrazia (Q. 8)
Alcune cause d'errore (Q. 3)
Lotta di generazioni (Q. 3)
Società civile e società politica (Q. 7)
Sorel e i giacobini (Q. 5)
Machiavelli e Manzoni (Q. 5)
La «formula» di Léon Blum (Q. 1)
Il pragmatismo americano (Q. 1)
Distinzioni (Q. 17)
Storia e «progresso» (Q. 6)
Principî di metodo (Q. 17)
II. Note di
politica internazionale
[Il concetto di grande potenza] (Q. 13)
Nella nozione di grande potenza (Q. 13)
Egemonia politico-culturale (Q. 13)
Sul concetto di grande potenza (Q. 13)
(Cfr. altre note precedenti) (Q. 6)
Sull'origine delle guerre (Q. 13)
La funzione europea dello zarismo nel secolo XIX (Q.
16)
Cfr. la lettera al conte Vimercati di Cavour (Q. 6)
Politica e comando militare (Q. 2)
Documenti diplomatici (Q. 2)
Una politica di pace europea (Q. 2)
Per i rapporti tra il Centro tedesco e il Vaticano
(Q. 2)
Sull'Anschluss (Q. 2)
Articolo di Frank Simonds (Q. 2)
Costituzione dell'Impero Inglese (Q. 2)
Funzione del re d'Inghilterra (Q. 6)
Da Regno Unito di Gran Bretagna (Q. 2)
La bilancia commerciale inglese (Q. 5)
Egemonia politica dell'Europa prima della guerra
mondiale (Q. 2)
Politica mondiale e politica europea (Q. 2)
America e Europa (Q. 2)
Inghilterra e Stati Uniti dopo la guerra (Q. 2)
Augur, Il nuovo aspetto dei rapporti tra la Gran
Bretagna e gli Stati Uniti d'America (Q. 2)
Formazione della potenza degli Stati Uniti (Q. 2)
Wilson (Q. 2)
Lodovico Luciolli, La politica doganale degli
Stati Uniti d'America (Q. 2)
Gli Stati Uniti nel Mar Caraibico (Q. 2)
Gli Stati Uniti e l'America Centrale (Q. 2)
Estremo Oriente (Q. 2)
La Cina (Q. 2)
Atlantico-Pacifico (Q. 2)
Bernardo Sanvisenti, La questione delle
Antille (Q. 5)
Armamento della Germania al momento dell'armistizio
(Q. 5)
Il problema scandinavo e baltico (Q. 2)
La posizione geopolitica dell'Italia. La possibilità
dei blocchi (Q. 19)
III. Note
sull'attrezzamento nazionale e sulla politica
italiana
L'attrezzamento nazionale (Q. 3)
Economia nazionale (Q. 9)
Struttura economica italiana (Q. 3)
Nella «Riforma Sociale» del maggio-giugno 1932 (Q.
19)
Giuseppe Paratore, La economia, la finanza, il
denaro d'Italia alla fine del 1928 (Q. 2)
Sui bilanci dello Stato (Q. 2)
A proposito dei bilanci (Q. 2)
La marina mercantile italiana (Q. 2)
La diplomazia italiana. Costantino Nigra e il
trattato di Uccialli (Q. 3)
La diplomazia italiana prima del 1914 (Q. 3)
A proposito dell'incidente
del Carthage (Q. 5)
Nella recensione del libro di Salandra (Q. 3)
Tittoni (Q. 2)
Per tutto un lungo periodo (Q. 3)
La quistione italiana (Q. 19)
Italia e Yemen nella nuova politica arabica (Q. 2)
Articolo di Roger Labonne (Q. 2)
Il «Correspondant» del 25 luglio 1927 (Q. 2)
Italia ed Egitto (Q. 2)
L'Etiopia d'oggi (Q. 2)
Roberto Cantalupo, La Nuova Eritrea (Q. 2)
Il nazionalismo italiano (Q. 2)
Direzione politico-militare della guerra 1914-1918
(Q. 5)
Nella «Nuova Antologia» del 16 giugno 1929 (Q. 5)
In alcuni paesi la formazione delle truppe (Q. 5)
Caporetto (Q. 6)
Cfr. il libro del gen. Alberto Baldini (Q. 6)
Gli ufficiali in congedo (Q. 2)
Leggere attentamente (Q. 2)
Per una politica annonaria razionale e
nazionale (Q. 2)
1919 (Q. 1)
IV. Recensioni
e note bibliografiche
Studi particolari su Machiavelli come «economista»
(Q. 8)
La «Rivista d'Italia» del 15 giugno 1927 (Q. 18)
Un'edizione delle Lettere di Niccolò Machiavelli (Q.
5)
Pasquale Villari, Niccolò Machiavelli e i suoi
tempi (Q. 18)
In una recensione di Giuseppe Tarozzi (Q. 13)
Gioviano Pontano (Q. 2)
Gino Arias, Il pensiero economico di Niccolò
Machiavelli (Q. 6)
Machiavelli ed Emanuele Filiberto (Q. 3)
Ettore Ciccotti (Q. 11)
Corrado Barbagallo (Q. 11)
Quella del Barbagallo sul capitalismo (Q. 7)
Giuseppe Gallavresi, Ippolito Taine storico
della Rivoluzione francese (Q. 2)
La scienza della politica e i positivisti (Q. 3)
La funzione degli intellettuali (Q. 17)
G. Gentile e la filosofia della politica (Q. 13)
Il genio nella storia (Q. 6)
Sul sentimento nazionale (Q. 6)
I filosofi e la Rivoluzione francese (Q. 2)
Giuseppe Ferrari, Corso su gli scrittori
politici italiani (Q. 2)
Centralismo organico ecc. (Q. 6)
Italo Chittaro, La capacità di comando (Q.
13)
Scritto dal (generale) Luigi Bongiovanni (Q. 17)
Carlo Flumiani, I gruppi sociali (Q. 3)
Rapporti tra città e campagna (Q. 8)
Vittorio Giglio, Milizie ed eserciti
d'Italia (Q. 2)
Su Quintino Sella (Q. 2)
Storia del dopoguerra (Q. 5)
Roberto Michels (Q. 7)
Cultura italiana (Q. 3)
Francia (Q. 5)
Alfredo Oriani (Q. 2)
R. Garofalo, Criminalità e amnistia in
Italia (Q. 2)
E. De Cillis, Gli aspetti e le soluzioni del
problema della colonizzazione agraria in
Tripolitania (Q. 2)
Gaspare Ambrosini, La situazione della Palestina
e gli interessi dell'Italia (Q. 2)
Andrea Torre, Il principe di Bülow e la politica
mondiale germanica (Q. 2)
Stresemann (Q. 5)
Nazionalizzazioni e statizzazioni (Q. 7)
La battaglia dello Jütland (Q. 13)
Argus, Il disarmo navale, i sottomarini e gli
aeroplani (Q. 5)
Oscar di Giamberardino, Linee generali della
politica marittima dell'Impero Britannico (Q. 2)
Istituzioni internazionali (Q. 2)
G. B., La Banca dei regolamenti
internazionali (Q. 5)
Luigi Villari, L'agricoltura in
Inghilterra (Q. 2)
Alfonso de Pietri-Tonelli, Wall Street (Q.
2)
La Geopolitica (Q. 2)
Olii, petrolii e benzine (Q. 2)
Domenico Meneghini, Industrie chimiche
italiane (Q. 5)
Claudio Faina, Foreste, combustibili e
carburante nazionale (Q. 2)
Claudio Faina, Il carburante nazionale (Q.
5)
Carlo Schanzer, Sovranità e giustizia nei
rapporti fra gli Stati (Q. 5)
Giorgio Mortara, Natalità e urbanesimo in
Italia (Q. 2)
Sull'emigrazione italiana (Q. 2)
Italia e Palestina (Q. 5)
Sulla finanza dello Stato (Q. 2)
Articolo Problemi finanziari firmato Verax
(Tittoni) nella «Nuova Antologia» del 1° giugno 1927
(Q. 2)
Bibliografia varia (Q. 2)
V. Azione
Cattolica. Gesuiti e modernisti
L'Azione Cattolica
L'Azione Cattolica, nata specificatamente dopo il
1848 (Q. 20)
L'Azione Cattolica e i terziari francescani (Q. 2)
Sulla povertà, il cattolicismo e la gerarchia
ecclesiastica (Q. 2)
I «Ritiri operai» (Q. 5)
[Preistoria dell'Azione Cattolica] (Q. 6)
[Origini dell'Azione Cattolica] (Q. 6)
Cfr. in altro quaderno l'annotazione (Q. 7)
La funzione dei cattolici in Italia (Azione
Cattolica) (Q. 3)
Gianforte Suardi nella «Nuova Antologia» (Q. 5)
[Il papato nel secolo XIX] (Q. 14)
Sul «pensiero sociale» dei cattolici (Q. 5)
Un articolo da ricordare (Q. 5)
Nell'autunno del 1892 (Q. 17)
Il conflitto di Lilla (Q. 2)
[I cattolici e l'insurrezione] (Q. 7)
Movimento pancristiano (Q. 5)
[La prima comunione] (Q. 5)
Pubblicazioni periodiche cattoliche (Q. 8)
[L'Azione Cattolica in Francia] (Q. 15)
Lucien Romier e l'Azione Cattolica francese (Q. 5)
Ricordare che nel 1925 (Q. 5)
[L'Azione Cattolica in Germania] (Q. 8)
Die Katholische Aktion. Materialen und
Akten (Q. 5)
I cattolici tedeschi (Q. 5)
L'Azione Cattolica negli Stati Uniti (Q. 5)
È interessante la corrispondenza (Q. 6)
I Concordati
Quando incominciarono le trattative per il
Concordato? (Q. 6)
Rapporti tra Stato e Chiesa (Q. 16)
(Cfr. p. 15 bis) (Q. 16)
La circolare ministeriale (Q. 5)
Allegata alla legge delle Guarantigie (Q. 3)
Natura dei Concordati (Q. 5)
Il padre L. Taparelli (Q. 3)
Chiesa e Stato in Italia prima della Conciliazione
(Q. 5)
Conflitto tra Stato e Chiesa come categoria eterna
storica (Q. 6)
Cattolici integrali, gesuiti e modernisti
I «cattolici integrali» (Q. 20)
L'articolo: L'equilibrio della verità (Q. 20)
L'Action Française (Q. 20)
Il caso dell'abate Turmel di Rennes (Q. 20)
Cfr. l'articolo «La lunga crisi dell'Action
Française» (Q. 20)
In altra nota è citato (Q. 7)
Cfr. l'articolo La catastrofe del caso Turmel e
i metodi del modernismo critico (Q. 6)
[Diverse manifestazioni del modernismo] (Q. 14)
[Ugo Mioni] (Q. 4)
[Le encicliche contro il pensiero moderno] (Q. 14)
Roberto Bellarmino (Q. 7)
Santificazione di Roberto Bellarmino (Q. 6)
Giovanni Papini (Q. 6)
Lotta intorno alla filosofia neoscolastica (Q. 9)
[Leone XIII] (Q. 1)
La redazione della «Civiltà Cattolica» (Q. 3)
Nazionalismo culturale cattolico (Q. 5)
[Gesuiti e integralisti in Ispagna] (Q. 6)
Politica del Vaticano. Malta (Q. 6)
Movimenti religiosi (Q. 5)
Pancristianesimo e propaganda del protestantesimo
nell'America Meridionale (Q. 2)
La religione, il lotto e l'oppio della miseria
Testimonianze cattoliche (Q. 8)
La religione, il lotto e l'oppio della miseria (Q.
16)
Giulio Lachelier (Q. 16)
Religione (Q. 6)
Note sparse
Il culto degli Imperatori (Q. 5)
La concezione del centralismo organico e la casta
sacerdotale (Q. 3)
Religione come principio e clero come classe-ordine
feudale (Q. 1)
Clero come intellettuali (Q. 1)
Origine sociale del clero (Q. 1)
Il clero, la proprietà ecclesiastica e le forme
affini di proprietà terriera o mobiliare (Q. 3)
Filippo Meda, Statisti cattolici (Q. 1)
Chiesa cattolica. Santi e beati (Q. 6)
Giuseppe De Maistre (Q. 2)
Padre Facchinei (Q. 1)
A proposito del matrimonio religioso (Q. 1)
La quistione sessuale e la Chiesa Cattolica. Elementi
dottrinari (Q. 1)
Cattolici, neomaltusianismo, eugenetica (Q. 2)
Il medico cattolico e l'ammalato (moribondo)
acattolico (Q.16)
[La contraddizione degli intellettuali] (Q. 8)
Cattolicismo e laicismo. Religione e scienza, ecc.
(Q. 3)
Jean Barois (Q. 1)
Eugenio Di Carlo, Un carteggio inedito del P. L.
Taparelli D'Azeglio coi fratelli Massimo e
Roberto (Q. 2)
Francesco Orestano, La Chiesa Cattolica nello
Stato italiano e nel mondo (Q. 2)
Cattolicismo nell'India (Q. 3)
Giuseppe Tucci, La religiosità
dell'India (Q. 2)
Note bibliografiche
Chiesa Cattolica (Q. 6)
Ricordare, per uno studio (Q. 5)
Oltre all'Annuario Pontificio (Q. 7)
Azione cattolica italiana (Q. 5)
Il tentativo di riforma religiosa francescana (Q. 2)
Sui letterati cattolici (Q. 8)
Azione sociale cattolica (Q. 5)
Leone XIII (Q. 3)
La dottrina sociale cattolica nei documenti di papa
Leone XIII (Q. 5)
Per il significato reale (Q. 7)
Sindacalismo cattolico (Q. 2)
La pace industriale (Q. 5)
L'Azione Cattolica nel Belgio (Q. 5)
Movimenti pancristiani (Q. 3)
Redazione della «Civiltà Cattolica» (Q. 5)
L'Action Française e il Vaticano (Q. 2)
Cfr. La crisi dell'«Action Française» e
gli scritti del suo «maestro» (Q. 2)
Francia (Q. 9)
Per l'attività in Francia (Q. 6)
[Italia] (Q. 6)
Spagna (Q. 6)
Cfr. M. De Burgos y Mazo (Q. 6)
La riforma fondiaria cecoslovacca (Q. 2)
Cattolici integrali-gesuiti-modernisti (Q. 8)
Su Enrico Ibsen (Q. 5)
Colonie italiane (Q. 1)
VI. Americanismo
e fordismo
Americanismo e fordismo
Serie di problemi (Q. 22)
Razionalizzazione della composizione demografica
europea (Q. 22)
Alcune affermazioni sulla quistione di «Stracittà e
Strapaese» (Q. 22)
Autarchia finanziaria dell'industria (Q. 22)
Alcuni aspetti della quistione sessuale (Q. 22)
[Femminismo e «maschilismo»] (Q. 22)
«Animalità» e industrialismo (Q. 22)
Razionalizzazione della produzione e del lavoro (Q.
22)
Eugenio Giovannetti (Q. 22)
Quantità e qualità (Q. 22)
Taylorismo e meccanizzazione del lavoratore (Q. 22)
Gli alti salari (Q. 22)
Azioni, obbligazioni, titoli di Stato (Q. 22)
Civiltà americana ed europea (Q. 22)
Rotary Club, massoneria, cattolici
Rotary Club (Q. 5)
Confrontare nella «Civiltà Cattolica» (Q. 5)
America e massoneria (Q. 6)
Owen, Saint-Simon e le scuole infantili di Ferrante
Aporti (Q. 5)
Sansimonismo, Massoneria, Rotary Club (Q. 5)
I sansimoniani (Q. 6)
Il Sansimonismo in Italia (Q. 7)
Note sparse
Americanismo (Q. 5)
Ancora Babbitt (Q. 6)
[Cultura e tradizioni culturali] (Q. 15)
Vittorio Macchioro e l'America (Q. 4)
America (Q. 3)
Varie (Q. 22)
[Industria americana] (Q. 2)
Mino Maccari e l'americanismo (Q. 22)
Tendenze contro le città (Q. 2)
Emigrazione (Q. 3)
Americanismo. La delinquenza (Q. 8)
La filosofia americana (Q. 1)
America ed Europa (Q. 3)
L'America e il Mediterraneo (Q. 5)
Sull'americanismo (Q. 2)
Azione Cattolica (Q. 2)
Lello Gangemi, Il problema della durata del
lavoro (Q. 1)
L'Unione internazionale dei Soccorsi (Q. 2)
«Mente et Malleo» (Q. 2)
Indice dei nomi
I. Il moderno principe
[Noterelle sulla politica del Machiavelli.] Il
carattere
fondamentale del Principe è quello di non
essere una
trattazione sistematica ma un libro «vivente», in cui
l'ideologia
politica e la scienza politica si fondono nella forma
drammatica del
«mito». Tra l'utopia e il trattato scolastico, le
forme in cui la
scienza politica si configurava fino al Machiavelli,
questi dette alla
sua concezione la forma fantastica e artistica, per
cui l'elemento
dottrinale e razionale si impersona in un condottiero,
che rappresenta
plasticamente e «antropomorficamente» il simbolo della
«volontà
collettiva». Il processo di formazione di una
determinata volontà
collettiva, per un determinato fine politico, viene
rappresentato non
attraverso disquisizioni e classificazioni pedantesche
di principii e
criteri di un metodo d'azione, ma come qualità, tratti
caratteristici,
doveri, necessità di una concreta persona, ciò che fa
operare la
fantasia artistica di chi si vuol convincere e dà una
piú concreta
forma alle passioni politiche. (Sarà da cercare negli
scrittori
politici precedenti al Machiavelli se esistono
scritture configurate
come il Principe. Anche la chiusa
delPrincipe è legata a
questo carattere «mitico» del libro: dopo aver
rappresentato il
condottiero ideale, il Machiavelli con un passaggio di
grande efficacia
artistica, invoca il condottiero reale che
storicamente lo impersoni:
questa invocazione appassionata si riflette su tutto
il libro
conferendogli appunto il carattere drammatico.
Nei Prolegomeni di L. Russo il Machiavelli è
detto l'artista
della politica e una volta si trova anche
l'espressione «mito», ma non
precisamente nel senso su indicato).
Il Principe del Machiavelli potrebbe essere
studiato come una esemplificazione storica del «mito»
sorelliano, cioè
di una ideologia politica che si presenta non come
fredda utopia né
come dottrinario raziocinio, ma come una creazione di
fantasia concreta
che opera su un popolo disperso e polverizzato per
suscitarne e
organizzarne la volontà collettiva. Il carattere
utopistico
del Principe è nel fatto che il «principe»
non esisteva nella
realtà storica, non si presentava al popolo italiano
con caratteri di
immediatezza obbiettiva, ma era una pura astrazione
dottrinaria, il
simbolo del capo, del condottiero ideale; ma gli
elementi passionali,
mitici, contenuti nell'intero volumetto, con mossa
drammatica di grande
effetto, si riassumono e diventano vivi nella
conclusione,
nell'invocazione di un principe, «realmente
esistente». Nell'intero
volumetto Machiavelli tratta di come deve essere il
Principe per
condurre un popolo alla fondazione del nuovo Stato, e
la trattazione è
condotta con rigore logico, con distacco scientifico:
nella conclusione
il Machiavelli stesso si fa popolo, si confonde col
popolo, ma non con
un popolo «genericamente» inteso, ma col popolo che il
Machiavelli ha
convinto con la sua trattazione precedente, di cui
egli diventa e si
sente coscienza ed espressione, si sente medesimezza:
pare che tutto il
lavoro «logico» non sia che un'autoriflessione del
popolo, un
ragionamento interno, che si fa nella coscienza
popolare e che ha la
sua conclusione in un grido appassionato, immediato.
La passione, da
ragionamento su se stessa, ridiventa «affetto»,
febbre, fanatismo
d'azione. Ecco perché l'epilogo
del Principe non è qualcosa
di estrinseco, di «appiccicato» dall'esterno, di
retorico, ma deve
essere spiegato come elemento necessario dell'opera,
anzi come
quell'elemento che riverbera la sua vera luce su tutta
l'opera e ne fa
come un «manifesto politico».
Si può studiare come il
Sorel, dalla concezione dell'ideologia-mito non sia
giunto alla
comprensione del partito politico, ma si sia arrestato
alla concezione
del sindacato professionale. È vero che per il Sorel
il «mito» non
trovava la sua espressione maggiore nel sindacato,
come organizzazione
di una volontà collettiva, ma nell'azione pratica del
sindacato e di
una volontà collettiva già operante, azione pratica,
la cui
realizzazione massima avrebbe dovuto essere lo
sciopero generale, cioè
un'«attività passiva» per cosí dire, di carattere cioè
negativo e
preliminare (il carattere positivo è dato solo
dall'accordo raggiunto
nelle volontà associate) di una attività che non
prevede una propria
fase «attiva e costruttiva». Nel Sorel dunque si
combattevano due
necessità: quella del mito e quella della critica del
mito in quanto
«ogni piano prestabilito è utopistico e reazionario».
La soluzione era
abbandonata all'impulso dell'irrazionale,
dell'«arbitrario» (nel senso
bergsoniano di «impulso vitale») ossia della
«spontaneità». (Sarebbe da
notare qui una contraddizione implicita nel modo con
cui il Croce pone
il suo problema di storia e antistoria con altri modi
di pensare del
Croce: la sua avversione dei «partiti politici» e il
suo modo di porre
la quistione della «prevedibilità» dei fatti sociali,
cfr. Conversazioni Critiche, Serie prima, pp.
150-52, recensione
del libro di Ludovico Limentani, La previsione
dei fatti sociali,
Torino, Bocca, 1907; se i fatti sociali sono
imprevedibili e lo stesso
concetto di previsione è un puro suono, l'irrazionale
non può non
dominare e ogni organizzazione di uomini è antistoria,
è un
«pregiudizio»: non resta che risolvere volta per
volta, e con criteri
immediati, i singoli problemi pratici posti dallo
svolgimento storico –
cfr. articolo di Croce, Il partito come giudizio
e come
pregiudizio in Cultura e Vita morale –
e l'opportunismo
è la sola linea politica possibile). Può un mito però
essere
«non-costruttivo», può immaginarsi, nell'ordine di
intuizioni del
Sorel, che sia produttivo di effettualità uno
strumento che lascia la
volontà collettiva nella sua fase primitiva ed
elementare del suo mero
formarsi, per distinzione (per «scissione») sia pure
con violenza, cioè
distruggendo i rapporti morali e giuridici esistenti?
Ma questa volontà
collettiva, cosí formata elementarmente, non cesserà
subito di
esistere, sparpagliandosi in una infinità di volontà
singole che per la
fase positiva seguono direzioni diverse e
contrastanti? Oltre alla
quistione che non può esistere distruzione, negazione
senza una
implicita costruzione, affermazione, e non in senso
«metafisico», ma
praticamente, cioè politicamente, come programma di
partito. In questo
caso si vede che si suppone dietro la spontaneità un
puro meccanicismo,
dietro la libertà (arbitrio-slancio vitale) un massimo
di determinismo,
dietro l'idealismo un materialismo assoluto.
Il moderno
principe, il mito-principe non può essere una persona
reale, un
individuo concreto, può essere solo un organismo; un
elemento di
società complesso nel quale già abbia inizio il
concretarsi di una
volontà collettiva riconosciuta e affermatasi
parzialmente nell'azione.
Questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed
è il partito
politico, la prima cellula in cui si riassumono dei
germi di volontà
collettiva che tendono a divenire universali e totali.
Nel mondo
moderno solo un'azione storico-politica immediata e
imminente,
caratterizzata dalla necessità di un procedimento
rapido e fulmineo,
può incarnarsi miticamente in un individuo concreto:
la rapidità non
può essere resa necessaria che da un grande pericolo
imminente, grande
pericolo che appunto crea fulmineamente l'arroventarsi
delle passioni e
del fanatismo, annichilendo il senso critico e la
corrosività ironica
che possono distruggere il carattere «carismatico» del
condottiero (ciò
che è avvenuto nell'avventura di Boulanger). Ma
un'azione immediata di
tal genere, per la sua stessa natura, non può essere
di vasto respiro e
di carattere organico: sarà quasi sempre del tipo
restaurazione e
riorganizzazione e non del tipo proprio alla
fondazione di nuovi Stati
e nuove strutture nazionali e sociali (come era il
caso
nel Principe del Machiavelli, in cui
l'aspetto di
restaurazione era solo un elemento retorico, cioè
legato al concetto
letterario dell'Italia discendente di Roma e che
doveva restaurare
l'ordine e la potenza di Roma), di tipo «difensivo» e
non creativo
originale, in cui, cioè, si suppone che una volontà
collettiva, già
esistente, si sia snervata, dispersa, abbia subito un
collasso
pericoloso e minaccioso ma non decisivo e catastrofico
e occorra
riconcentrarla e irrobustirla, e non già che una
volontà collettiva sia
da creare ex novo, originalmente e da indirizzare
verso mete concrete
sí e razionali, ma di una concretezza e razionalità
non ancora
verificate e criticate da una esperienza storica
effettuale e
universalmente conosciuta.
Il carattere «astratto» della
concezione sorelliana del «mito» appare
dall'avversione (che assume la
forma passionale di una repugnanza etica) per
i giacobini che
certamente furono una «incarnazione categorica» del
Principe di
Machiavelli. Il moderno Principe deve avere
una parte
dedicata al giacobinismo (nel significato
integrale che
questa nozione ha avuto storicamente e deve avere
concettualmente),
come esemplificazione di come si sia formata in
concreto e abbia
operato una volontà collettiva che almeno per alcuni
aspetti fu
creazione ex novo, originale. E occorre che sia
definita la volontà
collettiva e la volontà politica in generale nel senso
moderno, la
volontà come coscienza operosa della necessità
storica, come
protagonista di un reale ed effettuale dramma storico.
Una
delle prime parti dovrebbe appunto essere dedicata
alla «volontà
collettiva», impostando cosí la quistione: quando si
può dire che
esistano le condizioni perché possa suscitarsi e
svilupparsi una
volontà collettiva nazionale-popolare? Quindi
un'analisi storica
(economica) della struttura sociale del paese dato e
una
rappresentazione «drammatica» dei tentativi fatti
attraverso i secoli
per suscitare questa volontà e le ragioni dei
successivi fallimenti.
Perché in Italia non si ebbe la monarchia assoluta al
tempo di
Machiavelli? Bisogna risalire fino all'Impero Romano
(questione della
lingua, degli intellettuali ecc.), comprendere la
funzione dei Comuni
medioevali, il significato del Cattolicismo ecc.:
occorre insomma fare
uno schizzo di tutta la storia italiana, sintetico ma
esatto.
La
ragione dei successivi fallimenti dei tentativi di
creare una volontà
collettiva nazionale-popolare è da ricercarsi
nell'esistenza di
determinati gruppi sociali, che si formano dalla
dissoluzione della
borghesia comunale, nel particolare carattere di altri
gruppi che
riflettono la funzione internazionale dell'Italia come
sede della
Chiesa e depositaria del Sacro Romano Impero ecc.
Questa funzione e la
posizione conseguente determina una situazione interna
che si può
chiamare «economico-corporativa», cioè, politicamente,
la peggiore
delle forme di società feudale, la forma meno
progressiva e piú
stagnante: mancò sempre, e non poteva costituirsi, una
forza giacobina efficiente, la forza appunto
che nelle altre
nazioni ha suscitato e organizzato la volontà
collettiva
nazionale-popolare e ha fondato gli Stati moderni.
Esistono finalmente
le condizioni per questa volontà, ossia quale è il
rapporto attuale tra
queste condizioni e le forze opposte? Tradizionalmente
le forze opposte
sono state l'aristocrazia terriera e piú generalmente
la proprietà
terriera nel suo complesso, col suo tratto
caratteristico italiano che
è una speciale «borghesia rurale», eredità di
parassitismo lasciata ai
tempi moderni dallo sfacelo, come classe, della
borghesia comunale (le
cento città, le città del silenzio). Le condizioni
positive sono da
ricercare nell'esistenza di gruppi sociali urbani,
convenientemente
sviluppati nel campo della produzione industriale e
che abbiano
raggiunto un determinato livello di cultura
storico-politica. Ogni
formazione di volontà collettiva nazionale-popolare è
impossibile se le
grandi masse dei contadini coltivatori non
irromponosimultaneamente nella vita politica. Ciò
intendeva il
Machiavelli attraverso la riforma della milizia, ciò
fecero i giacobini
nella Rivoluzione francese, in questa comprensione è
da identificare un
giacobinismo precoce del Machiavelli, il germe (piú o
meno fecondo)
della sua concezione della rivoluzione nazionale.
Tutta la storia dal
1815 in poi mostra lo sforzo delle classi tradizionali
per impedire la
formazione di una volontà collettiva di questo genere,
per mantenere il
potere «economico-corporativo» in un sistema
internazionale di
equilibrio passivo.
Una parte importante del moderno
Principe dovrà essere dedicata alla quistione di una
riforma
intellettuale e morale, cioè alla quistione religiosa
o di una
concezione del mondo. Anche in questo campo troviamo
nella tradizione
assenza di giacobinismo e paura del giacobinismo
(l'ultima espressione
filosofica di tale paura è l'atteggiamento maltusiano
di B. Croce verso
la religione). Il moderno Principe deve e non può non
essere il
banditore e l'organizzatore di una riforma
intellettuale e morale, ciò
che poi significa creare il terreno per un ulteriore
sviluppo della
volontà collettiva nazionale popolare verso il
compimento di una forma
superiore e totale di civiltà moderna.
Questi due punti
fondamentali – formazione di una volontà collettiva
nazionale-popolare
di cui il moderno Principe è nello stesso tempo
l'organizzatore e
l'espressione attiva e operante, e riforma
intellettuale e morale –
dovrebbero costituire la struttura del lavoro. I punti
concreti di
programma devono essere incorporati nella prima parte,
cioè dovrebbero
«drammaticamente», risultare dal discorso, non essere
una fredda e
pedantesca esposizione di raziocini.
Può esserci riforma
culturale e cioè elevamento civile degli strati
depressi della società,
senza una precedente riforma economica e un mutamento
nella posizione
sociale e nel mondo economico? Perciò una riforma
intellettuale e
morale non può non essere legata a un programma di
riforma economica,
anzi il programma di riforma economica è appunto il
modo concreto con
cui si presenta ogni riforma intellettuale e morale.
Il moderno
Principe, sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di
rapporti
intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi
significa appunto
che ogni atto viene concepito come utile o dannoso,
come virtuoso o
scellerato, solo in quanto ha come punto di
riferimento il moderno
Principe stesso e serve a incrementare il suo potere o
a contrastarlo.
Il Principe prende il posto, nelle coscienze, della
divinità o
dell'imperativo categorico, diventa la base di un
laicismo moderno e di
una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti
i rapporti di
costume.
*
Oltre che dal modello esemplare delle grandi
monarchie
assolute di Francia e Spagna, il Machiavelli fu mosso
alla sua
concezione politica della necessità di uno
Stato unitario
italiano dal ricordo del passato di Roma. Occorre far
risaltare però
che non perciò il Machiavelli è da confondere con la
tradizione
letteraria-retorica. Intanto perché questo elemento
non è esclusivo e
neanche dominante, e la necessità di un grande Stato
nazionale non è
dedotta da esso; e poi anche perché lo stesso richiamo
a Roma è meno
astratto di quanto paia, se collocato puntualmente nel
clima
dell'Umanesimo e del Rinascimento. Nel libro VII
dell'Arte della
guerra si legge: «questa provincia (l'Italia)
pare nata per
risuscitare le cose morte, come si è visto della
poesia, della pittura
e della scultura», perché dunque non ritroverebbe la
virtú militare?
ecc. Saranno da raggruppare gli altri accenni del
genere per stabilirne
l'esatto carattere.
*
[La scienza della politica.] La innovazione
fondamentale
introdotta dalla filosofia della praxis nella scienza
della politica e
della storia è la dimostrazione che non esiste una
astratta «natura
umana» fissa e immutabile (concetto che deriva certo
dal pensiero
religioso e dalla trascendenza) ma che la natura umana
è l'insieme dei
rapporti sociali storicamente determinati, cioè un
fatto storico
accertabile, entro certi limiti, coi metodi della
filologia e della
critica. Pertanto la scienza politica deve essere
concepita nel suo
contenuto concreto (e anche nella sua formulazione
logica) come un
organismo in sviluppo. È da osservare tuttavia che
l'impostazione data
dal Machiavelli alla quistione della politica (e cioè
l'affermazione
implicita nei suoi scritti che la politica è una
attività autonoma che
[ha] suoi principii e leggi diversi da quelli della
morale e della
religione, proposizione che ha una grande portata
filosofica perché
implicitamente innova la concezione della morale e
della religione,
cioè innova tutta la concezione del mondo) è ancora
discussa e
contraddetta oggi, non è riuscita a diventare «senso
comune». Cosa
significa ciò? Significa solo che la rivoluzione
intellettuale e morale
i cui elementi sono contenuti in nuce nel pensiero del
Machiavelli non
si è ancora attuata, non è diventata forma pubblica e
manifesta della
cultura nazionale? Oppure ha un mero significato
politico attuale,
serve a indicare il distacco esistente tra governanti
e governati, a
indicare che esistono due colture, quella dei
governanti e quella dei
governati, e che la classe dirigente, come la Chiesa,
ha un suo
atteggiamento verso i semplici dettato dalla necessità
di non staccarsi
da loro da una parte, e dall'altra di mantenerli nella
convinzione che
il Machiavelli è niente altro che un'apparizione
diabolica? Si pone
cosí il problema del significato che il Machiavelli ha
avuto nel tempo
suo e dei fini che egli si proponeva scrivendo i suoi
libri e
specialmente il Principe. La dottrina del
Machiavelli non era, al
tempo suo, una cosa puramente «libresca», un monopolio
di pensatori
isolati, un libro segreto che circola tra iniziati. Lo
stile del
Machiavelli non è quello di un trattatista
sistematico, come ne avevano
e il Medio Evo e l'Umanesimo, tutt'altro: è stile di
uomo d'azione, di
chi vuole spingere all'azione, è stile da «manifesto»
di partito.
L'interpretazione «moralistica» data dal Foscolo è
certo sbagliata,
tuttavia è vero che il Machiavelli
ha svelato qualcosa e non
solo teorizzato il reale; ma quale era il fine dello
svelare? Un fine
moralistico o politico? Si suol dire che le norme del
Machiavelli per
l'attività politica «si applicano, ma non si dicono»;
i grandi
politici, si dice, cominciano con maledire
Machiavelli, col dichiararsi
antimachiavellici, appunto per poterne applicare le
norme «santamente».
Non sarebbe stato il Machiavelli poco machiavellico,
uno di quelli che
«sanno il gioco» e stoltamente lo insegnano, mentre il
machiavellismo
volgare insegna a fare il contrario? L'affermazione
del Croce che
essendo il machiavellismo una scienza, serve tanto ai
reazionari quanto
ai democratici, come l'arte della scherma serve ai
gentiluomini e ai
briganti, a difendersi e ad assassinare, e che in tal
senso occorre
intendere il giudizio del Foscolo, è vera
astrattamente. Il Machiavelli
stesso nota che le cose che egli scrive sono applicate
e sono sempre
state applicate dai piú grandi uomini della storia;
non pare perciò che
egli voglia suggerire a chi già sa, né il suo stile è
quello di una
disinteressata attività scientifica (cfr. in una delle
pagine
precedenti quanto è scritto a proposito del
significato
dell'invocazione finale del Principe e
dell'ufficio che essa
può compiere per riguardo all'intera operetta), né può
pensarsi che
egli sia giunto alle sue tesi di scienza politica per
via di
speculazione filosofica, ciò che in questa materia
particolare avrebbe
un po' del miracoloso al tempo suo, se anche oggi
trova tanto contrasto
e opposizione. Si può quindi supporre che il
Machiavelli abbia in vista
«chi non sa», che egli intenda fare l'educazione
politica di «chi non
sa», educazione politica non negativa, di odiatori di
tiranni, come
parrebbe intendere il Foscolo, ma positiva, di chi
deve riconoscere
necessari determinati mezzi, anche se propri dei
tiranni, perché vuole
determinati fini. Chi è nato nella tradizione degli
uomini di governo,
per tutto il complesso dell'educazione che assorbe
dall'ambiente
famigliare, in cui predominano gli interessi dinastici
o patrimoniali,
acquista quasi automaticamente i caratteri del
politico realista. Chi
dunque «non sa»? La classe rivoluzionaria del tempo,
il «popolo» e la
«nazione» italiana, la democrazia cittadina che
esprime dal suo seno i
Savonarola e i Pier Soderini e non i Castruccio e i
Valentino. Si può
ritenere che il Machiavelli voglia persuadere queste
forze della
necessità di avere un «capo» che sappia ciò che vuole
e come ottenere
ciò che vuole, e di accettarlo con entusiasmo anche se
le sue azioni
possono essere o parere in contrasto con l'ideologia
diffusa del tempo,
la religione.
Questa posizione della politica del Machiavelli si
ripete per
la filosofia della praxis: si ripete la necessità di
essere
«antimachiavellici», sviluppando una teoria e una
tecnica della
politica che possono servire alle due parti in lotta,
quantunque esse
si pensa finiranno col servire specialmente alla parte
che «non
sapeva», perché in essa è ritenuta esistere la forza
progressiva della
storia e infatti si ottiene subito un risultato: di
spezzare l'unità
basata sull'ideologia tradizionale, senza la cui
rottura la forza nuova
non potrebbe acquistare coscienza della propria
personalità
indipendente. Il machiavellismo è servito a migliorare
la tecnica
politica tradizionale dei gruppi dirigenti
conservatori, cosí come la
politica della filosofia della praxis; ciò non deve
mascherare il suo
carattere essenzialmente rivoluzionario, che è sentito
anche oggi e
spiega tutto l'antimachiavellismo, da quello dei
gesuiti a quello
pietistico di P. Villari.
*
[La politica come scienza autonoma.] La quistione
iniziale da
porre e da risolvere in una trattazione sul
Machiavelli è la quistione
della politica come scienza autonoma, cioè del posto
che la scienza
politica occupa o deve occupare in una concezione del
mondo sistematica
(coerente e conseguente) – in una filosofia della
praxis –. Il
progresso fatto fare dal Croce, a questo proposito,
agli studi sul
Machiavelli e sulla scienza politica, consiste
precipuamente (come in
altri campi dell'attività critica crociana) nella
dissoluzione di una
serie di problemi falsi, inesistenti o male impostati.
Il Croce si è
fondato sulla sua distinzione dei momenti dello
Spirito e
sull'affermazione di un momento della pratica, di uno
spirito pratico,
autonomo e indipendente, sebbene legato circolarmente
all'intera realtà
per la dialettica dei distinti. In una filosofia della
prassi la
distinzione non sarà certo tra i momenti dello Spirito
assoluto, ma tra
i gradi della soprastruttura e si tratterà pertanto di
stabilire la
posizione dialettica dell'attività politica (e della
scienza
corrispondente) come determinato grado
superstrutturale: si potrà dire,
come primo accenno e approssimazione, che l'attività
politica è appunto
il primo momento o primo grado, il momento in cui la
superstruttura è
ancora nella fase immediata di mera affermazione
volontaria, indistinta
ed elementare.
In che senso si può identificare la politica e la
storia e
quindi tutta la vita e la politica. Come perciò tutto
il sistema delle
superstrutture possa concepirsi come distinzioni della
politica e
quindi si giustifichi l'introduzione del concetto di
distinzione in una
filosofia della prassi. Ma si può parlare di
dialettica dei distinti e
come si può intendere il concetto di circolo fra i
gradi della
superstruttura? Concetto di «blocco storico», cioè
unità tra la natura
e lo spirito (struttura e superstruttura) unità dei
contrari e dei
distinti.
Il criterio di distinzione si può introdurre
anche nella struttura? Come sarà da intendere la
struttura: come nel
sistema dei rapporti sociali si potrà distinguere
l'elemento «tecnica»,
«lavoro», «classe» ecc. intesi storicamente e non
«metafisicamente».
Critica della posizione del Croce per cui, ai fini
della polemica, la
struttura diventa un «dio ascoso», un «noumeno», in
contrapposizione
alle «apparenze» della superstruttura. «Apparenze» in
senso metaforico
e in senso positivo. Perché «storicamente» e come
linguaggio si è
parlato di «apparenze».
È interessante fissare come il
Croce, da questa concezione generale, abbia tratto la
sua particolare
dottrina dell'errore e della origine pratica
dell'errore. Per il Croce
l'errore ha origine in una «passione» immediata, cioè
di carattere
individuale o di gruppo; ma che cosa produrrà la
«passione» di portata
storica piú vasta, la passione come «categoria»? La
passione interesse
immediato che è origine dell'«errore» è il momento che
nelle Glosse al Feuerbach viene chiamato
«schmutzig-jüdisch»:
ma come la passione-interesse «schmutzig-jüdisch»
determina l'errore
immediato, cosí la passione del piú vasto gruppo
sociale determina
l'«errore» filosofico (intermedio l'errore-ideologia,
di cui il Croce
tratta a parte): l'importante in questa serie: egoismo
(errore
immediato) - ideologia - filosofia è il termine comune
«errore» legato
ai diversi gradi di passione, e che sarà da intendere
non nel
significato moralistico o dottrinario ma nel senso
puramente «storico»
e dialettico di «ciò che è storicamente caduco e degno
di cadere», nel
senso della «non definitività» di ogni filosofia,
della «morte-vita»,
«essere-non essere», cioè del termine dialettico da
superare nello
svolgimento.
Il termine di «apparente», «apparenza»,
significa proprio questo e niente altro che questo ed
è da giustificare
contro il dogmatismo: è l'affermazione della caducità
di ogni sistema
ideologico, accanto all'affermazione di una validità
storica di ogni
sistema, e di una necessità di esso («nel terreno
ideologico l'uomo
acquista coscienza dei rapporti sociali»: dire ciò non
è affermare la
necessità e la validità delle «apparenze»?)
*
La concezione del Croce, della politica-passione,
esclude i
partiti, perché non si può pensare a una «passione»
organizzata e
permanente: la passione permanente è una condizione di
orgasmo e di
spasimo, che determina inettitudine all'operare.
Esclude i partiti ed
esclude ogni «piano» d'azione concertato
preventivamente. Tuttavia i
partiti esistono e piani d'azione vengono elaborati,
applicati, e
spesso realizzati in misura notevolissima; c'è adunque
nella concezione
del Croce un «vizio». Né vale dire che se i partiti
esistono, ciò non
ha grande importanza «teorica», perché al momento
dell'azione il
«partito» che opera non è la stessa cosa del partito
che esisteva
prima; in parte ciò può esser vero, tuttavia tra i due
«partiti» le
coincidenze sono tante che in realtà si può dire
trattarsi dello stesso
organismo. Ma la concezione, per esser valida,
dovrebbe potersi
applicare anche alla «guerra» e quindi spiegare il
fatto degli eserciti
permanenti, delle accademie militari, dei corpi di
ufficiali. Anche la
guerra in atto è «passione», la piú intensa e
febbrile, è un momento
della vita politica, è la continuazione, in altre
forme, di una
determinata politica; bisogna dunque spiegare come la
«passione» possa
diventare «dovere» morale e non dovere di morale
politica, ma di etica.
Sui «piani politici» che sono connessi ai partiti
come
formazioni permanenti, ricordare ciò che Moltke diceva
dei piani
militari; che essi non possono essere elaborati e
fissati in precedenza
in tutti i loro dettagli, ma solo nel loro nucleo e
disegno centrale,
perché le particolarità dell'azione dipendono in una
certa misura dalle
mosse dell'avversario. La passione si manifesta
appunto nei
particolari, ma non pare che il principio di Moltke
sia tale da
giustificare la concezione del Croce: rimarrebbe in
ogni caso da
spiegare il genere di «passione» dello Stato Maggiore
che ha elaborato
il piano a mente fredda e «spassionatamente».
*
Se il concetto crociano della passione come momento
della
politica si urta nella difficoltà di spiegare e
giustificare le
formazioni politiche permanenti come i partiti e ancor
piú gli eserciti
nazionali e gli Stati maggiori, poiché non si può
concepire una
passione organizzata permanentemente senza che essa
diventi razionalità
e riflessione ponderata, cioè non piú passione, la
soluzione non può
trovarsi se non nella identificazione di politica ed
economia; la
politica è azione permanente e dà nascita a
organizzazioni permanenti
in quanto appunto si identifica con l'economia. Ma
essa anche se ne
distingue e perciò può parlarsi separatamente di
economia e di politica
e può parlarsi di «passione politica» come di impulso
immediato
all'azione che nasce sul terreno «permanente e
organico» della vita
economica, ma lo supera, facendo entrare in gioco
sentimenti e
aspirazioni nella cui atmosfera incandescente lo
stesso calcolo della
vita umana individuale ubbidisce a leggi diverse da
quelle del
tornaconto individuale ecc.
*
Accanto ai meriti della moderna «machiavellistica»
derivata
dal Croce, occorre segnalare anche le «esagerazioni» e
le deviazioni
cui ha dato luogo. Si è formata l'abitudine di
considerare troppo il
Machiavelli come il «politico in generale», come lo
«scienziato della
politica», attuale in tutti i tempi. Bisogna
considerare maggiormente
il Machiavelli come espressione necessaria del suo
tempo e come
strettamente legato alle condizioni e alle esigenze
del tempo suo che
risultano: 1) dalle lotte interne della repubblica
fiorentina e dalla
particolare struttura dello Stato che non sapeva
liberarsi dai residui
comunali-municipali, cioè da una forma divenuta
inceppante di
feudalismo; 2) dalle lotte tra gli Stati italiani per
un equilibrio
nell'ambito italiano, che era ostacolato
dall'esistenza del papato e
dagli altri residui feudali, municipalistici della
forma statale
cittadina e non territoriale; 3) dalle lotte degli
Stati italiani piú o
meno solidali per un equilibrio europeo, ossia dalle
contraddizioni tra
le necessità di un equilibrio interno italiano e le
esigenze degli
Stati europei in lotta per l'egemonia. Su Machiavelli
opera l'esempio
della Francia e della Spagna che hanno raggiunto una
forte unità
statale territoriale; il Machiavelli fa un «paragone
ellittico» (per
usare l'espressione crociana) e desume le regole per
uno Stato forte in
generale e italiano in particolare. Machiavelli è uomo
tutto della sua
epoca e la sua scienza politica rappresenta la
filosofia del tempo che
tende all'organizzazione delle monarchie nazionali
assolute, la forma
politica che permette e facilita un ulteriore sviluppo
delle forze
produttive borghesi. In Machiavelli si può
scoprire in
nuce la separazione dei poteri e il
parlamentarismo (il regime
rappresentativo): la sua «ferocia» è rivolta contro i
residui del mondo
feudale, non contro le classi progressive. Il Principe
deve porre
termine all'anarchia feudale e ciò fa il Valentino in
Romagna,
appoggiandosi sulle classi produttive, mercanti e
contadini. Dato il
carattere militare-dittatoriale del capo dello Stato,
come si richiede
in un periodo di lotta per la fondazione e il
consolidamento di un
nuovo potere, l'indicazione di classe contenuta
nell'Arte della
guerra si deve intendere anche per la struttura
generale statale:
se le classi urbane vogliono porre fine al disordine
interno e
all'anarchia esterna devono appoggiarsi sui contadini
come massa,
costituendo una forza armata sicura e fedele di tipo
assolutamente
diverso dalle compagnie di ventura. Si può dire che la
concezione
essenzialmente politica è cosí dominante nel
Machiavelli che gli fa
commettere gli errori di carattere militare: egli
pensa specialmente
alle fanterie, le cui masse possono essere arruolate
con un'azione
politica e perciò misconosce il significato
dell'artiglieria. Il Russo
(nei Prolegomeni a Machiavelli) nota giustamente
che l'Arte della
guerra integra il Principe, ma non trae
tutte le conclusioni
della sua osservazione. Anche nell'Arte della
guerra il
Machiavelli deve essere considerato come un politico
che deve occuparsi
di arte militare; il suo unilateralismo (con altre
«curiosità» come la
teoria della falange, che danno luogo a facili
spiritosaggini come
quella piú diffusa ricavata dal Bandello) è dipendente
dal fatto che
non nella quistione tecnico-militare è il centro del
suo interesse e
del suo pensiero, ma egli ne tratta solo in quanto è
necessario per la
sua costruzione politica.
Ma non solo l'Arte della guerra deve essere
connessa
al Principe, sibbene anche le Istorie
fiorentine, che devono
servire appunto come un'analisi delle condizioni reali
italiane ed
europee da cui scaturiscono le esigenze immediate
contenute
nel Principe.
Da una concezione del Machiavelli piú
aderente ai tempi deriva subordinatamente una
valutazione piú
storicistica dei cosí detti «antimachiavellici», o
almeno dei piú
«ingenui» tra essi. Non si tratta, in realtà, di
antimachiavellici, ma
di politici che esprimono esigenze del tempo loro o di
condizioni
diverse da quelle che operavano sul Machiavelli; la
forma polemica è
pura accidentalità letteraria. L'esempio tipico di
questi
«antimachiavellici» mi pare da ricercare in Jean Bodin
(1530-96) che fu
deputato agli Stati Generali di Blois del 1576 e vi
fece rifiutare dal
Terzo Stato i sussidi domandati per la guerra civile.
(Opere del
Bodin: Methodus ad facilem historiarum
cognitionem (1566)
dove indica l'influenza del clima sulla forma degli
Stati, accenna a
un'idea di progresso, ecc.; La
Republique (1576) dove esprime
le opinioni del Terzo Stato sulla monarchia assoluta e
i suoi rapporti
col popolo; Hentaplomores (inedito fino
all'epoca moderna) in
cui confronta tutte le religioni e le giustifica come
espressioni
diverse della religione naturale, sola ragionevole, e
tutte egualmente
degne di rispetto e di tolleranza).
Durante le guerre
civili in Francia, il Bodin è l'esponente del terzo
partito, detto dei
«politici», che si pone dal punto di vista
dell'interesse nazionale,
cioè di un equilibrio interno delle classi in cui
l'egemonia appartiene
al Terzo Stato attraverso il Monarca. Mi pare evidente
che classificare
il Bodin fra gli «antimachiavellici» sia quistione
assolutamente
estrinseca e superficiale. Il Bodin fonda la scienza
politica in
Francia in un terreno molto piú avanzato e complesso
di quello che
l'Italia aveva offerto al Machiavelli. Per il Bodin
non si tratta di
fondare lo Stato unitario-territoriale (nazionale)
cioè di ritornare
all'epoca di Luigi XI, ma di equilibrare le forze
sociali in lotta
nell'interno di questo Stato già forte e radicato; non
il momento della
forza interessa il Bodin, ma quello del consenso. Col
Bodin si tende a
sviluppare la monarchia assoluta: il Terzo Stato è
talmente cosciente
della sua forza e della sua dignità, conosce cosí bene
che la fortuna
della Monarchia assoluta è legata alla propria fortuna
e al proprio
sviluppo, che pone delle condizioni per il suo
consenso, presenta
delle esigenze, tende a limitare l'assolutismo. In
Francia il
Machiavelli serviva già alla reazione, perché poteva
servire a
giustificare che si mantenesse perpetuamente il mondo
in «culla»
(secondo l'espressione di Bertrando Spaventa), quindi
bisognava essere
«polemicamente» antimachiavellici. È da notare che
nell'Italia studiata
dal Machiavelli non esistevano istituzioni
rappresentative già
sviluppate e significative per la vita nazionale come
quelle degli
Stati Generali in Francia. Quando modernamente si
osserva
tendenziosamente che le istituzioni parlamentari in
Italia sono state
importate dall'estero, non si tiene conto che ciò
riflette solo una
condizione di arretratezza e di stagnazione della
storia italiana
politica sociale dal '500 al '700, condizione che era
dovuta in gran
parte alla preponderanza dei rapporti internazionali
su quelli interni,
paralizzati e assiderati. Che la struttura statale
italiana, per le
preponderanze straniere, sia rimasta alla fase
semifeudale di un
oggetto di «suzeraineté» straniera, è forse
«originalità» nazionale
distrutta dall'importazione delle forme parlamentari
che invece danno
una forma al processo di liberazione nazionale? e al
passaggio allo
Stato territoriale moderno (indipendente e nazionale)?
Del resto
istituzioni rappresentative sono esistite,
specialmente nel Mezzogiorno
e in Sicilia, ma con carattere molto piú ristretto che
in Francia, per
il poco sviluppo in queste regioni del Terzo Stato,
cosa per cui i
Parlamenti erano strumenti per mantenere l'anarchia
dei baroni contro i
tentativi innovatori della monarchia, che doveva
appoggiarsi ai
«lazzari» in assenza di una borghesia. Ricordare lo
studio di Antonio
Panella sugli Antimachiavellici pubblicato
nel «Marzocco» del
1927 (o anche '26? in undici articoli): vedere come vi
è giudicato il
Bodin in confronto al Machiavelli e come [è] posto in
generale il
problema dell'antimachiavellismo.
Che il programma o la
tendenza di collegare la città alla campagna potesse
avere nel
Machiavelli solo un'espressione militare si capisce
riflettendo che il
giacobinismo francese sarebbe inesplicabile senza il
presupposto della
cultura fisiocratica, con la sua dimostrazione
dell'importanza
economica e sociale del coltivatore diretto. Le teorie
economiche del
Machiavelli sono state studiate da Gino Arias (negli
«Annali
d'Economia» dell'Università Bocconi) ma è da
domandarsi se il
Machiavelli abbia avuto teorie economiche: si tratterà
di vedere se il
linguaggio essenzialmente politico del Machiavelli può
tradursi in
termini economici e a quale sistema economico possa
ridursi. Vedere se
il Machiavelli che viveva nel periodo mercantilista
abbia politicamente
preceduto i tempi e anticipato qualche esigenza che ha
poi trovato
espressione nei fisiocratici.
Anche Rousseau sarebbe stato
possibile senza la cultura fisiocratica? Non mi pare
giusto affermare
che i fisiocratici abbiano rappresentato meri
interessi agricoli e che
solo con l'economia classica si affermino gli
interessi del capitalismo
urbano. I fisiocratici rappresentano la rottura col
mercantilismo e col
regime delle corporazioni e sono una fase per giungere
all'economia
classica, ma mi pare appunto per ciò che essi
rappresentino una società
avvenire ben piú complessa di quella contro cui
combattono e anche di
quella che risulta immediatamente dalle loro
affermazioni: il loro
linguaggio è troppo legato al tempo ed esprime il
contrasto immediato
tra città e campagna, ma lascia prevedere un
allargamento del
capitalismo all'agricoltura. La formula del lasciar
fare lasciar
passare, cioè della libertà industriale e
d'iniziativa, non è certo
legata a interessi agrari.
*
Elementi di politica. Bisogna proprio dire che i
primi ad
essere dimenticati sono proprio i primi elementi, le
cose piú
elementari; d'altronde, essi, ripetendosi infinite
volte, diventano i
pilastri della politica e di qualsivoglia azione
collettiva. Primo
elemento è che esistono davvero governati e
governanti, dirigenti e
diretti. Tutta la scienza e l'arte politica si basano
su questo fatto
primordiale, irriducibile (in certe condizioni
generali). Le origini di
questo fatto sono un problema a sé, che dovrà essere
studiato a sé (per
lo meno potrà e dovrà essere studiato come attenuare e
far sparire il
fatto, mutando certe condizioni identificabili come
operose in questo
senso), ma rimane il fatto che esistono dirigenti e
diretti, governanti
e governati. Dato questo fatto sarà da vedere come si
può dirigere nel
modo piú efficace (dati certi fini) e come pertanto
preparare nel modo
migliore i dirigenti (e in questo piú precisamente
consiste la prima
sezione della scienza e arte politica), e come d'altra
parte si
conoscono le linee di minore resistenza o razionali
per avere
l'obbedienza dei diretti o governati.
Nel formare i dirigenti è fondamentale la premessa:
si vuole
che ci siano sempre governati e governanti oppure si
vogliono creare le
condizioni in cui la necessità dell'esistenza di
questa divisione
sparisca? cioè si parte dalla premessa della perpetua
divisione del
genere umano o si crede che essa sia solo un fatto
storico, rispondente
a certe condizioni? Occorre tener chiaro tuttavia che
la divisione di
governati e governanti, seppure in ultima analisi
risalga a una
divisione di gruppi sociali, tuttavia esiste, date le
cose cosí come
sono, anche nel seno dello stesso gruppo, anche
socialmente omogeneo;
in un certo senso si può dire che essa divisione è una
creazione della
divisione del lavoro, è un fatto tecnico. Su questa
coesistenza di
motivi speculano coloro che vedono in tutto solo
«tecnica», necessità
«tecnica» ecc. per non proporsi il problema
fondamentale.
Dato
che anche nello stesso gruppo esiste la divisione tra
governanti e
governati, occorre fissare alcuni principii
inderogabili, ed è anzi su
questo terreno che avvengono gli «errori» piú gravi,
che cioè si
manifestano le incapacità piú criminali, ma piú
difficili a
raddrizzare. Si crede che essendo posto il principio
dallo stesso
gruppo, l'obbedienza debba essere automatica, debba
avvenire senza
bisogno di una dimostrazione di «necessità» e
razionalità non solo, ma
sia indiscutibile (qualcuno pensa e, ciò che è peggio,
opera secondo
questo pensiero, che l'obbedienza «verrà» senza essere
domandata, senza
che la via da seguire sia indicata). Cosí è difficile
estirpare dai
dirigenti il «cadornismo», cioè la persuasione che una
cosa sarà fatta
perché il dirigente ritiene giusto e razionale che sia
fatta: se non
viene fatta, «la colpa» viene riversata su chi
«avrebbe dovuto» ecc.
Cosí è difficile estirpare la abitudine criminale di
trascurare di
evitare i sacrifizi inutili. Eppure il senso comune
mostra che la
maggior parte dei disastri collettivi (politici)
avvengono perché non
si è cercato di evitare il sacrifizio inutile, o si è
mostrato di non
tener conto del sacrifizio altrui e si è giocato con
la pelle altrui.
Ognuno ha sentito raccontare da ufficiali del fronte
come realmente i
soldati arrischiassero la vita quando ciò era
necessario, ma come
invece si ribellassero quando si vedevano trascurati.
Per esempio: una
compagnia era capace di digiunare molti giorni perché
vedeva che i
viveri non potevano giungere per forza maggiore, ma si
ammutinava se un
pasto solo era saltato per la trascuratezza o il
burocratismo ecc.
Questo
principio si estende a tutte le azioni che domandano
sacrifizio. Per
cui sempre, dopo ogni rovescio, occorre prima di tutto
ricercare le
responsabilità dei dirigenti e ciò in senso stretto
(per esempio: un
fronte è costituito di piú sezioni e ogni sezione ha i
suoi dirigenti:
è possibile che di una sconfitta siano piú
responsabili i dirigenti di
una sezione che di un'altra, ma si tratta di piú e
meno, non di
esclusione di responsabilità per alcuno, mai).
Posto il
principio che esistono diretti e dirigenti, governati
e governanti, è
vero che i partiti sono finora il modo piú adeguato
per elaborare i
dirigenti e la capacità di direzione (i «partiti»
possono presentarsi
sotto i nomi piú diversi, anche quello di anti-partito
e di «negazione
dei partiti»; in realtà anche i cosí detti
«individualisti» sono uomini
di partito, solo che vorrebbero essere «capipartito»
per grazia di dio
o dell'imbecillità di chi li segue).
Svolgimento del
concetto generale che è contenuto nell'espressione
«spirito statale».
Questa espressione ha un significato ben preciso,
storicamente
determinato. Ma si pone il problema: esiste qualcosa
[di simile] a ciò
che si chiama «spirito statale» in ogni movimento
serio, cioè che non
sia l'espressione arbitraria di individualismi, piú o
meno
giustificati? Intanto lo «spirito statale» presuppone
la «continuità»
sia verso il passato, ossia verso la tradizione, sia
verso l'avvenire,
cioè presuppone che ogni atto sia il momento di un
processo complesso,
che è già iniziato e che continuerà. La responsabilità
di questo
processo, di essere attori di questo processo, di
essere solidali con
forze «ignote» materialmente, ma che pur si sentono
operanti e attive e
di cui si tiene conto, come se fossero «materiali» e
presenti
corporalmente, si chiama appunto in certi casi
«spirito statale». È
evidente che tale coscienza della «durata» deve essere
concreta e non
astratta, cioè, in certo senso, non deve oltrepassare
certi limiti;
mettiamo che i piú piccoli limiti siano una
generazione precedente e
una generazione futura, ciò che non è dir poco, poiché
le generazioni
si conteranno per ognuna non trenta anni prima e
trenta anni dopo di
oggi, ma organicamente, in senso storico, ciò che per
il passato almeno
è facile da comprendere: ci sentiamo solidali con gli
uomini che oggi
sono vecchissimi e che per noi rappresentano il
«passato» che ancora
vive fra noi, che occorre conoscere, con cui occorre
fare i conti, che
è uno degli elementi del presente e delle premesse del
futuro. E coi
bambini, con le generazioni nascenti e crescenti, di
cui siamo
responsabili. (Altro è il «culto» della «tradizione»
che ha un valore
tendenzioso, implica una scelta e un fine determinato,
cioè è a base di
una ideologia). Eppure, se si può dire che uno
«spirito statale» cosí
inteso è in tutti, occorre volta a volta combattere
contro deformazioni
di esso e deviazioni da esso. «Il gesto per il gesto»,
la lotta per la
lotta ecc. e specialmente l'individualismo gretto e
piccino, che poi è
un capriccioso soddisfare impulsi momentanei ecc. (In
realtà il punto è
sempre quello dell'«apoliticismo» italiano che assume
queste varie
forme pittoresche e bizzarre).
L'individualismo è solo
apoliticismo animalesco; il settarismo è
«apoliticismo» e se [ben] si
osserva, infatti, il settarismo è una forma di
«clientela» personale,
mentre manca lo spirito di partito, che è l'elemento
fondamentale dello
«spirito statale». La dimostrazione che lo spirito di
partito è
l'elemento fondamentale dello spirito statale è uno
degli assunti piú
cospicui da sostenere e di maggiore importanza; e
viceversa che
l'«individualismo» è un elemento animalesco, «ammirato
dai forestieri»
come gli atti degli abitanti di un giardino zoologico.
*
[Il partito politico.] Continua del «Nuovo Principe».
Si è
detto che protagonista del Nuovo Principe non potrebbe
essere
nell'epoca moderna un eroe personale, ma il partito
politico, cioè
volta per volta e nei diversi rapporti interni delle
diverse nazioni,
quel determinato partito che intende (ed è
razionalmente e storicamente
fondato a questo fine) fondare un nuovo tipo di Stato.
È da osservare
come nei regimi che si pongono come totalitari, la
funzione
tradizionale dell'istituto della corona è in realtà
assunta dal partito
determinato, che anzi è totalitario appunto perché
assolve a tale
funzione. Sebbene ogni partito sia espressione di un
gruppo sociale, e
di un solo gruppo sociale, tuttavia determinati
partiti appunto
rappresentano un solo gruppo sociale, in certe
condizioni date, in
quanto esercitano una funzione di equilibrio e di
arbitrato tra gli
interessi del proprio gruppo e gli altri gruppi, e
procurano che lo
sviluppo del gruppo rappresentato avvenga col consenso
e con l'aiuto
dei gruppi alleati, se non addirittura dei gruppi
decisamente
avversari. La formula costituzionale del re o del
presidente di
repubblica che «regna e non governa» è la formula
giuridica che esprime
questa funzione di arbitrato; la preoccupazione dei
partiti
costituzionali di non «scoprire» la corona o il
presidente, le formule
sulla non responsabilità, per gli atti governativi,
del capo dello
Stato, ma sulla responsabilità ministeriale, sono la
casistica del
principio generale di tutela della concezione
dell'unità statale, del
consenso dei governati all'azione statale, qualunque
sia il personale
immediato di governo e il suo partito.
Col partito totalitario queste formule perdono di
significato
e sono quindi diminuite le istituzioni che
funzionavano nel senso di
tali formule; ma la funzione stessa è incorporata dal
partito, che
esalterà il concetto astratto di «Stato» e cercherà
con vari modi di
dare l'impressione che la funzione «di forza
imparziale» è attiva ed
efficace.
*
È l'azione politica (in senso stretto) necessaria
perché si
possa parlare di «partito politico»? Si può osservare
che nel mondo
moderno in molti paesi i partiti organici e
fondamentali, per necessità
di lotta o per altra causa, si sono frazionati in
frazioni, ognuna
delle quali assume il nome di Partito e anche di
Partito indipendente.
Spesso perciò lo Stato Maggiore intellettuale del
Partito organico non
appartiene a nessuna di tali frazioni ma opera come se
fosse una forza
direttrice a sé stante, superiore ai partiti e
talvolta è anche creduto
tale dal pubblico. Questa funzione si può studiare con
maggiore
precisione se si parte dal punto di vista che un
giornale (o un gruppo
di giornali), una rivista (o un gruppo di riviste),
sono anch'essi
«partiti» o «frazioni di partito» o «funzione di
determinati partiti».
Si pensi alla funzione del «Times» in Inghilterra, a
quella che ebbe il
«Corriere della Sera» in Italia, e anche alla funzione
della cosí detta
«stampa d'informazione», sedicente «apolitica», e
perfino alla stampa
sportiva e a quella tecnica. Del resto il fenomeno
offre aspetti
interessanti nei paesi dove esiste un partito unico e
totalitario di
Governo: perché tale Partito non ha piú funzioni
schiettamente
politiche ma solo tecniche di propaganda, di polizia,
di influsso
morale e culturale. La funzione politica è indiretta:
poiché se non
esistono altri partiti legali, esistono sempre altri
partiti di fatto o
tendenze incoercibili legalmente, contro i quali si
polemizza e si
lotta come in una partita di mosca cieca. In ogni caso
è certo che in
tali partiti le funzioni culturali predominano, dando
luogo a un
linguaggio politico di gergo: cioè le quistioni
politiche si rivestono
di forme culturali e come tali diventano
irrisolvibili.
Ma un partito tradizionale ha un carattere essenziale
«indiretto», cioè si presenta esplicitamente come
puramente «educativo»
(lucus ecc.), moralistico, di cultura (sic): ed è il
movimento
libertario: anche la cosidetta azione diretta
(«terroristica») è
concepita come «propaganda» con l'esempio: da ciò si
può ancora
rafforzare il giudizio che il movimento libertario non
è autonomo, ma
vive al margine degli altri partiti, «per educarli», e
si può parlare
di un «libertarismo» inerente a ogni partito organico.
(Cosa sono i
«libertari intellettuali o cerebrali» se non un
aspetto di tale
«marginalismo» nei riguardi dei grandi partiti dei
gruppi sociali
dominanti?) La stessa «setta degli economisti» era un
aspetto storico
di questo fenomeno.
Si presentano pertanto due forme di
«partito» che pare faccia astrazione (come tale)
dall'azione politica
immediata: quello costituito da una élite di uomini di
cultura, che
hanno la funzione di dirigere dal punto di vista della
cultura,
dell'ideologia generale, un grande movimento di
partiti affini (che
sono in realtà frazioni di uno stesso partito
organico) e, nel periodo
piú recente, partito non di élite, ma di masse, che
come masse non
hanno altra funzione politica che quella di una
fedeltà generica, di
tipo militare, a un centro politico visibile o
invisibile (spesso il
centro visibile è il meccanismo di comando di forze
che non desiderano
mostrarsi in piena luce ma operare solo indirettamente
per interposta
persona e per «interposta ideologia»). La massa è
semplicemente di
«manovra» e viene «occupata» con prediche morali, con
pungoli
sentimentali, con miti messianici di attesa di età
favolose in cui
tutte le contraddizioni e miserie presenti saranno
automaticamente
risolte e sanate.
*
Sul concetto di partito politico. Quando si vuol
scrivere la
storia di un partito politico, in realtà occorre
affrontare tutta una
serie di problemi molto meno semplici di quanto creda,
per es., Roberto
Michels che pure è ritenuto uno specialista in
materia. Cosa sarà la
storia di un partito? Sarà la mera narrazione della
vita interna di una
organizzazione politica? come essa nasce, i primi
gruppi che la
costituiscono, le polemiche ideologiche attraverso cui
si forma il suo
programma e la sua concezione del mondo e della vita?
Si tratterebbe in
tal caso, della storia di ristretti gruppi
intellettuali e talvolta
della biografia politica di una singola individualità.
La cornice del
quadro dovrà, adunque, essere piú vasta e comprensiva.
Si dovrà fare la
storia di una determinata massa di uomini che avrà
seguito i promotori,
li avrà sorretti con la sua fiducia, con la sua
lealtà, con la sua
disciplina o li avrà criticati «realisticamente»
disperdendosi o
rimanendo passiva di fronte a talune iniziative. Ma
questa massa sarà
costituita solo dagli aderenti al partito? Sarà
sufficiente seguire i
congressi, le votazioni, ecc., cioè tutto l'insieme di
attività e di
modi di esistenza con cui una massa di partito
manifesta la sua
volontà? Evidentemente occorrerà tener conto del
gruppo sociale di cui
il partito dato è espressione e parte piú avanzata: la
storia di un
partito, cioè, non potrà non essere la storia di un
determinato gruppo
sociale. Ma questo gruppo non è isolato; ha amici,
affini, avversari,
nemici. Solo dal complesso quadro di tutto l'insieme
sociale e statale
(e spesso anche con interferenze internazionali)
risulterà la storia di
un determinato partito, per cui si può dire che
scrivere la storia di
un partito significa niente altro che scrivere la
storia generale di un
paese da un punto di vista monografico, per porne in
risalto un aspetto
caratteristico. Un partito avrà avuto maggiore o
minore significato e
peso, nella misura appunto in cui la sua particolare
attività avrà
pesato piú o meno nella determinazione della storia di
un paese.
Ecco quindi che dal modo di scrivere la storia di un
partito
risulta quale concetto si abbia di ciò che è un
partito o debba essere.
Il settario si esalterà nei fatterelli interni, che
avranno per lui un
significato esoterico e lo riempiranno di mistico
entusiasmo; lo
storico, pur dando a ogni cosa l'importanza che ha nel
quadro generale,
poserà l'accento soprattutto sull'efficienza reale del
partito, sulla
sua forza determinante, positiva e negativa, nell'aver
contribuito a
creare un evento e anche nell'aver impedito che altri
eventi si
compissero.
*
Quando si può dire che un partito sia formato e non
possa
essere distrutto con mezzi normali. Il punto di sapere
quando un
partito sia formato, cioè abbia un compito preciso e
permanente, dà
luogo a molte discussioni e spesso anche luogo,
purtroppo, a una forma
di boria che non è meno ridicola e pericolosa che la
«boria delle
nazioni» di cui parla il Vico. È vero che si può dire
che un partito
non è mai compiuto e formato, nel senso che ogni
sviluppo crea nuovi
compiti e mansioni e nel senso che per certi partiti è
vero il
paradosso che essi sono compiuti e formati quando non
esistono piú,
cioè quando la loro esistenza è diventata storicamente
inutile. Cosí,
poiché ogni partito non è che una nomenclatura di
classe, è evidente
che per il partito che si propone di annullare la
divisione in classi,
la sua perfezione e compiutezza consiste nel non
esistere piú perché
non esistono classi e quindi loro espressioni. Ma qui
si vuole
accennare a un particolare momento di questo processo
di sviluppo, al
momento successivo a quello in cui un fatto può
esistere e può non
esistere, nel senso che la necessità della sua
esistenza non è ancora
divenuta «perentoria», ma dipende in «gran parte»
dall'esistenza di
persone di straordinario potere volitivo e di
straordinaria volontà.
Quando un partito diventa «necessario» storicamente?
Quando le
condizioni del suo «trionfo», del suo immancabile
diventar Stato sono
almeno in via di formazione e lasciano prevedere
normalmente i loro
ulteriori sviluppi. Ma quando si può dire, in tali
condizioni, che un
partito non può essere distrutto con mezzi normali?
Per rispondere
occorre sviluppare un ragionamento: perché esista un
partito è
necessario che confluiscano tre elementi fondamentali
(cioè tre gruppi
di elementi). 1) Un elemento diffuso, di uomini
comuni, medi, la cui
partecipazione è offerta dalla disciplina e dalla
fedeltà, non dallo
spirito creativo ed altamente organizzativo. Senza di
essi il partito
non esisterebbe, è vero, ma è anche vero che il
partito non esisterebbe
neanche «solamente» con essi. Essi sono una forza in
quanto c'è chi li
centralizza, organizza, disciplina, ma in assenza di
questa forza
coesiva si sparpaglierebbero e si annullerebbero in un
pulviscolo
impotente. Non si nega che ognuno di questi elementi
possa diventare
una delle forze coesive, ma di essi si parla appunto
nel momento che
non lo sono e non sono in condizioni di esserlo, o se
lo sono lo sono
solo in una cerchia ristretta, politicamente
inefficiente e senza
conseguenza. 2) L'elemento coesivo principale, che
centralizza nel
campo nazionale, che fa diventare efficiente e potente
un insieme di
forze che lasciate a sé conterebbero zero o poco piú;
questo elemento è
dotato di forza altamente coesiva, centralizzatrice e
disciplinatrice e
anche (anzi forse per questo, inventiva, se si intende
inventiva in una
certa direzione, secondo certe linee di forza, certe
prospettive, certe
premesse anche): è anche vero che da solo questo
elemento non
formerebbe il partito, tuttavia lo formerebbe piú che
non il primo
elemento considerato. Si parla di capitani senza
esercito, ma in realtà
è piú facile formare un esercito che formare dei
capitani. Tanto vero
che un esercito già esistente è distrutto se vengono a
mancare i
capitani, mentre l'esistenza di un gruppo di capitani,
affiatati,
d'accordo tra loro, con fini comuni non tarda a
formare un esercito
anche dove non esiste. 3) Un elemento medio, che
articoli il primo col
terzo elemento, che li metta a contatto, non solo
«fisico» ma morale e
intellettuale. Nella realtà, per ogni partito esistono
delle
«proporzioni definite» tra questi tre elementi e si
raggiunge il
massimo di efficienza quando tali «proporzioni
definite» sono
realizzate.
Date queste considerazioni, si può dire che un
partito non
può essere distrutto con mezzi normali, quando,
esistendo
necessariamente il secondo elemento, la cui nascita è
legata
all'esistenza delle condizioni materiali oggettive (e
se questo secondo
elemento non esiste, ogni ragionamento è vacuo) sia
pure allo stato
disperso e vagante, non possono non formarsi gli altri
due, cioè il
primo che necessariamente forma il terzo come sua
continuazione e mezzo
di esprimersi. Occorre che perché ciò avvenga si sia
formata la
convinzione ferrea che una determinata soluzione dei
problemi vitali
sia necessaria. Senza questa convinzione non si
formerà il secondo
elemento, la cui distruzione è la piú facile per lo
scarso suo numero,
ma è necessario che questo secondo elemento, se
distrutto, abbia
lasciato come eredità un fermento da cui riformarsi. E
dove questo
fermento sussisterà meglio e potrà meglio formarsi che
nel primo e nel
terzo elemento, che, evidentemente, sono i piú
omogenei col secondo?
L'attività del secondo elemento per costituire questo
elemento è perciò
fondamentale: il criterio di giudizio di questo
secondo elemento sarà
da cercare: 1) in ciò che realmente fa; 2) in ciò che
prepara
nell'ipotesi di una sua distruzione. Tra i due fatti è
difficile dire
quale sia piú importante. Poiché nella lotta si deve
sempre prevedere
la sconfitta, la preparazione dei propri successori è
un elemento
altrettanto importante di ciò che si fa per vincere.
A
proposito della «boria» del partito, si può dire che
essa è peggiore
della boria delle nazioni di cui parla Vico. Perché?
Perché una nazione
non può non esistere e nel fatto che esiste è sempre
possibile, sia
pure con la buona volontà e sollecitando i testi,
trovare che
l'esistenza è piena di destino e di significato.
Invece un partito può
non esistere per forza propria. Non
occorre mai dimenticare
che nella lotta fra le nazioni, ognuna di esse ha
interesse che l'altra
sia indebolita dalle lotte interne e che i partiti
sono appunto gli
elementi delle lotte interne. Per i partiti dunque, è
sempre possibile
la domanda se essi esistano per forza propria, come
propria necessità,
o esistano invece solo per interesse altrui (e infatti
nelle polemiche
questo punto non è mai dimenticato, anzi è motivo
d'insistenza anche,
specialmente quando la risposta non è dubbia, ciò che
significa che ha
presa e lascia dubbi). Naturalmente, chi si lasciasse
dilaniare da
questo dubbio, sarebbe uno sciocco. Politicamente la
quistione ha una
rilevanza solo momentanea. Nella storia del cosí detto
principio di
nazionalità, gli interventi stranieri a favore dei
partiti nazionali
che turbavano l'ordine interno degli Stati antagonisti
sono
innumerevoli, tanto che quando si parla per esempio
della politica
«orientale» di Cavour si domanda se si trattava di una
«politica» cioè
di una linea d'azione permanente, o di uno stratagemma
del momento per
indebolire l'Austria in vista del '59 e del '66. Cosí
nei movimenti
mazziniani dei primi del 1870 (esempio, fatto
Barsanti) si vede
l'intervento di Bismark, che in vista della guerra con
la Francia e del
pericolo di un'alleanza italo-francese, pensava, con
conflitti interni,
a indebolire l'Italia. Cosí nei fatti del giugno 1914
alcuni vedono
l'intervento dello Stato Maggiore austriaco in vista
della successiva
guerra. Come si vede, la casistica è numerosa e
occorre avere idee
chiare in proposito. Ammesso che qualunque cosa si
faccia, si fa sempre
il gioco di qualcuno, l'importante è di cercare in
tutti i modi di fare
bene il proprio gioco, cioè di vincere nettamente. In
ogni modo occorre
disprezzare la «boria» del partito e alla boria
sostituire i fatti
concreti. Chi ai fatti concreti sostituisce la boria,
o fa la politica
della boria, è da sospettare di poca serietà
senz'altro. Non occorre
aggiungere che per i partiti occorre evitare anche
l'apparenza
«giustificata» che si faccia il gioco di qualcuno,
specialmente se il
qualcuno è uno Stato straniero: che poi si speculi,
nessuno può evitare
che non avvenga.
*
Partiti politici e funzioni di polizia. È difficile
escludere
che qualsiasi partito politico (dei gruppi dominanti,
ma anche di
gruppi subalterni) non adempia anche una funzione di
polizia, cioè di
tutela di un certo ordine politico e legale. Se questo
fosse dimostrato
tassativamente, la quistione dovrebbe essere posta in
altri termini: e
cioè, sui modi e gli indirizzi con cui una tale
funzione viene
esercitata. Il senso è repressivo o diffusivo, cioè è
di carattere
reazionario o progressivo? Il partito dato esercita la
sua funzione di
polizia per conservare un ordine esteriore,
estrinseco, pastoia delle
forze vive della storia, o la esercita nel senso che
tende a portare il
popolo a un nuovo livello di civiltà di cui l'ordine
politico e legale
è un'espressione programmatica? Infatti, una legge
trova chi la
infrange: 1) tra gli elementi sociali reazionari che
la legge ha
spodestato; 2) tra gli elementi progressivi che la
legge comprime; 3)
tra gli elementi che non hanno raggiunto il livello di
civiltà che la
legge può rappresentare. La funzione di polizia di un
partito può
dunque essere progressiva e regressiva: è progressiva
quando essa tende
a tenere nell'orbita della legalità le forze
reazionarie spodestate e a
sollevare al livello della nuova legalità le masse
arretrate. È
regressiva quando tende a comprimere le forze vive
della storia e a
mantenere una legalità sorpassata, antistorica,
divenuta estrinseca.
Del resto il funzionamento del Partito dato fornisce
criteri
discriminanti: quando il partito è progressivo esso
funziona
«democraticamente» (nel senso di un centralismo
democratico), quando il
partito è regressivo esso funziona «burocraticamente»
(nel senso di un
centralismo burocratico). Il Partito in questo secondo
caso è puro
esecutore, non deliberante: esso allora è tecnicamente
un organo di
polizia e il suo nome di Partito politico è una pura
metafora di
carattere mitologico.
*
[Industriali e agrari.] Si pone il problema se i
grandi
industriali abbiano un partito politico permanente
proprio. La risposta
mi pare debba essere negativa. I grandi industriali si
servono volta a
volta di tutti i partiti esistenti, ma non hanno un
partito proprio.
Essi non sono perciò «agnostici» o «apolitici» in
qualsiasi modo: il
loro interesse è un determinato equilibrio, che
ottengono appunto
rafforzando coi loro mezzi, volta a volta, questo o
quello dei partiti
del vario scacchiere politico (con eccezione, si
intende, del solo
partito antagonista, il cui rafforzamento non può
essere aiutato
neppure per mossa tattica). È certo però che se ciò
avviene nella vita
«normale», nei casi estremi, che poi sono quelli che
contano (come la
guerra nella vita nazionale), il partito dei grandi
industriali è
quello degli agrari, i quali hanno invece un proprio
partito permanente.
Si può vedere l'esemplificazione di questa nota in
Inghilterra, dove il partito conservatore si è
mangiato il partito
liberale, che pure tradizionalmente appariva come il
partito degli
industriali. La situazione inglese, con le sue grandi
Trade Unions
spiega questo fatto. In Inghilterra non esiste
formalmente un partito
antagonista agli industriali in grande stile, è vero,
ma esistono le
organizzazioni operaie di massa, ed è stato osservato
come esse, in
certi momenti, quelli decisivi, si trasformino
costituzionalmente dal
basso in alto spezzando l'involucro burocratico (es.
nel 1919 e nel
1926). D'altronde esistono interessi permanenti
stretti tra agrari e
industriali (specialmente ora che il protezionismo è
diventato
generale, agrario e industriale) ed è innegabile che
gli agrari sono
«politicamente» molto meglio organizzatori degli
industriali, attirano
piú gli intellettuali, sono piú «permanenti» nelle
loro direttive ecc.
La sorte dei partiti «industriali» tradizionali, come
quello
«liberale-radicale» inglese e quello radicale francese
(che però si
differenziò sempre molto dal primo) è interessante
(cosí quello
«radicale italiano» di buona memoria): che cosa
rappresentavano essi?
Un nesso di classi grandi e piccole, non una sola
grande classe; perciò
il loro vario divenire e sparire; la truppa di
«manovra» era data dalla
classe piccola, che si trovò in condizioni sempre
diverse nel nesso
fino a trasformarsi completamente. Oggi dà la truppa
ai «partiti
demagogici» e si comprende.
In generale si può dire che in
questa storia dei partiti, la comparazione tra i vari
paesi è delle piú
istruttive e decisive per trovare l'origine delle
cause di
trasformazione. Ciò anche nelle polemiche tra partiti
dei paesi
«tradizionalisti» dove cioè sono rappresentati
«scampoli» di tutto il
«catalogo» storico.
*
Concezioni del mondo e atteggiamenti pratici
totalitari e
parziali. Un criterio primordiale di giudizio sia per
le concezioni del
mondo, sia e specialmente per gli atteggiamenti
pratici è questo: la
concezione del mondo o l'atteggiamento pratico può
essere concepito
«isolato, indipendente» con tutta la responsabilità
della vita
collettiva su di sé, o ciò è impossibile e la
concezione del mondo e
l'atteggiamento pratico può solo essere concepito come
«integrazione»,
perfezionamento, contrappeso ecc. di un'altra
concezione del mondo e
atteggiamento pratico? Se si riflette, si vede che
questo criterio è
decisivo per un giudizio ideale sui moti ideali e sui
moti pratici e si
vede anche che esso ha una portata pratica non
piccola. Uno degli idoli
piú comuni è quello di credere che tutto ciò che
esiste è «naturale»
esista, non può a meno di esistere e che i propri
tentativi di riforma,
per male che vadano, non interromperanno la vita,
perché le forze
tradizionali continueranno ad operare e appunto
continueranno la vita.
In questo modo di pensare c'è del giusto, certamente,
e guai se cosí
non fosse, tuttavia questo modo di pensare oltre certi
limiti diventa
pericoloso (certi casi della politica del peggio) e in
ogni modo, come
si è detto, sussiste il criterio di giudizio
filosofico, politico e
storico. È certo che, se si osserva in fondo, certi
moti concepiscono
se stessi come marginali; presuppongono cioè un moto
principale in cui
innestarsi per riformare certi presunti o veri mali,
cioè certi moti
sono puramente riformistici. Questo principio ha
importanza politica
perché la verità teorica che ogni classe ha un solo
partito è
dimostrata, nelle svolte decisive, dal fatto che
aggruppamenti varii,
ognuno dei quali si presentava come partito
«indipendente», si
riuniscono e bloccano in unità. La molteplicità
esistente prima era
solo di carattere «riformistico», cioè riguardava
questioni parziali,
in un certo senso era una divisione del lavoro
politico (utile, nei
suoi limiti); ma ogni parte presupponeva l'altra,
tanto che nei momenti
decisivi, cioè appunto quando le quistioni principali
sono state messe
in gioco, l'unità si è formata, il blocco si è
verificato. Da ciò la
conclusione che nella costruzione dei partiti, occorre
basarsi su un
carattere «monolitico» e non su quistioni secondarie,
quindi attenta
osservazione che ci sia omogeneità tra dirigenti e
diretti, tra capi e
massa. Se nei momenti decisivi, i capi passano al loro
«vero partito»
le masse rimangono in tronco, inerti e senza
efficacia.
Si può dire che nessun moto reale acquista coscienza
della
sua totalitarietà d'un colpo, ma solo per esperienze
successive, cioè
quando s'accorge, dai fatti, che niente di ciò che è,
è naturale (nel
senso bislacco della parola) ma esiste perché ci sono
certe condizioni,
la cui sparizione non rimane senza conseguenze. Cosí
il moto si
perfeziona, perde i caratteri di arbitrarietà, di
«simbiosi», diventa
davvero indipendente, nel senso che per avere certe
conseguenze crea le
premesse necessarie e anzi sulla creazione di queste
premesse impegna
tutte le sue forze.
*
Alcuni aspetti teorici e pratici dell'«economismo».
Economismo
– movimento teorico per il libero scambio –
sindacalismo teorico. È da
vedere in che misura il sindacalismo teorico abbia
avuto origine dalla
filosofia della praxis e in quanto dalle dottrine
economiche del libero
scambio, cioè, in ultima analisi, dal liberalismo. E
perciò è da vedere
se l'economismo, nella sua forma piú compiuta, non sia
una filiazione
diretta del liberalismo e abbia avuto, anche alle
origini, ben pochi
rapporti colla filosofia della praxis, rapporti in
ogni modo solo
estrinseci e puramente verbali. Da questo punto di
vista è da vedere la
polemica Einaudi-Croce, determinata dalla prefazione
nuova (del 1917)
al volume sul Materialismo storico: la esigenza,
prospettata
dall'Einaudi, di tener conto della letteratura di
storia economica
suscitata dall'economia classica inglese, può essere
soddisfatta in
questo senso, che una tale letteratura, per una
contaminazione
superficiale con la filosofia della praxis, ha
originato l'economismo;
perciò quando l'Einaudi critica (in modo, a dir vero,
impreciso) alcune
degenerazioni economistiche, non fa altro che tirare
sassi in
piccionaia. Il nesso tra ideologie libero-scambiste e
sindacalismo
teorico è specialmente evidente in Italia, dove sono
note l'ammirazione
per Pareto dei sindacalisti come Lanzillo e C. Il
significato di queste
due tendenze è però molto diverso: il primo è proprio
di un gruppo
sociale dominante e dirigente, il secondo di un gruppo
ancora
subalterno, che non ha ancora acquistato coscienza
della sua forza e
delle sue possibilità e modi di sviluppo e non sa
perciò uscire dalla
fase di primitivismo. L'impostazione del movimento del
libero scambio
si basa su un errore teorico di cui non è difficile
identificare
l'origine pratica: sulla distinzione cioè tra società
politica e
società civile, che da distinzione metodica viene
fatta diventare ed è
presentata come distinzione organica. Cosí si afferma
che l'attività
economica è propria della società civile e che lo
Stato non deve
intervenire nella sua regolamentazione. Ma siccome
nella realtà
effettuale società civile e Stato si identificano, è
da fissare che
anche il liberismo è una «regolamentazione» di
carattere statale,
introdotto e mantenuto per via legislativa e
coercitiva: è un fatto di
volontà consapevole dei propri fini e non
l'espressione spontanea,
automatica del fatto economico. Pertanto il liberismo
è un programma
politico, destinato a mutare, in quanto trionfa, il
personale dirigente
di uno Stato e il programma economico dello Stato
stesso, cioè a mutare
la distribuzione del reddito nazionale. Diverso è il
caso del
sindacalismo teorico, in quanto si riferisce a un
gruppo subalterno, al
quale con questa teoria si impedisce di diventare mai
dominante, di
svilupparsi oltre la fase economico-corporativa per
elevarsi alla fase
di egemonia etico-politica nella società civile e
dominante nello
Stato. Per ciò che riguarda il liberismo si ha il caso
di una frazione
del gruppo dirigente che vuole modificare non la
struttura dello Stato,
ma solo l'indirizzo di governo, che vuole riformare la
legislazione
commerciale e solo indirettamente industriale (poiché
è innegabile che
il protezionismo, specialmente nei paesi a mercato
povero e ristretto,
limita la libertà di iniziativa industriale e
favorisce morbosamente il
nascere dei monopoli): si tratta di rotazione dei
partiti dirigenti al
governo, non di fondazione e organizzazione di una
nuova società
politica e tanto meno di un nuovo tipo di società
civile. Nel movimento
del sindacalismo teorico la quistione si presenta piú
complessa: è
innegabile che in esso l'indipendenza e l'autonomia
del gruppo
subalterno che si dice di esprimere sono invece
sacrificate
all'egemonia intellettuale del gruppo dominante,
poiché appunto il
sindacalismo teorico non è che un aspetto del
liberismo, giustificato
con alcune affermazioni mutilate, e pertanto
banalizzate, della
filosofia della praxis. Perché e come avviene questo
«sacrifizio»? Si
esclude la trasformazione del gruppo subordinato in
dominante, o perché
il problema non è neppure prospettato (fabianesimo, De
Man, parte
notevole del laburismo) o perché è presentato in forme
incongrue e
inefficienti (tendenze socialdemocratiche in generale)
o perché si
afferma il salto immediato dal regime dei gruppi a
quello della
perfetta eguaglianza e dell'economia sindacale.
È per lo meno strano l'atteggiamento dell'economismo
verso le
espressioni di volontà, di azione e di iniziativa
politica e
intellettuale, come se queste non fossero una
emanazione organica di
necessità economiche e anzi la sola espressione
efficiente
dell'economia; cosí è incongruo che l'impostazione
concreta della
quistione egemonica sia interpretata come un fatto che
subordina il
gruppo egemone. Il fatto dell'egemonia presuppone
indubbiamente che sia
tenuto conto degli interessi e delle tendenze dei
gruppi sui quali
l'egemonia verrà esercitata, che si formi un certo
equilibrio di
compromesso, che cioè il gruppo dirigente faccia dei
sacrifizi di
ordine economico-corporativo, ma è anche indubbio che
tali sacrifizi e
tale compromesso non possono riguardare l'essenziale,
poiché se
l'egemonia è etico-politica, non può non essere anche
economica, non
può non avere il suo fondamento nella funzione
decisiva che il gruppo
dirigente esercita nel nucleo decisivo dell'attività
economica.
L'economismo
si presenta sotto molte altre forme oltre che il
liberismo e il
sindacalismo teorico. Gli appartengono tutte le forme
di astensionismo
elettorale (esempio tipico l'astensionismo dei
clericali italiani dopo
il 1870, dopo il 1900 sempre piú attenuato, fino al
1919 e alla
formazione del Partito popolare: la distinzione
organica che i
clericali facevano tra Italia reale e Italia legale
era una
riproduzione della distinzione tra mondo economico e
mondo
politico-legale), che sono molte, nel senso che può
esserci
semi-astensionismo, un quarto ecc. All'astensionismo è
legata la
formula del «tanto peggio, tanto meglio» e anche la
formula della cosí
detta «intransigenza» parlamentare di alcune frazioni
di deputati. Non
sempre l'economismo è contrario all'azione politica e
al partito
politico, che viene però considerato mero organismo
educativo di tipo
sindacale.
Un punto di riferimento per lo studio
dell'economismo e per comprendere i rapporti tra
struttura e
superstrutture è quel passaggio della Miseria
della
Filosofia dove si dice che una fase importante
nello sviluppo di
un gruppo sociale è quella in cui i singoli componenti
di un sindacato
non lottano solo piú per i loro interessi economici,
ma per la difesa e
lo sviluppo dell'organizzazione stessa (vedere la
affermazione esatta;
la Miseria della Filosofia è un momento
essenziale nella
formazione della filosofia della praxis; essa può
essere considerata
come lo svolgimento delle Tesi su Feuerbach,
mentre la Sacra
Famiglia è una fase intermedia indistinta e di
origine
occasionale, come appare dai brani dedicati al
Proudhon e specialmente
al materialismo francese. Il brano sul materialismo
francese è piú che
altro un capitolo di storia della cultura e non un
brano teoretico,
come spesso viene interpretato, e come storia della
cultura è
ammirevole. Ricordare l'osservazione che la critica
contenuta
nella Miseria della Filosofia contro
Proudhon e la sua
interpretazione della dialettica hegeliana può essere
estesa al
Gioberti e allo hegelismo dei liberali moderati
italiani in genere. Il
parallelo Proudhon-Gioberti, nonostante rappresentino
fasi
storico-politiche non omogenee, anzi appunto per
questo, può essere
interessante e fecondo). È da ricordare insieme
l'affermazione di
Engels che l'economia solo in «ultima analisi» è la
molla della storia
(nelle due lettere sulla filosofia della praxis
pubblicate anche in
italiano) da collegarsi direttamente al passo della
prefazione
della Critica dell'Economia politica, dove si
dice che gli uomini
diventano consapevoli dei conflitti che si verificano
nel mondo
economico sul terreno delle ideologie.
In varie occasioni
è affermato in queste note che la filosofia della
praxis è molto piú
diffusa di quanto non si voglia concedere.
L'affermazione è esatta se
si intende che è diffuso l'economismo storico, come il
prof. Loria
chiama ora le sue concezioni piú o meno sgangherate, e
che pertanto
l'ambiente culturale è completamente mutato dal tempo
in cui la
filosofia della praxis iniziò le sue lotte; si
potrebbe dire, con
terminologia crociana, che la piú grande eresia sorta
nel seno della
«religione della libertà» ha anch'essa, come la
religione ortodossa,
subito una degenerazione, si è diffusa come
«superstizione», cioè è
entrata in combinazione col liberismo e ha prodotto
l'economismo. È da
vedere però se, mentre la religione ortodossa si è
ormai imbozzacchita,
la superstizione eretica non abbia sempre mantenuto un
fermento che la
farà rinascere come religione superiore, se cioè le
scorie di
superstizione non siano facilmente liquidabili.
Alcuni
punti caratteristici dell'economismo storico: 1) nella
ricerca dei
nessi storici non si distingue ciò che è
«relativamente permanente» da
ciò che è fluttuazione occasionale e si intende per
fatto economico
l'interesse personale e di piccolo gruppo, in senso
immediato e
«sordidamente giudaico». Non si tiene conto cioè delle
formazioni di
classe economica, con tutti i rapporti inerenti, ma si
assume
l'interesse gretto e usurario, specialmente quando
coincide con forme
delittuose contemplate dai codici criminali; 2) la
dottrina per cui lo
svolgimento economico viene ridotto al susseguirsi dei
cangiamenti
tecnici negli strumenti di lavoro. Il prof. Loria ha
fatto
un'esposizione brillantissima di questa dottrina
applicata
nell'articolo sull'influsso sociale dell'aeroplano,
pubblicato nella
«Rassegna contemporanea» del 1912; 3) la dottrina per
cui lo
svolgimento economico e storico viene fatto dipendere
immediatamente
dai mutamenti di un qualche elemento importante della
produzione, la
scoperta di una nuova materia prima, di un nuovo
combustibile ecc., che
portano con sé l'applicazione di nuovi metodi nella
costruzione e
nell'azionamento delle macchine. In questi ultimi
tempi c'è tutta una
letteratura sul petrolio: si può vedere come tipico un
articolo di
Antonino Laviosa nella «Nuova Antologia» del 1929. La
scoperta di nuovi
combustibili e di nuove energie motrici, come di nuove
materie prime da
trasformare, hanno certo grande importanza, perché può
mutare la
posizione dei singoli Stati, ma non determina il moto
storico ecc.
Avviene
spesso che si combatte l'economismo storico, credendo
di combattere il
materialismo storico. È questo il caso, per esempio,
di un articolo
dell'«Avenir» di Parigi del 10 ottobre 1930 (riportato
nella «Rassegna
Settimanale della Stampa Estera» del 21 ottobre 1930,
pp. 2303-4) e che
si riporta come tipico: «Ci si dice da molto tempo, ma
sopratutto dopo
la guerra, che le quistioni d'interesse dominano i
popoli e portano
avanti il mondo. Sono i marxisti che hanno inventato
questa tesi, sotto
l'appellativo un po' dottrinario di "materialismo
storico". Nel
marxismo puro, gli uomini presi in massa non
obbediscono alle passioni,
ma alle necessità economiche. La politica è una
passione. La Patria è
una passione. Queste due idee esigenti non godono
nella storia che una
funzione di apparenza perché in realtà la vita dei
popoli, nel corso
dei secoli, si spiega con un gioco cangiante e sempre
rinnovato di
cause di ordine materiale. L'economia è tutto. Molti
filosofi ed
economisti "borghesi" hanno ripreso questo ritornello.
Essi assumono
una certa aria da spiegarci col corso del grano, dei
petroli o del
caucciú, la grande politica internazionale. Essi si
ingegnano a
dimostrarci che tutta la diplomazia è comandata da
quistioni di tariffe
doganali e di prezzi di costo. Queste spiegazioni sono
molto in auge.
Esse hanno una piccola apparenza scientifica e
procedono da una specie
di scetticismo superiore che vorrebbe passare per una
eleganza suprema.
La passione in politica estera? Il sentimento in
materia nazionale?
Suvvia! Questa roba è buona per la gente comune. I
grandi spiriti, gli
iniziati sanno che tutto è dominato dal dare e
dall'avere. Ora questa è
una pseudo-verità assoluta. È completamente falso che
i popoli non si
lasciano guidare che da considerazioni di interesse ed
è completamente
vero che essi obbediscono [piú che mai al sentimento.
Il materialismo
storico è una buona scemenza. Le nazioni obbediscono]
sopratutto a
delle considerazioni dettate da un desiderio e da una
fede ardente di
prestigio. Chi non comprende questo non comprende
nulla». La
continuazione dell'articolo (intitolato La mania
del prestigio)
esemplifica con la politica tedesca e italiana, che
sarebbe di
«prestigio» e non dettata da interessi materiali.
L'articolo racchiude
in breve una gran parte degli spunti piú banali di
polemica contro la
filosofia della praxis, ma in realtà la polemica è
contro l'economismo
sgangherato di tipo loriano. D'altronde lo scrittore
non è molto
ferrato in argomento anche per altri rispetti: egli
non capisce che le
«passioni» possono essere niente altro che un sinonimo
degli interessi
economici e che è difficile sostenere essere
l'attività politica uno
stato permanente di esasperazione passionale e di
spasimo; proprio la
politica francese è presentata come una «razionalità»
sistematica e
coerente, cioè depurata di ogni elemento passionale
ecc.
Nella
sua forma piú diffusa di superstizione economistica,
la filosofia della
praxis perde una gran parte della sua espansività
culturale nella sfera
superiore del gruppo intellettuale, per quanta ne
acquista tra le masse
popolari e tra gli intellettuali di mezza tacca, che
non intendono
affaticarsi il cervello ma vogliono apparire
furbissimi ecc. Come
scrisse Engels, fa molto comodo a molti credere di
poter avere, a poco
prezzo e con nessuna fatica, in saccoccia, tutta la
storia e tutta la
sapienza politica e filosofica concentrata in qualche
formuletta.
Avendo dimenticato che la tesi secondo cui gli uomini
acquistano
coscienza dei conflitti fondamentali nel terreno delle
ideologie non è
di carattere psicologico o moralistico, ma ha un
carattere organico
gnoseologico, si è creata la forma mentis di
considerare la politica e
quindi la storia come un continuo marché de dupes, un
gioco di
illusionismi e di prestidigitazione. L'attività
«critica» si è ridotta
a svelare trucchi, a suscitare scandali, a fare i
conti in tasca agli
uomini rappresentativi.
Si è cosí dimenticato che essendo
o presumendo di essere anche l'«economismo» un canone
obbiettivo di
interpretazione (obbiettivo-scientifico), la ricerca
nel senso degli
interessi immediati dovrebbe esser valida per tutti
gli aspetti della
storia, per gli uomini che rappresentano la «tesi»
come per quelli che
rappresentano l'«antitesi». Si è dimenticato inoltre
un'altra
proposizione della filosofia della praxis: quella che
le «credenze
popolari» o le credenze del tipo delle credenze
popolari hanno la
validità delle forze materiali.
Gli errori di
interpretazione nel senso delle ricerche degli
interessi «sordidamente
giudaici» sono stati talvolta grossolani e comici e
hanno cosí reagito
negativamente sul prestigio della dottrina originaria.
Occorre perciò
combattere l'economismo non solo nella teoria della
storiografia, ma
anche e specialmente nella teoria e nella pratica
politica. In questo
campo la lotta può e deve essere condotta sviluppando
il concetto di
egemonia, cosí come è stata condotta praticamente
nello sviluppo della
teoria del partito politico e nello sviluppo pratico
della vita di
determinati partiti politici (la lotta contro la
teoria della cosí
detta rivoluzione permanente, cui si contrapponeva il
concetto di
dittatura democratico-rivoluzionaria, importanza avuta
dal sostegno
dato alle ideologie costituentiste ecc.). Si potrebbe
fare una ricerca
sui giudizi emessi a mano a mano che si sviluppavano
certi movimenti
politici, prendendo come tipo il movimento boulangista
(dal 1886 al
1890 circa), o il processo Dreyfus o addirittura il
colpo di Stato del
2 dicembre (un'analisi del libro classico sul 2
dicembre, per studiare
quale importanza relativa vi si dà al fattore
economico immediato e
quale posto invece vi abbia lo studio concreto delle
«ideologie»). Di
fronte a questo evento, l'economismo si pone la
domanda: a chi giova
immediatamente l'iniziativa in quistione? e risponde
con un
ragionamento tanto semplicistico quanto paralogistico.
Giova
immediatamente a una certa frazione del gruppo
dominante e per non
sbagliare questa scelta cade su quella frazione che
evidentemente ha
una funzione progressiva e di controllo sull'insieme
delle forze
economiche. Si può esser sicuri di non sbagliare,
perché
necessariamente, se il movimento preso in esame andrà
al potere, prima
o poi la frazione progressiva del gruppo dominante
finirà col
controllare il nuovo governo e col farsene uno
strumento per rivolgere
a proprio benefizio l'apparato statale. Si tratta
adunque di una
infallibilità molto a buon mercato e che non solo non
ha significato
teorico, ma ha scarsissima portata politica ed
efficacia pratica: in
generale non produce altro che prediche moralistiche e
quistioni
personali interminabili.
Quando un movimento di tipo
boulangista si produce, l'analisi dovrebbe
realisticamente essere
condotta secondo questa linea: 1) contenuto sociale
della massa che
aderisce al movimento; 2) questa massa che funzione
aveva
nell'equilibrio di forze che va trasformandosi come il
nuovo movimento
dimostra col suo stesso nascere? 3) le rivendicazioni
che i dirigenti
presentano e che trovano consenso quale significato
hanno politicamente
e socialmente? a quali esigenze effettive
corrispondono? 4) esame della
conformità dei mezzi al fine proposto; 5) solo in
ultima analisi e
presentata in forma politica e non moralistica si
prospetta l'ipotesi che tale movimento
necessariamente verrà
snaturato e servirà a ben altri fini da quelli che le
moltitudini
seguaci se ne attendono. Invece questa ipotesi viene
affermata
preventivamente, quando nessun elemento concreto (che
cioè appaia tale
con l'evidenza del senso comune e non per una analisi
«scientifica»
esoterica) esiste ancora per suffragarla, cosí che
essa appare come
un'accusa moralistica di doppiezza e di malafede o di
poca furberia, di
stupidaggine (per i seguaci). La lotta politica cosí
diventa una serie
di fatti personali tra chi la sa lunga, avendo il
diavolo nell'ampolla,
e chi è preso in giro dai propri dirigenti e non vuole
convincersene
per la sua inguaribile buaggine.
D'altronde, finché questi
movimenti non hanno raggiunto il potere, si può sempre
pensare che essi
falliscano e alcuni infatti sono falliti (il
boulangismo stesso, che è
fallito come tale ed è poi stato schiacciato
definitivamente col
movimento dreyfusardo, il movimento di Giorgio Valois,
quello del
Generale Gajda); la ricerca deve quindi dirigersi
all'identificazione
degli elementi di forza, ma anche degli elementi di
debolezza che essi
contengono nel loro intimo: l'ipotesi «economistica»
afferma un
elemento immediato di forza, cioè la disponibilità di
un certo apporto
finanziario diretto o indiretto (un grande giornale
che appoggi il
movimento è anche esso un apporto finanziario
indiretto) e basta.
Troppo poco.
Anche in questo caso l'analisi dei diversi
gradi di rapporto delle forze non può culminare che
nella sfera
dell'egemonia e dei rapporti etico-politici.
*
Un elemento da aggiungere al paragrafo
dell'economismo, come
esemplificazione delle teorie cosí dette
dell'intransigenza, è quello
della rigida avversione di principio ai cosí detti
compromessi, che ha
come manifestazione subordinata quella che si può
chiamare la «paura
dei pericoli». Che l'avversione di principio ai
compromessi sia
strettamente legata all'economismo è chiaro, in quanto
la concezione su
cui si fonda questa avversione non può essere altro
che la convinzione
ferrea che esistano per lo sviluppo storico leggi
obbiettive dello
stesso carattere delle leggi naturali, con in piú la
persuasione di un
finalismo fatalistico di carattere simile a quello
religioso: poiché le
condizioni favorevoli dovranno fatalmente verificarsi
e da esse saranno
determinati, in modo alquanto misterioso, avvenimenti
palingenetici,
risulta l'inutilità non solo, ma il danno di ogni
iniziativa volontaria
tendente a predisporre queste situazioni secondo un
piano. Accanto a
queste convinzioni fatalistiche sta tuttavia la
tendenza ad affidarsi
«in seguito» ciecamente e scriteriatamente alla virtú
regolatrice delle
armi, ciò che però non è completamente senza una
logica e una coerenza,
poiché si pensa che l'intervento della volontà è utile
per la
distruzione, non per la ricostruzione (già in atto nel
momento stesso
della distruzione). La distruzione viene concepita
meccanicamente non
come distruzione-ricostruzione. In tali modi di
pensare non si tiene
conto del fattore «tempo» e non si tiene conto, in
ultima analisi,
della stessa «economia» nel senso che non si capisce
come i fatti
ideologici di massa sono sempre in arretrato sui
fenomeni economici di
massa e come pertanto in certi momenti la spinta
automatica dovuta al
fattore economico è rallentata, impastoiata o anche
spezzata
momentaneamente da elementi ideologici tradizionali,
che perciò deve
esserci lotta cosciente e predisposta per far
«comprendere» le esigenze
della posizione economica di massa che possono essere
in contrasto con
le direttive dei capi tradizionali. Una iniziativa
politica appropriata
è sempre necessaria per liberare la spinta economica
dalle pastoie
della politica tradizionale, per mutare cioè la
direzione politica di
certe forze che è necessario assorbire per realizzare
un nuovo,
omogeneo, senza contraddizioni interne, blocco storico
economico-politico, e poiché due forze «simili» non
possono fondersi in
organismo nuovo che attraverso una serie di
compromessi o con la forza
delle armi, alleandole su un piano di alleanza o
subordinando l'una
all'altra con la coercizione, la quistione è se si ha
questa forza e se
sia «produttivo» impiegarla. Se l'unione di due forze
è necessaria per
vincere una terza, il ricorso alle armi e alla
coercizione (dato che se
ne abbia la disponibilità) è una pura ipotesi metodica
e l'unica
possibilità concreta è il compromesso, poiché la forza
può essere
impiegata contro i nemici, non contro una parte di se
stessi che si
vuole rapidamente assimilare e di cui occorre la
«buona volontà» e
l'entusiasmo.
*
[Previsione e prospettiva.] Altro punto da fissare e
da
svolgere è quello della «doppia prospettiva»
nell'azione politica e
nella vita statale. Vari gradi in cui può presentarsi
la doppia
prospettiva, dai piú elementari ai piú complessi, ma
che possono
ridursi teoricamente a due gradi fondamentali,
corrispondenti alla
doppia natura del Centauro machiavellico, ferina ed
umana, della forza
e del consenso, dell'autorità e dell'egemonia, della
violenza e della
civiltà, del momento individuale e di quello
universale (della «Chiesa»
e dello «Stato»), dell'agitazione e della propaganda,
della tattica e
della strategia ecc. Alcuni hanno ridotto la teoria
della «doppia
prospettiva» a qualcosa di meschino e di banale, a
niente altro cioè
che a due forme di «immediatezza» che si succedono
meccanicamente nel
tempo con maggiore o minore «prossimità». Può invece
avvenire che
quanto piú la prima «prospettiva» è «immediatissima»,
elementarissima,
tanto piú la seconda debba essere «lontana» (non nel
tempo, ma come
rapporto dialettico) complessa, elevata, cioè può
avvenire come nella
vita umana, che quanto piú un individuo è costretto a
difendere la
propria esistenza fisica immediata, tanto piú sostiene
e si pone dal
punto di vista di tutti i complessi e piú elevati
valori della civiltà
e dell'umanità.
*
Sul concetto di previsione o prospettiva. È certo che
prevedere significa solo veder bene il presente e il
passato in quanto
movimento: veder bene, cioè identificare con esattezza
gli elementi
fondamentali e permanenti del processo. Ma è assurdo
pensare a una
previsione puramente «oggettiva». Chi fa la previsione
in realtà ha un
«programma» da far trionfare e la previsione è appunto
un elemento di
tale trionfo. Ciò non significa che la previsione
debba sempre essere
arbitraria e gratuita o puramente tendenziosa. Si può
anzi dire che
solo nella misura in cui l'aspetto oggettivo della
previsione è
connesso con un programma esso aspetto acquista
oggettività: 1) perché
solo la passione aguzza l'intelletto e coopera a
rendere piú chiara
l'intuizione; 2) perché essendo la realtà il risultato
di una
applicazione della volontà umana alla società delle
cose (del
macchinista alla macchina), prescindere da ogni
elemento volontario o
calcolare solo l'intervento delle altrui volontà come
elemento
oggettivo del gioco generale mutila la realtà stessa.
Solo chi
fortemente vuole identifica gli elementi necessari
alla realizzazione
della sua volontà. Perciò ritenere che una determinata
concezione del
mondo e della vita abbia in se stessa una superiorità
di capacità di
previsione è un errore di grossolana fatuità e
superficialità. Certo
una concezione del mondo è implicita in ogni
previsione e pertanto che
essa sia una sconnessione di atti arbitrari del
pensiero o una rigorosa
e coerente visione non è senza importanza, ma
l'importanza appunto
l'acquista nel cervello vivente di chi fa la
previsione e la vivifica
con la sua forte volontà. Ciò si vede dalle previsioni
fatte dai cosí
detti «spassionati»: esse abbondano di oziosità, di
minuzie sottili, di
eleganze congetturali. Solo l'esistenza nel
«previsore» di un programma
da realizzare fa sí che egli si attenga
all'essenziale, a quegli
elementi che essendo «organizzabili», suscettibili di
essere diretti o
deviati, in realtà sono essi soli prevedibili. Ciò va
contro il comune
modo di considerare la quistione. Si pensa
generalmente che ogni atto
di previsione presuppone la determinazione di leggi di
regolarità del
tipo di quelle delle scienze naturali. Ma siccome
queste leggi non
esistono nel senso assoluto o meccanico che si
suppone, non si tiene
conto delle altrui volontà e non si «prevede» la loro
applicazione.
Pertanto si costruisce su una ipotesi arbitraria e non
sulla realtà.
*
Il «troppo» (e quindi superficiale e meccanico)
realismo
politico porta spesso ad affermare che l'uomo di Stato
deve operare
solo nell'ambito della «realtà effettuale», non
interessarsi del «dover
essere», ma solo dell'«essere». Ciò significherebbe
che l'uomo di Stato
non deve avere prospettive oltre la lunghezza del
proprio naso. Questo
errore ha condotto Paolo Treves a trovare nel
Guicciardini e non nel
Machiavelli il «vero politico». Bisogna distinguere
oltre che tra
«diplomatico» e «politico», anche tra scienziato della
politica e
politico in atto. Il diplomatico non può non muoversi
solo nella realtà
effettuale, perché la sua attività specifica non è
quella di creare
nuovi equilibri, ma di conservare entro certi quadri
giuridici un
equilibrio esistente. Cosí anche lo scienziato deve
muoversi solo nella
realtà effettuale in quanto mero scienziato. Ma il
Machiavelli non è un
mero scienziato; egli è un uomo di parte, di passioni
poderose, un
politico in atto, che vuol creare nuovi rapporti di
forze e perciò non
può non occuparsi del «dover essere», certo non inteso
in senso
moralistico. La quistione non è quindi da porre in
questi termini, è
piú complessa: si tratta cioè di vedere se il «dover
essere» è un atto
arbitrario o necessario, è volontà concreta, o
velleità, desiderio,
amore con le nuvole. Il politico in atto è un
creatore, un suscitatore,
ma né crea dal nulla, né si muove nel vuoto torbido
dei suoi desideri e
sogni. Si fonda sulla realtà effettuale, ma cos'è
questa realtà
effettuale? È forse qualcosa di statico e immobile o
non piuttosto un
rapporto di forze in continuo movimento e mutamento di
equilibrio?
Applicare la volontà alla creazione di un nuovo
equilibrio delle forze
realmente esistenti ed operanti, fondandosi su quella
determinata forza
che si ritiene progressiva, e potenziandola per farla
trionfare è
sempre muoversi nel terreno della realtà effettuale ma
per dominarla e
superarla (o contribuire a ciò). Il «dover essere» è
quindi
concretezza, anzi è la sola interpretazione realistica
e storicistica
della realtà, è sola storia in atto e filosofia in
atto, sola politica.
L'opposizione Savonarola-Machiavelli non è
l'opposizione tra essere e
dover essere (tutto il paragrafo del Russo su questo
punto è pura
belletristica) ma tra due dover essere, quello
astratto e fumoso del
Savonarola e quello realistico del Machiavelli,
realistico anche se non
diventato realtà immediata, poiché non si può
attendere che un
individuo o un libro mutino la realtà ma solo la
interpretino e
indichino la linea possibile dell'azione. Il limite e
l'angustia del
Machiavelli consistono solo nell'essere egli stato una
«persona
privata», uno scrittore e non il capo di uno Stato o
di un esercito,
che è pure una singola persona, ma avente a sua
disposizione le forze
di uno Stato o di un esercito e non solo eserciti di
parole. Né perciò
si può dire che il Machiavelli sia stato anche egli un
«profeta
disarmato»: sarebbe fare dello spirito a troppo buon
mercato. Il
Machiavelli non dice mai di pensare o di proporsi egli
stesso di mutare
la realtà, ma solo e concretamente di mostrare come
avrebbero dovuto
operare le forze storiche per essere efficienti.
*
[Analisi delle situazioni. Rapporti di forza.] Le
note scritte
a proposito dello studio delle situazioni e di ciò che
occorre
intendere per «rapporti di forza». Lo studio di come
occorre analizzare
le «situazioni», cioè di come occorre stabilire i
diversi gradi di
rapporto di forze può prestarsi a una esposizione
elementare di scienza
ed arte politica, intesa come un insieme di canoni
pratici di ricerca e
di osservazioni particolari utili per risvegliare
l'interesse per la
realtà effettuale e suscitare intuizioni politiche piú
rigorose e
vigorose. Insieme è da porre l'esposizione di ciò che
occorre intendere
in politica per strategia e tattica, per «piano»
strategico, per
propaganda e agitazione, per organica, o scienza
dell'organizzazione e
dell'amministrazione in politica. Gli elementi di
osservazione empirica
che di solito sono esposti alla rinfusa nei trattati
di scienza
politica (si può prendere come esemplare l'opera di G.
Mosca: Elementi di scienza politica) dovrebbero,
in quanto non
sono quistioni astratte o campate in aria, trovar
posto nei vari gradi
del rapporto di forze, a cominciare dai rapporti delle
forze
internazionali (in cui troverebbero posto le note
scritte su ciò che è
una grande potenza, sugli aggruppamenti di Stati in
sistemi egemonici e
quindi sul concetto di indipendenza e sovranità per
ciò che riguarda le
potenze piccole e medie) per passare ai rapporti
obbiettivi sociali,
cioè al grado di sviluppo delle forze produttive, ai
rapporti di forza
politica e di partito (sistemi egemonici nell'interno
dello Stato) e ai
rapporti politici immediati (ossia potenzialmente
militari).
I rapporti internazionali precedono o seguono
(logicamente) i
rapporti sociali fondamentali? Seguono indubbiamente.
Ogni innovazione
organica nella struttura modifica organicamente i
rapporti assoluti e relativi nel
campo
internazionale, attraverso le sue espressioni
tecnico-militari. Anche
la posizione geografica di uno Stato nazionale non
precede ma segue
(logicamente) le innovazioni strutturali, pur reagendo
su di esse in
una certa misura (nella misura appunto in cui le
superstrutture
reagiscono sulla struttura, la politica sull'economia
ecc.). D'altronde
i rapporti internazionali reagiscono passivamente e
attivamente sui
rapporti politici (di egemonia dei partiti). Quanto
piú la vita
economica immediata di una nazione è subordinata ai
rapporti
internazionali, tanto piú un determinato partito
rappresenta questa
situazione e la sfrutta per impedire il sopravvento
dei partiti
avversari (ricordare il famoso discorso di Nitti sulla
rivoluzione
italiana tecnicamente impossibile!). Da
questa serie di fatti
si può giungere alla conclusione che spesso il cosí
detto «partito
dello straniero» non è proprio quello che come tale
viene volgarmente
indicato, ma proprio il partito piú nazionalistico,
che, in realtà, piú
che rappresentare le forze vitali del proprio paese,
ne rappresenta la
subordinazione e l'asservimento economico alle nazioni
o a un gruppo di
nazioni egemoniche (un accenno a questo elemento
internazionale
«repressivo» delle energie interne si trova negli
articoli pubblicati
da G. Volpe nel «Corriere della Sera» del 22 e 23
marzo 1932).
*
È il problema dei rapporti tra struttura e
superstrutture che
bisogna impostare esattamente e risolvere per giungere
a una giusta
analisi delle forze che operano nella storia di un
determinato periodo
e determinare il loro rapporto. Occorre muoversi
nell'ambito di due
principii: 1) quello che nessuna società si pone dei
compiti per la cui
soluzione non esistano già le condizioni necessarie e
sufficienti o
esse non siano almeno in via di apparizione e di
sviluppo; 2) e quello
che nessuna società si dissolve e può essere
sostituita se prima non ha
svolto tutte le forme di vita che sono implicite nei
suoi rapporti
(controllare l'esatta enunciazione di questi
principii).
«Una formazione sociale non perisce, prima che non
siano
sviluppate tutte le forze produttive per le quali essa
è ancora
sufficiente e nuovi piú alti rapporti di produzione
non ne abbiano
preso il posto, prima che le condizioni materiali di
esistenza di
questi ultimi siano state covate nel seno stesso della
vecchia società.
Perciò l'umanità si pone sempre solo quei compiti che
essa può
risolvere; se si osserva con piú accuratezza si
troverà sempre che il
compito stesso sorge solo dove le condizioni materiali
della sua
risoluzione esistono già o almeno sono nel processo
del loro divenire»
(Introduzione a Critica dell'Economia Politica).
Dalla
riflessione su questi due canoni si può giungere allo
svolgimento di
tutta una serie di altri principii di metodologia
storica. Intanto
nello studio di una struttura occorre distinguere i
movimenti organici
(relativamente permanenti) da i movimenti che si
possono chiamare di
congiuntura (e si presentano come occasionali,
immediati, quasi
accidentali). I fenomeni di congiuntura sono certo
dipendenti anch'essi
da movimenti organici, ma il loro significato non è di
vasta portata
storica: essi danno luogo a una critica politica
spicciola, del giorno
per giorno, che investe i piccoli gruppi dirigenti e
le personalità
responsabili immediatamente del potere. I fenomeni
organici danno luogo
alla critica storico-sociale, che investe i grandi
aggruppamenti, di là
dalle persone immediatamente responsabili e di là dal
personale
dirigente. Nello studiare un periodo storico appare la
grande
importanza di questa distinzione. Si verifica una
crisi, che talvolta
si prolunga per decine di anni. Questa durata
eccezionale significa che
nella struttura si sono rivelate (sono venute a
maturità)
contraddizioni insanabili e che le forze politiche
operanti
positivamente alla conservazione e difesa della
struttura stessa si
sforzano tuttavia di sanare entro certi limiti e di
superare. Questi
sforzi incessanti e perseveranti (poiché nessuna forma
sociale vorrà
mai confessare di essere superata) formano il terreno
dell'«occasionale» sul quale si organizzano le forze
antagonistiche che
tendono a dimostrare (dimostrazione che in ultima
analisi riesce solo
ed è «vera» se diventa nuova realtà, se le forze
antagonistiche
trionfano, ma immediatamente si svolge in una serie di
polemiche
ideologiche, religiose, filosofiche, politiche,
giuridiche ecc., la cui
concretezza è valutabile dalla misura in cui riescono
convincenti e
spostano il preesistente schieramento delle forze
sociali) che esistono
già le condizioni necessarie e sufficienti perché
determinati compiti
possano e quindi debbano essere risolti storicamente
(debbano, perché
ogni venir meno al dovere storico aumenta il disordine
necessario e
prepara piú gravi catastrofi).
L'errore in cui si cade
spesso nelle analisi storico-politiche consiste nel
non saper trovare
il giusto rapporto tra ciò che è organico e ciò che è
occasionale: si
riesce cosí o ad esporre come immediatamente operanti
cause che invece
sono operanti mediatamente, o ad affermare che le
cause immediate sono
le sole cause efficienti; nell'un caso si ha l'eccesso
di «economismo»
o di dottrinarismo pedantesco, dall'altro l'eccesso di
«ideologismo»,
nell'un caso si sopravalutano le cause meccaniche;
nell'altro si esalta
l'elemento volontaristico e individuale. (La
distinzione tra
«movimenti» e fatti organici e movimenti e fatti di
«congiuntura» o
occasionali deve essere applicata a tutti i tipi di
situazione, non
solo a quelle in cui si verifica uno svolgimento
regressivo o di crisi
acuta, ma a quelle in cui si verifica uno svolgimento
progressivo o di
prosperità e a quelle in cui si verifica una
stagnazione delle forze
produttive). Il nesso dialettico tra i due ordini di
movimento e quindi
di ricerca difficilmente viene stabilito esattamente e
se l'errore è
grave nella storiografia, ancor piú grave diventa
nell'arte politica,
quando si tratta non di ricostruire la storia passata
ma di costruire
quella presente e avvenire: i proprii desideri e le
proprie passioni
deteriori e immediate sono la causa dell'errore, in
quanto essi
sostituiscono l'analisi obbiettiva e imparziale e ciò
avviene non come
«mezzo» consapevole per stimolare all'azione ma come
autoinganno. La
biscia, anche in questo caso, morde il ciarlatano
ossia il demagogo è
la prima vittima della sua demagogia.
Il non aver
considerato il momento immediato dei «rapporti di
forza» è connesso a
residui della concezione liberale volgare, di cui il
sindacalismo è una
manifestazione che credeva di essere piú avanzata in
quanto faceva
realmente un passo indietro. Infatti la concezione
liberale volgare
dando importanza al rapporto delle forze politiche
organizzate nelle
diverse forme di partito (lettori di giornali,
elezioni parlamentari e
locali, organizzazione di massa dei partiti e dei
sindacati in senso
stretto) era piú avanzata del sindacalismo che dava
importanza
primordiale al rapporto fondamentale economico-sociale
e solo a questo.
La concezione liberale volgare teneva conto implicito
anche di tale
rapporto (come appare da tanti segni) ma insisteva di
piú sul rapporto
delle forze politiche che era un'espressione
dell'altro e in realtà lo
conteneva. Questi residui della concezione liberale
volgare si possono
rintracciare in tutta una serie di trattazioni che si
dicono connesse
alla filosofia della prassi e hanno dato luogo a forme
infantili di
ottimismo e di scempiaggine.
Questi criteri metodologici
possono acquistare visibilmente e didatticamente tutto
il loro
significato se applicati all'esame di fatti storici
concreti. Si
potrebbe farlo utilmente per gli avvenimenti che si
svolsero in Francia
dal 1789 al 1870. Mi pare che per maggior chiarezza
dell'esposizione
sia proprio necessario abbracciare tutto questo
periodo. Infatti solo
nel 1870-71, col tentativo comunalistico si
esauriscono storicamente
tutti i germi nati nel 1789 cioè non solo la nuova
classe che lotta per
il potere sconfigge i rappresentanti della vecchia
società che non
vuole confessarsi decisamente superata, ma sconfigge
anche i gruppi
nuovissimi che sostengono già superata la nuova
struttura sorta dal
rivolgimento iniziatosi nel 1789 e dimostra cosí di
essere vitale e in
confronto al vecchio e in confronto al nuovissimo.
Inoltre, col
1870-71, perde efficacia l'insieme di principii di
strategia e tattica
politica nati praticamente nel 1789 e sviluppati
ideologicamente
intorno al '48 (quelli che si riassumono nella formula
della
«rivoluzione permanente»: sarebbe interessante
studiare quanto di tale
formula è passata nella strategia mazziniana – per es.
per
l'insurrezione di Milano del 1853 – e se è avvenuto
consapevolmente o
meno). Un elemento che mostra la giustezza di questo
punto di vista è
il fatto che gli storici non sono per nulla concordi
(ed è impossibile
che lo siano) nel fissare i limiti di quel gruppo di
avvenimenti che
costituisce la rivoluzione francese. Per alcuni (per
es. il Salvemini)
la rivoluzione è compiuta a Valmy: la Francia ha
creato un nuovo Stato
e ha saputo organizzare la forza politico-militare che
ne afferma e ne
difende la sovranità territoriale. Per altri la
Rivoluzione continua
fino al Termidoro, anzi essi parlano di piú
rivoluzioni (il 10 agosto
sarebbe una rivoluzione a sé ecc.; cfr.
la Rivoluzione
francese di A. Mathiez nella collezione Colin).
Il modo di
interpretare il Termidoro e l'opera di Napoleone offre
le piú aspre
contradizioni: si tratta di rivoluzione o di
controrivoluzione? ecc.
Per altri la storia della Rivoluzione continua fino al
1830, 1848, 1870
e persino fino alla guerra mondiale del 1914.
In tutti
questi modi di vedere c'è una parte di verità.
Realmente le
contraddizioni interne della struttura sociale
francese che si
sviluppano dopo il 1789 trovano una loro relativa
composizione solo con
la terza repubblica e la Francia ha 60 anni di vita
politica
equilibrata dopo 80 anni di rivolgimenti a ondate
sempre piú lunghe:
'89-94-99-1804-1815-1830-1848-1870. È appunto lo
studio di queste
«ondate» a diversa oscillazione che permette di
ricostruire i rapporti
tra struttura e superstruttura da una parte e
dall'altra tra lo
svolgersi del movimento organico e quello del
movimento di congiuntura
della struttura. Si può dire intanto che la mediazione
dialettica tra i
due principii metodologici enunziati all'inizio di
questa nota si può
trovare nella formula politicostorica di rivoluzione
permanente.
Un
aspetto dello stesso problema è la quistione cosí
detta dei rapporti di
forza. Si legge spesso nelle narrazioni storiche
l'espressione
generica: rapporti di forza favorevoli, sfavorevoli a
questa o a quella
tendenza. Cosí, astrattamente, questa formulazione non
spiega nulla o
quasi nulla, perché non si fa che ripetere il fatto
che si deve
spiegare presentandolo una volta come fatto e una
volta come legge
astratta e come spiegazione. L'errore teorico consiste
dunque nel dare
un canone di ricerca e di interpretazione come «causa
storica».
Intanto nel «rapporto di forza» occorre distinguere
diversi momenti o gradi, che fondamentalmente sono
questi:
1)
Un rapporto di forze sociali strettamente legato alla
struttura,
obbiettivo, indipendente dalla volontà degli uomini,
che può essere
misurato coi sistemi delle scienze esatte o fisiche.
Sulla base del
grado di sviluppo delle forze materiali di produzione
si hanno i
raggruppamenti sociali, ognuno dei quali rappresenta
una funzione e ha
una posizione data nella produzione stessa. Questo
rapporto è quello
che è, una realtà ribelle: nessuno può modificare il
numero delle
aziende e dei suoi addetti, il numero delle città con
la data
popolazione urbana ecc. Questo schieramento
fondamentale permette di
studiare se nella società esistono le condizioni
necessarie e
sufficienti per una sua trasformazione, permette cioè
di controllare il
grado di realismo e di attuabilità delle diverse
ideologie che sono
nate nel suo stesso terreno, nel terreno delle
contraddizioni che esso
ha generato durante il suo sviluppo.
2) Un momento
successivo è il rapporto delle forze politiche, cioè
la valutazione del
grado di omogeneità, di autocoscienza e di
organizzazione raggiunto dai
vari gruppi sociali. Questo momento può essere a sua
volta analizzato e
distinto in vari gradi, che corrispondono ai diversi
momenti della
coscienza politica collettiva, cosí come si sono
manifestati finora
nella storia. Il primo e piú elementare è quello
economico-corporativo:
un commerciante sente di dover essere
solidale con un altro
commerciante, un fabbricante con un altro fabbricante,
ecc., ma il
commerciante non si sente ancora solidale col
fabbricante; è cioè
sentita l'unità omogenea, e il dovere di organizzarla,
del gruppo
professionale, ma non ancora del gruppo sociale piú
vasto. Un secondo
momento è quello in cui si raggiunge la coscienza
della solidarietà di
interessi fra tutti i membri del gruppo sociale, ma
ancora nel campo
meramente economico. Già in questo momento si pone la
quistione dello
Stato, ma solo nel terreno di raggiungere una
eguaglianza
politico-giuridica coi gruppi dominanti, poiché si
rivendica il diritto
di partecipare alla legislazione e all'amministrazione
e magari di
modificarle, di riformarle, ma nei quadri fondamentali
esistenti. Un
terzo momento è quello in cui si raggiunge la
coscienza che i propri
interessi corporativi, nel loro sviluppo attuale e
avvenire, superano
la cerchia corporativa, di gruppo meramente economico,
e possono e
debbono divenire gli interessi di altri gruppi
subordinati. Questa è la
fase piú schiettamente politica, che segna il netto
passaggio dalla
struttura alla sfera delle superstrutture complesse, è
la fase in cui
le ideologie germinate precedentemente diventano
«partito», vengono a
confronto ed entrano in lotta fino a che una sola di
esse o almeno una
sola combinazione di esse, tende a prevalere, a
imporsi, a diffondersi
su tutta l'area sociale, determinando oltre che
l'unicità dei fini
economici e politici, anche l'unità intellettuale e
morale, ponendo
tutte le quistioni intorno a cui ferve la lotta non
sul piano
corporativo ma su un piano «universale» e creando cosí
l'egemonia di un
gruppo sociale fondamentale su una serie di gruppi
subordinati. Lo
Stato è concepito sí come organismo proprio di un
gruppo, destinato a
creare le condizioni favorevoli alla massima
espansione del gruppo
stesso, ma questo sviluppo e questa espansione sono
concepiti e
presentati come la forza motrice di una espansione
universale, di uno
sviluppo di tutte le energie «nazionali», cioè il
gruppo dominante
viene coordinato concretamente con gli interessi
generali dei gruppi
subordinati e la vita statale viene concepita come un
continuo formarsi
e superarsi di equilibri instabili (nell'ambito della
legge) tra gli
interessi del gruppo fondamentale e quelli dei gruppi
subordinati,
equilibri in cui gli interessi del gruppo dominante
prevalgono ma fino
a un certo punto, non cioè fino al gretto interesse
economico-corporativo. Nella storia reale questi
momenti si implicano
reciprocamente, per cosí dire orizzontalmente e
verticalmente, cioè
secondo le attività economico-sociali (orizzontali) e
secondo i
territori (verticalmente), combinandosi e scindendosi
variamente:
ognuna di queste combinazioni può essere rappresentata
da una propria
espressione organizzata economica e politica. Ancora
bisogna tener
conto che a questi rapporti interni di uno
Stato-nazione si intrecciano
i rapporti internazionali, creando nuove combinazioni
originali e
storicamente concrete. Una ideologia, nata in un paese
piú sviluppato,
si diffonde in paesi meno sviluppati, incidendo nel
gioco locale delle
combinazioni. (La religione, per es., è sempre stata
una fonte di tali
combinazioni ideologico-politiche nazionali e
internazionali, e con la
religione le altre formazioni internazionali, la
massoneria, il Rotary
Club, gli ebrei, la diplomazia di carriera che
suggeriscono espedienti
politici di origine storica diversa e li fanno
trionfare in determinati
paesi, funzionando come partito politico
internazionale che opera in
ogni nazione con tutte le sue forze internazionali
concentrate; ma
religione, massoneria, Rotary, ebrei ecc., possono
rientrare nella
categoria sociale degli «intellettuali», la cui
funzione, su scala
internazionale, è quella di mediare gli estremi, di
«socializzare» i
ritrovati tecnici che fanno funzionare ogni attività
di direzione, di
escogitare compromessi e vie d'uscita tra le soluzioni
estreme). Questo
rapporto tra forze internazionali e forze nazionali è
ancora complicato
dall'esistenza nell'interno di ogni Stato di parecchie
sezioni
territoriali di diversa struttura e di diverso
rapporto di forza in
tutti i gradi (cosí la Vandea era alleata con le forze
internazionali
reazionarie e le rappresentava nel seno dell'unità
territoriale
francese; cosí Lione nella Rivoluzione Francese
rappresentava un nodo
particolare di rapporti ecc.).
3) Il terzo momento è
quello del rapporto delle forze militari,
immediatamente decisivo volta
per volta. (Lo sviluppo storico oscilla continuamente
tra il primo e il
terzo momento, con la mediazione del secondo). Ma
anche esso non è
qualcosa di indistinto e di identificabile
immediatamente in forma
schematica; si possono anche in esso distinguere due
gradi: quello
militare in senso stretto o tecnico-militare e il
grado che si può
chiamare politico-militare. Nello sviluppo della
storia questi due
gradi si sono presentati in una grande varietà di
combinazioni. Un
esempio tipico che può servire come
dimostrazione-limite, è quello del
rapporto di oppressione militare di uno Stato su una
nazione che cerca
di raggiungere la sua indipendenza statale. Il
rapporto non è puramente
militare, ma politico-militare e infatti un tale tipo
di oppressione
sarebbe inspiegabile senza lo stato di disgregazione
sociale del popolo
oppresso e la passività della sua maggioranza;
pertanto l'indipendenza
non potrà essere raggiunta con forze puramente
militari, ma militari e
politico-militari. Se la nazione oppressa, infatti,
per iniziare la
lotta d'indipendenza, dovesse attendere che lo Stato
egemone le
permetta di organizzare un proprio esercito nel senso
stretto e tecnico
della parola, avrebbe da attendere un pezzo (può
avvenire che la
rivendicazione di avere un proprio esercito sia
soddisfatta dalla
nazione egemone, ma ciò significa che già una gran
parte della lotta è
stata combattuta e vinta sul terreno
politico-militare). La nazione
oppressa opporrà dunque inizialmente alla forza
militare egemone una
forza che è solo «politico-militare», cioè opporrà una
forma di azione
politica che abbia la virtú di determinare riflessi di
carattere
militare nel senso: 1) che abbia efficacia di
disgregare intimamente
l'efficienza bellica della nazione egemone; 2) che
costringa la forza
militare egemone a diluirsi e disperdersi in un grande
territorio,
annullandone gran parte dell'efficienza bellica. Nel
Risorgimento
italiano si può notare l'assenza disastrosa di una
direzione
politico-militare specialmente nel Partito d'Azione
(per congenita
incapacità), ma anche nel partito piemontese-moderato
sia prima che
dopo il 1848 non certo per incapacità ma per
«maltusianismo
economico-politico», cioè perché non si volle neanche
accennare alla
possibilità di una riforma agraria e perché non si
voleva la
convocazione di una assemblea nazionale costituente,
ma si tendeva solo
a che la monarchia piemontese, senza condizioni o
limitazioni di
origine popolare, si estendesse a tutta Italia, con la
pura sanzione di
plebisciti regionali.
Altra quistione connessa alle
precedenti è quella di vedere se le crisi storiche
fondamentali sono
determinate immediatamente dalle crisi economiche. La
risposta alla
quistione è contenuta implicitamente nei paragrafi
precedenti, dove
[sono] trattate quistioni che sono un altro modo di
presentare quella
ora trattata, tuttavia è sempre necessario, per
ragioni didattiche,
dato il pubblico particolare, esaminare ogni modo di
presentarsi di una
stessa quistione come fosse un problema indipendente e
nuovo. Si può
escludere che, di per se stesse, le crisi economiche
immediate
producano eventi fondamentali; solo possono creare un
terreno piú
favorevole alla diffusione di certi modi di pensare,
di impostare e
risolvere le quistioni che coinvolgono tutto
l'ulteriore sviluppo della
vita statale. Del resto, tutte le affermazioni che
riguardano i periodi
di crisi o di prosperità possono dar luogo a giudizi
unilaterali. Nel
suo compendio di storia della Rivoluzione francese
(ed. Colin) il
Mathiez, opponendosi alla storia volgare tradizionale,
che
aprioristicamente «trova» una crisi in coincidenza con
le grandi
rotture di equilibri sociali, afferma che verso il
1789 la situazione
economica era piuttosto buona immediatamente, per cui
non si può dire
che la catastrofe dello Stato assoluto sia dovuta a
una crisi di
immiserimento (cfr. l'affermazione esatta del
Mathiez). Occorre
osservare che lo Stato era in preda a una mortale
crisi finanziaria e
si poneva la quistione su quale dei tre ordini sociali
privilegiati
dovevano cadere i sacrifizi e i pesi per rimettere in
sesto le finanze
statali e regali. Inoltre: se la posizione economica
della borghesia
era florida, certamente non era buona la situazione
delle classi
popolari delle città e delle campagne, specialmente di
queste,
tormentate da miseria endemica. In ogni caso, la
rottura
dell'equilibrio delle forze non avvenne per cause
meccaniche immediate
di immiserimento del gruppo sociale che aveva
interesse a rompere
l'equilibrio e di fatto lo ruppe, ma avvenne nel
quadro di conflitti
superiori al mondo economico immediato, connessi al
«prestigio» di
classe (interessi economici avvenire), ad una
esasperazione del
sentimento di indipendenza, di autonomia e di potere.
La quistione
particolare del malessere o benessere economico come
causa di nuove
realtà storiche è un aspetto parziale della quistione
dei rapporti di
forza nei loro vari gradi. Possono prodursi novità sia
perché una
situazione di benessere è minacciata dal gretto
egoismo di un gruppo
avversario, come perché il malessere è diventato
intollerabile e non si
vede nella vecchia società nessuna forza che sia
capace di mitigarlo e
di ristabilire una normalità con mezzi legali. Si può
dire pertanto che
tutti questi elementi sono la manifestazione concreta
delle
fluttuazioni di congiuntura dell'insieme dei rapporti
sociali di forza,
nel cui terreno avviene il passaggio di questi a
rapporti politici di
forza per culminare nel rapporto militare decisivo. Se
manca questo
processo di sviluppo da un momento all'altro, ed esso
è essenzialmente
un processo che ha per attori gli uomini e la volontà
e capacità degli
uomini, la situazione rimane inoperosa, e possono
darsi conclusioni
contradditorie: la vecchia società resiste e si
assicura un periodo di
«respiro», sterminando fisicamente l'élite avversaria
e terrorizzando
le masse di riserva, oppure anche la distruzione
reciproca delle forze
in conflitto con l'instaurazione della pace dei
cimiteri, magari sotto
la vigilanza di una sentinella straniera.
Ma
l'osservazione piú importante da fare a proposito di
ogni analisi
concreta dei rapporti di forza è questa: che tali
analisi non possono e
non debbono essere fine a se stesse (a meno che non si
scriva un
capitolo di storia del passato) ma acquistano un
significato solo se
servono a giustificare una attività pratica, una
iniziativa di volontà.
Esse mostrano quali sono i punti di minore resistenza,
dove la forza
della volontà può essere applicata piú fruttuosamente,
suggeriscono le
operazioni tattiche immediate, indicano come si può
meglio impostare
una campagna di agitazione politica, quale linguaggio
sarà meglio
compreso dalle moltitudini ecc. L'elemento decisivo di
ogni situazione
è la forza permanentemente organizzata e predisposta
di lunga mano che
si può fare avanzare quando si giudica che una
situazione è favorevole
(ed è favorevole solo in quanto una tale forza esista
e sia piena di
ardore combattivo); perciò il compito essenziale è
quello di attendere
sistematicamente e pazientemente a formare,
sviluppare, rendere sempre
piú omogenea, compatta, consapevole di se stessa
questa forza. Ciò si
vede nella storia militare e nella cura con cui in
ogni tempo sono
stati predisposti gli eserciti ad iniziare una guerra
in qualsiasi
momento. I grandi Stati sono stati grandi Stati
appunto perché erano in
ogni momento preparati a inserirsi efficacemente nelle
congiunture
internazionali favorevoli e queste erano tali perché
c'era la
possibilità concreta di inserirsi efficacemente in
esse.
*
Osservazioni su alcuni aspetti della struttura dei
partiti
politici nei periodi di crisi organica (da
connettere con le note
sulle situazioni e i rapporti di forza). A un certo
punto della loro
vita storica i gruppi sociali si staccano dai loro
partiti
tradizionali, cioè i partiti tradizionali in quella
data forma
organizzativa, con quei determinati uomini che li
costituiscono, li
rappresentano e li dirigono non sono piú riconosciuti
come loro
espressione dalla loro classe o frazione di classe.
Quando queste crisi
si verificano, la situazione immediata diventa
delicata e pericola,
perché il campo è aperto alle soluzioni di forza,
all'attività di
potenze oscure rappresentate dagli uomini
provvidenziali o carismatici.
Come si formano queste situazioni di contrasto tra
rappresentanti e
rappresentati, che dal terreno dei partiti
(organizzazioni di partito
in senso stretto, campo elettorale-parlamentare,
organizzazione
giornalistica) si riflette in tutto l'organismo
statale, rafforzando la
posizione relativa del potere della burocrazia (civile
e militare),
dell'alta finanza, della Chiesa e in generale di tutti
gli organismi
relativamente indipendenti dalle fluttuazioni
dell'opinione pubblica?
In ogni paese il processo è diverso, sebbene il
contenuto sia lo
stesso. E il contenuto è la crisi di egemonia della
classe dirigente,
che avviene o perché la classe dirigente ha fallito in
qualche sua
grande impresa politica per cui ha domandato o imposto
con la forza il
consenso delle grandi masse (come la guerra) o perché
vaste masse
(specialmente di contadini e di piccoli borghesi
intellettuali) sono
passati di colpo dalla passività politica a una certa
attività e
pongono rivendicazioni che nel loro complesso
disorganico costituiscono
una rivoluzione. Si parla di «crisi di autorità» e ciò
appunto è la
crisi di egemonia, o crisi dello Stato nel suo
complesso.
La crisi crea situazioni immediate
pericolose, perché i diversi strati della popolazione
non possiedono la
stessa capacità di orientarsi rapidamente e di
riorganizzarsi con lo
stesso ritmo. La classe tradizionale dirigente, che ha
un numeroso
personale addestrato, muta uomini e programmi e
riassorbe il controllo
che le andava sfuggendo con una celerità maggiore di
quanto avvenga
nelle classi subalterne; fa magari dei sacrifizi, si
espone a un
avvenire oscuro con promesse demagogiche, ma mantiene
il potere, lo
rafforza per il momento e se ne serve per schiacciare
l'avversario e
disperderne il personale di direzione, che non può
essere molto
numeroso e molto addestrato. Il passaggio delle truppe
di molti partiti
sotto la bandiera di un partito unico che meglio
rappresenta e riassume
i bisogni dell'intera classe è un fenomeno organico e
normale, anche se
il suo ritmo sia rapidissimo e quasi fulmineo in
confronto di tempi
tranquilli: rappresenta la fusione di un intero gruppo
sociale sotto
un'unica direzione ritenuta sola capace di risolvere
un problema
dominante esistenziale e allontanare un pericolo
mortale. Quando la
crisi non trova questa soluzione organica, ma quella
del capo
carismatico, significa che esiste un equilibrio
statico (i cui fattori
possono essere disparati, ma in cui prevale
l'immaturità delle forze
progressive) che nessun gruppo, né quello conservativo
né quello
progressivo, ha la forza necessaria alla vittoria e
che anche il gruppo
conservativo ha bisogno di un padrone (cfr. Il 18
brumaio di Luigi
Bonaparte).
Questo ordine di fenomeni è
connesso a una delle quistioni piú importanti che
riguardano il partito
politico, e cioè alla capacità del partito di reagire
contro lo spirito
di consuetudine, contro le tendenze a mummificarsi e a
diventare
anacronistico. I partiti nascono e si costituiscono in
organizzazione
per dirigere la situazione in momenti storicamente
vitali per le loro
classi; ma non sempre essi sanno adattarsi ai nuovi
compiti e alle
nuove epoche, non sempre sanno svilupparsi secondo che
si sviluppano i
rapporti complessivi di forza (e quindi posizione
relativa delle loro
classi) nel paese determinato o nel campo
internazionale.
Nell'analizzare questi sviluppi dei partiti occorre
distinguere: il
gruppo sociale; la massa di partito; la burocrazia e
lo stato maggiore
del partito. La burocrazia è la forza consuetudinaria
e conservatrice
piú pericolosa; se essa finisce col costituire un
corpo solidale, che
sta a sé e si sente indipendente dalla massa, il
partito finisce col
diventare anacronistico, e nei momenti di crisi acuta
viene svuotato
del suo contenuto sociale e rimane come campato in
aria. Si può vedere
cosa avviene a una serie di partiti tedeschi per
l'espansione
dell'hitlerismo. I partiti francesi sono un campo
ricco per tali
ricerche: essi sono tutti mummificati e anacronistici,
documenti
storico-politici delle diverse fasi della storia
passata francese, di
cui ripetono la terminologia invecchiata: la loro
crisi può diventare
ancora piú catastrofica di quella dei partiti
tedeschi.
Nell'esaminare
questo ordine di avvenimenti di solito si trascura di
fare un giusto
posto all'elemento burocratico, civile e militare, e
non si tiene
presente, inoltre, che in tali analisi non devono
rientrare solo gli
elementi militari e burocratici in atto, ma gli strati
sociali da cui,
nei complessi statali dati, la burocrazia è
tradizionalmente reclutata.
Un movimento politico può essere di carattere militare
anche se
l'esercito come tale non vi partecipa apertamente; un
governo può
essere di carattere militare anche se l'esercito come
tale non
partecipa al governo. In determinate situazioni può
avvenire che
convenga non «scoprire» l'esercito, non farlo uscire
dalla
costituzionalità, non portare la politica tra i
soldati, come si dice,
per mantenere l'omogeneità tra ufficiali e soldati in
un terreno di
apparente neutralità e superiorità sulle fazioni:
eppure è l'esercito,
cioè lo Stato Maggiore e l'ufficialità, che determina
la nuova
situazione e la domina. D'altronde non è vero che
l'esercito, secondo
le costituzioni, non deve mai fare della politica;
l'esercito dovrebbe
appunto difendere la costituzione, cioè la forma
legale dello Stato,
con le istituzioni connesse; perciò la cosí detta
neutralità significa
solo appoggio alla parte retriva, ma occorre, in tali
situazioni, porre
cosí la quistione per impedire che nell'esercito si
riproduca il
dissenso del paese e quindi sparisca il potere
determinante dello Stato
Maggiore per la disgregazione dello strumento
militare. Tutti questi
elementi di osservazione non sono certo assoluti, nei
diversi momenti
storici e nei vari paesi essi hanno pesi molto
diversi.
La
prima ricerca da fare è questa: esiste in un
determinato paese uno
strato sociale diffuso per il quale la carriera
burocratica, civile e
militare, sia elemento molto importante di vita
economica e di
affermazione politica (partecipazione effettiva al
potere, sia pure
indirettamente, per «ricatto»)? Nell'Europa moderna
questo strato si
può identificare nella borghesia rurale media e
piccola che è piú o
meno diffusa nei diversi paesi a seconda dello
sviluppo delle forze
industriali da una parte e della riforma agraria
dall'altra. Certo la
carriera burocratica (civile e militare) non è un
monopolio di questo
strato sociale, tuttavia essa gli è particolarmente
adatta per la
funzione sociale che questo strato svolge e per le
tendenze
psicologiche che la funzione determina o favorisce,
questi due elementi
danno all'insieme del gruppo sociale una certa
omogeneità ed energia di
direttive, e quindi un valore politico e una funzione
spesso decisiva
nell'insieme dell'organismo sociale. Gli elementi di
questo gruppo sono
abituati a comandare direttamente nuclei di uomini sia
pure esigui e a
comandare «politicamente», non «economicamente»; cioè
nella loro arte
di comando non c'è attitudine a ordinare le «cose», a
ordinare «uomini
e cose» in un tutto organico, come avviene nella
produzione
industriale, perché questo gruppo non ha funzioni
economiche nel senso
moderno della parola. Esso ha un reddito perché
giuridicamente è
proprietario di una parte del suolo nazionale e la sua
funzione
consiste nel contendere «politicamente» al contadino
coltivatore di
migliorare la propria esistenza, perché ogni
miglioramento della
posizione relativa del contadino sarebbe catastrofica
per la sua
posizione sociale. La miseria cronica e il lavoro
prolungato del
contadino, col conseguente abbrutimento, sono per esso
una necessità
primordiale. Perciò spiega la massima energia nella
resistenza e nel
contrattacco a ogni minimo tentativo di organizzazione
autonoma del
lavoro contadino e a ogni movimento culturale
contadino che esca dai
limiti della religione ufficiale. Questo gruppo
sociale trova i suoi
limiti e le ragioni della sua intima debolezza nella
sua dispersione
territoriale e nella «inomogeneità» che è intimamente
connessa a tale
dispersione; ciò spiega anche altre caratteristiche:
la volubilità, la
molteplicità dei sistemi ideologici seguiti, la stessa
stranezza delle
ideologie talvolta seguite. La volontà è decisa verso
un fine, ma essa
è tarda e ha bisogno, di solito, di un lungo processo
per
centralizzarsi organizzativamente e politicamente. Il
processo si
accelera quando la «volontà» specifica di questo
gruppo coincide con la
volontà e gli interessi immediati della classe alta;
non solo il
processo si accelera, ma si manifesta subito la «forza
militare» di
questo strato, che talvolta, organizzatosi, detta
legge alla classe
alta, almeno per ciò che riguarda la «forma» della
soluzione se non per
il contenuto. Si vedono qui funzionare le stesse leggi
che sono state
notate per i rapporti città-campagna nei riguardi
delle classi
subalterne: la forza della città automaticamente
diventa forza della
campagna, ma poiché in campagna i conflitti assumono
subito una forma
acuta e «personale», per l'assenza di margini
economici e per la
normalmente piú pesante compressione esercitata
dall'alto in basso,
cosí in campagna i contrattacchi devono essere piú
rapidi e decisi.
Questo gruppo capisce e vede che l'origine dei suoi
guai è nelle città,
nella forza delle città e perciò capisce di «dover»
dettare la
soluzione alle classi alte urbane, affinché il
focolaio principale sia
spento, anche se ciò alle classi alte urbane non
conviene
immediatamente o perché troppo dispendioso o perché
pericoloso a lungo
andare (queste classi vedono cicli piú ampi di
sviluppo, in cui è
possibile manovrare e non solo l'interesse «fisico»
immediato). In
questo senso deve intendersi la funzione direttiva di
questo strato e
non in senso assoluto; tuttavia non è piccola cosa.
Un
riflesso di questo gruppo si vede nell'attività
ideologica degli
intellettuali conservatori, di destra. Il libro di
Gaetano
Mosca Teorica dei governi e governo
parlamentare (II ed. del
1925, I ed. del 1883) è esemplare per questo rispetto;
fin dal 1883 il
Mosca era terrorizzato da un possibile contatto tra
città e campagna.
Il Mosca, per la sua posizione difensiva (di
contrattacco) comprendeva
meglio nel 1883 la tecnica della politica delle classi
subalterne di
quanto non la comprendessero, anche parecchi decenni
dopo, i
rappresentanti di queste forze subalterne anche
urbane.
(È
da notare come questo carattere «militare» del gruppo
sociale in
quistione, che era tradizionalmente un riflesso
spontaneo di certe
condizioni di esistenza, viene ora consapevolmente
educato e
predisposto organicamente. In questo movimento
consapevole rientrano
gli sforzi sistematici per far sorgere e per mantenere
stabilmente
associazioni varie di militari in congedo e di
ex-combattenti dei vari
corpi ed armi, specialmente di ufficiali, che sono
legate agli Stati
Maggiori e possono essere mobilitate all'occorrenza
senza bisogno di
mobilitare l'esercito di leva, che manterrebbe cosí il
suo carattere di
riserva allarmata, rafforzata e immunizzata dalla
decomposizione
politica da queste forze «private» che non potranno
non influire sul
suo «morale», sostenendolo e irrobustendolo. Si può
dire che si
verifica un movimento del tipo «cosacco», non in
formazioni scaglionate
lungo i confini di nazionalità, come avveniva per i
cosacchi zaristi,
ma lungo i «confini» di gruppo sociale).
In
tutta una serie di paesi, pertanto, influenza
dell'elemento militare
nella vita statale non significa solo influenza e peso
dell'elemento
tecnico militare, ma influenza e peso dello strato
sociale da cui
l'elemento tecnico militare (specialmente gli
ufficiali subalterni)
trae specialmente origine. Questa serie di
osservazioni sono
indispensabili per analizzare l'aspetto piú intimo di
quella
determinata forma politica che si suole chiamare
cesarismo o
bonapartismo, per distinguerla da altre forme in cui
l'elemento tecnico
militare, come tale, predomina, in forme forse ancor
piú appariscenti
ed esclusive. La Spagna e la Grecia offrono due esempi
tipici, con
tratti simili e dissimili. Nella Spagna occorre tener
conto di alcuni
particolari: grandezza e scarsa densità della
popolazione contadina.
Tra il nobile latifondista e il contadino non esiste
una numerosa
borghesia rurale, quindi scarsa importanza
dell'ufficialità subalterna
come forza a sé (aveva invece una certa importanza
antagonistica
l'ufficialità delle armi dotte, artiglieria e genio,
di origine
borghese urbana, che si opponeva ai generali e tentava
di avere una
politica propria). I governi militari sono pertanto
governi di «grandi»
generali. Passività delle masse contadine come
cittadinanza e come
truppa. Se nell'esercito si verifica disgregazione
politica, è in senso
verticale, non orizzontale, per la concorrenza delle
cricche dirigenti:
la truppa si scinde per seguire i capi in lotta tra
loro. Il governo
militare è una parentesi tra due governi
costituzionali; l'elemento
militare è la riserva permanente dell'ordine e della
conservazione, è
una forza politica operante in «modo pubblico» quando
la «legalità» è
in pericolo. Lo stesso avviene in Grecia con la
differenza che il
territorio greco è sparpagliato in un sistema di isole
e che una parte
della popolazione piú energica e attiva è sempre sul
mare, ciò che
rende piú facile l'intrigo e il complotto militare; il
contadino greco
è passivo come quello spagnuolo, ma nel quadro della
popolazione
totale, il greco piú energico ed attivo essendo
marinaio e quasi sempre
lontano dal suo centro di vita politica, la passività
generale deve
essere analizzata diversamente e la soluzione del
problema non può
essere la stessa (le fucilazioni avvenute in Grecia
anni fa dei membri
di un governo rovesciato, probabilmente sono da
spiegarsi con uno
scatto di collera di questo elemento energico e attivo
che volle dare
una sanguinosa lezione). Ciò che è specialmente da
osservare è che in
Grecia e in Ispagna l'esperienza del governo militare
non ha creato una
ideologia politica e sociale permanente e formalmente
organica, come
avviene invece nei paesi potenzialmente bonapartisti
per cosí dire. Ma
le condizioni storiche generali dei due tipi sono le
stesse: equilibrio
dei gruppi urbani in lotta, che impedisce il gioco
della democrazia
«normale», il parlamentarismo; è diverso però
l'influsso della campagna
in questo equilibrio. Nei paesi come la Spagna, la
campagna,
completamente passiva, permette ai generali della
nobiltà terriera di
servirsi politicamente dell'esercito per ristabilire
l'equilibrio
pericolante, cioè il sopravvento dei gruppi alti. In
altri paesi la
campagna non è passiva, ma il suo movimento non è
politicamente
coordinato a quello urbano: l'esercito deve rimanere
neutrale poiché è
possibile che altrimenti esso si disgreghi
orizzontalmente (rimarrà
neutrale fino ad un certo punto, s'intende), ed entra
invece in azione
la classe militare-burocratica che con mezzi militari
soffoca il
movimento in campagna (immediatamente piú pericoloso),
in questa lotta
trova una certa unificazione politica e ideologica,
trova alleati nelle
classi medie urbane (medie in senso italiano)
rafforzate dagli studenti
di origine rurale che stanno in città, impone i suoi
metodi politici
alle classi alte, che devono farle molte concessioni e
permettere una
determinata legislazione favorevole; insomma riesce a
permeare lo Stato
dei suoi interessi fino ad un certo punto e a
sostituire una parte del
personale dirigente, continuando a mantenersi armata
nel disarmo
generale e prospettando il pericolo di una guerra
civile tra i propri
armati e l'esercito di leva se la classe alta mostra
troppe velleità di
resistenza.
Queste osservazioni non devono
essere concepite come schemi rigidi, ma solo come
criteri pratici di
interpretazione storica e politica. Nelle concrete
analisi di
avvenimenti reali le forme storiche sono individuate e
quasi «uniche».
Cesare rappresenta una combinazione di circostanze
reali molto diversa
da quella rappresentata da Napoleone I, come Primo De
Rivera da quella
di Zivkovic ecc.
Nell'analisi del terzo
grado o momento del sistema dei rapporti di forza
esistenti in una
determinata situazione, si può ricorrere utilmente al
concetto che
nella scienza militare è chiamato della «congiuntura
strategica» ossia,
con piú precisione, del grado di preparazione
strategica del teatro
della lotta, uno dei cui principali elementi è dato
dalle condizioni
qualitative del personale dirigente e delle forze
attive che si possono
chiamare di prima linea (comprese in queste quelle
d'assalto). Il grado
di preparazione strategica può dare la vittoria a
forze
«apparentemente» (cioè quantitativamente) inferiori a
quelle
dell'avversario. Si può dire che la preparazione
strategica tende a
ridurre a zero i cosí detti «fattori imponderabili»,
cioè le reazioni
immediate, di sorpresa, da parte, in un momento dato,
delle forze
tradizionalmente inerti e passive. Tra gli elementi
della preparazione
di una favorevole congiuntura strategica sono da porre
appunto quelli
considerati nelle osservazioni su l'esistenza e
l'organizzazione di un
ceto militare accanto all'organismo tecnico
dell'esercito nazionale.
Altri
elementi si possono elaborare da questo brano del
discorso tenuto al
Senato il 19 maggio 1932 dal ministro della guerra
generale Gazzera
(cfr. «Corriere della Sera» del 20 maggio): «Il regime
di disciplina
del nostro Esercito per virtú del Fascismo appare oggi
una norma
direttiva che ha valore per tutta la Nazione. Altri
eserciti hanno
avuto e tuttora conservano una disciplina formale e
rigida. Noi teniamo
sempre presente il principio che l'Esercito è fatto
per la guerra e che
a quella deve prepararsi; la disciplina di pace deve
essere quindi la
stessa del tempo di guerra, che nel tempo di pace deve
trovare il suo
fondamento spirituale. La nostra disciplina si basa su
uno spirito di
coesione tra i capi e i gregari che è frutto spontaneo
del sistema
seguito. Questo sistema ha resistito magnificamente
durante una lunga e
durissima guerra fino alla vittoria; è merito del
Regime fascista di
avere esteso a tutto il popolo italiano una tradizione
disciplinare
cosí insigne. Dalla disciplina dei singoli dipende
l'esito della
concezione strategica e delle operazioni tattiche. La
guerra ha
insegnato molte cose, e anche che vi è un distacco
profondo tra la
preparazione di pace e la realtà della guerra. Certo è
che, qualunque
sia la preparazione, le operazioni iniziali della
campagna pongono i
belligeranti innanzi a problemi nuovi che danno luogo
a sorprese da una
parte e dall'altra. Non bisogna trarne però la
conseguenza che non sia
utile avere una concezione a priori e che nessun
insegnamento possa
derivarsi dalla guerra passata. Se ne può ricavare una
dottrina di
guerra che deve essere intesa con disciplina
intellettuale e come mezzo
per promuovere modi di ragionamento non discordi e
uniformità di
linguaggio tale da permettere a tutti di comprendere e
di farsi
comprendere. Se, talvolta, l'unità di dottrina ha
minacciato di
degenerare in schematismo, si è subito reagito
prontamente, imprimendo
alla tattica, anche per i progressi della tecnica, una
rapida
rinnovazione. Tale regolamentazione quindi non è
statica, non è
tradizionale, come taluno crede. La tradizione è
considerata solo come
forza e i regolamenti sono sempre in corso di
revisione non per
desiderio di cambiamento, ma per poterli adeguare alla
realtà». (Una
esemplificazione di «preparazione della congiuntura
strategica» si può
trovare nelle Memorie di Churchill, dove
parla della
battaglia dello Yutland).
(A proposito del
«ceto militare» è interessante ciò che scrive T.
Tittoni
nei Ricordi personali di politica interna, «Nuova
Antologia», 1°
aprile - 16 aprile 1929. Racconta il Tittoni di aver
meditato sul fatto
che per riunire la forza pubblica necessaria a
fronteggiare i tumulti
scoppiati in una località, occorreva sguarnire altre
regioni: durante
la settimana rossa del giugno 1914, per reprimere i
moti di Ancona si
era sguarnita Ravenna, dove poi il prefetto, privato
della forza
pubblica, dovette chiudersi nella Prefettura
abbandonando la città ai
rivoltosi. «Piú volte io ebbi a domandarmi, che cosa
avrebbe potuto
fare il Governo se un movimento di rivolta fosse
scoppiato
contemporaneamente in tutta la penisola». Tittoni
propose al Governo
l'arruolamento dei «volontari dell'ordine »,
ex-combattenti inquadrati
da ufficiali in congedo. Il progetto di Tittoni parve
degno di
considerazione, ma non ebbe seguito).
*
Il cesarismo. Cesare, Napoleone I, Napoleone III,
Cromwell,
ecc. Compilare un catalogo degli eventi storici che
hanno culminato in
una grande personalità «eroica». Si può dire che il
cesarismo esprime
una situazione in cui le forze in lotta si equilibrano
in modo
catastrofico, cioè si equilibrano in modo che la
continuazione della
lotta non può concludersi che con la distruzione
reciproca. Quando la
forza progressiva A lotta con la forza regressiva B,
può avvenire non
solo che A vinca B o B vinca A, può avvenire anche che
non vinca né A
né B, ma si svenino reciprocamente e una terza forza C
intervenga
dall'esterno assoggettando ciò che resta di A e di B.
Nell'Italia dopo
la morte del Magnifico è appunto successo questo, come
era successo nel
mondo antico con le invasioni barbariche.
Ma il cesarismo, se esprime sempre la
soluzione «arbitrale», affidata a una grande
personalità, di una
situazione storico-politica caratterizzata da un
equilibrio di forze a
prospettiva catastrofica, non ha sempre lo stesso
significato storico.
Ci può essere un cesarismo progressivo e uno
regressivo e il
significato esatto di ogni forma di cesarismo, in
ultima analisi, può
essere ricostruito dalla storia concreta e non da uno
schema
sociologico. È progressivo il cesarismo, quando il suo
intervento aiuta
la forza progressiva a trionfare sia pure con certi
compromessi e
temperamenti limitativi della vittoria; è regressivo
quando il suo
intervento aiuta a trionfare la forza regressiva,
anche in questo caso
con certi compromessi e limitazioni, che però hanno un
valore, una
portata e un significato diversi che non nel caso
precedente. Cesare e
Napoleone I sono esempi di cesarismo progressivo.
Napoleone III e
Bismark di cesarismo regressivo. Si tratta di vedere
se nella
dialettica «rivoluzione-restaurazione» è l'elemento
rivoluzione o
quello restaurazione che prevale, poiché è certo che
nel movimento
storico non si torna mai indietro e non esistono
restaurazioni «in
toto». Del resto il cesarismo è una formula
polemica-ideologica e non
un canone di interpretazione storica. Si può avere
soluzione cesarista
anche senza un Cesare, senza una grande personalità
«eroica» e
rappresentativa. Il sistema parlamentare ha dato
anch'esso un
meccanismo per tali soluzioni di compromesso. I
governi «laburisti» di
Mac Donald erano soluzioni di tale specie in un certo
grado, il grado
di cesarismo si intensificò quando fu formato il
governo con Mac Donald
presidente e la maggioranza conservatrice. Cosí in
Italia nell'ottobre
1922, fino al distacco dei popolari e poi gradatamente
fino al 3
gennaio 1925 e ancora fino all'8 novembre 1926 si ebbe
un moto
politico-storico in cui diverse gradazioni di
cesarismo si succedettero
fino a una forma piú pura e permanente, sebbene
anch'essa non immobile
e statica. Ogni governo di coalizione è un grado
iniziale di cesarismo,
che può e non può svilupparsi fino ai gradi piú
significativi
(naturalmente l'opinione volgare è invece che i
governi di coalizione
siano il piú «solido baluardo» contro il cesarismo).
Nel
mondo moderno, con le sue grandi coalizioni di
carattere
economico-sindacale e politico di partito, il
meccanismo del fenomeno
cesarista è molto diverso da quello che fu fino a
Napoleone III. Nel
periodo fino a Napoleone III le forze militari
regolari o di linea
erano un elemento decisivo per l'avvento del
cesarismo, che si
verificava con colpi di Stato ben precisi, con azioni
militari ecc. Nel
mondo moderno, le forze sindacali e politiche, coi
mezzi finanziari
incalcolabili di cui possono disporre piccoli gruppi
di cittadini,
complicano il problema. I funzionari dei partiti e dei
sindacati
economici possono essere corrotti o terrorizzati,
senza bisogno di
azione militare in grande stile, tipo Cesare o 18
brumaio. Si riproduce
in questo campo la stessa situazione esaminata a
proposito della
formula giacobina-quarantottesca della cosí detta
«rivoluzione
permanente». La tecnica politica moderna è
completamente mutata dopo il
'48, dopo l'espansione del parlamentarismo, del regime
associativo
sindacale e di partito, del formarsi di vaste
burocrazie statali e
«private» (politico-private, di partiti e sindacali) e
le
trasformazioni avvenute nell'organizzazione della
polizia in senso
largo, cioè non solo del servizio statale destinato
alla repressione
della delinquenza, ma dell'insieme delle forze
organizzate dallo Stato
e dai privati per tutelare il dominio politico ed
economico delle
classi dirigenti. In questo senso, interi partiti
«politici» e altre
organizzazioni economiche o di altro genere devono
essere considerati
organismi di polizia politica, di carattere
investigativo e preventivo.
Lo
schema generico delle forze A e B in lotta con
prospettiva
catastrofica, cioè con la prospettiva che non vinca né
A né B nella
lotta per costituire (o ricostituire) un equilibrio
organico, da cui
nasce (può nascere) il cesarismo, è appunto un'ipotesi
generica, uno
schema sociologico (di comodo per l'arte politica).
L'ipotesi può
essere resa sempre piú concreta, portata a un grado
sempre maggiore di
approssimazione alla realtà storica concreta e ciò può
ottenersi
precisando alcuni elementi fondamentali. Cosí,
parlando di A e di B si
è solo detto che esse sono una forza genericamente
progressiva e una
forza genericamente regressiva: si può precisare di
quale tipo di forze
progressive e regressive si tratta e ottenere cosí
maggiori
approssimazioni. Nel caso di Cesare e di Napoleone I
si può dire che A
e B, pur essendo distinte e contrastanti, non erano
però tali da non
poter venire «assolutamente» ad una fusione ed
assimilazione reciproca
dopo un processo molecolare, ciò che infatti avvenne,
almeno in una
certa misura (sufficiente tuttavia ai fini
storico-politici della
cessazione della lotta organica fondamentale e quindi
del superamento
della fase catastrofica). Questo è un elemento di
maggiore
approssimazione. Un altro elemento è il seguente: la
fase catastrofica
può emergere per una deficienza politica «momentanea»
della forza
dominante tradizionale e non già per una deficienza
organica
necessariamente insuperabile. Ciò si è verificato nel
caso di Napoleone
III. La forza dominante in Francia dal 1815 al 1848 si
era scissa
politicamente (faziosamente) in quattro frazioni:
quella legittimista,
quella orleanista, quella bonapartista, quella
giacobino-repubblicana.
Le lotte interne di fazione erano tali da rendere
possibile l'avanzata
della forza antagonista B (progressista) in forma
«precoce»; tuttavia
la forma sociale esistente non aveva ancora esaurito
le sue possibilità
di sviluppo, come la storia successiva dimostrò
abbondantemente.
Napoleone III rappresentò (a suo modo, secondo la
statura dell'uomo,
che non era grande) queste possibilità latenti e
immanenti: il suo
cesarismo dunque ha un colore particolare. È
obbiettivamente
progressivo sebbene non come quello di Cesare e di
Napoleone I. Il
cesarismo di Cesare e di Napoleone I è stato, per cosí
dire, di
carattere quantitativo-qualitativo, ha cioè
rappresentato la fase
storica di passaggio da un tipo di Stato a un altro
tipo, un passaggio
in cui le innovazioni furono tante e tali da
rappresentare un completo
rivolgimento. Il cesarismo di Napoleone III fu solo e
limitatamente
quantitativo, non ci fu passaggio da un tipo di Stato
ad un altro tipo,
ma solo «evoluzione» dello stesso tipo, secondo una
linea ininterrotta.
Nel
mondo moderno i fenomeni di cesarismo sono del tutto
diversi, sia da
quelli del tipo progressivo Cesare-Napoleone I, come
anche da quelli
del tipo Napoleone III, sebbene si avvicinino a
quest'ultimo. Nel mondo
moderno l'equilibrio a prospettive catastrofiche non
si verifica tra
forze che in ultima analisi potrebbero fondersi e
unificarsi, sia pure
dopo un processo faticoso e sanguinoso, ma tra forze
il cui contrasto è
insanabile storicamente e anzi si approfondisce
specialmente
coll'avvento di forme cesaree. Tuttavia il cesarismo
ha anche nel mondo
moderno un certo margine, piú o meno grande, a seconda
dei paesi e del
loro peso relativo nella struttura mondiale, perché
una forma sociale
ha «sempre» possibilità marginali di ulteriore
sviluppo e sistemazione
organizzativa e specialmente può contare sulla
debolezza relativa della
forza progressiva antagonistica, per la natura e il
modo di vita
peculiare di essa, debolezza che occorre mantenere:
perciò si è detto
che il cesarismo moderno piú che militare è
poliziesco.
*
Cesarismo ed
equilibrio «catastrofico» delle forze
politico-sociali. Sarebbe un errore di metodo (un
aspetto del
meccanicismo sociologico) ritenere che, nei fenomeni
di cesarismo, sia
progressivo, sia regressivo, sia di carattere
intermedio episodico,
tutto il nuovo fenomeno storico sia dovuto
all'equilibrio delle forze
«fondamentali»; occorre anche vedere i rapporti che
intercorrono tra i
gruppi principali (di vario genere, sociale-economico
e
tecnico-economico) delle classi fondamentali e le
forze ausiliarie
guidate o sottoposte all'influenza egemonica. Cosí non
si
comprenderebbe il colpo di Stato del 2 dicembre senza
studiare la
funzione dei gruppi militari e dei contadini francesi.
Un episodio storico molto importante da
questo punto di vista è il cosí detto movimento per
l'affare Dreyfus in
Francia; anche esso rientra in questa serie di
osservazioni non perché
abbia portato al «cesarismo», anzi proprio per il
contrario, perché ha
impedito l'avvento di un cesarismo che si stava
preparando, di
carattere nettamente reazionario. Tuttavia il
movimento Dreyfus è
caratteristico perché sono elementi dello stesso
blocco sociale
dominante che sventano il cesarismo della parte piú
reazionaria del
blocco stesso, appoggiandosi non ai contadini, alla
campagna, ma agli
elementi subordinati della città guidati dal
riformismo socialista
(però anche alla parte piú avanzata del contadiname).
Del tipo Dreyfus
troviamo altri movimenti storico-politici moderni, che
non sono certo
rivoluzioni, ma non sono completamente reazioni, nel
senso almeno che
anche nel campo dominante spezzano cristallizzazioni
statali
soffocanti, e immettono nella vita dello Stato e nelle
attività sociali
un personale diverso e piú numeroso di quello
precedente: anche questi
movimenti possono avere un contenuto relativamente
«progressivo» in
quanto indicano che nella vecchia società erano
latenti forze operose
non sapute sfruttare dai vecchi dirigenti, sia pure
«forze marginali»,
ma non assolutamente progressive, in quanto non
possono «fare epoca».
Sono rese storicamente efficienti dalla debolezza
costruttiva
dell'antagonista, non da una intima forza propria, e
quindi sono legate
a una situazione determinata di equilibrio delle forze
in lotta,
ambedue incapaci nel proprio campo a esprimere una
volontà
ricostruttiva in proprio.
*
Lotta politica e guerra militare. Nella guerra
militare,
raggiunto il fine strategico, distruzione
dell'esercito nemico e
occupazione del suo territorio, si ha la pace. È
inoltre da osservare
che perché la guerra finisca, basta che il fine
strategico sia
raggiunto solo potenzialmente: basta cioè che non ci
sia dubbio che un
esercito non può piú combattere e che l'esercito
vittorioso «può»
occupare il territorio nemico. La lotta politica è
enormemente piú
complessa: in un certo senso può essere paragonata
alle guerre
coloniali o alle vecchie guerre di conquista, quando
cioè l'esercito
vittorioso occupa o si propone di occupare stabilmente
tutto o una
parte del territorio conquistato. Allora l'esercito
vinto viene
disarmato e disperso, ma la lotta continua nel terreno
politico e di
«preparazione» militare. Cosí la lotta politica
dell'India contro gli
Inglesi (e in una certa misura della Germania contro
la Francia o
dell'Ungheria contro la Piccola Intesa) conosce tre
forme di guerre: di
movimento, di posizione e sotterranea. La resistenza
passiva di Gandhi
è una guerra di posizione, che diventa guerra di
movimento in certi
momenti e in altri guerra sotterranea: il boicottaggio
è guerra di
posizione, gli scioperi sono guerra di movimento, la
preparazione
clandestina di armi e di elementi combattivi d'assalto
è guerra
sotterranea. C'è una forma di arditismo, ma essa è
impiegata con molta
ponderazione. Se gli Inglesi avessero la convinzione
che si prepara un
grande movimento insurrezionale destinato ad
annientare l'attuale loro
superiorità strategica (che consiste in un certo senso
nella loro
possibilità di manovrare per linee interne e di
concentrare le loro
forze nel punto «sporadicamente» piú pericoloso) col
soffocamento di
massa, cioè costringendoli a diluire le forze in un
teatro bellico
divenuto simultaneamente generale, ad essi
converrebbe provocare l'uscita prematura
delle forze
combattenti indiane per identificarle e decapitare il
movimento
generale. Cosí alla Francia converrebbe che la destra
nazionalista
tedesca fosse coinvolta in un colpo di stato
avventuroso, che
costringerebbe l'organizzazione militare illegale
sospettata a
manifestarsi prematuramente, permettendo un
intervento, tempestivo dal
punto di vista francese. Ecco che in queste forme di
lotta miste, a
carattere militare fondamentale e a carattere politico
preponderante
(ma ogni lotta politica ha sempre un sostrato
militare), l'impiego
degli arditi domanda uno sviluppo tattico originale,
alla concezione
del quale l'esperienza di guerra può dare solo uno
stimolo, non un
modello.
Una trattazione a parte deve avere la
quistione dei «comitagi» balcanici, che sono legati a
particolari
condizioni dell'ambiente fisico-geografico regionale,
alla formazione
delle classi rurali e anche all'efficienza reale dei
governi. Cosí è
delle bande irlandesi, la cui forma di guerra e di
organizzazione era
legata alla struttura sociale irlandese. I comitagi,
gli irlandesi, e
le altre forme di guerra da partigiani devono essere
staccate dalla
quistione dell'arditismo, sebbene paiano avere con
esso punti di
contatto. Queste forme di lotta sono proprie di
minoranze deboli ma
esasperate contro maggioranze bene organizzate: mentre
l'arditismo
moderno presuppone una grande riserva, immobilizzata
per varie ragioni,
ma potenzialmente efficiente, che lo sostiene e lo
alimenta con apporti
individuali.
*
Arte militare e arte politica. Ancora degli
arditi. I
rapporti che esistettero nel '17-18 tra le formazioni
di arditi e
l'esercito nel *
suo complesso possono portare ed hanno portato già i
dirigenti politici
ad erronee impostazioni di piani di lotta. Si
dimentica: 1°) che gli
arditi sono semplici formazioni tattiche e
presuppongono sí un esercito
poco efficiente, ma non completamente inerte: perché
se la disciplina e
lo spirito militare si sono allentati fino a
consigliare una nuova
disposizione tattica, essi esistono ancora in una
certa misura, cui
appunto corrisponde la nuova formazione tattica;
altrimenti ci sarebbe
stata, senz'altro, la disfatta e la fuga; 2°) che non
bisogna
considerare l'arditismo come un segno della
combattività generale della
massa militare, ma viceversa, come un segno della sua
passività e della
sua relativa demoralizzazione.
Ciò sia detto mantenendo implicito il
criterio generale che i paragoni tra l'arte militare e
la politica sono
sempre da stabilire cum grano salis, cioè solo come
stimoli al pensiero
e come termini semplificativi ad absurdum: infatti
nella milizia
politica manca la sanzione penale implacabile per chi
sbaglia o non
obbedisce esattamente, manca il giudizio marziale,
oltre al fatto che
lo schieramento politico non è neanche lontanamente
paragonabile allo
schieramento militare. Nella lotta politica oltre alla
guerra di
movimento e alla guerra d'assedio o di posizione,
esistono altre forme.
Il vero arditismo, cioè l'arditismo moderno, è proprio
della guerra di
posizione, cosí come si è rivelata nel '14-18. Anche
la guerra di
movimento e la guerra d'assedio dei periodi precedenti
avevano i loro
arditi, in un certo senso: la cavalleria leggera e
pesante, i
bersaglieri ecc., le armi celeri in generale avevano
in parte una
funzione di arditi; cosí nell'arte di organizzare le
pattuglie era
contenuto il germe dell'arditismo moderno. Nella
guerra d'assedio piú
che nella guerra di movimento era contenuto questo
germe: servizio di
pattuglie piú estese e specialmente arte di
organizzare sortite
improvvise e improvvisi assalti con elementi scelti.
Un
altro elemento da tener presente è questo: che nella
lotta politica non
bisogna scimiottare i metodi di lotta delle classi
dominanti, senza
cadere in facili imboscate. Nelle lotte attuali questo
fenomeno si
verifica spesso: una organizzazione statale indebolita
è come un
esercito infiacchito: entrano in campo gli arditi,
cioè le
organizzazioni armate private, che hanno due compiti:
usare
l'illegalità, mentre lo Stato sembra rimanere nella
legalità, come
mezzo di riorganizzare lo Stato stesso. Credere che
alla attività
privata illegale si possa contrapporre un'altra
attività simile, cioè
combattere l'arditismo con l'arditismo è una cosa
sciocca; vuol dire
credere che lo Stato rimanga eternamente inerte, ciò
che non avviene
mai, a parte le altre condizioni diverse. Il carattere
di classe porta
a una differenza fondamentale: una classe che deve
lavorare ogni giorno
a orario fisso non può avere organizzazioni d'assalto
permanenti e
specializzate, come una classe che ha ampie
disponibilità finanziarie e
non è legata, in tutti i suoi membri, a un lavoro
fisso. In qualsiasi
ora del giorno e della notte, queste organizzazioni,
divenute
professionali, possono vibrare colpi decisivi e
cogliere alla
sprovvista. La tattica degli arditi non può avere
dunque per certe
classi la stessa importanza che per altre; a certe
classi è necessaria,
perché propria, la guerra di movimento e di manovra,
che nel caso della
lotta politica, può combinare un utile e forse
indispensabile uso della
tattica da arditi. Ma fissarsi nel modello militare è
da sciocchi: la
politica deve, anche qui, essere superiore alla parte
militare e solo
la politica crea la possibilità della manovra e del
movimento.
Da
tutto ciò che si è detto risulta che nel fenomeno
dell'arditismo
militare, occorre distinguere tra funzione tecnica di
arma speciale
legata alla moderna guerra di posizione e funzione
politico-militare:
come funzione di arma speciale l'arditismo si è avuto
in tutti gli
eserciti della guerra mondiale; come funzione
politico-militare si è
avuta nei paesi politicamente non omogenei e
indeboliti, quindi aventi
come espressione un esercito nazionale poco combattivo
e uno stato
maggiore burocratizzato e fossilizzato nella carriera.
*
A proposito dei confronti tra i concetti di guerra
manovrata e
guerra di posizione nell'arte militare e i concetti
relativi nell'arte
politica è da ricordare il libretto della Rosa
tradotto in italiano nel
1919 da C. Alessandri (tradotto dal francese). Nel
libretto si
teorizzano un po' affrettatamente e anche
superficialmente le
esperienze storiche del 1905: la Rosa infatti trascurò
gli elementi
«volontari» e organizzativi che in quegli avvenimenti
furono molto piú
diffusi ed efficienti di quanto la Rosa fosse portata
a credere per un
certo suo pregiudizio «economistico» e spontaneista.
Tuttavia questo
libretto (e altri saggi dello stesso autore) è uno dei
documenti piú
significativi della teorizzazione della guerra
manovrata applicata
all'arte politica. L'elemento economico immediato
(crisi, ecc.) è
considerato come l'artiglieria campale che in guerra
apriva il varco
nella difesa nemica, varco sufficiente perché le
proprie truppe
facciano irruzione e ottengano un successo definitivo
(strategico) o
almeno un successo importante nella direttrice della
linea strategica.
Naturalmente nella scienza storica l'efficacia
dell'elemento economico
immediato è ritenuta molto piú complessa di quella
dell'artiglieria
pesante nella guerra di manovra, perché questo
elemento era concepito
come avente un doppio effetto: 1) di aprire il varco
nella difesa
nemica dopo aver scompaginato e fatto perdere la
fiducia in sé e nelle
sue forze e nel suo avvenire al nemico stesso; 2) di
organizzare
fulmineamente le proprie truppe, di creare i quadri, o
almeno di porre
i quadri esistenti (elaborati fino allora dal processo
storico
generale) fulmineamente al loro posto di inquadramento
delle truppe
disseminate; 3) di creare fulmineamente la
concentrazione ideologica
dell'identità di fine da raggiungere. Era una forma di
ferreo
determinismo economistico, con l'aggravante che gli
effetti erano
concepiti come rapidissimi nel tempo e nello spazio;
perciò era un vero
e proprio misticismo storico, l'aspettazione di una
specie di
fulgurazione miracolosa.
L'osservazione del generale Krasnov (nel suo
romanzo) che l'Intesa (che non voleva una vittoria
della Russia
imperiale, perché non fosse risolta definitivamente a
favore dello
zarismo la quistione orientale) impose allo Stato
Maggiore russo la
guerra di trincea (assurda dato l'enorme sviluppo del
fronte dal
Baltico al mar Nero, con grandi zone paludose e
boscose) mentre unica
possibile era la guerra manovrata, è una mera
scempiaggine. In realtà
l'esercito russo tentò la guerra di manovra e di
sfondamento,
specialmente nel settore austriaco (ma anche nella
Prussia orientale)
ed ebbe successi brillantissimi, per quanto effimeri.
La verità è che
non si può scegliere la forma di guerra che si vuole,
a meno di avere
subito una superiorità schiacciante sul nemico, ed è
noto quante
perdite abbia costato l'ostinazione degli Stati
Maggiori nel non voler
riconoscere che la guerra di posizione era «imposta»
dai rapporti
generali delle forze in contrasto. La guerra di
posizione non è infatti
solo costituita dalle trincee vere e proprie, ma da
tutto il sistema
organizzativo e industriale del territorio che è alle
spalle
dell'esercito schierato, ed è imposta specialmente dal
tiro rapido dei
cannoni delle mitragliatrici dei moschetti, dalla
concentrazione delle
armi in un determinato punto, oltre che
dall'abbondanza del
rifornimento che permette di sostituire rapidamente il
materiale
perduto dopo uno sfondamento e un arretramento. Un
altro elemento è la
grande massa d'uomini che partecipano allo
schieramento, di valore
molto diseguale e che appunto possono operare solo
come massa. Si vide
come nel fronte orientale altra cosa era fare
irruzione nel settore
tedesco e altra nel settore austriaco e come anche nel
settore
austriaco, rinforzato da truppe scelte tedesche e
comandato da
tedeschi, la tattica irruenta finí nel disastro. Lo
stesso si vide
nella guerra polacca del 1920, quando l'avanzata che
sembrava
irresistibile fu fermata dinanzi a Varsavia dal
generale Weygand sulla
linea comandata da ufficiali francesi. Gli stessi
tecnici militari che
ormai si sono fissati sulla guerra di posizione come
prima lo erano su
quella manovrata, non sostengono certo che il tipo
precedente debba
essere considerato come espunto dalla scienza; ma
nelle guerre tra gli
Stati piú avanzati industrialmente e civilmente esso
deve considerarsi
ridotto a funzione tattica piú che strategica, deve
considerarsi nella
stessa posizione in cui era prima la guerra d'assedio
in confronto a
quella manovrata. La stessa riduzione deve avvenire
nell'arte e nella
scienza politica, almeno per ciò che riguarda gli
Stati piú avanzati,
dove la «società civile» è diventata una struttura
molto complessa e
resistente alle «irruzioni» catastrofiche
dell'elemento economico
immediato (crisi, depressioni ecc.); le superstrutture
della società
civile sono come il sistema delle trincee nella guerra
moderna. Come in
questa avveniva che un accanito attacco d'artiglieria
sembrava aver
distrutto tutto il sistema difensivo avversario ma ne
aveva solo invece
distrutto la superficie esterna e al momento
dell'attacco e
dell'avanzata gli assalitori si trovavano di fronte
una linea difensiva
ancora efficiente, cosí avviene nella politica durante
le grandi crisi
economiche; né le truppe assalitrici, per effetto
della crisi, si
organizzano fulmineamente nel tempo e nello spazio, né
tanto meno
acquistano uno spirito aggressivo; per reciproca, gli
assaliti non si
demoralizzano né abbandonano le difese, pur tra le
macerie, né perdono
la fiducia nella propria forza e nel proprio avvenire.
Le cose certo
non rimangono tali e quali, ma è certo che viene a
mancare l'elemento
della rapidità, del tempo accelerato, della marcia
progressiva
definitiva come si aspetterebbero gli strateghi del
cadornismo
politico. L'ultimo fatto del genere nella storia della
politica sono
stati gli avvenimenti del 1917. Essi hanno segnato una
svolta decisiva
nella storia dell'arte e della scienza della politica.
Si tratta dunque
di studiare con «profondità» quali sono gli elementi
della società
civile che corrispondono ai sistemi di difesa nella
guerra di
posizione. Si dice con «profondità» a disegno, perché
essi sono stati
studiati, ma da punti di vista superficiali e banali,
come certi
storici del costume studiano le stranezze della moda
femminile, o da un
punto di vista «razionalistico» cioè con la
persuasione che certi
fenomeni sono distrutti appena spiegati
«realisticamente», come se
fossero superstizioni popolari (che del resto
anch'esse non si
distruggono con lo spiegarle).
A questo
nesso di problemi è da riattaccare la quistione dello
scarso successo
ottenuto da nuove correnti nel movimento sindacale.
Un
tentativo di iniziare una revisione dei metodi tattici
avrebbe dovuto
essere quello esposto da L. Davidovic Bronstein alla
quarta riunione
quando fece un confronto tra il fronte orientale e
quello occidentale,
quello cadde subito ma fu seguito da lotte inaudite:
in questo le lotte
si verificherebbero «prima». Si tratterebbe cioè se la
società civile
resiste prima o dopo l'assalto, dove questo avviene
ecc. La quistione
però è stata esposta solo in forma letteraria
brillante, ma senza
indicazioni di carattere pratico.
*
Guerra di posizione e guerra manovrata o frontale. È
da vedere
se la famosa teoria di Bronstein
sulla permanenza del
movimento non sia il riflesso politico della teoria
della guerra
manovrata (ricordare osservazione del generale dei
cosacchi Krasnov),
in ultima analisi il riflesso delle condizioni
generali-economiche-culturali-sociali di un paese in
cui i quadri della
vita nazionale sono embrionali e rilasciati e non
possono diventare
«trincea o fortezza». In questo caso si potrebbe dire
che Bronstein,
che appare come un «occidentalista» era invece un
cosmopolita, cioè
superficialmente nazionale e superficialmente
occidentalista o europeo.
Invece Ilici era profondamente nazionale e
profondamente europeo.
Bronstein nelle sue memorie ricorda che gli fu detto
che la sua teoria
si era dimostrata buona dopo... quindici anni e
risponde all'epigramma
con un altro epigramma. In realtà la sua teoria, come
tale, non era
buona né quindici anni prima né quindici anni dopo:
come avviene agli
ostinati, di cui parla il Guicciardini, egli indovinò
all'ingrosso,
cioè ebbe ragione nella previsione pratica piú
generale; come a dire
che si predice che una bambina di quattro anni
diventerà madre e quando
lo diventa a venti anni si dice «l'avevo indovinato»,
non ricordando
però che quando aveva quattro anni si voleva stuprare
la bambina sicuri
che sarebbe diventata madre. Mi pare che Ilici aveva
compreso che
occorreva un mutamento dalla guerra manovrata,
applicata
vittoriosamente in Oriente nel '17, alla guerra di
posizione che era la
sola possibile in Occidente, dove, come osserva
Krasnov, in breve
spazio gli eserciti potevano accumulare sterminate
quantità di
munizioni, dove i quadri sociali erano di per sé
ancora capaci di
diventare trincee munitissime. Questo mi pare
significare la formula
del «fronte unico» che corrisponde alla concezione di
un solo fronte
dell'Intesa sotto il comando unico di Foch. Solo che
Ilici non ebbe il
tempo di approfondire la sua formula, pur tenendo
conto che egli poteva
approfondirla solo teoricamente, mentre il compito
fondamentale era
nazionale, cioè domandava una ricognizione del terreno
e una fissazione
degli elementi di trincea e di fortezza rappresentati
dagli elementi di
società civile ecc. In Oriente lo Stato era tutto, la
società civile
era primordiale e gelatinosa; nell'Occidente tra Stato
e società civile
c'era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si
scorgeva subito
una robusta struttura della società civile. Lo Stato
era solo una
trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena
di fortezze e di
casematte; piú o meno, da Stato a Stato, si capisce,
ma questo appunto
domandava un'accurata ricognizione di carattere
nazionale.
La teoria del Bronstein può essere paragonata
a quella di certi sindacalisti francesi sullo sciopero
generale e alla
teoria di Rosa nell'opuscolo tradotto da Alessandri:
l'opuscolo di Rosa
e la teoria di Rosa hanno del resto influenzato i
sindacalisti francesi
come appare da certi articoli di Rosmer sulla Germania
nella «Vie
Ouvrière» (prima serie in fascicoletti): dipende in
parte anche dalla
teoria della spontaneità.
*
[Il concetto di rivoluzione passiva.] Il concetto di
rivoluzione passiva deve essere dedotto rigorosamente
dai due principii
fondamentali di scienza politica: 1) che nessuna
formazione sociale
scompare fino a quando le forze produttive che si sono
sviluppate in
essa trovano ancora posto per un loro ulteriore
movimento progressivo;
2) che la società non si pone compiti per la cui
soluzione non siano
già state covate le condizioni necessarie ecc.
S'intende che questi
principii devono prima essere svolti criticamente in
tutta la loro
portata e depurati da ogni residuo di meccanicismo e
fatalismo. Cosí
devono essere riportati alla descrizione dei tre
momenti fondamentali
in cui può distinguersi una «situazione» o un
equilibrio di forze, col
massimo di valorizzazione del secondo momento, o
equilibrio delle forze
politiche e specialmente del terzo momento o
equilibrio
politico-militare. Si può osservare che il Pisacane,
nei
suoi Saggi, si preoccupa appunto di questo terzo
momento: egli
comprende, a differenza del Mazzini, tutta
l'importanza che ha la
presenza in Italia di un agguerrito esercito
austriaco, sempre pronto a
intervenire in ogni parte della penisola, e che
inoltre ha dietro di sé
tutta la potenza militare dell'Impero absburgico, cioè
una matrice
sempre pronta a formare nuovi eserciti di rincalzo.
Altro elemento storico da richiamare è lo
sviluppo del Cristianesimo nel seno dell'Impero
Romano, cosí come il
fenomeno attuale del Gandhismo in India e la teoria
della non
resistenza al male di Tolstoi che tanto si avvicinano
alla prima fase
del Cristianesimo (prima dell'editto di Milano). Il
Gandhismo e il
tolstoismo sono teorizzazioni ingenue e a tinta
religiosa della
«rivoluzione passiva». Sono anche da richiamare alcuni
movimenti cosí
detti «liquidazionisti» e le reazioni che suscitarono,
in rapporto ai
tempi e alle forme determinate di situazioni
(specialmente del terzo
momento).
Il punto di partenza dello
studio sarà la trattazione di Vincenzo Cuoco, ma è
evidente che
l'espressione del Cuoco a proposito della Rivoluzione
Napoletana del
1799 non è che uno spunto, poiché il concetto è
completamente
modificato e arricchito.
*
Il concetto di «rivoluzione passiva» nel senso di
Vincenzo
Cuoco attribuita al primo periodo del Risorgimento
italiano può essere
messo in rapporto col concetto di «guerra di
posizione» in confronto
alla guerra manovrata? Cioè questi concetti si sono
avuti dopo la
Rivoluzione francese e il binomio Proudhon-Gioberti
può essere
giustificato col panico creato dal terrore del 1793
come il sorellismo
col panico successivo alle stragi parigine del 1871?
Cioè esiste una
identità assoluta tra guerra di posizione e
rivoluzione passiva? O
almeno esiste o può concepirsi tutto un periodo
storico in cui i due
concetti si debbano identificare, fino al punto in cui
la guerra di
posizione ridiventa guerra manovrata? È un giudizio
«dinamico» che
occorre dare sulle «Restaurazioni» che sarebbero una
«astuzia della
provvidenza» in senso vichiano. Un problema è questo:
nella lotta
Cavour-Mazzini, in cui Cavour è l'esponente della
rivoluzione passiva –
guerra di posizione e Mazzini dell'iniziativa popolare
– guerra
manovrata, non sono indispensabili ambedue nella
stessa precisa misura?
Tuttavia bisogna tener conto che mentre Cavour era
consapevole del suo
compito (almeno in una certa misura) in quanto
comprendeva il compito
di Mazzini, Mazzini non pare fosse consapevole del suo
e di quello del
Cavour; se invece Mazzini avesse avuto tale
consapevolezza, cioè fosse
stato un politico realista e non un apostolo
illuminato (cioè non fosse
stato Mazzini) l'equilibrio risultante dal confluire
delle due attività
sarebbe stato diverso, piú favorevole al
mazzinianismo: cioè lo Stato
italiano si sarebbe costituito su basi meno arretrate
e piú moderne. E
poiché in ogni evento storico si verificano quasi
sempre situazioni
simili, è da vedere se non si possa trarre da ciò
qualche principio
generale di scienza e di arte politica. Si può
applicare al concetto di
rivoluzione passiva (e si può documentare nel
Risorgimento italiano) il
criterio interpretativo delle modificazioni molecolari
che in realtà
modificano progressivamente la composizione precedente
delle forze e
quindi diventano matrice di nuove modificazioni. Cosí
nel Risorgimento
italiano si è visto come il passaggio al Cavourrismo
dopo il 1848 di
sempre nuovi elementi del Partito d'Azione ha
modificato
progressivamente la composizione delle forze moderate,
liquidando il
neoguelfismo da una parte e dall'altra impoverendo il
movimento
mazziniano (a questo processo appartengono anche le
oscillazioni di
Garibaldi ecc.). Questo elemento pertanto è la fase
originaria di quel
fenomeno che è stato chiamato piú tardi «trasformismo»
e la cui
importanza non è stata, pare, finora, messa nella luce
dovuta come
forma di sviluppo storico.
Insistere nello svolgimento del concetto che
mentre Cavour era consapevole del suo compito in
quanto era consapevole
criticamente del compito di Mazzini, Mazzini, per la
scarsa o nulla
consapevolezza del compito di Cavour, era in realtà
anche poco
consapevole del suo proprio compito, perciò i suoi
tentennamenti (cosí
a Milano nel periodo successivo alle cinque giornate e
in altre
occasioni) e le sue iniziative fuori tempo, che
pertanto diventavano
elementi solo utili alla politica piemontese. È questa
una
esemplificazione del problema teorico del come doveva
essere compresa
la dialettica, impostato nella Miseria della
Filosofia: che ogni
membro dell'opposizione dialettica debba cercare di
essere tutto se
stesso e gettare nella lotta tutte le proprie
«risorse» politiche e
morali, e che solo cosí si abbia un superamento reale,
non era capito
né da Proudhon né da Mazzini. Si dirà che non era
capito neanche da
Gioberti e dai teorici della rivoluzione passiva e
«rivoluzione-restaurazione», ma la quistione cambia:
in costoro la
«incomprensione» teorica era l'espressione pratica
delle necessità
della «tesi» di sviluppare tutta se stessa, fino al
punto di riuscire a
incorporare una parte dell'antitesi stessa, per non
lasciarsi
«superare», cioè nell'opposizione dialettica solo la
tesi in realtà
sviluppa tutte le sue possibilità di lotta, fino ad
accaparrarsi i
sedicenti rappresentanti dell'antitesi: proprio in
questo consiste la
rivoluzione passiva o rivoluzione-restaurazione. Certo
è da considerare
a questo punto la quistione del passaggio della lotta
politica da
«guerra manovrata» a «guerra di posizione», ciò che in
Europa avvenne
dopo il 1848 e che non fu compreso da Mazzini e dai
mazziniani come
invece fu compreso da qualche altro; lo stesso
passaggio si ebbe dopo
il 1871 ecc. La quistione era difficile da capire
allora per uomini
come il Mazzini, dato che le guerre militari non
avevano dato il
modello, ma anzi le dottrine militari si sviluppavano
nel senso della
guerra di movimento: sarà da vedere se in Pisacane,
che del
mazzinianismo fu il teorico militare, ci siano accenni
in questo senso.
(Sarà da vedere la letteratura politica sul '48 dovuta
a studiosi della
filosofia della prassi; ma non pare che ci sia molto
da aspettarsi in
questo senso. Gli avvenimenti italiani, per esempio,
furono esaminati
solo con la guida dei libri di Bolton King ecc.).
Pisacane è tuttavia
da vedere perché fu il solo che tentò di dare al
Partito d'Azione un
contenuto non solo formale, ma sostanziale di antitesi
superatrice
delle posizioni tradizionali. Né è da dire che per
ottenere questi
risultati storici fosse necessaria perentoriamente
l'insurrezione
armata popolare, come pensava Mazzini fino
all'ossessione, cioè non
realisticamente, ma da missionario religioso.
L'intervento popolare che
non fu possibile nella forma concentrata e simultanea
dell'insurrezione, non si ebbe neanche nella forma
«diffusa» e
capillare della pressione indiretta, ciò che invece
era possibile e
forse sarebbe stata la premessa indispensabile della
prima forma. La
forma concentrata o simultanea era resa impossibile
dalla tecnica
militare del tempo, ma solo in parte, cioè
l'impossibilità esistette in
quanto alla forma concentrata e simultanea non fu
fatto precedere una
preparazione politica ideologica di lunga lena,
organicamente
predisposta per risvegliare le passioni popolari e
renderne possibile
la concentrazione e lo scoppio simultaneo.
Dopo
il 1848 una critica dei metodi precedenti al
fallimento fu fatta solo
dai moderati e infatti tutto il movimento moderato si
rinnovò, il
neoguelfismo fu liquidato, uomini nuovi occuparono i
primi posti di
direzione. Nessuna autocritica invece da parte del
mazzinianismo oppure
autocritica liquidatrice, nel senso che molti elementi
abbandonarono
Mazzini e formarono l'ala sinistra del partito
piemontese; unico
tentativo «ortodosso», cioè dall'interno, furono i
saggi del Pisacane,
che però non divennero mai piattaforma di una nuova
politica organica e
ciò nonostante che il Mazzini stesso riconoscesse che
il Pisacane aveva
una «concezione strategica» della Rivoluzione
nazionale italiana.
*
Il rapporto «rivoluzione passiva - guerra di
posizione» nel
Risorgimento italiano può essere studiato anche in
altri aspetti.
Importantissimo quello che si può chiamare del
«personale» e l'altro
della «radunata rivoluzionaria». Quello del
«personale» può essere
appunto paragonato a quanto si verificò nella guerra
mondiale nel
rapporto tra ufficiali di carriera e ufficiali di
complemento da una
parte e tra soldati di leva e volontari-arditi
dall'altra. Gli
ufficiali di carriera corrisposero nel Risorgimento ai
partiti politici
regolari, organici, tradizionali, ecc., che al momento
dell'azione
(1884) si dimostrarono inetti o quasi e furono nel
1848-49 soverchiati
dall'ondata popolare-mazziniana-democratica, ondata
caotica,
disordinata, «estemporanea» per cosí dire, ma che
tuttavia, al seguito
di capi improvvisati o quasi (in ogni caso non di
formazioni
precostituite com'era il partito moderato) ottennero
successi
indubbiamente maggiori di quelli ottenuti dai
moderati: la Repubblica
romana e Venezia mostrarono una forza di resistenza
molto notevole. Nel
periodo dopo il '48 il rapporto tra le due forze,
quella regolare e
quella «carismatica», si organizzò intorno a Cavour e
Garibaldi e diede
il massimo risultato, sebbene questo risultato fosse
poi incamerato dal
Cavour.
Questo aspetto è connesso all'altro, della
«radunata». È da osservare che la difficoltà tecnica
contro cui
andarono sempre a spezzarsi le iniziative mazziniane
fu quella appunto
della «radunata rivoluzionaria». Sarebbe interessante,
da questo punto
di vista, studiare il tentativo di invadere la Savoia
col Ramorino, poi
quello dei fratelli Bandiera, del Pisacane ecc.,
paragonato con la
situazione che si offrí a Mazzini nel '48 a Milano e
nel '49 a Roma e
che egli non ebbe la capacità di organizzare. Questi
tentativi di pochi
non potevano non essere schiacciati in germe, perché
sarebbe stato
maraviglioso che le forze reazionarie, che erano
concentrate e potevano
operare liberamente (cioè non trovavano nessuna
opposizione in larghi
movimenti della popolazione) non schiacciassero le
iniziative tipo
Ramorino, Pisacane, Bandiera, anche se queste fossero
state preparate
meglio di quanto furono in realtà. Nel secondo periodo
(1859-60) la
radunata rivoluzionaria, come fu quella dei Mille di
Garibaldi, fu resa
possibile dal fatto che Garibaldi si innestava nelle
forze statali
piemontesi prima e poi che la flotta inglese protesse
di fatto lo
sbarco di Marsala, la presa di Palermo, e sterilizzò
la flotta
borbonica. A Milano dopo le cinque giornate, a Roma
repubblicana,
Mazzini avrebbe avuto la possibilità di costituire
piazze d'armi per
radunate organiche, ma non si propose di farlo, onde
il suo conflitto
con Garibaldi a Roma e la sua inutilizzazione a Milano
di fronte a
Cattaneo e al gruppo democratico milanese.
In
ogni modo lo svolgersi del processo del Risorgimento,
se pose in luce
l'importanza enorme del movimento «demagogico» di
massa, con capi di
fortuna, improvvisati ecc., in realtà fu riassunto
dalle forze
tradizionali organiche, cioè dai partiti formati di
lunga mano, con
elaborazione razionale dei capi ecc. In tutti gli
avvenimenti politici
dello stesso tipo sempre si ebbe lo stesso risultato
(cosí nel 1830, in
Francia, la prevalenza degli orleanisti sulle forze
popolari radicali
democratiche, e cosí in fondo anche nella Rivoluzione
Francese del
1789, in cui Napoleone, rappresenta, in ultima
analisi, il trionfo
delle forze borghesi organiche contro le forze
piccolo-borghesi
giacobine). Cosí nella guerra mondiale il sopravvento
dei vecchi
ufficiali di carriera su quelli di complemento ecc.
(su questo
argomento cfr. note in altri quaderni). In ogni caso,
l'assenza nelle
forze radicali popolari di una consapevolezza del
compito dell'altra
parte impedí ad esse di avere piena consapevolezza del
loro proprio
compito e quindi di pesare nell'equilibrio finale
delle forze, in
rapporto al loro effettivo peso d'intervento, e quindi
di determinare
un risultato piú avanzato, su una linea di maggiore
progresso e
modernità.
*
Sempre a proposito del concetto di rivoluzione
passiva o
rivoluzione-restaurazione nel Risorgimento italiano è
da notare che
occorre porre con esattezza il problema che in alcune
tendenze
storiografiche è chiamato dei rapporti tra condizioni
oggettive e
condizioni soggettive dell'evento storico. Appare
evidente che mai
possono mancare le cosidette condizioni soggettive
quando esistano le
condizioni oggettive in quanto si tratta di semplice
distinzione di
carattere didascalico: pertanto è nella misura delle
forze soggettive e
della loro intensità che può vertere discussione, e
quindi nel rapporto
dialettico tra le forze soggettive contrastanti.
Occorre evitare che la
quistione sia posta in termini «intellettualistici» e
non
storico-politici. Che la «chiarezza» intellettuale dei
termini della
lotta sia indispensabile, è pacifico, ma questa
chiarezza è un valore
politico in quanto diventa passione diffusa ed è la
premessa di una
forte volontà. Negli ultimi tempi, in molte
pubblicazioni sul
Risorgimento, è stato «rivelato» che esistevano
personalità che
vedevano chiaro ecc. (ricordare la valorizzazione
dell'Ornato fatta da
Piero Gobetti), ma queste «rivelazioni» si distruggono
da se stesse
appunto perché rivelazioni; esse dimostrano che si
trattava di
elucubrazioni individuali, che oggi rappresentano una
forma del «senno
di poi». Infatti mai si cimentarono con la realtà
effettuale, mai
diventarono coscienza popolare-nazionale diffusa e
operante. Tra il
Partito d'Azione e il Partito moderato quale
rappresentò le effettive
«forze soggettive» del Risorgimento? Certo il Partito
moderato, e
appunto perché ebbe consapevolezza del compito anche
del Partito
d'Azione: per questa consapevolezza la sua
«soggettività» era di una
qualità superiore e piú decisiva. Nell'espressione sia
pure da sergente
maggiore, di Vittorio Emanuele II: «Il Partito
d'Azione noi l'abbiamo
in tasca» c'è piú senso storico-politico che in tutto
Mazzini.
*
Sulla burocrazia. 1) Il fatto che nello svolgimento
storico
delle forme politiche ed economiche si sia venuto
formando il tipo del
funzionario «di carriera», tecnicamente addestrato al
lavoro
burocratico (civile e militare) ha un significato
primordiale nella
scienza politica e nella storia delle forme statali.
Si è trattato di
una necessità o di una degenerazione in confronto
dell'autogoverno
(self-government) come pretendono i liberisti «puri»?
È certo che ogni
forma sociale e statale ha avuto un suo problema dei
funzionari, un suo
modo di impostarlo e risolverlo, un suo sistema di
selezione, un suo
tipo di funzionario da educare. Ricostruire lo
svolgimento di tutti
questi elementi è di importanza capitale. Il problema
dei funzionari
coincide in parte col problema degli intellettuali. Ma
se è vero che
ogni nuova forma sociale e statale ha avuto bisogno di
un nuovo tipo di
funzionario, è vero anche che i nuovi gruppi dirigenti
non hanno mai
potuto prescindere, almeno per un certo tempo, dalla
tradizione e dagli
interessi costituiti, cioè dalle formazioni di
funzionari già esistenti
e precostituiti al loro avvento (ciò specialmente
nella sfera
ecclesiastica e in quella militare). L'unità del
lavoro manuale e
intellettuale e un legame piú stretto tra il potere
legislativo e
quello esecutivo (per cui i funzionari eletti, oltre
che del controllo,
si interessino dell'esecuzione degli affari di Stato)
possono essere
motivi ispiratori sia per un indirizzo nuovo nella
soluzione del
problema degli intellettuali che di quello dei
funzionari.
2) Connessa con la quistione della burocrazia
e della sua organizzazione «ottima» è la discussione
sui cosidetti
«centralismo organico» e «centralismo democratico»
(che d'altronde non
ha niente a che fare con la democrazia astratta, tanto
che la
Rivoluzione francese e la terza Repubblica hanno
sviluppato delle forme
di centralismo organico che non avevano conosciuto né
la monarchia
assoluta né Napoleone I). Saranno da ricercare ed
esaminare i reali
rapporti economici e politici che trovano la loro
forma organizzativa,
la loro articolazione e la loro funzionalità nelle
diverse
manifestazioni di centralismo organico e democratico
in tutti i campi:
nella vita statale (unitarismo, federazione, unione di
Stati federati,
federazione di Stati o Stato federale ecc.), nella
vita interstatale
(alleanza, forme varie di «costellazione» politica
internazionale),
nella vita delle associazioni politiche e culturali
(massoneria, Rotary
Club, Chiesa cattolica), sindacali economiche
(cartelli, trusts), in
uno stesso paese, in diversi paesi ecc.
Polemiche
sorte nel passato (prima del 1914) a proposito del
predominio tedesco
nella vita dell'alta cultura e di alcune forze
politiche
internazionali: era poi reale questo predominio o in
che cosa realmente
consisteva? Si può dire: a) che nessun nesso
organico e
disciplinare stabiliva una tale supremazia, che
pertanto era un mero
fenomeno di influsso culturale astratto e di prestigio
molto
labile; b) che tale influsso culturale non
toccava per nulla
l'attività effettuale, che viceversa era disgregata,
localistica, senza
indirizzo d'insieme. Non si può parlare perciò di
nessun centralismo,
né organico né democratico né d'altro genere o misto.
L'influsso era
sentito e subito da scarsi gruppi intellettuali, senza
legame con le
masse popolari e appunto questa assenza di legame
caratterizzava la
situazione. Tuttavia un tale stato di cose è degno di
esame perché
giova a spiegare il processo che ha condotto a
formulare le teorie del
centralismo organico, che sono state appunto una
critica unilaterale e
da intellettuali di quel disordine e di quella
dispersione di forze.
Occorre
intanto distinguere nelle teorie del centralismo
organico tra quelle
che velano un preciso programma di predominio reale di
una parte sul
tutto (sia la parte costituita da un ceto come quello
degli
intellettuali, sia costituita da un gruppo
territoriale «privilegiato»)
e quelle che sono una pura posizione unilaterale di
settari e fanatici,
e che pur potendo nascondere un programma di
predominio (di solito di
una singola individualità, come quella del papa
infallibile per cui il
cattolicismo si è trasformato in una specie di culto
del pontefice),
immediatamente non pare nascondere un tale programma
come fatto
politico consapevole. Il nome piú esatto sarebbe
quello di centralismo
burocratico. L'«organicità» non può essere che del
centralismo
democratico il quale è un «centralismo» in movimento,
per cosí dire,
cioè una continua adeguazione dell'organizzazione al
movimento reale,
un contemperare le spinte dal basso con il comando
dall'alto, un
inserimento continuo degli elementi che sbocciano dal
profondo della
massa nella cornice solida dell'apparato di direzione
che assicura la
continuità e l'accumularsi regolare delle esperienze:
esso è «organico»
perché tiene conto del movimento, che è il modo
organico di rivelarsi
della realtà storica e non si irrigidisce
meccanicamente nella
burocrazia, e nello stesso tempo tiene conto di ciò
che è relativamente
stabile e permanente o che per lo meno si muove in una
direzione facile
a prevedersi ecc. Questo elemento di stabilità nello
Stato si incarna
nello sviluppo organico del nucleo centrale del gruppo
dirigente cosí
come avviene in piú ristretta scala nella vita dei
partiti. Il
prevalere del centralismo burocratico nello Stato
indica che il gruppo
dirigente è saturato diventando una consorteria
angusta che tende a
perpetrare i suoi gretti privilegi regolando o anche
soffocando il
nascere di forze contrastanti, anche se queste forze
sono omogenee agli
interessi dominanti fondamentali (per es. nei sistemi
protezionistici a
oltranza in lotta col liberismo economico). Nei
partiti che
rappresentano gruppi socialmente subalterni l'elemento
di stabilità è
necessario per assicurare l'egemonia non a gruppi
privilegiati ma agli
elementi progressivi, organicamente progressivi in
confronto di altre
forze affini e alleate ma composite e oscillanti.
In
ogni caso occorre rilevare che le manifestazioni
morbose di centralismo
burocratico sono avvenute per deficienza di iniziativa
e responsabilità
nel basso, cioè per la primitività politica delle
forze periferiche,
anche quando esse sono omogenee con il gruppo
territoriale egemone
(fenomeno del piemontesismo nei primi decenni
dell'unità italiana). Il
formarsi di tali situazioni può essere estremamente
dannoso e
pericoloso negli organismi internazionali (Società
delle Nazioni).
Il
centralismo democratico offre una formula elastica,
che si presta a
molte incarnazioni; essa vive in quanto è interpretata
e adattata
continuamente alle necessità: essa consiste nella
ricerca critica di
ciò che è uguale nell'apparente disformità e invece
distinto e anche
opposto nell'apparente uniformità per organare e
connettere
strettamente ciò che è simile, ma in modo che
l'organamento e la
connessione appaiano una necessità pratica e
«induttiva», sperimentale
e non il risultato di un processo razionalistico,
deduttivo,
astrattistico, cioè proprio degli intellettuali puri
(o puri asini).
Questo lavorio continuo per sceverare l'elemento
«internazionale» e
«unitario» nella realtà nazionale e localistica è in
realtà l'azione
politica concreta, l'attività sola produttiva di
progresso storico.
Esso richiede una organica unità tra teoria e pratica,
tra ceti
intellettuali e masse popolari, tra governanti e
governati. Le formule
di unità e federazione perdono gran parte del loro
significato da
questo punto di vista, mentre conservano il loro
veleno nella
concezione burocratica, per la quale finisce col non
esistere unità ma
palude stagnante, superficialmente calma e «muta» e
non federazione ma
«sacco di patate», cioè giustapposizione meccanica di
singole «unità»
senza nesso tra loro.
*
Il
teorema delle proporzioni definite. Questo teorema può
essere impiegato
utilmente per rendere piú chiari e di uno schematismo
piú evidente
molti ragionamenti riguardanti la scienza
dell'organizzazione (lo
studio dell'apparato amministrativo, della
composizione demografica
ecc.) e anche la politica generale (nelle analisi
delle situazioni, dei
rapporti di forza, nel problema degli intellettuali
ecc.). S'intende
che occorre sempre ricordare come il ricorso al
teorema delle
proporzioni definite ha un valore schematico e
metaforico, cioè non può
essere applicato meccanicamente, poiché negli
aggregati umani
l'elemento qualitativo (o di capacità tecnica e
intellettuale dei
singoli componenti) ha una funzione predominante,
mentre non può essere
misurato matematicamente. Perciò si può dire che ogni
aggregato umano
ha un suo particolare principio ottimo di
proporzioni
definite. Specialmente la scienza dell'organizzazione
può ricorrere
utilmente a questo teorema e ciò appare con chiarezza
nell'esercito. Ma
ogni forma di società ha un suo tipo di esercito e
ogni tipo di
esercito ha un suo principio di proporzioni definite,
che del resto
cambia anche per le diverse armi o specialità. C'è un
determinato
rapporto tra uomini di truppa, graduati,
sottufficiali, ufficiali
subalterni, ufficiali superiori, stati maggiori, stato
maggiore
generale ecc. C'è un rapporto tra le varie armi e
specialità tra loro
ecc. Ogni mutamento in una parte determina la
necessità di un nuovo
equilibrio col tutto ecc. Politicamente il teorema si
può vedere
applicato nei partiti, nei sindacati, nelle fabbriche
e vedere come
ogni gruppo sociale ha una propria legge di
proporzioni definite, che
varia a seconda del livello di cultura, di
indipendenza mentale, di
spirito d'iniziativa e di senso della responsabilità e
della disciplina
dei suoi membri piú arretrati e periferici.
La
legge delle proporzioni definite è cosí riassunta dal
Pantaleoni
nei Principii di Economia pura: «... I corpi si
combinano
chimicamente soltanto in proporzioni definite e ogni
quantità di un
elemento che superi la quantità richiesta per una
combinazione con
altri elementi, presenti in quantità definite,
resta libera; se la
quantità di un elemento è deficiente per rapporto alla
quantità di
altri elementi presenti, la combinazione non avviene
che nella misura
in cui è sufficiente la quantità dell'elemento che è
presente
in quantità minore degli altri». Si potrebbe
servirsi
metaforicamente di questa legge per comprendere come
un «movimento» o
tendenza di opinioni, diventa partito, cioè forza
politica efficiente
dal punto di vista dell'esercizio del potere
governativo; nella misura
appunto in cui possiede (ha elaborato nel suo interno)
dirigenti di
vario grado e nella misura in cui essi dirigenti hanno
acquisito
determinate capacità. L'«automatismo» storico di certe
premesse
(l'esistenza di certe condizioni obbiettive) viene
potenziato
politicamente dai partiti e dagli uomini capaci: la
loro assenza o
deficienza (quantitativa e qualitativa) rende sterile
l'«automatismo»
stesso (che pertanto non è automatismo): ci sono
astrattamente le
premesse, ma le conseguenze non si realizzano perché
il fattore umano
manca. Perciò si può dire che i partiti hanno il
compito di elaborare
dirigenti capaci, sono la funzione di massa che
seleziona, sviluppa,
moltiplica i dirigenti necessari perché un gruppo
sociale definito (che
è una quantità «fissa», in quanto si può stabilire
quanti sono i
componenti di ogni gruppo sociale) si articoli e da
caos tumultuoso
diventi esercito politico organicamente predisposto.
Quando in elezioni
successive dello stesso grado o di grado diverso (per
esempio nella
Germania prima di Hitler: elezioni per il presidente
della repubblica,
per il Reichstag, per le diete dei Länder, per i
consigli comunali e
giú giú fino ai comitati d'azienda) un partito oscilla
nella sua massa
di suffragi da massimi a minimi che sembrano strani e
arbitrari, si può
dedurre che i quadri di esso sono deficienti per
quantità e per
qualità, o per quantità e non per qualità
(relativamente) o per qualità
e non per quantità. Un partito che ha molti voti nelle
elezioni locali
e meno in quelle di piú alta importanza politica, è
certo deficiente
qualitativamente nella sua direzione centrale:
possiede molti
subalterni o almeno in numero sufficiente, ma non
possiede uno stato
maggiore adeguato al paese e alla sua posizione nel
mondo, ecc. Analisi
di questo genere sono accennate in altri paragrafi.
*
Sociologia
e scienza politica (vedere i paragrafi
sul Saggio popolare).
La fortuna della sociologia è in relazione con la
decadenza del
concetto di scienza politica e di arte politica
verificatasi nel secolo
XIX (con piú esattezza nella seconda metà, con la
fortuna delle
dottrine evoluzionistiche e positivistiche). Ciò che
di realmente
importante è nella sociologia non è altro che scienza
politica.
«Politica» divenne sinonimo di politica parlamentare o
di cricche
personali. Persuasione che con le costituzioni e i
parlamenti si fosse
iniziata un'epoca di «evoluzione» «naturale», che la
società avesse
trovato i suoi fondamenti definitivi perché razionali
ecc. ecc. Ecco
che la società può essere studiata col metodo delle
scienze naturali.
Impoverimento del concetto di Stato conseguente a tal
modo di vedere.
Se scienza politica significa scienza dello Stato e
Stato è tutto il
complesso di attività pratiche e teoriche con cui la
classe dirigente
giustifica e mantiene il suo dominio non solo ma
riesce a ottenere il
consenso attivo dei governati, è evidente che tutte le
quistioni
essenziali della sociologia non sono altro che le
quistioni della
scienza politica. Se c'è un residuo, questo non può
essere che di falsi
problemi cioè di problemi oziosi. La quistione che
pertanto si poneva
all'autore del Saggio popolare era quella di
determinare in
che rapporti poteva essere posta la scienza politica
con la filosofia
della praxis, se tra le due esiste identità (cosa non
sostenibile, o
sostenibile solo da un punto di vista del piú gretto
positivismo) o se
la scienza politica è l'insieme di principii empirici
o pratici che si
deducono da una piú vasta concezione del mondo o
filosofia propriamente
detta, o se questa filosofia è solo la scienza dei
concetti o categorie
generali che nascono dalla scienza politica ecc. Se è
vero che l'uomo
non può essere concepito se non come uomo storicamente
determinato,
cioè che si è sviluppato e vive in certe condizioni,
in un determinato
complesso sociale o insieme di rapporti sociali, si
può concepire la
sociologia come studio solo di queste condizioni e
delle leggi che ne
regolano lo sviluppo? Poiché non si può prescindere
dalla volontà e
dall'iniziativa degli uomini stessi, questo concetto
non può non essere
falso.
Il problema di che cosa è la «scienza» stessa è da
porre.
La
scienza non è essa stessa «attività politica» e
pensiero politico, in
quanto trasforma gli uomini, li rende diversi da
quelli che erano
prima? Se tutto è «politico» occorre, per non cadere
in un frasario
tautologico e noioso distinguere con concetti nuovi la
politica che
corrisponde a quella scienza che tradizionalmente si
chiama
«filosofia», dalla politica che si chiama scienza
politica in senso
stretto. Se la scienza è «scoperta» di realtà ignorata
prima, questa
realtà non viene concepita come trascendente in un
certo senso? e non
si pensa che esiste ancora qualcosa di «ignoto» e
quindi di
trascendente? E il concetto di scienza come
«creazione» non significa
poi come «politica»? Tutto sta nel vedere se si tratta
di creazione
«arbitraria» o razionale, cioè «utile» agli uomini per
allargare il
loro concetto della vita, per rendere superiore
(sviluppare) la vita
stessa.
A proposito del Saggio
popolare e della sua appendice Teoria e
pratica è da
vedere nella «Nuova Antologia» del 16 marzo 1933 la
rassegna filosofica
di Armando Carlini, da cui risulta che l'equazione,
Teoria: pratica =
matematica pura: matematica applicata, è stata
enunziata da un inglese
(mi pare Whittaker).
*
Il
numero e la qualità nei regimi rappresentativi. Uno
dei luoghi comuni
piú banali che si vanno ripetendo contro il sistema
elettivo di
formazione degli organi statali è questo, che il
«numero sia in esso
legge suprema» e che la «opinione di un qualsiasi
imbecille che sappia
scrivere (e anche di un analfabeta, in certi paesi),
valga, agli
effetti di determinare il corso politico dello Stato,
esattamente
quanto quella di chi allo Stato e alla Nazione dedichi
le sue migliori
forze» ecc. (le formulazioni sono molte, alcune anche
piú felici di
questa riportata, che è di Mario da Silva, nella
«Critica Fascista» del
15 agosto 1932, ma il contenuto è sempre uguale). Ma
il fatto è che non
è vero, in nessun modo, che il numero sia «legge
suprema», né che il
peso dell'opinione di ogni elettore sia «esattamente»
uguale. I numeri,
anche in questo caso, sono un semplice valore
strumentale, che danno
una misura e un rapporto e niente di piú. E che cosa
poi si misura? Si
misura proprio l'efficacia e la capacità di espansione
e di persuasione
delle opinioni di pochi, delle minoranze attive, delle
élites, delle
avanguardie ecc. ecc. cioè la loro razionalità o
storicità o
funzionalità concreta. Ciò vuol dire che non è vero
che il peso delle
opinioni dei singoli sia «esattamente» uguale. Le idee
e le opinioni
non «nascono» spontaneamente nel cervello di ogni
singolo: hanno avuto
un centro di formazione, di irradiazione, di
diffusione, di
persuasione, un gruppo di uomini o anche una singola
individualità che
le ha elaborate e presentate nella forma politica
d'attualità. La
numerazione dei «voti» è la manifestazione terminale
di un lungo
processo in cui l'influsso massimo appartiene proprio
a quelli che
«dedicano allo Stato e alla Nazione le loro migliori
forze» (quando lo
sono). Se questo presunto gruppo di ottimati,
nonostante le forze
materiali sterminate che possiede, non ha il consenso
della
maggioranza, sarà da giudicare o inetto o non
rappresentante gli
interessi «nazionali» che non possono non essere
prevalenti
nell'indurre la volontà nazionale in un senso
piuttosto che in un
altro. «Disgraziatamente» ognuno è portato a
confondere il proprio
«particulare» con l'interesse nazionale e quindi a
trovare «orribile»
ecc. che sia la «legge del numero» a decidere; è certo
miglior cosa
diventare élite per decreto. Non si tratta pertanto di
chi «ha molto»
intellettualmente che si sente ridotto al livello
dell'ultimo
analfabeta, ma di chi presume di aver molto e che
vuole togliere
all'uomo «qualunque» anche quella frazione
infinitesima di potere che
egli possiede nel decidere sul corso della vita
statale.
Dalla
critica (di origine oligarchica e non di élite) al
regime
parlamentaristico (è strano che esso non sia criticato
perché la
razionalità storicistica del consenso numerico è
sistematicamente
falsificata dall'influsso della ricchezza), queste
affermazioni banali
sono state estese a ogni sistema rappresentativo,
anche non
parlamentaristico, e non foggiato secondo i canoni
della democrazia
formale. Tanto meno queste affermazioni sono esatte.
In questi altri
regimi il consenso non ha nel momento del voto una
fase terminale,
tutt'altro. Il consenso è supposto permanentemente
attivo, fino al
punto che i consenzienti potrebbero essere considerati
come
«funzionari» dello Stato e le elezioni un modo di
arruolamento
volontario di funzionari statali di un certo tipo, che
in un certo
senso potrebbe ricollegarsi (in piani diversi) al
self-government. Le
elezioni avvenendo non su programmi generici e vaghi,
ma di lavoro
concreto immediato, chi consentite si impegna a fare
qualcosa di piú
del comune cittadino legale, per realizzarli, a essere
cioè una
avanguardia di lavoro attivo e responsabile.
L'elemento «volontariato»
nell'iniziativa non potrebbe essere stimolato in altro
modo per le piú
larghe moltitudini, e quando queste non siano formate
di cittadini
amorfi, ma di elementi produttivi qualificati, si può
intendere
l'importanza che la manifestazione del voto può avere.
(Queste
osservazioni potrebbero essere svolte piú ampiamente e
organicamente,
mettendo in rilievo anche altre differenze tra i
diversi tipi di
elezionismo, a seconda che mutano i rapporti generali
sociali e
politici: rapporto tra funzionari elettivi e
funzionari di carriera
ecc.).
*
La
proposizione che «la società non si pone problemi
per la cui
soluzione non esistano già le premesse materiali». È
il problema della
formazione di una volontà collettiva che dipende
immediatamente da
questa proposizione e analizzare criticamente cosa la
proposizione
significhi importa ricercare come appunto si formino
le volontà
collettive permanenti, e come tali volontà si
propongano dei fini
immediati e mediati concreti, cioè una linea d'azione
collettiva. Si
tratta di processi di sviluppo piú o meno lunghi, e
raramente di
esplosioni «sintetiche» improvvise. Anche le
«esplosioni» sintetiche si
verificano, ma, osservando da vicino, si vede che
allora si tratta di
distruggere piú che ricostruire, di rimuovere ostacoli
esteriori e
meccanici allo sviluppo autoctono e spontaneo: cosí
può assumersi come
esemplare il Vespro Siciliano.
Si potrebbe
studiare in concreto la formazione di un movimento
storico collettivo,
analizzandolo in tutte le sue fasi molecolari, ciò che
di solito non si
fa perché appesantirebbe ogni trattazione: si assumono
invece le
correnti d'opinione già costituite intorno a un gruppo
o a una
personalità dominante. È il problema che modernamente
si esprime in
termini di partito o di coalizione di partiti affini:
come si inizia la
costituzione di un partito, come si sviluppa la sua
forza organizzata e
di influenza sociale ecc. Si tratta di un processo
molecolare,
minutissimo, di analisi estrema, capillare, la cui
documentazione è
costituita da una quantità sterminata di libri, di
opuscoli, di
articoli di rivista e di giornale, di conversazioni e
dibattiti a voce
che si ripetono infinite volte e che nel loro insieme
gigantesco
rappresentano questo lavorio da cui nasce una volontà
collettiva di un
certo grado di omogeneità, di quel certo grado che è
necessario e
sufficiente per determinare un'azione coordinata e
simultanea nel tempo
e nello spazio geografico in cui il fatto storico si
verifica.
Importanza
delle utopie e delle ideologie confuse e
razionalistiche nella fase
iniziale dei processi storici di formazione delle
volontà collettive:
le utopie, il razionalismo astratto hanno la stessa
importanza delle
vecchie concezioni del mondo storicamente elaborate
per accumulazione
di esperienze successive. Ciò che importa è la critica
a cui tale
complesso ideologico viene sottoposto dai primi
rappresentanti della
nuova fase storica: attraverso questa critica si ha un
processo di
distinzione e di cambiamento nel peso relativo che gli
elementi delle
vecchie ideologie possedevano: ciò che era secondario
e subordinato o
anche incidentale, viene assunto come principale,
diventa il nucleo di
un nuovo complesso ideologico e dottrinale. La vecchia
volontà
collettiva si disgrega nei suoi elementi
contradittori, perché di
questi elementi quelli subordinati si sviluppano
socialmente ecc.
Dopo
la formazione del regime dei partiti, fase storica
legata alla
standardizzazione di grandi masse della popolazione
(comunicazioni,
giornali, grandi città ecc.) i processi molecolari
avvengono piú
rapidamente che nel passato, ecc.
*
Quistione
dell'«uomo collettivo» o del «conformismo
sociale». Compito
educativo e formativo dello Stato, che ha sempre il
fine di creare
nuovi e piú alti tipi di civiltà, di adeguare la
«civiltà» e la
moralità delle piú vaste masse popolari alle necessità
del continuo
sviluppo dell'apparato economico di produzione, quindi
di elaborare
anche fisicamente dei tipi nuovi d'umanità. Ma come
ogni singolo
individuo riuscirà a incorporarsi nell'uomo collettivo
e come avverrà
la pressione educativa sui singoli ottenendone il
consenso e la
collaborazione, facendo diventare «libertà» la
necessità e la
coercizione? Quistione del «diritto», il cui concetto
dovrà essere
esteso, comprendendovi anche quelle attività che oggi
cadono sotto la
formula di «indifferente giuridico» e che sono di
dominio della società
civile che opera senza «sanzioni» e senza
«obbligazioni» tassative, ma
non per tanto esercita una pressione collettiva e
ottiene risultati
obbiettivi di elaborazione nei costumi, nei modi di
pensare e di
operare, nella moralità ecc.
Concetto
politico della cosí detta «rivoluzione permanente»
sorto prima del
1848, come espressione scientificamente elaborata
delle esperienze
giacobine dal 1789 al Termidoro. La formula è propria
di un periodo
storico in cui non esistevano ancora i grandi partiti
politici di massa
e i grandi sindacati economici e la società era
ancora, per dir cosí,
allo stato di fluidità sotto molti aspetti: maggiore
arretratezza della
campagna e monopolio quasi completo dell'efficienza
politico-statale in
poche città o addirittura in una sola (Parigi per la
Francia), apparato
statale relativamente poco sviluppato e maggiore
autonomia della
società civile dall'attività statale, determinato
sistema delle forze
militari e dell'armamento nazionale, maggiore
autonomia delle economie
nazionali dai rapporti economici del mercato mondiale
ecc. Nel periodo
dopo il 1870, con l'espansione coloniale europea,
tutti questi elementi
mutano, i rapporti organizzativi interni e
internazionali dello Stato
diventano piú complessi e massicci e la formula
quarantottesca della
«rivoluzione permanente» viene elaborata e superata
nella scienza
politica nella formula di «egemonia civile». Avviene
nell'arte politica
ciò che avviene nell'arte militare: la guerra di
movimento diventa
sempre piú guerra di posizione e si può dire che uno
Stato vince una
guerra in quanto la prepara minutamente e tecnicamente
nel tempo di
pace. La struttura massiccia delle democrazie moderne,
sia come
organizzazioni statali che come complesso di
associazioni nella vita
civile costituiscono per l'arte politica come le
«trincee» e le
fortificazioni permanenti del fronte nella guerra di
posizione: essi
rendono solo «parziale» l'elemento del movimento che
prima era «tutta»
la guerra ecc.
La quistione si pone per
gli Stati moderni, non per i paesi arretrati e per le
colonie, dove
vigono ancora le forme che altrove sono superate e
divenute
anacronistiche. Anche la quistione del valore delle
ideologie (come si
può trarre dalla polemica Malagodi-Croce) – con le
osservazioni del
Croce sul «mito» soreliano, che si possono ritorcere
contro la
«passione» – deve essere studiata in un trattato di
scienza politica.
*
Fase
economica-corporativa dello Stato. Il Guicciardini
segna un passo
indietro nella scienza politica di fronte al
Machiavelli. Il maggiore
«pessimismo» del Guicciardini significa solo questo.
Il Guicciardini
ritorna a un pensiero politico puramente italiano,
mentre il
Machiavelli si era innalzato a un pensiero europeo.
Non si comprende il
Machiavelli se non si tiene conto che egli supera
l'esperienza italiana
nell'esperienza europea (internazionale in
quell'epoca): la sua
«volontà» sarebbe utopistica, senza l'esperienza
europea. La stessa
concezione della «natura umana» diventa per questo
fatto diversa nei
due. Nella «natura umana» del Machiavelli è compreso
l'«uomo europeo» e
questo uomo in Francia e in Ispagna ha effettualmente
superato la fase
feudale disgregata nella monarchia assoluta: dunque
non è la «natura
umana» che si oppone a che in Italia sorga una
monarchia assoluta
unitaria, ma condizioni transitorie che la volontà può
superare. Il
Machiavelli è «pessimista» (o meglio «realista») nel
considerare gli
uomini e i moventi del loro operare; il Guicciardini
non è pessimista,
ma scettico e gretto.
Paolo Treves
(cfr. Il realismo politico di Francesco
Guicciardini, in «Nuova
Rivista Storica», novembre-dicembre 1930) commette
molti errori nei
giudizi sul Guicciardini e Machiavelli. Non distingue
bene «politica»
da «diplomazia», ma proprio in questa non distinzione
è la causa dei
suoi errati apprezzamenti. Nella politica infatti
l'elemento volitivo
ha un'importanza molto piú grande che nella
diplomazia. La diplomazia
sanziona e tende a conservare le situazioni create
dall'urto delle
politiche statali; è creativa solo per metafora o per
convenzione
filosofica (tutta l'attività umana è creativa). I
rapporti
internazionali riguardano un equilibrio di forze in
cui ogni singolo
elemento statale può influire molto debolmente:
Firenze poteva influire
rafforzando se stessa, per esempio, ma questo
rafforzamento, se pure
avesse migliorato la sua posizione nell'equilibrio
italiano ed europeo
non poteva certo essere pensato come decisivo per
capovolgere l'insieme
dell'equilibrio stesso. Perciò il diplomatico, per lo
stesso abito
professionale, è portato allo scetticismo e alla
grettezza
conservatrice.
Nei rapporti interni di uno
Stato, la situazione è incomparabilmente piú
favorevole all'iniziativa
centrale, a una volontà di comando, cosí come la
intendeva il
Machiavelli. Il giudizio dato dal De Sanctis del
Guicciardini è molto
piú realistico di quanto il Treves creda. È da porre
la domanda perché
il De Sanctis fosse meglio preparato del Treves a dare
questo giudizio
storicamente e scientificamente piú esatto. Il De
Sanctis partecipò a
un momento creativo della storia politica italiana, a
un momento in cui
l'efficienza della volontà politica, rivolta a
suscitare forze nuove ed
originali e non solo a calcolare su quelle
tradizionali, concepite come
impossibili di sviluppo e di riorganizzazione
(scetticismo politico
guicciardinesco), aveva mostrato tutta la sua
potenzialità non solo
nell'arte di fondare uno stato dall'interno ma anche
di padroneggiare i
rapporti internazionali, svecchiando i metodi
professionali e
abitudinari della diplomazia (con Cavour). L'atmosfera
culturale era
propizia a una concezione piú comprensivamente
realistica della scienza
e dell'arte politica. Ma anche senza questa atmosfera
era impossibile
al De Sanctis di comprendere Machiavelli? L'atmosfera
data dal momento
storico arricchisce i saggi del De Sanctis di un
pathos sentimentale
che rende piú simpatico e appassionante l'argomento,
piú artisticamente
espressiva e cattivante l'esposizione scientifica, ma
il contenuto
logico della scienza politica potrebbe essere stato
pensato anche nei
periodi di peggiore reazione. Non è forse la reazione
anch'essa un atto
costruttivo di volontà? E non è atto volontario la
conservazione?
Perché dunque sarebbe «utopistica» la volontà del
Machiavelli perché
rivoluzionaria e non utopistica la volontà di chi vuol
conservare
l'esistente e impedire il sorgere e l'organizzarsi di
forze nuove che
turberebbero e capovolgerebbero l'equilibrio
tradizionale? La scienza
politica astrae l'elemento «volontà» e non tiene conto
del fine a cui
una volontà determinata è applicata. L'attributo di
«utopistico» non è
proprio della volontà politica in generale, ma delle
particolari
volontà che non sanno connettere il mezzo al fine e
pertanto non sono
neanche volontà, ma velleità, sogni, desideri, ecc.
Lo
scetticismo del Guicciardini (non pessimismo
dell'intelligenza, che può
essere unito a un ottimismo della volontà nei politici
realistici
attivi) ha diverse origini: 1) l'abito diplomatico,
cioè di una
professione subalterna, subordinata,
esecutivo-burocratica che deve
accettare una volontà estranea (quella politica del
proprio governo o
principe) alle convinzioni particolari del diplomatico
(che può, è
vero, sentire quella volontà come propria, in quanto
corrisponde alle
proprie convinzioni, ma può anche non sentirla:
l'essere la diplomazia
divenuta necessariamente una professione
specializzata, ha portato a
questa conseguenza, di poter staccare il diplomatico
dalla politica dei
governi mutevoli ecc.), quindi scetticismo e,
nell'elaborazione
scientifica, pregiudizi extrascientifici; 2) le
convinzioni stesse del
Guicciardini che era conservatore, nel quadro generale
della politica
italiana, e perciò teorizza le proprie opinioni, la
propria posizione
politica, ecc.
Gli scritti del
Guicciardini sono piú segno dei tempi, che scienza
politica, e questo è
il giudizio del De Sanctis; come segno dei tempi e non
saggio di storia
della scienza politica è lo scritto di Paolo Treves.
*
Egemonia (società
civile) e divisione dei poteri. La divisione dei
poteri e tutta la
discussione avvenuta per la sua realizzazione e la
dogmatica giuridica
nata dal suo avvento, sono il risultato della lotta
tra la società
civile e la società politica di un determinato periodo
storico, con un
certo equilibrio instabile delle classi, determinato
dal fatto che
certe categorie d'intellettuali (al diretto servizio
dello Stato,
specialmente burocrazia civile e militare) sono ancora
troppo legate
alle vecchie classi dominanti. Si verifica cioè
nell'interno della
società quello che il Croce chiama il «perpetuo
conflitto tra Chiesa e
Stato», in cui la Chiesa è presa a rappresentare la
società civile nel
suo insieme (mentre non ne è che un elemento
gradatamente meno
importante) e lo Stato ogni tentativo di
cristallizzare permanentemente
un determinato stadio di sviluppo, una determinata
situazione. In
questo senso la Chiesa stessa può diventare Stato e il
conflitto può
manifestarsi tra Società civile laica e laicizzante e
Stato-Chiesa
(quando la Chiesa è diventata una parte integrante
dello Stato, della
società politica monopolizzata da un determinato
gruppo privilegiato
che si aggrega la Chiesa per sostenere meglio il suo
monopolio col
sostegno di quella zona di società civile
rappresentata dalla Chiesa).
Importanza essenziale della divisione dei poteri per
il liberalismo
politico ed economico: tutta l'ideologia liberale, con
le sue forze e
le sue debolezze, può essere racchiusa nel principio
della divisione
dei poteri e appare quale sia la fonte della debolezza
del liberalismo:
è la burocrazia, cioè la cristallizzazione del
personale dirigente che
esercita il potere coercitivo e che a un certo punto
diventa casta.
Onde la rivendicazione popolare della eleggibilità di
tutte le cariche,
rivendicazione che è estremo liberalismo e nel tempo
stesso sua
dissoluzione (principio della Costituente in
permanenza ecc.; nelle
Repubbliche l'elezione a tempo del capo dello Stato dà
una
soddisfazione illusoria a questa rivendicazione
popolare elementare).
Unità
dello Stato nella distinzione dei poteri: il
Parlamento piú legato alla
società civile, il potere giudiziario tra Governo e
Parlamento,
rappresenta la continuità della legge scritta (anche
contro il
Governo). Naturalmente tutti e tre i poteri sono anche
organi
dell'egemonia politica, ma in diversa misura: 1)
Parlamento; 2)
Magistratura; 3) Governo. È da notare come nel
pubblico facciano
specialmente impressione disastrosa le scorrettezze
della
amministrazione della giustizia: l'apparato egemonico
è piú sensibile
in questo settore, al quale possono ricondursi anche
gli arbitri della
polizia e dell'amministrazione politica.
*
[Concezione
del diritto.] Una concezione del diritto che deve
essere essenzialmente
rinnovatrice. Essa non può essere trovata,
integralmente, in nessuna
dottrina preesistente (neanche nella dottrina della
cosí detta scuola
positiva, e particolarmente nella dottrina del Ferri).
Se ogni Stato
tende a creare e a mantenere un certo tipo di civiltà
e di cittadino (e
quindi di connivenza e di rapporti individuali), tende
a far sparire
certi costumi e attitudini e a diffonderne altri, il
diritto sarà lo
strumento per questo fine (accanto alla scuola ed
altre istituzioni ed
attività) e deve essere elaborato affinché sia
conforme al fine, sia
massimamente efficace e produttivo di risultati
positivi. La concezione
del diritto dovrà essere liberata da ogni residuo di
trascendenza e di
assoluto, praticamente di ogni fanatismo moralistico,
tuttavia mi pare
non possa partire dal punto di vista che lo Stato non
«punisce» (se
questo termine è ridotto al suo significato umano) ma
lotta solo contro
la «pericolosità» sociale. In realtà lo Stato deve
essere concepito
come «educatore» in quanto tende appunto a creare un
nuovo tipo o
livello di civiltà. Per il fatto che si opera
essenzialmente sulle
forze economiche, che si riorganizza e si sviluppa
l'apparato di
produzione economica, che si innova la struttura, non
deve trarsi la
conseguenza che i fatti di soprastruttura debbano
abbandonarsi a se
stessi, al loro sviluppo spontaneo, a una germinazione
casuale e
sporadica. Lo Stato, anche in questo campo, è uno
strumento di
«razionalizzazione», di accelerazione e di
taylorizzazione, opera
secondo un piano, preme, incita, sollecita, e
«punisce», poiché, create
le condizioni in cui un determinato modo di vita è
«possibile»,
l'«azione o l'omissione criminale» devono avere una
sanzione punitiva,
di portata morale, e non solo un giudizio di
pericolosità generica. Il
diritto è l'aspetto repressivo e negativo di tutta
l'attività positiva
di incivilimento svolta dallo Stato. Nella concezione
del diritto
dovrebbero essere incorporate anche le attività
«premiatrici» di
individui, di gruppi ecc.; si premia l'attività
lodevole e meritoria,
come si punisce l'attività criminale (e si punisce in
modi originali,
facendo intervenire l'«opinione pubblica», come
sanzionatrice).
*
[Politica
e diritto costituzionale.] Nella «Nuova
Antologia» del 16 dicembre
1929 è pubblicata una noticina di certo M.
Azzalini, La politica,
scienza ed arte di Stato, che può essere interessante
come
presentazione degli elementi tra cui si dibatte lo
schematismo
scientifico. L'Azzalini incomincia affermando che fu
gloria
«fulgidissima» del Machiavelli «l'aver circoscritto
nello Stato
l'ambito della politica». Cosa voglia dire l'Azzalini
non è facile da
capire: egli riporta dal cap. III
del Principe il periodo:
«Dicendomi el cardinale di Roano che li italiani non
si intendevano
della guerra, io li risposi ch'e' Franzesi non si
intendevano dello
Stato» e su questa sola citazione basa l'affermazione
che, dunque, per
Machiavelli «la politica dovesse intendersi come
scienza e come scienza
dello Stato» e che fu sua gloria ecc. (il termine
«scienza di Stato»
per politica sarebbe stato adoperato, nel corretto
significato moderno,
prima di Machiavelli solo da Marsilio da Padova).
L'Azzalini è
abbastanza leggero e superficiale. L'aneddoto del
cardinale di Roano,
avulso dal testo, non significa nulla. Nel contesto
assume un
significato che non si presta a deduzioni
scientifiche: si tratta
evidentemente di un motto di spirito, di una battuta
di ritorsione
immediata. Il cardinale di Roano aveva affermato che
gli italiani non
si intendono di guerra: per ritorsione il Machiavelli
risponde che i
francesi non si intendono dello Stato, perché
altrimenti non avrebbero
permesso al Papa di ampliare il suo potere in Italia,
ciò che era
contro gli interessi dello Stato francese. Il
Machiavelli era ben lungi
dal pensare che i francesi non s'intendevano di Stato,
perché anzi egli
ammirava il modo con cui la monarchia (Luigi XI) aveva
ridotto a unità
statale la Francia e dell'attività francese di Stato
faceva un termine
di paragone per l'Italia. In quel suo discorso col
cardinale di Roano
egli fece della «politica» in atto e non della
«scienza politica»
poiché, secondo lui, se era dannoso alla «politica
estera» francese che
il Papa si rafforzasse, ciò era ancor piú dannoso alla
politica interna
italiana.
Il curioso è che partendo da
tale incongrua citazione l'Azzalini continui che «pur
enunciandosi che
quella scienza studia lo Stato, si dà una definizione
(!?) del tutto
imprecisa (!) perché non si indica con che criterio
debba riguardarsi
l'oggetto dell'indagine. E la imprecisione è assoluta
dato che tutte le
scienze giuridiche in generale ed il diritto pubblico
in particolare,
si riferiscano indirettamente e direttamente a
quell'elemento». Cosa
vuol dire tutto ciò, riferito al Machiavelli? Meno di
niente:
confusione mentale.
Il Machiavelli ha
scritto dei libri di «azione politica immediata», non
ha scritto
un'utopia in cui uno Stato già costituito, con tutte
le sue funzioni e
i suoi elementi costituiti, fosse vagheggiato. Nella
sua trattazione,
nella sua critica del presente, ha espresso dei
concetti generali, che
pertanto si presentano in forma aforistica e non
sistematica, e ha
espresso una concezione del mondo originale, che si
potrebbe anch'essa
chiamare «filosofia della praxis» o «neo-umanesimo» in
quanto non
riconosce elementi trascendentali o immanentici (in
senso metafisico)
ma si basa tutta sull'azione concreta dell'uomo che
per le sue
necessità storiche opera e trasforma la realtà. Non è
vero, come pare
credere l'Azzalini, che nel Machiavelli non sia tenuto
conto del
«diritto costituzionale», perché in tutto il
Machiavelli si trovano
sparsi principii generali di diritto costituzionale ed
anzi egli
afferma, abbastanza chiaramente, la necessità che
nello Stato domini la
legge, dei principi fissi, secondo i quali i cittadini
virtuosi possano
operare sicuri di non cadere sotto i colpi
dell'arbitrario. Ma
giustamente il Machiavelli riconduce tutto alla
politica, cioè all'arte
di governare gli uomini, di procurarsene il consenso
permanente, di
fondare quindi i «grandi Stati». Bisogna ricordare che
il Machiavelli
sentiva che non era Stato il Comune o la Repubblica e
la signoria
comunale, perché mancava loro con il vasto territorio
una popolazione
tale da essere la base di una forza militare che
permettesse una
politica internazionale autonoma: egli sentiva che in
Italia, col
Papato, permaneva una situazione di non-Stato e che
essa sarebbe durata
finché anche la religione non fosse diventata
«politica» dello Stato e
non piú politica del Papa per impedire la formazione
di forti Stati in
Italia intervenendo nella vita interna dei popoli da
lui non dominati
temporalmente per interessi che non erano quelli degli
Stati e perciò
erano perturbatori e disgregatori.
Si
potrebbe trovare nel Machiavelli la conferma di ciò
che ho altrove
notato, che la borghesia italiana medioevale non seppe
uscire dalla
fase corporativa per entrare in quella politica perché
non seppe
completamente liberarsi dalla concezione
medioevale-cosmopolitica
rappresentata dal Papa, dal clero e anche dagli
intellettuali laici
(umanisti), cioè non seppe creare uno Stato autonomo,
ma rimase nella
cornice medioevale feudale e cosmopolita.
Scrive
l'Azzalini che «basta [...] la sola definizione di
Ulpiano e, meglio
ancora, gli esempi di lui, recati nel digesto, [...]
la identità
estrinseca (e allora?) dell'oggetto delle due scienze:
"Ius publicum ad
statum rei (publicae) romanae spectat. – Publicum ius,
in sacris, in
sacerdotibus, in magistratibus consistit". Si ha
quindi una identità
d'oggetto nel diritto pubblico e nella scienza
politica, ma non
sostanziale perché i criteri con cui l'una o l'altra
scienza riguardano
la medesima materia sono del tutto diversi. Diverse
infatti sono le
sfere dell'ordine giuridico e dell'ordine politico. E
per vero mentre
la prima osserva l'organismo pubblico sotto un punto
di vista statico,
come il prodotto naturale di una determinata
evoluzione storica, la
seconda osserva quel medesimo organismo da un punto di
vista dinamico,
come un prodotto che può essere valutato nei suoi
pregi e nei suoi
difetti e che, conseguentemente, deve essere
modificato a seconda delle
nuove esigenze e delle ulteriori evoluzioni». Perciò
si potrebbe dire
che «l'ordine giuridico è ontologico ed analitico,
perché studia ed
analizza i diversi istituti pubblici nel loro reale
essere» mentre
«l'ordine politico, deontologico e critico perché
studia i vari
istituti non come sono, ma come dovrebbero essere e
cioè con criteri di
valutazione e giudizi di opportunità che non sono né
possono essere
giuridici».
E un tal barbassore crede di essere un ammiratore di
Machiavelli e di esserne discepolo, magari, anzi,
perfezionatore!
«Da
ciò consegue che alla formale identità suddescritta si
oppone una
sostanziale diversità tanto profonda e notevole da non
consentire,
forse, il giudizio espresso da uno dei massimi
pubblicisti
contemporanei che riteneva difficile se non
impossibile creare una
scienza politica completamente distinta dal diritto
costituzionale. A
noi sembra che il giudizio espresso sia vero solo se
si arresta a
questo punto l'analisi dell'aspetto giuridico e
dell'aspetto politico,
ma non se si prosegue oltre individuando
quell'ulteriore campo che è di
esclusiva competenza della scienza politica.
Quest'ultima, infatti, non
si limita a studiare l'organizzazione dello Stato con
un criterio
deontologico e critico e però diverso da quello usato
per il medesimo
oggetto dal diritto pubblico, ma amplia la sua sfera
ad un campo che le
è proprio, indagando le leggi che regolano il sorgere,
il divenire, il
declinare degli Stati. Né vale raffermare che tale
studio è della
storia (!) intesa con significato generale (!), perché
pur ammettendo
che sia indagine storica la ricerca delle cause, degli
effetti, dei
mutui vincoli d'interdipendenza delle leggi naturali
che governano
l'essere e il divenire degli Stati, rimarrà sempre di
pertinenza
esclusivamente politica, non storica quindi, né
giuridica, la ricerca
di mezzi idonei per presiedere praticamente
all'indirizzo generale
politico. La funzione che il Machiavelli si
riprometteva di svolgere e
sintetizzava dicendo: "disputerò come questi
principati si possano
governare e tenere" (Principe, c. II) è tale per
importanza intrinseca
di argomento e per specificazione, non solo da
legittimare l'autonomia
della politica, ma da consentire, almeno sotto
l'aspetto ultimamente
delineato, una distinzione anche formale fra essa ed
il diritto
pubblico». Ed ecco cosa intende
per autonomia della politica!
Ma,
dice l'Azzalini, oltre una scienza, esiste un'arte
politica. «Esistono
uomini che traggono o trassero dall'intuizione
personale la visione dei
bisogni e degli interessi dei paesi governati, che
nell'opera di
governo attuarono nel mondo esterno la visione
dell'intuito personale.
Con ciò non vogliamo certamente dire che l'attività
intuitiva e però
artistica sia l'unica e la prevalente nell'uomo di
Stato; vogliamo solo
dire che in esso, accanto alle attività pratiche,
economiche e morali,
deve sussistere anche quell'attività teoretica
sopraindicata, sia sotto
l'aspetto soggettivo dell'intuizione che sotto
l'aspetto oggettivo (!)
dell'espressione e che, mancando tali requisiti, non
può sussistere
l'uomo di governo e tanto meno (!) l'uomo di Stato il
cui fastigio è
caratterizzato appunto da quella inacquistabile (?)
facoltà. Anche nel
campo politico, quindi, oltre lo scienziato in cui
prevale la attività
teoretica conoscitiva, sussiste l'artista in cui
prevale l'attività
teoretica intuitiva. Né con ciò si esaurisce
interamente la sfera
d'azione dell'arte politica che oltre all'essere
osservata in relazione
allo statista che colle funzioni pratiche del governo
estrinseca la
rappresentazione interna dell'intuito, può essere
valutata in relazione
allo scrittore che realizza nel mondo esterno (!) la
verità politica
intuita non con atti di potere ma con opere e scritti
che traducono
l'intuito dell'autore. È il caso dell'indiano
Kamandaki (III secolo d.
C.), del Petrarca nelTrattatello pei Carraresi, del
Botero
nella Ragion di Stato e, sotto certi
aspetti, del Machiavelli
e del Mazzini».
È veramente un bel
pasticcio, degno del... Machiavelli, ma specialmente
di Tittoni,
direttore della «Nuova Antologia». L'Azzalini non sa
orientarsi né
nella filosofia, né nella scienza della politica. Ma
ho voluto prendere
tutte queste note per cercare di sbrogliarne l'intrigo
e vedere di
giungere a concetti chiari per conto mio.
È
da distrigare, per es., ciò che può significare
«intuizione» nella
politica e l'espressione «arte» politica, ecc. –
Ricordare insieme
alcuni punti del Bergson: «L'intelligenza non ci offre
della vita (la
realtà in movimento) che una traduzione in termini di
inerzia. Essa
gira tutt'attorno, prendendo dal di fuori il piú gran
numero possibile
di vedute dell'oggetto che essa attira presso di sé
invece di entrare
in esso. Ma nell'interno stesso della vita ci condurrà
l'intuizione:
intendo dire l'istinto divenuto disinteressato». «Il
nostro occhio
percepisce i tratti dell'essere vivente, ma avvicinati
l'uno all'altro,
non organizzati tra loro. L'intenzione della vita, il
movimento
semplice che corre attraverso le linee, che le lega
una con l'altra e
dà loro un significato, gli sfugge; ed è questa
intenzione che
l'artista tende ad affermare collocandosi nell'interno
dell'oggetto con
una specie di simpatia, abbassando con uno sforzo di
intuizione la
barriera che lo spazio pone fra lui e il modello. È
vero però che
l'intuizione estetica non afferra che l'individuale».
«L'intelligenza è
caratterizzata da una incomprensibilità naturale della
vita poi che
essa non rappresenta chiaramente che il discontinuo e
l'immobilità».
Distacco, intanto, dell'intuizione politica
dall'intuizione estetica, o
lirica, o artistica: solo per metafora si parla di
arte politica.
L'intuizione politica non si esprime nell'artista, ma
nel «capo» e si
deve intendere per «intuizione» non la «conoscenza
degli individuali»
ma la rapidità di connettere fatti apparentemente
estranei tra loro e
di concepire i mezzi adeguati al fine per trovare gli
interessi in
gioco e suscitare le passioni degli uomini e
indirizzare questi a una
determinata azione. L'«espressione» del «capo» è
l'«azione» (in senso
positivo o negativo: scatenare un'azione o impedire
che avvenga una
determinata azione, congruente o incongruente col fine
che si vuol
raggiungere). D'altronde il «capo in politica» può
essere un individuo,
ma anche un corpo politico piú o meno numeroso, nel
qual ultimo caso la
unità d'intenti sarà raggiunta da un individuo o da un
piccolo gruppo
interno e nel piccolo gruppo da un individuo che può
mutare volta a
volta pur rimanendo il gruppo unitario e coerente
nella sua opera
continuativa.
Se si dovesse tradurre in
linguaggio politico moderno la nozione di «Principe»,
cosí come essa
serve nel libro del Machiavelli, si dovrebbe fare una
serie di
distinzioni: «principe» potrebbe essere un capo di
Stato, un capo di
governo, ma anche un capo politico che vuole
conquistare uno Stato o
fondare un nuovo tipo di Stato; in questo senso
«principe» potrebbe
tradursi in lingua moderna «partito politico». Nella
realtà di qualche
Stato il «capo dello Stato», cioè l'elemento
equilibratore dei diversi
interessi in lotta contro l'interesse prevalente, ma
non esclusivista
in senso assoluto, è appunto il «partito politico»;
esso però a
differenza che nel diritto costituzionale tradizionale
né regna, né
governa giuridicamente: ha «il potere di fatto»,
esercita la funzione
egemonica e quindi equilibratrice di interessi
diversi, nella «società
civile», che però è talmente intrecciata di fatto con
la società
politica che tutti i cittadini sentono che esso invece
regna e governa.
Su questa realtà che è in continuo movimento, non si
può creare un
diritto costituzionale, del tipo tradizionale, ma solo
un sistema di
principii che affermano come fine dello Stato la sua
propria fine, il
suo proprio sparire, cioè il riassorbimento della
società politica
nella società civile.
Roberto Michels e i partiti politici
*
R.
Michels, Les Partis politiques et la contrainte
sociale, «Mercure
de France», 1° maggio 1928, pp. 513-535. «Le parti
politique ne saurait
être étymologiquement et logiquement qu'une partie de
l'ensemble des
citoyens, organisée sur le terrain de la politique. Le
parti n'est donc
qu'une fraction, pars pro toto» (?).
Secondo
Max Weber (Wirtschaft und Gesellschaft. Grundriss der
Sozialökonomik,
III, 2a ediz., Tubinga 1925, pp. 167, 639) ha la
sua origine da
due specie di cause: sarebbe specialmente una
associazione spontanea di
propaganda e d'agitazione, che tende al potere per
procurare cosí ai
suoi aderenti attivi (militanti) possibilità morali e
materiali per
realizzare fini oggettivi o vantaggi personali o
ancora le due cose
insieme. L'orientazione generale dei partiti politici
consisterebbe
pertanto nel Machtstreben, personale o
impersonale. Nel primo caso
i partiti personali sarebbero basati sulla protezione
accordata a degli
inferiori da un uomo potente. Nella storia (?)
dei partiti
politici i casi di tal genere sono frequenti. Nella
vecchia dieta
prussiana del 1855, che comprendeva molti gruppi
politici, tutti
avevano il nome dei loro capi: il solo gruppo che si
diede il vero nome
fu un gruppo nazionale, quello polacco (cfr. Friedrich
Naumann, Die politischen Parteien, Berlino, 1910,
«Die Hilfe», p.
8).
La storia del movimento operaio
dimostra che i socialisti non hanno sprezzato
questa tradizione borghese. Spesso i partiti
socialisti hanno
preso il nome dai loro capi («comme pour faire aveu
public de leur
assujettissement complet à ces chefs») (!). In
Germania, tra il 1863 e
il 1875, le frazioni socialiste rivali erano i
Marxisti e i
Lassalliani. In Francia, in un'epoca piú recente, le
grandi correnti
socialiste erano divise in Broussistes, Allemanistes,
Blanquistes,
Guesdistes e Jaurèssistes. È vero che gli uomini che
davano cosí il
nome ai diversi movimenti personificavano il piú
completamente
possibile le idee e
le tendenze che ispiravano il
partito e li guidarono durante tutta la sua evoluzione
(Maurice
Charnay, Les Allemanistes, Parigi, Rivière, 1912,
p. 25).
Forse
c'è analogia tra i partiti politici e le sette
religiose e gli ordini
monastici; Yves Guyot ha notato che l'individuo
appartenente al partito
moderno opera come i frati del Medio Evo, che presero
il nome da S.
Domenico, S. Benedetto, Agostino, Francesco (Yves
Guyot, La
Comédie socialiste, Parigi, 1897, Charpentier, p.
111). Ecco dei
partiti-tipo, che potrebbero essere chiamati «partis
de patronage».
Quando il capo esercita un influsso sui suoi aderenti
per qualità cosí
eminenti che sembrano soprannaturali a questi ultimi,
esso può essere
chiamato capo charismatico (χάρισμα, dono di
dio, ricompensa;
cfr. M. Weber, op. cit., p. 140). (Questa nota è
segnata 4 bis,
cioè è stata inserita nelle bozze; non certo per la
traduzione di
«χάρισμα», ma forse per la citazione del Weber.
Il Michels ha
fatto molto baccano in Italia per la «sua» trovata del
«capo
charismatico» che probabilmente (occorrerebbe
confrontare) era già nel
Weber; bisognerebbe vedere anche il libro del Michels
sulla Sociologia
politica del '27: non accenna neanche che una
concezione del capo per
grazia di dio è già esistita e come!)
Tuttavia
questa specie di partito [si] presenta talvolta in
forme piú generali.
Lo stesso Lassalle, il capo dei Lassalliani,
officialmente non era
che presidente a vita dell'Allgemeiner
Deutscher
Arbeiterverein. Egli si compiaceva di
vantarsi dinanzi ai
suoi fautori dell'idolatria che godeva da parte delle
masse deliranti e
delle vergini vestite di bianco che gli cantavano dei
cori e gli
offrivano dei fiori. Questa fede charismatica non era
solo frutto di
una psicologia esuberante e un po' megalomane, ma
corrispondeva anche a
una concezione teorica. Noi dobbiamo – disse agli
operai renani
esponendo loro le sue idee sull'organizzazione del
partito – di tutte
le nostre volontà disperse foggiare un martello e
metterlo nelle mani
d'un uomo la cui intelligenza, il carattere e
l'attaccamento ci siano
una garanzia che colpisca energicamente (cfr.
Michels, Les partis
politiques, 1914, p. 130; non rimanda all'edizione
italiana ampliata e
del '24). Era il martello del dittatore. Piú tardi le
masse
domandarono almeno un simulacro di
democrazia e di potere
collettivo, si formarono gruppi sempre piú numerosi di
capi che non
ammettevano la dittatura di un solo. Jaurès e Bebel
sono due tipi di
capi charismatici. Bebel, orfano di un sottufficiale
di Pomerania,
parlava altezzosamente (?) ed era imperativo
(Hervé lo chiamò
il Kaiser Bebel: cfr. Michels, Bedeutende Männer,
Lipsia, 1927, p.
29). Jaurès, oratore straordinario, senza uguali,
infiammato, romantico
e insieme realista, che cercava di sormontare le
difficoltà, «seriando»
i problemi, per abbatterli a misura che si
presentavano. (cfr.
Rappoport, Jean Jaurès. L'homme. Le Penseur. Le
Socialiste,
2a ed., Parigi, 1916, p. 366). I due grandi capi,
amici e nemici,
avevano in comune una fede indomita tanto
nell'efficacia della loro
azione, che nei destini delle legioni delle quali
erano i
portabandiera. Furono ambedue deificati: Bebel ancor
vivo, Jaurès da
morto.
Mussolini è un altro esempio di
capo partito che ha del veggente e del credente. Egli,
inoltre, non è
solo capo unico di un grande partito, ma è anche il
capo unico di un grande Stato. Con lui anche
la nozione
dell'assioma: «il partito sono io», ha avuto, nel
senso della
responsabilità e del lavoro assiduo, il massimo
sviluppo. (Storicamente
inesatto. Intanto [è] proibita la formazione di gruppi
e ogni
discussione di assemblea, perché esse si erano
verificate disastrose.
Mussolini si serve dello Stato per dominare il partito
e del partito,
solo in parte, nei momenti difficili, per dominare lo
Stato. Inoltre il
cosidetto «charisma», nel senso del Michels, nel mondo
moderno coincide
sempre con una fase primitiva dei partiti di massa,
con la fase in cui
la dottrina si presenta alle masse come qualcosa di
nebuloso e
incoerente, che ha bisogno di un papa infallibile per
essere
interpretata e adattata alle circostanze; tanto piú
avviene questo
fenomeno, quanto piú il partito nasce e si forma non
sulla base di una
concezione del mondo unitaria e ricca di sviluppi
perché espressione di
una classe storicamente essenziale e progressiva, ma
sulla base di
ideologie incoerenti e arruffate, che si nutrono di
sentimenti ed
emozioni che non hanno raggiunto ancora il punto
terminale di
dissolvimento, perché le classi (o la classe) di cui è
espressione,
quantunque in dissoluzione, storicamente, hanno ancora
una certa base e
si attaccano alle glorie del passato per farsene scudo
contro
l'avvenire).
L'esempio che Michels dà come
prova della risonanza nelle masse di questa concezione
è infantile, per
chi conosce la facilità delle folle italiane
all'esagerazione
sentimentale e all'entusiasmo «emotivo»: una voce su
diecimila presenti
dinanzi a palazzo Chigi avrebbe gridato: «No, sei tu
l'Italia», in
un'occasione di commozione obbiettivamente reale della
folla fascista.
Mussolini avrebbe poi manifestato l'essenza
charismatica del suo
carattere nel telegramma inviato a Bologna in cui
diceva di essere
sicuro, assolutamente sicuro (e certamente lo
era, pour cause) che
niente di grave poteva capitargli prima d'aver portato
a termine la sua
missione.
«Nous n'avons pas ici à indiquer
les dangers que la conception charismatique peut
entraîner» (?). La
direzione charismatica porta in sé un dinamismo
politico vigorosissimo.
Saint-Simon, nel suo letto di morte, disse ai suoi
discepoli di
ricordarsi che per fare grandi cose, bisogna essere
appassionati.
Essere appassionati significa avere il dono di
appassionare gli altri.
È uno stimolante formidabile. Questo è il vantaggio
dei partiti
charismatici su gli altri basati su un programma ben
definito e
sull'interesse di classe. È vero, però, che la durata
dei partiti
charismatici è spesso regolata dalla durata del loro
slancio e dal loro
entusiasmo, che talvolta danno una base molto fragile.
Perciò vediamo i
partiti charismatici portati ad appoggiare i loro
valori psicologici
(!) sulle organizzazioni piú durature degli interessi
umani.
Il
capo carismatico può appartenere a qualsiasi partito,
sia autoritario
sia antiautoritario (dato che esistano partiti
antiautoritari, come
partiti; avviene anzi che i «movimenti»
antiautoritari, anarchici,
sindacalisti-anarchici, diventano «partito» perché
l'aggruppamento
avviene intorno a personalità «irresponsabili»
organizzativamente, in
un certo senso «carismatiche»).
La
classificazione dei partiti del Michels è molto
superficiale e
sommaria, per caratteri esterni e generici: 1) partiti
«carismatici»,
cioè raggruppamenti intorno a certe personalità, con
programmi
rudimentali; la base di questi partiti è la fede e
l'autorità d'un
solo. (Di tali partiti non se n'è mai visti; certe
espressioni
d'interessi sono in certi momenti rappresentate da
certe personalità
piú o meno eccezionali: in certi momenti di «anarchia
permanente»
dovuta all'equilibrio statico delle forze in lotta, un
uomo rappresenta
l'«ordine» cioè la rottura con mezzi eccezionali
dell'equilibrio
mortale e intorno a lui si raggruppano gli «spauriti»,
le «pecore
idrofobe» della piccola borghesia: ma c'è sempre un
programma, sia pure
generico, anzi generico appunto perché tende solo a
rifare l'esteriore
copertura politica a un contenuto sociale che non
attraversa una vera
crisi costituzionale, ma solo una crisi dovuta al
troppo numero di
malcontenti, difficili da domare per la loro mera
quantità e per la
simultanea ma meccanicamente simultanea manifestazione
del malcontento
su tutta l'area della nazione); 2) partiti che hanno
per base interessi
di classe, economici e sociali, partiti di operai,
contadini o di
«petites gens» (poiché) i borghesi non possono da soli
formare un
partito; 3) partiti politici generati (!) da idee
politiche o morali,
generali e astratte: quando questa concezione si basa
su un dogma piú
sviluppato ed elaborato fino nei dettagli si potrebbe
parlare di
partiti dottrinari, le cui dottrine sarebbero
privilegio dei capi:
partiti libero scambisti o protezionisti o che
proclamano dei diritti
di libertà o di giustizia come: «a ciascuno il
prodotto del suo lavoro!
a ciascuno secondo le sue forze! a ciascuno secondo i
suoi bisogni!»
Il
Michels trova, meno male, che questa distinzione non
può essere netta
né completa, perché i partiti «concreti» rappresentano
per lo piú
sfumature intermedie o combinazioni di tutte e tre. A
questi tre tipi
ne aggiunge altri due: i partiti confessionali e i
partiti nazionali
(bisognerebbe ancora aggiungere i partiti repubblicani
in regime
monarchico e i partiti monarchici in regime
repubblicano). Secondo il
Michels i partiti confessionali piú che
una Weltanschauung professano
unaUeberweltanschauung (che poi è lo stesso). I
partiti nazionali
professano il principio generale del diritto di ogni
popolo e di ogni
frazione di popolo alla completa sovranità senza
condizioni (teorie di
P. S. Mancini). Ma dopo il '48 questi partiti sono
spariti, e sono
sorti i partiti nazionalisti, senza principi generali
perché negano
agli altri ecc. (sebbene i partiti nazionalisti non
sempre neghino
«teoricamente» agli altri popoli ciò che affermano per
il proprio:
pongono la risoluzione del conflitto nelle armi,
quando non partano da
concezioni vaghe di missioni nazionali, come poi il
Michels dice).
L'articolo
[è] pieno di parole vuote e imprecise. «Il bisogno
dell'organizzazione
[...] e le tendenze ineluttabili (!) della psicologia
umana,
individuale e collettiva, cancellano alla lunga la
maggior parte delle
distinzioni originarie». (Cosa vuol dire tutto ciò: il
tipo
«sociologico» non corrisponde al fatto concreto). «Il
partito politico
come tale ha la sua propria anima (!), indipendente
dai programmi e dai
regolamenti che si è dato e dai principi eterni di cui
è imbevuto».
Tendenza all'oligarchia. «Dandosi dei capi, gli stessi
operai si
creano, con le proprie mani, nuovi padroni, la cui
principale arma di
dominio consiste nella loro superiorità tecnica e
intellettuale, e
nell'impossibilità d'un controllo efficace da parte
dei loro mandanti».
Gli intellettuali hanno una funzione (in questa
manifestazione). I
partiti socialisti, grazie ai numerosi posti
retribuiti e onorifici di
cui dispongono, offrono agli operai (a un certo numero
di operai,
naturalmente!) una possibilità di far carriera, ciò
che esercita su di
essi una forza di attrazione considerevole (questa
forza si esercita,
però, piú sugli intellettuali).
Complessità
progressiva del mestiere politico per cui i capi dei
partiti diventano
sempre piú dei professionisti, che devono avere
nozioni sempre piú
estese, un tatto, una pratica burocratica, e spesso
una furberia sempre
piú vasta. Cosí i dirigenti si allontanano sempre piú
dalla massa e si
vede la flagrante contraddizione che nei partiti
avanzati esiste tra le
dichiarazioni e le intenzioni democratiche e la realtà
oligarchica
(bisogna però osservare che altra è la democrazia di
partito e altra la
democrazia nello Stato: per conquistare la democrazia
nello Stato può
essere necessario – anzi è quasi sempre necessario –
un partito
fortemente accentrato; e poi ancora: le quistioni di
democrazia e di
oligarchia hanno un significato preciso che è loro
dato dalla
differenza di classe tra capi e gregari: la quistione
diventa politica,
acquista un valore reale cioè e non piú solo di
schematismo
sociologico, quando nell'organizzazione c'è scissione
di classe: ciò è
avvenuto nei sindacati e nei partiti
socialdemocratici: se non c'è
differenza di classe la quistione diventa puramente
tecnica –
l'orchestra non crede che il direttore sia un padrone
oligarchico – di
divisione del lavoro e di educazione, cioè
l'accentramento deve tener
conto che nei partiti popolari l'educazione e
l'«apprendissaggio»
politico si verifica in grandissima parte attraverso
la partecipazione
attiva dei gregari alla vita intellettuale –
discussioni – e
organizzativa dei partiti. La soluzione del problema,
che si complica
appunto per il fatto che nei partiti avanzati hanno
una grande funzione
gli intellettuali, può trovarsi nella formazione tra i
capi e le masse
di uno strato medio quanto piú numeroso è possibile
che serva di
equilibrio per impedire ai capi di deviare nei momenti
di crisi
radicale e per elevare sempre piú la massa).
Le
idee di Michels sui partiti politici sono abbastanza
confuse e
schematiche, ma sono interessanti come raccolta di
materiale grezzo e
di osservazioni empiriche e disparate. Anche gli
errori di fatto non
sono pochi (il partito bolscevico sarebbe nato dalle
idee minoritarie
di Blanqui e dalle concezioni, piú severe e piú
diversificate, del
movimento sindacalista francese, inspirate da G.
Sorel). La
bibliografia degli scritti del Michels si può sempre
ricostruire dai
suoi stessi scritti, perché egli si cita
abbondantemente.
La
ricerca può incominciare dai libri che ho già.
Un'osservazione
interessante per il modo di lavorare e di pensare del
Michels: le sue
scritture sono zeppe di citazioni bibliografiche, in
buona parte oziose
e ingombranti. Egli appoggia anche i piú banali
truismi con l'autorità
degli scrittori piú disparati. Si ha spesso
l'impressione che non è il
corso del pensiero che determina le citazioni, ma il
mucchio di
citazioni già pronte che determina il corso del
pensiero, dandogli un
che di saltellante e improvvisato. Il Michels deve
aver costruito un
immenso schedario, ma da dilettante, da autodidatta.
Può avere una
certa importanza sapere chi ha fatto per la prima
volta una certa
osservazione, tanto piú se questa osservazione ha dato
uno stimolo a
una ricerca o ha fatto progredire in qualsiasi modo
una scienza. Ma
annotare che il tale o il tal altro ha detto che due e
due fanno
quattro è per lo meno inetto.
Altre volte
le citazioni sono molto addomesticate: il giudizio
settario, o, nel
caso migliore, epigrammatico, di un polemista, viene
assunto come fatto
storico o come documento di fatto storico. Quando a p.
514 di questo
articolo sul «Mercure de France», egli dice che in
Francia la corrente
socialista era divisa in Broussisti, Allemanisti,
Blanquisti, Guesdisti
e Jauressisti per trarne l'osservazione che nei
partiti moderni avviene
come negli ordini monastici medioevali (benedettini,
francescani,
ecc.), con la citazione della Comédie
socialiste di Yves
Guyot, da cui deve aver preso lo spunto, egli non dice
che quelle non
erano le denominazioni ufficiali dei partiti, ma
denominazioni di
«comodo» nate dalle polemiche interne, anzi quasi
sempre contenevano
implicitamente una critica e un rimprovero di
deviazione
personalistica, critica e rimprovero scambievoli che
si irrigidivano
poi nell'effettivo uso della denominazione
personalistica (per la
stessa ragione «corporativa» e «settaria» per cui i
«Gueux» si
chiamarono anch'essi cosí). Per questa ragione tutte
le considerazioni
epigrammatiche del Michels cadono nel superficialismo
da salotto
reazionario.
La pura descrittività e
classificazione esterna della vecchia sociologia
positivistica sono un
altro carattere essenziale di queste scritture del
Michels: egli non ha
nessuna metodologia intrinseca ai fatti, nessun punto
di vista critico
che non sia un amabile scetticismo da salotto o da
caffè reazionario
che ha sostituito la sbarazzineria altrettanto
superficiale del
sindacalismo rivoluzionario e del sorellismo.
Rapporti
tra Michels e Sorel: lettera di Sorel a Croce in cui
accenna alla
superficialità di Michels e tentativo meschino del
Michels per
togliersi di dosso il giudizio del Sorel. Nella
lettera al Croce del 30
maggio 1916 («Critica», 20 settembre 1929, p. 357) il
Sorel scrive: «Je
viens de recevoir une brochure de R. Michels, tirée
de Scientia,
mai 1916: "La débacle de L'Internationale ouvrière et
l'avenir". Je
vous prie d'y jeter les yeux; elle me semble prouver
que l'auteur n'a
jamais rien compris à ce qui est important dans le
marxisme. Il nous
présente Garibaldi, L. Blanc, Benoit Malon (!!) comme
les vrais maîtres
de la pensée socialiste...». (L'impressione del Sorel
deve essere
esatta – io non ho letto questo scritto del Michels –
perché essa
colpisce in modo piú evidente nel libro del Michels
sul movimento
socialista italiano, Edizioni della «Voce»).
Nei
«Nuovi studi di Diritto, Economia e Politica» del
settembre-ottobre
1929, il Michels pubblica cinque letterine inviategli
dal Sorel
(1a nel 1905, 2a nel 1912, 3anel 1917,
4a nel '17,
5a nel '17) di carattere tutt'altro che
confidenziale, ma
piuttosto di corretta e fredda convenienza, e in una
nota (v. p. 291)
scrive a proposito del su citato giudizio: «Il Sorel
evidentemente non
aveva compreso (!) il senso piú diretto dell'articolo
incriminato, in
cui io avevo accusato (!) il marxismo di lasciarsi
sfuggire (!) il lato
etico del socialismo mazziniano ed altro, e di aver,
esagerando il lato
meramente economico, portato il socialismo alla
rovina. D'altronde,
come risulta dalle lettere già pubblicate (quali
lettere? quelle
pubblicate dal Michels, queste cinque in parola? esse
non dicono
nulla), lo scatto (in corsivo dal Michels,
ma si tratta di
ben altro che scatto; per il Sorel si tratta, pare, di
conferma di un
giudizio già fatto da un pezzo) del Sorel nulla tolse
ai buoni rapporti
(!) coll'autore di queste righe». In queste note nei
«Nuovi Studi», il
Michels mi pare tende ad alcuni fini discretamente
interessanti e
ambigui: a gettare un certo discredito sul Sorel come
uomo e come
«amico» dell'Italia e a far apparire se stesso come
patriotta italiano
di vecchia data. Ritorna questo motivo molto equivoco
nel Michels
(credo di aver notato altrove la sua situazione allo
scoppio della
guerra). È interessante la letterina di Sorel a
Michels del 10 luglio
1912: «Je lis le numéro de la Vallée
d'Aoste che vous avez
bien voulu m'envoyer. J'y ai remarqué que vous
affirmez un droit au
séparatisme qui est bien de nature à rendre suspect
aux Italiens le
maintien de la langue française dans la Vallée
d'Aoste». Michels nota
che si tratta di un numero unico: «La Vallée d'Aoste
pour sa langue
française», pubblicato nel maggio 1912 ad Aosta dalla
tipografia
Margherittaz, sotto gli auspici di un Comitato locale
valdostano per la
protezione della lingua francese (collaboratori,
Michels, Croce,
Prezzolini, Graf, ecc.). «Inutile dire che nessuno di
questi autori
aveva fatta sua, come con soverchia licenza poetica si
esprime il
Sorel, una qualsiasi tesi separatista». Il Sorel
accenna solo al
Michels ed io sono portato a credere che egli abbia
veramente per lo
meno accennato al diritto al separatismo (bisognerebbe
controllare nel
caso di una presentazione del Michels che sarà
necessaria un giorno).
Note sulla vita nazionale francese
*
Note
sulla vita nazionale francese. Il partito monarchico
in regime
repubblicano, come il partito repubblicano in regime
monarchico, o il
partito nazionale in regime di soggezione del paese a
uno Stato
straniero, non possono non essere partiti sui
generis: devono
essere, cioè, se vogliono ottenere successi
relativamente rapidi, le
centrali di federazioni di partiti, piú che partiti
caratterizzati in
tutti i punti particolari dei loro programmi di
governo; partiti di un
sistema generale di governo e non di governi
particolari (in questa
stessa serie spetta un posto a parte ai partiti
confessionali, come il
Centro tedesco o i diversi partiti cristiano-sociali o
popolari). Il
partito monarchico si fonda in Francia sui residui
ancora tenaci della
vecchia nobiltà terriera e su una parte della piccola
borghesia e degli
intellettuali. Su che sperano i monarchici per
diventare capaci di
assumere il potere e restaurare la monarchia? Sperano
sul collasso del
regime parlamentare-borghese e sulla incapacità di
qualsiasi altra
forza organizzata esistente ad essere il nucleo
politico di una
dittatura militare prevedibile o da loro stessi
preordinata; in nessun
altro modo le loro forze sociali sarebbero in grado di
conquistare il
potere. In attesa, il centro
dirigente dell'Action
Française svolge sistematicamente una serie di
attività: un'azione
organizzativa politico-militare (militare nel senso di
partito e nel
senso di avere cellule attive fra gli ufficiali
dell'esercito) per
raggruppare nel modo piú efficiente l'angusta base
sociale su cui
storicamente il movimento s'appoggia. Essendo questa
base costituita di
elementi in generale piú scelti per intelligenza,
cultura, ricchezza,
pratica di amministrazione ecc. che qualsiasi altro
movimento, è
possibile avere un partito notevole, imponente
persino, ma che però si
esaurisce in se stesso, che non ha, cioè, riserve da
gettare nella
lotta in una crisi risolutiva. Il partito è notevole,
pertanto, solo
nei tempi normali, quando gli elementi attivi nella
lotta politica si
contano a decine di migliaia, ma diventerà
insignificante
(numericamente) nei periodi di crisi, quando gli
attivi si conteranno a
centinaia di migliaia e forse a milioni.
Lo
sviluppo del giacobinismo (di contenuto) e della
formula della
rivoluzione permanente attuata nella fase attiva della
Rivoluzione
francese ha trovato il suo «perfezionamento»
giuridico-costituzionale
nel regime parlamentare, che realizza, nel periodo piú
ricco di energie
«private» nella società, l'egemonia permanente della
classe urbana su
tutta la popolazione, nella forma hegeliana del
governo col consenso
permanentemente organizzato (ma l'organizzazione del
consenso è
lasciata all'iniziativa privata, è quindi di carattere
morale o etico,
perché consenso «volontariamente» dato in un modo o
nell'altro). Il
«limite» trovato dai giacobini nella legge Chapelier e
in quella del
maximum, viene superato e respinto piú lontano
progressivamente
attraverso un processo completo, in cui si alternano
l'attività
propagandistica e quella pratica (economica,
politico-giuridica): la
base economica, per lo sviluppo industriale e
commerciale, viene
continuamente allargata e approfondita, dalle classi
inferiori si
innalzano fino alle classi dirigenti gli elementi
sociali piú ricchi di
energia e di spirito d'intrapresa, la società intera è
in continuo
processo di formazione e di dissoluzione seguita da
formazioni piú
complesse e ricche di possibilità; ciò dura, in linea
generale, fino
all'epoca dell'imperialismo e culmina nella guerra
mondiale. In questo
processo si alternano tentativi di insurrezione e
repressioni spietate,
allargamento e restrizioni del suffragio politico,
libertà di
associazione e restrizioni o annullamenti di questa
libertà, libertà
nel campo sindacale ma non in quello politico, forme
diverse di
suffragio, scrutinio di lista o circoscrizioni
uninominali, sistema
proporzionale o individuale, con le varie combinazioni
che ne risultano
– sistema delle due camere o di una sola camera
elettiva, con vari modi
di elezione per ognuna (camera vitalizia ed
ereditaria, Senato a
termine, ma con elezione dei Senatori diversa da
quella dei deputati
ecc.) –, vario equilibrio dei poteri, per cui la
magistratura può
essere un potere indipendente o solo un ordine,
controllato e diretto
dalle circolari ministeriali, diverse attribuzioni del
capo del governo
e dello Stato, diverso equilibrio interno degli
organismi territoriali
(centralismo o decentramento, maggiori o minori poteri
dei prefetti,
dei Consigli provinciali, dei Comuni, ecc.), diverso
equilibrio tra le
forze armate di leva e quelle professionali (polizia,
gendarmeria), con
la dipendenza di questi corpi professionali dall'uno o
dall'altro
organo statale (dalla magistratura, dal ministero
dell'interno o dallo
Stato maggiore); la maggiore o minore parte lasciata
alla consuetudine
o alla legge scritta, per cui si sviluppano forme
consuetudinarie che
possono ad un certo punto essere abolite in virtú
delle leggi scritte
(in alcuni paesi «pareva» si fossero costituiti regimi
democratici, ma
essi si erano costituiti solo formalmente, senza
lotta, senza sanzione
costituzionale e fu facile disgregarli senza lotta, o
quasi, perché
privi di sussidi giuridico-morali e militari,
ripristinando la legge
scritta o dando della legge scritta interpretazioni
reazionarie); il
distacco piú o meno grande tra le leggi fondamentali e
i regolamenti
d'esecuzione che annullano le prime o ne danno
un'interpretazione
restrittiva; l'impiego piú o meno esteso dei
decreti-legge che tendono
a sostituire la legislazione ordinaria e la modificano
in certe
occasioni, «forzando la pazienza» del parlamento fino
a giungere a un
vero e proprio «ricatto della guerra civile». A questo
processo
contribuiscono i teorici-filosofi, i pubblicisti, i
partiti politici
ecc. per lo sviluppo della parte formale e i movimenti
o le pressioni
di massa per la parte sostanziale, con azioni e
reazioni reciproche,
con iniziative «preventive» prima che un fenomeno si
manifesti
pericolosamente e con repressioni quando le
prevenzioni sono mancate o
sono state tardive e inefficaci.
L'esercizio
«normale» dell'egemonia nel terreno divenuto classico
del regime
parlamentare, è caratterizzato dalla combinazione
della forza e del
consenso che si equilibrano variamente, senza che la
forza soverchi di
troppo il consenso, anzi cercando di ottenere che la
forza appaia
appoggiata sul consenso della maggioranza, espresso
dai cosí detti
organi dell'opinione pubblica – giornali e
associazioni – i quali,
perciò, in certe situazioni, vengono moltiplicati
artificiosamente. Tra
il consenso e la forza sta la corruzione-frode (che è
caratteristica di
certe situazioni di difficile esercizio della funzione
egemonica,
presentando l'impiego della forza troppi pericoli)
cioè lo snervamento
e la paralisi procurati all'antagonista o agli
antagonisti con
l'accaparrarne i dirigenti sia copertamente sia in
caso di pericolo
emergente, apertamente, per gettare lo scompiglio e il
disordine nelle
file antagoniste.
Nel periodo del
dopoguerra, l'apparato egemonico si screpola e
l'esercizio
dell'egemonia diviene permanentemente difficile e
aleatorio. Il
fenomeno viene presentato e trattato con vari nomi e
in aspetti
secondari e derivati. I piú triviali sono: «crisi del
principio
d'autorità» e «dissoluzione del regime parlamentare».
Naturalmente del
fenomeno si descrivono sole le manifestazioni
«teatrali» sul terreno
parlamentare e del governo politico ed esse appunto si
spiegano col
fallimento di alcuni «principii» (parlamentare,
democratico, ecc.) e
con la «crisi» del principio d'autorità (del
fallimento di questo
principio parleranno altri non meno superficiali e
superstiziosi). La
crisi si presenta praticamente nella sempre crescente
difficoltà di
formare i governi e nella sempre crescente instabilità
dei governi
stessi: essa ha la sua origine immediata nella
moltiplicazione dei
partiti parlamentari, e nelle crisi interne permanenti
di ognuno di
questi partiti (si verifica cioè nell'interno di ogni
partito ciò che
si verifica nell'intero parlamento: difficoltà di
governo e instabilità
di direzione). Le forme di questo fenomeno sono anche,
in una certa
misura, di corruzione e dissoluzione morale: ogni
frazione di partito
crede di avere la ricetta infallibile per arrestare
l'indebolimento
dell'intero partito, e ricorre a ogni mezzo per averne
la direzione o
almeno per partecipare alla direzione, cosí come nel
parlamento il
partito crede di essere il solo a dover formare il
governo per salvare
il paese o almeno pretende, per dare l'appoggio al
governo, di doverci
partecipare il piú largamente possibile; quindi
contrattazioni
cavillose e minuziose, che non possono non essere
personalistiche in
modo da apparire scandalose, e che spesso sono infide
e perfide. Forse,
nella realtà, la corruzione personale è minore di
quanto appare, perché
tutto l'organismo politico è corrotto dallo sfacelo
della funzione
egemonica. Che gli interessati a che la crisi si
risolva dal loro punto
di vista, fingano di credere e proclamino a gran voce
che si tratta
della «corruzione» e della «dissoluzione» di una serie
di «principii»
(immortali o no), potrebbe anche essere giustificato:
ognuno è il
giudice migliore nella scelta delle armi ideologiche
che sono piú
appropriate ai fini che vuol raggiungere e la
demagogia può essere
ritenuta arma eccellente. Ma la cosa diventa comica
quando il demagogo
non sa di esserlo ed opera praticamente come fosse
vero nella realtà
effettuale che l'abito è il monaco e il berretto il
cervello.
Machiavelli diventa cosí Stenterello.
La
crisi in Francia. Sua grande lentezza di sviluppi. I
partiti politici
francesi: essi erano molto numerosi anche prima del
1914. La loro
molteplicità formale dipende dalla ricchezza di eventi
rivoluzionari e
politici in Francia dal 1789 all'Affare Dreyfus:
ognuno di questi
eventi ha lasciato sedimenti e strascichi che si sono
consolidati in
partiti, ma le differenze essendo molto meno
importanti delle
coincidenze, in realtà ha sempre regnato nel
Parlamento il regime dei
due partiti, liberali-democratici (varie gamme del
radicalismo) e
conservatori. Si può anzi dire che la molteplicità dei
partiti, date le
circostanze particolari della formazione
politico-nazionale francese è
stata molto utile nel passato: ha permesso una vasta
opera di selezioni
individuali e ha creato il gran numero di abili uomini
di governo che è
caratteristica francese. Attraverso questo meccanismo
molto snodato e
articolato, ogni movimento dell'opinione pubblica
trovava un immediato
riflesso e una composizione. L'egemonia borghese è
molto forte e ha
molte riserve. Gli intellettuali sono molto
concentrati (Istituto di
Francia, Università, grandi giornali e riviste di
Parigi) e quantunque
numerosissimi sono in fondo molto disciplinati ai
centri nazionali di
cultura. La burocrazia militare e civile ha una grande
tradizione e ha
raggiunto un alto grado di omogeneità attiva.
La
debolezza interna piú pericolosa per l'apparato
statale (militare e
civile) consisteva nell'alleanza del clericalismo e
del monarchismo. Ma
la massa popolare, se pure cattolica, non era
clericale. Nell'affare
Dreyfus è culminata la lotta per paralizzare
l'influsso
clericale-monarchico nell'apparato statale e per dare
all'elemento
laico la netta prevalenza. La guerra non ha indebolito
ma rafforzato
l'egemonia; non si è avuto il tempo di pensare: lo
Stato è entrato in
guerra e quasi subito il territorio è stato invaso. Il
passaggio dalla
disciplina di pace a quella di guerra non ha domandato
una crisi troppo
grande: i vecchi quadri militari erano abbastanza
vasti ed elastici;
gli ufficiali subalterni e i sottufficiali erano forse
i piú
selezionati del mondo e i meglio allenati alle
funzioni di comando
immediato sulle truppe. Confronto con altri paesi. La
quistione degli
arditi e del volontarismo; la crisi dei quadri,
determinata dal
sopravvento degli ufficiali di complemento, che
altrove avevano una
mentalità antitetica con gli ufficiali di carriera.
Gli arditi, in
altri paesi, hanno rappresentato un nuovo esercito di
volontari, una
selezione militare, che ebbe una funzione tattica
primordiale. Il
contatto col nemico fu cercato solo attraverso gli
arditi, che
formavano come un velo tra il nemico e l'esercito di
leva (funzione
delle stecche nel busto). La fanteria francese era
formata in
grandissima maggioranza di coltivatori diretti, cioè
di uomini forniti
di una riserva muscolare e nervosa molto ricca che
rese piú difficile
il collasso fisico procurato dalla lunga vita di
trincea (il consumo
medio di un cittadino francese è di circa 1.500.000
calorie annue,
mentre quello italiano è minore di 1.000.000); in
Francia il
bracciantato agricolo è minimo, il contadino senza
terra è servo di
fattoria, cioè vive la stessa vita dei padroni e non
conosce l'inedia
della disoccupazione neanche stagionale; il vero
bracciantato si
confonde con la mala vita rurale ed è formato di
elementi irrequieti
che viaggiano da un angolo all'altro del paese per
piccoli lavori
marginali. Il vitto in trincea era migliore che in
altri paesi e il
passato democratico, ricco di lotte e di
ammaestramenti reciproci,
aveva creato il tipo diffuso del cittadino moderno
anche nelle classi
subalterne, cittadino nel doppio senso, che l'uomo del
popolo si
sentiva qualche cosa non solo, ma era ritenuto qualche
cosa anche dai
superiori, dalle classi dirigenti, cioè non era
sfottuto e bistrattato
per bazzecole. Non si formarono cosí, durante la
guerra, quei sedimenti
di rabbia avvelenata e sorniona che si formarono
altrove. Le lotte
interne del dopoguerra mancarono perciò di grande
asprezza e
specialmente, non si verificò l'inaudita oscillazione
delle masse
rurali verificatasi altrove.
La crisi
endemica del parlamentarismo francese indica che c'è
un malessere
diffuso nel paese ma questo malessere non ha avuto
finora un carattere
radicale, non ha posto in gioco quistioni intangibili.
C'è stato un
allargamento della base industriale e quindi un
accresciuto urbanesimo.
Masse di rurali si sono riversate in città, ma non
perché ci fosse in
campagna disoccupazione o fame insoddisfatta di terra;
perché in città
si sta meglio, ci sono piú soddisfazioni ecc. (il
prezzo della terra è
bassissimo e molte terre buone sono abbandonate agli
Italiani). La
crisi parlamentare riflette (finora) piuttosto uno
spostamento normale
di masse (non dovuto ad acuta crisi economica), con
una ricerca
laboriosa di nuovi equilibri di rappresentanza e di
partiti e un
malessere vago che è solo premonitore di una possibile
grande crisi
politica. La stessa sensibilità dell'organismo
politico porta ad
esagerare formalmente i sintomi del malessere. Finora
si è trattato di
una serie di lotte per la divisione dei carichi e dei
benefici statali,
piú che altro, perciò crisi dei partiti medi e di
quello radicale in
primo luogo, che rappresenta le città medie e piccole
e i contadini piú
avanzati. Le forze politiche si preparano alle grandi
lotte future e
cercano un migliore assestamento; le forze
extrastatali fanno sentire
piú sensibilmente il loro peso e impongono i loro
uomini in modo piú
brutale.
Il punto culminante della crisi
parlamentare francese fu raggiunto nel 1925 e
dall'atteggiamento verso
quegli avvenimenti, ritenuti decisivi, occorre partire
per dare un
giudizio sulla consistenza politica e
ideologica dell'Action
Française. Maurras gridò allo sfacelo del regime
repubblicano e il suo
gruppo si preparò alla presa del potere. Maurras è
spesso esaltato come
un grande statista e come un grandissimo
Realpolitiker: in realtà egli
è solo un giacobino alla rovescia. I giacobini
impiegavano un certo
linguaggio, erano convinti fautori di una determinata
ideologia; nel
tempo e nelle circostanze date, quel linguaggio e
quella ideologia
erano ultrarealistici, perché ottenevano di mettere in
moto le energie
politiche necessarie ai fini della Rivoluzione e a
consolidare
permanentemente l'andata al potere della classe
rivoluzionaria; furono
poi staccati, come avviene quasi sempre, dalle
condizioni di luogo e di
tempo e ridotti in formule e divennero una cosa
diversa, una larva,
parole vacue e inerti. Il comico consiste nel fatto
che il Maurras
capovolse banalmente quelle formule, creandone altre
che sistemò in un
ordine logico-letterario impeccabile, le quali non
potevano anche esse
che rappresentare il riflesso del piú puro e triviale
illuminismo. In
realtà è proprio Maurras il piú rappresentativo
campione dello «stupido
secolo XIX», la concentrazione di tutti i luoghi
comuni massonici
meccanicamente rovesciati: la sua relativa fortuna
dipende appunto da
ciò che il suo metodo piace perché è quello della
ragione ragionante da
cui è nato l'enciclopedismo, e tutta la tradizione
culturale massonica
francese. L'illuminismo creò una serie di miti
popolari, che erano solo
la proiezione nel futuro delle piú profonde e
millenarie aspirazioni
delle grandi masse, aspirazioni legate al
cristianesimo e alla
filosofia del senso comune, miti semplicistici quanto
si vuole, ma che
avevano un'origine realmente radicata nei sentimenti e
che, in ogni
caso, non potevano essere controllati sperimentalmente
(storicamente);
Maurras ha creato il mito «semplicistico» di un
passato monarchico
francese fantastico; ma questo mito è stato «storia» e
le deformazioni
intellettualistiche di essa possono essere facilmente
corrette: tutta
la istruzione pubblica francese è una implicita
rettifica del mito
monarchico, che in tal modo diventa un
«mito» difensivo piú
che creatore di passioni. Una delle formule
fondamentali di Maurras è
«Politique d'abord», ma egli è il primo a non
seguirla. Per lui, prima
della politica c'è sempre l'«astrazione politica»,
l'accoglimento
integrale di una concezione del mondo
«minuziosissima», che prevede
tutti i particolari, come fanno le utopie dei
letterati, che domanda
una determinata concezione della storia, ma della
storia concreta di
Francia e d'Europa, cioè una determinata e
fossilizzata ermeneutica.
Léon
Daudet ha scritto che la grande forza dell'Action
Française è
stata la incrollabile omogeneità e unita del suo
gruppo dirigente:
sempre d'accordo, sempre solidali politicamente e
ideologicamente.
Certo l'unità e omogeneità del gruppo dirigente è una
grande forza, ma
di carattere settario e massonico, non di un grande
partito di governo.
Il linguaggio politico è diventato un gergo, si è
formata l'atmosfera
di una conventicola: a forza di ripetere sempre le
stesse formule, di
maneggiare gli stessi schemi mentali irrigiditi, si
finisce, è vero,
col pensare allo stesso modo, perché si finisce col
non pensare piú.
Maurras a Parigi e Daudet a Bruxelles pronunziano la
stessa frase,
senza accordo, sullo stesso avvenimento perché
l'accordo c'era già
prima, perché si tratta di due macchinette di frasi,
montate da venti
anni per dire le stesse frasi nello stesso momento.
Il
gruppo dirigente dell'Action Française si è
formato per
cooptazione: in principio c'era Maurras col suo verbo,
poi si uní
Vaugeois, poi Daudet, poi Pujo, ecc. ecc. Ogni volta
che dal gruppo si
staccò qualcuno, fu una catastrofe di polemiche e di
accuse
interminabili e perfide e si capisce: Maurras è come
un papa
infallibile e che da lui si stacchi uno dei piú
prossimi ha un
significato veramente catastrofico.
Dal
punto di vista dell'organizzazione l'Action
Française è molto
interessante e meriterebbe uno studio approfondito. La
sua forza
relativa è costituita specialmente da ciò che i suoi
elementi di base
sono tipi sociali intellettualmente selezionati, la
cui «radunata»
militare è estremamente facile come sarebbe quella di
un esercito
costituito di soli ufficiali. La selezione
intellettuale è relativa, si
capisce, poiché è stupefacente come gli aderenti
all'Action
Française siano facili a ripetere
pappagallescamente le formule
del leader (se pure non si tratti di una necessità di
guerra, sentita
come tale) e anzi a trarne profitto «snobistico». In
una repubblica può
essere segno di distinzione l'essere monarchico, in
una democrazia
parlamentare l'essere reazionario conseguente. Il
gruppo, per la sua
composizione, possiede (a parte le sovvenzioni di
certi gruppi
industriali) molti fondi, tanti da permettere
iniziative molteplici che
danno l'apparenza di una certa vitalità e attività. La
posizione
sociale di molti aderenti palesi ed occulti permette
al giornale e al
centro dirigente di avere una massa di informazioni e
documenti
riservati che permettono una molteplicità di polemiche
personali. Nel
passato, ma piú limitatamente anche ora, il Vaticano
doveva essere una
fonte di prim'ordine d'informazioni (la Segreteria di
Stato e l'alto
clero francese). Molte campagne personalistiche devono
essere a chiave
o a mezza chiave: si pubblica una parte di vero per
far capire che si
sa tutto, o si fanno allusioni furbesche comprensibili
agli
interessati. Queste campagne violente personalistiche
hanno per
l'Action Française vari significati: galvanizzano
gli aderenti
perché lo sfoggio della conoscenza delle cose piú
segrete dà
l'impressione di gran capacità a penetrare nel campo
avversario e di
una forte organizzazione cui nulla sfugge, mostrano il
regime
repubblicano come un'associazione a delinquere,
paralizzano una serie
di avversari con la minaccia di disonorarli e di
alcuni fanno dei
fautori segreti. La concezione empirica che si può
ricavare da tutta
l'attività dell'Action Française è questa: il
regime parlamentare
repubblicano si dissolverà ineluttabilmente perché
esso è un «monstrum»
storico-razionale, che non corrisponde alle leggi
«naturali» della
società francese rigidamente stabilite dal Maurras. I
nazionalisti
integrali devono pertanto: 1) appartarsi dalla vita
reale della
politica francese, non riconoscendone la «legalità»
storico-razionale
(astensionismo, ecc.) e combattendola in blocco; 2)
creare un
antigoverno, sempre pronto a insediarsi nei «palazzi
tradizionali» con
un colpo di mano: questo antigoverno si presenta già
oggi con tutti gli
uffici embrionali, che corrispondono alle grandi
attività nazionali.
Nella
realtà furono fatti molti strappi a tanto rigore; nel
'19 furono
presentate alcune candidature, e riuscí eletto per
miracolo il Daudet.
Nelle altre elezioni l'Action Française appoggiò
quei candidati di
destra che accettavano alcuni suoi principii marginali
(questa attività
pare sia stata imposta al Maurras dai suoi
collaboratori piú esperti di
politica reale, ciò che dimostra che l'unità non è
senza crepe). Per
uscire dall'isolamento fu progettata la pubblicazione
di un grande
giornale d'informazione, ma finora non se ne fece
nulla (esiste solo la
«Revue Universelle» e lo «Charivari» che compiono
ufficio di
divulgazione indiretta tra il grande pubblico). L'acre
polemica col
Vaticano e la riorganizzazione del clero e delle
associazioni
cattoliche che ne fu una conseguenza, ha rotto il solo
legame che
l'Action Française aveva con le grandi masse
nazionali, legame che
era anch'esso piuttosto aleatorio. Il suffragio
universale che è stato
introdotto in Francia da tanto tempo ha già
determinato il fatto che le
masse, formalmente cattoliche, politicamente
aderiscano ai partiti
repubblicani di centro, sebbene questi siano
anticlericali e laicisti:
il sentimento nazionale, organizzato intorno al
concetto di patria, è
altrettanto forte, e in certi casi è indubbiamente piú
forte, del
sentimento religioso-cattolico, che del resto ha
caratteristiche
proprie. La formula che «la religione è una quistione
privata» si è
radicata come forma popolare del concetto di
separazione della Chiesa
dallo Stato. Inoltre, il complesso di associazioni che
costituiscono
l'Azione Cattolica è in mano all'aristocrazia terriera
(ne è capo, o
era, il generale Castelnau), senza che il basso clero
eserciti quella
funzione di guida spirituale-sociale che esercitava in
Italia (in
quella settentrionale). Il contadino francese, nella
quasi totalità,
rassomiglia piuttosto al nostro contadino meridionale,
che dice
volentieri: «il prete è prete sull'altare, ma fuori è
un uomo come
tutti gli altri» (in Sicilia: «monaci e parrini,
sienticci la missa e
stoccacci li rini»). L'Action
Française attraverso lo strato
dirigente cattolico pensava di poter dominare, nel
momento decisivo,
tutto l'apparato di massa del cattolicismo francese.
In questo calcolo
c'era un po' di verità e molta illusione: in epoche di
grandi crisi
politico-morali, il sentimento religioso, rilassato in
tempi normali,
può diventare vigoroso e assorbente; ma se l'avvenire
appare pieno di
nubi tempestose, anche la solidarietà nazionale,
espressa nel concetto
di patria, diventa assorbente in Francia, dove la
crisi non può non
assumere il carattere di crisi internazionale e allora
la «Marsigliese»
è piú forte dei Salmi penitenziali. In ogni caso,
anche la speranza in
questa riserva possibile è svanita per Maurras. Il
Vaticano non vuole
piú astenersi dagli affari interni francesi e ritiene
che il ricatto di
una possibile restaurazione monarchica sia divenuto
inoperante: il
Vaticano è piú realista di Maurras, e concepisce
meglio la formula
«politique d'abord». Finché il contadino francese
dovrà scegliere tra
Herriot e un Hobereau, sceglierà Herriot: bisogna
perciò creare il tipo
del «radicale cattolico» cioè del «popolare», bisogna
accettare senza
riserve la repubblica e la democrazia e su questo
terreno organizzare
le masse contadine, superando il dissidio tra
religione e politica,
facendo del prete non solo la guida spirituale (nel
campo
individuale-privato) ma anche la guida sociale nel
campo
economico-politico. La sconfitta di Maurras è certa
(come quella di
Hugenberg in Germania). È la concezione di Maurras che
è falsa per
troppa perfezione logica: questa sconfitta,
d'altronde, fu sentita
dallo stesso Maurras proprio all'inizio della polemica
col Vaticano,
che coincise con la crisi parlamentare francese del
1925 (non certo per
caso). Quando i ministeri si succedevano a rotazione,
l'Action
Française pubblicò di essere pronta ad assumere
il potere e
apparve un articolo in cui si giunse ad invitare
Caillaux a
collaborare, Caillaux per il quale si annunziava
continuamente il
plotone d'esecuzione. L'episodio è classico: la
politica irrigidita e
razionalistica del Maurras, dell'astensionismo
aprioristico, delle
leggi naturali «siderali» che reggono la società
francese, era
condannata al marasma, al crollo, all'abdicazione nel
momento
risolutivo. Nel momento risolutivo si vede che le
grandi masse di
energie entrate in movimento per la crisi non si
riversano affatto nei
serbatoi creati artificialmente, ma seguono le vie
realmente tracciate
dalla politica reale precedente, si spostano secondo i
partiti che sono
sempre stati attivi, o perfino che sono nati come
funghi sul terreno
stesso della crisi. A parte la stoltezza di credere
che nel 1925
potesse avvenire il crollo del regime repubblicano per
una crisi
parlamentare (l'intellettualismo antiparlamentarista
porta a simili
allucinazioni monomaniache) se ci fu crollo fu quello
morale del
Maurras, che magari non si sarà scosso dal suo stato
di illuminazione
apocalittica, e del suo gruppo, che si sentí isolato e
dovette fare
appello a Caillaux e C.
Nella concezione
di Maurras esistono molti tratti simili a quelli di
certe teorie
formalmente catastrofiche di certo economismo e
sindacalismo. È spesso
avvenuta questa trasposizione nel campo politico e
parlamentare di
concezioni nate sul terreno economico e sindacale.
Ogni astensionismo
politico in generale e non solo quello parlamentare si
basa su una
simile concezione meccanicamente catastrofica: la
forza dell'avversario
crollerà matematicamente se con metodo rigorosamente
intransigente lo
si boicotterà nel campo governativo (allo sciopero
economico si
accoppia lo sciopero e il boicottaggio politico).
L'esempio classico è
quello italiano dei clericali dopo il '70, che
imitarono e
generalizzarono alcuni episodi della lotta dei
patrioti contro il
dominio austriaco verificatisi specialmente a Milano.
L'affermazione,
spesso ripetuta da Jacques Bainville nei suoi saggi
storici, che il
suffragio universale e il plebiscito potevano
(avrebbero potuto) e
potranno quindi servire anche al legittimismo come
servirono ad altre
correnti politiche (specialmente ai Bonaparte) è molto
ingenua, perché
legata a un ingenuo e astrattamente scemo
sociologismo: il suffragio
universale e il plebiscito sono concepiti come schemi
astratti dalle
condizioni di tempo e di luogo. Occorre notare: 1) che
ogni sanzione
data dal suffragio universale e dal plebiscito è
avvenuta dopo che la
classe fondamentale si era concentrata fortemente o
nel campo politico
o piú ancora nel campo politico-militare intorno a una
personalità
«cesarista», o dopo una guerra che aveva creato una
situazione di
emergenza nazionale; 2) che nella realtà della storia
francese ci sono
stati diversi tipi di «suffragio universale», a mano a
mano che
mutarono storicamente i rapporti economico-politici.
Le crisi del
suffragio universale sono state determinate dai
rapporti tra Parigi e
la provincia, ossia tra la città e la campagna, tra le
forze urbane e
quelle contadinesche. Durante la Rivoluzione, il
blocco urbano parigino
guida in modo quasi assoluto la provincia e si forma
cosí il mito del
suffragio universale che dovrebbe sempre dar ragione
alla democrazia
radicale parigina. Perciò Parigi vuole il suffragio
universale nel
1848, ma esso esprime un parlamento
reazionario-clericale che permette
a Napoleone III la sua carriera. Nel 1871 Parigi ha
fatto un gran passo
in avanti, perché si ribella all'Assemblea Nazionale
di Versailles,
formata dal suffragio universale, cioè implicitamente
«capisce» che tra
«progresso» e suffragio può esserci conflitto; ma
questa esperienza
storica, di valore inestimabile, è perduta
immediatamente perché i
portatori di essa vengono immediatamente soppressi.
D'altronde dopo il
'71 Parigi perde in gran parte la sua egemonia
politico-democratica
sulla restante Francia per diverse ragioni: 1) perché
si diffonde in
tutta la Francia il capitalismo urbano e si crea il
movimento radicale
socialista in tutto il territorio; 2) perché Parigi
perde
definitivamente la sua unità rivoluzionaria e la sua
democrazia si
scinde in gruppi sociali e partiti antagonistici. Lo
sviluppo del
suffragio universale e della democrazia coincide
sempre piú con
l'affermarsi in tutta la Francia del partito radicale
e della lotta
anticlericale, affermazione resa piú facile e anzi
favorita dallo
sviluppo del cosí detto sindacalismo rivoluzionario.
In realtà
l'astensionismo elettorale e l'economismo dei
sindacalisti sono
l'apparenza «intransigente» dell'abdicazione di Parigi
al suo ruolo di
testa rivoluzionaria della Francia, sono l'espressione
di un piatto
opportunismo seguito al salasso del 1871. Il
radicalismo unifica cosí
in un piano intermedio, della mediocrità
piccolo-borghese,
l'aristocrazia operaia di città e il contadino agiato
di campagna. Dopo
la guerra c'è una ripresa dello sviluppo storico
troncato col ferro e
col fuoco nel 1871, ma esso è incerto, informe,
oscillante, e
specialmente privo di cervelli pensanti.
La
«Rivista d'Italia» del 15 gennaio 1927 riassume un
articolo di J.
Vialatoux pubblicato nella «Chronique Sociale de
France» di qualche
settimana prima; il Vialatoux respinge la tesi
sostenuta da Jacques
Maritain, in Une opinion sur Charles Maurras et
le devoir des
catholiques (Parigi, Plon, 1926) secondo cui tra
la filosofia e la
morale pagane di Maurras e la sua politica non vi
sarebbe che un
rapporto contingente, di modo che se si prende la
dottrina politica,
astraendo dalla filosofia, si può andare incontro a
qualche pericolo,
come in ogni movimento umano, ma non vi ha nulla di
condannabile. Per
il Vialatoux, giustamente, la dottrina politica
scaturisce (o per lo
meno è inscindibilmente legata – G.) dalla concezione
pagana del mondo
(su questo paganesimo occorre distinguere e chiarire,
tra la veste
letteraria piena di riferimenti e metafore pagane e il
nocciolo
essenziale che è poi il positivismo naturalistico,
preso da Comte e
mediatamente dal sansimonismo, ciò che rientra nel
paganesimo solo per
il gergo e la nomenclatura ecclesiastica – G.). Lo
Stato è il fine
ultimo dell'uomo: esso realizza l'ordine umano con le
sole forze della
natura (cioè «umane», in contrapposizione a
«soprannaturali»). Maurras
è definibile per i suoi odii ancor piú che per i suoi
amori. Odia il
cristianesimo primitivo (la concezione del mondo
contenuta negli
Evangeli, nei primi apologisti ecc., il cristianesimo
fino all'editto
di Milano, insomma, la cui credenza fondamentale era
che la venuta di
Cristo avesse annunziato la fine del mondo e che
perciò determinava la
dissoluzione dell'ordine politico romano in una
anarchia morale
corrosiva di ogni valore civile e statale) che per lui
è una concezione
giudaica. In questo senso Maurras vuole
scristianizzare la società
moderna. Per Maurras la Chiesa cattolica è stata e
sarà sempre piú lo
strumento di questa scristianizzazione. Egli distingue
tra
cristianesimo e cattolicismo ed esalta quest'ultimo
come la reazione
dell'ordine romano all'anarchia giudaica. Il culto
cattolico, le sue
devozioni superstiziose, le sue feste, le sue pompe,
le sue solennità,
la sua liturgia, le sue immagini, le sue formule, i
suoi riti
sacramentali, la sua gerarchia imponente, sono come un
incantesimo
salutare per domare l'anarchia cristiana, per
immunizzare il veleno
giudaico del cristianesimo autentico. Secondo il
Vialatoux il
nazionalismo dell'Action Française non è che un
episodio
della storia religiosa del nostro tempo (in
questo senso ogni
movimento politico non controllato dal Vaticano è un
episodio della
storia religiosa, ossia tutta la storia è storia
religiosa. In ogni
modo occorre aggiungere che l'odio di Maurras contro
tutto ciò che sa
di protestante ed è di origine anglo-germanica –
Romanticismo,
Rivoluzione francese, capitalismo ecc. – non è che un
aspetto di questo
odio contro il cristianesimo primitivo. Occorrerebbe
cercare in Augusto
Comte le origini di questo atteggiamento generale
verso il
cattolicismo, che non è indipendente dalla rinascita
libresca del
tomismo e dell'aristotelismo).
*
Maurras
e il «centralismo organico». Il cosidetto
«centralismo organico»
si fonda sul principio che un gruppo politico viene
selezionato per
«cooptazione» intorno a un «portatore infallibile
della verità», a un
«illuminato dalla ragione» che ha trovato le leggi
naturali infallibili
dell'evoluzione storica, infallibili anche se a lunga
portata e se gli
eventi immediati «sembrano» dar loro torto.
L'applicazione delle leggi
della meccanica e della matematica ai fatti sociali,
ciò che non
dovrebbe avere che un valore metaforico, diventa il
solo e allucinante
motore intellettuale (a vuoto). Il nesso tra il
centralismo organico e
le dottrine di Maurras è evidente.
Note sparse
*
[Internazionalismo
e politica nazionale.] Scritto (a domande e risposte)
di Giuseppe
Bessarione del settembre 1927 su alcuni punti
essenziali di scienza e
di arte politica. Il punto che mi pare sia da svolgere
è questo: come
secondo la filosofia della prassi (nella sua
manifestazione politica)
sia nella formulazione del suo fondatore, ma
specialmente nella
precisazione del suo piú recente grande teorico, la
situazione
internazionale debba essere considerata nel suo
aspetto nazionale.
Realmente il rapporto «nazionale» è il risultato di
una combinazione
«originale» unica (in un certo senso) che in questa
originalità e
unicità deve essere compresa e concepita se si vuole
dominarla e
dirigerla. Certo lo sviluppo è verso
l'internazionalismo, ma il punto
di partenza è «nazionale» ed è da questo punto di
partenza che occorre
prender le mosse. Ma la prospettiva è internazionale e
non può essere
che tale. Occorre pertanto studiare esattamente la
combinazione di
forze nazionali che la classe internazionale dovrà
dirigere e
sviluppare secondo la prospettiva e le direttive
internazionali. La
classe dirigente è tale solo se interpreterà
esattamente questa
combinazione, di cui essa stessa è componente e in
quanto tale appunto
può dare al movimento un certo indirizzo in certe
prospettive. Su
questo punto mi pare sia il dissidio fondamentale tra
Leone Davidovici
e Bessarione come interprete del movimento
maggioritario. Le accuse di
nazionalismo sono inette se si riferiscono al nucleo
della quistione.
Se si studia lo sforzo dal 1902 al 1917 da parte dei
maggioritari si
vede che la sua originalità consiste nel depurare
l'internazionalismo
di ogni elemento vago e puramente ideologico (in senso
deteriore) per
dargli un contenuto di politica realistica. Il
concetto di egemonia è
quello in cui si annodano le esigenze di carattere
nazionale e si
capisce come certe tendenze di tale concetto non
parlino o solo lo
sfiorino. Una classe di carattere internazionale in
quanto guida strati
sociali strettamente nazionali (intellettuali) e anzi
spesso meno
ancora che nazionali, particolaristi e municipalisti
(i contadini),
deve «nazionalizzarsi», in un certo senso, e questo
senso non è
d'altronde molto stretto, perché prima che si formino
le condizioni di
una economia secondo un piano mondiale, è necessario
attraversare fasi
molteplici in cui le combinazioni regionali (di gruppi
di nazioni)
possono essere varie. D'altronde non bisogna mai
dimenticare che lo
sviluppo storico segue le leggi della necessità fino a
quando
l'iniziativa non sia nettamente passata dalla parte
delle forze che
tendono alla costruzione secondo un piano, di pacifica
e solidale
divisione del lavoro.
Che i concetti non
nazionali (cioè non riferibili a ogni singolo paese)
siano sbagliati si
vede per assurdo: essi hanno portato alla passività e
all'inerzia in
due fasi ben distinte: 1) nella prima fase, nessuno
credeva di dover
incominciare, cioè riteneva che incominciando si
sarebbe trovato
isolato; nell'attesa che tutti insieme si muovessero,
nessuno intanto
si muoveva e organizzava il movimento; 2) la seconda
fase è forse
peggiore, perché si aspetta una forma di
«napoleonismo» anacronistico e
antinaturale (poiché non tutte le fasi storiche si
ripetono nella
stessa forma). Le debolezze teoriche di questa forma
moderna del
vecchio meccanicismo sono mascherate dalla teoria
generale della
rivoluzione permanente che non è altro che una
previsione generica
presentata come dogma e che si distrugge da sé, per il
fatto che non si
manifesta effettualmente.
*
Interpretazione
del Principe. Se, come è stato scritto in altre
note,
l'interpretazione del Principe deve (o può)
esser fatta
ponendo come centro del libro l'invocazione finale, è
da rivedere
quanto di «reale» ci sia nella interpretazione cosí
detta «satirica e
rivoluzionaria» di esso (come si esprime Enrico
Carrara nella nota al
passo rispettivo dei Sepolcri nella sua
opera
scolastica Storia ed esempi della Letteratura
Italiana,
VII, L'ottocento, p. 59 (ed. Signorelli, Milano).
Per ciò che
riguarda il Foscolo non pare debba parlarsi di una
particolare
interpretazione del Principe, cioè
dell'attribuzione al
Machiavelli di intenzioni riposte democratiche e
rivoluzionarie; piú
giusto pare l'accenno del Croce (nel libro
sulla Storia del
Barocco) che risponde alla lettera dei Sepolcri,
e cioè: «Il
Machiavelli, per il fatto stesso di "temprare" lo
scettro, ecc., di
rendere il potere dei principi piú coerente e
consapevole, ne sfronda
gli allori, distrugge i miti, mostra cosa sia
realmente questo potere
ecc.»; cioè la scienza politica, in quanto scienza, è
utile sia ai
governanti che ai governati per comprendersi
reciprocamente.
Nei Ragguagli
del Parnaso del Boccalini la quistione
del Principe è
invece posta in modo tutto diverso che
nei Sepolcri. Ma è da
domandare: chi vuole satireggiare il Boccalini?
Machiavelli o i suoi
avversari? La quistione è dal Boccalini posta cosí: «I
nemici del
Machiavelli reputano il Machiavelli uomo degno di
punizione perché ha
esposto come i principi governano e cosí facendo ha
istruito il popolo;
ha "messo alle pecore denti di cane", ha distrutto i
miti del potere,
il prestigio dell'autorità, ha reso piú difficile il
governare, poiché
i governati ne possono sapere quanto i governanti, le
illusioni sono
rese impossibili ecc.». È da vedere tutta
l'impostazione politica del
Boccalini, che in questo ragguaglio mi pare faccia la
satira degli
antimachiavellici, i quali non sono tali perché non
facciano in realtà
ciò che il Machiavelli ha scritto, cioè non sono
antimachiavellici
perché il Machiavelli abbia avuto torto, ma perché ciò
che il
Machiavelli scrive «si fa e non si dice», anzi è
fattibile appunto
perché non è criticamente spiegato e sistemato. Il
Machiavelli è odiato
perché «ha scoperto gli altarini» dell'arte di governo
ecc.
La
quistione si pone anche oggi e l'esperienza della vita
dei partiti
moderni è istruttiva; quante volte si è sentito il
rimprovero per aver
mostrato criticamente gli errori dei governanti:
«mostrando ai
governanti gli errori che essi fanno, voi insegnate
loro a non fare
errori», cioè «fate il loro gioco» Z.. Questa
concezione [è] legata
alla teoria fanciullesca del «tanto peggio, tanto
meglio». La paura di
«fare il gioco» degli avversari è delle piú comiche ed
è legata al
concetto balordo di ritenere sempre gli avversari
degli stupidi; è
anche legata alla non comprensione delle «necessità»
storico-politiche,
per cui «certi errori devono essere fatti» e il
criticarli è utile per
educare la propria parte.
Pare che le
intenzioni del Machiavelli nello scrivere
il Principe siano
state piú complesse e anche «piú democratiche» di
quanto non sarebbero
secondo l'interpretazione «democratica». Cioè il
Machiavelli ritiene
che la necessità dello Stato unitario nazionale è cosí
grande che tutti
accetteranno che per raggiungere questo altissimo fine
siano impiegati
i soli mezzi che sono idonei. Si può quindi dire che
il Machiavelli si
sia proposto di educare il popolo, ma non nel senso
che di solito si dà
a questa espressione o almeno gli hanno dato certe
correnti
democratiche. Per il Machiavelli «educare il popolo»
può aver
significato solo renderlo convinto e consapevole che
può esistere una
sola politica, quella realistica, per raggiungere il
fine voluto e che
pertanto occorre stringersi intorno e obbedire proprio
a quel principe
che tali metodi impiega per raggiungere il fine,
perché solo chi vuole
il fine vuole i mezzi idonei a raggiungerlo. La
posizione del
Machiavelli, in tal senso, sarebbe da avvicinare a
quella dei teorici e
dei politici della filosofia della prassi, che anche
essi hanno cercato
di costruire e diffondere un «realismo» popolare, di
massa e hanno
dovuto lottare contro una forma di «gesuitismo»
adeguato ai tempi
diversi. La «democrazia» del Machiavelli è di un tipo
adatto ai tempi
suoi, è cioè il consenso attivo delle masse popolari
per la monarchia
assoluta, in quanto limitatrice e distruttrice
dell'anarchia feudale e
signorile e del potere dei preti, in quanto fondatrice
di grandi Stati
territoriali nazionali, funzione che la monarchia
assoluta non poteva
adempiere senza l'appoggio della borghesia e di un
esercito stanziale,
nazionale, centralizzato, ecc.
*
«Doppiezza» e «ingenuità» del
Machiavelli. Cfr. articolo di Adolfo
Oxilia Machiavelli nel
teatro («Cultura» dell'ottobre-dicembre 1933).
Interpretazione
romantico-liberale del Machiavelli (Rousseau
nel Contratto
Sociale, III, 6; Foscolo nei Sepolcri; Mazzini
nel breve saggio
sul Machiavelli). Mazzini scrive: «Ecco ciò che i
vostri principi,
deboli e vili quanti sono, faranno per dominarvi: or
pensateci».
Rousseau vede nel Machiavelli un «gran republicano»,
il quale fu
costretto dai tempi – senza che ne derivi alcuna
menomazione della sua
dignità morale – a «déguiser son amour pour la
liberté» e a fingere di
dare lezioni ai re per darne «des grandes aux
peuples». Filippo Burzio
ha notato che una tale interpretazione, invece di
giustificare
moralmente il machiavellismo, in realtà prospetta un
«machiavellismo al
quadrato»: giacché l'autore del Principe non
solo darebbe
consigli di frode bensí anche con frode, a rovina di
coloro stessi cui
sono rivolti.
Questa interpretazione
«democratica» del Machiavelli risalirebbe al Cardinale
Polo e ad
Alberico Gentili (sarà da vedere il libro del Villari
e quello del
Tommasini nella parte che riguarda la fortuna del
Machiavelli). A me
pare che il brano di Traiano Boccalini
nei Ragguagli del
Parnaso sia molto piú significativo di tutte le
impostazioni dei
«grandi studiosi di politica» e che tutto si riduca a
un'applicazione
del proverbio volgare «chi sa il gioco non l'insegni».
La corrente
«antimachiavellica» non è che la manifestazione
teorica di questo
principio di arte politica elementare: che certe cose
si fanno ma non
si dicono.
Proprio da questo pare nasca il
problema piú interessante: perché il Machiavelli ha
scritto
il Principe, non come una «memoria» segreta o
riservata, come
«istruzioni» di un consigliere a un principe, ma come
un libro che
avrebbe dovuto andare nelle mani di tutti? Per
scrivere un'opera di
«scienza» disinteressata, come potrebbe arguirsi dagli
accenni del
Croce? Pare ciò sia contro lo spirito dei tempi, sia
una concezione
anacronistica. Per «ingenuità», dato che il
Machiavelli è visto come un
teorico e non come uomo d'azione? Non pare accettabile
l'ipotesi
dell'«ingenuità» vanitosa e «chiacchierona». Bisogna
ricostruire i
tempi, e le esigenze che il Machiavelli vedeva in
essi. In realtà, pare
si possa dire, nonostante che
il Principe abbia una
destinazione precisa, che il libro non è scritto per
nessuno e per
tutti: è scritto per un ipotetico «uomo della
provvidenza» che potrebbe
manifestarsi cosí come si era manifestato il Valentino
o altri
condottieri, dal nulla, senza tradizione dinastica,
per le sue qualità
militari eccezionali. La conclusione
del Principe giustifica
tutto il libro anche verso le masse popolari che
realmente dimenticano
i mezzi impiegati per raggiungere un fine se questo
fine è storicamente
progressivo, cioè risolve i problemi essenziali
dell'epoca e stabilisce
un ordine in cui sia possibile muoversi, operare,
lavorare
tranquillamente. Nell'interpretare il Machiavelli si
dimentica che la
monarchia assoluta era in quei tempi una forma di
reggimento popolare e
che essa si appoggiava sui borghesi contro i nobili e
anche contro il
clero. (L'Oxilia accenna all'ipotesi che
l'interpretazione democratica
del Machiavelli nel periodo '700-800 sia stata
rafforzata e resa piú
ovvia dal Giorno del Parini, «satirico
istitutore
del giovin signore, come il Machiavelli – in
altri tempi, con
altre nature e misure d'uomini – sarebbe stato il
tragico istitutore
del principe»).
[1.]
Cfr. ciò che scrive l'Alfieri sul Machiavelli nel
libro Del
principe e delle lettere. Parlando delle «massime
immorali e
tiranniche» che si potrebbero ricavare «qua e là»
dal Principe l'Alfieri nota: «e queste
dall'autore sono messe
in luce (a chi ben riflette) molto piú per disvelare
ai popoli le
ambizioni ed avvedute crudeltà dei principi che non
certamente per
insegnare ai principi a praticarle: poiché essi piú o
meno sempre le
adoprano, le hanno adoperate e le adopereranno,
secondo il loro
bisogno, ingegno e destrezza». A parte
l'interpretazione democratica,
la nota è giusta: ma certo il Machiavelli non voleva
«solo» insegnare
ai principi le «massime» che essi conoscevano e
adoperavano. Voleva
invece insegnare la «coerenza» nell'arte di governo e
la coerenza
impiegata ad un certo fine: la creazione di uno Stato
unitario
italiano. Cioè il Principe non è un libro di
«scienza»,
accademicamente inteso, ma di «passione politica
immediata», un
«manifesto» di partito, che si fonda su una concezione
«scientifica»
dell'arte politica. Il Machiavelli insegna davvero la
«coerenza» dei
mezzi «bestiali», e ciò è contro la tesi
dell'Alderisio (di cui occorre
vedere lo scritto Intorno all'arte dello Stato
del Machiavelli.
Discussione ulteriore dell'interpretazione di essa
come «pura
politica», nei «Nuovi Studi» del giugno-ottobre 1932)
ma questa
«coerenza» non è una cosa meramente formale, ma la
forma necessaria di
una determinata linea politica attuale. Che poi dalla
esposizione del
Machiavelli si possano trarre elementi di una «pura
politica» è altra
quistione: ciò riguarda il posto che il Machiavelli
occupa nel processo
di formazione della scienza politica «moderna», che
non è piccolo.
L'Alderisio imposta male tutto il problema, e le
qualche buone ragioni
che può avere si perdono nella sconnessione del quadro
generale
sbagliato.
II. La quistione del perché il
Machiavelli abbia scritto il Principe e le
altre opere non è
una semplice quistione di cultura o di psicologia
dell'autore: essa
serve a spiegare in parte il fascino di questi
scritti, la loro
vivacità e originalità. Non si tratta certo di
«trattati» del tipo
medioevale; neppure si tratta di opere di un avvocato
curiale che
voglia giustificare le operazioni o il modo di operare
dei suoi
«sostentatori» o sia pure del suo principe. Le opere
del Machiavelli
sono di carattere «individualistico», espressioni di
una personalità
che vuole intervenire nella politica e nella storia
del suo paese e in
tal senso sono di origine «democratica». C'è la
«passione» del
«giacobino» nel Machiavelli e perciò egli doveva tanto
piacere ai
giacobini e agli illuministi: è questo un elemento
«nazionale» in senso
proprio e dovrebbe essere studiato preliminarmente in
ogni ricerca sul
Machiavelli.
Articolo
di Luigi Cavina nella «Nuova Antologia» del 16 agosto
1927: Il
sogno nazionale di Niccolò Machiavelli in Romagna e il
governo di
Francesco Guicciardini.
L'argomento del
saggio è interessante, ma il Cavina non ne sa trarre
tutte le
conseguenze necessarie, dato il carattere
superficialmente descrittivo
e retorico dello scritto.
Dopo la
battaglia di Pavia e la definitiva sconfitta dei
Francesi, che
assicurava l'egemonia spagnola nella penisola, i
signori italiani sono
invasi dal panico. Il Machiavelli che si era recato a
Roma per
consegnare personalmente a Clemente VII
le Istorie
Fiorentine che aveva ultimato, propone al papa di
creare una
milizia nazionale (significato preciso del termine) e
lo convince a
fare un esperimento. Il papa invia il Machiavelli in
Romagna presso
Francesco Guicciardini che ne era Presidente, con un
breve in data 6
giugno 1525. Il Machiavelli doveva esporre al
Guicciardini il suo
progetto e il Guicciardini doveva dare il suo parere.
Il
breve di Clemente VII deve essere tutto interessante;
egli espone lo
sconvolgimento in cui si trova l'Italia, cosí grande
da indurre a
cercare anche rimedi nuovi e inconsueti e conclude:
«Res magna est, ut
iudicamus, et salus est in ea cum status
ecclesiastici, tum totius
Italiae ac prope universae cristianitatis reposita»,
dove si vede come
l'Italia era per il papa il termine medio tra lo Stato
ecclesiastico e
la cristianità.
Perché l'esperienza in
Romagna? Oltre alla fiducia che il papa aveva nella
prudenza politica
del Guicciardini, occorre forse pensare ad altri
elementi: i Romagnoli
erano buoni soldati, avevano combattuto con valore e
fedeltà ad
Agnadello, sia pure da mercenari. C'era poi stato in
Romagna il
precedente del Valentino, che aveva reclutato tra il
popolo buoni
soldati, ecc.
Il Guicciardini fino dal
1512 aveva scritto che il dare le armi ai cittadini
«non è cosa aliena
da uno vivere di repubblica e populare, perché quando
vi si dà una
giustizia buona e ordinate leggi, quelle armi non si
adoperano in
pernizie, ma in utilità della patria» e aveva lodato
anche
l'istituzione dell'ordinanza ideata dal Machiavelli
(tentativo di
creare a Firenze una milizia cittadina, che preparò la
resistenza
durante l'assedio).
Ma il Guicciardini non
credeva possibile fare il tentativo in Romagna per le
fierissime
divisioni di parte che vi dominavano (interessanti i
giudizi del
Guicciardini sulla Romagna): i ghibellini dopo la
vittoria di Pavia
sono pronti ad ogni novità; anche se non si danno le
armi nascerà
qualche subbuglio; non si può dare le armi per opporsi
agli imperiali
proprio ai fautori degli imperiali. La difficoltà
inoltre è accresciuta
dal fatto che lo Stato è ecclesiastico, cioè senza
direttive a lunga
scadenza e con facili grazie e impunità, alla piú
lunga ad ogni nuova
elezione di papa. In altro Stato le fazioni si
potrebbero domare, non
nello Stato della Chiesa. Poiché Clemente VII col suo
breve aveva detto
che al buon risultato dell'impresa occorrevano non
solo ordine e
diligenza, ma anche l'impegno e l'amore del
popolo, il
Guicciardini dice che ciò non può essere perché «La
Chiesa in effetto
non ci ha amici, né quelli che desidererebbero bene
vivere, né per
diverse ragioni i faziosi e tristi».
Ma
l'iniziativa non ebbe altro seguito, perché il papa
lasciò cadere il
progetto. L'episodio è tuttavia del massimo interesse,
per mostrare
quanto grande fosse la volontà e la virtú di
persuasione del
Machiavelli, per i giudizi pratici immediati del
Guicciardini e anche
per l'atteggiamento del papa che evidentemente rimase
per qualche tempo
sotto l'influsso del Machiavelli; il breve può
assumersi come un
compendio della concezione del Machiavelli adattata
alla mentalità
pontificia.
Non si conoscono le ragioni
che il Machiavelli (deve) aver contrapposto alle
osservazioni del
Guicciardini, perché questi non ne parla nelle sue
lettere e le lettere
del Machiavelli a Roma non si conoscono. Si può
osservare che le
innovazioni militari sostenute dal Machiavelli non
potevano essere
improvvisate in pieno sviluppo dell'invasione spagnola
e che le sue
proposte al papa in quel momento non potevano avere
risultati concreti.
*
Armi
e religione. Affermazione del Guicciardini che per la
vita di uno Stato
due cose sono assolutamente necessarie: le armi e la
religione. La
formula del Guicciardini può essere tradotta in varie
formule, meno
drastiche: forza e consenso, coercizione e
persuasione, Stato e Chiesa,
società politica e società civile, politica e morale
(storia
etico-politica del Croce), diritto e libertà, ordine e
disciplina, o,
con un giudizio implicito di sapore libertario,
violenza e frode. In
ogni caso nella concezione politica del Rinascimento
la religione era
il consenso e la Chiesa era la Società civile,
l'apparato di egemonia
del gruppo dirigente, che non aveva un apparato
proprio, cioè non aveva
una propria organizzazione culturale e intellettuale,
ma sentiva come
tale l'organizzazione ecclesiastica universale. Non si
è fuori del
Medio Evo che per il fatto che apertamente si
concepisce e si analizza
la religione come «instrumentum regni».
Da
questo punto di vista è da studiare l'iniziativa
giacobina
dell'istituzione del culto dell'«Ente supremo», che
appare pertanto
come un tentativo di creare identità tra Stato e
società civile, di
unificare dittatorialmente gli elementi costitutivi
dello Stato in
senso organico e piú largo (Stato propriamente detto e
società civile)
in una disperata ricerca di stringere in pugno tutta
la vita popolare e
nazionale, ma appare anche come la prima radice dello
Stato moderno
laico, indipendente dalla Chiesa, che cerca e trova in
se stesso, nella
sua vita complessa, tutti gli elementi della sua
personalità storica.
Nel
libro di Clemenceau, Grandeurs et misères d'une
victoire, Plon,
1930, nel capitolo «Les critiques de l'escalier» sono
contenute alcune
delle osservazioni generali da me fatte nella nota
sull'articolo di
Paolo Treves, Il realismo politico di
Guicciardini: per es.
la distinzione tra politici e diplomatici. I
diplomatici sono stati
formati (dressés) per l'esecuzione, non per
l'iniziativa, dice
Clemenceau, ecc. Il capitolo è tutto di polemica
contro Poincaré che
aveva rimproverato il non impiego dei diplomatici
nella preparazione
dei trattato di Versailles. Clemenceau, da puro uomo
d'azione, da puro
politico, è estremamente sarcastico contro Poincaré,
il suo spirito
avvocatesco, le sue illusioni che si possa creare la
storia coi
cavilli, coi sotterfugi, con le abilità formali, ecc.
«La diplomatie est instituée [plutôt] pour
le maintien des
inconciliables que pour l'innovation des imprévus.
Dans le mot
"diplomate" il y a la racine double, au sens
de plier». (È
vero però che questo concetto di doppio non si
riferisce ai
«diplomatici» ma ai «diplomi» che i diplomatici
conservavano e aveva un
significato materiale, di foglio piegato).
*
Teoria
e pratica. Riletta la famosa dedica del Bandello a
Giovanni delle Bande
Nere dove si parla del Machiavelli e dei suoi
tentativi inutili per
ordinare secondo le sue teorie dell'arte della guerra
una moltitudine
di soldati in campo, mentre Giovanni delle Bande Nere
«in un batter
d'occhio con l'aita dei tamburini» ordinò «quella
gente in vari modi e
forme, con ammirazione grandissima di chi vi si
ritrovò». Appare chiaro
che né in Bandello e neanche in Giovanni vi fu alcun
proposito di
«sfottere» il Machiavelli per la sua incapacità, e che
lo stesso
Machiavelli non se l'ebbe a male. L'impiego di questo
aneddoto per
trarre conseguenze sull'astrattezza del Machiavelli è
un non senso e
dimostra che non si capisce la sua portata esatta. Il
Machiavelli non
era un militare di professione, ecco tutto; cioè non
sapeva il
«linguaggio» degli ordini e dei segnali militari
(trombe, tamburi
ecc.). D'altronde prima che un complesso di soldati,
graduati,
sottufficiali, ufficiali, abbia preso l'abitudine a
evolvere in un
certo senso, ci vuole molto tempo. Un ordinamento
teorico delle milizie
può essere ottimo in tutto, ma per essere applicato
deve diventare
«regolamento», disposizioni d'esercizio, ecc.,
«linguaggio» subito
capito e quasi automaticamente attuato. Si sa che
molti legislatori di
primo ordine non sanno compilare i «regolamenti»
burocratici e
organizzare gli uffici e selezionare il personale atto
ad applicare le
leggi, ecc. Si può dire dunque solo questo del
Machiavelli, che fu
troppo corrivo ad improvvisarsi «tamburino».
La
quistione è tuttavia importante: non si può scindere
l'amministratore-funzionario dal legislatore,
l'organizzatore dal
dirigente, ecc. Ma ciò non si è attuato neanche oggi e
la «divisione
del lavoro» supplisce non solo all'incapacità
relativa, ma integra
«economicamente» l'attività principale del grande
stratega, del
legislatore, del capo politico, che si fanno aiutare
da specialisti in
compilare «regolamenti», «istruzioni», «ordinamenti
pratici», ecc.
*
Machiavelli
ed Emanuele Filiberto. Un articolo della «Civiltà
Cattolica» del
15 dicembre 1928 (Emanuele Filiberto di Savoia nel IV
Centenario della
nascita) si inizia cosí: «La coincidenza della morte
del Machiavelli
con la nascita di Emanuele Filiberto, non è senza
ammaestramento. È
piena di alto significato l'antitesi rappresentata dai
due personaggi,
l'uno dei quali scompare dalla scena del mondo,
amareggiato e deluso,
mentre l'altro sta per affacciarsi alla vita, ancora
circondata di
mistero, in quegli anni appunto che possiamo
considerare come la linea
di distacco tra l'età del Rinascimento e la Riforma
cattolica.
Machiavelli ed Emanuele Filiberto: chi può meglio
personificare i due
volti diversi, le due correnti opposte che si
contendono il dominio del
secolo XVI? Avrebbe mai immaginato il Segretario
Fiorentino che proprio
quel secolo, al quale aveva auspicato un Principe, in
sostanza, pagano
nel pensiero e nell'opera, avrebbe invece veduto il
monarca che piú si
avvicinò all'ideale del perfetto principe cristiano?».
Le
cose sono molto diverse da quelle che paiono allo
scrittore della
«Civiltà Cattolica», ed Emanuele Filiberto continua e
realizza
Machiavelli piú di quanto non possa sembrare per
esempio
nell'ordinamento delle milizie nazionali. D'altronde,
Emanuele
Filiberto per altre cose poteva richiamarsi al
Machiavelli; egli non
rifuggiva anche dal far sopprimere con la violenza e
con la frode i
suoi nemici.
Questo articolo della
«Civiltà Cattolica» interessa per i rapporti tra
Emanuele
Filiberto e i gesuiti e per la parte presa da questi
nella lotta contro
i Valdesi.
Su
Emanuele Filiberto, è interessante, scritto con
serietà (non
agiografico) l'articolo di Pietro Egidi nella «Nuova
Antologia» del 16
aprile 1928, Emanuele Filiberto di Savoia. Le
capacità militari di
Emanuele Filiberto sono delineate con perspicuità:
Emanuele Filiberto
segna il passaggio dalla strategia degli eserciti di
ventura alla nuova
strategia che troverà poi i suoi rappresentanti in
Federico II e in
Napoleone: la grande guerra di movimento per
obbiettivi capitali e
decisivi. A Cateau Cambrésis riesce a riottenere, per
l'aiuto della
Spagna, il suo Stato, ma nel trattato è stabilita la
«neutralità» del
Piemonte, cioè è stabilita l'indipendenza sia da
Francia che da Spagna
(l'Egidi sostiene che sia stato Emanuele Filiberto a
suggerire ai
francesi di domandare questa neutralità, per essere in
grado di
sfuggire alla soggezione spagnola, ma si tratta di
ipotesi: in questo
caso gli interessi della Francia e quelli del Piemonte
coincidevano
perfettamente): cosí si inizia la politica estera
moderna dei Savoia di
equilibrio tra le due potenze principali dell'Europa.
Ma dopo questa
pace il Piemonte perde già da allora irreparabilmente
alcune terre:
Ginevra e le terre intorno al lago di Ginevra.
In
una storia bisognerebbe almeno accennare alle varie
fasi territoriali
attraversate dal Piemonte, da prevalentemente francese
a
franco-piemontese, a italiano. (Emanuele Filiberto fu
fondamentalmente
un generale della Controriforma).
L'Egidi
delinea abbastanza perspicuamente anche la politica
estera di Emanuele
Filiberto, ma non dà che cenni insufficienti sulla
politica interna e
specialmente militare, e i pochi cenni sono legati a
quei fatti di
politica interna che dipendevano strettamente
dall'estero, cioè
dall'unificazione territoriale dello Stato per le
retrocessioni delle
terre ancora occupate da francesi e spagnoli dopo
Cateau Cambrésis o
dagli accordi coi Cantoni Svizzeri per riacquistare
qualche elemento
delle terre perdute. (Per lo studio su Machiavelli
studiare
specialmente gli ordinamenti militari di Emanuele
Filiberto e la sua
politica interna per rispetto all'equilibrio di classi
su cui si fondò
il principato assoluto dei Savoia).
*
Lo
Stato. Il prof. Giulio Miskolczy, direttore
dell'Accademia ungherese di
Roma, nella «Magyar Szemle» (articolo riportato nella
«Rassegna della
Stampa Estera» del 3-10 gennaio 1933) scrive che in
Italia il
«Parlamento, che prima era, per cosí dire, fuori dello
Stato, è rimasto
un collaboratore prezioso, ma è stato inserito nello
Stato ed ha subito
un cambiamento essenziale nella sua composizione
ecc.». Che il
Parlamento possa essere «inserito» nello Stato è una
scoperta di
scienza e di tecnica politica degna dei Cristoforo
Colombo del
forcaiolismo moderno. Tuttavia l'affermazione è
interessante, per
vedere come concepiscono lo Stato praticamente molti
uomini politici. E
in realtà è da porsi la domanda: i Parlamenti fanno
parte della
struttura degli Stati, anche nei paesi dove pare che i
Parlamenti
abbiano il massimo di efficienza, oppure che funzione
reale hanno? E in
che modo, se la risposta è positiva, essi fanno parte
dello Stato, e in
che modo esplicano la loro funzione particolare?
Tuttavia: l'esistenza
dei Parlamenti, anche se essi organicamente non fanno
parte dello
Stato, è senza significato statale? E quale fondamento
hanno le accuse
che si fanno al parlamentarismo e al regime dei
partiti, che è
inseparabile dal parlamentarismo? (fondamento
obbiettivo, s'intende,
cioè legato al fatto che l'esistenza dei Parlamenti,
di per sé,
ostacola e ritarda l'azione tecnica del
governo). Che il
regime rappresentativo possa politicamente «dar noia»
alla burocrazia
di carriera s'intende; ma non è questo il punto. Il
punto è se [il]
regime rappresentativo e dei partiti invece di essere
un meccanismo
idoneo a scegliere funzionari eletti che integrino ed
equilibrino i
burocratici nominati, per impedire [ad essi] di
pietrificarsi, sia
divenuto un inciampo e un meccanismo a rovescio e per
quali ragioni.
Del resto, anche una risposta affermativa a queste
domande non
esaurisce la quistione: perché anche ammesso (ciò che
è da ammettere)
che il parlamentarismo è divenuto inefficiente e anzi
dannoso, non è da
concludere che il regime burocratico sia riabilitato
ed esaltato. È da
vedere se parlamentarismo e regime rappresentativo si
identificano e se
non sia possibile una diversa soluzione sia del
parlamentarismo che del
regime burocratico, con un nuovo tipo di regime
rappresentativo.
*
I
limiti dell'attività dello Stato. Vedere la
discussione avvenuta in
questi anni a questo proposito: è la discussione piú
importante di
dottrina politica e serve a segnare i confini tra
liberali e non
liberali. Può servire di punto di riferimento il
volumetto di Carlo
Alberto Biggini, Il fondamento dei limiti
all'attività dello
Stato, Città di Castello, Casa ed. «Il Solco», pp.
150, L. 10.
L'affermazione del Biggini che si ha tirannia solo se
si vuol regnare
fuor «delle regole costitutive della struttura
sociale» può avere
ampliamenti ben diversi da quelli che il Biggini
suppone, purché per
«regole costitutive» non si intendano gli articoli
delle Costituzioni,
come pare non intenda neanche il Biggini (prendo lo
spunto da una
recensione dell'ICS dell'ottobre 1929 scritta da
Alfredo Poggi). (In
quanto lo Stato è la stessa società ordinata, è
sovrano. Non può avere
limite giuridico: non può avere limite nei diritti
pubblici soggettivi,
né può dirsi che si autolimiti. Il diritto positivo
non può essere
limite allo Stato perché può essere dallo Stato ad
ogni momento
modificato in nome di nuove esigenze sociali, ecc.).
A
questo risponde il Poggi che sta bene e che ciò è già
implicito nella
dottrina del limite giuridico cioè finché un
ordinamento
giuridico è, lo Stato vi è costretto; se lo vuol
modificare, lo
sostituirà con un altro ordinamento, cioè lo Stato non
può agire che
[per] via giuridica (ma siccome tutto ciò che fa lo
Stato, è per ciò
stesso giuridico, si può continuare all'infinito).
Veder quanto delle
concezioni del Biggini è marxismo camuffato e reso
astratto.
Per
lo svolgimento storico di queste due concezioni dello
Stato mi pare
debba essere interessante il libretto di Widar
Cesarini Sforza,
«Jus» et «directum». Note sull'origine
storica dell'idea di
diritto, in 8°, pp. 90, Bologna, Stab. tipogr.
riuniti, 1930. I romani
foggiarono la parola jus per esprimere il
diritto come potere
della volontà e intesero l'ordine giuridico come un
sistema di poteri
non contenuti nella loro sfera reciproca da norme
oggettive e
razionali: tutte le espressioni da essi usate
di aequitas, Justitia, recta o naturalis
ratio devono
intendersi nei limiti di questo significato
fondamentale. Il Cristianesimo piú che il concetto
di jus ha
elaborato il concetto di directum nella sua
tendenza a
subordinare la volontà alla norma, a trasformare il
potere in dovere.
Il concetto di diritto come potenza è riferito solo a
Dio, la cui
volontà diventa norma di condotta inspirata al
principio
dell'eguaglianza. La Justitia non si
distingue
ormai dall'aequitas ed entrambe implicano
la rectitudo che è qualità soggettiva del
volere di
conformarsi a ciò che è retto e giusto. Traggo questi
spunti da una
recensione (nel «Leonardo» dell'agosto 1930) di G.
Solari che fa rapide
obbiezioni al Cesarini Sforza.
*
Stato
e società regolata. Nelle nuove tendenze «giuridiche»
rappresentate
specialmente dai «Nuovi Studi» del Volpicelli e dello
Spirito è da
notare, come spunto critico iniziale, la confusione
tra il concetto di
Stato-classe e il concetto di società regolata. Questa
confusione è
specialmente notevole nella memoria La libertà
economica svolta dallo Spirito nella XIX Riunione
della Società
per il progresso delle Scienze tenuta a Bolzano nel
settembre 1930 e
stampata nei «Nuovi Studi» del settembre-ottobre 1930.
Finché esiste lo
Stato-classe non può esistere la società regolata,
altro che per
metafora, cioè solo nel senso che anche lo
Stato-classe è una società
regolata. Gli utopisti, in quanto esprimevano una
critica della società
esistente al loro tempo, comprendevano benissimo che
lo Stato-classe
non poteva essere la società regolata, tanto vero che
nei tipi di
società rappresentati dalle diverse utopie,
s'introduce l'uguaglianza
economica come base necessaria della riforma
progettata: ora in questo
gli utopisti non erano utopisti, ma concreti
scienziati della politica
e critici congruenti. Il carattere utopistico di
alcuni di essi era
dato dal fatto che ritenevano si potesse introdurre la
uguaglianza
economica con leggi arbitrarie, con un atto di
volontà, ecc. Rimane
però esatto il concetto, che si trova anche in altri
scrittori di
politica (anche di destra, cioè nei critici della
democrazia, in quanto
essa si serve del modello svizzero o danese per
ritenere il sistema
ragionevole in tutti i paesi) che non può esistere
eguaglianza politica
completa e perfetta senza eguaglianza economica: negli
scrittori del
Seicento questo concetto si ritrova, per esempio, in
Ludovico Zuccolo e
nel suo libro Il Belluzzi e credo anche in
Machiavelli. Il
Maurras ritiene che in Svizzera sia possibile quella
certa forma di
democrazia, appunto perché c'è una certa mediocrità
delle fortune
economiche, ecc.
La confusione di
Stato-classe e Società regolata è propria delle classi
medie e dei
piccoli intellettuali, che sarebbero lieti di una
qualsiasi
regolarizzazione che impedisse le lotte acute e le
catastrofi: è
concezione tipicamente reazionaria e regressiva.
*
Stato
etico o di cultura. Mi pare che ciò che di piú sensato
e concreto si
possa dire a proposito dello Stato etico e di cultura
è questo: ogni
Stato è etico in quanto una delle sue funzioni piú
importanti è quella
di elevare la grande massa della popolazione a un
determinato livello
culturale e morale, livello (o tipo) che corrisponde
alle necessità di
sviluppo delle forze produttive e quindi agli
interessi delle classi
dominanti. La scuola come funzione educativa positiva
e i tribunali
come funzione educativa repressiva e negativa sono le
attività statali
piú importanti in tal senso: ma in realtà alfine
tendono una
molteplicità di altre iniziative e attività cosidette
private che
formano l'apparato dell'egemonia politica e culturale
delle classi
dominanti. La concezione di Hegel è propria di un
periodo in cui lo
sviluppo in estensione della borghesia poteva apparire
illimitato,
quindi l'eticità o universalità di essa poteva essere
affermata: tutto
il genere umano sarà borghese. Ma in realtà solo il
gruppo sociale che
pone la fine dello Stato e di se stesso come fine da
raggiungere, può
creare uno Stato etico, tendente a porre fine alle
divisioni interne di
dominati ecc. e a creare un organismo sociale unitario
tecnico-morale.
*
Hegel
e l'associazionismo. La dottrina di Hegel sui
partiti e le
associazioni come trama «privata» dello Stato. Essa
derivò storicamente
dalle esperienze politiche della Rivoluzione francese
e doveva servire
a dare una maggiore concretezza al costituzionalismo.
Governo col
consenso dei governati, ma col consenso organizzato,
non generico e
vago quale si afferma nell'istante delle elezioni: lo
Stato ha e
domanda il consenso, ma anche «educa» questo consenso
con le
associazioni politiche e sindacali, che però sono
organismi privati,
lasciati all'iniziativa privata della classe
dirigente. Hegel, in un
certo senso, supera già, cosí, il puro
costituzionalismo e teorizza lo
Stato parlamentare col suo regime dei partiti. La sua
concezione
dell'associazione non può essere che ancora vaga e
primitiva, tra il
politico e l'economico, secondo l'esperienza storica
del tempo, che era
molto ristretta e dava un solo esempio compiuto di
organizzazione,
quello «corporativo» (politica innestata
nell'economia).
Marx
non poteva avere esperienze storiche superiori a
quelle di Hegel
(almeno molto superiori), ma aveva il senso delle
masse, per la sua
attività giornalistica e agitatoria. Il concetto di
Marx
dell'organizzazione rimane ancora impigliato tra
questi elementi:
organizzazione di mestiere, clubs giacobini,
cospirazioni segrete di
piccoli gruppi, organizzazione giornalistica. La
Rivoluzione francese
offre due tipi prevalenti: i clubs, che sono
organizzazioni non
rigide, tipo «comizio popolare», centralizzate da
singole individualità
politiche, ognuna delle quali ha il suo giornale, con
cui tiene desta
l'attenzione e l'interesse di una determinata
clientela sfumata ai
margini, che poi sostiene le tesi del giornale nelle
riunioni del club.
È certo che in mezzo agli assidui dei clubs dovevano
esistere
aggruppamenti ristretti e selezionati di gente che si
conosceva
reciprocamente, che si riuniva a parte e preparava
l'atmosfera delle
riunioni per sostenere l'una o l'altra corrente
secondo i momenti e
anche secondo gli interessi concreti in gioco. Le
cospirazioni segrete,
che poi ebbero tanta diffusione in Italia prima del
'48, dovettero
svilupparsi dopo il Termidoro in Francia, tra i
seguaci di seconda
linea del giacobinismo, con molte difficoltà nel
periodo napoleonico
per l'occhiuto controllo della polizia, con piú
facilità dal '15 al '30
sotto la Restaurazione, che fu abbastanza liberale
alla base e non
aveva certe preoccupazioni. In questo periodo dal '15
al '30 dovette
avvenire la differenziazione del campo politico
popolare, che appare
già notevole nelle «gloriose giornate» del 1830, in
cui affiorano le
formazioni venutesi costituendo nel quindicennio
precedente. Dopo il
'30 e fino al '48 questo processo di differenziazione
si perfeziona e
dà dei tipi abbastanza compiuti con Blanqui e con
Filippo Buonarroti.
È
difficile che Hegel potesse conoscere da vicino queste
esperienze
storiche, che invece erano piú vivaci in Marx (su
questa serie di fatti
vedere come primo materiale le pubblicazioni di Paul
Louis e il
Dizionario politico di Maurice Block; per la
Rivoluzione francese
specialmente Aulard; vedere anche le note dell'Andler
al Manifesto; per l'Italia il libro del Luzio
sulla Massoneria e
il Risorgimento, molto tendenzioso).
*
Lo
Stato e la concezione del diritto. La rivoluzione
portata dalla classe
borghese nella concezione del diritto e quindi nella
funzione dello
Stato consiste specialmente nella volontà di
conformismo (quindi
eticità del diritto e dello Stato). Le classi
dominanti precedenti
erano essenzialmente conservatrici nel senso che non
tendevano ad
elaborare un passaggio organico dalle altre classi
alla loro, ad
allargare cioè la loro sfera di classe «tecnicamente»
e
ideologicamente: la concezione di casta chiusa. La
classe borghese pone
se stessa come un organismo in continuo movimento,
capace di assorbire
tutta la società, assimilandola al suo livello
culturale ed economico:
tutta la funzione dello Stato è trasformata: lo Stato
diventa
«educatore», ecc. Come avvenga un arresto e si ritorni
alla concezione
dello Stato come pura forza ecc. La classe borghese è
«saturata»: non
solo non si diffonde, ma si disgrega; non solo non
assimila nuovi
elementi, ma disassimila una parte di se stessa (o
almeno le
disassimilazioni sono enormemente piú numerose delle
assimilazioni).
Una classe che ponga se stessa come passibile di
assimilare tutta la
società, e sia nello stesso tempo realmente capace di
esprimere questo
processo, porta alla perfezione questa concezione
dello Stato e del
diritto, tanto da concepire la fine dello Stato e del
diritto come
diventati inutili per aver esaurito il loro compito ed
essere stati
assorbiti dalla società civile.
*
Concetto
di Stato. Che il concetto comune di Stato sia
unilaterale e conduca a
errori madornali si può dimostrare parlando del
recente libro di
Daniele HalévyDecadenza della libertà di cui ho
letto una
recensione nelle «Nouvelles Littéraires». Per Halévy
«Stato» è
l'apparato rappresentativo ed egli scopre che i fatti
piú importanti
della storia francese dal '70 ad oggi non sono dovuti
ad iniziative
degli organismi politici derivanti dal suffragio
universale, ma o da
organismi privati (società capitalistiche, Stato
maggiore, ecc.) o da
grandi funzionari sconosciuti al paese, ecc. Ma cosa
significa ciò se
non che per Stato deve intendersi oltre all'apparato
governativo anche
l'apparato «privato» di egemonia o società civile. È
da notare come da
questa critica dello «Stato» che non interviene, che è
alla coda degli
avvenimenti, ecc., nasce la corrente ideologica
dittatoriale di destra,
col suo rafforzamento dell'esecutivo, ecc.
Bisognerebbe però leggere il
libro dell'Halévy per vedere se anch'egli è entrato in
questa via: non
è difficile in linea di principio, dati i suoi
precedenti (simpatie
soreliane, per Maurras, ecc.).
Curzio
Malaparte nell'introduzione al suo volumetto
sulla Tecnica del
colpo di Stato pare affermi l'equivalenza della
formula: «Tutto
nello Stato, nulla fuori dello Stato, nulla contro lo
Stato» con la
proposizione: «dove c'è la libertà non c'è lo Stato».
In questa
proposizione il termine «libertà» non è inteso nel
significato comune
di «libertà politica, ossia di stampa ecc.», ma come
contrapposto a
«necessità» ed è in relazione alla proposizione di
Engels sul passaggio
dal regno della necessità al regno della libertà. Il
Malaparte non ha
neanche annasato il significato della proposizione.
*
Lo
Stato «veilleur de nuit». Nella polemica
(del resto
superficiale) sulle funzioni dello Stato (e si intende
dello Stato come
organizzazione politico-giuridica in senso stretto)
l'espressione di
«Stato - veilleur de nuit» corrisponde
all'italiano di «Stato
carabiniere» e vorrebbe significare uno Stato le cui
funzioni sono
limitate alla tutela dell'ordine pubblico e del
rispetto delle leggi.
Non si insiste sul fatto che in questa forma di regime
(che poi non è
mai esistito altro che, come ipotesi-limite, sulla
carta) la direzione
dello sviluppo storico appartiene alle forze private,
alla società
civile, che è anch'essa «Stato», anzi è lo Stato
stesso. Pare che
l'espressione «veilleur de nuit», che dovrebbe avere
un valore piú
sarcastico di «Stato carabiniere» o di «Stato
poliziotto», sia di
Lassalle. Il suo opposto dovrebbe essere lo «Stato
etico» o lo «Stato
intervenzionista» in generale, ma ci sono differenze
tra una e l'altra
espressione: il concetto di Stato etico è di origine
filosofica e
intellettuale (propria degli intellettuali: Hegel) e
in verità potrebbe
essere congiunta con quello di «Stato - veilleur
de nuit», poiché
si riferisce piuttosto all'attività, autonoma,
educativa e morale dello
Stato laico in contrapposto al cosmopolitismo e
all'ingerenza
dell'organizzazione religioso-ecclesiastica come
residuo medioevale; il
concetto di Stato intervenzionista è di origine
economica ed è
connesso, da una parte, alle correnti protezionistiche
o di
nazionalismo economico e, dall'altra, al tentativo di
far assumere a un
personale statale determinato, di origine terriera e
feudale, la
«protezione» delle classi lavoratrici contro gli
eccessi del
capitalismo (politica di Bismarck e Disraeli). Queste
diverse tendenze
possono combinarsi in vario modo e di fatto si sono
combinate.
Naturalmente i liberali «economisti» sono per lo
«Stato - veilleur
de nuit» e vorrebbero che l'iniziativa storica fosse
lasciata alla
società civile e alle diverse forze che vi pullulano
con lo «Stato»
guardiano della «lealtà del gioco» e delle leggi di
esso: gli
intellettuali fanno distinzioni molto importanti
quando sono liberali e
anche quando sono intervenzionisti (possono essere
liberali nel campo
economico e intervenzionisti in quello culturale,
ecc.).
I
cattolici vorrebbero lo Stato intervenzionista in loro
completo favore;
in mancanza di ciò, o dove sono minoranza, domandano
lo Stato
«indifferente», perché non sostenga i loro avversari.
*
Stato
gendarme-guardiano notturno, ecc. È da meditare questo
argomento: la
concezione dello Stato gendarme - guardiano notturno,
ecc. (a parte la
specificazione di carattere polemico: gendarme,
guardiano notturno,
ecc.) non è poi la concezione dello Stato che sola
superi le estreme
fasi «corporative-economiche»? Siamo sempre nel
terreno della
identificazione di Stato e Governo, identificazione
che appunto è un
ripresentarsi della forma corporativa-economica, cioè
della confusione
tra società civile e società politica, poiché è da
notare che nella
nozione generale di Stato entrano elementi che sono da
riportare alla
nozione di società civile (nel senso, si potrebbe
dire, che Stato =
società politica + società civile, cioè egemonia
corazzata di
coercizione). In una dottrina dello Stato che
concepisca questo come
passibile tendenzialmente di esaurimento e di
risoluzione nella società
regolata, l'argomento è fondamentale. L'elemento
Stato-coercizione si
può immaginare esaurentesi mano a mano che si
affermano elementi sempre
piú cospicui di società regolata (o Stato etico o
società civile). Le
espressioni di Stato etico o di società civile
verrebbero a significare
che quest'«immagine» di Stato senza Stato era presente
ai maggiori
scienziati della politica e del diritto in quanto si
ponevano nel
terreno della pura scienza (= pura utopia, in quanto
basata sul
presupposto che tutti gli uomini sono realmente uguali
e quindi
ugualmente ragionevoli e morali, cioè passibili di
accettare la legge
spontaneamente, liberamente e non per coercizione,
come imposta da
altra classe, come cosa esterna alla coscienza).
Occorre ricordare che
l'espressione di guardiano notturno per lo Stato
liberale è di
Lassalle, cioè di uno statalista dogmatico e non
dialettico. (Cfr. bene
la dottrina di Lassalle su questo punto e sullo Stato
in generale, in
contrasto col marxismo). Nella dottrina dello Stato →
società regolata,
da una fase in cui Stato sarà uguale Governo, e Stato
si identificherà
con società civile, si dovrà passare a una fase di
Stato-guardiano
notturno, cioè di una organizzazione coercitiva che
tutelerà lo
sviluppo degli elementi di società regolata in
continuo incremento, e
pertanto riducente gradatamente i suoi interventi
autoritari e
coattivi. Né ciò può far pensare a un nuovo
«liberalismo», sebbene sia
per essere l'inizio di un'era di libertà organica.
*
Fase
economica-corporativa dello Stato. Se è vero che
nessun tipo di Stato
non può non attraversare una fase di primitivismo
economico-corporativa, se ne deduce che il contenuto
dell'egemonia
politica del nuovo gruppo sociale che ha fondato il
nuovo tipo di Stato
deve essere prevalentemente di ordine economico: si
tratta di
riorganizzare la struttura e i rapporti reali tra gli
uomini e il mondo
economico o della produzione. Gli elementi di
superstruttura non
possono che essere scarsi e il loro carattere sarà di
previsione e di
lotta, ma con elementi «di piano» ancora scarsi: il
piano culturale
sarà soprattutto negativo, di critica del passato,
tenderà a far
dimenticare e a distruggere: le linee della
costruzione saranno ancora
«grandi linee», abbozzi, che potrebbero (e dovrebbero)
essere cambiate
in ogni momento, perché siano coerenti con la nuova
struttura in
formazione. Ciò appunto non si verifica nel periodo
dei Comuni; anzi la
cultura, che rimane funzione della Chiesa, è proprio
di carattere
antieconomico (dell'economia capitalistica nascente),
non è indirizzata
a dare l'egemonia alla nuova classe, ma anzi a
impedire che questa
l'acquisti: l'Umanesimo e il Rinascimento perciò sono
reazionari,
perché segnano la sconfitta della nuova classe, la
negazione del mondo
economico che le è proprio ecc.
1)
Altro elemento da esaminare è quello dei rapporti
organici tra la
politica interna e la politica estera di uno Stato. È
la politica
interna che determina quella estera o viceversa? Anche
in questo caso
occorrerà distinguere: tra grandi potenze, con
relativa autonomia
internazionale, e altre potenze, e ancora tra diverse
forme di governo
(un governo come quello di Napoleone III aveva due
politiche,
apparentemente, reazionaria all'interno e liberale
all'estero).
2)
Condizioni di uno Stato prima e dopo una guerra. È
evidente che
contano, in una alleanza, le condizioni in cui uno
Stato si trova al
momento della pace. Può avvenire perciò che chi ha
avuto l'egemonia
durante la guerra, finisca col perderla per
l'indebolimento subito
nella lotta e debba vedere un «subalterno» che è stato
piú abile o piú
«fortunato» diventare egemone. Ciò si verifica nelle
«guerre mondiali»
quando la situazione geografica costringe uno Stato a
gettare tutte le
sue risorse nel crogiolo: vince per le alleanze, ma la
vittoria lo
trova prostrato ecc. Ecco perché nel concetto di
«grande potenza»
occorre tener conto di molti elementi e specialmente
di quelli
«permanenti», cioè specialmente «potenzialità
economica e finanziaria»
e popolazione.
*
Organizzazione
delle società nazionali. Ho notato altra volta che in
una determinata
società nessuno è disorganizzato e senza partito,
purché si intendano
organizzazione e partito in senso largo e non formale.
In questa
molteplicità di società particolari, di carattere
duplice, naturale e
contrattuale o volontario, una o piú prevalgono
relativamente o
assolutamente, costituendo l'apparato egemonico di un
gruppo sociale
sul resto della popolazione (o società civile), base
dello Stato inteso
strettamente come apparato governativo-coercitivo.
Avviene
sempre che le singole persone appartengano a piú di
una società
particolare e spesso a società che essenzialmente sono
in contrasto fra
loro. Una politica totalitaria tende appunto: 1) a
ottenere che i
membri di un determinato partito trovino in questo
solo partito tutte
le soddisfazioni che prima trovavano in una
molteplicità di
organizzazioni, cioè a rompere tutti i fili che legano
questi membri ad
organismi culturali estranei; 2) a distruggere tutte
le altre
organizzazioni o a incorporarle in un sistema di cui
il partito sia il
solo regolatore. Ciò avviene: 1) quando il partito
dato è portatore di
una nuova cultura e si ha una fase progressiva; 2)
quando il partito
dato vuole impedire che un'altra forza, portatrice di
una nuova
cultura, diventi essa «totalitaria»; e si ha una fase
regressiva e
reazionaria oggettivamente, anche se la reazione (come
sempre avviene)
non confessi se stessa e cerchi di sembrare essa
portatrice di una
nuova cultura.
Luigi
Einaudi, nella «Riforma Sociale» del maggio-giugno
1931, recensisce un
volume francese Les sociétés de la
nation. Étude sur les
éléments constitutifs de la nation française, di
Etienne Martin -
Saint-Léon (vol. di pp. 413, Ed. Spes, 17, rue
Soufflot, Parigi, 1930,
frs. 45) dove una parte di queste organizzazioni sono
studiate, ma solo
quelle che esistono formalmente. (Per es., i lettori
di un giornale
formano o no una organizzazione?, ecc.). In ogni modo,
se l'argomento
fosse trattato, vedere il libro e anche la recensione
dell'Einaudi.
*
I
costumi e le leggi. È opinione molto diffusa e anzi è
opinione ritenuta
realistica e intelligente che le leggi devono essere
precedute dal
costume, che la legge è efficace solo in quanto
sanziona i costumi.
Questa opinione è contro la storia reale dello
sviluppo del diritto,
che ha domandato sempre una lotta per affermarsi e che
in realtà è
lotta per la creazione di un nuovo costume.
Nell'opinione su citata
esiste un residuo molto appariscente di moralismo
intruso nella
politica.
Si suppone che il diritto sia
espressione integrale dell'intera società, ciò che è
falso: invece
espressione piú aderente della società sono quelle
regole di condotta
che i giuristi chiamano «giuridicamente indifferenti»
e la cui zona
cambia coi tempi e con l'estensione dell'intervento
statale nella vita
dei cittadini. Il diritto non esprime tutta la società
(per cui i
violatori del diritto sarebbero esseri antisociali per
natura, o
minorati psichici), ma la classe dirigente, che
«impone» a tutta la
società quelle norme di condotta che sono piú legate
alla sua ragion
d'essere e al suo sviluppo. La funzione massima del
diritto è questa:
di presupporre che tutti i cittadini devono accettare
liberamente il
conformismo segnato dal diritto, in quanto tutti
possono diventare
elementi della classe dirigente; nel diritto moderno
cioè è implicita
l'utopia democratica del secolo XVIII.
Qualche
cosa di vero tuttavia esiste nell'opinione che il
costume deve
precedere il diritto: infatti nelle rivoluzioni contro
gli Stati
assoluti, esisteva già come costume e come aspirazione
una gran parte
di ciò che poi divenne diritto obbligatorio: è con il
nascere e lo
svilupparsi delle disuguaglianze che il carattere
obbligatorio del
diritto andò aumentando, cosí come andò aumentando la
zona
dell'intervento statale e dell'obbligazionismo
giuridico. Ma in questa
seconda fase, pur affermando che il conformismo deve
essere libero e
spontaneo, si tratta di ben altro: si tratta di
reprimere e soffocare
un diritto nascente e non di conformare.
L'argomento
rientra in quello piú generale della diversa posizione
che hanno avuto
le classi subalterne prima di diventare dominanti.
Certe classi
subalterne devono avere un lungo periodo di intervento
giuridico
rigoroso e poi attenuato, a differenza di altre; c'è
differenza anche
nei modi: in certe classi l'espansività non cessa mai,
fino
all'assorbimento completo della società; in altre, al
primo periodo di
espansione succede un periodo di repressione. Questo
carattere
educativo, creativo, formativo del diritto è stato
messo poco in luce
da certe correnti intellettuali: si tratta di un
residuo dello
spontaneismo, del razionalismo astratto che si basa su
un concetto
della «natura umana» astrattamente ottimistico e
facilone. Un altro
problema si pone per queste correnti: quale deve
essere l'organo
legislativo «in senso lato», cioè la necessità di
portare le
discussioni legislative in tutti gli organismi di
massa: una
trasformazione organica del concetto di «referendum»,
pur mantenendo al
governo la funzione di ultima istanza legislativa.
*
Chi
è legislatore? Il concetto di «legislatore» non
può non
identificarsi col concetto di «politico». Poiché tutti
sono «uomini
politici» tutti sono anche «legislatori». Ma occorrerà
fare delle
distinzioni. «Legislatore» ha un preciso significato
giuridico-statale,
cioè significa quelle persone che sono abilitate dalle
leggi a
legiferare. Ma può avere anche altri significati. Ogni
uomo, in quanto
è attivo, cioè vivente, contribuisce a modificare
l'ambiente sociale in
cui si sviluppa (a modificarne determinati caratteri o
a conservarne
altri), cioè tende a stabilire «norme», regole di vita
e di condotta.
La cerchia di attività sarà maggiore o minore, la
consapevolezza della
propria azione e dei fini sarà maggiore o minore;
inoltre, il potere
rappresentativo sarà maggiore o minore, e sarà piú o
meno attuato dai
«rappresentati» nella sua espressione sistematica
normativa. Un padre è
un legislatore per i figli, ma l'autorità paterna sarà
piú o meno
consapevole e piú o meno obbedita e cosí via. In
generale si può dire
che tra la comune degli uomini e altri uomini piú
specificatamente
legislatori la distinzione è data dal fatto che questo
secondo gruppo
non solo elabora direttive che dovrebbero diventare
norma di condotta
per gli altri, ma nello stesso tempo elabora gli
strumenti attraverso i
quali le direttive stesse saranno «imposte» e se ne
verificherà
l'esecuzione. Di questo secondo gruppo il massimo di
potere legislativo
è nel personale statale (funzionari elettivi e di
carriera) che hanno a
loro disposizione le forze coercitive legali dello
Stato. Ma non è
detto che anche i dirigenti di organismi e
organizzazioni «private» non
abbiano sanzioni coercitive a loro disposizione, fino
anche alla pena
di morte. Il massimo di capacità del legislatore si
può desumere dal
fatto che alla perfetta elaborazione delle direttive
corrisponde una
perfetta predisposizione degli organismi di esecuzione
e di verifica e
una perfetta preparazione del consenso «spontaneo»
delle masse che
devono «vivere» quelle direttive, modificando le
proprie abitudini, la
propria volontà, le proprie convinzioni conformemente
a queste
direttive e ai fini che esse si propongono di
raggiungere.
Se
ognuno è legislatore nel senso piú largo del concetto,
ognuno continua
ad essere legislatore anche se accetta direttive di
altri, ed
eseguendole controlla che anche gli altri le eseguano,
avendole
comprese nel loro spirito, le divulga, quasi facendone
dei regolamenti
di applicazione particolare a zone di vita ristretta e
individuata.
In
uno studio di teoria finanziaria (delle imposte) di
Mauro Fasiani
(Schemi teorici ed «exponibilia» finanziari,
nella «Riforma
Sociale» del settembre-ottobre 1932) si parla di
«volontà supposta di
quell'essere un po' mitico, chiamato legislatore».
L'espressione
cautelosa ha due significati, cioè si riferisce a due
ordini ben
distinti di osservazioni critiche. Da una parte, si
riferisce al fatto
che le conseguenze di una legge possono essere diverse
da quelle
«previste» cioè volute coscientemente dal legislatore
individuale, per
cui «obbiettivamente», alla «voluntas legislatoris»,
cioè agli effetti
previsti dal legislatore individuale, si sostituisce
la «voluntas
legis», cioè l'insieme di conseguenze effettuali che
il legislatore
individuale non aveva previsto ma che di fatto
conseguono dalla legge
data. (Naturalmente sarebbe da vedere se gli effetti
che il legislatore
individuale prevede a parole sono da lui previsti
«bona fide» oppure
solo per creare l'ambiente favorevole all'approvazione
della legge, se
i «fini» che il legislatore individuale pretende di
voler conseguire
non sono un semplice mezzo di propaganda ideologica o
demagogica). Ma
l'espressione cautelosa ha anche un altro significato
che precisa il
primo e lo definisce: la parola «legislatore» può
essere infatti
interpretata in senso molto ampio, «fino ad indicare
con essa l'insieme
di credenze, di sentimenti, di interessi e di
ragionamenti diffusi in
una collettività in un dato periodo storico». Ciò in
realtà significa:
1) che il legislatore individuale (e legislatore
individuale deve
intendersi non solo nel caso ristretto dell'attività
parlamentare-statale, ma anche in ogni altra attività
«individuale» che
cerchi, in sfere piú o meno larghe di vita sociale, di
modificare la
realtà secondo certe linee direttive) non può mai
svolgere azioni
«arbitrarie», antistoriche, perché il suo atto
d'iniziativa, una volta
avvenuto, opera come una forza a sé nella cerchia
sociale determinata,
provocando azioni e reazioni che sono intrinseche a
questa cerchia
oltre che all'atto in sé; 2) che ogni atto
legislativo, o di volontà
direttiva e normativa, deve anche e specialmente
essere valutato
obbiettivamente, per le conseguenze effettuali che
potrà avere; 3) che
ogni legislatore non può essere che astrattamente e
per comodità di
linguaggio considerato come individuo, perché in
realtà esprime una
determinata volontà collettiva disposta a rendere
effettuale la sua
«volontà», che è volontà solo perché la collettività è
disposta a darle
effettualità; 4) che pertanto ogni individuo che
prescinda da una
volontà collettiva e non cerchi di crearla,
suscitarla, estenderla,
rafforzarla, organizzarla, è semplicemente una mosca
cocchiera, un
«profeta disarmato», un fuoco fatuo.
Su
questo argomento è da vedere ciò che dice il Pareto
sulle
azioni logiche e non logiche nella
sua Sociologia. Secondo il Fasiani per il Pareto
sono
«azioni logichequelle che uniscono logicamente il
mezzo al fine
non solo secondo il giudizio del soggetto agente (fine
soggettivo) ma
anche secondo il giudizio dell'osservatore (fine
oggettivo). Le azioni
non-logiche non hanno tale carattere. Il loro fine
oggettivo differisce
dal fine soggettivo». Il Fasiani non è soddisfatto da
questa
terminologia paretiana, ma la sua critica rimane nello
stesso terreno
puramente formale e schematico del Pareto.
*
Arte
politica e arte militare. Lo scrittore italiano di
cose militari
generale De Cristoforis nel suo libro Che cosa
sia la
guerra dice che per «distruzione dell'esercito
nemico» (fine
strategico) non si intende «la morte dei soldati, ma
lo scioglimento
del loro legame come massa organica». La formula è
felice e può essere
impiegata anche nella terminologia politica. Si tratta
di identificare
quale sia nella vita politica il legame organico
essenziale, che non
può consistere solo nei rapporti giuridici (libertà di
associazione e
riunione ecc., con la sequela dei partiti e dei
sindacati ecc.) ma si
radica nei piú profondi rapporti economici, cioè nella
funzione sociale
nel mondo produttivo (forme di proprietà e di
direzione ecc.).
*
[«Funzione
di governo».] Articolo di Sergio Panunzio nella
«Gerarchia» dell'aprile
1933 (La fine del parlamentarismo e l'accentramento
delle
responsabilità). Superficiale. Un punto curioso è
quello in cui il
Panunzio scrive che le funzioni dello Stato
non sono solo tre
«secondo i vecchi figurini costituzionalisti» e cioè
la «legislativa»,
l'«amministrativa» e la «giudiziaria», ma «che a
queste bisogna
aggiungerne un'altra, che è poi, anche nel regime
parlamentare, la
principale, la primigenia, e la fondamentale, la
«funzione di governo»,
ossia la determinazione dell'indirizzo politico.
Indirizzo politico
rispetto al quale la stessa legislazione si comporta
come un esecutivo
(!), inquantoché è il programma politico di governo
che si traduce come
in tanti capitoli successivi nelle leggi ed è il
presupposto di
queste». Presupposto e contenuto, e quindi nesso
inscindibile? Il
Panunzio in realtà ragiona per figurini, cioè
formalisticamente, peggio
dei vecchi costituzionalisti. Ciò che egli dovrebbe
spiegare, per il
suo assunto, è come mai sia avvenuto il distacco e la
lotta tra
parlamento e governo in modo che l'unità di queste due
istituzioni non
riesca piú a costruire un indirizzo permanente di
governo, ma ciò non
si può spiegare per schemi logici ma solo riferendosi
ai mutamenti
avvenuti nella struttura politica del paese, cioè
realisticamente, con
un'analisi storico-politica. Si tratta infatti di
difficoltà di
costruire un indirizzo politico permanente e di vasta
portata, non di
difficoltà senz'altro. L'analisi non può prescindere
dall'esame: 1) del
perché si siano moltiplicati i partiti politici; 2)
del perché sia
diventato difficile formare una maggioranza permanente
tra tali partiti
parlamentari; 3) quindi del perché i grandi partiti
tradizionali
abbiano perduto il potere di guidare, il prestigio
ecc. Questo fatto è
puramente parlamentare, o è il riflesso parlamentare
di radicali
mutazioni avvenute nella società stessa, nella
funzione che i gruppi
sociali hanno nella vita produttiva ecc.? Pare che la
sola via di
ricercare l'origine del decadimento dei regimi
parlamentari sia questa,
cioè sia da ricercare nella società civile e certo in
questa via non si
può fare a meno di studiare il fenomeno sindacale; ma
ancora, non il
fenomeno sindacale inteso nel suo senso elementare di
associazionismo
di tutti i gruppi sociali e per qualsiasi fine, ma
quello tipico per
eccellenza, cioè degli elementi sociali di nuova
formazione, che
precedentemente non avevano «voce in capitolo» e che
per il solo fatto
di unirsi modificano la struttura politica della
società.
Sarebbe
da ricercare come sia avvenuto che i vecchi
sindacalisti sorelliani (o
quasi) a un certo punto siano divenuti semplicemente
degli
associazionisti o unionisti in generale. Forse il
germe di questo
decadimento era nello stesso Sorel, cioè in un certo
feticismo
sindacale o economistico.
La
quistione posta dal Panunzio sull'esistenza di un
«quarto» potere
statale, quello di «determinazione dell'indirizzo
politico» pare che
debba essere posta in connessione coi problemi
suscitati dalla
scomparsa dei partiti politici e quindi dallo
svuotamento del
Parlamento. È un modo «burocratico» di porre un
problema che prima era
risolto dal normale funzionamento della vita politica
nazionale, ma non
appare come possa essere la soluzione «burocratica» di
esso. I partiti
erano appunto gli organismi che nella società civile
elaboravano gli
indirizzi politici non solo, ma educavano e
presentavano gli uomini
supposti in grado di applicarli. Nel terreno
parlamentare gli
«indirizzi» elaborati, totali o parziali, di lunga
portata o di
carattere immediato, venivano confrontati, sfrondati
dai caratteri
particolaristici ecc. e uno di essi diventava
«statale» in quanto il
gruppo parlamentare del partito piú forte diventava il
«governo» o
guidava il governo. Che, per la disgregazione
parlamentare, i partiti
siano divenuti incapaci di svolgere questo compito non
ha annullato il
compito stesso né ha mostrato una via nuova di
soluzione: cosí anche
per l'educazione e la messa in valore delle
personalità. La soluzione
«burocratica» di fatto maschera un regime di partiti
della peggiore
specie in quanto operano nascostamente, senza
controllo; i partiti sono
sostituiti da camarille e influssi personali non
confessabili: senza
contare che restringe le possibilità di scelta e
ottunde la sensibilità
politica e l'elasticità tattica. È opinione di Max
Weber, per esempio,
che una gran parte delle difficoltà attraversate dallo
Stato tedesco
nel dopoguerra sono dovute all'assenza di una
tradizione
politico-parlamentare e di vita di partito prima del
1914.
*
[La
classe politica.] La quistione della classe politica,
come è presentata
nelle opere di Gaetano Mosca, è diventata
un puzzle. Non si
capisce esattamente cosa il Mosca intenda precisamente
per classe
politica, tanto la nozione è elastica ed ondeggiante.
Talvolta pare che
per classe politica si intenda la classe media, altre
volte l'insieme
delle classi possidenti, altre volte ciò che si chiama
la «parte colta»
della società, o il «personale politico» (ceto
parlamentare) dello
Stato: talvolta pare che la burocrazia, anche nel suo
strato superiore,
sia esclusa dalla classe politica in quanto deve
appunto essere
controllata e guidata dalla classe politica. La
deficienza della
trattazione del Mosca appare nel fatto che egli non
affronta nel suo
complesso il problema del «partito politico» e ciò si
capisce, dato il
carattere dei libri del Mosca e specialmente
degli Elementi di
scienza politica: l'interesse del Mosca infatti
ondeggia tra una
posizione «obbiettiva» e disinteressata di scienziato
e una posizione
appassionata di immediato uomo di parte che vede
svolgersi avvenimenti
che lo angustiano e ai quali vorrebbe reagire.
D'altronde il Mosca
inconsapevolmente riflette le discussioni suscitate
dal materialismo
storico, ma le riflette come il provinciale che «sente
nell'aria» le
discussioni che avvengono nella capitale e non ha il
mezzo di
procurarsene i documenti e i testi fondamentali: nel
caso del Mosca
«non avere i mezzi» di procurarsi i testi e i
documenti del problema
che tuttavia tratta significa che il Mosca appartiene
a quella parte di
universitari che mentre ritengono loro dovere fare
sfoggio di tutte le
cautele del metodo storico quando studiano le ideuzze
di un pubblicista
medioevale di terzo ordine, non ritengono o non
ritenevano degne «del
metodo» le dottrine del materialismo storico, non
ritenevano necessario
risalire alle fonti e si accontentavano di orecchiare
articolucci di
giornale e opuscoletti popolari.
*
[Grande
politica e piccola politica.] Grande politica (alta
politica) – piccola
politica (politica del giorno per giorno, politica
parlamentare, di
corridoio, d'intrigo). La grande politica comprende le
quistioni
connesse con la fondazione di nuovi Stati, con la
lotta per la
distruzione, la difesa, la conservazione di
determinate strutture
organiche economico-sociali. La piccola politica le
quistioni parziali
e quotidiane che si pongono nell'interno di una
struttura già stabilita
per le lotte di preminenza tra le diverse frazioni di
una stessa classe
politica. È pertanto grande politica il tentare di
escludere la grande
politica dall'ambito interno della vita statale e di
ridurre tutto a
piccola politica (Giolitti, abbassando il livello
delle lotte interne
faceva della grande politica; ma i suoi succubi,
eranooggetto di
grande politica, ma facevano essi della piccola
politica). È invece da
dilettanti porre le quistioni in modo tale che ogni
elemento di piccola
politica debba necessariamente diventare quistione di
grande politica,
di radicale riorganizzazione dello Stato. Gli stessi
termini si
ripresentano nella politica internazionale: 1) la
grande politica nelle
quistioni che riguardano la statura relativa dei
singoli Stati nei
confronti reciproci; 2) la piccola politica nelle
quistioni
diplomatiche che nascono nell'interno di un equilibrio
già costituito e
che non tentano di superare l'equilibrio stesso per
creare nuovi
rapporti.
Il Machiavelli esamina
specialmente le quistioni di grande politica:
creazione di nuovi Stati,
conservazione e difesa di strutture organiche nel
complesso; quistioni
di dittatura e di egemonia su vasta scala, cioè su
tutta l'area
statale. Il Russo nei Prolegomeni fa
del Principe il trattato della dittatura
(momento
dell'autorità e dell'individuo) e
dei Discorsi quello
dell'egemonia (momento dell'universale e della
libertà). L'osservazione
del Russo è esatta, sebbene anche
nel Principe non manchino
gli accenni al momento dell'egemonia o del consenso
accanto a quelli
dell'autorità o della forza. Cosí è giusta
l'osservazione che non c'è
opposizione di principio tra principato e repubblica,
ma si tratti
piuttosto della ipostasi dei due momenti di autorità e
universalità.
(Nuovo
Machiavelli, cfr. quaderno speciale ecc). A proposito
del Rinascimento,
di Lorenzo dei Medici ecc., quistione di «grande
politica e di piccola
politica», politica creativa, e politica di
equilibrio, di
conservazione, anche se si tratta di conservare una
situazione
miserabile. Accusa ai francesi (e ai Galli fin da
Giulio Cesare) di
essere volubili ecc. E in questo senso gli italiani
del Rinascimento
non sono mai stati «volubili», anzi forse occorre
distinguere tra la
grande politica che gli italiani facevano
all'«estero», come forza
cosmopolita (finché la funzione cosmopolita durò) e la
piccola politica
all'interno, la piccola diplomazia, l'angustia dei
programmi ecc.,
quindi la debolezza di coscienza nazionale che avrebbe
domandato una
attività audace e di fiducia nelle forze
popolari-nazionali. Finito il
periodo della funzione cosmopolita, rimase quello
della «piccola
politica» all'interno, lo sforzo immane per impedire
ogni mutamento
radicale. In realtà il «piede di casa», le mani nette
ecc. che tanto
sono rimproverati alle generazioni dell'Ottocento non
sono che la
coscienza della fine di una funzione cosmopolita nel
modo tradizionale
e l'incapacità di crearsene una nuova facendo leva sul
popolo-nazione.
*
Morale
e politica. Si verifica una lotta. Si giudica della
«equità» e della
«giustizia» delle pretese delle parti in conflitto. Si
giunge alla
conclusione che una delle parti non ha ragione, che le
sue pretese non
sono eque, o addirittura che esse mancano di senso
comune. Queste
conclusioni sono il risultato di modi di pensare
diffusi, popolari,
condivisi dalla stessa parte che in tal modo viene
colpita da biasimo.
Eppure questa parte continua a sostenere di «aver
ragione», di essere
nell'«equo» e ciò che piú conta, continua a lottare,
facendo dei
sacrifici, ciò che significa che le sue convinzioni
non sono
superficiali e a fior di labbra, non sono ragioni
polemiche, per salvar
la faccia, ma realmente profonde e operose nelle
coscienze.
Significherà che la quistione è mal posta e mal
risolta. Che i concetti
di equità e di giustizia sono puramente formali.
Infatti può avvenire
che di due parti in conflitto, ambedue abbiano
ragione, «cosí stando le
cose», e una appaia aver piú ragione dell'altra «cosí
stando le cose»,
ma non abbia ragione «se le cose dovessero mutare».
Ora appunto in un
conflitto ciò che occorre valutare non sono le cose
cosí come stanno,
ma il fine che le parti in conflitto si propongono col
conflitto
stesso; e come questo fine, che non esiste ancora come
realtà
effettuale e giudicabile, potrà essere giudicato? E da
chi potrà essere
giudicato? Il giudizio stesso non diventerà un
elemento del conflitto,
cioè non sarà niente altro che una forza del giuoco a
favore o a danno
di una o dell'altra parte? In ogni caso si può dire:
1) che in un
conflitto ogni giudizio di moralità è assurdo perché
esso può essere
fatto sui dati di fatto esistenti che appunto il
conflitto tende a
modificare; 2) che l'unico giudizio possibile è quello
«politico» cioè
di conformità del mezzo al fine (quindi implica una
identificazione del
fine o dei fini graduati in una scala successiva di
approssimazione).
Un conflitto è «immorale» in quanto allontana dal fine
o non crea
condizioni che approssimano al fine (cioè non crea
mezzi piú conformi
al raggiungimento del fine) ma non è «immorale» da
altri punti di vista
«moralistici». Cosí non si può giudicare l'uomo
politico dal fatto che
esso è o meno onesto, ma dal fatto che mantiene o no i
suoi impegni (e
in questo mantenimento può essere compreso l'«essere
onesto», cioè
l'essere onesto può essere un fattore politico
necessario, e in
generale lo è, ma il giudizio è politico e non
morale), viene giudicato
non dal fatto che opera equamente, ma dal fatto che
ottiene o no dei
risultati positivi o evita un male e in questo può
essere necessario
l'«operare equamente», ma come mezzo politico e non
come giudizio
morale.
*
Distacco
tra dirigenti e diretti. Assume aspetti diversi a
seconda delle
circostanze e delle condizioni generali. Diffidenza
reciproca: il
dirigente dubita che il «diretto» lo inganni,
esagerando i dati
positivi e favorevoli all'azione e perciò nei suoi
calcoli deve tener
conto di questa incognita che complica l'equazione. Il
«diretto» dubita
dell'energia e dello spirito di risolutezza del
dirigente e perciò è
tratto anche inconsciamente a esagerare i dati
positivi e a nascondere
o sminuire i dati negativi. C'è un inganno reciproco,
origine di nuove
esitazioni, di diffidenze, di quistioni personali ecc.
Quando ciò
avviene, significa che: 1) c'è crisi di comando; 2)
l'organizzazione,
il blocco sociale del gruppo in parola, non ha ancora
avuto il tempo di
saldarsi, creando l'affiatamento reciproco, la
reciproca lealtà;
3) ma c'è un terzo elemento: l'incapacità del
«diretto» a svolgere il
suo compito che significa poi incapacità del
«dirigente» a scegliere, a
controllare, a dirigere il suo personale.
Esempi
pratici: un ambasciatore può ingannare il suo governo:
1) perché vuole
ingannarlo per interesse personale; caso di slealtà
per tradimento di
carattere nazionale o statale: l'ambasciatore è o
diventa l'agente di
un governo diverso da quello che rappresenta; 2)
perché vuole
ingannarlo, essendo avversario della politica del
governo e favorevole
alla politica di altro partito governativo del suo
stesso paese, quindi
perché vuole che nel suo paese al governo vada un
partito piuttosto che
un altro: caso di slealtà che in ultima analisi può
diventare
altrettanto grave che il precedente, sebbene possa
essere accompagnato
da circostanze attenuanti, come sarebbe il caso che il
governo non
faccia una politica nazionale e l'ambasciatore ne
abbia le prove
perentorie: sarebbe allora slealtà verso uomini
transitori per poter
essere leali verso lo Stato immanente: quistione
terribile perché
questa giustificazione ha servito a uomini indegni
moralmente (Fouché,
Talleyrand e, meno, i marescialli di Napoleone); 3)
perché non sa
d'ingannarlo, per incapacità o incompetenza o per
scorrettezza
(trascura il servizio) ecc. In questo caso la
responsabilità del
governo deve essere graduata: 1) se avendo possibilità
di scelta
adeguate ha scelto male per ragioni estrinseche al
servizio (nepotismo,
corruzione, limitazioni di spese per servizio
importante per cui invece
di capaci si scelgono i «ricchi» per la diplomazia o i
«nobili» ecc.);
2) se non ha possibilità di scelta (Stato nuovo, come
l'Italia nel
1861-70) e non crea le condizioni generali per sanare
la deficienza e
procurarsi la possibilità di scelta.
*
Città
e campagna. Giuseppe De Michelis, Premesse e
contributo allo
studio dell'esodo rurale, «Nuova Antologia», 16
gennaio 1930. Articolo
interessante da molti punti di vista. Il De Michelis
pone il problema
abbastanza realisticamente. Intanto cos'è l'esodo
rurale? Se ne parla
da 200 anni e la quistione non è mai stata posta nei
termini economici
precisi.
(Anche il De Michelis dimentica
due elementi fondamentali della quistione: 1) i
lamenti per l'esodo
rurale hanno una delle loro ragioni negli interessi
dei proprietari che
vedono elevarsi i salari per la concorrenza delle
industrie urbane e
per la vita piú «legale», meno esposta agli arbitrii
ed abusi che sono
la trama quotidiana della vita rurale; 2) per l'Italia
non accenna
all'emigrazione dei contadini che è la forma
internazionale dell'esodo
rurale verso paesi industriali ed è una critica reale
del regime
agrario italiano, in quanto il contadino si reca a
fare il contadino
altrove, migliorando il proprio tenor di vita).
È
giusta l'osservazione del De Michelis che
l'agricoltura non ha sofferto
per l'esodo: 1) perché la popolazione agraria
su scala
internazionale non è diminuita; 2) perché la
produzione non è
diminuita, anzi c'è sopraproduzione, come dimostra la
crisi dei prezzi
di prodotti agricoli. (Nella passata crisi, quando
cioè esse
corrispondevano a fasi di prosperità industriale, ciò
era vero; oggi,
però, che la crisi agraria accompagna la crisi
industriale, non si può
parlare di sopraproduzione, ma di sottoconsumo).
Nell'articolo sono
citate statistiche che dimostrano la progressiva
estensione della
superficie coltivata a cereali e piú ancora di quella
coltivata per
prodotti per le industrie (canapa, cotone, ecc.) e
dell'aumento della
produzione. Il problema è osservato da un punto di
vista internazionale
(per un gruppo di 21 paesi) cioè di divisione
internazionale del
lavoro. (Dal punto di vista delle singole nazioni il
problema può
cambiare e in ciò consiste la crisi odierna: essa è
una resistenza
reazionaria ai nuovi rapporti mondiali,
all'intensificarsi
dell'importanza del mercato mondiale).
L'articolo
cita qualche fonte bibliografica: occorrerà rivederlo.
Finisce con un
colossale errore: secondo il De Michelis: «La
formazione delle città
nei tempi remoti non fu che il lento e progressivo
distacco del
mestiere dall'attività agricola, con cui era prima
confuso, per
assurgere ad attività distinta. Il progresso dei
venturi decenni
consisterà, grazie soprattutto all'incremento della
forza elettrica,
nel riportare il mestiere alla campagna per
ricongiungerlo, con forme
mutate e con procedimenti perfezionati, al lavoro
propriamente
agricolo. In questa opera redentrice dell'artigianato
rurale l'Italia
si appresta ad essere anche una volta antesignana e
maestra». Il De
Michelis fa molte confusioni: 1) il ricongiungimento
della città alla
campagna non può avvenire sulla base dell'artigianato,
ma solo sulla
base della grande industria razionalizzata e
standardizzata. L'utopia
«artigianesca» si è basata sull'industria tessile: si
pensava che con
la verificatasi possibilità di distribuire l'energia
elettrica a
distanza, sarebbe diventato possibile ridare alla
famiglia contadina il
telaio meccanico moderno mosso dall'elettricità; ma
già oggi un solo
operaio fa azionare (pare) fino a 24 telai, ciò che
pone nuovi problemi
di concorrenza e di capitale ingenti, oltre che di
organizzazione
generale irrisolvibili dalla famiglia contadina; 2)
l'utilizzazione
industriale del tempo che il contadino deve rimanere
disoccupato
(questo è il problema fondamentale dell'agricoltura
moderna, che pone
il contadino in condizione di inferiorità economica di
fronte alla
città che «può» lavorare tutto l'anno) può avvenire
solo in un'economia
secondo un piano, molto sviluppata, che sia in grado
di essere
indipendente dalle fluttuazioni temporali di vendita
che già si
verificano e portano alle morte stagioni anche
nell'industria; 3) La
grande concentrazione dell'industria e la produzione a
serie di pezzi
intercambiabili permette di trasportare reparti di
fabbrica in
campagna, decongestionando la grande città e rendendo
piú igienica la
vita industriale. Non l'artigiano tornerà in campagna,
ma viceversa
l'operaio piú moderno e standardizzato.
*
[Miti
storici.] Studio delle parole d'ordine come quella del
«terzo Reich»
delle correnti di destra germaniche, di questi miti
storici, che non
sono altro che una forma concreta ed efficace di
presentare il mito
della «missione storica» di un popolo. Il punto da
studiare è appunto
questo: perché una tale forma sia «concreta ed
efficace» o piú efficace
di un'altra. In Germania la continuità ininterrotta
(non interrotta da
invasioni straniere permanenti) tra il periodo
medioevale del Sacro
Romano Impero (primo Reich) e quello moderno (da
Federico il Grande al
1914) rende immediatamente comprensibile il concetto
di terzo Reich. In
Italia, il concetto di «terza Italia» del Risorgimento
non poteva
essere facilmente compreso dal popolo per la non
continuità storica e
la non omogeneità tra la Roma antica e quella papale
(in vero anche tra
la Roma repubblicana e quella imperiale non c'era
omogeneità perfetta).
Quindi la relativa fortuna della parola mazziniana di
«Italia del popolo» che tendeva a indicare
un rinnovamento
completo, in senso democratico, di iniziativa
popolare, della nuova
storia italiana in contrapposto al «primato»
giobertiano che tendeva a
presentare il passato come continuità ideale possibile
col futuro, cioè
con un determinato programma politico presente
presentato come di larga
portata. Ma il Mazzini non riuscí a radicare la sua
formula mitica e i
suoi successori la diluirono e la immeschinirono nella
retorica
libresca. Un precedente per il Mazzini sarebbero
potuti essere i Comuni
medioevali che furono un rinnovamento storico
effettivo e radicale, ma
essi furono sfruttati piuttosto dai federalisti come
Cattaneo.
(L'argomento è da porre in rapporto con le prime note
scritte nel
quaderno speciale su Machiavelli).
*
Centro.
Uno studio accurato dei partiti di centro in senso
largo sarebbe
oltremodo educativo. Termine esatto, estensione del
termine,
cambiamento storico del termine e dell'accezione. Per
esempio, i
giacobini furono un partito estremo: oggi sono
tipicamente di centro;
cosí i cattolici (nella loro massa); cosí anche i
socialisti, ecc.
Credo che un'analisi dei partiti di centro e della
loro funzione sia
parte importante della storia contemporanea.
E
non lasciarsi illudere dalle parole o dal passato: è
certo per esempio
che i «nichilisti» russi sono da considerarsi partito
di centro, e cosí
perfino gli «anarchici» moderni. La quistione è se per
simbiosi un
partito di centro non serva a un partito «storico»,
esempio il partito
hitleriano (di centro) a Hugenberg e Papen
(estremisti: estremisti in
un certo senso, agrari e in parte industriali, data la
storia tedesca
particolare). Partiti di centro e partiti «demagogici»
o
borghesi-demagogici.
Lo studio della
politica tedesca e francese nell'inverno 1932-33 dà
una massa di
materiale per questa ricerca, cosí la contrapposizione
della politica
estera a quella interna (mentre è sempre la politica
interna che detta
le decisioni, s'intende di un paese determinato:
infatti è chiaro che
l'iniziativa, dovuta a ragioni interne, di un paese,
diventerà «estera»
per il paese che subisce l'iniziativa).
*
La
forza dei partiti agrari. Uno dei fenomeni
caratteristici dell'epoca
moderna è questo: che nei parlamenti, o almeno in una
serie di essi, i
partiti agrari hanno una forza relativa che non
corrisponde alla loro
funzione storica, sociale, economica. Ciò è dovuto al
fatto che nelle
campagne si è mantenuto un blocco di tutti gli
elementi della
produzione agraria, blocco che spesso è guidato dalla
parte piú retriva
di questi elementi, mentre nelle città e nelle
popolazioni di tipo
urbano, già da alcune generazioni, un blocco simile si
è disciolto, se
pure è mai esistito (poiché non poteva esistere, non
si allargava il
suffragio elettorale). Cosí avviene che in paesi
eminentemente
industriali, dato il disgregarsi dei partiti medi, gli
agrari abbiano
il sopravvento «parlamentare» e impongano indirizzi
politici
«antistorici». È da fissare perché questo avvenga e se
non ne siano
responsabili i partiti urbani e il loro corporativismo
o gretto
economismo.
*
[Religione,
Stato, partito.] Nel Mein Kampf, Hitler scrive:
«La fondazione o
la distruzione di una religione è gesto
incalcolabilmente piú rilevante
che la fondazione o la distruzione di uno Stato: non
dico di un
partito...». Superficiale e acritico: i tre elementi:
religione (o
concezione del mondo «attiva»), Stato, partito, sono
indissolubili e
nel processo reale dello sviluppo storico-politico si
passa dall'uno
all'altro necessariamente. Nel Machiavelli, nei modi e
nel linguaggio
del tempo, si osserva la comprensione di questa
necessaria omogeneità e
interferenza dei tre elementi. Perdere l'anima per
salvare la patria o
lo Stato, è un elemento di laicismo assoluto, di
concezione del mondo
positiva e negativa (contro la religione o concezione
dominante). Nel
mondo moderno, un partito è tale, integralmente e non,
come avviene,
frazione di un partito piú grande, quando esso è
concepito, organizzato
e diretto in modi e forme tali da svilupparsi
integralmente in uno
Stato (integrale, e non in un governo tecnicamente
inteso) e in una
concezione del mondo. Lo sviluppo del partito in Stato
reagisce sul
partito e ne domanda una continua riorganizzazione e
sviluppo, cosí
come lo sviluppo del partito e dello Stato in
concezione del mondo,
cioè in trasformazione totale e molecolare
(individuale) dei modi di
pensare e operare, reagisce sullo Stato e sul partito,
costringendoli a
riorganizzarsi continuamente e ponendo loro dei
problemi nuovi e
originali da risolvere. È evidente che tale concezione
è intralciata
nello sviluppo pratico dal fanatismo cieco e
unilaterale di «partito»
(in questo caso di setta, di frazione di un piú ampio
partito, nel cui
seno si lotta), cioè dall'assenza sia di una
concezione statale sia di
una concezione del mondo che siano capaci di sviluppo
in quanto
storicamente necessarie. La vita politica attuale dà
una larga
testimonianza di queste angustie e ristrettezze
mentali, che d'altronde
provocano lotte drammatiche, perché esse stesse sono
il modo con cui lo
sviluppo storico si verifica praticamente. Ma il
passato, e il passato
italiano che piú interessa, da Machiavelli in poi, non
è meno ricco di
esperienze; perché tutta la storia è testimone del
presente.
*
Classe
media. Il significato dell'espressione «classe
media» muta da un
paese all'altro (come muta quello di «popolo» o di
«volgo» in rapporto
alla boria di certi strati sociali) e perciò dà luogo
spesso a equivoci
molto curiosi (ricordare come il sindaco Frola di
Torino firmasse un
manifesto in inglese col titolo «Lord Mayor»). Il
termine è venuto
dalla letteratura politica inglese ed esprime la
particolare forma
dello sviluppo sociale inglese. Pare che in
Inghilterra la borghesia
non sia mai stata concepita come una parte integrante
del popolo, ma
sempre come una entità staccata da questo: è avvenuto
anzi, nella
storia inglese, che non la borghesia abbia guidato il
popolo e si sia
fatta aiutare da esso per abbattere i privilegi
feudali, ma la nobiltà
(o una frazione di essa) abbia formato il blocco
nazionale-popolare
contro la Corona prima e poi contro la borghesia
industriale.
Tradizione inglese di un torismo popolare
(Disraeli, ecc.).
Dopo le grandi riforme liberali che conformarono lo
Stato agli
interessi e ai bisogni della classe media, i due
partiti fondamentali
della vita politica inglese si distinsero su quistioni
interne
riguardanti la stessa classe, la nobiltà acquistò
sempre piú un
carattere particolare di «aristocrazia borghese»
legata a certe
funzioni della società civile e di quella politica
(Stato) riguardanti
la tradizione, l'educazione del ceto dirigente, la
conservazione di una
data mentalità che garantisce da bruschi rivolgimenti,
ecc., la
consolidazione della struttura imperiale, ecc.
In
Francia il termine «classe media» dà luogo ad
equivoci, nonostante che
l'aristocrazia, di fatto, abbia conservato molta
importanza come casta
chiusa: il termine viene adoperato sia nel senso
inglese, sia nel senso
italiano di piccola e media borghesia. In Italia dove
l'aristocrazia
feudale è stata distrutta dai Comuni (fisicamente
distrutta nelle
guerre civili, eccetto che nell'Italia meridionale e
in Sicilia),
poiché manca la classe «alta» tradizionale, il termine
di «media» si è
abbassato di un gradino. Classe media significa
«negativamente»
non-popolo, cioè «non operai e contadini»; significa
positivamente i
ceti intellettuali, i professionisti, gli impiegati.
È
da notare come il termine «signore» sia diffuso in
Italia da molto
tempo per indicare anche i non-nobili; il «don»
meridionale,
«galantuomini», «civili», «borghesi», ecc.; in
Sardegna «signore» non è
mai il rurale, anche quello ricco ecc.
*
L'uomo-individuo
e l'uomo-massa. Il proverbio latino: «Senatores boni
viri, senatus mala
bestia» è diventato un luogo comune. Cosa significa
questo proverbio e
quale significato ha assunto? Che una folla di persone
dominate dagli
interessi immediati o in preda alla passione suscitata
dalle
impressioni del momento trasmesse acriticamente di
bocca in bocca, si
unifica nella decisione collettiva peggiore, che
corrisponde ai piú
bassi istinti bestiali. L'osservazione è giusta e
realistica in quanto
si riferisce alle folle casuali, raccoltesi come «una
moltitudine
durante un acquazzone sotto una tettoia», composte di
uomini che non
sono legati da vincoli di responsabilità verso altri
uomini o gruppi di
uomini o verso una realtà economica concreta, il cui
sfacelo si
ripercuota nel disastro degli individui. Si può dire
perciò che in tali
folle l'individualismo non solo non è superato ma è
esasperato per la
certezza dell'impunità e della irresponsabilità.
È
però anche osservazione comune che un'assemblea «bene
ordinata» di
elementi riottosi e indisciplinati si unifica in
decisioni collettive
superiori alla media individuale: la quantità diventa
qualità. Se cosí
non fosse, non sarebbe possibile l'esercito, per
esempio non sarebbero
possibili i sacrifizi inauditi che gruppi umani ben
disciplinati sanno
compiere in determinate occasioni, quando il loro
senso di
responsabilità sociale è svegliato fortemente dal
senso immediato del
pericolo comune e l'avvenire appare piú importante del
presente. Si può
far l'esempio di un comizio in piazza che è diverso da
un comizio in
sala chiusa ed è diverso da un comizio sindacale di
categoria
professionale e cosí via. Una seduta di ufficiali di
Stato Maggiore
sarà ben diversa da un'assemblea di soldati di un
plotone ecc.
Tendenza
al conformismo nel mondo contemporaneo piú estesa e
piú profonda che
nel passato: [la] standardizzazione del modo di
pensare e di operare
assume estensioni nazionali o addirittura
continentali. La base
economica dell'uomo-collettivo: grandi fabbriche,
taylorizzazione,
razionalizzazione ecc. Ma nel passato esisteva o no
l'uomo-collettivo?
Esisteva sotto forma della direzione carismatica, per
dirla con
Michels: cioè si otteneva una volontà collettiva sotto
l'impulso e la
suggestione immediata di un «eroe», di un uomo
rappresentativo; ma
questa volontà collettiva era dovuta a fattori
estrinseci e si
componeva e scomponeva continuamente.
L'uomo-collettivo odierno si
forma invece essenzialmente dal basso in alto, sulla
base della
posizione occupata dalla collettività nel mondo della
produzione:
l'uomo rappresentativo ha anche oggi una funzione
nella formazione
dell'uomo-collettivo, ma inferiore di molto a quella
del passato, tanto
che esso può sparire senza che il cemento collettivo
si disfaccia e la
costruzione crolli.
Si dice che «gli
scienziati occidentali ritengono che la psiche delle
masse non sia
altro che il risorgere degli antichi istinti dell'orda
primordiale e
pertanto un regresso a stadi culturali da tempo
superati»; ciò è da
riferirsi alla cosí detta «psicologia delle folle»
cioè delle
moltitudini casuali e l'affermazione è
pseudo-scientifica, è legata
alla sociologia positivistica.
Sul
«conformismo» sociale occorre notare che la quistione
non è nuova e che
l'allarme lanciato da certi intellettuali è solamente
comico. Il
conformismo è sempre esistito: si tratta oggi di lotta
tra «due
conformismi» cioè di una lotta di egemonia, di una
crisi della società
civile. I vecchi dirigenti intellettuali e morali
della società sentono
mancarsi il terreno sotto i piedi, si accorgono che le
loro «prediche»
sono diventate appunto «prediche», cioè cose estranee
alla realtà, pura
forma senza contenuto, larva senza spirito; quindi la
loro disperazione
e le loro tendenze reazionarie e conservative: poiché
la particolare
forma di civiltà, di cultura, di moralità che essi
hanno rappresentato
si decompone, essi gridano alla morte di ogni civiltà,
di ogni cultura,
di ogni moralità e domandano misure repressive allo
Stato o si
costituiscono in gruppo di resistenza appartato dal
processo storico
reale, aumentando in tal modo la durata della crisi,
poiché il tramonto
di un modo di vivere e di pensare non può verificarsi
senza crisi. I
rappresentanti del nuovo ordine in gestazione,
d'altronde, per odio
«razionalistico» al vecchio, diffondono utopie e piani
cervellotici.
Quale il punto di riferimento per il nuovo mondo in
gestazione? Il
mondo della produzione, il lavoro. Il massimo
utilitarismo deve essere
alla base di ogni analisi degli istituti morali e
intellettuali da
creare e dei principii da diffondere: la vita
collettiva e individuale
deve essere organizzata per il massimo rendimento
dell'apparato
produttivo. Lo sviluppo delle forze economiche sulle
nuove basi e
l'instaurazione progressiva della nuova struttura
saneranno le
contraddizioni che non possono mancare e avendo creato
un nuovo
«conformismo» dal basso, permetteranno nuove
possibilità di
autodisciplina, cioè di libertà anche individuale.
*
Psicologia
e politica. Specialmente nei periodi di crisi
finanziaria si sente
molto parlare di «psicologia» come di causa efficiente
di determinati
fenomeni marginali. Psicologia (sfiducia), panico,
ecc. Ma cosa
significa in questo caso «psicologia»? È una pudica
foglia di fico per
indicare la «politica», cioè una determinata
situazione politica.
Poiché di solito per «politica» s'intende l'azione
delle frazioni
parlamentari, dei partiti, dei giornali e in generale
ogni azione che
si esplica secondo una direttiva palese e
predeterminata, si dà il nome
di «psicologia» ai fenomeni elementari di massa, non
predeterminati,
non organizzati, non diretti palesemente, i quali
manifestano una
frattura nell'unità sociale tra governati e
governanti. Attraverso
queste «pressioni psicologiche» i governati esprimono
la loro sfiducia
nei dirigenti e domandano che siano mutate le persone
e gli indirizzi
dell'attività finanziaria e quindi economica. I
risparmiatori non
investono risparmi e disinvestono da determinate
attività che appaiono
particolarmente rischiose, ecc.: si accontentano di
interessi minimi e
anche di interessi zero; qualche volta preferiscono
perdere addirittura
una parte del capitale per mettere al sicuro il resto.
Può
bastare l'«educazione» per evitare queste crisi di
sfiducia generica?
Esse sono sintomatiche appunto perché «generiche» e
contro la
«genericità» è difficile educare una nuova fiducia. Il
succedersi
frequente di tali crisi psicologiche indica che un
organismo è malato,
cioè che l'insieme sociale non è piú in grado di
esprimere dirigenti
capaci. Si tratta dunque di crisi politiche e anzi
politico-sociali del
raggruppamento dirigente.
*
Storia
politica e storia militare. Nel «Marzocco» del 10
marzo 1929 è
riassunto un articolo di Ezio Levi nella «Glossa
perenne» sugli
Almògavari, interessante per due rispetti. Da un lato
gli Almògavari
(truppe leggere catalane, addestrate nelle aspre lotte
della
«reconquista» a combattere contro gli arabi col modo
stesso degli
arabi, cioè in ordine sparso, senza una disciplina di
guerra, ma con
impeti, agguati, avventure individuali) segnano
l'introduzione in
Europa di una nuova tattica, che può essere paragonata
a quella degli
arditi, sebbene in condizioni diverse. Dall'altro lato
essi, secondo
alcuni eruditi, segnano l'inizio delle compagnie di
ventura. Un corpo
di Almògavari fu mandato in Sicilia dagli Aragonesi
per le guerre del
Vespro: finisce la guerra, ma parte degli Almògavari
si reca in Oriente
al servizio del basileus dell'Impero bizantino
Andronico. L'altra parte
fu arruolata da Roberto d'Angiò per la guerra contro i
ghibellini
toscani. Poiché gli Almògavari avevano mantelli neri,
mentre i
fiorentini, in processione o in «cavallata» vestivano
il camice bianco
crociato e gigliato, da ciò sarebbe nata, secondo Gino
Masi, la
denominazione di Bianchi e Neri. Certo è che, quando
gli Angioini
lasciarono Firenze, molti Almògavari rimasero al soldo
del Comune,
rinnovando d'anno in anno la loro «condotta».
La
«compagnia di ventura» nacque cosí come un mezzo per
determinare uno
squilibrio del rapporto delle forze politiche a favore
della parte piú
ricca della borghesia, a danno dei ghibellini e del
popolo minuto.
*
Sullo
sviluppo della tecnica militare. Il tratto piú
caratteristico e
significativo dello stadio attuale della tecnica
militare e quindi
anche dell'indirizzo delle ricerche scientifiche in
quanto sono
connesse con lo sviluppo della tecnica militare (o
tendono a questo
fine) pare sia da ricercare in ciò, che la tecnica
militare in alcuni
suoi aspetti tende a rendersi indipendente dal
complesso della tecnica
generale e a diventare un'attività a parte, autonoma.
Fino alla guerra
mondiale la tecnica militare era una semplice
applicazione
specializzata della tecnica generale e pertanto la
potenza militare di
uno Stato o di un gruppo di Stati (alleati per
integrarsi a vicenda)
poteva essere calcolata con esattezza quasi matematica
sulla base della
potenza economica (industriale, agricola, finanziaria,
tecnico-culturale). Dalla guerra mondiale in poi
questo calcolo non è
piú possibile, almeno con pari esattezza, e ciò
costituisce la piú
formidabile incognita dell'attuale situazione
politico-militare. Come
punto di riferimento basta accennare ad alcuni
elementi: il
sottomarino, l'aeroplano da bombardamento, il gas e i
mezzi chimici e
batteriologici applicati alla guerra. Ponendo la
questione nei suoi
termini limite, per assurdo, si può dire che Andorra
può produrre mezzi
bellici in gas e bacteri da sterminare l'intera
Francia.
Questa
situazione della tecnica militare è uno degli elementi
piú
«silenziosamente» operanti di quella trasformazione
dell’arte politica
che ha portato al passaggio, anche in politica, dalla
guerra di
movimento alla guerra di posizione o di assedio.
Una
massima del maresciallo Caviglia: «L'esperienza della
meccanica
applicata che la forza si esaurisce allontanandosi dal
centro di
produzione si ritrova dominante nell'arte della
guerra. L'attacco si
esaurisce avanzando; perciò la vittoria deve essere
cercata quanto piú
è possibile nelle vicinanze del punto di partenza» (Le
tre battaglie
del Piave, p. 244).
Massima simile in
Clausewitz. Ma lo stesso Caviglia osserva che le
truppe di rottura
devono essere aiutate da truppe di manovra: le truppe
di rottura
tendono a fermarsi dopo ottenuta la «vittoria»
immediata nel loro
obbiettivo di rompere il fronte avversario. Un'azione
strategica ai
fini non territoriali ma decisivi ed organici può
essere svolta in due
momenti: con la rottura del fronte avversario e con
una successiva
manovra, operazioni assegnate a truppe distinte.
La
massima, applicata all'arte politica, deve essere
adattata alle diverse
condizioni; ma rimane il punto che tra il punto di
partenza e
l'obbiettivo occorre una gradazione organica, cioè una
serie di
obbiettivi parziali. Si può avvicinare alla parola
d'ordine
quarantottesca.
*
Arte
militare e politica. Sentenze tradizionali rispondenti
al senso comune
delle masse di uomini: «I generali, dice Senofonte,
devono avanzar gli
altri non nella sontuosità della tavola e nei piaceri,
ma nella
capacità e nelle fatiche». «Difficilmente si possono
indurre i soldati
a soffrire la penuria e i disagi che derivano da
ignoranza o da colpa
nel loro comandante; ma quando sono prodotti dalla
necessità, ognuno è
pronto a soffrirli». «L'ardire col proprio pericolo è
valore, con
l'altrui è arroganza (Pietro Colletta)».
Differenza
tra ardimento-intrepidità e coraggio: il primo è
istintivo e impulsivo;
il coraggio invece è acquisito con l'educazione e
attraverso i costumi.
A stare a lungo in trincea ci vuole «coraggio», cioè
perseveranza
nell'intrepidità, che può esser data o dal terrore
(certezza di morire
se non si rimane) o dalla convinzione di fare cosa
necessaria
(coraggio).
*
«Contraddizioni» dello
storicismo ed espressioni letterarie di
esse (ironia,
sarcasmo). Vedere le pubblicazioni di Adriano
Tilgher contro lo
storicismo. Da un articolo di Bonaventura Tecchi (Il
Demiurgo di
Burzio, «Italia Letteraria», 20 ottobre 1929) sono
estratti alcuni
spunti di F. Burzio che sembrano mostrare nel Burzio
una certa
profondità (se si astrae dal linguaggio sforzato e
dalle costruzioni a
tendenza paradossale-letteraria) nello studio delle
contraddizioni
«psicologiche» che nascono sul terreno dello
storicismo idealistico, ma
anche in quello dello storicismo integrale.
È
da meditare l'affermazione: «essere sopra alle
passioni e ai sentimenti
pur provandoli», che potrebbe essere ricca di
conseguenze. Infatti il
nodo delle quistioni che sorgono a proposito dello
storicismo, e che il
Tilgher non riesce di districare, è proprio nella
constatazione che «si
può essere critici e uomini d'azione nello stesso
tempo, in modo non
solo che l'uno aspetto non indebolisca l'altro, ma
anzi lo convalidi».
Il Tilgher molto superficialmente e meccanicamente
scinde i due termini
della personalità umana (dato che non esiste e non è
mai esistito [un]
uomo tutto critico e uno tutto passionale), mentre
invece si deve
cercare di determinare come in diversi periodi storici
i due termini si
combinano sia nei singoli, sia per strati sociali
(aspetto della
quistione della funzione sociale degli intellettuali)
facendo prevalere
(apparentemente) un aspetto o l'altro (si parla di
epoche di critica,
di epoche di azione, ecc.). Ma non pare che neanche il
Croce abbia
analizzato a fondo il problema negli scritti dove vuol
determinare il
concetto «politica = passione»: se l'atto concreto
politico, come dice
il Croce, si attua nella persona del capo politico, è
da osservare che
la caratteristica del capo come tale non è certo la
passionalità, ma il
calcolo freddo, preciso, obbiettivamente quasi
impersonale, delle forze
in lotta e dei loro rapporti (tanto piú ciò vale se si
tratta di
politica nella sua forma piú decisiva e determinante,
la guerra o
qualsiasi altra forma di lotta armata). Il capo
suscita e dirige le
passioni, ma egli stesso ne è «immune» o le domina per
meglio
scatenarle, raffrenarle al momento dato,
disciplinarle, ecc.; deve piú
conoscerle, come elemento obbiettivo di fatto, come
forza, che
«sentirle» immediatamente, deve conoscerle e
comprenderle, sia pure con
«grande simpatia» (e allora la passione assume una
forma superiore, che
occorre analizzare, sulla traccia dello spunto del
Burzio; tutta la
quistione è da vedere sui «testi» autentici).
Dallo
scritto del Tecchi pare che il Burzio accenni spesso
all'elemento
«ironia» come caratteristica (o una delle
caratteristiche) della
posizione riferita e condensata nella affermazione
«essere sopra alle
passioni e ai sentimenti pur provandoli». Pare
evidente che
l'atteggiamento «ironico» non possa essere quello del
capo politico o
militare nei confronti delle passioni e sentimenti dei
seguaci e
diretti. «Ironia» può essere giusto per
l'atteggiamento di
intellettuali singoli, individuali, cioè senza
responsabilità immediata
sia pure nella costruzione di un mondo culturale o per
indicare il
distacco dell'artista dal contenuto sentimentale della
sua creazione
(che può «sentire» ma non «condividere», o può
condividere ma in forma
intellettualmente piú raffinata); ma nel caso
dell'azione storica,
l'elemento «ironia» sarebbe solo letterario o
intellettualistico e
indicherebbe una forma di distacco piuttosto connessa
allo scetticismo
piú o meno dilettantesco dovuto a disillusione, a
stanchezza, a
«super-ominismo». Invece nel caso dell'azione
storico-politica
l'elemento stilistico adeguato, l'atteggiamento
caratteristico del
distacco-comprensione, è il «sarcasmo» e ancora in una
forma
determinata, il «sarcasmo appassionato». Nei fondatori
della filosofia
della prassi si trova l'espressione piú alta,
eticamente ed
esteticamente, del sarcasmo appassionato. Altre forme.
Di fronte alle
credenze e illusioni popolari (credenza nella
giustizia,
nell'eguaglianza, nella fraternità, cioè negli
elementi ideologici
diffusi dalle tendenze democratiche eredi della
Rivoluzione francese),
c'è un sarcasmo appassionatamente «positivo»,
creatore, progressivo: si
capisce che non si vuol dileggiare il sentimento piú
intimo di quelle
illusioni e credenze, ma la loro forma immediata,
connesso a un
determinato mondo «perituro», il puzzo di cadavere che
trapela
attraverso il belletto umanitario dei professionisti
degli «immortali
principii». Perché esiste anche un sarcasmo di
«destra», che raramente
è appassionato, ma è sempre «negativo», scettico e
distruttivo non solo
della «forma» contingente, ma del contenuto «umano» di
quei sentimenti
e credenze. (E a proposito dell'attributo «umano» si
può vedere in
alcuni libri, ma specialmente nella Sacra
Famiglia, quale
significato occorre dargli). Si cerca di dare al
nucleo vivo delle
aspirazioni contenute in quelle credenze una nuova
forma (quindi di
innovare, determinare meglio quelle aspirazioni), non
di distruggerle.
Il sarcasmo di destra cerca invece di distruggere
proprio il contenuto
delle aspirazioni (non, beninteso, nelle masse
popolari, che allora si
distruggerebbe anche il cristianesimo popolare, ma
negli
intellettuali), e perciò l'attacco alla «forma» non è
che un espediente
«didattico».
Come sempre avviene, le prime
e originali manifestazioni del sarcasmo hanno avuto
imitatori e
pappagalli; lo stile è diventato una «stilistica», è
divenuto una
specie di meccanismo, una cifra, un gergo, che
potrebbero dar luogo ad
osservazioni piccanti (per es., quando la parola
«civiltà»
è sempre accompagnata dall'aggettivo
«sedicente», è lecito
pensare che si creda nell'esistenza di una «civiltà»
esemplare,
astratta, o almeno ci si comporta come se ciò si
credesse, cioè dalla
mentalità critica e storicistica si passa alla
mentalità utopistica).
Nella forma originaria il sarcasmo è da considerare
come una
espressione che mette in rilievo le contraddizioni di
un periodo di
transizione; si cerca di mantenere il contatto con le
espressioni
subalterne umane delle vecchie concezioni e nello
stesso tempo si
accentua il distacco da quelle dominanti e dirigenti,
in attesa che le
nuove concezioni, con la saldezza acquistata
attraverso lo sviluppo
storico, dominino fino ad acquistare la forza delle
«credenze
popolari». Queste nuove concezioni sono già acquisite
saldamente in chi
adopera il sarcasmo, ma devono essere espresse e
divulgate in
atteggiamento «polemico», altrimenti sarebbero una
«utopia» perché
apparirebbero «arbitrio» individuale o di
conventicola: d'altronde, per
la sua natura stessa, lo «storicismo» non può
concepire se stesso come
esprimibile in forma apodittica o predicatoria, e deve
creare un gusto
stilistico nuovo, persino un linguaggio nuovo come
mezzi di lotta
intellettuale. Il «sarcasmo» (come, nel piano
letterario ristretto
dell'educazione di piccoli gruppi, l'«ironia») appare
pertanto come la
componente letteraria di una serie di esigenze
teoriche e pratiche che
superficialmente, possono apparire come insanabilmente
contraddittorie;
il suo elemento essenziale è la «passionalità» che
diventa criterio
della potenza stilistica individuale (della sincerità,
della profonda
convinzione in opposto al pappagallismo e al
meccacinismo).
Da
questo punto di vista occorre esaminare le ultime
notazioni del Croce
nella prefazione del 1917 al volume
sul Materialismo storico, dove
si parla della «maga Alcina», e alcune osservazioni
sullo stile del
Loria. Cosí è da vedere il saggio di Mehring
sull'«allegoria» nel testo
tedesco, ecc.
*
Feticismo.
Come si può descrivere il feticismo. Un organismo
collettivo è
costituito di singoli individui, i quali formano
l'organismo in quanto
si sono dati e accettano attivamente una gerarchia e
una direzione
determinata. Se ognuno dei singoli componenti pensa
l'organismo
collettivo come un'entità estranea a se stesso, è
evidente che questo
organismo non esiste piú di fatto, ma diventa un
fantasma
dell'intelletto, un feticcio. È da vedere se questo
modo di pensare,
molto diffuso, non sia un residuo della trascendenza
cattolica e dei
vecchi regimi paternalistici: esso è comune per una
serie di organismi,
dallo Stato, alla Nazione, ai Partiti politici ecc. È
naturale che
avvenga per la Chiesa, poiché, almeno in Italia, il
lavorio secolare
del centro vaticano per annientare ogni traccia di
democrazia interna e
di intervento dei fedeli nell'attività religiosa è
pienamente riuscito
ed è divenuto una seconda natura del fedele, sebbene
abbia determinato
per l'appunto quella speciale forma di cattolicismo
che è propria del
popolo italiano. Ciò che fa meraviglia, e che è
caratteristico, è che
il feticismo di questa specie si riproduca per
organismi «volontari»,
di tipo non «pubblico» o statale, come i partiti e i
sindacati. Si è
portati a pensare i rapporti tra il singolo e
l'organismo come un
dualismo, e ad un atteggiamento critico esteriore del
singolo verso
l'organismo (se l'atteggiamento non è di una
ammirazione entusiastica
acritica). In ogni caso un rapporto feticistico. Il
singolo s'aspetta
che l'organismo faccia, anche se egli non opera e non
riflette che
appunto, essendo il suo atteggiamento molto diffuso,
l'organismo è
necessariamente inoperante.
Inoltre è da
riconoscere che essendo molto diffusa una concezione
deterministica e
meccanica della storia (concezione che è del senso
comune ed è legata
alla passività delle grandi masse popolari) ogni
singolo, vedendo che,
nonostante il suo non intervento, qualcosa tuttavia
avviene, è portato
a pensare che appunto al disopra dei singoli esiste
una entità
fantasmagorica, l'astrazione dell'organismo
collettivo, una specie di
divinità autonoma, che non pensa con nessuna testa
concreta, ma
tuttavia pensa, che non si muove con determinate gambe
di uomini, ma
tuttavia si muove ecc.
Potrebbe sembrare
che alcune ideologie, come quella dell'idealismo
attuale (di Ugo
Spirito) per cui si identifica l'individuo e lo Stato,
dovrebbero
rieducare le coscienze individuali, ma non pare ciò
avvenga di fatto,
perché questa identificazione è meramente verbale e
verbalistica. Cosí
è da dire di ogni forma del cosí detto «centralismo
organico», il quale
si fonda sul presupposto, che è vero solo in momenti
eccezionali, di
arroventatura delle passioni popolari, che il rapporto
tra governanti e
governati sia dato dal fatto che i governanti fanno
gli interessi dei
governati e pertanto «devono» averne il consenso, cioè
deve verificarsi
l'identificazione del singolo col tutto, il tutto
(qualunque organismo
esso sia) essendo rappresentato dai dirigenti. È da
pensare che, come
per la Chiesa cattolica, un tale concetto non solo è
utile, ma
necessario e indispensabile: ogni forma di intervento
dal basso,
disgregherebbe infatti la Chiesa (si vede ciò nelle
chiese
protestantiche); ma per altri organismi è quistione di
vita non il
consenso passivo e indiretto, ma quello attivo e
diretto, la
partecipazione quindi dei singoli, anche se ciò
provoca un'apparenza di
disgregazione e di tumulto. Una coscienza collettiva,
e cioè un
organismo vivente, non si forma se non dopo che la
molteplicità si è
unificata attraverso l'attrito dei singoli: né si può
dire che il
«silenzio» non sia molteplicità. Un'orchestra che fa
le prove, ogni
strumento per conto suo, dà l'impressione della piú
orribile cacofonia;
eppure queste prove sono la condizione perché
l'orchestra viva come un
solo «strumento».
*
[Machiavellismo
e antimachiavellismo.] Charles Benoist nella
prefazione al Le
Machiavélisme, Prima parte: Avant
Machiavel (Parigi, Plon,
1907) scrive: «C'è machiavellismo e machiavellismo:
c'è un
machiavellismo vero e un machiavellismo falso; vi è un
machiavellismo
che è di Machiavelli e un machiavellismo che è qualche
volta dei
discepoli, piú spesso dei nemici di Machiavelli; sono
già due, anzi tre
machiavellismi, quello di Machiavelli, quello dei
machiavellisti, e
quello degli antimachiavellisti; ma eccone un quarto:
quello di coloro
che non han mai letto una riga di Machiavelli e che si
servono a
sproposito dei verbi (!), dei sostantivi e degli
aggettivi derivati dal
suo nome. Machiavelli perciò non dovrebbe essere
tenuto responsabile di
quel che dopo di lui il primo o l'ultimo venuto si
sono compiaciuti di
fargli dire». Un po' allumacato, il signor Carlo
Benoist.
Miscellanea
*
Diritto
naturale. Uno degli imparaticci dei teorici di origine
nazionalista
(es. M. Maraviglia) è quello di contrapporre la storia
al diritto
naturale. Ma cosa significa una tale contrapposizione?
Nulla o solo la
confusione nel cervello dello scrittore. Intanto il
«diritto naturale»
è un elemento della storia, indica un «senso comune
politico e sociale»
e come tale è un «fermento» di operosità. La quistione
potrebbe esser
questa: che un teorico spieghi i fatti col cosí detto
«diritto
naturale», ma questo è un problema di carattere
individuale, di critica
a opere individuali ecc. e in fondo non è altro che
critica al
«moralismo» come canone d'interpretazione storica.
Roba che ha la
barba. Ma in realtà, al di sotto di questo sproposito
c'è un interesse
concreto. Quello di voler sostituire un «diritto
naturale» a un altro.
E infatti tutta la teoria nazionalista non è basata su
«diritti
naturali»? Si vuole al modo di pensare «popolare»
sostituire un modo di
pensare non popolare, altrettanto mancante di critica
del primo.
*
Elezioni.
In un giornale polacco (la «Gazeta Polska» degli
ultimi giorni di
gennaio o dei primi di febbraio del 1933) si trova
questo enunciato:
«Il potere si conquista sempre con un grande
plebiscito. Si vota o con
delle schede elettorali o con delle fucilate. Il primo
metodo è
quantitativo, il secondo qualitativo. Col primo
bisogna contare sulla
maggioranza dei piccoli, col secondo sulla minoranza
dei grandi
caratteri». Qualche verità affogata in grandi vasche
di spropositi.
Perché la «fucilata» deve sempre coincidere col grande
carattere?
Perché chi spara deve sempre essere un grande
carattere? Spesso questi
grandi caratteri si arruolano con poche lire al
giorno, cioè spesso la
«fucilata» è piú economica dell'elezione, ecco tutto.
Dopo il suffragio
universale, corrompere l'elettore è diventato
caruccio; con venti lire
e un fucile si sbandano venti elettori. La legge del
tornaconto
funziona anche per i «grandi caratteri» di cui parla
la «Gazeta Polska».
*
[Fortuna «pratica» di
Machiavelli.] Carlo V lo studiava. Enrico IV. Sisto V
ne fece un sunto.
Caterina de' Medici lo portò in Francia e se ne ispirò
forse per la
lotta contro gli Ugonotti e la strage di S.
Bartolomeo. Richelieu, ecc.
Cioè Machiavelli serví realmente gli Stati assoluti
nella loro
formazione, perché era stato l'espressione della
«filosofia dell'epoca»
europea piú che italiana.
Machiavelli
come figura di transizione tra lo Stato corporativo
repubblicano e lo
Stato monarchico assoluto. Non sa staccarsi dalla
repubblica ma capisce
che solo un monarca assoluto può risolvere i problemi
dell'epoca.
Questo dissidio tragico della personalità umana
machiavellica
(dell'uomo Machiavelli) sarebbe da vedere.
Prendendo
le mosse dall'affermazione del Foscolo,
nei Sepolcri, che il
Machiavelli «temprando lo scettro ai regnatori, gli
allor ne sfronda,
ed alle genti svela di che lacrime grondi e di che
sangue», si potrebbe
fare una raccolta di tutte le massime «universali» di
prudenza politica
contenute negli scritti del Machiavelli e ordinarle
con un commento
opportuno (forse una raccolta di tal genere esiste
già).
Lo
Schopenhauer avvicina l'insegnamento di scienza
politica del
Machiavelli a quello impartito dal maestro di scherma
che insegna
l'arte di ammazzare (ma anche di non farsi ammazzare)
ma non perciò
insegna a diventare sicari e assassini. (Trovare il
riferimento esatto).
Bacone
ha chiamato «Re Magi» i tre re che operano piú
energicamente per la
fondazione delle monarchie assolute: Luigi XI di
Francia, Ferdinando il
Cattolico in Spagna, Enrico VII in Inghilterra.
Filippo
di Commynes (1447-1511), al servizio di Carlo il
Temerario fino al
1472; nel 1472 passa al servizio di Luigi XI ed è lo
strumento della
politica di questo re. Scrive la Chronique de
Louis XI, pubblicata
la prima volta nel 1524. (Una mercantessa di Tours che
mosse causa al
di Commynes quando fu in disgrazia, sostenendo di
essere stata
strozzata in un contratto stipulato sotto Luigi XI,
scrisse nella sua
memoria giuridica: «le sieur d'Argenton qui pour lors
était roy»).
Studiare i possibili rapporti del Machiavelli col di
Commynes: il
Machiavelli come apprezzava l'attività e la funzione
del di Commynes
sotto Luigi XI e in seguito?
*
Il
potere indiretto. Una serie di manifestazioni in
cui la teoria e
la pratica del potere indiretto, dalla sfera
dell'organizzazione
ecclesiastica e dei suoi rapporti con gli Stati,
vengono applicate a
rapporti tra partito e partito, tra gruppi
intellettuali ed economici e
partiti ecc. Caso classico quello del
tentativo dell'Action
Française e dei suoi capi atei e increduli che
cercarono di
valersi delle masse cattoliche organizzate dall'Azione
Cattolica come
truppa di manovra a favore della monarchia.
*
Egemonia
e democrazia. Tra i tanti significati di democrazia,
quello piú
realistico e concreto mi pare si possa trarre in
connessione col
concetto di egemonia. Nel sistema egemonico, esiste
democrazia tra il
gruppo dirigente e i gruppi diretti, nella misura in
cui lo sviluppo
dell'economia e quindi la legislazione che esprime
tale sviluppo
favorisce il passaggio molecolare dai gruppi diretti
al gruppo
dirigente. Nell'Impero Romano esisteva una democrazia
imperiale-territoriale nella concessione della
cittadinanza ai popoli
conquistati ecc. Non poteva esistere democrazia nel
feudalismo per la
costituzione dei gruppi chiusi ecc.
*
Alcune
cause d'errore. Un governo, o un uomo politico, o un
gruppo sociale
applica una disposizione politica od economica. Se ne
trae troppo
facilmente delle conclusioni generali
d'interpretazione della realtà
presente e di previsione sullo sviluppo di questa
realtà. Non si tiene
abbastanza conto del fatto che la disposizione
applicata, l'iniziativa
promossa ecc. può essere dovuta a un errore di
calcolo, e quindi non
rappresentare nessuna «concreta attività storica».
Nella vita storica
come nella vita biologica, accanto ai nati vivi, ci
sono gli aborti.
Storia e politica sono strettamente unite, sono anzi
la stessa cosa, ma
pure occorre distinguere nell'apprezzamento dei fatti
storici e dei
fatti e atti politici. Nella storia, data la sua larga
prospettiva
verso il passato e dato che i risultati stessi delle
iniziative sono un
documento della vitalità storica, si commettono meno
errori che
nell'apprezzamento dei fatti e degli atti politici in
corso. Il grande
politico perciò non può che essere «coltissimo», cioè
deve «conoscere»
il massimo di elementi della vita attuale; conoscerli
non
«librescamente», come «erudizione» ma in modo
«vivente», come sostanza
concreta di «intuizione» politica (tuttavia perché in
lui diventino
sostanza vivente di «intuizione» occorrerà apprenderli
anche
«librescamente»).
*
Lotta
di generazioni. Il fatto che la generazione anziana
non riesca a
guidare la generazione piú giovane è in parte anche
l'espressione della
crisi dell'istituto famigliare e della nuova
situazione dell'elemento
femminile nella società. L'educazione dei figli è
affidata sempre piú
allo Stato o a iniziative scolastiche private e ciò
determina un
impoverimento «sentimentale» per rispetto al passato e
una
meccanizzazione della vita. Il piú grave è che la
generazione anziana
rinunzia al suo compito educativo in determinate
situazioni, sulla base
di teorie mal comprese o applicate in situazioni
diverse da quelle di
cui erano l'espressione. Si cade anche in forme
statolatriche: in
realtà ogni elemento sociale omogeneo è «Stato»,
rappresenta lo Stato,
in quanto aderisce al suo programma: altrimenti si
confonde lo Stato
con la burocrazia statale. Ogni cittadino è
«funzionario» se è attivo
nella vita sociale nella direzione tracciata dallo
Stato-governo, ed è
tanto piú «funzionario» quanto piú aderisce al
programma statale e lo
elabora intelligentemente.
*
Società
civile e società politica. Distacco della società
civile da quella
politica: si è posto un nuovo problema di egemonia,
cioè la base
storica dello Stato si è spostata. Si ha una forma
estrema di società
politica: o per lottare contro il nuovo e conservare
il traballante
rinsaldandolo coercitivamente, o come espressione del
nuovo per
spezzare le resistenze che incontra nello svilupparsi
ecc.
*
Sorel
e i giacobini. Nell'articolo riferito nella nota
precedente è riportato
questo giudizio di Proudhon sui giacobini: Il
giacobinismo è
«l'applicazione dell'assolutismo di diritto divino
alla sovranità
popolare». «Il giacobinismo si preoccupa poco del
diritto: procede
volentieri per mezzi violenti, esecuzioni sommarie. La
rivoluzione per
esso sono i colpi di folgore, le razzie, le
requisizioni, il prestito
forzato, l'epurazione, il terrore. Diffidente, ostile
alle idee, si
rifugia nell'ipocrisia e nel machiavellismo: i
giacobini sono i gesuiti
della rivoluzione». Queste definizioni sono estratte
dal libro: La
justice dans la révolution. L'atteggiamento di Sorel
contro i giacobini
è preso da Proudhon.
*
Machiavelli
e Manzoni. Qualche accenno al Machiavelli del Manzoni
si può trovare
nei Colloqui col Manzoni di N. Tommaseo,
pubblicati per la
prima volta e annotati da Teresa Lodi, Firenze, G. C.
Sansoni, 1929. Da
un articolo di G. S. Gargano nel «Marzocco» del 3
febbraio 1929
(Manzoni in Tommaseo) riporto questo brano: «E pur
attribuito al
Manzoni è il giudizio sul Machiavelli, la cui autorità
empí di
pregiudizi le teste italiane e le cui massime alcuni
ripetevano senza
osare od operarle e alcuni operavano senza osare
dirle; "e sono i
liberali che le cantano e i re che le fanno"; commento
quest'ultimo che
è forse del trascrittore, il quale aggiunge che il
Manzoni aveva
pochissima fede nelle guarantigie degli Statuti e
nella potenza dei
Parlamenti e che l'unico suo desiderio era per allora
di fare la
nazione una e potente anche a costo della libertà,
"quando pure l'idea
della libertà fosse in tutti i cervelli vera e uno il
sentimento di lei
in tutti i cuori"».
*
La «formula» di Léon Blum. Le pouvoir
est tentant. Mais seule l'opposition est confortable
*
Il
pragmatismo americano. Si potrebbe dire del
pragmatismo americano
(James), ciò che Engels ha detto dell'agnosticismo
inglese? (Mi pare
nella prefazione inglese alPassaggio dall'Utopia alla
Scienza).
*
Distinzioni.
Nello studio dei diversi «gradi» o «momenti» delle
situazioni militari
o politiche non si è soliti fare le distinzioni tra:
«causa
efficiente», che prepara l'evento storico o politico
di diverso grado o
significato (o estensione) e la «causa determinante»
che immediatamente
produce l'evento ed è la risultante generale e
concreta della causa
efficiente, la «precipitazione» concreta degli
elementi realmente
attivi e necessari della causa efficiente per produrre
la
determinazione.
Causa efficiente e causa
sufficiente, cioè «totalmente» efficiente, o almeno
sufficiente nella
direttrice necessaria per produrre l'evento.
Naturalmente
queste distinzioni possono avere diversi momenti o
gradi: cioè occorre
studiare se ogni momento è efficiente (sufficiente) e
determinante per
il passaggio da uno sviluppo all'altro o se può essere
distrutto
dall'antagonista prima della sua «produttività».
*
Storia
e «progresso». La storia ha raggiunto un certo
stadio; pare che
perciò sia antistorico ogni movimento che appare in
contrasto con quel
certo stadio, in quanto «riproduce» uno stadio
precedente; in questi
casi si arriva a parlare di reazione, ecc. La
quistione nasce dal non
concepire la storia come storia di classi. Una classe
ha raggiunto un
certo stadio, ha costruito una certa forma di vita
statale: la classe
dominata, che insorge, in quanto spezza questa realtà
acquisita, è
perciò reazionaria?
Stati unitari,
movimenti autonomisti; lo Stato unitario è stato un
progresso storico,
necessario, ma non perciò si può dire che ogni
movimento tendente a
spezzare gli Stati unitari sia antistorico e
reazionario; se la classe
dominata non può raggiungere la sua storicità altro
che spezzando
questi involucri, significa che si tratta di «unità»
amministrative-militari-fiscali, non di «unità»
moderne; può darsi che
la creazione di tale unità moderna domandi che sia
spezzata l'unità
«formale» precedente, ecc. Dove esiste piú unità
moderna: nella
Germania «federale» o nella «Spagna» unitaria di
Alfonso e dei
proprietari-generali-gesuiti? ecc. Questa osservazione
può essere
estesa a molte altre manifestazioni storiche, per
esempio al grado di
«cosmopolitismo» raggiunto nei diversi periodi dello
sviluppo culturale
internazionale. Nel '700 il cosmopolitismo degli
intellettuali è stato
«massimo», ma quanta frazione dell'insieme sociale
esso toccava? E non
si trattava in gran parte di una manifestazione
egemonica della cultura
e dei grandi intellettuali francesi?
È
certo tuttavia che ogni classe dominante nazionale è
piú vicina alle
altre classi dominanti, come cultura e costumi, che
non avvenga tra
classi subalterne, anche se queste [sono]
«cosmopolite» per programma e
destinazione storica. Un gruppo sociale può essere
«cosmopolita» per la
sua politica e la sua economia e non esserlo per i
costumi e anche per
la cultura (reale).
*
Principî
di metodo. Prima di giudicare (e per la storia in
atto o politica
il giudizio è l'azione) occorre conoscere e per
conoscere occorre
sapere tutto ciò che è possibile sapere. Ma cosa
s'intende per
«conoscere»? Conoscenza libresca, statistica,
«erudizione» meccanica, –
conoscenza storica –, intuizione, «contatto» reale con
la realtà viva e
in movimento, capacità di «simpatizzare»
psicologicamente fino al
singolo uomo. «Limiti» della conoscenza (non cose
inutili), cioè
conoscenza critica, o del «necessario»: pertanto, una
«concezione
generale» critica.
II. Note di politica
internazionale
*
*
[Il
concetto di grande potenza.] Elementi per calcolare la
gerarchia di
potenza fra gli Stati: 1) estensione del territorio,
2) forza
economica, 3) forza militare. Il modo in cui si
esprime l'essere grande
potenza è dato dalla possibilità di imprimere alla
attività statale una
direzione autonoma, di cui gli altri Stati devono
subire l'influsso e
la ripercussione: la grande potenza è potenza egemone,
capo e guida di
un sistema di alleanze e di intese di maggiore o
minore estensione. La
forza militare riassume il valore dell'estensione
territoriale (con
popolazione adeguata, naturalmente) e del potenziale
economico.
Nell'elemento territoriale è da considerare in
concreto la posizione
geografica. Nella forza economica è da distinguere la
capacità
industriale e agricola (forze produttive) dalla
capacità finanziaria.
Un elemento «imponderabile» è la posizione
«ideologica» che un paese
occupa nel mondo in ogni momento dato, in quanto
ritenuto
rappresentante delle forze progressive della storia
(esempio della
Francia durante la Rivoluzione del 1789 e il periodo
napoleonico).
Questi
elementi sono calcolati nella prospettiva di una
guerra. Avere tutti
gli elementi che, nei limiti del prevedibile, danno
sicurezza di
vittoria, significa avere un potenziale di pressione
diplomatica da
grande potenza, cioè significa ottenere una parte dei
risultati di una
guerra vittoriosa senza bisogno di combattere.
Nella
nozione di grande potenza è da considerare anche
l'elemento
«tranquillità interna» cioè il grado e l'intensità
della funzione
egemonica del gruppo sociale dirigente; (questo
elemento è da ricercare
nella valutazione della potenza di ogni Stato, ma
acquista maggiore
importanza nella considerazione delle grandi potenze.
Né vale ricordare
la storia dell'antica Roma e delle lotte interne che
non impedirono
l'espansione vittoriosa ecc.; oltre agli altri
elementi differenziali,
basta considerare questo, che Roma era la sola grande
potenza
dell'epoca, e che non aveva da temere la concorrenza
di rivali potenti,
dopo la distruzione di Cartagine). Si potrebbe perciò
dire che quanto
piú forte è l'apparato di polizia, tanto piú debole è
l'esercito e
quanto piú debole (cioè relativamente inutile) la
polizia, tanto piú
forte è l'esercito (di fronte alla prospettiva di una
lotta
internazionale).
*
Egemonia
politico-culturale. È ancora possibile, nel mondo
moderno, l'egemonia
culturale di una nazione sulle altre? Oppure il mondo
è già talmente
unificato nella sua struttura economico-sociale, che
un paese, se può
avere «cronologicamente» l'iniziativa di una
innovazione, non ne può
però conservare il «monopolio politico» e quindi
servirsi di tale
monopolio come base di egemonia? Quale significato
quindi può avere
oggi il nazionalismo? Non è esso possibile come
«imperialismo»
economico-finanziario ma non piú come «primato» civile
o egemonia
politico-intellettuale?
*
Sul
concetto di grande potenza. La misura decisiva per
stabilire cosa deve
intendersi per grande potenza è data dalla guerra. Il
concetto di
grande potenza è strettamente legato alle guerre. È
grande potenza
quello Stato che – entrato in un sistema di alleanze
per una guerra –
(e oggi ogni guerra presuppone dei sistemi di forze
antagonistiche) al
momento della pace è riuscito a conservare un tale
rapporto di forze
con gli alleati da essere in grado di far mantenere i
patti e le
promesse fatte all'inizio della campagna. Ma uno Stato
che per entrare
in guerra ha bisogno di grossi prestiti, ha bisogno
continuo di armi e
munizioni per i suoi soldati, di vettovaglie per
l'esercito e per la
popolazione civile, di navi per i trasporti, che cioè
non può far la
guerra senza l'aiuto continuo dei suoi alleati e che
per qualche tempo
anche dopo la pace ha ancora bisogno di aiuti,
specialmente di
vettovaglie, di prestiti o altre forme di sussidi
finanziari, come può
essere uguale ai suoi alleati e imporsi perché
mantengano i patti? Un
simile Stato è considerato grande potenza solo nelle
carte
diplomatiche, ma nella realtà è considerato come un
probabile fornitore
di uomini per la coalizione che ha i mezzi non solo di
sostenere le
proprie forze militari ma anche per finanziare quelle
degli altri
alleati.
Nella politica estera: «Cosí la
politica estera italiana, mirando sempre alla stessa
meta, è stata
sempre rettilinea, e le sue pretese oscillazioni sono
state in realtà
determinate soltanto dalle incertezze e dalle
contraddizioni altrui,
com'è inevitabile nel campo internazionale dove
infiniti sono gli
elementi in contrasto» (Aldo Valori, «Corriere della
Sera» del 12
maggio 1932). Che siano infiniti gli elementi di
equilibrio di un
sistema politico internazionale, è verissimo, ma
appunto per ciò il
sistema deve essere stabilito in modo che nonostante
le fluttuazioni
esterne, la propria linea non oscilli (è poi difficile
definire cosa
s'intende in tal caso per oscillazione – che non può
essere intesa
meccanicamente al modo dei farmacisti di villaggio e
di una mera
coerenza formale). La linea di uno Stato egemonico
(cioè di una grande
potenza) non oscilla, perché esso stesso determina la
volontà altrui e
non ne è determinato, perché la linea politica è
fondata su ciò che vi
è di permanente e non di casuale e immediato e nei
propri interessi e
in quelli delle altre forze che concorrono in modo
decisivo a formare
un sistema e un equilibrio.
(Cfr.
altre note precedenti). Secondo il capo del governo
italiano: «Sono le
marine da guerra che classificano le grandi potenze».
È da notare che
le marine da guerra possono essere misurate in ogni
momento col sistema
matematico assoluto, ciò che non può avvenire per gli
eserciti
terrestri. Ricordare l'epigramma di Anatole France:
«Tutti gli eserciti
sono i primi del mondo, ma per la marina è il numero
delle navi che
conta».
*
Sull'origine
delle guerre. Come si può dire che le guerre tra gli
Stati possono
avere la loro origine nelle lotte dei gruppi
nell'interno di ogni
singola nazione? È certo che in ogni nazione deve
esistere una certa (e
specifica per ogni nazione) espressione della legge
delle proporzioni
definite nella composizione sociale: i vari gruppi
cioè devono trovarsi
in certi rapporti di equilibrio, il cui turbamento
radicale potrebbe
condurre a una catastrofe sociale. Questi rapporti
variano a seconda
che un paese è prevalentemente agricolo o industriale
e a seconda dei
diversi gradi di sviluppo delle forze produttive
materiali e del tenore
di vita Il gruppo dirigente tenderà a mantenere
l'equilibrio migliore
per il suo permanere, non solo, ma per il suo
permanere in condizioni
determinate di floridezza, e anzi a incrementare tali
condizioni. Ma
siccome l'area sociale di ogni paese è limitata, sarà
portato a
estenderla nelle zone coloniali e d'influenza e quindi
a entrare in
conflitto con altri gruppi dirigenti che aspirano allo
stesso fine o ai
cui danni l'espansione di esso dovrebbe
necessariamente avvenire,
poiché anche il globo terrestre è limitato. Ogni
gruppo dirigente tende
in astratto ad allargare la base della società
lavoratrice da cui
prelevare plusvalore, ma la tendenza astratta diventa
concreta e
immediata quando il prelevamento di plusvalore nella
sua base storica è
diventato difficile o pericoloso oltre certi limiti
che sono tuttavia
insufficienti.
*
La
funzione europea dello zarismo nel secolo XIX. Il
principe di Bülow
nelle sue Memorie racconta di essersi
trovato da
Bethmann-Holwegg subito dopo la dichiarazione di
guerra della Germania
alla Russia nell'agosto 1914. Bethmann, interrogato
perché avesse
cominciato dal dichiarare la guerra alla Russia,
rispose: «Per aver
subito dalla mia parte i socialdemocratici». Bülow fa
a questo
proposito alcune osservazioni sulla psicologia di
Bethmann-Holwegg, ma
ciò che importa dal punto di vista di questa rubrica è
la sicurezza del
Cancelliere di poter avere dalla sua parte la
socialdemocrazia contro
lo zarismo russo; il Cancelliere sfruttava abilmente
la tradizione del
'48, ecc., del «gendarme d'Europa».
Cfr.
la lettera al conte Vimercati di Cavour (del 4 gennaio
1861) pubblicata
da A. Luzio nella «Nuova Antologia» del 16 gennaio
1930 (I carteggi
cavouriani). Cavour, dopo aver esposto i suoi accordi
con l'emigrazione
ungherese per la preparazione di un'insurrezione in
Ungheria e nei
paesi slavi dell'Impero austriaco, cui avrebbe seguito
un attacco
italiano per la liberazione delle Venezie, continua:
«Depuis lors deux
événements ont profondément modifié la situation. Les
conférences de
Varsovie et les concessions successives de l'Empereur
d'Autriche. Si,
comme il est à craindre, l'Empereur de Russie s'est
montré disposé à
Varsovie à intervenir en Hongrie dans le cas oú une
insurrection
éclaterait dans ce pays, il est évident qu'un
mouvement ne pourrait
avoir lieu avec chance de succès qu'autant que la
France serait
disposée à s'opposer par la force à l'intervention
Russe», ecc. ecc.
Questo articolo del Luzio è anche interessante perché
accenna alle
mutilazioni subite dai documenti del Risorgimento
nelle pubblicazioni
di storia e nelle raccolte di materiali. Il Luzio
doveva essere già
all'Archivio di Stato di Torino (o all'Archivio reale)
quando fu
perquisita l'abitazione del prof. Bollea per la
pubblicazione di
lettere del D'Azeglio che pure non importavano
quistioni diplomatiche
(si era in guerra proprio contro l'Austria e la
Germania). Sarebbe
interessante sapere se il Luzio protestò allora per la
perquisizione e
i sequestri o se non fu lui a consigliarli alla
questura di Torino.
*
Politica
e comando militare. Confrontare nella «Nuova
Antologia» del 16
ottobre e 1° novembre 1930 l'articolo di Saverio
Nasalli Rocca La
politica tedesca dell'impotenza nella guerra mondiale.
L'articolo,
sulla base dell'esperienza tedesca (vincere le
battaglie, perdere la
guerra) raccoglie materiale per corroborare la tesi
che, anche in
guerra, è il comando politico che dà la vittoria,
comando politico, che
deve incorporarsi nel comando militare, creando un
nuovo tipo di
comando proprio al tempo di guerra. Il Nasalli Rocca
si serve
specialmente delle memorie e degli altri scritti di
von Tirpitz. (Il
titolo dell'articolo è anche il titolo di un libro di
Tirpitz tradotto
in italiano). Scrive il Nasalli Rocca: «...una delle
piú grandi
difficoltà della guerra è rappresentata dalle
relazioni fra il comando
militare e il Governo: vecchio militare, non esito a
riconoscere che le
relazioni fra Governo e le Forze Armate corrispondono
rispettivamente a
quelle che corrono fra la strategia e la tattica. Al
Governo la
strategia della guerra, alle Forze Armate la tattica:
ma come il
tattico per raggiungere gli scopi fissatigli ha piena
libertà di
manovra nei larghi limiti fissatigli dalla strategia,
cosí questo non
ha facoltà di invadere il campo del tattico.
L'assenteismo e
l'invadenza sono i due grandi scogli
del comando qualunque
nome esso abbia: e il senso della misura è quello che
fissa i limiti
dell'invadenza».
La formula non mi pare
molto esatta: esiste certamente una «strategia
militare» che non spetta
tecnicamente al governo, ma essa è compresa in una piú
ampia strategia
politica che inquadra quella militare. La quistione
può allargarsi: i
conflitti tra militari e governanti non sono conflitti
tra tecnici e
politici, ma tra politici e politici, sono i conflitti
tra «due
direzioni politiche» che entrano in concorrenza
all'inizio di ogni
guerra. Le difficoltà del comando unico interalleato
durante la guerra
non erano di carattere tecnico, ma politico: conflitto
di egemonie
nazionali.
*
Documenti
diplomatici. Un articolo di A. De Bosdari nella
«Nuova Antologia»
del 1° luglio 1927: I documenti ufficiali
britannici sull'origine
della guerra (1898-1914).
Il De
Bosdari pone la quistione se i documenti tanto
tedeschi che inglesi
siano effettivamente riprodotti nella loro integrità e
senza omissione
di nulla che abbia vera importanza per lo svolgimento
storico dei
fatti. «Per ciò che riguarda le pubblicazioni
tedesche, posso, come mio
ricordo personale, asserire che essendomi un giorno
doluto al Ministero
tedesco degli Affari Esteri che fra i documenti
pubblicati ne fossero
stati inseriti alcuni scioccamente ingiuriosi per
l'Italia,
specialmente i rapporti dell'Ambasciatore Monts, mi fu
risposto che ciò
era una circostanza assai dolorosa, ma che quei
documenti non si
sarebbero potuti sopprimere senza togliere alla
pubblicazione il
carattere di imparziale documentazione storica». Dopo
questo suo
ricordo personale, il De Bosdari era pronto a giurare
sull'integrità
della documentazione tedesca.
Per i
documenti inglesi, dopo aver ricordato la buona fede
del Governo
inglese, di cui non si ha motivo di dubitare, dice che
costituiscono
una prova abbastanza sicura di autenticità e di
completezza, le
numerose integrazioni che vi avvengono di documenti
che, per motivi
politici abbastanza plausibili, erano stati mutilati
nei libri blú (ma
i libri inglesi sono bianchi, mi pare!)
antecedentemente pubblicati.
(Veramente altri «motivi politici abbastanza
plausibili» possono aver
indotto a non pubblicare altri documenti e a non
integrarne qualcuno:
per es. i documenti dovuti a spionaggio saranno mai
pubblicati?)
Il
De Bosdari ha una buona osservazione: nota la
scarsezza, tanto nei
documenti inglesi che in quelli tedeschi, di quei
documenti che
riguardano le deliberazioni del Governo, le
discussioni e le decisioni
dei Consigli dei ministri (che non sono «diplomatici»
in senso tecnico,
ma che sono evidentemente i decisivi). Nota invece la
grande abbondanza
di telegrammi e rapporti di funzionari diplomatici e
consolari, la cui
importanza è relativa, perché questi funzionari, nei
momenti di crisi,
telegrafano a getto continuo (per non essere accusati
di negligenza e
di distrazione) senza avere il tempo di controllare le
proprie notizie
e le proprie impressioni. (Questa osservazione nasce
da esperienza
personale del De Bosdari e può essere una prova di
come lavorano i
funzionari diplomatici italiani: forse per gli inglesi
le cose vanno
diversamente).
*
Una
politica di pace europea, di Argus, «Nuova Antologia»,
1° giugno 1927.
Parla delle frequenti visite in Inghilterra di uomini
politici e
letterati tedeschi. Questi intellettuali tedeschi,
interrogati,
dichiarano che ogni qual volta riescono a prendere
contatto con
influenti personalità anglosassoni viene loro posto
questo problema:
«Qual è l'atteggiamento della Germania di fronte alla
Russia?» e
soggiungono con disperazione (!): «Ma noi non possiamo
prendere parte
nelle controversie tra Londra e Mosca!» Al fondo della
concezione
britannica della politica estera sta la convinzione
che il conflitto
con la Russia non solo è inevitabile ma è già
impegnato, benché sotto
forme strane e insolite che lo rendono invisibile agli
occhi della
grande massa nazionale. Articolo ultra-anglofilo
(nello stesso periodo
ricordo un articolo di Manfredi Gravina nel «Corriere
della Sera» di
una anglofilia cosí scandalosa da maravigliare: si
predicava la
subordinazione dichiarata dell'Italia
all'Inghilterra): gli Inglesi
vogliono la pace, ma hanno dimostrato di saper fare la
guerra. Sono
sentimentali e altruisti: pensano agli interessi
europei; se
Chamberlain non ha rotto con la Russia è perché ciò
poteva nuocere a
altri Stati in condizioni meno favorevoli
dell'Inghilterra ecc.
Politica
inglese di intesa con la Francia è la base, ma il
governo inglese può
favorire anche altri Stati: l'Inghilterra vuol essere
amica di tutti.
Quindi avvicinamento all'Italia e alla Polonia. In
Inghilterra un certo
numero di persone non favorevoli al regime italiano.
Ma la politica
inglese lealmente amica e sarà tale anche mutando
regime, anche perché
la politica italiana è coraggiosa, ecc. ecc.
*
Per
i rapporti tra il Centro tedesco e il Vaticano e
quindi per
studiare concretamente la politica tradizionale del
Vaticano nei vari
paesi e le forme che essa assume è interessantissimo
un articolo di
André Lavedan nella «Revue Hebdomadaire» riassunto
nella «Rivista
d'Italia» del 15 marzo 1927. Leone XIII domandava
al Centro di votare a favore della legge sul
settennato di
Bismarck, avendo avuto assicurazioni che ciò avrebbe
portato a una
soddisfacente modificazione delle leggi
politico-ecclesiastiche.
Franckenstein e Windthorst non vollero uniformarsi
all'invito del
Vaticano. Del Centro solo 7 votarono la legge: 83 si
astennero.
*
Sull'Anschluss. Tener
presente: 1) la posizione della socialdemocrazia
austriaca come è stata
espressa da Otto Bauer: favorevoli all'Anschluss ma
attendere, per
realizzarlo, quando la socialdemocrazia tedesca sia
padrona dello Stato
tedesco, cioè in definitiva Anschluss
socialdemocratico; 2) posizione
della Francia: non coincide con quella dell'Italia: la
Francia è contro
l'unione dell'Austria alla Germania ma spinge
l'Austria ad entrare in
una Confederazione danubiana: l'Italia è contro
l'Anschluss e contro la
Confederazione. Se si ponesse il problema come una
scelta tra le due
soluzioni probabilmente l'Italia preferirebbe
l'Anschluss alla
Confederazione.
*
Articolo
di Frank Simonds, Vecchi torbidi nei nuovi
Balcani, nella
«American Review of Reviews». Il Simonds fa un
parallelo tra Mussolini
e Stresemann, come uomini politici piú attivi di
Europa. L'uno e
l'altro sacrificano allo spirito di opportunismo
(forse vuol dire «del
momento», ma anche forse si riferisce alla mancanza di
prospettive
larghe e lontane e quindi di principii). I trattati di
Mussolini come
quelli di Stresemann non rappresentano una politica
permanente. Sono
cose fatte al momento per le condizioni contemporanee.
E poiché possono
intervenire dei fatti atti a precipitare il conflitto,
l'uno e l'altro
sono egualmente ansiosi di evitare le ostilità
acquistando pei
rispettivi paesi e per se stessi il necessario
prestigio con vittorie
diplomatiche incidentali.
Costituzione
dell'Impero Inglese. Articolo nella «Nuova
Antologia» del 16
settembre 1927 di «Junius», Le prospettive
dell'Impero Britannico
dopo l'ultima conferenza imperiale.
Ricerca
di equilibrio tra esigenze di autonomia dei Dominions
e esigenze di
unità imperiale. (Nel Commonwealth l'Inghilterra porta
il peso politico
della sua potenza industriale e finanziaria, della sua
flotta, delle
sue colonie o domini della Corona o stabilimenti
d'altro nome – India,
Gibilterra, Suez, Malta, Singapore, Hong Kong, ecc. –,
della sua
esperienza politica, ecc. Elementi di disgregazione
dopo la guerra sono
stati: la potenza degli Stati Uniti, anglosassoni
anch'essi e che
esercitano un influsso su certi dominions, e i
movimenti nazionali e
nazionalistici che sono in parte una reazione al
movimento operaio –
nei paesi a capitalismo sviluppato – e in parte un
movimento contro il
capitalismo stimolato dal movimento operaio: India,
negri, cinesi, ecc.
Gli inglesi trovano una soluzione al problema
nazionale per i dominions
a capitalismo sviluppato, e questo aspetto [è] molto
interessante:
ricordare che Iliic sosteneva appunto che non è
impossibile che le
quistioni nazionali abbiano una soluzione pacifica
anche in regime
borghese: esempio classico la separazione pacifica
della Norvegia dalla
Svezia. Ma gli inglesi sono specialmente colpiti dai
movimenti
nazionali nei paesi coloniali e semicoloniali: India,
negri
dell'Africa, ecc.).
La difficoltà maggiore
dell'equilibrio
tra autonomia e unità si presenta
naturalmente nella politica estera. Giacché i
Dominions non riconoscono
piú il Governo di Londra come rappresentante della
loro volontà nel
campo della politica internazionale, si discusse di
creare una nuova
entità giuridico-politica destinata ad indicare ed
attuare l'unità
dell'Impero: si parlò di costituire un organo di
politica estera
imperiale. Ma esiste una reale unità «internazionale»?
I Dominions
attraverso l'Impero partecipano alla politica
mondiale, sono potenze
mondiali; ma la politica estera dell'Inghilterra,
europea e mondiale, è
talmente complicata che i Dominions sono riluttanti ad
essere
trascinati in quistioni che non li interessano
direttamente; d'altronde
attraverso la politica estera l'Inghilterra potrebbe
togliere o
limitare ai Dominions qualcuno di quei diritti di
indipendenza che
hanno conquistato. Per l'Inghilterra stessa questo
organo di politica
imperiale potrebbe essere ragione di difficoltà,
specialmente appunto
nella politica estera, in cui si esige prontezza e
unità di volere,
difficili da realizzare in un organo collettivo
rappresentante paesi
sparsi in tutto il mondo.
Incidente col
Canadà a proposito del trattato di Losanna: il Canadà
rifiutò di
ratificarlo perché non firmato dai propri
rappresentanti. Baldwin
lasciò cadere la quistione dell'«organo imperiale» e
temporeggiò. Il
Governo conservatore riconobbe al Canadà e all'Irlanda
il diritto di
aver propri rappresentanti a Washington (primo passo
verso il diritto
attivo e passivo di Legazione ai Domini);
all'Australia il diritto di
avere a Londra oltre all'Alto Commissario (con
mansioni specialmente
economiche) un funzionario per il diretto collegamento
politico; favorí
e incoraggiò la formazione di flotte autonome (flotta
australiana,
canadese, indiana); base navale di Singapore per la
difesa del
Pacifico; esposizione di Wembley per valorizzare
l'economia dei
dominions in Europa; Comitato Economico Imperiale per
associare i
Dominions all'Inghilterra di fronte alle difficoltà
commerciali e
industriali, e parziale attuazione del principio
preferenziale.
Nella
politica estera: il Patto di Locarno fu firmato
dall'Inghilterra con la
dichiarazione di assumere per sé sola gli impegni in
esso contemplati.
(Prima vari metodi: per il Trattato di Losanna
l'Inghilterra firmò a
nome di tutto l'Impero, onde incidente col Canadà;
nella Conferenza di
Londra per le riparazioni tedesche, nel luglio 1924,
intervennero i
dominions singoli, con apposite delegazioni, ciò che
domandò un
meccanismo pesante e complicato, non sempre
praticamente applicabile;
nel Patto di Sicurezza di Ginevra del 1928,
l'Inghilterra si riservò di
firmare dopo aver consultato i dominions e averne
ottenuta la
preventiva approvazione).
La Conferenza
Imperiale (del novembre 1926) ha voluto dare una
definizione precisa
dei membri dell'Impero: essi sono «comunità autonome,
uguali in
diritto, in nessun modo subordinate l'una all'altra
nei rispetti dei
loro affari interni ed esteri, sebbene unite da un
comune dovere di
obbedienza alla Corona e liberamente associate quali
membri dell'Impero
britannico». Uguaglianza di status non significa
uguaglianza di
funzioni, e viene espressamente dichiarato che la
funzione della
politica estera, e della difesa militare e navale
incombe principalmente alla Gran Bretagna.
Ciò non esclude
che determinate mansioni di questi due rami
dell'attività statale
vengano in parte assunte da qualcuno dei Dominions:
flotta australiana
e indiana (l'India però non è un Dominion);
rappresentanza a Washington
dell'Irlanda e del Canadà, ecc. Viene infine stabilito
il principio
generale che nessun obbligo internazionale incombe su
uno qualsiasi dei
soci dell'Impero se quest'obbligo non è stato
volontariamente
riconosciuto e assunto.
È stato fissato il
rapporto dei Domini con la Corona, che diviene il vero
organo supremo
imperiale. I Governatori Generali nei Dominions,
essendo puri
rappresentanti del Re, non possono avere nel riguardo
dei Dominions che
l'esatta posizione che ha il re nell'Inghilterra: essi
perciò non sono
rappresentanti od agenti del governo inglese, le cui
comunicazioni coi
governi dei Dominions avverranno per altro tramite.
La politica estera inglese non può non subire
l'influenza dei Dominions.
Funzione
del re d'Inghilterra come nesso politico imperiale:
cioè del Consiglio
privato della Corona, e specialmente del Comitato
giuridico del
Consiglio privato, che non soltanto accoglie i reclami
contro le
decisioni delle Alte Corti dei Dominions, ma anche
giudica le
controversie tra i membri dello stesso Impero. Questo
Comitato è il piú
forte legame organizzativo dell'Impero. Lo Stato
libero d'Irlanda e
l'Africa del Sud aspirano a sottrarsi al Comitato
giuridico. Gli uomini
politici responsabili non sanno come
sostituirlo. Augur è
favorevole alla massima libertà interna nell'Impero:
chiunque può
uscirne, ma ciò, secondo lui, dovrebbe anche voler
dire che chiunque
può domandare di entrarvi: egli prevede che
il Commonwealth può diventare un organismo
mondiale dopo però
che siano chiarite le relazioni dell'Inghilterra con
gli altri paesi, e
specialmente con gli Stati Uniti (Augur sostiene
l'egemonia
inglese nell'Impero, dell'Inghilterra propriamente
detta, data, anche
in regime di uguaglianza, dal peso economico e
culturale).
Da
Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda è diventato
l'«Unione britannica
di Nazioni» (British Commonwealth of Nations).
Tendenze
particolaristiche. Canadà, Australia e Nuova Zelanda
in una posizione
intermedia tra Inghilterra e Stati Uniti. Rapporti tra
Stati Uniti e
Canadà sempre piú intimi. Canadà speciale ministro
plenipotenziario a
Washington. Se urto serio tra Stati Uniti e
Inghilterra l'Impero
inglese si sgretolerebbe.
La
bilancia commerciale inglese già da circa 50 anni
prima della guerra
andava modificando la sua struttura interna. La parte
costituita dalle
esportazioni di merci perdeva relativamente e
l'equilibrio si fondava
sempre piú sulle cosí dette esportazioni invisibili,
cioè gli interessi
dei capitali collocati all'estero, i noli della marina
mercantile e gli
utili realizzati da Londra come centro finanziario
internazionale. Dopo
la guerra, per la concorrenza degli altri paesi,
l'importanza delle
esportazioni invisibili è ancora aumentata. Da ciò la
cura dei
cancellieri dello Scacchiere e della Banca
d'Inghilterra di riportare
la sterlina alla parità dell'oro e quindi reintegrarla
nella sua
posizione di moneta internazionale. Questo fine fu
raggiunto, ma ha
determinato il rincaro del prezzo di costo della
produzione
industriale, che ha perduto terreno nei mercati
stranieri.
Ma
è stata questa la causa (almeno l'elemento piú
importante) della crisi
industriale inglese? In che misura il governo
sacrificò gli interessi
degli industriali a quelli dei finanziari, portatori
di prestiti
all'estero e organizzatori del mercato finanziario
mondiale londinese?
Incanto: il ristabilimento del valore della sterlina
può aver
anticipato la crisi, non averla determinata, poiché
tutti i paesi,
anche quelli rimasti per qualche tempo a moneta
fluttuante e che
l'hanno consolidata a un valore piú basso
dell'originario, hanno subito
e subiscono la crisi: si potrebbe dire che avere
anticipato la crisi in
Inghilterra avrebbe dovuto indurre gli industriali a
correre prima ai
ripari e a rimettersi quindi prima degli altri paesi,
ritrovando cosí
l'egemonia mondiale. D'altronde il ritorno immediato
alla parità aurea
ha evitato in Inghilterra le crisi sociali determinate
dai passaggi di
proprietà e dalla decadenza fulminea delle classi
medie
piccolo-borghesi: in un paese tradizionalista,
conservatore, ossificato
nella sua struttura sociale, come l'Inghilterra, quali
risultati
avrebbero avuto i fenomeni di inflazione, di
oscillazione, di
stabilizzazione in perdita della moneta? Certo molto
piú gravi che
negli altri paesi.
In ogni modo
bisognerebbe fissare con esattezza il rapporto tra
l'esportazione di
merci e le esportazioni invisibili, tra il fatto
industriale e quello
finanziario: ciò servirebbe a spiegare la relativa
scarsa importanza
politica degli operai e il carattere ambiguo del
partito laburista e la
scarsezza di stimoli alla sua differenziazione e al
suo sviluppo.
*
Egemonia
politica dell'Europa prima della guerra
mondiale. Il Tommasini
[dice] che la politica mondiale è stata diretta
dall'Europa fino alla
guerra mondiale, dalla battaglia di Maratona (490 a.
C.). (Però fino a
poco tempo fa non esisteva il «mondo» e non esisteva
una politica
mondiale; d'altronde la civiltà cinese e quella
indiana hanno pur
contato qualcosa). All'inizio del secolo esistevano
tre potenze
mondiali europee, mondiali per l'estensione
dei loro
territori, per la loro potenza economica e
finanziaria, per la
possibilità di imprimere alla loro attività una
direzione assolutamente autonoma, di cui
tutte le altre
potenze, grandi e minori, dovevano subire l'influsso:
Inghilterra,
Russia, Germania. (Il Tommasini non considera la
Francia come potenza
mondiale!) Inghilterra: aveva battuto tre grandi
potenze coloniali
(Spagna, Paesi Bassi, Francia) e asservito la quarta
(Portogallo),
aveva vinto le guerre napoleoniche ed era stata per un
secolo arbitra
del mondo intero. Two powers standard. Punti
strategici mondiali
nelle sue mani (Gibilterra, Malta, Suez, Aden, isole
Bahrein,
Singapore, Hong-Kong). Industrie, commercio,
finanze. Russia:
minacciava India, tendeva a Costantinopoli. Grande
esercito. Germania: attività intellettuale,
concorrenza
industriale all'Inghilterra, grande esercito, flotta
minacciosa per
il two powers standard.
*
Politica
mondiale e politica europea. Non sono una stessa
cosa. Un duello
tra Berlino e Parigi o tra Parigi e Roma non fa del
vincitore il
padrone del mondo. L'Europa ha perduto la sua
importanza e la politica
mondiale dipende da Londra, Washington, Mosca, Tokyo
piú che dal
continente.
*
America
e Europa. Madison Grant (scienziato e scrittore
di grande fama),
presidente della Società biologica di New York, ha
scritto un
libro Una grande stirpe in pericolo in cui
«denuncia» il
pericolo di un'invasione «fisica e morale»
dell'America da parte degli
Europei, ma restringe questo pericolo nell'invasione
dei
«mediterranei», cioè dei popoli che abitano nei paesi
mediterranei. Il
Madison Grant sostiene che, fin dal tempo di Atene e
di Roma,
l'aristocrazia greca e romana era composta di uomini
venuti dal Nord e
soltanto le classi plebee erano composte di
mediterranei. Il progresso
morale e intellettuale dell'umanità fu dunque dovuto
ai «nordici». Per
il Grant i mediterranei sono una razza inferiore e la
loro immigrazione
è un pericolo; essa è peggiore di una conquista armata
e va
trasformando New York e gran parte degli Stati Uniti
in una «cloaca
gentium». Questo modo di pensare non è individuale:
rispecchia una
notevole e predominante corrente di opinione pubblica
degli Stati
Uniti, la quale pensa che l'influsso esercitato dal
nuovo ambiente
sulle masse degli emigranti è sempre meno importante
dell'influsso che
le masse degli emigranti esercitano sul nuovo ambiente
e che il
carattere essenziale della «miscela delle razze» è
nelle prime
generazioni un difetto di armonia (unità) fisica e
morale nei popoli e
nelle generazioni seguenti un lento ma fatale ritorno
al tipo dei vari
progenitori.
Su questa quistione delle
«razze» e delle «stirpi» e della loro boria alcuni
popoli europei sono
serviti secondo la misura della loro stessa pretesa.
Se fosse vero che
esistono razze biologicamente superiori, il
ragionamento del Madison
Grant sarebbe abbastanza verosimile. Storicamente,
data la separazione
di classe-casta, quanti romani-ariani sono
sopravvissuti alle guerre e
alle invasioni? Ricordare la lettera di Sorel al
Michels, «Nuovi Studi
di Diritto, Economia e Politica», settembre-ottobre
1929: «Ho ricevuto
il vostro articolo su la "sfera storica di Roma", le
cui tesi sono
quasi tutte contrarie a ciò che lunghi studi m'hanno
mostrato essere la
verità piú probabile. Non c'è paese meno romano
dell'Italia; l'Italia è
stata conquistata dai Romani perché essa era
altrettanto anarchica
quanto i paesi berberi; essa è rimasta anarchica per
tutto il Medio
Evo, e la sua propria civiltà è morta quando gli
Spagnoli le imposero
il loro regime amministrativo; i Piemontesi hanno
compiuto l'opera
nefasta degli Spagnoli. Il solo paese di lingua latina
che possa
rivendicare l'eredità romana è la Francia, dove la
monarchia si è
sforzata di mantenere il potere imperiale. Quanto alla
facoltà
d'assimilazione dei Romani, si tratta di uno scherzo.
I Romani hanno
distrutto la nazionalità sopprimendo le aristocrazie».
Tutte queste
quistioni sono assurde se si vuole fare di esse
elementi di una scienza
e di una sociologia politica. Rimane solo il materiale
per qualche
osservazione di carattere secondario che spiega
qualche fenomeno di
secondo piano.
*
Inghilterra
e Stati Uniti dopo la guerra. L'Inghilterra è
uscita dalla guerra
come trionfatrice. La Germania privata della flotta e
delle colonie. La
Russia, che poteva ridiventare rivale, ridotta a
fattore secondario per
almeno qualche decennio (questa opinione è discutibile
molto: forse gli
inglesi avrebbero preferito come rivale la Russia
zarista, anche
vittoriosa, all'attuale Russia, che non solo influisce
sulla politica
imperiale, ma anche sulla politica interna inglese).
Ha acquistato
circa altri 10 milioni di Km2 di possedimenti con
circa 35 milioni
di abitanti. Tuttavia l'Inghilterra ha dovuto
riconoscere tacitamente
la supremazia degli Stati Uniti, e ciò sia per ragioni
economiche sia
per la trasformazione dell'Impero. La ricchezza degli
Stati Uniti che
si calcolava in 925 miliardi di franchi oro nel 1912,
era salita nel
1922 a 1.600 miliardi. La marina mercantile: 7.928.688
tonn. nel 1914,
12.500.000 nel 1919. Le esportazioni: 1913, 15
miliardi franchi oro;
nel 1919, 37 miliardi e 1/2, ridiscendendo a circa 24
miliardi nel
1924-25. Importazioni: 10 miliardi circa nel 1913, 16
nel 1919, 19 nel
1924-25.
La ricchezza della Gran Bretagna
nel decennio 1912-22 è salita solo da 387 a 445
miliardi di franchi
oro. Marina mercantile: 1912, 13.850.000 tonn.; 1922,
11.800.000.
Esportazioni: 1913, 15 miliardi circa di franchi oro;
1919, 17
miliardi; 1924, 20 miliardi. Importazioni: 1913, 19
miliardi; 1919, 28
1/2 miliardi circa; 1924, 27 1/2 miliardi. Debito
pubblico: 31 marzo
1915: 1.162 milioni di sterline; 1919: 7.481 milioni;
1929: 8.482
milioni; all'attivo vi erano, dopo la guerra, crediti
per prestiti a
Potenze alleate, colonie e domíni, nuovi Stati
dell'Europa orientale
ecc., che nel 1919 ascendevano a 2.541 milioni di
sterline e nel 1924 a
2.162. Ma non erano di sicura riscossione integrale.
Per es. il debito
italiano era nel 1924 di 553 e nel 1925 di 584 mil. di
sterline, ma con
l'accordo del 27 gennaio 1926 l'Italia pagherà in 62
anni solo
276.750.000 sterline interessi compresi. Nel 1922
l'Inghilterra invece
consolidò il suo debito verso gli Stati Uniti in 4.600
milioni di
dollari, rimborsabili in 62 anni con interesse del 3%
fino al 1932 e
del 3 1/2% in seguito.
*
Augur, Il
nuovo aspetto dei rapporti tra la Gran Bretagna e gli
Stati Uniti
d'America, «Nuova Antologia» del 16 dicembre 1928.
(Espone questa
ipotesi: che gli Stati Uniti cerchino di diventare la
forza politica
egemone dell'Impero inglese, cioè conquistino l'impero
inglese
dall'interno e non dall'esterno con una guerra).
Nello
stesso fascicolo della «Nuova Antologia» vedi anche
Oscar di
Giamberardino, La politica marittima degli Stati
Uniti d'America;
questo articolo è molto interessante e da tener
presente.
*
Formazione
della potenza degli Stati Uniti. Indipendenza nel
1783,
riconosciuta dall'Inghilterra col trattato di
Versailles: comprendevano
allora 13 Stati, di cui 10 di originaria
colonizzazione britannica e 3
(New-York, New Jersey e Delaware) ceduti dai Paesi
Bassi
all'Inghilterra nel 1667, con circa 2 milioni di Km2,
ma la parte
effettivamente popolata era solo quella sulla costa
orientale
dell'Atlantico. Secondo il censimento del 1790, la
popolazione non
arrivava a 4 milioni, compresi 700.000 schiavi. Su
quello stesso
territorio nel 1920 esistevano 20 Stati con 71 milioni
di abitanti.
Allora gli Stati Uniti confinavano a Nord col Canadà,
che la Francia
aveva ceduto all'Inghilterra nel 1763, dopo la guerra
dei 7 anni; ad
Ovest con la Luisiana, colonia francese che fu
comperata nel 1803 per
15 milioni di dollari (territorio di 1.750.000 Km2)
cosí che tutto il
bacino del Mississipí si trovò in suo dominio e il
confine cadde sul
fiume Sabine colla colonia spagnola del Messico. A Sud
colla Florida
spagnola che fu acquistata nel 1819.
Il
Messico, che allora era il doppio dell'attuale,
insorse nel 1810 contro
la Spagna e nel 1821 fece riconoscere la sua
indipendenza col trattato
di Cordova. Da quel momento gli Stati Uniti iniziarono
una politica
intesa ad accaparrarsi il Messico: l'Inghilterra
sosteneva l'imperatore
Iturbide, gli Stati Uniti favorirono un movimento
repubblicano che
trionfò nel 1823. Intervento francese in Spagna.
Opposizione
dell'Inghilterra e degli Stati Uniti alla politica
della Santa Alleanza
di aiutare la Spagna a riconquistare le colonie
americane. Da ciò è
determinato il messaggio del Presidente Monroe al
Congresso (2 dicembre
1823) in cui enunciata la teoria famosa. Si domanda di
non intervenire
contro le ex-colonie che hanno proclamato la loro
indipendenza, che
l'hanno mantenuta e che è stata riconosciuta dagli
Stati Uniti, i quali
non potrebbero rimanere indifferenti spettatori di un
simile intervento
qualunque forma fosse per assumere.
Nel
1835 il Texas (690 mila Km2) si dichiarò indipendente
dal Messico e
dopo un decennio si uní agli Stati Uniti. Guerra fra
Stati Uniti e
Messico. Col trattato di Guadalupa Hidalgo (1848) il
Messico dovette
cedere il territorio costituente gli attuali Stati
della California,
dell'Arizona, del Nevada, dell'Utah e del Nuovo
Messico (circa
1.700.000 Km2). Gli Stati Uniti arrivarono cosí sulla
costa del
Pacifico, che fu occupata poi fino alla frontiera del
Canadà, e
raggiunsero le dimensioni attuali.
Dal '60
al '65 guerra di secessione: Francia e Inghilterra
incoraggiarono il
movimento separatista del Sud e Napoleone III cercò di
approfittare
della crisi per rafforzare il Messico con
Massimiliano. Gli Stati
Uniti, finita la guerra civile, ricordarono la
dottrina di Monroe a
Parigi, esigendo il ritiro delle truppe francesi dal
Messico. Nel 1867
acquisto dell'Alaska. L'espansione degli Stati Uniti
come grande
potenza mondiale, comincia alla fine dell'800.
Problemi
principali americani: 1°, regolamento dell'emigrazione
per assicurare
una maggiore omogeneità della popolazione (veramente
questo problema si
pose dopo la guerra ed è legato, oltre che alla
quistione nazionale,
anche e specialmente alla rivoluzione industriale);
2°, egemonia sul
mar Caraibico e sulle Antille; 3°, dominio
sull'America Centrale,
specialmente sulle regioni dei canali; 4°, espansione
nell'Estremo
Oriente.
Guerra mondiale. Imperi centrali
bloccati: l'Intesa padrona dei mari: gli S. U.
rifornirono l'Intesa,
sfruttando tutte le buone occasioni che si offrivano.
Il costo
colossale della guerra, i profondi turbamenti della
produzione europea
(la rivoluzione russa), hanno fatto degli Stati Uniti
gli arbitri della
finanza mondiale. Quindi la loro affermazione
politica.
*
Wilson. Politica
mondiale di Wilson. Suo contrasto con le forze
politiche preponderanti
negli Stati Uniti. Fallimento della sua politica
mondiale. Warren G.
Harding diventa presidente il 4 marzo 1921. Colla sua
nota del 4 aprile
seguente Harding, a proposito della quistione
dell'isola di Yap,
precisa che gli Stati Uniti non intendono intervenire
nei rapporti fra
gli Alleati e la Germania, né chiedere la revisione
del trattato di
Versailles, ma mantenere tutti i diritti che le
derivano dal suo
intervento nella guerra. Questi principii [furono]
svolti nel messaggio
del 12 aprile e condussero alla conferenza di
Washington che durò dal
12 novembre 1921 al 6 febbraio 1922 e si occupò della
Cina,
dell'equilibrio nei mari dell'Estremo Oriente e della
limitazione degli
armamenti navali.
Popolazione degli Stati
Uniti. Sua composizione nazionale data
dall'immigrazione. Politica
governativa. Nel 1882 proibito l'accesso agli operai
cinesi. Col
Giappone furono dapprima usati certi riguardi, ma nel
1907 col cosí
detto Gentlemen's agreement Root-Takahira
l'immigrazione
giapponese, senza essere respinta come tale, fu
grandemente ostacolata
mediante clausole circa la cultura, le condizioni
igieniche e la
fortuna degli immigranti. Ma il gran mutamento della
politica
d'immigrazione è avvenuto dopo la guerra: la legge 19
maggio 1921,
rimasta in vigore fino al 1° luglio 1924, stabilí che
la quota annua
d'immigrazione di ogni singola nazione dovesse
limitarsi al 3% dei
cittadini americani della rispettiva nazione, secondo
il censimento del
1910. (Successive modifiche). L'immigrazione gialla
definitivamente
esclusa.
*
Lodovico Luciolli, La politica doganale degli
Stati Uniti d'America, «Nuova Antologia» del 16 agosto
1929.
Articolo
molto interessante e utile da consultare perché fa un
riassunto della
storia tariffaria negli Stati Uniti e della funzione
particolare che le
tariffe doganali hanno sempre avuto nella politica
degli Stati Uniti.
Sarà interessante una rassegna storica delle
varie forme che
ha assunto e sta assumendo la politica doganale dei
vari paesi, ma
specialmente dei piú importanti economicamente e
politicamente, ciò che
in fondo significa dei vari tentativi di organizzare
il mercato
mondiale e di inserirsi in esso nel modo piú
favorevole dal punto di
vista dell'economia nazionale, o delle industrie
essenziali
dell'attività economica nazionale. Una nuova tendenza
del nazionalismo
economico contemporaneo da seguire è questa: alcuni
Stati cercano di
ottenere che le loro importazioni da un determinato
paese siano
«controllate» in blocco con un corrispettivo di
«esportazione»
ugualmente controllato. Che una tale misura giovi alle
nazioni la cui
bilancia commerciale (visibile) sia in deficit, è
manifesto. Ma come
spiegare che un tale principio si incominci ad
affermare da parte della
Francia, che esporta merci piú che non ne importi? Si
tratta
inizialmente di una politica commerciale rivolta a
boicottare le
importazioni da un determinato paese, ma da questo
inizio può
svilupparsi una politica generale da inquadrare in una
cornice piú
ampia e di carattere positivo che può (svilupparsi) in
Europa in
conseguenza della politica tariffaria americana e per
cercare di
stabilizzare certe economie nazionali. Cioè: ogni
nazione importante
può tendere a dare un sostrato economico organizzato
alla propria
egemonia politica su le nazioni che le sono
subordinate. Gli accordi
politici regionali potrebbero diventare accordi
economici regionali, in
cui l'importazione e l'esportazione «concordata» non
avverrebbe piú tra
due soli Stati, ma tra un gruppo di Stati, eliminando
molti
inconvenienti non piccoli evidentissimi. In questa
tendenza mi pare si
possa far rientrare la politica di libero scambio
interimperiale e di
protezionismo verso il non-Impero del gruppo
nuovamente formatosi in
Inghilterra intorno a lord Beaverbrook (o nome
simile), cosí come
l'intesa agraria di Sinaia poi ampliata a Varsavia.
Questa
tendenza politica potrebbe essere la forma moderna
di Zollverein che ha portato all'Impero
Germanico federale, o
dei tentativi di lega doganale fra gli Stati italiani
prima del 1848, e
piú innanzi del mercantilismo settecentesco: e
potrebbe diventare la
tappa intermedia della Paneuropa di Briand, in quanto
essa corrisponde
a un'esigenza delle economie nazionali di uscire dai
quadri nazionali
senza perdere il carattere nazionale.
Il
mercato mondiale, secondo questa tendenza, verrebbe ad
essere
costituito di una serie di mercati non piú nazionali
ma internazionali
(interstatali) che avrebbero organizzato nel loro
interno una certa
stabilità delle attività economiche essenziali, e che
potrebbero
entrare in rapporto tra loro sulla base dello stesso
sistema. Questo
sistema terrebbe piú conto della politica che
dell'economia nel senso
che nel campo economico darebbe piú importanza
all'industria finita che
all'industria pesante. Ciò nel primo stadio
dell'organizzazione.
Infatti: i tentativi di cartelli internazionali basati
sulle materie
prime (ferro, carbone, potassa, ecc.) hanno messo di
fronte Stati
egemonici, come la Francia e la Germania, delle quali
né l'una né
l'altra può cedere nulla della sua posizione e della
sua funzione
mondiale. Troppo difficile e troppi ostacoli. Piú
semplice invece un
accordo della Francia e dei suoi Stati vassalli per un
mercato
economico organizzato sul tipo dell'Impero Inglese,
che potrebbe far
crollare la posizione della Germania e costringerla a
entrare nel
sistema, ma sotto l'egemonia francese.
Sono tutte ipotesi molto vaghe ancora, ma da tener
presenti per studiare gli sviluppi delle tendenze su
accennate.
*
Gli
Stati Uniti nel Mar Caraibico. Guerra
ispano-americana. Col
trattato di pace di Parigi (10 dicembre 1898) la
Spagna rinunciò a ogni
suo diritto su Cuba e cedette agli Stati Uniti Porto
Rico e le altre
sue isole minori. L'isola di Cuba, che domina
l'entrata del golfo del
Messico, doveva essere indipendente e si promulgò una
costituzione il
12 febbraio 1901; ma gli Stati Uniti, per riconoscere
l'indipendenza e
ritirare le truppe, si fecero garantire il diritto
d'intervento. Col
trattato di reciprocità del 2 luglio 1903 gli Stati
Uniti ottennero
vantaggi commerciali e l'affitto come base navale
della baia di
Guantanamo.
Gli Stati Uniti intervennero
nel 1914 ad Haiti: il 16 settembre 1915 un accordo
dette il diritto
agli Stati Uniti di avere a Port-au-Prince un loro
alto commissario da
cui dipende l'amministrazione delle dogane. La
repubblica di San
Domingo fu posta sotto il controllo finanziario
americano nel 1907 e
durante la guerra vi furono sbarcate truppe, ritirate
nel 1924. Nel
1917 gli Stati Uniti comprarono dalla Danimarca
l'arcipelago delle
Vergini. Cosí gli Stati Uniti dominano il golfo di
Messico e il Mare
Caraibico.
*
Gli
Stati Uniti e l'America Centrale. Canale di
Panama e altri
possibili canali. La repubblica di Panama si è
impegnata col trattato
di Washington del 15 dicembre 1926 a dividere le sorti
degli Stati
Uniti in caso di guerra. Il trattato non ancora
ratificato perché
incompatibile con lo Statuto della Società delle
Nazioni di cui il
Panama fa parte, ma la ratifica non necessaria.
Quistione del Nicaragua.
*
Estremo
Oriente. Possessi degli Stati Uniti: le Filippine
e l'isola di
Guam (Marianne); le Hawai; l'isola di Tutuila nel
gruppo della Samoa.
Prima del trattato di Washington la situazione
nell'Estremo Oriente era
dominata dall'alleanza anglo-giapponese, conclusa col
trattato
difensivo di Londra del 30 gennaio 1902, basato
sull'indipendenza della
Cina e della Corea, con prevalenza di interessi
inglesi in Cina e
giapponesi in Corea; dopo la disfatta russa, fu
sostituito dal trattato
del 12 agosto 1905: l'integrità della Cina ribadita e
l'eguaglianza
economica e commerciale di tutti gli stranieri, i
contraenti si
garantivano reciprocamente i loro diritti territoriali
e i loro
interessi speciali nell'Asia Orientale e in India:
supremazia
giapponese in Corea e diritto dell'Inghilterra di
difendere l'India
nelle regioni cinesi vicine, cioè il Tibet. Questa
alleanza vista di
malocchio da Stati Uniti. Attriti durante la guerra.
Nella seduta del
10 dicembre 1921 della Conferenza di Washington lord
Balfour annunziò
la fine dell'alleanza, sostituita col trattato 13
dicembre 1921 con cui
la Francia, l'Inghilterra, gli Stati Uniti e il
Giappone si impegnano
per dieci anni: 1°, a rispettare i loro possedimenti e
domini insulari
nel Pacifico e a deferire ad una Conferenza degli
Stati stessi le
controversie che potessero sorgere fra alcuni di loro
circa il Pacifico
e i possedimenti e domini in quistione; 2°, a
concertarsi nel caso di
attitudine aggressiva di altra potenza. Il trattato si
limita ai
possedimenti insulari e per ciò che riguarda il
Giappone si applica a
Karafuto (Sakhalin meridionale) a Formosa e alle
Pescadores, ma non
alla Corea e a Porto Arthur. Una separata
dichiarazione specifica che
il trattato si applica anche alle isole sotto mandato
nel Pacifico, ma
che ciò non implica il consenso ai mandati da parte
degli Stati Uniti.
La reciproca garanzia dello statu quo ha
speciale importanza
per le Filippine, poiché impedisce al Giappone di
fomentarvi il
malcontento degli indigeni.
Nel trattato
per la limitazione degli armamenti navali c'è una
disposizione
importantissima (art. 19) con cui Francia,
Inghilterra, Stati Uniti,
Giappone, si impegnano fino al 31 dicembre 1936 di
mantenere
lo statu quo per ciò che riguarda le
fortificazioni e le basi
navali nei possedimenti e domíni situati ad oriente
del meridiano 110
di Greenwich, che passa per l'isola di Hainan. Il
Giappone è
sacrificato, perché ha le mani legate anche per i
piccoli arcipelaghi
vicini alle grandi isole metropolitane. L'Inghilterra
può fortificare
Singapore e gli Stati Uniti le Hawai, dominando cosí
entrambi gli
accessi al Pacifico. Limitazione delle navi di linea.
Ottenimento della
parità navale tra Stati Uniti e Inghilterra.
Egemonia
degli Stati Uniti. Il Tommasini prevede alleanza tra
Stati Uniti e
Inghilterra e che dall'Asia partirà la riscossa contro
di essa per una
coalizione che può comprendere la Cina, il Giappone e
la Russia col
concorso tecnico-industriale della Germania. Egli si
basa ancora sulla
prima fase del movimento nazionalista cinese.
*
La
Cina. L'America nel 1899 proclamò la politica
dell'integrità
territoriale cinese e della porta aperta. Nel 1908,
con lo scambio di
note Root-Takahira, Stati Uniti e Giappone rinnovarono
dichiarazioni
solenni sull'integrità e l'indipendenza politica della
Cina. Dopo
l'accettazione da parte della Cina delle cosí dette
«ventun domande»
del Giappone (ultimatum 1915) gli Stati Uniti
dichiarano (note del 13
maggio 1915 a Pekino e Tokio) che non riconoscevano
gli accordi
conclusi. Alla Conferenza di Washington gli Stati
Uniti ottennero che
le potenze europee e il Giappone rinunziassero a buona
parte dei
vantaggi speciali e dei privilegi che si erano
assicurati. Il Giappone
si impegnò a sgombrare il Kiau-Ceu. Solo in Manciuria
il Giappone
mantenne la sua posizione. Fin dal 1908 gli Stati
Uniti avevano
rinunziato alle indennità loro spettanti dopo la
rivolta dei boxers e
avevano adibito le somme relative a scopi culturali in
Cina. Nel 1917
la Cina sospese i pagamenti. Accordi: Giappone e
Inghilterra hanno
rinunziato come gli Stati Uniti; la Francia si è
servita dei fondi per
risarcire i danneggiati del fallimento
della Banca industriale di
Cina: Italia e Belgio hanno consentito a consacrare a
scopi culturali
circa i 4/5 delle somme ancora dovute.
*
Atlantico-Pacifico. Funzione
dell'Atlantico nella civiltà e nell'economia moderna.
Si sposterà
questo asse nel Pacifico? Le masse piú grandi di
popolazione del mondo
sono nel Pacifico: se la Cina e l'India diventassero
nazioni moderne
con grandi masse di produzione industriale, il loro
distacco dalla
dipendenza europea romperebbe appunto l'equilibrio
attuale:
trasformazione del continente americano, spostamento
dalla riva
atlantica alla riva del Pacifico dell'asse della vita
americana, ecc.
Vedere tutte queste quistioni nei termini economici e
politici
(traffici, ecc.).
*
Bernardo
Sanvisenti, La questione delle Antille, «Nuova
Antologia», 1°
giugno 1929. Sulla dottrina di Monroe, sui rapporti
tra Stati Uniti e
America Spagnola ecc. Contiene citazioni
bibliografiche su questi
argomenti di libri di scrittori sudamericani e riporta
notizie su
movimenti culturali legati al predominio degli Stati
Uniti che possono
essere utili.
*
Armamento
della Germania al momento dell'armistizio. Al momento
dell'armistizio
furono consegnati dall'esercito operante: cannoni
5.000; mitragliatrici
25.000; bombarde 3.000; aeroplani 1.700; autocarri
5.000; locomotive
5.000; carri ferroviari 150.000. La Commissione per il
disarmo
distrusse nel territorio tedesco: cannoni 39.600;
affusti finiti
23.061; fucili e pistole 4.574.000; mitragliatrici
88.000; proietti
d'artiglieria 39.254.000; proietti per bombarde
4.028.000; cartucce
500.294.000; bombe a mano 11.530.000; esplosivi
2.131.646 tonnellate (e
molte armi non furono consegnate).
*
Il
problema scandinavo e baltico, articolo di A. M. (?)
nella «Nuova
Antologia» del 1° agosto 1927. Articolo un po'
balzellante e pieno di
fumosità pretenziose ma interessante nel complesso,
anche perché
l'argomento è di solito poco trattato. Unità culturale
dei popoli
scandinavi molto piú intima di quella dei popoli di
cultura latina.
Esiste un movimento per una Lega interscandinava, che
dà luogo a
riunioni periodiche e solenni, ma la Lega non può
divenire realtà
concreta di organismo politico: rimangono i vincoli
culturali e di
razza da cui il movimento nasce e che da esso sono
mantenuti e
rinforzati. Le ragioni della impossibilità della Lega
sono piú
sostanziali che non quella del pericolo di una
egemonia svedese. La
Svezia e la Finlandia hanno interessi diversi della
Danimarca e
Norvegia. Eliminate le flotte tedesca e russa il
Baltico è in certo
qual modo neutralizzato, ma tale neutralità è
controllata
dall'Inghilterra. La Lega creerebbe un'altra
situazione di cui
l'Inghilterra potrebbe non essere soddisfatta, almeno
che la Lega
stessa fosse una sua creatura. Cosí si dica per la
Germania (e anche
per la Russia, anzi piú di tutto per la Russia)
restituita a grande
potenza.
Danimarca nell'anteguerra
gravitava nell'orbita inglese. Oggi ancor piú. Ha
rinunziato a ogni
apparato militare (bisogna vedere se ciò non sia
avvenuto per
suggerimento inglese, che cosí può entrare nel Baltico
senza violare
nessun «piccolo Belgio»). In ogni modo la neutralità
disarmata della
Danimarca pone il Baltico sotto il controllo inglese,
quindi diminuisce
la posizione della Germania, che tende a esercitare
una influenza nel
Nord. La Danimarca, col suo disarmo, ha rinunziato
alla sua posizione e
funzione internazionale. Paese piccolo borghese.
La
Svezia è apatica e quietista, senza volontà di
potenza. La Norvegia
sotto influsso inglese, in istato di quasi disarmo, ma
in ascesa. Piena
di vigore la Finlandia, dotata di un forte sistema
statale e di
governo. La Svezia paese di grande industria e di alta
borghesia con
rigida differenziazione di classi (tradizione
aristocratica-militare e
conservatrice); riduzione di spese militari e navali;
sotto influenza
tedesca; il suo prestigio decaduto; avrebbe potuto
forse annettersi la
Finlandia: invece vide assegnare alla Finlandia le
isole Aland, la
Gibilterra baltica.
La Finlandia ha
assorbito dalla Svezia la cultura occidentale. I suoi
interessi
permanenti e profondi legati alla Germania.
Atteggiamento riservato
verso la Polonia. La Polonia vorrebbe costituirsi
grande protettrice
degli Stati baltici e raggrupparli intorno a sé di
fronte alla Russia e
alla Germania. (Ma Lituania avversa, Finlandia molto
riservata e altri
Stati baltici diffidenti e sospettosi). La Russia ha
finora sventato
queste manovre polacche.
Inghilterra,
potenza navale contro blocco tedesco-russo (l'autore
prevede una
ripresa della potenza tedesca che organizza la Russia
sotto il suo
controllo e le si unisce territorialmente): in cui la
tradizionale
supremazia del mare (inglese) sul continente verrebbe
a perdere la sua
efficienza data la grandezza territoriale del blocco
tedesco-russo.
L'Inghilterra in posizione di difesa, perché satura di
territori
dominati e la sua flotta diminuita come fattore
egemonico. Il blocco
russo-tedesco rappresenterebbe la rivolta
anti-inglese. Verrebbe a
formarsi una continuità ininterrotta dal Mar Glaciale
al Mediterraneo e
dal Reno al Pacifico: la Turchia sarebbe il secondo
fattore in
sottordine; l'adesione della Bulgaria e dell'Ungheria
non sarebbe
improbabile in caso di conflitto. (Lituania già
congiunge Russia e
Germania).
La minaccia dell'Inghilterra di
forzare gli stretti danesi (a parte la funzione
germanica del canale di
Kiel) neutralizzata dai possibili campi di mine che la
Germania può
disporre ai confini meridionali della Danimarca e
della Svezia.
L'influenza francese nel Nord è irrilevante. La Svezia
e la Finlandia
rifuggono dall'inimicarsi l'Inghilterra, ma tendono
sempre piú verso la
Germania.
Risorgere del germanesimo. La
Germania «potenzialmente» è ancora la piú forte
nazione continentale.
L'unità nazionale è rafforzata; la compagine statale è
intatta. Essa
oggi si destreggia fra Occidente e Oriente in attesa
di riprendere la
sua libertà politica di fronte all'Inghilterra che
tenta invano di
separarla dalla Russia, per avere ragione di entrambe.
La
Russia: i concetti dell'autore sulla Russia sono molto
superficiali e
fumosi. «L'amorfismo russo è incapace di organizzare
lo Stato e neppure
di concepirlo. Tutti i fondatori di Stato russo furono
stranieri o
d'origine straniera (Rurik, i Romanoff). La potenza
organizzatrice non
può essere che la Germania, per ragioni storiche e
geografiche e
politiche. Non conquista militare ma solo
subordinazione economica,
politica, culturale. Sarebbe antistorico frazionare la
Russia e
sottoporla ad esperimenti coloniali, come avrebbero
voluto certi
teorici della politica. Il popolo russo è mistico, ma
non religioso,
per eccellenza femmineo e dissolvitore», ecc. ecc. (La
quistione è
molto meno verbalmente complessa: la Russia è troppo
contadina e di
un'agricoltura primitiva, per potere con «facilità»
organizzare uno
Stato moderno: la sua industrializzazione è il
processo della sua
modernizzazione).
*
La
posizione geopolitica dell'Italia. La possibilità dei
blocchi. Nella sesta seduta della Conferenza di
Washington (23
dicembre 1921) il delegato inglese Balfour disse,
parlando dell'Italia:
«L'Italia non è un'isola, ma può considerarsi come
un'isola. Mi ricordo
dell'estrema difficoltà che abbiamo avuto a rifornirla
anche con il
minimo di carbone necessario per mantenere la sua
attività, i suoi
arsenali e le sue officine, durante la guerra. Dubito
che essa possa
nutrirsi e approvvigionarsi, o continuare ad essere
una effettiva unità
di combattimento, se fosse realmente sottomessa ad un
blocco e se il
suo commercio marittimo fosse arrestato. L'Italia ha
cinque vicini nel
Mediterraneo. Spero e credo che la pace, pace eterna,
possa regnare
negli antichi focolari della civiltà. Ma noi facciamo
un esame freddo e
calcolatore come quello di un membro qualsiasi dello
Stato Maggiore
Generale. Questi, considerando il problema senza alcun
pregiudizio
politico e soltanto come una questione di strategia,
direbbe
all'Italia: voi avete cinque vicini, ciascuno dei
quali può, se vuole,
stabilire un blocco delle vostre coste senza impiegare
una sola nave di
superficie. Non sarebbe necessario che sbarcasse
truppe e desse
battaglia. Voi perireste senza essere conquistati».
(Balfour parlava
specialmente sotto l'impressione della guerra
sottomarina e prima dei
grandi progressi realizzati dall'aviazione di
bombardamento, che non
pare possa permettere un blocco immune da
rappresaglie; tuttavia per
alcuni aspetti la sua analisi è abbastanza giusta).
III. Note
sull'attrezzamento
nazionale e sulla politica italiana
L'attrezzamento
nazionale. Nella ricerca sulle condizioni economiche e
sulla struttura
dell'economia italiana, inquadrare nel concetto di
«attrezzamento
nazionale». Fissare questo concetto esattamente ecc.
*
Economia
nazionale. Tutta l'attività economica di un paese
può essere
giudicata solo in rapporto al mercato internazionale,
«esiste» ed è da
valutarsi in quanto è inserita in una unità
internazionale. Da ciò
l'importanza del principio dei costi comparati e la
saldezza che
mantengono i teoremi fondamentali dell'economia
classica di contro alle
critiche verbalistiche dei teorici di ogni nuova forma
di mercantilismo
(protezionismo, economia diretta, corporativismo
ecc.). Non esiste un
«bilancio» puramente nazionale dell'economia, né per
il suo complesso,
e neppure per una attività particolare. Tutto il
complesso economico
nazionale si proietta nell'eccedente che viene
esportato in cambio di
una corrispondente importazione, e se nel complesso
economico nazionale
una qualsiasi merce o servizio costa troppo, è
prodotta in modo
antieconomico, questa perdita si riflette
nell'eccedente esportato,
diventa un «regalo» che il paese fa all'estero, o per
lo meno (giacché
non sempre può parlarsi di «regalo») una perdita secca
del paese, nei
confronti con l'estero, nella valutazione della sua
statura relativa e
assoluta nel mondo economico internazionale.
Se
il grano in un paese è prodotto a caro prezzo, le
merci industriali
esportate e prodotte da lavoratori nutriti con quel
grano, a prezzo
uguale con l'equivalente merce estera, contengono
congelata una maggior
quantità di lavoro nazionale, una maggior quantità di
sacrifizi di
quanto contenga la stessa merce estera. Si lavora per
l'«estero» a
sacrifizio; i sacrifizi sono fatti per l'estero, non
per il proprio
paese. Le classi che all'interno si giovano esse di
tali sacrifizi, non
sono la «nazione» ma rappresentano uno sfruttamento
esercitato da
«stranieri» sulle forze realmente nazionali ecc.
*
Struttura
economica italiana. Giuseppe Paratore in un articolo
della «Nuova
Antologia» del 1° marzo 1929 La Economia, la
Finanza, il
Denaro d'Italia scrive che l'Italia ha «una
doppia costituzione
economica (industriale capitalistica al nord, agraria
di risparmio al
sud)» e nota come tale situazione abbia reso difficile
nel '26-27 la
stabilizzazione della lira. Il metodo piú semplice e
diretto, di
consolidare rapidamente la svalutazione monetaria,
creando subito una
nuova parità – secondo le prescrizioni di Kemmerer,
Keynes, Cassel ecc.
– non era consigliabile ecc.
Sarebbe
interessante sapere quale fattore risultò, in ultima
analisi, meglio
difeso: se l'economia del Nord o quella del Sud, e ciò
perché, in
realtà, la stabilizzazione fu compiuta dopo molte
esitazioni e sotto il
panico di un crollo fulmineo (corso del dollaro nel
1928: gennaio
477,93, febbraio 479,93, marzo 480,03, aprile 479,63,
maggio 500,28,
giugno 527,72, luglio 575,41); bisogna inoltre tener
conto che il Sud
era piú omogeneo rispetto al Nord nelle sue
rivendicazioni e aveva la
solidarietà di tutti i risparmiatori nazionali; nel
Nord i capitalisti
divisi, esportatori favorevoli inflazione, per il
mercato interno ecc.
ecc. Inoltre: la bassa stabilizzazione avrebbe
provocato una crisi
sociale-politica e non solo puramente economica,
perché avrebbe mutato
la posizione sociale di milioni di cittadini.
Nella
«Riforma Sociale» del maggio-giugno 1932 è stata
pubblicata una
recensione del libro di Rodolfo Morandi (Storia della
grande industria
in Italia, ed. Laterza, Bari, 1931) recensione che
contiene alcuni
spunti metodici di un certo interesse (la recensione è
anonima, ma
l'autore potrebbe essere identificato nel prof. De
Viti De Marco).
Si
obbietta prima di tutto al Morandi di non tener conto
di ciò che è
costata l'industria italiana: «All'economista non
basta che gli vengano
mostrate fabbriche che danno lavoro a migliaia di
operai, bonifiche che
creano terre coltivabili, ed altri simili fatti di cui
il pubblico
generalmente si contenta nei suoi giudizi su un paese,
su un'epoca.
L'economista sa bene che lo stesso risultato può
rappresentare un
miglioramento o un peggioramento di una certa
situazione economica, a
seconda che sia ottenuto con un complesso di sacrifici
minori o
maggiori».
(È giusto il criterio generale
che occorra esaminare il costo dell'introduzione di
una certa industria
in un paese, chi ne ha fatto le spese, chi ne ha
ricavato i vantaggi e
se i sacrifizi fatti non potevano essere fatti in
altra direzione piú
utilmente, ma tutto questo esame deve essere fatto con
una prospettiva
non immediata, ma di larga portata. D'altronde il solo
criterio
dell'utilità economica non è sufficiente per esaminare
il passaggio da
una forma di organizzazione economica ad un'altra;
occorre tener conto
anche del criterio politico, cioè se il passaggio sia
stato
obbiettivamente necessario e corrispondente a un
interesse generale
certo, anche se a scadenza lunga. Che l'unificazione
della penisola
dovesse costare sacrifizi a una parte della
popolazione per le
necessità inderogabili di un grande Stato moderno è da
ammettere; però
occorre esaminare se tali sacrifizi sono stati
distribuiti equamente e
in che misura potevano essere risparmiati e se sono
stati applicati in
una direzione giusta. Che l'introduzione e lo sviluppo
del capitalismo
in Italia non sia avvenuto da un punto di vista
nazionale, ma da
angusti punti di vista regionali e di ristretti gruppi
e che abbia in
gran parte fallito ai suoi compiti, determinando
un'emigrazione
morbosa, mai riassorbita e di cui mai è cessata la
necessità, e
rovinando economicamente intere regioni, è certissimo.
L'emigrazione
infatti deve essere considerata come un fenomeno di
disoccupazione
assoluta da una parte, e dall'altra come una
manifestazione del fatto
che il regime economico interno non assicurava uno
standard di vita che
si avvicinasse a quello internazionale tanto da non
far preferire i
rischi e i sacrifizi connessi con l'abbandono del
proprio paese a
lavoratori già occupati).
Il Morandi non
riesce a valutare il significato del protezionismo
nello sviluppo della
grande industria italiana. Cosí il Morandi rimprovera
assurdamente alla
borghesia «il proposito deliberato e funestissimo di
non aver
tentato l'avventura salutare del sud, dove
malamente la
produzione agricola può ripagare i grandi sforzi che
all'uomo
richiede». Il Morandi non si domanda se la miseria del
Sud non fosse
determinata dalla legislazione protezionistica che ha
consentito lo
sviluppo industriale del Nord e come poteva esistere
un mercato interno
da sfruttare coi dazi e altri privilegi, se il sistema
protettivo si
fosse esteso a tutta la penisola, trasformando
l'economia rurale del
Sud in economia industriale (tuttavia si può pensare a
un tale regime
protezionistico panitaliano, come un sistema per
assicurare determinati
redditi a certi gruppi sociali, cioè come un «regime
salariale»; e si
può vedere qualcosa del genere nella protezione
cerealicola, connessa
alla protezione industriale, che funziona solo a
favore dei grandi
proprietari e dell'industria molitoria ecc.). Si
rimprovera al Morandi
l'eccessiva severità con cui giudica e condanna uomini
e cose del
passato, poiché basta fare un confronto tra le
condizioni prima e dopo
l'indipendenza per vedere che qualcosa si è pur fatta.
Pare
dubbio che si possa fare una storia della grande
industria astraendo
dai principali fattori (sviluppo demografico, politica
finanziaria e
doganale, ferrovie ecc.) che hanno contribuito a
determinare le
caratteristiche economiche del periodo considerato
(critica molto
giusta; una gran parte dell'attività della Destra
storica da Cavour al
1876 fu dedicata infatti a creare le condizioni
tecniche generali in
cui una grande industria fosse possibile e un grande
capitalismo
potesse diffondersi e prosperare; solo con l'avvento
della Sinistra e
specialmente con Crispi si ha la «fabbricazione dei
fabbricanti»
attraverso il protezionismo e i privilegi d'ogni
genere. La politica
finanziaria della Destra rivolta al pareggio rende
possibile la
politica «produttivistica» successiva). «Cosí, ad
esempio, non si
riesce a capire come mai vi fosse tanta abbondanza di
mano d'opera in
Lombardia nei primi decenni dopo la unificazione, e
quindi il livello
dei salari rimanesse tanto basso, se si rappresenta il
capitalismo come
una piovra che allunga i suoi tentacoli per far sempre
nuove prede
nelle campagne, invece di tener conto della
trasformazione che
contemporaneamente avviene nei contratti agrari ed in
genere
nell'economia rurale. Ed è facile concludere
semplicisticamente sulla
caparbietà e sulla ristrettezza di mente delle classi
padronali
osservando la resistenza che esse fanno ad ogni
richiesta di
miglioramento delle condizioni delle classi operaie,
se non si tiene
anche presente quello che è stato l'incremento della
popolazione
rispetto alla formazione di nuovi capitali». (La
quistione però non è
cosí semplice. Il saggio del risparmio o di
capitalizzazione era basso
perché i capitalisti avevano voluto mantenere tutta
l'eredità di
parassitismo del periodo precedente, affinché non
venisse meno la forza
politica della loro classe e dei loro alleati).
Critica
della definizione di «grande industria» data dal
Morandi, il quale, non
si sa perché, ha escluso dal suo studio molte delle
piú importanti
attività industriali (trasporti, industrie alimentari
ecc.). Eccessiva
simpatia del Morandi per i colossali organismi
industriali, considerati
troppo spesso, senz'altro, come forme superiori di
attività economica,
malgrado siano ricordati i crolli disastrosi
dell'Ilva, dell'Ansaldo,
della Banca di Sconto, della Snia Viscosa,
dell'Italgas. «Un altro
punto di dissenso, il quale merita di essere rilevato,
perché nasce da
un errore molto diffuso, è quello in cui l'A.
considera che un paese
debba necessariamente rimaner soffocato dalla
concorrenza degli altri
paesi se inizia dopo di essi la propria organizzazione
industriale.
Questa inferiorità economica, a cui sarebbe condannata
anche l'Italia,
non sembra affatto dimostrata, perché le condizioni
del mercato, della
tecnica, degli ordinamenti politici, sono in continuo
movimento e
quindi le mète da raggiungere e le strade da
percorrere si spostano
tanto spesso e subitamente che possono trovarsi in
vantaggio individui
e popoli che erano rimasti piú indietro o quasi non
s'erano mossi. Se
ciò non fosse si spiegherebbe male come continuamente
possono sorgere e
prosperare nuove industrie accanto alle piú vecchie
nello stesso paese
e come abbia potuto realizzarsi l'enorme sviluppo
industriale del
Giappone alla fine del secolo scorso». (A questo
proposito sarebbe da
ricercare se molte industrie italiane, invece di
nascere sulla base
della tecnica piú progredita nel paese piú progredito,
come sarebbe
stato razionale, non siano nate con le macchine fruste
di altri paesi,
acquistate a buon prezzo sí, ma ormai superate, e se
questo fatto non
si presentasse «piú utile» per gli industriali che
speculavano sul
basso prezzo della mano d'opera e sui privilegi
governativi piú che su
una produzione tecnicamente perfezionata).
Nel
fare l'analisi della relazione della Banca Commerciale
Italiana
all'assemblea sociale per l'esercizio 1931, Attilio
Cabiati (nella
«Riforma Sociale» luglio-agosto 1932, p. 464) scrive:
«Risalta da
queste considerazioni il vizio fondamentale che ha
sempre afflitto la
vita economica italiana: la creazione e il
mantenimento di una
impalcatura industriale troppo superiore sia alla
rapidità di
formazione di risparmio nel paese, che alla capacità
di assorbimento
dei consumatori interni; vivente quindi per una parte
cospicua solo per
la forza del protezionismo e di aiuti statali di
svariate forme. Ma il
patrio protezionismo che in taluni casi raggiunge e
supera il cento per
cento del valore internazionale del prodotto,
rincarando la vita
rallentava a sua volta la formazione del risparmio,
che per di piú
veniva conteso all'industria dallo Stato stesso,
spesso stretto dai
suoi bisogni, sproporzionati alla nostra impalcatura.
La guerra,
allargando oltre misura tale impalcatura, costrinse le
nostre banche,
come scrive la relazione precitata, "ad una politica
di tesoreria
coraggiosa e pertinace", la quale consisté nel
prendere a prestito "a
rotazione" all'estero, per prestare a piú lunga
scadenza all'interno.
"Una tale politica di tesoreria aveva però – dice la
relazione – il suo
limite naturale nella necessità per le banche di
conservare ad ogni
costo congrue riserve di investimenti liquidi o di
facile realizzo".
Quando scoppiò la crisi mondiale, gli "investimenti
liquidi" non si
potevano realizzare se non ad uno sconto formidabile:
il risparmio
estero arrestò il suo flusso: le industrie nazionali
non poterono
ripagare. Sicché, exceptis excipiendis, il
sistema bancario
italiano si trovò in una situazione per piú aspetti
identica a quella
del mercato finanziario inglese nella metà del 1931...
(l'errore)
antico consisteva nell'aver voluto dare vita ad un
organismo
industriale sproporzionato alle nostre forze, creato
con lo scopo di
renderci "indipendenti dall'estero": senza riflettere
che, a mano a
mano che non "dipendevamo" dall'estero per i prodotti,
si rimaneva
sempre piú dipendenti per il capitale».
Si
pone il problema se in un altro stato di cose si potrà
allargare la
base industriale del paese senza ricorrere all'estero
per i capitali.
L'esempio di altri paesi (per esempio il Giappone)
mostra che ciò è
possibile: ogni forma di società ha una sua legge di
accumulazione del
risparmio ed è da ritenere che anche in Italia si può
ottenere una piú
rapida accumulazione. L'Italia è il paese, che, nelle
condizioni create
dal Risorgimento e dal suo modo di svolgimento, ha il
maggior peso di
popolazione parassitaria, che vive cioè senza
intervenire per nulla
nella vita produttiva, è il paese di maggior quantità
di piccola e
media borghesia rurale e urbana che consuma una
frazione grande del
reddito nazionale per risparmiarne una frazione
insufficiente alle
necessità nazionali.
*
Giuseppe Paratore, La economia, la finanza, il
denaro d'Italia alla fine del 1928, «Nuova Antologia»,
1° marzo 1929.
Articolo
interessante ma troppo rapido e troppo conformista. Da
tener presente
per ricostruire la situazione del '26 fino alle leggi
eccezionali. Il
Paratore fa una lista delle principali contraddizioni
del dopo guerra:
1) le divisioni territoriali hanno moltiplicato le
barriere doganali;
2) ad una complessiva riduzione di capacità di consumo
ha risposto
dappertutto un aumento di impianti industriali; 3) ad
una tendenziale
depressione economica, un accentuato spirito di
nazionalismo economico
(ogni nazione vuole produrre tutto e vuole vendere
senza comprare); 4)
ad un impoverimento complessivo, una tendenza
all'aumento reale delle
spese statali; 5) ad una maggiore disoccupazione, una
minore
emigrazione (nell'anteguerra lasciavano annualmente
l'Europa circa
1.300.000 lavoratori, oggi emigrano solo 600-700 mila
uomini); 6) la
ricchezza distrutta dalla guerra in parte è stata
capitalizzata e dà
luogo ad interessi che per molto tempo sono stati
pagati con altro
debito; 7) un indebitamento verso gli Stati Uniti
d'America (per debiti
politici e commerciali) che se dovesse dar luogo a
reali trasferimenti,
metterebbe in pericolo qualunque stabilità monetaria.
Per
l'Italia il Paratore nota questi elementi della sua
situazione
post-bellica: 1) considerevole diminuzione del suo
capitale umano; 2)
debito di circa 100 miliardi di lire; 3) volume di
debito fluttuante
preoccupante; 4) bilancio statale dissestato; 5)
ordinamento monetario
sconvolto, espresso da una profonda riduzione e da una
pericolosa
instabilità del valore interno ed esterno della unità
di denaro; 6)
bilancia commerciale singolarmente passiva, aggravata
da un completo
disorientamento dei suoi rapporti commerciali con
l'estero; 7) molti
ordinamenti finanziari riguardanti la pubblica e
privata economia
logorati.
*
Sui
bilanci dello Stato. Vedere i discorsi in Senato
dell'on. Federico
Ricci, ex Sindaco di Genova. Questi discorsi sono da
leggere prima di
ogni lavoro sulla storia di questi anni.
Nel discorso del 16 dicembre 1929 sul rendiconto
dell'esercizio finanziario 1927-28 il Ricci osservò:
1)
A proposito della Cassa d'ammortamento del debito
estero istituito con
decreto-legge 3 marzo 1926 dopo gli accordi di
Washington (14 novembre
1925) e di Londra (27 gennaio 1926): che gli avanzi
realizzati sulla
differenza fra quota pagata dalla Germania e quota
pagata dall'Italia
all'America e all'Inghilterra viene imprestata alla
Tesoreria che a un
certo punto dovrà restituirla (si arriverà a miliardi)
quando l'Italia
dovrà pagare piú di quanto riceve. Pericolo che la
Tesoreria non possa
pagare. L'Italia ha ricevuto dalla Germania pagamenti
in natura e in
denaro. Non vengono piú pubblicati i resoconti
dettagliati delle
vendite fatte dallo Stato delle merci ricevute dalla
Germania, e delle
somme realizzate: non si sa se esse sono maggiori o
minori di quelle
accreditate.
2) A proposito della Cassa
d'ammortamento dei debiti interni, istituita con
decreto-legge 5 agosto
1927 per provvedere all'estinzione del Consolidato e
degli altri debiti
di Stato. Doveva essere dotata cogli avanzi di
bilancio, coi proventi
degli interessi dei capitali, coi ricuperi per
capitale e interesse dei
prestiti fatti dallo Stato a certe industrie private,
ecc. Dopo il
primo anno, tutti i cespiti principali sono mancati,
specialmente gli
avanzi di bilancio. Essa è accreditata semplicemente
per tali somme,
sicché nei residui passivi il suo credito è di lire
1.728 milioni. Le
offerte dei privati nel resoconto ultimo fino al
dicembre 1928 sono di
4.800.000 [lire], somma molto inferiore a quella
pubblicata nei
giornali.
3) Polizze di assicurazione per
i combattenti, istituite con decreto-legge 10 dicembre
1917, in ragione
di 500 lire per i soldati, 1.000 lire per i
sottufficiali e 5.000 lire
per gli ufficiali (è esatto? O non si parlava di 1.000
lire per i
soldati?) Esse verranno a scadenza nel 1947 o 1948,
rappresentando un
carico grandissimo per il bilancio (naturalmente gli
interessati non
hanno avuto quasi nulla e gli accaparratori saranno
loro a riscuotere:
ecco un argomento interessante). Il Governo con
decreto 10 maggio
1923 aveva provvisto alla costituzione di una
riserva presso la
Cassa depositi e prestiti dando una prima dotazione di
600 milioni e
piú di 50 milioni annui. 1600 milioni però non furono
mai versati: sono
iscritti fra i residui all'attivo come prestito da
contrarre al 3,50%
(portato poi al 4,75% con decreto 10 maggio 1925, n.
852) e al passivo
come credito della C.D.P. Quanto ai 50 milioni, furono
inscritti in
bilancio per qualche anno e poi intervenne un decreto
ministeriale il
quale cancellò per l'anno in corso (1927) e per i
successivi quel
versamento (Decreto ministeriale 6 ottobre 1927, n.
116635). («È
curioso (!!?) che sia possibile mutare radicalmente la
fisionomia del
bilancio solennemente (!) approvato dalle Camere, con
semplici decreti
ministeriali, che non compaiono sulla "Gazzetta
Ufficiale", dei quali
lo stesso Capo del Governo potrebbe non saper nulla; e
lo stesso
ministro competente potrebbe averli firmati
inavvertitamente»; queste
parole del Ricci sono di colore oscuro).
Una
osservazione del Ricci: La Cassa di ammortamento del
debito interno, ha
fatto un «debituccio» di 80 milioni per ammortizzare
il Debito
Pubblico!!! La Tesoreria, non sapendo dove sbattere la
testa, si fece
prestare denaro dall'Alto Commissario della Città di
Napoli, dal
Consorzio del Porto di Genova, ecc. Si fece prestare
dalle Casse
d'ammortamento del debito estero e di quello interno,
facendo loro un
trattamento curioso, non pagando cioè gli interessi!,
ecc.
*
A
proposito dei bilanci. Occorre sempre confrontare
il bilancio
preventivo normale con le aggiunte, correzioni e
variazioni che di
solito vengono fatte dopo qualche mese; spesso in
questo supplemento di
bilancio, si annidano delle voci interessanti (per es.
nel preventivo
le spese segrete degli Esteri erano 1.500.000: nel
supplemento ci fu un
aumento di 10.000.000). Certo è che il supplemento
interessa meno del
preventivo ordinario, e perciò suscita meno curiosità
e meno indagini:
pare sia ordinaria amministrazione.
*
La
marina mercantile italiana. Estratti
dall'articolo La nostra
marina transatlantica di L. Fontana Russo, nella
«Nuova Antologia»
del 16 aprile 1927.
Le perdite complessive
della marina mercantile italiana per sottomarini e
sequestri durante la
guerra salirono a 872.341 tonn. lorde (238 piroscafi
per 769.450 tonn.
e 395 velieri per 10.891), cioè il 49% dell'intera
flotta, mentre le
perdite inglesi furono del 41% e le francesi del 46%
(«ciò nonostante
la piú tarda entrata in guerra, e la ritardata
dichiarazione di guerra
alla Germania»; A. G.: come spiegare questa
percentuale cosí alta?)
Inoltre altri 9 piroscafi per 57.440 tonn. affondarono
per disgraziati
accidenti dovuti allo speciale regime imposto alla
navigazione (incagli
per sfuggire ad attacchi di sommergibili, collisioni
nella navigazione
in convoglio ecc.) («quanto fu la percentuale di
questi casi nelle
altre marine», A. G.; la risposta interessa per
giudicare nostra
organizzazione e capacità dei comandi; inoltre
interessante sapere
l'età di questi piroscafi, per vedere come era esposta
la vita dei
nostri marinai). Il danno finanziario (navi e carico)
fu di L.
2.202.733.047, cosí ripartito: naviglio da pesca L.
4.391.706; velieri
L. 59.792.591; piroscafi di bandiera nazionale L.
1.595.467.786;
piroscafi di bandiera estera noleggiati dall'Italia
(216 piroscafi
affondati, 2 danneggiati: L. 543.080.964).
(Evidentemente questi
piroscafi esteri non sono calcolati nel tonnellaggio
precedente e anche
in questo caso sarebbe interessante sapere se essi
furono affondati
essendo guidati da personale italiano: inoltre se le
altre nazioni
subirono perdite dello stesso genere).
Il
totale dei carichi perduti fu di 1.271.252 tonn. I
rifornimenti
italiani durante la guerra furono: 49 mil. di tonn. da
Gibilterra e 2
milioni dal Mediterraneo e da Suez. Le perdite subite
durante la guerra
furono riparate subito. Il naviglio mondiale [perduto]
durante la
guerra fu di 12.804.902 tonn. (piroscafi e velieri),
cioè il 27% del
tonnellaggio complessivo. Nel 1913 la marina mondiale
era di 43.079.000
tonn.; nel 1919 era di 48 milioni, nel '21 di
58.841.000, nel '26 di
62.671.000. I cantieri, dal '13 al '19, dopo aver
colmato le perdite,
accrebbero di 4 milioni il tonnellaggio. Le navi
impostate furono
continuate dopo l'armistizio: cosí si spiega che, nel
'19, le navi
varate raggiunsero i 7 milioni di tonnellate («ciò
spiega la crisi dei
noli del dopoguerra, in cui coincise un naviglio
anormale con una
caduta del commercio»).
Italia. Il 31
dicembre 1914 il nostro naviglio (piroscafi superiori
a 250 tonn.
lorde) era di 644 piroscafi per tonn. D. W. C.
1.958.838; le perdite al
31 dicembre 1921 furono: piroscafi 354, per tonn.
1.270.348. Della
vecchia flotta rimanevano 290 piroscafi, per tonn.
688.496. Fino al 31
dicembre 1921 furono costruiti 122 piroscafi per tonn.
D. W. C. 698.979
e comprati all'estero 143 per 845.049, furono
ricuperati dalla Regia
Marina 60 per 131.725 e incorporati dalla Venezia
Giulia 210 per
763.945, cioè l'aumento complessivo fu di 535 per
2.437.698, portando
la flotta complessiva a 856 per 3.297.987. Alla fine
del 1926 l'Italia
aveva costruito inoltre 33 navi per 239.776 tonn.
lorde. Le motonavi
tendono ad aumentare in confronto dei piroscafi. Le
763.945 tonn.
provenienti dalla Venezia Giulia furono il risultato
di negoziati al
Congresso della Pace con l'Inghilterra, la Francia e
la Jugoslavia.
Le
perdite della marina di linea (piroscafi per
viaggiatori) furono meno
gravi che per la flotta da carico e perciò non
prontamente riparate.
Cosí, nel dopoguerra si ebbe naviglio da carico
eccessivo e di linea
manchevole. Disarmo e caduta di noli per quello,
richiesta e rialzo di
noli per questo. Avvenne cosí specializzazione delle
compagnie: alcune
si dedicarono al carico, altre alla linea, alienando
la propria flotta
di carico e specializzandosi («teoricamente la
specializzazione è un
progresso, perché porta a minor costo: ma in caso di
crisi di uno o
altro ramo, la specializzazione porta al fallimento,
perché non esiste
piú il compenso reciproco»; A. G.). Alla flotta di
linea si pose un
problema fondamentale: navi per emigranti o navi per
viaggiatori di
classe? Le maggiori compagnie si decisero nel senso di
dare maggior
peso ai piroscafi di lusso. Crisi dell'emigrazione per
restrizioni
legislative. Cosí si ebbe sviluppo di grandi piroscafi
di lusso, per i
quali non c'è limitazione di spazio e di comfort dati
i noli alti.
Tendenza
verso il grande tonnellaggio. Per legge economica
del rendimento
crescente. L'aumento della lunghezza, altezza,
larghezza porta ad un
aumento piú che proporzionale della portata utile,
cioè dello spazio
dedito al carico. Cresce pure, piú che
proporzionalmente alla spesa di
costruzione e d'esercizio, il rendimento
dell'armatore.
La velocità invece deve essere moderata, per
essere economica
(non può oltrepassare per ora i 24 nodi). Altra è la
questione per la
marina di guerra, i cui scopi sono bellici, non di
carattere economico.
Le macchine marine capaci di imprimere grandi velocità
sono insaziabili
divoratrici di combustibile. La velocità segue la
legge dei rendimenti
decrescenti, all'opposto di quella che regola la
portata delle navi.
Venti anni fa: velocità di 11 nodi, costo orario 295
lire, 13 nodi 370
lire, 21 nodi 1.800 lire. Al criterio dei viaggi
brevi, si sostituí
quello dei viaggi comodi («oggi la radio, e
specialmente l'aeroplano
per chi ha veramente fretta, compensano la relativa
scarsa velocità
delle navi di lusso; con la radio si può sempre
mantenersi in
comunicazione e non interrompere gli affari; con
l'aeroplano si
ottengono due effetti: 1°, percorrere in poche ore
spazi relativamente
brevi – Parigi-Londra, ecc. – con sicurezza; 2°, i
transatlantici
trasportano anche aeroplani e giunti a una distanza
dal capolinea che
dà sicurezza di traversata, permettono ai piú
frettolosi di abbreviare
il viaggio»; A. G.). Alla velocità di 23 nodi si è
giunti sia
trasformando le macchine motrici, sia adottando nuovo
combustibile. La
turbina sostituí le macchine alternative: il motore
Diesel tende a
sostituire la turbina. Il combustibile liquido
sostituisce il carbone.
Notevole risparmio che permise una nuova velocità
economica (23 nodi).
Nuove
e vecchie costruzioni. Una nave nuova, che
rappresenti un forte
progresso, svaluta subito, automaticamente, tutte le
precedenti. Il
vecchio naviglio deve essere radiato, trasformato se
possibile, o
adibito ad altri trasporti. Le vecchie navi rendono
poco o nulla (anche
se in parte ammortizzate), se non sono addirittura
passive. Perciò,
dati i continui progressi tecnici, gli attuali
transatlantici devono
ammortizzare il capitale in poco meno d'un decennio.
(«Ed ecco perché
nel valutare l'efficienza reale delle varie flotte
nazionali, oltre al
numero delle unità e alla somma complessiva delle
tonnellate, bisogna
badare all'età del naviglio; ciò spiega anche come il
rendimento di
flotte inferiori per tonnellaggio sia superiore a
quello di flotte che
statisticamente sono piú elevate: oltre al fatto dei
maggiori rischi –
assicurazioni – e pericoli per le vite umane
rappresentati dalle
vecchie navi»).
*
La
diplomazia italiana. Costantino Nigra e il trattato di
Uccialli. Nella
«Nuova Antologia» del 16 novembre 1928 in un
articolo di Carlo
Richelmy, Lettere inedite di Costantino Nigra, è
pubblicata una
lettera (o estratti di una lettera) del 28 agosto 1896
del Nigra a un
«caro amico» che il Richelmy crede di poter
identificare col marchese
Visconti-Venosta perché con lo stesso, in quei giorni,
il Nigra scambiò
alcuni telegrammi sul medesimo argomento. Nigra
informa che il principe
Lobanov (forse ambasciatore russo a Vienna, dove il
Nigra era
ambasciatore) lo ha informato di alcune pratiche che
il Negus Menelik
ha fatto presso lo Zar. Il Negus aveva fatto sapere
allo Zar di essere
disposto ad accettare la mediazione della Russia per
la conclusione
della pace coll'Italia ecc. Il Nigra conchiude: «Per
me è evidente una
cosa. Dopo l'affare del trattato di Uccialli, il Negus
è diffidente
verso di noi, sospettando sempre che dal nostro
plenipotenziario gli si
cangino le clausole pattuite. Questa diffidenza, che è
invincibile, ha
consigliato il Negus di chiedere di trattare per mezzo
della Russia al
fine di avere un testimone idoneo e potente. La cosa è
dura per il
nostro amor proprio, ma ormai il nostro paese deve
persuadersi che
quando si adoperano diplomatici come Antonelli,
generali come
Baratieri, e ministri come Mocenni, non si possono
avere pretese
soverchie». («Mani vuote, ma sporche» – machiavellismo
da rigattieri
ecc.).
*
La
diplomazia italiana prima del 1914. Un documento molto
interessante e
curioso su questo argomento è il volume di Alessandro
De
Bosdari, Delle guerre balcaniche, della grande
guerra e di alcuni
fatti preceduti ad esse, (ed. Mondadori). La «Nuova
Antologia» del
1° settembre 1927 ne riproduce un capitolo: «Lo
scoppio della guerra
balcanica visto da Sofia», dove si leggono amenità di
questo genere:
«Non posso negare che la profonda convinzione
dell'orientazione
austriaca, sicura e permanente guida dello Zar dei
Bulgari in tutta la
sua politica estera, da me acquisita fin dagli ultimi
mesi del 1911,
non mi abbia impedito di vederci chiaro nella Lega
balcanica e nella
imminenza della guerra contro la Turchia. A tanti anni
di distanza non
so troppo (!) rimproverarmelo perché se non vidi
venire un fatto
accessorio (?!) e per cosí dire (!) episodico della
politica bulgara,
ciò fu unicamente perché vedevo troppo chiara (e lo
dice sul serio!) la
linea principale. Fu come chi dicesse un fenomeno di
presbitismo
politico, ed in politica il presbitismo è migliore
della miopia, come
questa è senza dubbio migliore di quella cecità
assoluta di cui debbo
dire a mio discarico (!), fecero prova, in quella ed
in tante
susseguenti occasioni, molti miei colleghi».
Il
brano è interessante anche da altri punti di vista,
oltre quello
particolare del giudizio sulla diplomazia italiana. Il
candore ameno
porta il De Bosdari a dire manifestamente ciò che
altri pensano per
giustificare i propri errori e non dicono apertamente
in questa forma.
Esiste una linea non formata di «fatti accessori» e di
«episodi» come
dice il De Bosdari? E comprendere una linea non
significa riuscire a
comprendere e quindi a prevedere e organizzare questa
catena di fatti
accessori? Chi parla di linea in questo senso, in
realtà intende dire
una «categoria sociologica», un'«astrazione». Qualche
volta indovina? È
vero, ma a questo proposito si potrebbe citare il
pensiero di
Guicciardini sull'«ostinazione».
A
proposito dell'incidente del Carthage e
del Manouba tra Italia e Francia occorre
confrontare la
versione che sull'origine dei fatti dà Alberto
Lumbroso nel secondo
volume della sua opera-zibaldone sulle Origini
economiche e
diplomatiche della guerra mondiale (Collezione
Gatti, ed.
Mondadori) col paragrafo di Tittoni (Veracissimus!)
dedicato
all'incidente stesso nell'articolo I documenti
diplomatici
francesi (1911-1912), pubblicato nella «Nuova
Antologia» del
16 agosto 1929 e forse ristampato in volume (nelle
edizioni Treves dei
libri di Tittoni). L'esposizione del Tittoni è
evidentemente non chiara
e reticente: ora egli era appunto l'ambasciatore
italiano a Parigi al
quale, secondo il Lumbroso, Poincaré si era rivolto
assicurandolo che
il Carthage e il Manouba non
contenevano
contrabbando di guerra e pregandolo di telegrafare a
Roma perché i due
battelli non fossero fermati. È strano come il
Tittoni, che è cosí
sensibile per tutto ciò che riguarda la sua carriera,
non accenni al
Lumbroso o per smentirlo o per sminuire l'effetto
della sua versione.
Bisogna però ricordare che il Tittoni pare abbia in
disdegno le
abborracciature del Lumbroso, e questi gli rimprovera
di non tener
conto dei documenti tedeschi sulla guerra e quindi di
essere perciò
tedescofobo (per ciò che riguarda le responsabilità
dello scatenamento
del conflitto).
Nella
recensione del libro di Salandra La neutralità
italiana di
Giuseppe A. Andriulli pubblicata nell'ICS del maggio
1928 si accenna al
fatto che già prima che Sonnino andasse agli Esteri,
il ministro di San
Giuliano aveva intavolato trattative con l'Intesa e
che i collaboratori
di San Giuliano affermavano che queste trattative
erano impostate in
modo ben diverso che da Sonnino, specialmente rispetto
alla parte
coloniale. Perché queste trattative furono troncate da
Sonnino e si
aprirono invece le trattative con l'Austria? Salandra
ancora non spiega
le ragioni dell'accordo con la Germania del maggio '15
per le proprietà
private (accordo fatto subito divulgare dai tedeschi
per mezzo del
«Bund», giornale svizzero) e le ragioni della
ritardata dichiarazione
di guerra alla Germania (cosa che creò diffidenza
verso l'Italia da
parte dell'Intesa, di cui si giovò Sisto di Borbone).
*
Tittoni. Ha
certamente avuto sempre molta importanza l'opinione di
Tittoni nello
stabilire i programmi di politica estera del governo
dal '23 in poi:
seguire l'attività pratica e letteraria di Tittoni in
questi anni. Alla
sua raccolta di articoli di politica estera del
1928, Quistioni
del giorno, ha fatto precedere una interessante
prefazione politica il
Capo del Governo. Passato di Tittoni. Sua attività.
Giudizi su Tittoni
di diplomatici stranieri (vedi i Carnets di
Georges Louis,
ecc.). Suoi rapporti con Isvolsky. (Libro nero di
Marchand).
Tittoni
come letterato e la sua fissazione linguaiola, curiosa
perché la «Nuova
Antologia» pubblica cose errorose per la lingua,
specialmente
traduzioni, ecc. Vedi l'articolo Per la verità
storica, firmato
«Veracissimus», nella «Nuova Antologia» del 16
marzo-1° aprile 1928:
l'autore (Tittoni) vi parla dei suoi rapporti con
Isvolsky, dei suoi
rapporti con la stampa francese (Isvolsky in un
rapporto pubblicato
dal Libro Nero aveva accennato al molto
denaro che Tittoni
distribuí alla stampa al tempo della guerra libica,
ecc.), fa degli
accenni interessanti al convegno di Racconigi del
1909. Ricordare il
libro di Alberto Lumbroso sulle cause economiche della
guerra e i suoi
accenni a Tittoni (nell'episodio
del Carthage e Manouba accennato
dal Lumbroso
quanta responsabilità spetta a Tittoni?).
Nell'articolo c'è anche un
accenno rozzo (da mercante di campagna, direbbe
Georges Louis)
all'ambasciata attuale russa a Parigi e ai suoi
possibili contatti col
conte Manzoni. (Perché
questo animusparticolarmente aggressivo di
Tittoni? Ricordare lo scandalo provocato nel 1925 – mi
pare – dal
Tittoni come Presidente del Senato e per cui il
governo dovette
domandare scusa. L'episodio piú interessante della
vita di Tittoni è la
sua permanenza a Napoli come prefetto in un tempo di
grandi scandali:
nella stampa del tempo si potrà trovare il materiale;
forse nella
«Propaganda», ecc.).
Per
tutto un lungo periodo dovette esistere una specie di
censura
preventiva o un impegno di non scrivere le proprie
memorie da parte dei
diplomatici e in genere degli uomini di Stato
italiani, tanto poca è la
letteratura in proposito. Dal 1919 in poi abbiamo una
certa abbondanza,
relativa, ma la qualità è molto scadente. (Le memorie
di Salandra sono
«inconcepibili» in quella forma pacchiana). Il libro
di Alessandro De
Bosdari, Delle guerre balcaniche e della grande
guerra e di alcuni
fatti precedenti ad esse (Milano, Mondadori,
1927, pp. 225, L.
15), secondo una breve nota di P. Silva nell'«Italia
che scrive»
dell'aprile 1928, è privo d'importanza per il fatto
che l'autore
insiste specialmente sui fatterelli personali e non sa
organicamente
rappresentare la propria attività in una esposizione
degli avvenimenti
che getti su di essi una qualche luce utile. (Su un
capitolo di questo
libro, pubblicato dalla «Nuova Antologia» ho
scritto una nota a
proposito dei giudizi del Bosdari sulla diplomazia
italiana).
*
La
quistione italiana. Sono da vedere i discorsi tenuti
dal Ministro degli
Esteri Dino Grandi al Parlamento nel 1932 e le
discussioni che da quei
discorsi derivarono nella stampa italiana e
internazionale. L'on.
Grandi impostò la quistione italiana come quistione
mondiale, da
risolversi necessariamente insieme alle altre che
costituiscono
l'espressione politica della crisi generale del
dopoguerra,
intensificatasi nel 1929 in modo quasi catastrofico, e
cioè: il
problema francese della sicurezza, il problema tedesco
della parità di
diritti, il problema di un nuovo assetto degli Stati
danubiani e
balcanici. L'impostazione dell'on. Grandi è un abile
tentativo di
costringere ogni possibile Congresso mondiale chiamato
a risolvere
questi problemi (e ogni tentativo della normale
attività diplomatica)
ad occuparsi della «questione italiana» come elemento
fondamentale
della ricostruzione e pacificazione europea e
mondiale. In che consiste
la questione italiana secondo questa impostazione?
Consiste in ciò che
l'incremento demografico è in contrasto con la
relativa povertà del
paese, e cioè nell'esistenza di un superpopolamento.
Occorrerebbe
pertanto che all'Italia fosse data la possibilità di
espandersi, sia
economicamente, sia demograficamente ecc. Ma non pare
che la quistione
cosí impostata sia di facile soluzione e non possa dar
luogo ad
obbiezioni fondamentali. Se è vero che i rapporti
generali
internazionali, cosí come si vengono sempre piú
irrigidendo dopo il
1929, sono molto sfavorevoli all'Italia (specialmente
il nazionalismo
economico ed il «razzismo» che impediscono la libera
circolazione non
solo delle merci e dei capitali ma soprattutto del
lavoro umano), può
anche essere domandato se a suscitare e irrigidire
tali nuovi rapporti
non abbia contribuito e contribuisca tuttora la stessa
politica
italiana. La ricerca principale pare debba essere in
questo senso: il
basso saggio individuale di reddito nazionale è dovuto
alla povertà
«naturale» del paese oppure a condizioni
storico-sociali create e
mantenute da un determinato indirizzo politico che
fanno dell'economia
nazionale una botte delle Danaidi? Lo Stato, cioè, non
costa troppo
caro, intendendo per Stato, come è necessario, non
solo
l'amministrazione dei servizi statali, ma anche
l'insieme delle classi
che lo compongono in senso stretto e lo dominano?
Pertanto è possibile
pensare che senza un mutamento di questi rapporti
interni, la
situazione possa mutare in meglio anche se
internazionalmente i
rapporti migliorassero? Può anche essere osservato che
la proiezione
nel campo internazionale della questione può essere un
alibi politico
di fronte alle masse del paese.
Che il
reddito nazionale sia basso, può concedersi, ma non
viene poi esso
distrutto (divorato) dalla troppa popolazione passiva,
rendendo
impossibile ogni capitalizzazione progressiva, sia
pure con ritmo
rallentato? Dunque la quistione demografica deve
essere a sua volta
analizzata, e occorre stabilire se la composizione
demografica sia
«sana» anche per un regime capitalistico e di
proprietà. La povertà
relativa «naturale» dei singoli paesi nella civiltà
moderna (e in tempi
normali) ha una importanza anch'essa relativa; tutt'al
piú impedirà
certi profitti marginali di «posizione» geografica. La
ricchezza
nazionale è condizionata dalla divisione
internazionale del lavoro e
dall'aver saputo scegliere, tra le possibilità che
questa divisione
offre, la piú razionale e redditizia per ogni paese
dato. Si tratta
dunque essenzialmente di «capacità direttiva» della
classe economica
dominante, del suo spirito d'iniziativa e di
organizzazione. Se queste
qualità mancano, e l'azienda economica è fondata
essenzialmente sullo
sfruttamento di rapina delle classi lavoratrici e
produttrici, nessun
accordo internazionale può sanare la situazione.
Non
si ha esempio, nella storia moderna, di colonie di
«popolamento»; esse
non sono mai esistite. L'emigrazione e la
colonizzazione seguono il
flusso dei capitali investiti nei vari paesi e non
viceversa. La crisi
attuale che si manifesta specialmente come caduta dei
prezzi delle
materie prime e dei cereali mostra che il problema
appunto non è di
ricchezza «naturale» per i vari paesi del mondo, ma di
organizzazione
sociale e di trasformazione delle materie prime per
certi fini e non
per altri. Che si tratti di organizzazione e di
indirizzo
politico-economico appare anche dal fatto che ogni
paese a civiltà
moderna ha avuto «emigrazione» in certe fasi del suo
sviluppo
economico, ma tale emigrazione è cessata e spesso è
stata riassorbita.
Che
non si vogliano (o non si possa) mutare i rapporti
interni (e neppure
rettificarli razionalmente) appare dalla politica del
debito pubblico,
che aumenta continuamente il peso della passività
«demografica»,
proprio quando la parte attiva della popolazione è
ristretta dalla
disoccupazione e dalla crisi. Diminuisce il reddito
nazionale,
aumentano i parassiti, il risparmio si restringe ed è
disinvestito dal
processo produttivo e viene riversato nel debito
pubblico, cioè fatto
causa di nuovo parassitismo assoluto e relativo.
*
Italia
e Yemen nella nuova politica arabica. Articolo di
«tre stelle»
nella «Rivista d'Italia» del 15 luglio 1927. Trattato
di Sana del 2
settembre 1926 tra Italia e Yemen. Lo Yemen è la parte
piú fertile
dell'Arabia (Arabia felice). È stato sempre autonomo
di fatto, sotto
una dinastia di imam che discende da
el-Usein, secondo figlio
del califfo Alí e di Fatimah, figlia di Maometto. Solo
nel 1872 i
turchi stabilirono il loro dominio nello Yemen. Nel
1903 insurrezione,
che nel 1904 trovò nel nuovo imamYahyà
ibn-Mohammed Hamid, di 28
anni, il suo capo. Vinto nel 1905, Yahyà riprese la
lotta nel 1911
aiutato dall'Italia che era in guerra con la Turchia e
consolidò la sua
indipendenza. Nella guerra europea Yahyà parteggiò per
la Turchia per
opporsi alla politica inglese imperniata
sull'ingrandimento dello
sceriffo Husein (proclamatosi re dell'Arabia il 6
novembre 1916) e
sull'indipendenza dell'Asir. Dopo la pace, tramontato
il programma
unitario di Husein che abdicò nel '24 e nel '25 fu
relegato a Cipro,
rimase la quistione dell'Asir. L'Asir è un emirato
creato durante la
guerra italo-turca. Nell'Asir si era stabilito il
famoso santone
marocchino Ahmed ibn-Idris el-Hasani el-Idrisi, il cui
discendente
Mohammed Alí, noto come lo sceicco Idris durante la
guerra libica,
appoggiato dall'Italia, sollevò le tribú dell'Asir.
Riconosciuto emiro
indipendente dagli Inglesi nel 1914, Mohammed
collaborò con Husein ed
ebbe dagli Inglesi la Tihamah con Hodeidah; fece la
concessione a una
compagnia inglese di giacimenti petroliferi delle
isole Farsan. Stretto
tra Husein a Nord e Yahyà a Sud, l'emiro si legò nel
1920 al sultano
del Negged (Ibn Saud) cedendogli, per averne la
protezione, Abha,
Muhail e Beni Shahr, cioè la parte estrema dell'Asir
settentrionale e
assicurandogli uno sbocco sul mar Rosso. I Wahhabiti
occuparono quelle
terre e se ne servirono per combattere meglio
l'Heggias (Husein). Nel
1926 (8 gennaio) i Wahhabiti vittoriosi proclamarono
Ibn Saud re
dell'Heggias. I Wahhabiti si mostravano i piú capaci
di unificare
l'Arabia; Yahyà con un proclama del 18 giugno 1923
aveva posto la sua
candidatura a califfo e a campione della nazione
araba. Riuscí con
imprese fortunate ad assicurarsi l'effettivo controllo
dei numerosi
sultanati e tribú del cosí detto Hadramaut e a
restringere notevolmente
l'hinterland di Aden, senza nascondere le sue mire su
Aden stessa. Si
gettò poi contro l'emiro dell'Asir (che per lui era un
usurpatore) e
conquistò tutta la parte meridionale sino a Loheyyah e
compresa
Hodeidah, venendo a contatto coi Wahhabiti che avevano
allargato, a
richiesta dell'emiro, la loro occupazione dell'Asir.
L'emiro dell'Asir
si lasciò spingere dall'ex-senusso ad atti di ostilità
verso l'Italia
(l'ex-senusso era ospite alla Mecca di Ibn Saud dopo
la sua espulsione
da Damasco – dicembre 1924 –).
Col
trattato italo-yemenita, a Yahyà è riconosciuto il
titolo regio e la
piena e assoluta indipendenza. Lo Yemen importerà le
sue forniture
dall'Italia, ecc. (Ibn Saud fece un trattato con
l'Inghilterra il 26
dicembre 1915 ed ebbe il possesso non solo del Negged,
ma anche di
el-Hasa, el-Qatif e Giubeil, in cambio del suo
disinteressamento per
Koweit, el-Bahrein e Oman che, come è noto, sono sotto
il protettorato
inglese. In una discussione ai Comuni del 28 novembre
1922 risultò
ufficialmente che Ibn Saud percepiva dal governo
inglese regolare
stipendio. Coi trattati del 1° e 2 novembre 1925, dopo
la conquista
dello Heggias, Ibn Saud accettò confini molto infelici
con l'Irak e la
Transgiordania che Husein non aveva voluto accettare,
ciò che dimostrò
la sua stretta intesa con l'Inghilterra). Il trattato
italo-yemenita
fece rumore: si parlò di una alleanza politica e
militare segreta; in
ogni modo i Wahhabiti non attaccarono lo Yemen (si
parlò di attriti
italo-inglesi ecc.). Rivalità tra Ibn Saud e Yahyà:
ambedue aspirano a
promuovere e dominare l'unità araba.
Wahhabiti:
setta musulmana fondata da Abd-el-Wahhab che cercò di
allargarsi con le
armi; ebbe molte vittorie ma fu ricacciata nel deserto
dal famoso
Mehemet Alí e da suo figlio Ibrahim pascià. Il sultano
Abdallah,
catturato, fu giustiziato a Costantinopoli (dicembre
1818) e suo figlio
Turki a stento riuscí a mantenere uno staterello nel
Negged. I
Wahhabiti vogliono tornare alla pura lettera del
Corano, sfrondando
tutte le superstrutture tradizionali (culto dei santi,
ricche
decorazioni delle moschee, pompe religiose). Appena
conquistata la
Mecca, hanno abbattuto cupole e minareti, distrutto i
mausolei di
santoni celebri, fra cui quello di Khadigia, la prima
moglie di
Maometto, ecc. Ibn Saud emanò ordinanze contro il vino
e il fumo, per
la soppressione del bacio della «pietra nera» e
dell'invocazione a
Maometto nella formula della professione di fede e
nelle preghiere.
Le
iniziative puritane dei Wahhabiti sollevarono proteste
nel mondo
musulmano; i governi di Persia e dell'Egitto fecero
rimostranze. Ibn
Saud si moderò. Yahyà cerca di speculare su questa
reazione religiosa.
Yahyà e la maggioranza degli yemeniti seguono il rito
zeidita, cioè
sono eretici per la maggioranza sunnita degli arabi.
La religione è
contro di lui, egli cerca di premere perciò sulla
nazionalità e sul
fatto della sua discendenza dal profeta che gli fa
rivendicare la
dignità di califfo. (Nel tallero da lui coniato c'è la
scritta:
«coniato nella sede del califfato a Sana»). La sua
regione, essendo
delle piú fertili dell'Arabia, e la sua posizione
geografica gli danno
una certa possibilità economica.
Pare che
lo Yemen abbia 170.000 Km2 di superficie, con una
popolazione tra
1 e 2 milioni. Sull'altipiano la popolazione è araba
pura, bianca,
sulla costa è prevalentemente negra. C'è un certo
apparato
amministrativo, scuole embrionali, esercito con leva
obbligatoria.
Yahyà è intraprendente e di tendenze moderne sebbene
geloso della sua
indipendenza. Per l'Italia lo Yemen è la pedina per il
mondo arabico.
*
Articolo
di Roger Labonne nel «Correspondant» del 10
gennaio 1927
su Italia e Asia Minore. L'Italia si interessa
per la prima volta
nel 1900 dell'Asia Minore: invia una serie di missioni
che studiano
l'Anatolia meridionale, stabilisce ad Adalia un
vice-console, delle
scuole, un ospedale, sovvenziona le linee di
navigazione che portano la
sua bandiera lungo il litorale. S'interessa
soprattutto di Smirne, del
cui porto fa il centro della sua influenza nel
Levante. Gli articoli 8
e 9 del Patto di Londra dicono: «L'Italia riceverà
l'intera sovranità
del Dodecanneso. In caso di divisione totale o
parziale della Turchia,
essa otterrà la regione mediterranea che avvicina la
provincia di
Adalia e che ha già fatto (!) una convenzione
coll'Inghilterra». A San
Giovanni di Moriana l'Italia precisa nuovamente la sua
richiesta (21
aprile 1917). Venizelos, approfittando della partenza
di Orlando e
Sonnino da Parigi, spinse gli alleati ad assegnare
Smirne alla Grecia.
Il 1° gennaio 1926, nel discorso di Milano, Mussolini
dice: «Bisogna
aver fede nella Rivoluzione, che avrà nel 1926 il suo
anno
napoleonico». Nel '26 non si produsse nulla di
veramente notevole, ma
per due volte si fu alla vigilia di avvenimenti serii.
Cessione di
Mossul all'Irak (cioè agli inglesi). La Turchia
cedette davanti
all'imminenza di un intervento italiano, dopo di aver
invano domandato
il concorso militare di Mosca in caso di conflitto sul
Meandro e sul
Tigri. I giornali londinesi confessano ingenuamente
che il successo di
Mossul è dovuto alla pressione italiana, ma il governo
inglese non si
preoccupa troppo dell'Italia. Nel gioco anatolico
l'Italia ha perduto
nel 1926 le sue due carte migliori: con l'accordo di
Mossul e con la
caduta di Pangalos.
Il
«Correspondant» del 25 luglio 1927 (vedi «Rivista
d'Italia» del 15
luglio 1927: forse c'è errore nelle date, a meno che
la «Rivista
d'Italia» non sia uscita molto piú tardi della sua
datazione) in un
articolo, La pression italienne, ha scritto: «Il
Duce, lo teniamo
da fonte eccellente, avrebbe già voluto due volte la
guerra dopo il suo
avvento al potere: due volte il maresciallo Badoglio
avrebbe rifiutato
di prenderne la responsabilità ed avrebbe domandato ed
ottenuto di
attendere fino al 1935 per essere sicuro». Il discorso
sull'anno
cruciale è del giugno 1927: il «Correspondant»
cercherebbe quindi di
dare una spiegazione di questa determinazione
avvenire. Il
«Correspondant» è rivista molto autorevole
conservatrice-cattolica.
*
Italia
ed Egitto. Articolo di Romolo Tritoni nella
«Nuova Antologia» del
16 aprile 1928, Le Capitolazioni e
l'Egitto (che sarebbe un
capitolo di un Manuale di questioni politiche
dell'Oriente
musulmano di prossima pubblicazione ma che non ho
visto annunziato
o recensito. Il Tritoni è anche autore di un
volume, È giunto il
momento di abolire le Capitolazioni in Turchia?,
pubblicato a Roma nel
1916, e collabora spesso alla «Nuova Antologia» e alla
«Politica» di
Coppola. Chi è? È uno dei vecchi nazionalisti? Non
ricordo. Mi pare
serio e informato: è specialista nelle quistioni del
prossimo Oriente.
Vedere).
È favorevolissimo alle
Capitolazioni, specialmente in Egitto, da un punto di
vista europeo e
italiano: sostiene la necessità della unità fra gli
Stati europei nella
quistione, ma prevede che questa unità d'azione non
sarà mantenuta per
il distacco dell'Inghilterra. Coi 4 punti sull'Egitto
già l'Inghilterra
tentò di staccarsi dall'Europa affermando di
riservarsi la «protezione
degli interessi stranieri», clausola non chiara perché
sembrava che
l'Inghilterra si arrogasse la protezione, escludendone
le altre
potenze; ma fu spiegato che alla prossima conferenza
sulle
Capitolazioni l'Inghilterra parteciperebbe su di un
piede di
uguaglianza con gli altri Stati capitolari.
L'Inghilterra
ha in Egitto una colonia molto esigua (se si tolgono i
funzionari
britannici nell'Amministrazione egiziana e i militari)
e accettando
l'abolizione delle Capitolazioni venderebbe la pelle
degli altri. Per
ingraziarsi i nazionalisti, metterebbe in cattiva luce
gli altri
europei (questo è il punto delicato che preme agli
italiani: essi
vorrebbero aver amici i nazionalisti, ma fare la
politica della colonia
italiana in Egitto lasciando l'odiosità della
situazione creata
dall'Europa all'Egitto sulle spalle dell'Inghilterra:
vedere nelle
riviste i giudizi sugli avvenimenti egiziani nel
1929-30: sono
contradditori, impacciati: l'Italia è favorevole alle
nazionalità ma...
ecc.; la stessa situazione per l'India, ma nell'Egitto
gli interessi
sono molto forti e le ripercussioni dei giudizi piú
immediate).
La
colonia italiana in Egitto è molto selezionata, cioè è
di quel tipo i
cui elementi sono giunti già alla terza o quarta
generazione passando
dall'emigrato proletario all'industriale,
commerciante, professionista;
mantenuto il carattere nazionale, aumentano la
clientela commerciale
dell'Italia, ecc. ecc. (sarebbe interessante vedere la
composizione
sociale della colonia italiana: è però probabile che
un ragguardevole
numero di emigrati dopo tre o quattro generazioni sia
salito di classe
sociale: in ogni modo le Capitolazioni dànno unità
alla colonia e
permettono ai funzionari italiani e ai borghesi di
controllare tutta la
massa degli emigrati).
Nei paesi del
Mediterraneo dove [sono] abolite le Capitolazioni,
l'emigrazione
italiana o è cessata, o viene gradualmente eliminata
(Turchia) o si
trova nelle condizioni della Tunisia, dove si cerca di
snazionalizzarla. Abolizione delle Capitolazioni
significa
snazionalizzazione dell'emigrazione (altra quistione,
data dal fatto
che l'Italia è potenza esclusivamente mediterranea e
ogni mutamento in
questo mare la interessa piú che ogni altra potenza).
Naturalmente
il Tritoni vorrebbe mantenersi amici gli Egiziani con
queste sue
opinioni e riconosce che «è di capitale importanza per
noi essere amici
del loro Paese».
*
L'Etiopia
d'oggi (articolo della «Rivista d'Italia» firmato
tre stelle).
L'Etiopia è il solo Stato indigeno indipendente in
un'Africa ormai
tutta europea (oltre la Liberia). Menelik è stato il
fondatore della
moderna unità etiopica: i nazionalisti abissini si
richiamano a
Menelik, il «grande e buono imperatore». Degli
elementi che hanno
contribuito ad assicurare l'indipendenza dell'Etiopia
due sono
evidenti: la struttura geografica del paese e la
gelosia fra le
potenze. La struttura geografica fa dell'Etiopia un
immenso campo
trincerato naturale, espugnabile solo con forze
smisurate e sacrifizi
non proporzionati alle scarse risorse economiche che
il paese può
offrire all'eventuale conquistatore. Lo Scioa, che ha
creato l'unità
abissina, è a sua volta una fortezza nel campo
trincerato e tutto lo
guarda e lo domina. Nell'ultimo trentennio è stato
creato un esercito
imperiale, distinto dai piccoli eserciti dei ras e ad
essi superiore
tecnicamente; la creazione dell'esercito nazionale è
dovuta a Menelik.
Già prima della morte di Menelik (1913) la Corte, dato
lo sfacelo
intellettuale del vecchio imperatore, aveva proclamato
(14 aprile 1910)
imperatore Ligg Jasu, figlio di una figlia di Menelik,
e di ras Mikael.
Alla morte di Menelik (11 dicembre 1913) le lotte si
scatenarono:
Zeoditú, altra figlia di Menelik, e ras Tafari, figlio
di ras Makonnen,
si coalizzarono e riuscirono ad avere un imponente
numero di
partigiani. Tafari aveva con sé i giovani. Ras Mikael,
tutore di Ligg
Jasu minorenne, fu incapace di imporsi alle fazioni e
di assicurare
l'ordine pubblico come risultò in occasione
dell'assalto del 17 maggio
1916 alla Legazione d'Italia. La guerra europea salvò
l'Abissinia da un
intervento straniero e dette la possibilità
all'Abissinia di superare
la crisi da sé. Zeoditú e Tafari si unirono per
detronizzare Ligg Jasu
e dividersi il potere, Zeoditú come imperatrice
nominale, l'altro quale
erede al trono e reggente (27 settembre 1916). Tafari,
appoggiato dai
capi militari, ha saputo con energia e scaltrezza
ridurre
all'obbedienza il paese. Ma il condominio con Zeoditú
offrí spesso il
destro a intrighi di palazzo non sempre innocui. (Alla
fine del '26 o
principio del '27) sparirono quasi contemporaneamente
il ministro della
guerra, fitaurari Hapte Gheorghes e il capo della
Chiesa, abuna
Mattheos.
La morte dell'abuna ha scatenato
la quistione della chiesa nazionale. La chiesa
etiopica riconosceva la
suprema autorità del patriarca copto di Alessandria
che nominava
all'alto ufficio di abuna un egiziano (Mattheos era
egiziano). Il
nazionalismo etiopico vuole un abuna abissino. L'abuna
ha in Abissinia
una grandissima importanza (piú che
l'arcivescovo-primate delle Gallie
in Francia) e il fatto che sia straniero presenta dei
pericoli,
nonostante che la sua autorità sia corretta e in un
certo senso
controllata dall'echegheh indigeno dal quale
dipendono
direttamente i numerosi ordini monastici. La parte
presa da Mattheos
nel colpo di Stato del 27 settembre 1912 a favore di
Tafari ha mostrato
ciò che potrebbe avvenire. (Quando l'articolo [veniva]
pubblicato il
patriarca d'Alessandria resisteva ancora alla pretesa
abissina: vedere
il seguito della quistione). (L'Abissinia ha una
capitale religiosa:
Aksum). Tafari ha cercato di imprimere un ritmo nuovo
alla politica
estera abissina. Menelik aveva cercato di limitare la
schiavitú e di
introdurre l'istruzione obbligatoria, avviando lo
Stato verso forme
moderne, ma si teneva in un'attitudine di dissidente
isolamento. Tafari
invece ha cercato di partecipare alla vita europea e
si è fatto
ammettere nella Lega delle Nazioni, impegnandosi
formalmente a
estirpare nel piú breve termine possibile la
schiavitú. E infatti emanò
un bando che imponeva la graduale liberazione degli
schiavi, ma finora
senza risultato. Gli schiavisti molto forti.
(D'altronde l'Etiopia
ancora feudale).
Convenzione di Londra del
13 dicembre 1906 fra Italia, Francia, Inghilterra, con
cui i tre
confinanti si impegnarono: a rispettare lo statu
quo politico
e territoriale dell'Etiopia; a mantenere, in caso di
contese o
mutamenti interni, la piú stretta neutralità,
astenendosi da ogni
intervento negli affari interni del paese; qualora
lostatu
quo fosse turbato, a cercare di mantenere
l'integrità
dell'Etiopia, tutelando in ogni caso i rispettivi
interessi: per
l'Inghilterra il bacino del Nilo e la regolarizzazione
delle acque di
quel fiume e dei suoi affluenti; per l'Italia
l'hinterland dei suoi
possedimenti dell'Eritrea e della Somalia e l'unione
territoriale tra
essi ad ovest di Addis Abeba; per la Francia
l'hinterland di Gibuti e
la zona necessaria per la costruzione e il traffico
della ferrovia
Gibuti - Addis Abeba. Le tre potenze si impegnavano di
aiutarsi
scambievolmente per la protezione dei loro rispettivi
interessi.
L'accordo
fu concepito in pieno «giro di valzer» dell'Italia con
le potenze
occidentali, e cioè in pieno sviluppo di quel vasto
programma di intese
mediterranee (l'accordo di Londra era stato conchiuso
in massima il 6
luglio, tre mesi dopo Algesiras) che fu troncato un
paio d'anni dopo
sotto il ricatto (!) dello stato maggiore austriaco.
Cosí alla politica
di cooperazione succedette una lotta a colpi di
spillo: la sola a
guadagnarci fu la Francia che poté prolungare la
ferrovia fino ad Addis
Abeba (la diplomazia sostiene che l'accordo di Londra
fu sottoposto
preventivamente a Menelik e firmato solo quand'egli
ebbe dato il nulla
osta ai ministri delle tre potenze accreditati presso
di lui, cosicché
le stipulazioni dell'accordo sarebbero anche
concessioni implicitamente
(!) promesse dall'Abissinia, qualcosa come la
situazione del famoso
trattato di Uccialli, ancora peggiorato).
Dopo
la guerra europea, durante le trattative per i
compensi coloniali
fissati dal patto di Londra, l'Italia propose di
ravvivare l'accordo
del 1906, volendo risolvere il problema del
congiungimento ferroviario
tra l'Eritrea e la Somalia. Ma Londra e Parigi
rifiutarono. La Francia
non aveva nulla da chiedere all'Abissinia dopo la
ferrovia Gibuti -
Addis Abeba; l'Inghilterra credeva di ottenere tutto
senza unirsi
all'Italia. Ma l'Inghilterra fece poi l'accordo del
1925 (due note
scambiate tra Mussolini e l'ambasciatore inglese a
Roma il 14 e il 20
dicembre 1925). Per esso: l'Italia si impegna ad
appoggiare
l'Inghilterra nei suoi tentativi per ottenere
dall'Etiopia la
concessione di lavori di sbarramento al Lago Tana,
nella zona che nel
1906 era riservata all'influenza italiana e la
concessione di
un'autostrada fra il Sudan e il Tana; l'Inghilterra ad
appoggiare
l'Italia per ottenere la costruzione e l'esercizio di
una ferrovia tra
l'Eritrea e la Somalia italiana ad ovest di Addis
Abeba; l'Inghilterra
riconosce all'Italia l'influenza esclusiva (!) nella
zona occidentale
dell'Etiopia e in tutto il territorio destinato ad
essere attraversato
dalla ferrovia, con l'impegno da parte dell'Italia di
non compiere in
quella zona, sulle sorgenti del Nilo Azzurro e del
Nilo Bianco e dei
loro affluenti, alcuna opera che possa sensibilmente
modificare il loro
afflusso nel fiume principale. La Francia sollevò gran
rumore su questo
accordo, presentato come una minaccia
dell'indipendenza abissina. La
campagna francese ebbe gravi ripercussioni sul
nazionalismo etiopico.
Ras Tafari [ha] creato due tipografie per la stampa in
lingua amarica:
sviluppo di letteratura nazionalista incoraggiato da
Tafari: xenofobia.
Il Giappone è il modello del nazionalismo abissino.
L'articolo
della «Rivista d'Italia» riporta brani di articoli e
opuscoli: uno
studente che [è stato] educato in America scrive:
«Impariamo
fortemente, apprendiamo molto, perché non vengano gli
stranieri a
governarci!... Dobbiamo studiare piú che possiamo,
perché, se non
studiamo, la nostra patria è finita». La Francia desta
meno sospetti ad
Addis Abeba, perché dopo Fascioda, Gibuti ha per essa
solo l'importanza
di uno scalo sulla via dell'Indocina. Inoltre, la
ferrovia Gibuti -
Addis Abeba, che serve tutto il traffico esterno
dell'Etiopia, dà alla
Francia un monopolio che essa vorrebbe conservare: la
Francia può
quindi fare una politica di apparente
disinteressamento. Ma Ras Tafari
vuol far progredire l'Etiopia e quindi [è] favorevole
ad altre
ferrovie, opere idrauliche ecc.
Esiste
ancora tra l'Etiopia e l'Italia una piccola quistione
a proposito dei
confini tra Etiopia e Somalia. Quando dopo la
convenzione di Addis
Abeba del 16 maggio 1908 fu definita la frontiera, la
missione Citerni
eseguí il tracciato sul terreno per quel che
riguardava il Benadir. Si
lasciò da parte la frontiera del sultanato di Obbia
che non presentava
urgenza data la speciale situazione di quel
protettorato. Ma oggi Obbia
[è] occupata dalle armi italiane e bisognerà fissare
il tracciato del
confine con l'Etiopia.
*
Roberto
Cantalupo, La Nuova Eritrea, «Nuova Antologia»,
1° ottobre 1927.
(Funzioni dell'Eritrea: 1) economica: intensificare la
sua capacità
produttiva e commerciale di esportazione e di
importazione, cercando di
farne un complemento della Madre Patria e di renderla
attiva
finanziariamente; 2) politica: dare all'Eritrea una
posizione e una
funzione tali da rendere possibile un maggior contatto
con gli stati
arabici della riva asiatica del Mar Rosso, nel
restaurare i rapporti
economici tra Asmara ed il confinante Ovest etiopico,
in modo che
l'Eritrea diventi il naturale sbocco al mare delle
regioni
dell'Abissinia settentrionale e naturale porto di
transito delle zone
centrali e meridionali della Penisola arabica, dopo
che Porto Sudan è
diventato sbocco di tutto l'Ovest sudanese
e entrepôt dell'Arabia settentrionale).
Dati
del Cantalupo ormai invecchiati. Problemi
dell'Etiopia: oltre a lotta
d'influenza tra Inghilterra, Italia, Francia, potenze
confinanti, quali
influssi esercitano o possono esercitare ad Addis
Abeba gli Stati Uniti
e la Russia. Come unico Stato indigeno libero
dell'Africa, l'Etiopia
può diventare la chiave di tutta la politica mondiale
africana, cioè il
punto di collisione delle tre potenze mondiali
(Inghilterra, Stati
Uniti, Russia). L'Etiopia potrebbe mettersi alla testa
di un movimento
per l'Africa agli Africani.
Sulla
situazione sociale etiopica, in cui la chiesa [ha]
grande importanza
per struttura feudale, cfr. Alberto Pollera, Lo
Stato etiopico e
la sua Chiesa, pubblicato a cura della Regia Società
Geografica (il
Pollera è un funzionario coloniale italiano).
*
Il
nazionalismo italiano. Primo congresso del
Partito Nazionalista
(Associazione Nazionalista) a Firenze nel dicembre
1910, con la
presidenza di Scipio Sighele: Gualtiero Castellini,
Federzoni,
Corradini, Paolo Arcari, Bevione, Bodrero, Gray,
Rocco, Del Vecchio.
Gruppo ancora indistinto, che cercava di
cristallizzare intorno ai
problemi della politica estera e dell'emigrazione le
correnti meno
pacchiane del tradizionale patriottismo (è
un'osservazione poco fatta
che in Italia, accanto al cosmopolitismo e
apatriottismo piú
superficiale è sempre esistito uno sciovinismo
frenetico, che si
collegava alle glorie romane e delle repubbliche
marinaresche e alle
fioriture individuali di artisti, letterati,
scienziati di fama
mondiale. Lo sciovinismo italiano è caratteristico ed
ha dei tipi
assolutamente suoi: esso era accompagnato da una
xenofobia popolaresca
anch'essa caratteristica). Il primo nazionalismo
comprendeva molti
democratici e liberali e anche massoni. Poi il
movimento si andò
distinguendo e precisando per opera di un piccolo
gruppo di
intellettuali che saccheggiarono le ideologie e i modi
di ragionare
secchi, imperiosi, pieni di mutria e di suffisance di
Carlo Maurras:
Coppola, Forges Davanzati, Federzoni. (Importazione
sindacalista nel
nazionalismo). In realtà i nazionalisti erano
antirredentisti: la loro
posizione fondamentale era antifrancese. Subirono
l'irredentismo perché
non volevano fosse un monopolio dei repubblicani e dei
radicali
massoni, cioè un'arma dell'influenza francese in
Italia. Teoricamente
la politica estera dei nazionalisti non aveva fini
precisi: si poneva
come una astratta rivendicazione imperiale contro
tutti; in realtà
voleva sopprimere la francofilia democratica e rendere
popolare la
alleanza tedesca.
*
Direzione
politico-militare della guerra 1914-1918. Confronta
l'articolo di Mario
Caracciolo (colonnello) Il comando unico e il
comando italiano nel
1918 nella «Nuova Antologia» del 16 luglio
1929. Molto
interessante e indispensabile per compilare
definitivamente questa
rubrica. Il Caracciolo è scrittore militare molto
serio e che
difficilmente si lascia trasportare dalla retorica. Ha
scritto un
volume nella Collezione Gatti presso
Mondadori, Le truppe italiane
in Francia.
Per ora mi interessa un
particolare (che potrebbe apparire nella rubrica
«Passato e presente»),
legato alla ripetuta affermazione del Caracciolo della
insufficienza
dell'apparato industriale italiano: verso il
gennaio-febbraio 1918
(cfr. il volume del Caracciolo citato per stabilire
esattamente il
fatto) l'Italia mandò in Francia 60.000 uomini,
lavoratori ausiliari,
«che avevamo disponibili perché la nostra industria
ancora non aveva
potuto darci tutte le armi necessarie per armarli».
Questo elemento può
dar luogo ad alcune conseguenze: 1) Come sia
politicamente erroneo
chiamare «imboscati» gli addetti all'industria in
tempo di guerra.
Erano essi necessari e indispensabili all'attività
bellica? Erano tanto
necessari che risulta esserci stati troppo pochi
«imboscati», tanto da
rendere inutilizzabili in Italia 60.000 uomini. Questa
propaganda
contro i pseudo-imboscati ebbe conseguenze
deplorevoli: già prima
dell'armistizio furono mandati a Torino dei reparti
d'assalto che
incominciarono subito la caccia all'«imboscato»;
all'uscita dalle
officine gli uomini dal bracciale di esonero, e poi
nelle vie centrali,
erano aggrediti, bastonati e spesso sfregiati in
faccia; gli
avvenimenti alla spicciolata culminarono nella notte
di capodanno 1919
coi fatti di palazzo Siccardi. La censura non permise
di fare neanche
un cenno a questi avvenimenti.
2) La
contrapposizione di combattenti e di esonerati e
imboscati da fatto
privato diventò fatto di diritto pubblico e ciò è
l'aspetto piú grave
della quistione, perché lasciò formarsi l'opinione che
gli esonerati
fossero dei veri «imboscati», non elementi
indispensabili per
l'attività bellica anche se non combattenti, con
sanzione ufficiale.
Per legge si deve preferire un ex combattente nelle
officine, ecc. (Se
nelle officine ci furono degli imboscati veri questi
sono da ricercare
specialmente nei tecnici di secondo grado: la
riduzione al minimo delle
operazioni di lavoro determinata dal limitato numero
di oggetti
fabbricati e dalla loro struttura elementare e il
lavoro a serie,
avevano ridotto la funzione da quella di maestro
d'arte a quella di
pura sorveglianza disciplinare: ciò unito
all'ampliamento degli
impianti dette la possibilità di imboscarsi a molta
gente che non aveva
mai avuto a che fare coll'industria; questi sono veri
imboscati, perché
il posto poteva essere assegnato a dipendenti anziani
della fabbrica
stessa. Cosí non può parlarsi di imboscati per i
contadini che
entrarono allora in quantità notevoli nelle fabbriche,
direttamente
dalle campagne o comandati dall'autorità militare. A
Torino, la
manovalanza delle officine era in gran parte
costituita da soldati
comandati d'origine contadina). In questi regolamenti
sulla assunzione
dei disoccupati non si fa neanche il caso speciale dei
riformati, per i
quali non essere stati combattenti è stato ancora piú
involontario.
In
Italia, col ristretto apparato industriale in
confronto delle necessità
del tempo di guerra, il problema è spinoso:
necessariamente,
l'industria metallurgica e meccanica, ma parzialmente
anche altre
industrie (chimiche, del legno, tessili) devono essere
mobilitate e
siccome la produzione deve essere teoricamente
illimitata, anche
ampliate: quindi non solo devono rimanere in officina
le maestranze
vecchie, ma dovranno farsi nuove assunzioni. La
composizione
dell'esercito sarà perciò in prevalenza contadina,
mentre la maggior
parte degli operai, o almeno una porzione
ragguardevole, dovrà lavorare
per l'attrezzamento e il munizionamento. Fare di
questa necessità un
elemento di agitazione demagogica e sanzionarla di
inferiorità per gli
addetti all'industria, potrà avere questa conseguenza
(in assenza di
una soluzione organica che è difficile: rotazione tra
officina e
fronte, ecc.): che realmente nelle officine vorranno
rimanere i
panciafichisti e che il problema della produzione
subirà una crisi,
cioè la guerra potrà essere perduta nelle officine per
mancanza di
rendimento.
Nella
«Nuova Antologia» del 16 giugno 1929 è pubblicata
una piccola nota
a firma G. S. (o non era forse C. S., cioè Cesare
Spellanzon? Sarebbe
grossa!) Beneš l'immemore, abbastanza curiosa,
perché si afferma
che la «politica delle nazionalità» fu voluta dai
nostri piú avveduti
uomini politici, caldeggiata con pronto intuito dai
maggiori giornali
dell'interventismo, adottata spontaneamente dal
governo italiano. È
vero che G. S. scrive che questa politica si precisava
sin d'allora
«nei suoi veri termini», cioè favorevole specialmente
all'Italia, ma
non è neppure vero in questo senso ristretto, perché
la politica delle
nazionalità si «impose» solo dopo l'ottobre 1917. Ora
G. S. si lamenta
che Beneš nei suoi Souvenirs de guerre et de
révolution (Ernest Leroux, Parigi) attenui i
ricordi dell'amicizia
«bellica» e giunga alla conclusione che tutti i guai
dell'Italia
durante e dopo la guerra siano da attribuirsi alla
mancanza di
chiarezza e di decisione della politica di guerra del
paese.
In
alcuni paesi la formazione delle truppe scelte
d'assalto è stata
catastrofica, a quanto pare: si è mandato alla
distruzione la parte
combattiva dell'esercito, invece di tenerla come
elemento «strutturale»
del morale della massa dei soldati. Secondo il
generale Krasnov (nel
suo famigerato romanzo) questo appunto era successo in
Russia già nel
1915. Questa osservazione può valere come correttivo
critico delle
recenti opinioni espresse dal generale tedesco von
Seeckt sulle armate
specializzate di mestiere, che sarebbero buone
specialmente per
l'offensiva.
*
Caporetto.
Sul libro del Volpe Ottobre 1917. Dall'Isonzo al
Piave, cfr. la
recensione di Antonio Panella nel «Pègaso»
dell'ottobre 1930. La
recensione è benevola ma superficiale. Caporetto fu
essenzialmente un
«infortunio militare»; che il Volpe abbia dato, con
tutta la sua
autorità di storico e di uomo politico, a questa
formula il valore di
un luogo comune soddisfa molta gente che sentiva tutta
l'insufficienza
storica e morale (l'abbiezione morale) della polemica
su Caporetto come
«crimine» dei disfattisti o come «sciopero militare».
Ma è troppa la
compiacenza per la validità di questo nuovo luogo
comune, perché non
debba esserci una reazione, che d'altronde è piú
difficile di quella al
precedente luogo comune, come appare dalla critica
fatta dall'Omodeo al
libro del Volpe. «Assolti» i soldati, la massa
militare esecutiva e
strumentale («l'outil tactique élémentaire» come
Anatole France fa dire
a un generale dei soldati), si sente che il processo
non è finito: la
polemica tra il Volpe e l'Omodeo sugli «ufficiali di
complemento» è
interessante come indizio. Pare, dall'Omodeo, che il
Volpe misconosca
l'apporto bellico degli ufficiali di complemento, cioè
della piccola
borghesia intellettuale e quindi indirettamente
indichi questa come
responsabile dell'«infortunio», pur di salvare la
classe superiore, che
è già messa al sicuro dalla parola «infortunio». La
responsabilità
storica deve essere cercata nei rapporti generali di
classe in cui
soldati, ufficiali di complemento e stati maggiori
occupano una
posizione determinata, quindi nella struttura
nazionale, di cui sola
responsabile è la classe dirigente appunto perché
dirigente (vale anche
qui l'«ubi maior, minor cessat»). Ma questa critica
che sarebbe
veramente feconda, anche dal punto di vista nazionale,
brucia le dita.
Cfr.
il libro del gen. Alberto Baldini sul generale Diaz
(Diaz, in 8°, pp.
263, Barbèra ed., L. 15, 1929). Il generale Baldini
pare critichi
implicitamente Cadorna e cerchi di dimostrare che Diaz
ebbe una
importanza molto maggiore di quanto non gli sia
riconosciuta.
In questa polemica sul significato di Caporetto
bisognerebbe fissare alcuni punti chiari e precisi:
1)
Caporetto fu un fatto puramente militare? Questa
spiegazione pare ormai
acquisita agli storici della guerra, ma essa è basata
su un equivoco.
Ogni fatto militare è anche un fatto politico e
sociale. Subito dopo la
sconfitta si cercò di diffondere la convinzione che le
responsabilità
politiche di Caporetto fossero da ricercare nella
massa militare, cioè
nel popolo e nei partiti che ne erano l'espressione
politica. Questa
tesi è oggi universalmente respinta, anche
ufficialmente. Ma ciò non
vuol dire che Caporetto perciò solo diventi puramente
militare, come si
tende a far credere, come se fattore politico fosse
solo il popolo,
cioè i responsabili della gestione politico-militare.
Anche se fosse
dimostrato (come invece si esclude universalmente) che
Caporetto sia
stato uno «sciopero militare», ciò non vorrebbe dire
che la
responsabilità politica debba essere accollata al
popolo ecc. (dal
punto di vista giudiziario può spiegarsi, ma il punto
di vista
giudiziario è un atto di volontà unilaterale tendente
a integrare col
terrorismo l'insufficienza governativa): storicamente,
cioè dal punto
di vista politico piú alto, la responsabilità sarebbe
sempre dei
governanti, e della loro incapacità a prevedere che
determinati fatti
avrebbero potuto portare allo sciopero militare e
quindi a provvedere a
tempo, con misure adeguate (sacrifici di classe) a
impedire una tale
possibile emergenza. Che ai fini immediati di
psicologia della
resistenza, in caso di forza maggiore, si affermi che
«occorre rompere
i reticolati coi denti» è comprensibile, ma che si
abbia la convinzione
che in ogni caso i soldati debbano rompere i
reticolati coi denti,
perché cosí vuole l'astratto dovere militare, e si
trascuri di
provvederli delle tenaglie, è criminoso. Che si abbia
la convinzione
che la guerra non si fa senza vittime umane è
comprensibile, ma che non
si tenga conto che le vite umane non debbono essere
sacrificate
inutilmente, è criminoso ecc. Questo principio, dal
rapporto militare
si estende al rapporto sociale. Che si abbia la
convinzione, e la si
sostenga senza limitazioni, che la massa militare
debba fare la guerra
e sopportarne tutti i sacrifizi, è comprensibile, ma
che si ritenga che
ciò avverrà in ogni caso senza tener conto del
carattere sociale della
massa militare e senza venire incontro alle esigenze
di questo
carattere, è da semplicioni, cioè da politici
incapaci.
2)
Cosí la responsabilità, se è esclusa quella della
massa militare, non
può neanche essere del capo supremo, cioè di Cadorna,
oltre certi
limiti, cioè oltre i limiti segnati dalle possibilità
di un capo
supremo, della tecnica militare, e delle attribuzioni
politiche che un
capo supremo ha in ogni caso. Cadorna ha avuto gravi
responsabilità,
certamente, sia tecniche che politiche, ma queste
ultime non possono
essere state decisive. Se Cadorna non ha capito la
necessità di un
«governo politico determinato» delle masse comandate e
non le ha
esposte al governo, è certo responsabile, ma non
quanto il governo e in
generale quanto la classe dirigente, di cui, in ultima
analisi, ha
espresso la mentalità e la comprensione politica. Il
fatto che non ci
sia stata una analisi obbiettiva dei fattori che hanno
determinato
Caporetto e un'azione concreta per eliminarli,
dimostra «storicamente»
questa responsabilità estesa.
3)
L'importanza di Caporetto nel decorso dell'intera
guerra. La tendenza
attuale tende a diminuire il significato di Caporetto
e a farne un
semplice episodio del quadro generale. Questa tendenza
ha un
significato politico e avrà delle ripercussioni
politiche nazionali e
internazionali: dimostra che non si vogliono eliminare
i fattori
generali che hanno determinato la sconfitta, ciò che
ha un peso nel
regime delle alleanze e nelle condizioni che saranno
fatte al paese nel
caso di una nuova combinazione bellica, poiché le
critiche di se stessi
che non si vogliono fare nel campo nazionale per
evitare determinate
conseguenze necessarie all'indirizzo politico-sociale,
saranno fatte
indubbiamente dagli organismi responsabili degli altri
paesi in quanto
l'Italia è presunta poter far parte di alleanze
belliche. Gli altri
paesi, nei calcoli in vista di alleanze, dovranno
tener conto di nuovi
Caporetto e vorranno dei premi di assicurazione, cioè
vorranno
l'egemonia anche oltre certi limiti.
4)
L'importanza di Caporetto nel quadro della guerra
mondiale. È data
anche dai mezzi forniti al nemico (tutti i magazzini
di viveri e di
munizioni ecc.) che permisero una piú lunga
resistenza, e la necessità
imposta agli alleati di ricostituire questi depositi
con turbamento di
tutti i servizi e piani generali.
È vero
che in tutte le guerre e anche in quella mondiale, si
ebbero altri
fatti simili a Caporetto. Ma occorre vedere
(all'infuori della Russia)
se ebbero la stessa importanza assoluta e relativa, se
ebbero cause
simili o paragonabili, se ebbero conseguenze simili o
paragonabili per
la posizione politica del paese il cui esercito subí
la sconfitta. Dopo
Caporetto l'Italia, materialmente (per gli armamenti,
per gli
approvvigionamenti, ecc.) cadde in balia degli
alleati, la cui
attrezzatura economica non era paragonabile per
efficienza. L'assenza
di autocritica significa non volontà di eliminare le
cause del male ed
è quindi un sintomo di grave debolezza politica.
*
Gli
ufficiali in congedo. Traggo le notizie dal
discorso del senatore
Libertini tenuto al Senato il 10 giugno 1929. L'Unione
Nazionale degli
Ufficiali in congedo illimitato (U.N.U.C.I.) è sorta
in relazione al R.
D. L. 9 dicembre 1926 (n. 2.352) convertito in legge
il 12 febbraio
1928 n. 261: diede frutti molto scarsi, perché, dice
il Libertini,
«mancava in essa lo spirito necessario a darle vita».
(Questa
affermazione è interessante, in quanto per «spirito»
si intende
precisamente la concessione di benefici materiali, i
quali, in questo
caso, vengono velati eufemisticamente nell'espressione
«giuste
aspirazioni della benemerita classe degli ufficiali in
congedo, i quali
sentivano di avere bene meritato dalla Patria per i
servizi da loro
prestati nella guerra di redenzione ed intendono
perciò esser tenuti
nella considerazione che meritano, moralmente e
materialmente». Se si
fosse trattato di classi popolari, non si sarebbe
trattato di «spirito»
ma di basse avidità materialistiche, suscitate dalla
demagogia, ecc.
Questo modo di pretendere «gratuitamente» dalle masse
popolari ciò che
invece è «pagato» alle altre classi è caratteristico
dei dirigenti
italiani: se le masse rimangono passive, la colpa non
è dell'insipienza
dei dirigenti e del loro gretto egoismo, ma dei
demagoghi: è poi
notevole il modo di ragionare per cui è
«materialistico» chi vuole
migliorare le proprie condizioni economiche ma non è
tale chi non vuole
peggiorare sia pure di poco le proprie: si domanda
«materialisticamente», si rifiuta «idealisticamente»;
chi non ha è
gretto, chi ha è altruista perché non dà, ecc.).
Nuova
legge del 24 dicembre 1928, n. 3.242, che concede
benefizi. Il
Libertini a questo punto esamina la situazione degli
ufficiali in
congedo in Jugoslavia e in Francia. In Francia gli
ufficiali di
riserva, se viaggiano per recarsi alle conferenze ed
esercitazioni
nelle scuole di perfezionamento fuori residenza,
ricevono indennità dai
12 ai 32 franchi giornalieri a seconda della durata
dell'assenza;
indennità chilometriche di prima classe (tariffa
militare) andata e
ritorno, ecc. ecc. A partire dal 1° gennaio 1925
l'ufficiale di riserva
francese riceve 700 franchi a titolo di indennità di
prima vestizione;
a chi non ha riscosso questa indennità, si dà un
vestito gratis.
In
Jugoslavia: sono iscritti all'Albo degli ufficiali in
congedo ed ex
combattenti costituito nel 1922, 18.000 ufficiali di
riserva e 35.000
ex combattenti, cioè a dire la quasi totalità degli
ufficiali in
congedo. In caso di «servizio» per istruzione, ecc.,
[sono]
vettovagliati, alloggiati e rimborsati delle spese di
viaggio.
Ancora
a proposito dello «spirito», nel discorso alla Camera
il generale
Gazzera, sottosegretario alla guerra, ammise che il
provvedimento di
invitare gli ufficiali in congedo a prestare
volontariamente servizio
durante il periodo estivo di esercitazioni ha avuto
questo risultato:
nel 1926 si presentarono 1.007 ufficiali, nel '27 206
e nel 28 165!!
(Lo
Stato deve curare gli ufficiali in congedo per due
fondamentali ordini
di ragioni: la prima di carattere tecnico, perché
questi ufficiali, che
saranno richiamati come tali in caso di mobilitazione,
non perdano la
qualifica professionale acquistata e la sviluppino
anzi
coll'apprendimento teorico-pratico delle innovazioni
che vengono
introdotte nei sistemi tattici e strategici; la
seconda di carattere
ideologico facilmente comprensibile.
A
proposito dello «spirito» e della «materia» le
osservazioni non
riguardano naturalmente gli ufficiali, ma i dirigenti.
Le cifre del
Gazzera sono molto interessanti, piú ancora se si
considera che molti
sono gli ufficiali appartenenti alle organizzazioni
ufficiali
politiche: sono da mettere insieme alle cifre
sull'appartenenza alle
associazioni di propaganda coloniale citate da Carlo
Curcio nella
«Critica fascista» del luglio 1930: da tener presente
per la
rubrica Passato e Presente).
Leggere
attentamente le discussioni specialmente del Senato
sui bilanci
militari. Si possono trovare molte osservazioni
interessanti sulla
reale efficienza delle forze armate e per il confronto
tra il vecchio e
nuovo regime.
*
Per
una politica annonaria razionale e nazionale di
Guido Borghesani,
nella «Nuova Antologia» del 1° luglio 1927, è un
mediocre articolo, con
dati poco sicuri e elaborati primitivamente. Sostiene
la tesi generale
che in Italia si consuma troppo grano e che perciò
oltre alla lotta per
avere un miglior raccolto granario dove è tecnicamente
piú produttiva
la semina di questo cereale, si dovrebbe tendere a
sostituire il grano
con altri cibi. La quistione è però questa, che per
es. la Francia, le
cui abitudini sono nel mangiare molto simili a quelle
dell'Italia, non
solo consuma per abitante tanto grano quanto l'Italia,
ma consuma molto
piú di altri cibi fondamentali (zucchero: Francia, kg.
24,5; Italia,
kg. 8), (formaggio e burro calcolati in latte:
Francia, hl. 3; Italia,
hl. 0,8). Il problema del grano in Italia è di
miseria, non di
soverchio consumo, anche se la tesi generale è giusta,
nel senso del
grande squilibrio: in Italia il maggior consumo di
grano in confronto
del granoturco, ecc., è l'unico indice di un certo
miglioramento
dietetico.
*
1919. Articoli
della «Stampa» contro i tecnici d'officina e clamorose
pubblicazioni
degli stipendi piú alti. Bisognerebbe vedere se a
Genova, la stampa
degli armatori, fece la stessa campagna contro gli
stati maggiori
quando essi entrarono in agitazione e furono aiutati
dagli equipaggi.
IV. Recensioni e note
bibliografiche.
Studi
particolari su Machiavelli come «economista»:
Gino Arias negli
«Annali di Economia della Università Bocconi»
[pubblica] uno studio
dove [si trova] qualche indicazione. (Studio di
Vincenzo Tangorra).
Pare che lo Chabod, in qualche suo scritto sul
Machiavelli, trovi che
sia una deficienza del fiorentino, in confronto, per
es., al Botero, il
fatto della quasi assenza di riferimenti economici nei
suoi scritti
(sull'importanza del Botero per lo studio della storia
del pensiero
economico cfr. Mario De Bernardi e recensione di L.
Einaudi nella
«Riforma Sociale» di marzo-aprile 1932).
Occorre
fare alcune osservazioni generali sul pensiero
politico del Machiavelli
e sul suo carattere di «attualità» a differenza di
quello del Botero,
che ha carattere piú sistematico e organico sebbene
meno vivo e
originale. Occorre anche richiamare il carattere del
pensiero economico
di quel tempo (spunti nel citato articolo
dell'Einaudi) e la
discussione sulla natura del mercantilismo (scienza
economica o
politica economica?) Se è vero che il mercantilismo è
una [mera]
politica economica, in quanto non può presupporre un
«mercato
determinato» e l'esistenza di un preformato
«automatismo economico», i
cui elementi si formano storicamente solo a un certo
grado di sviluppo
del mercato mondiale, è evidente che il pensiero
economico non può
fondersi nel pensiero politico generale, cioè nel
concetto di Stato e
delle forze che si crede debbano entrare a comporlo.
Se si prova che il
Machiavelli tendeva a suscitare legami tra città e
campagna e ad
allargare la funzione delle classi urbane fino a
domandar loro di
spogliarsi di certi privilegi feudali-corporativi nei
rispetti della
campagna, per incorporare le classi rurali nello
Stato, si dimostrerà
anche che il Machiavelli implicitamente ha superato in
idea la fase
mercantilista e ha già degli accenni di carattere
«fisiocratico», cioè
egli pensa a un ambiente politico-sociale che è quello
presupposto
dall'economia classica.
Il prof. Sraffa
attira l'attenzione su un possibile avvicinamento del
Machiavelli a un
economista inglese del 1600, William Petty, che Marx
chiama il
«fondatore dell'economia classica» e le cui opere
complete sono state
tradotte anche in francese. (Marx ne parlerà nei
volumi
del Mehrwert, Storia delle dottrine
economiche).
*
La
«Rivista d'Italia» del 15 giugno 1927 è interamente
dedicata al
Machiavelli in occasione del IV centenario della
morte. Eccone
l'indice: 1) Charles Benoist, Le Machiavélisme
perpétuel; 2)
Filippo Meda, Il machiavellismo; 3) Guido
Mazzoni, Il
Machiavelli drammaturgo; 4) Michele Scherillo, Le
prime esperienze
politiche del Machiavelli; 5) Vittorio
Cian, Machiavelli e
Petrarca; 6) Alfredo Galletti, Niccolò
Machiavelli umanista; 7)
Francesco Ercole, Il Principe; 8) Antonio
Panella,Machiavelli
storico; 9) Plinio Carli, N. Machiavelli
scrittore; 10) Romolo
Caggese, Ciò che è vivo nel pensiero politico di
Machiavelli.
L'articolo
del Mazzoni è mediocre e prolisso:
erudito-storico-divagativo. Come
capita spesso a questo tipo di critici, il Mazzoni non
ha ben capito il
contenuto letterario della Mandragola, falsifica
il carattere di
messer Nicia e quindi tutto il complesso dei
personaggi, che sono in
funzione dell'avventura di messer Nicia; il quale non
si aspettava un
figlio dall'accoppiamento di sua moglie con Callimaco
travestito, ma si
aspettava invece di avere la moglie resa feconda per
virtú dell'erba
mandragola e liberata per l'accoppiamento con un
estraneo dalle
supposte conseguenze micidiali della pozione, che
altrimenti sarebbero
state subite da lui stesso. Il genere di
scimunitaggine di messer Nicia
è ben circoscritto e rappresentato: egli crede che la
sterilità delle
sue nozze non dipenda da lui stesso, vecchio, ma dalla
moglie giovane
ma fredda e a questa presunta infecondità della moglie
vuole riparare,
non col farla fecondare da un altro, ma ottenendo che
da infeconda sia
trasformata in feconda.
Che messer Nicia
si lasci convincere a far accoppiar la moglie con uno
che dovrà morire
per liberarla da un presunto maleficio che altrimenti
sarebbe causa di
allontanamento per lui dalla moglie o di morte per
lui, è un elemento
comico che si trova in altre forme nella novellistica
popolare dove si
suol dipingere la protervia delle donne che per dare
la sicurezza agli
amanti si fanno possedere in presenza e col consenso
del marito (motivo
che, in altra forma, appare anche nel Boccaccio). Ma
nella Mandragola è rappresentata la
stoltezza del marito e
non la protervia della donna, la cui resistenza può
essere domata anzi
solo con l'intervento dell'autorità materna e di
quella del confessore.
L'articolo
di Vittorio Cian è anche inferiore a quello del
Mazzoni: la retorica
stopposa del Cian trova modo di abbarbicarsi anche sul
bronzo. È
evidente che il Machiavelli reagisce alla tradizione
petrarchesca e
cerca di spiantarla, nonché di continuarla; ma il Cian
vede col senno
di poi infantilmente applicato, precursori da per
tutto e divinazioni
miracolose in ogni frasetta banale e occasionale e
distende dieci
pagine sull'argomento per non dire che i soliti luoghi
comuni
amplificati dei manuali per le scuole medie ed
elementari.
*
Un'edizione
delle Lettere di Niccolò Machiavelli è stata
fatta dalla Società
Editrice «Rinascimento del libro», Firenze, nella
«Raccolta nazionale
dei classici», curata e con prefazione di Giuseppe
Lesca (la prefazione
è stata pubblicata nella «Nuova Antologia» del 1°
novembre 1929).
Le lettere erano già state stampate nel 1883
dall'Alvisi presso il
Sansoni di Firenze con lettere di altri al Machiavelli
(del libro
dell'Alvisi è stata fatta una nuova edizione con
prefazione di Giovanni
Papini).
*
Pasquale
Villari, Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, a
cura di Michele
Scherillo, Ed. Ulrico Hoepli, Milano, 1927, due
volumi, L. 60,00. (È la
ristampa della nota opera del Villari, con in meno i
documenti che
nell'edizione Le Monnier occupano l'intero terzo
volume e parte del
secondo. In questa edizione dello Scherillo i
documenti sono stati
elencati con cenni sommari sul loro contenuto, in modo
che facilmente
si può andarli a ricercare nell'edizione Le Monnier).
*
In
una recensione di Giuseppe Tarozzi del 1° volume
sulla Costituzione russa di Mario Sertoli
(Firenze, Le
Monnier, 1928, in 8°, pp. 435, L. 50) pubblicata
dall'«Italia che
scrive», è citato un libro del Vorländer Von
Machiavelli bis
Lenin, senz'altra indicazione. (Sarà da vedere la
rassegna sulla
letteratura machiavellica piú recente pubblicata nel
1929 dai «Nuovi
Studi»).
*
Gioviano
Pontano. Sua attività politica come affine a
quella del
Machiavelli. (cfr. M. Scherillo, Origini e
svolgimento della
letteratura italiana, II, dove [sono] riportati due
memoriali del
Pontano sulla situazione italiana nel periodo della
calata di Carlo
VIII; e Gothein, Il Rinascimento nell'Italia
Meridionale, tradotto
nella Biblioteca storica del Rinascimento, Firenze,
1915). Il Pontano
era membro napoletanizzato. (La religione come
strumento di governo.
Contro il potere temporale del Papa: doversi «li Stati
temporali»
governare da «re e principi secolari»).
*
Gino
Arias, Il pensiero economico di Niccolò
Machiavelli. (Negli
«Annali di Economia» dell'Università Bocconi del 1928
(o '27?).
*
Machiavelli
ed Emanuele Filiberto. Nel volume miscellaneo
su Emanuele
Filiberto pubblicato nel 1928 dal Lattes, Torino
(pp. 477 in 8°)
l'attività militare di Emanuele Filiberto come
stratega e come
organizzatore dell'esercito piemontese è studiata dai
generali
Maravigna e Brancaccio.
*
Ettore
Ciccotti. Il suo volume: Confronti storici,
Biblioteca della
«Nuova Rivista Storica» n. 10, Società Ed. Dante
Alighieri, 1929, pp.
XXXIX-262, è stato recensito favorevolmente da Guido
De Ruggiero nella
«Critica» del gennaio 1930 e invece con molta cautela
e in fondo
sfavorevolmente da Mario de Bernardi nella «Riforma
Sociale» (vedere).
Un capitolo del libro del Ciccotti (forse
l'introduzione generale) è
stato pubblicato nella «Rivista d'Italia» del 15
giugno-15 luglio 1927:
«Elementi di "verità" e di "certezza" nella tradizione
storica romana»
e solo a questo capitolo qui si accenna. Il Ciccotti
esamina e combatte
una serie di deformazioni professionali della
storiografia romana e
molte sue osservazioni sono giuste negativamente: è
per le affermazioni
positive che sussistono dubbi e sono necessarie molte
cautele. La
recensione del De Ruggiero è molto superficiale: egli
giustifica il
metodo «analogico» del Ciccotti come un riconoscimento
dell'identità
fondamentale dello spirito umano, ma cosí si va molto
lontano, fino
alla giustificazione dell'evoluzionismo volgare e
delle leggi
sociologiche astratte, che anch'esse, a loro modo, si
fondano, con un
linguaggio particolare, sull'ipotesi dell'identità
fondamentale dello
spirito umano.
Uno degli errori teorici
piú gravi del Ciccotti pare consista
nell'interpretazione sbagliata del
principio vichiano che il «certo si converte nel
vero». La storia non
può essere che certezza (con l'approssimazione della
ricerca della
«certezza»). La conversione del «certo» nel «vero» può
dar luogo a
costruzioni filosofiche (della cosí detta storia
eterna) che non hanno
che poco in comune con la storia «effettuale»: ma la
storia deve essere
«effettuale » e non romanzata: la sua certezza deve
essere prima di
tutto certezza dei documenti storici (anche se la
storia non si
esaurisce tutta nei documenti storici, la
cui nozione
d'altronde è talmente complessa ed estesa, da poter
dare luogo a
concetti sempre nuovi sia di certezza che di verità).
La parte
sofistica della metodologia del Ciccotti appare molto
chiara là dove
egli afferma che la storia è dramma, perché ciò non
vuol dire che ogni
rappresentazione drammatica di un dato periodo storico
sia quella
«effettuale», anche se viva, artisticamente perfetta,
ecc. Il sofisma
del Ciccotti porta a dare un valore eccessivo alla
belletristica
storica come reazione all'erudizione pedantesca e
petulante: dalle
piccole «congetture» filologiche si passa alle
«grandiose» congetture
sociologiche, con poco guadagno per la storiografia.
In
un esame della attività storica del Ciccotti occorre
tenere molto conto
di questo libro. La «filosofia della prassi» del
Ciccotti è molto
superficiale: è la concezione di Guglielmo Ferrero e
di C. Barbagallo,
cioè un aspetto della sociologia positivistica,
condita di qualche
degnità vichiana. La metodologia del Ciccotti ha dato
luogo appunto
alle storie tipo Ferrero e alle curiose elucubrazioni
del Barbagallo
che finisce col perdere il concetto di distinzione e
di concretezza
«individua» di ogni momento dello sviluppo storico e
con lo scoprire
due originali degnità: che «tutto il mondo è paese» e
che «piú tutto
cambia e piú si rassomiglia».
*
Corrado
Barbagallo. Il suo libro L'oro e il
fuoco deve essere
esaminato, tenendo conto del partito preso dell'autore
di trovare
nell'antichità ciò che è essenzialmente moderno, come
il capitalismo,
la grande industria e le manifestazioni che ad essi
sono collegate.
Occorre specialmente esaminare le sue conclusioni a
proposito delle
corporazioni professionali e delle loro funzioni,
ponendole a confronto
con le ricerche degli studiosi del mondo classico e
del Medio Evo. Cfr.
le conclusioni del Mommsen e del Marquardt a proposito
dei collegia opificum et artificum; per il
Marquardt essi erano
istituzioni di carattere erariale e servivano
all'economia e alla
finanza dello Stato in senso stretto e poco o punto
istituzioni sociali
(cfr. il mir russo). A parte l'osservazione che in
ogni caso il
sindacalismo moderno dovrebbe trovare corrispondenza
in istituzioni
proprie degli schiavi del mondo classico. Ciò che
caratterizza, da
questo punto di vista, il mondo moderno è che al
disotto dei proletari
non c'è classe alla quale sia proibito l'organizzarsi,
come avveniva
nel Medio Evo e anche nel mondo classico con ogni
probabilità;
l'artigiano romano poteva servirsi degli schiavi come
lavoranti ed essi
non appartenevano certo ai collegia e non è escluso
che, nella stessa
plebe, qualche categoria non servile fosse esclusa
dall'organizzazione.
Quella
del Barbagallo sul capitalismo antico è una storia
ipotetica,
congetturale, possibile, un abbozzo storico, uno
schema sociologico,
non una storia certa e determinata. Gli storici come
il Barbagallo
cadono, mi pare, in un errore filologico-critico molto
curioso: che la
storia antica debba essere fatta sui documenti del
tempo, su cui si
fanno ipotesi ecc., senza tener conto che tutto lo
sviluppo storico
susseguente è un «documento» per la storia precedente
ecc. Gli emigrati
inglesi nell'America del Nord hanno portato con loro
l'esperienza
tecnico-economica dell'Inghilterra; come mai si
sarebbe perduta
l'esperienza del capitalismo antico se questo fosse
veramente esistito
nella misura in cui il Barbagallo lascia supporre o
vuole che si
supponga?
*
Giuseppe
Gallavresi, Ippolito Taine storico della
Rivoluzione francese,
«Nuova Antologia», 1° novembre 1928. Cabanis (Giorgio)
1750-1808, sue
teorie materialiste esposte nel libro dedicato allo
studio dei rapporti
tra le physique et le moral. Il Manzoni ammirava
profondamente
l'angélique Cabanis e anche quando si convertí
continuò ad
ammirare questo suo libro. Il Taine discepolo del
Cabanis.
Il
metodo induttivo e le norme dell'osservazione presi a
prestito dalle
scienze naturali dovevano portare il Taine, secondo il
Gallavresi, alla
conclusione che la Rivoluzione francese sia stata una
mostruosità, una
malattia. «La democrazia egualitaria è una mostruosità
alla luce delle
leggi della natura; ma il fatto che è stata concepita
dall'uomo ed
anche realizzata tratto tratto nella storia di taluni
popoli deve far
riflettere gli spiriti piú riluttanti ad accettare un
regime pur cosí
convenzionale». (Interessanti questi concetti di
«convenzionale», di
«artificiale», ecc., applicati a certe manifestazioni
storiche:
«convenzionale» e «artificiale» sono implicitamente
contrapposti a
«naturale», cioè a uno schema «conservatore» veramente
convenzionale e
artificiale perché la realtà lo ha distrutto: in
verità i peggiori
«scientifisti» sono i reazionari che si proiettano una
«evoluzione» di
proprio comodo e ammettono l'importanza e l'efficacia
dell'intervento
della volontà umana fortemente organizzata e
concentrata, solo quando è
reazionaria, quando tende a restaurare ciò che è
stato, come se ciò che
è stato ed è stato distrutto non sia altrettanto
«ideologico»,
«astratto», «convenzionale», ecc., di ciò che ancora
non è stato
effettuato e anzi molto piú).
Questa
quistione del Taine e della Rivoluzione Francese deve
essere studiata
perché ha avuto una certa importanza, nella storia
della cultura del
secolo scorso: confronta i libri di Aulard contro
Taine e le
pubblicazioni di Augustin Cochin su tutti e due.
Questo articolo del
Gallavresi è molto superficiale. (Confronta anche il
fatto per cui la
letteratura pamphletistica che precedette e accompagnò
la Rivoluzione
Francese sembra stomachevole agli spiriti raffinati:
ma la letteratura
gesuitica contro la Rivoluzione fu migliore o non fu
peggiore? La
classe rivoluzionaria intellettualmente è sempre
debole da questo punto
di vista: essa lotta per farsi una cultura ed
esprimere una classe
colta consapevole e responsabile: di piú, tutti i
malcontenti e i
falliti delle altre classi si buttano dalla sua parte
per rifarsi una
posizione. Lo stesso non può dirsi della vecchia
classe conservatrice,
anzi il contrario: eppure la sua letteratura di
propaganda è peggiore e
piú demagogica, ecc.).
*
La
scienza della politica e i positivisti. La politica
non è che una
determinata «fenomenologia» della delinquenza, è la
«delinquenza
settaria»: questo mi pare il succo del libro di Scipio
Sighele, Morale privata e Morale politica, Nuova
edizione
de La delinquenza settaria riveduta ed
aumentata dall'autore,
Milano, Treves, 1913 (con in appendice riprodotto
l'opuscolo Contro il parlamentarismo). Può
servire come «fonte»
per vedere come i positivisti intendevano la
«politica», sebbene sia
superficiale, prolisso e sconnesso. La bibliografia è
compilata senza
metodo, senza precisione e senza necessità (se un
autore è citato nel
libro per un'affermazione incidentale, nella
bibliografia è riportato
il libro da cui [è] presa la citazione). Il libro può
servire come
elemento per comprendere i rapporti che sono esistiti
nel decennio
1890-1900 tra gli intellettuali socialisti e i
positivisti della scuola
lombrosiana, ossessionati dal problema della
criminalità, tanto da
farne una concezione del mondo o quasi (cadevano in
una strana forma di
«moralismo» astratto, poiché il bene e il male era
qualcosa di
trascendente e di dogmatico, che in concreto
coincideva con la morale
del «popolo», del «senso comune»). Il libro del
Sighele deve essere
stato recensito da Guglielmo Ferrero, perché nella
bibliografia è
citato un articolo del Ferrero Morale individuale
e morale
politica nella «Riforma Sociale», anno I, n.
XI-XII. Libro di
Ferri: Socialismo e criminalità; di
Turati: Il delitto e la
questione sociale. Vedere bibliografia di Lombroso,
Ferri, Garofalo
(antisocialista), Ferrero, e altri da ricercare.
L'opuscolo
contro il parlamentarismo è anch'esso
superficialissimo e senza sugo:
può essere citato come una curiosità dati i tempi in
cui fu scritto: è
tutto imperniato sul concetto che le grandi assemblee,
i collegi sono
organismi tecnicamente inferiori al comando
unico o di pochi,
come se questa fosse la quistione principale. E
pensare che il Sighele
era un democratico e che appunto per ciò si staccò a
un certo punto dal
movimento nazionalista. In ogni caso forse è da
collegare questo
opuscolo del Sighele alle concezioni «organiche» del
Comte.
*
La
funzione degli intellettuali. Sulla funzione
degli intellettuali
nello sviluppo della vita politica, sui rapporti del
popolo e degli
intellettuali è da vedere ciò che scrive il Gioberti
specialmente
nel Rinnovamento. Il Gioberti non adopera il
termine
«intellettuali» ma parla dell'«ingegno». È da notare
che il Gioberti
distingue la democrazia dalla demagogia appunto dalla
funzione che
nella democrazia ha l'«ingegno».
*
G.
Gentile e la filosofia della politica. Cfr. l'articolo
pubblicato da G.
Gentile nello «Spectator» del 3 novembre 1928 e
ristampato
nell'«Educazione fascista». «Filosofia che non si
pensa (!?), ma che si
fa, e perciò si enuncia ed afferma non con le formule
ma con l'azione».
Poiché da quando esiste l'uomo, si è sempre «fatto», è
sempre esistita
l'«azione», questa filosofia è sempre esistita, è
stata pertanto la
filosofia di... Nitti e di Giolitti. Ogni Stato ha
«due filosofie»:
quella che si enuncia per formule ed è una semplice
arte di governo, e
quella che si afferma con l'azione ed è la filosofia
reale, cioè la
storia. Il problema è di vedere in che misura queste
due filosofie
coincidono, divergono, sono in contrasto, sono
coerenti intimamente e
tra loro. La «formula» gentiliana non è, in realtà,
che la mascheratura
sofistica della «filosofia» politica piú nota col nome
di
«opportunismo» ed empirismo. Se Bouvard e Pécuchet
avessero conosciuto
Gentile, avrebbero trovato nella sua filosofia la
giusta
interpretazione della loro attività rinnovatrice e
rivoluzionaria (nel
senso non corrotto della parola, come si dice).
*
Il
genio nella storia. Nello scritto inedito di Niccolò
Tommaseo Pio
IX e Pellegrino Rossi pubblicato da Teresa Lodi
nel «Pègaso»
dell'ottobre 1931 si legge a proposito di Pio IX (p.
407): «E fosse
stato anco un genio, gli conveniva trovare aiutatori
ed interpreti;
perché l'uomo che sorge solo, solo si rimane, e cade
assai volte o
deserto o calpesto. In ogni educazione e privata e
pubblica importa
conoscere lo strumento che s'ha tra mani, e chiedergli
quel suono ch'ei
può dare, e non altro; e prima d'ogni cosa saperlo
suonare». Dello
stesso Tommaseo: «Io non entro nelle cose private
dell'uomo se non
quanto aiutino a spiegare le pubbliche»; la
proposizione è giusta,
anche se il Tommaseo non vi si sia attenuto quasi mai.
*
Sul
sentimento nazionale. L'editore Grasset ha pubblicato
un gruppo
di Lettres de jeunesse dell'allora capitano
Lyautey. Le
lettere sono del 1883 e il Lyautey era allora
monarchico, devoto al
conte di Chambord; il Lyautey apparteneva alla grande
borghesia che era
strettamente alleata all'aristocrazia. Piú tardi,
morto il conte di
Chambord e dopo l'azione di Leone XIII per
il ralliement, il
Lyautey si uní al movimento di Albert de Mun che seguí
le direttive di
Leone XIII, e cosí divenne un alto funzionario della
Repubblica,
conquistò il Marocco, ecc.
Il Lyautey era
ed è rimasto un nazionalista integrale, ma ecco come
concepiva nell'83
la solidarietà nazionale: a Roma aveva conosciuto il
tedesco conte von
Dillen, capitano degli ulani, e cosí ne scrisse al suo
amico Antoine de
Margerie: «Un gentleman, d'une éducation parfaite, de
façons
charmantes, ayant en toutes choses, religion,
politique, toutes nos
idées. Nous parlons la même langue et nous nous
entendons à merveille.
Que veux-tu? J'ai au coeur, une haine féroce, celle du
désordre, de la
revolution. Je me sens, certes, plus près de tous ceux
qui la
combattent, de quelque nationalité qu'ils soient, que
de tels de nos
compatriotes avec qui je n'ai pas une idée commune et
que je regarde
comme des ennemis publics».
*
I
filosofi e la Rivoluzione francese. Nello stesso
zibaldone il
Bonghi scrive di aver letto un articolo di Carlo
Louandre nella «Revue
des deux mondes» in cui si parla di un giornale
(diario) di Barbier
allora pubblicato, che riguarda la società francese
dal 1718 al 1762.
Il Bonghi ne trae la conclusione che la società
francese di Luigi XV
era peggiore per ogni parte di quella che seguí la
rivoluzione.
Superstizione religiosa in forme morbose, mentre
l'incredulità cresceva
nell'ombra. Il Louandre dimostra che i «filosofi»
dettero la teoria di
una pratica già fatta, non la fecero.
*
Giuseppe
Ferrari, Corso su gli scrittori politici
italiani. Nuova edizione
completa con prefazione di A. O. Olivetti. 1928,
Milano, Monanni, pp.
700, L. 25.
*
Centralismo
organico ecc. Lo Schneider cita queste parole di Foch:
«Commander n'est
rien. Ce qu'il faut, c'est bien comprendre ceux avec
qui on a affaire
et bien se faire comprendre d'eux. Le bien comprendre,
c'est tout le
secret de la vie...». Tendenza a separare il «comando»
da ogni altro
elemento e a farne un «toccasana» di nuovo genere. E
ancora occorre
distinguere tra il «comando» espressione di diversi
gruppi sociali: da
gruppo a gruppo l'arte del comando e il suo modo di
esplicarsi muta di
molto, ecc. Il centralismo organico, col comando
caporalesco e
«astrattamente» concepito, è legato a una concezione
meccanica della
storia e del movimento, ecc.
*
Italo
Chittaro, La capacità di comando, Casa Editrice
De Alberti, Roma.
Da una recensione di V. Varanini nella «Fiera
Letteraria» del 4
novembre 1928 pare che nel libro del Chittaro sono
contenuti spunti
molto interessanti anche per la scienza politica.
Necessità degli studi
storici per la preparazione professionale degli
ufficiali. Per
comandare non basta il semplice buon senso: questo, se
mai, è il frutto
di un profondo sapere e di lungo esercizio. La
capacità di comando è
specialmente importante per la fanteria: se nelle
altre armi si diventa
specialisti di compiti particolari, nella fanteria si
diventa
specialisti nel comando, cioè del compito di insieme:
necessità quindi
che tutti gli ufficiali destinati a gradi elevati
abbiano tenuto
comandi di fanteria (cioè prima di essere capaci a
ordinare le «cose»
occorre essere capaci a ordinare e guidare gli
uomini). Considera
infine la necessità della formazione di uno Stato
Maggiore numeroso,
valido, popolare tra le truppe.
*
Scritto
dal (generale) Luigi Bongiovanni nella «Nuova
Antologia» del 16 gennaio
1934 (La Marna: giudizi in contrasto): «La guerra nel
suo duro realismo
avanza solo per via di fatti. Ciò che importa è
vincere. La vittoria
non si misura a sacrifici, ma a risultati. Di piú, la
vittoria è sempre
l'effetto di una superiorità: anzi, ne è la innegabile
constatazione.
Quando costa poco sangue, vuol dire che la superiorità
era insita in
uno dei due contendenti, per effetto di eventi
anteriori».
*
Carlo
Flumiani, I gruppi sociali. Fondamenti di scienza
politica,
Milano, Istituto Editoriale Scientifico, 1928, pp.
126, L. 20.
(Procurarsi il catalogo di questa casa che ha stampato
altri libri di
scienza politica).
*
Rapporti
tra città e campagna. Per avere dei dati sui rapporti
tra le nazioni
industriali e quelle agrarie e quindi spunti per la
quistione della
situazione di semicolonie dei paesi agrari (e delle
colonie interne nei
paesi capitalistici) è da vedere il libro del Mihail
Manoilesco, La teoria del protezionismo e dello
scambio
internazionale, Milano, Treves, 1931. Il Manoilesco
scrive che «il
prodotto del lavoro di un operaio industriale è in
generale sempre
scambiato con il prodotto del lavoro di parecchi
operai agricoli, in
media uno contro cinque». Perciò il Manoilesco parla
di uno
«sfruttamento invisibile» dei paesi industriali sui
paesi agricoli. Il
Manoilesco è attuale governatore della Banca nazionale
rumena e il suo
libro esprime le tendenze ultraprotezioniste della
borghesia rumena.
*
Vittorio
Giglio, Milizie ed eserciti d'Italia, in 8°, 404
pp., illustr., L.
80, C. E. Ceschina (Dall'epoca romana alle milizie
comunali,
all'esercito piemontese, alla M.V.S.N.). Cercare come
mai nel '48 in
Piemonte non esistesse nessun capo militare e sia
stato necessario
ricorrere a un generale polacco. Nel
Quattrocento-Cinquecento e anche
dopo, buonissimi capitani (condottieri, ecc.),
sviluppo notevole della
tattica e strategia, eppure impossibilità di creare
esercito nazionale,
per il distacco tra il popolo e le classi alte.
*
Su
Quintino Sella, cfr. nella «Nuova Antologia» del 16
settembre 1927: P.
Boselli, Roma e Quintino Sella; Alberto De
Stefani, Quintino
Sella (1827-1884) ; Bruno
Minoletti, Quintino Sella
storico, archeologo e paleografo.
*
Storia
del dopoguerra. Vedi l'articolo di Giovanni
Marietti, Il trattato
di Versailles e la sua esecuzione, nei fascicoli del
16 settembre e 16
ottobre 1929 della «Nuova Antologia». È un riassunto
diligente dei
principali avvenimenti legati all'esecuzione del
trattato di
Versailles, una trama schematica che può essere utile
come inizio di
una ricostruzione analitica o per fissare le
concordanze internazionali
agli avvenimenti interni dei vari paesi.
*
Roberto
Michels. Nell'articolo Il pangermanismo coloniale
tra le cause del
conflitto mondiale di Alberto Giaccardi («Nuova
Antologia», 16
maggio 1930), a p. 238 è scritto: «Il "posto al sole"
reclamato dalla
Germania cominciò troppo presto a diventare di una
tale ampiezza, che
avrebbe ridotto tutti gli altri all'ombra o quasi:
perfino al popolo
italiano, la cui situazione era analoga a quella del
popolo tedesco, un
dotto germanico, Roberto Michels, negava il diritto di
esigere colonie,
perché "l'Italia, pur essendo demograficamente forte,
è povera di
capitali"». Il Giaccardi non dà il riferimento
bibliografico
dell'espressione del Michels.
Nel
fascicolo del 1° luglio successivo il Giaccardi
pubblica una
«rettifica» della sua affermazione, evidentemente per
impulso del
Michels; ricorda: L'Imperialismo
italiano del Michels
(Milano, 1914, Società editrice libraria) e del 1912
gli Elemente
zur Entstehungsgeschichte des Imperialismus in
Italien, nell'«Archiv
für Sozialwissenschaft», gennaio-febbraio 1912, pp.
91-92, e conclude:
«Il che corrisponde perfettamente ai sentimenti di
italianità
costantemente (!) dimostrati dall'illustre professore
dell'Ateneo
perugino, che, sebbene renano d'origine, ha scelto
l'Italia come sua
Patria di adozione, svolgendo in ogni occasione una
intensa ed efficace
attività in nostro favore».
*
Cultura
italiana. Vedere l'attività culturale delle «Edizioni
Doxa» di Roma: mi
pare sia di tendenze protestanti. Cosí l'attività di
«Bilychnis». Cosí
bisognerà farsi una nozione esatta dell'attività
intellettuale degli
ebrei italiani in quanto organizzata e centralizzata:
periodici come il
«Vessillo Israelitico» e «Israel», pubblicazioni di
case editrici
specializzate, ecc.: centri di cultura piú importanti.
In che cosa il
nuovo movimento sionista nato dopo la dichiarazione
Balfour ha influito
sugli ebrei italiani?
*
Francia. André Siegfried, Tableau des Partis en
France, Paris, Grasset, 1930.
*
Alfredo
Oriani. È interessante una nota di Piero
Zama, Alfredo Orfani
candidato politico, nella «Nuova Antologia» del 16
novembre 1928.
*
R. Garofalo, Criminalità e amnistia in Italia,
«Nuova Antologia» del 1° maggio 1928. Per la figura
del Garofalo.
*
E.
De Cillis, Gli aspetti e le soluzioni del
problema della
colonizzazione agraria in Tripolitania, «Nuova
Antologia», 1° luglio
1928. Vedere la letteratura in proposito e seguire le
pubblicazioni del
De Cillis. L'articolo è interessante perché
realistico.
*
Gaspare
Ambrosini, La situazione della Palestina e gli
interessi
dell'Italia, «Nuova Antologia» del 16 giugno 1930.
(Indicazioni
bibliografiche sulla quistione).
*
Andrea
Torre, Il principe di Bülow e la politica
mondiale germanica,
«Nuova Antologia», 1° dicembre 1929 (scritto in
occasione della morte
del Bülow e in base al libro dello stesso
Bülow, Germania
imperiale: è interessante e sobrio).
*
Stresemann.
Cfr. nella «Nuova Antologia» del 16 novembre 1929
l'articolo di
Francesco Tommasini, Il pensiero e l'opera di
Gustavo Stresemann,
interessante per studiare la Germania del dopoguerra e
il mutamento
nella psicologia dei nazionalisti borghesi e piccolo
borghesi.
*
Nazionalizzazioni
e statizzazioni. Cfr. M. Saitzew, Die öffentliche
Unternehmung der
Gegenwart, Tübingen, Mohor, 1930, RM. 3,40. Il Saitzew
è professore
dell'Università di Zurigo. Secondo il Saitzew l'area
d'azione delle
imprese pubbliche, specialmente in certi rami, è molto
maggiore di ciò
che si crede; in Germania il capitale delle imprese
pubbliche sarebbe
un quinto dell'intera ricchezza nazionale (durante la
guerra e
l'immediato dopoguerra l'impresa pubblica si è
dilatata). Il Saitzew
non crede che le imprese pubbliche siano una forma di
socialismo, ma
crede siano parte integrante del capitalismo. Le
obbiezioni contro
l'impresa pubblica potrebbero farsi anche per le
società anonime; si
ripetono argomenti che erano buoni quando le imprese
private erano
individuali, eppure le anonime sono oggi prevalenti
ecc.
Sarà
utile il volumetto per vedere l'estensione che ha
avuto l'impresa
pubblica in alcuni paesi: il carattere dell'impresa
pubblica non
sarebbe, secondo il Saitzew, quello di avere come
scopo principale il
reddito fiscale, ma quello di impedire che in certi
rami, in cui la
concorrenza è tecnicamente impossibile, si stabilisca
un monopolio
privato pericoloso per la collettività.
*
La
battaglia dello Jütland. È da rivedere la descrizione
della battaglia
dello Jütland fatta da Winston Churchill nelle sue
memorie di guerra.
Appare da essa come il piano e la direzione strategica
della battaglia
da parte del comando inglese e di quello tedesco siano
in contrasto con
la raffigurazione tradizionale del carattere dei due
popoli. Il comando
inglese aveva centralizzato «organicamente»
l'esecuzione del piano
nella nave ammiraglia: le unità della flotta dovevano
«attendere
ordini» volta per volta. Il comando tedesco invece
aveva spiegato a
tutti i comandi subalterni il piano strategico
generale e aveva
lasciato alle singole unità quella certa libertà di
manovra che le
circostanze potevano richiedere. La flotta tedesca si
comportò molto
bene. La flotta inglese invece fu impacciata, corse
molti rischi, ebbe
gravi perdite, e nonostante la sua superiorità, non
poté conseguire
fini strategici positivi: a un certo punto
l'ammiraglio perdette le
comunicazioni con le unità combattenti e queste
commisero errori su
errori. (Sulla battaglia dello Jütland ha scritto un
libro Epicarmo
Corbino).
*
Argus, Il
disarmo navale, i sottomarini e gli aeroplani, «Nuova
Antologia», 16
novembre 1929. Brevi cenni alle prime trattative tra
Stati Uniti e
Inghilterra per il disarmo e la parità navale. Accenna
anche
rapidamente all'innovazione che nell'armamento navale
è portata dal
sottomarino e dall'aeroplano, che, con costi
relativamente bassi,
possono dare risultati molto rilevanti, e alla sempre
maggiore
inutilità delle grandi corazzate.
*
Oscar
di Giamberardino, Linee generali della politica
marittima
dell'Impero britannico, «Nuova Antologia», 16
settembre 1928. Utile.
*
Istituzioni
internazionali. La Camera di Commercio
Internazionale. (Un
articolo sul IV Congresso della Camera di Commercio
Internazionale
tenuto a Stoccolma nel giugno-luglio 1927 è nella
«Nuova Antologia» del
16 settembre 1927).
*
G. B., La Banca dei regolamenti internazionali,
«Nuova Antologia», 16 novembre 1929.
*
Luigi Villari, L'agricoltura in Inghilterra,
«Nuova Antologia», 1° settembre 1930. Interessante.
*
Alfonso
de Pietri-Tonelli, Wall Street, «Nuova Antologia»
del 1° dicembre
1929 (commenta in termini molto generali la crisi di
borsa americana
della fine del '29: bisognerà rivederlo per studiare
l'organizzazione
finanziaria americana).
*
La
Geopolitica. Già prima della guerra Rodolfo
Kjellén, sociologo
svedese, cercò di costruire su nuove basi una scienza
dello Stato o
Politica, partendo dallo studio del territorio
organizzato
politicamente (sviluppo delle scienze geografiche:
geografia fisica,
geografia antropica, geopolitica) e della massa di
uomini viventi in
società in quel territorio (geopolitica e
demopolitica). I suoi libri,
specialmente i due: Lo Stato come forma di
vita e Le
grandi potenze attuali (Die Grossmächte der
Gegenwart, del 1912,
rielaborato dall'autore, divenne Die Grossmächte
und die
Weltkrise, pubblicato nel 1921; il Kjellén [è] morto
nel 1922) ebbero
grande diffusione in Germania dando luogo a una
corrente di studi.
Esiste una «Zeitschrift für Geopolitik»; e appaiono
opere voluminose di
geografia politica (una di esse, Weltpolitisches,
Handbuch, vuol
essere un manuale per gli uomini di Stato) e di
geografia economica. In
Inghilterra e in America e in Francia.
*
Olii,
petrolii e benzine, di Manfredi Gravina nella «Nuova
Antologia» del 16
dicembre 1927 (l'articolo continua nella «Nuova
Antologia» del 1°
gennaio 1928 ed è interessante per avere un accenno
generale al
problema del petrolio). L'articolo è un riassunto
delle recenti
pubblicazioni sul problema del petrolio. Estraggo
qualche notizia
bibliografica e qualche osservazione: Karl
Hoffmann, Oelpolitik
und angelsächsischer Imperialismus (Ring-Verlag,
Berlino, 1927)
che il Gravina dice lavoro magistrale, un compendio
eccellente dei
grandi problemi petrolieri del mondo ed indispensabile
per chi voglia,
sulla scorta di dati precisi, approfondirne lo studio
(con la riserva
che vede troppo «petrolio» in ogni atto
internazionale). Il «Federal
Oil Conservation Board» formato in America nel 1924
con la missione di
studiare ogni mezzo atto a razionalizzare l'eccessivo
sfruttamento del
patrimonio petrolifero americano ed assicurargli il
massimo e il
migliore rendimento (lo Hoffmann definisce questo
Ufficio «grandioso
ente di preparazione industriale alla eventuale guerra
del Pacifico»).
In questo Board il senatore Hughes, già ministro degli
affari Esteri,
rappresenta gli interessi diretti di due Società del
gruppo Standard
(la «Standard» di New York e la «Vacuum Oil»). Lo
«Standard Oil Trust»
costituito nel 1882 da John D. Rockefeller dovette
adattarsi alle leggi
contro i trusts. La «Standard» di New Jersey è
considerata tuttora come
una vera e propria centrale della attività petrolifera
della Casa
Rockefeller: essa controlla il 20-25% della produzione
mondiale, il
40-45% delle raffinerie, il 50-60% delle condutture
dai pozzi alle
stazioni di avviamento. Accanto alla Standard e
società affiliate sono
sorte altre imprese, fra cui da ricordare i cosí detti
Big Independents.
La
«Standard» è collegata con il Consorzio Harriman
(trasporti ferroviari
e marittimi, 8 società di navigazione) e col gruppo
bancario Kuhn Loeb
& Co. di New York, del quale è a capo Otto Kahn.
Nel campo inglese
i due gruppi piú importanti sono la «Shell
Royal-Dutch» e
l'«Anglo-Persian Burmah». Direttore generale della
«Shell» è l'olandese
sir Henry Deterding. La Shell è asservita all'Impero
Inglese nonostante
i grandi interessi finanziari e politici dell'Olanda.
L'«Anglo-Persian
Burmah» può considerarsi governativa britannica e piú
specialmente
dell'Ammiragliato che vi è rappresentato da tre
fiduciari. Presidente
dell'«Anglo-Persian» è sir Charles Greenway,
coadiuvato da un
consulente tecnico, sir John Cadman, che durante la
guerra fu a capo
del servizio governativo dei petroli. Greenway,
Cadman, Deterding e i
fratelli Samuel (fondatori della «Shell» inglese poi
fusasi colla
«Royal-Dutch») sono considerati di fatto i dirigenti
della politica
petroliera inglese.
*
Domenico Meneghini, Industrie chimiche italiane,
«Nuova Antologia», 16 giugno 1929.
*
Claudio
Faina, Foreste, combustibili e carburante
nazionale, «Nuova
Antologia» del 1° maggio 1928. Interessante. Dimostra
che la
selvicultura italiana, se coltivata e sfruttata
industrialmente, può
aumentare di molto il suo rendimento e dare
sottoprodotti numerosi. (In
questo articolo del Faina, che è il figlio del
senatore Eugenio Faina,
relatore dell'inchiesta parlamentare sul Mezzogiorno e
che si occupa
assiduamente di attività organizzative e
propagandistiche di carattere
agrario – scuole rurali istituite dal padre
nell'Umbria, ecc. – si
accenna a un disboscamento intensivo e irrazionale
nella montagna della
Sardegna meridionale per vendere carbone alla Spagna.
Ricordare questo
accenno alla Sardegna).
*
Claudio
Faina, Il carburante nazionale, «Nuova
Antologia» del 16
aprile 1929 (continua l'articolo dello stesso Faina
pubblicato
precedentemente dalla «Nuova Antologia»e rubricato
altrove).
*
Carlo
Schanzer, Sovranità e giustizia nei rapporti fra
gli Stati, «Nuova
Antologia», 1° novembre 1929. Moderato nella forma e
nella sostanza.
Può essere preso come documento dell'atteggiamento
ufficioso del
Governo verso la Società delle Nazioni e i problemi di
politica
internazionale che le sono connessi.
*
Giorgio Mortara, Natalità e urbanesimo in
Italia, «Nuova Antologia», 16 giugno - 1° luglio 1929.
Tratta
le quistioni piú strettamente statistiche, osservando
una grande
cautela nel dare giudizi, specialmente di portata piú
immediata. Il
numero annuo dei nati vivi in Italia è andato
aumentando, attraverso
oscillazioni, nel primo quarto di secolo successivo
all'unità nazionale
(massimo di 1.152.906 nel 1887), ha declinato
gradualmente fino a un
minimo di 1.042.090 nel 1903, è risalito ad un massimo
secondario di
1.144.410 nel 1910 e si è mantenuto negli anni prima
della guerra a
1.100.000. Nel 1920 (molte nozze dopo l'armistizio) si
ha il massimo
assoluto di 1.158.041, che scende rapidamente a
1.054.082 nel 1927, e
circa 1.040.000 nel 1928 (territorio antebellico; nei
nuovi confini
1.093.054 nel '27, e 1.077.000 nel '28), cifra la piú
bassa negli
ultimi 48 anni. In altri paesi la diminuzione assai
maggiore.
Diminuzione correlativa nelle morti: da un massimo di
869.992 nel 1880
ad un minimo di 635.788 nel 1912, diminuzione che,
dopo il periodo
bellico, con 1.240.425 morti nel '18, è ricominciata:
nel 1927 solo
611.362 morti, nel 1928 614 mila (vecchi confini; nei
nuovi confini,
635.996 morti nel '27 e 639.000 nel '28). Cosí
l'eccedenza dei nati sui
morti nel 1928 è stata di 426.000 circa (nuovi confini
438.000) cioè
piú favorevole che nel 1887, in cui solo 323.914, per
l'alta
percentuale di morti. Il massimo di eccedenza, 448
mila circa, si è
avuto nel quinquennio 1910-14. (Si può dire,
approssimativamente, che
in un certo periodo storico, il grado di benessere di
un popolo non può
desumersi dal numero alto delle nascite, ma piuttosto
dalla percentuale
dei morti e dall'eccedenza dei nati sui morti: ma
anche in questa fase
storica incidono delle variabili che devono essere
analizzate, infatti,
piú che di benessere popolare assoluto può parlarsi di
migliore
organizzazione statale e sociale per l'igiene, ciò che
impedisce a una
epidemia, per esempio, di diffondersi tra una
popolazione a basso
livello, decimandola, ma non eleva per nulla questo
livello stesso, se
non si può dire che lo mantenga addirittura, evitando
la sparizione dei
piú deboli e improduttivi che vivono sul sacrificio
degli altri).
Le
cifre assolute delle nascite e delle morti danno solo
l'incremento
assoluto della popolazione. L'intensità
dell'incremento è data dal
rapporto di questo incremento col numero degli
abitanti. Da 39,3 per
1.000 abitanti del 1876 la frequenza delle nascite
scende a 26 nel
1928, con una diminuzione del 33%; la frequenza delle
morti da 34,2%
nel 1867 scende a 15,6 nel '28, con una diminuzione
del 54%. La
mortalità comincia a discendere nettamente col
quinquennio 1876-80; la
natalità inizia la discesa nel quinquennio '91-95.
Per
gli altri paesi d'Europa, su 1.000 abitanti: Gran
Bretagna 17 nati -
12,5 morti, Francia 18,2 - 16,6, Germania 18,4 - 12,
Italia 26,9 -
15,7, Spagna 28,6 - 18,9, Polonia 31,6 - 17,4, Urss
(europea) 44,9 -
24,4, Giappone 36,2 - 19,2. (I dati si riferiscono,
per l'Urss, al
1925, per il Giappone al 1926, per gli altri paesi al
1927).
Per
la diminuzione della mortalità il Mortara fissa tre
cause principali:
progresso dell'igiene, progresso della medicina,
progresso del
benessere, che riassumono in forma schematica un gran
numero di fattori
di minore mortalità (un fattore è anche la minore
natalità, in quanto
le età infantili sono soggette ad alta mortalità). Il
fattore
preponderante della bassa natalità è la decrescente
fecondità di
matrimoni, dovuta a volontaria limitazione,
inizialmente per
previdenza, poi per egoismo. Se il movimento si
svolgesse uniformemente
in tutto il mondo, non altererebbe le condizioni
relative delle varie
nazioni, pur avendo effetti gravi per lo spirito
d'iniziativa, e
potendo essere causa d'inerzia e di regresso morale ed
economico. Ma il
movimento non è uniforme: vi sono oggi popoli che si
accrescono
rapidamente mentre altri lentamente, vi saranno domani
popoli che
cresceranno celermente mentre altri diminuiranno.
Già
oggi in Francia l'equilibrio tra nascite e morti è
faticosamente
mantenuto coll'immigrazione, che determina altri gravi
problemi morali
e politici: in Francia la situazione è aggravata dalla
relativamente
alta percentuale di mortalità in confronto
dell'Inghilterra e della
Germania.
Calcolo regionale per il 1926:
Piemonte (proporzione per 1.000 abitanti, nati e
morti) 17,7-15,4,
Liguria 17,1-13,8, Lombardia 25,1-17,9, Venezia
Tridentina 25,0-17,5,
Venezia Euganea 29,3-15,3, Venezia Giulia 22,8-16,1,
Emilia 25,0-15,3,
Toscana 22,2-14,3, Marche 28,0-15,7, Umbria 28,4-16,5,
Lazio 28,1-16,3,
Abruzzi 32,1-18,9, Campania 32,0-18,3, Puglie
34,0-20,8, Basilicata
36,6-23,1, Calabria 32,5-17,3, Sicilia 26,7-15,7,
Sardegna 31,7-18,9.
Prevalgono i livelli medi, ma con tendenza piuttosto
verso il basso che
verso l'alto.
Per il Mortara la causa
della denatalità è da ricercarsi nella limitazione
volontaria. Altri
elementi possono contribuirvi saltuariamente, ma sono
trascurabili
(emigrazione degli uomini). C'è stato un «contagio»
della Francia nel
Piemonte e in Liguria, dove il fenomeno è piú grave
(emigrazione
temporanea ha servito di veicolo) e di piú lontana
origine, ma non si
può parlare di contagio «francese» per la Sicilia, che
nel Mezzogiorno
è un focolaio di denatalità. Non mancano indizi di
limitazione
volontaria in tutto il Mezzogiorno. Campagna e città:
la città [ha]
meno nascite che la campagna. Torino, Genova, Milano,
Bologna, Firenze
hanno (nel 1926) una media di natalità inferiore a
Parigi.
*
Sull'emigrazione
italiana. Articolo di Luigi Villari nella «Nuova
Antologia» del 16
febbraio 1928: L'emigrazione italiana vista dagli
stranieri.
Sull'emigrazione il Villari ha scritto parecchio:
vedere.. (In questo
articolo recensisce alcuni libri americani, inglesi e
francesi che
parlano dell'emigrazione italiana).
*
Italia
e Palestina. Confrontare nella «Nuova
Antologia» del 16 ottobre
1929 l'articolo La riforma del mandato sulla
Palestina, di Romolo
Tritonj. Vi si espone il programma minimo italiano,
cioè l'internazionalizzazione della
Palestina, secondo il
progetto concordato durante la guerra fra le potenze
dell'Intesa e
abbandonato da Francia e Inghilterra dopo la caduta
dello zarismo in
Russia, lasciando l'Italia in asso, poiché la Francia
ebbe la Siria e
l'Inghilterra la Palestina stessa. L'articolo è
moderato in generale,
ma accanito contro il sionismo. Si dovrà rivedere per
ricostruire la
politica italiana in Oriente (nel prossimo Oriente).
*
Sulla
finanza dello Stato. Le riforme del Tesoro, di
«Alacer», nella
«Nuova Antologia» del 16 novembre 1928. Integra
l'articolo di Tittoni
del giugno '27: da tener presente per seguire tutte le
varie fasi della
lotta sorda che gli elementi conservatori conducono
intorno alla
politica finanziaria.
*
Articolo «Problemi
finanziari» firmato
Verax (Tittoni) nella «Nuova
Antologia» del 1° giugno
1927. Nella «Nuova
Antologia» del 1925 (16 maggio), Tittoni aveva
pubblicato un
articolo, I problemi finanziari dell'ora, nel
quale trattava
questi punti: equilibrio del bilancio; economie;
perequazione del
sistema tributario; mania spendereccia e tassatrice
degli enti locali;
circolazione monetaria e suoi problemi: deflazione;
stabilizzazione;
debiti interalleati; regime bancario; ordinamento
delle società
anonime; difesa del risparmio nazionale.
Equilibrio
del bilancio raggiunto; le confusioni, sperequazioni e
duplicazioni del
sistema tributario eliminate con la riforma De
Stefani; i debiti
interalleati regolati dal Volpi, il quale ha preso
provvedimento per la
rapida liquidazione della sezione autonoma del
Consorzio valori,
per l'unificazione dell'emissione, per il
trasferimento delle
operazioni di cambio all'Istituto dei cambi sotto il
patronato della
Banca d'Italia, per la vigilanza in difesa del
risparmio
nazionale: discorso di Pesaro per la politica
monetaria.
Nuovi
problemi, attuali: consolidamento del pareggio
del bilancio; freno
alle crescenti spese; sano impiego delle eccedenze di
bilancio;
condizioni della tesoreria; necessità di un
ammortamento graduale e
continuativo del debito pubblico; i prestiti esteri e
il miglioramento
dei cambi; la difesa della riforma tributaria da
iniziate deviazioni;
eliminazione di ogni inutile fiscalismo.
L'esercizio
'25-26 chiuso con un avanzo di competenza di
2.268 milioni
ridotto con due regi decreti a 468 milioni. Ma occorre
esaminare
l'esercizio '25-26 considerando 1) le maggiori spese
sopravvenute
durante l'esercizio; 2) quelle deliberate dopo chiuso
l'esercizio, ma
attribuite a questo; 3) rapporti tra le risultanze del
bilancio di
competenza ed il conto di cassa; 4) i conti fuori
bilancio. Durante
l'esercizio '25-26 furono deliberate maggiori spese,
oltre quelle
preventivate in bilancio, per 3.605 milioni e, chiuso
l'esercizio, con
due regi decreti (ricordati) furono deliberate 1.800
milioni di nuove
spese, addebitate all'esercizio stesso mediante
iscrizione nel bilancio
delle finanze di un capitolo aggiunto. Senza tener
conto del movimento
dei capitali e delle spese per le PP. e TT. che dal
bilancio generale
sono state trasferite in quello speciale dell'azienda
autonoma, e
detratti 247 milioni di economie realizzate durante
l'esercizio, si ha,
malgrado la diminuzione delle spese residuali della
guerra, un aumento
di 4.158 milioni di spesa sui 17.217 preventivati
(aumento del 24%). Ma
anche le entrate, preventivate in 17.394 milioni,
salirono a 21.043
milioni, e perciò avanzo di 468 milioni.
È
necessario un piú rigoroso e completo accertamento
delle spese, i
risultati dell'esercizio devono allontanarsi il meno
possibile dalle
previsioni, altrimenti il bilancio preventivo
diverrebbe inutile, e per
una ragione psicologica (!), perché
l'annunzio di grandi
avanzi incita alle spese. Un insigne economista,
R. C. Adams, è
giunto a dire che preferisce un bilancio presentato
con un lievissimo
disavanzo a quello presentato con un eccessivo avanzo
poiché il primo
incita alle economie, il secondo sospinge alle
prodigalità («e a
imporre nuove tasse se successivamente l'avanzo è in
pericolo sul nuovo
piano di spese»; A. G.). Questi avanzi sono fondati su
incrementi di
entrate che non sono necessariamente continuativi.
L'avanzo di un
bilancio di competenza può non coincidere con una
cassa egualmente
florida. «Perciò a situazioni di bilancio eccellenti
possono
corrispondere situazioni di cassa richiedenti
provvedimenti eccezionali
come quelli adottati dal Governo Nazionale nello
scorso autunno».
Politica di economie. Se non riduzione delle spese,
desiderabile almeno
freno alle nuove spese.
Bilancio italiano
non è un conto di fatto, di tipo inglese, che
registra incassi e
spese effettivamente avvenuti, ma un conto di
diritto, di tipo
francese, comprendente da una parte le entrate
accertate e scadute, da
un'altra parte le spese ordinate, liquidate ed
impegnate nei modi
prescritti dalla legge. Il bilancio di competenza, a
quelli che non
sanno leggerlo, non dà una chiara visione della
situazione finanziaria
del paese. L'inconveniente maggiore del bilancio di
competenza è nel
fatto che nessun esercizio si esaurisce in sé; esso
lascia sempre dei
residui attivi e passivi, in modo che alla gestione
del bilancio
proprio dell'esercizio si aggiunge quella dei residui
attivi e passivi
dei precedenti esercizi che la cassa va a sopportare.
Ne deriva
pertanto che aumentando le spese di competenza si è
normalmente avuto
un aumento di residui, specialmente di residui
passivi che
malamente si contrappongono agli attivi e la
maturazione dei quali può
depauperare la cassa al di là del prevedibile. I
residui passivi mal si
contrappongono agli attivi perché questi, dati i
nostri congegni di
esazione, non possono essere e non sono di un
ammontare ragguardevole
per la parte effettiva, la sola che costituisce una
vera entrata,
giacché i residui attivi per movimenti di capitale
rappresentano
prestiti da contrarsi o da collocarsi. Costituirebbe
quindi un grave
errore il valutare alla stessa stregua i residui
attivi e passivi circa
la possibilità di trasformarsi rispettivamente in
incassi e pagamenti.
A questo si aggiunge una consuetudine che ormai
comincia a trovare
larga applicazione: l'art. 154 del regolamento per
l'amministrazione
del patrimonio e per la contabilità di Stato
stabilisce che in nessun
caso si possa iscrivere fra i residui degli anni
decorsi alcuna somma
in entrata o in spesa che non sia stata compresa fra
la competenza
degli esercizi anteriori; ma purtroppo la parola
della
legge non vieta che per lo stesso esercizio si
cancelli la
iscrizione di un capitolo per aumentarne un altro:
cosí è, ad esempio,
quando tra i residui passivi si trova iscritta una
somma che
presumibilmente non sarà spesa e che non traducendosi
quindi in un
pagamento sarebbe passata in economia, e viceversa si
viene ad
aumentare un altro capitolo di spesa, sempre dei
residui, e, s'intende,
dello stesso esercizio, spesa che sarà realmente
effettuata e si
tradurrà in un pagamento. Cosí la contabilità è salva,
l'ammontare di
residui passivi non viene aumentato, ma le condizioni
della cassa
vengono peggiorate. La gestione dei residui, e in
special modo il saldo
dei residui, va tenuto in seria considerazione, tanto
piú che esso è in
continuo aumento, ed infatti la differenza
passiva dei
residui era al 30 giugno 1926 di 10.513 milioni contro
9.442 milioni al
30 giugno 1925.
Francia, Belgio, Italia. I
tre paesi, dopo aver assicurato l'equilibrio del
bilancio, dovettero
fronteggiare una crisi di Tesoreria; il deficit,
cioè, non era
scomparso, ma passando dal bilancio alla tesoreria si
era semplicemente
spostato. Si è dovuto correre ai ripari procurando di
eliminare
anzitutto il pericolo del debito fluttuante, divenuto
enorme dopo la
guerra, poiché le Tesorerie si trasformarono di fatto
in Banche di
deposito. («Questo è un paragone capzioso: non si
trasformarono per
nulla in Banche di deposito, ma commisero una truffa
in grande stile,
perché le somme incassate furono spese come entrate
ordinarie di
bilancio, senza che i futuri bilanci potessero
prevedersi talmente
incrementabili da assicurare la restituzione delle
somme alla data
fissata: si rastrellò il risparmio diffuso, sotto la
pressione del
pericolo nazionale, per esonerare da aggravi la
ricchezza imponibile;
fu una decimazione larvata del capitale, ma di quello
delle classi
medie, per non decimare apertamente e realmente il
capitale delle
classi alte dei maggiori detentori di ricchezza: il
confronto tra paesi
latini e paesi anglosassoni mette piú in rilievo
questa truffa
colossale, che si è risolta in parte con l'inflazione
e in parte con
colpi di Stato»). Il primo progetto di stabilizzazione
del franco belga
del ministro Jansens fallí in gran parte per aver
omesso la
sistemazione preventiva del debito fluttuante.
La Francia provvide al debito fluttuante con
la creazione di
una cassa autonoma di consolidamento ed ammortamento.
A questa cassa
furono destinati i proventi di alcune tasse e quelli
della gestione dei
tabacchi, in tutto 3.700 milioni di franchi all'anno.
Il pagamento di
queste tasse può farsi con titoli di Stato, che
vengono annullati:
colla diminuzione dei titoli diminuisce l'interesse e
la differenza
disponibile va ad aumentare il fondo di ammortamento.
Per un
emendamento al progetto primitivo del governo
l'ammortamento fu esteso
a tutto il debito pubblico («cioè fu prolungata
l'esistenza presumibile
della Cassa»). Cosí in Francia si ottenne non solo di
arrestare la
ressa dei rimborsi, ma si ottennero nuove
sottoscrizioni: il Tesoro fu
rinsanguato; coi mezzi ordinari di Tesoreria poté
procurarsi 14
miliardi, di cui 9 furono rimborsati alla Banca di
Francia e 5 per
acquisto di divise estere. Belgio: si procedette
ad una
conversione semicoattiva. Ai portatori dei buoni fu
posta
l'alternativa: o consentire il cambio dei buoni con
azioni della
società nazionale delle ferrovie belghe costituite
dallo Stato, o farli
stampigliare. I buoni dati in cambio delle azioni
ferroviarie, i 3/4,
furono distrutti; gli altri furono convertiti in nuovi
buoni
coll'interesse ridotto dal 7 al 5% e col rimborso
subordinato non a
scadenza fissa ma alle disponibilità avvenire del
bilancio. Italia: conversione obbligatoria dei
buoni del Tesoro in
titoli del debito consolidato, con un premio ai
portatori che ha
aumentato il debito pubblico di circa 3 miliardi. «Non
è il caso di
discutere teoricamente quest'operazione che in fatto
era inevitabile».
Un recentissimo comunicato ai giornali, illustrando il
conto del Tesoro
a fine marzo, segnala l'esistenza di un fondo di
cassa, al 31 marzo
(1927) di 2.311 milioni. La cifra «lascia fredda una
parte
dell'opinione pubblica, la quale non riesce a vedere
come sí floride
condizioni di cassa e di bilancio si concilino con la
recente necessità
di assai drastici provvedimenti, che investirono una
parte cospicua
della popolazione e toccarono a fondo molte private
economie». La cassa
del Tesoro può presentare un'apparente floridezza ed
una reale penuria.
Ciò rilevò già la Commissione di finanza del Senato,
il cui relatore,
on. Mayer, nella sua relazione sugli stati di
previsione del Ministero
delle Finanze e del Bilancio dell'entrata pel 1926-27,
constatava che,
mentre dai conti mensili del Tesoro risultavano
disponibilità cospicue
di cassa (al 31 marzo 1926 quasi 4 miliardi) risultava
anche l'aumento
dei debiti pubblici per oltre 1.800 milioni. Ciò
avviene perché il
fondo di cassa esposto nella accennata cifra di 2.311
milioni non
rappresenta tutto danaro di cui il Tesoro possa
effettivamente disporre
come contante. Cosí nei 2.311 milioni è inclusa la
somma di 1.554
milioni attribuita alle «contabilità speciali» le
quali comprendono
numerose assegnazioni fatte ad enti come: fondo per il
culto, monte
pensioni insegnanti elementari, cassa di previdenza
degli enti locali,
ospedali riuniti di Roma ecc., epperò rappresentano
somme erogate
dall'Erario o destinate a pagamenti preveduti
dall'amministrazione, e
quindi vincolate. Piú significativa è la cifra
denotante l'ammontare
del fondo di cassa presso la Tesoreria
provinciale, vale a dire
del fondo cui attingonsi i mezzi per la massima parte
dei pagamenti nel
Regno; certamente sarebbe un errore considerare questo
soltanto, perché
il Tesoro ha altre disponibilità liquide, presso la
Tesoreria centrale,
e fra esse dovrebbero avere una certa importanza
quelle in divisa
presso i suoi corrispondenti esteri, ma il fondo di
dotazione
rappresenta sempre la condizione fondamentale delle
disponibilità di
cassa del Tesoro per fronteggiare i suoi bisogni
correnti. Nulla può
essere piú eloquente della differenza fra il cosí
detto «fondo generale
di cassa» del Tesoro e la situazione del «fondo di
dotazione» dello
Stato per l'esercizio della Tesoreria provinciale
presso la Banca
d'Italia, cioè del vero e proprio conto corrente del
Tesoro presso
l'Istituto di Emissione [vedi tabella].
Fondo generale di cassa
|
30 Settembre
|
1926
|
421.860.578
|
Senza le contabilità speciali
|
1.816.505.000
|
Comprese le contabilità speciali
|
+ 632.100.000
|
Conto corrente presso la Banca d'Italia
|
31 Ottobre
|
»
|
61.850.763
|
1.534.561.000
|
– 129.700.000
|
30 Novembre
|
»
|
109.814.566
|
875.004.000
|
– 687.700.000
|
31 Dicembre
|
»
|
768.467.255
|
1.974.689.000
|
+ 95.800.000
|
31 Gennaio
|
1927
|
804.426.967
|
2.225.661.000
|
+ 51.000.000
|
28 Febbraio
|
»
|
990.835.383
|
2.407.212.000
|
+ 248.100.000
|
31 Marzo
|
»
|
777.283.292
|
2.311.802.000
|
+ 31.400.000
|
Come
si vede, al 31 ottobre e al 30 novembre, cioè prima
degli incassi
ottenuti con l'emissione del Prestito del Littorio, il
detto conto
corrente si presentava indeficit, per cui la Banca
dovette provvedere a
pagamenti del Tesoro con propri biglietti. Nel conto
dei debiti della
Tesoreria richiama l'attenzione l'ammontare di vaglia
del Tesoro nel
1925-1926 in 71.349 milioni per rimborsi e 70.498
milioni per incassi.
Queste enormi cifre richiederebbero qualche
chiarimento affinché il
pubblico potesse rendersi ragione delle operazioni che
rappresentavano.
Ad esso intanto una cosa appare evidente e cioè che la
politica di
Tesoreria ha preso il sopravvento su quella di
bilancio i cui risultati
sono subordinati a quelli della prima.
Bisogna
dunque provvedere a rinforzare la cassa del Tesoro (la
Francia e il
Belgio l'hanno già fatto). Come? Non ricorrendo ad
antecipazioni da
parte della Banca d'Italia che non potrebbe fornirle
che mediante
restrizioni del credito al commercio o mediante
l'inflazione. Non
mediante emissioni di Buoni del Tesoro, perché sarebbe
impossibile dopo
il recente consolidamento. Non mediante nuovo prestito
consolidato. Il
debito pubblico va diminuito, non aumentato, è poi
recente il
consolidamento e prestito del Littorio. Bisogna invece
rifornire la
cassa mediante le eccedenze di bilancio, nelle quali,
se non ci saranno
gravi perturbazioni dei cambi e se faremo una politica
di economie,
potremo continuare a contare. («Ma in realtà avanzi
reali di bilancio
non ce ne sono mai stati, come risulta
dall'esposizione precedente, ma
solo spostamenti contabili e mascherature di deficit
attraverso i
residui passivi, il debito pubblico aumentato
surrettiziamente e il
ricorso a partite incontrollabili, senza contare
l'assorbimento dei
bilanci locali, tutti deficitari in misura
spaventevole. Bisognerebbe
fissare con esattezza cos'è l'avanzo di bilancio
effettivo, anche dopo
aver fissato una quota ragionevole per rafforzare il
tesoro e per
ammortare il debito pubblico: è quello che, oltre a
tutto ciò, permette
di diminuire le imposte effettivamente, e di
migliorare le condizioni
del personale; diminuire specialmente le imposte
indirette che pesano
di piú sulla parte piú povera della popolazione, cioè
che permettono un
piú elevato tenore di vita»). Con decreto regio 3
dicembre 1926 fu
elevata a 4/5 la quota dell'avanzo di bilancio da
destinare ad opere
inerenti alla ricostruzione economica e alla difesa
militare della
nazione già fissato in 3/4 dal R. D. del 5 giugno.
Nessuno ha
contestato le ragioni impellenti (!) che indussero il
governo a
prendere questo provvedimento eccezionalissimo, che è
contrario alla
dottrina finanziaria di tutti gli economisti senza
distinzioni di
scuole e che non trova riscontro nella pratica
finanziaria di nessun
altro paese. Non dovrebbe diventare una consuetudine:
il Direttore
Generale della Banca d'Italia nella relazione
all'assemblea degli
azionisti del '27 l'ha «denunziata cautamente
come una tendenza
nuova di far pesare sugli avanzi passati spese
riguardanti l'avvenire».
Il relatore della Giunta del Bilancio della Camera dei
Deputati,
Olivetti, parlando sul disegno di legge per la
conversione in legge del
R. D. 3 dicembre 1926 fece l'obbiezione che, come ai
disavanzi
registrati dall'esercizio 1911-12 a quello '23-24 si
era fatto fronte
con mezzi di tesoreria e accensioni di debito, cosí
bisognerebbe
devolvere integralmente alla riduzione dei debiti
prebellici gli avanzi
registrati dal '24-25 in poi; inoltre l'avanzo
potrebbe essere
assegnato a dare maggiore elasticità alla Tesoreria.
Però date le gravi
ragioni contingenti, la Giunta concludeva per
l'approvazione,
augurandosi un futuro graduale ammortamento del debito
pubblico. (A
parole tutti sostengono questa necessità ma non se ne
fa niente lo
stesso). (Il senato fin dal 1920 domandò sempre:
prudente riduzione
della circolazione, rigorose economie, sosta
nell'indebitamento ed
inizio del pagamento dei debiti, vigile attenzione
alla cassa del
Tesoro, alleviamento delle imposte).
Necessità
di chiarezza nei conti finanziari. Il denaro deve
trovarsi non solo sui
conti, ma nelle casse dello Stato. «Occorre studiare a
fondo la
quistione delle operazioni fuori bilancio le quali
costituiscono una
minaccia permanente a danno dei risultati attivi del
bilancio. Ed
invero piú che una minaccia noi avemmo il danno
effettivo nel periodo
dall'agosto al novembre 1926 come lo dimostra il
progressivo
impoverimento, durante quei mesi, della cassa».
Le
operazioni finanziarie sono quelle che si fondano sul
credito pubblico
ed hanno effetto sul patrimonio dello Stato:
l'emissione di un
prestito, il rimborso di obbligazioni rientrano
propriamente fra
queste. Esse dovrebbero far parte delle operazioni di
bilancio e
direttamente essere contabilizzate fra le spese e le
entrate, fra gli
incassi e i pagamenti in conto bilancio. Le operazioni
di Tesoreria
propriamente dette riguardano invece i provvedimenti
che servono ai
bisogni immediati della cassa e perciò
comprenderebbero l'emissione di
buoni del Tesoro ordinari. Tra queste operazioni sono
anche operazioni
fuori bilancio, almeno temporaneamente, mentre non
dovrebbero essere
tali in una situazione normale. Ora le operazioni
fuori bilancio
tendono ad eliminare gli effetti della gestione di
bilancio
assorbendone le eccedenze attive. L'azienda del
Portafoglio ha un
significato cosí delicato che delle principali
operazioni si redige
processo verbale (art. 534 del regolamento di
contabilità). Il
Contabile del Portafoglio è tenuto a rendere ogni anno
il conto
giudiziale. La gestione del Contabile del Portafoglio
dà luogo a
profitti e perdite. Dal 1° luglio 1917 al 30 giugno
1925 non fu
presentato conto giudiziale e con R. decreto-legge 7
maggio 1925 fu
concesso di potere eseguire un sol conto giudiziale
per gli otto
esercizi finanziari precedenti riguardanti la guerra.
Il Governo deve
attenersi alla pratica del conto giudiziale e
restringere l'azienda del
portafoglio alle sue proprie specifiche funzioni.
Ammortamento
del debito pubblico. L'Inghilterra, gli Stati Uniti,
l'Olanda da piú di
un secolo compiono ammortamenti. Hamilton pel primo
dimostrò nel 1814
che un vero ammortamento non può farsi che mediante
l'eccedenza delle
entrate sulle spese e pose il principio che la
creazione di un debito
deve essere accompagnata dal piano della sua graduale
estinzione. Dal
'19 al '24 l'Inghilterra diminuí il suo debito di 650
milioni di
sterline, cioè l'intiero debito prebellico. Il debito
può essere
ammortizzato: 1°, con una cassa speciale; 2°, con le
eccedenze di
bilancio; 3°, con lo stanziamento di una somma fissa.
Si danno le cifre
degli ammortamenti stanziati in bilancio e degli
avanzi di bilancio dal
'21 al '26-27. È notevole e significativo il fatto che
se è vero che
nel '26-27 c'è stato un deficit di
36.694.000 sterline, però
in quell'esercizio furono stanziate in bilancio per
ammortamento
60.000.000 di sterline, cifra superiore e di molto a
quelle degli anni
precedenti: 25.000.000 nel '21-22, 24.000.000 nel
'22-23, 40.000.000
nel '23-24, 45.000.000 nel '24-25, 50.000.000 nel
'25-26 (con deficit
di 14.000.000). C'è una flessione di bilancio che
comincia dal '24-25:
nel '26-27 il deficit di 36 milioni è ottenuto
aumentando lo
stanziamento fisso per propaganda contro i minatori,
cioè si aumenta la
quota di bilancio a favore dei capitalisti a danno
della classe operaia.
Per
la storia della finanza inglese ricordare che alla
fine del XVIII
secolo fu adottato da Pitt il meccanismo
del sinking fund –
fondo di ammortamento – di Price, che poi fu dovuto
abbandonare.
Hamilton. Fino al 1857 l'eccedenza del bilancio fu
destinata di
preferenza ad alleviare l'imposta. In seguito
l'ammortamento regolare
del debito fu ripreso e costituí la base fondamentale
delle finanze
britanniche. Sospeso durante la guerra fu ripreso dopo
l'armistizio.
Per andamento del bilancio ricordare le cifre dedicate
all'ammortamento
dal '21 in poi – prese dal Financial Statements.
Prima cifra =
ammortamenti stanziati in bilancio; seconda cifra =
l'avanzo ulteriore
impiegato pure all'ammortamento: '21-22: 25.010.000 e
45.693.000;
'22-23: 24.711.000 e 101.516.000; '23-24: 40.000.000 e
48.329.000;
'24-25: 45.000.000 e 3.659.000; '25-26: 50.000.000,
deficit 14 milioni
38.000; '26-27: 60.000.000, deficit 36.694.000. Il
calcolo dell'avanzo
reale dà queste cifre: 70.703.000; 126 milioni
227.000; 88.329.000;
48.659.000; 35.962.000; 23 milioni 306.000: c'è una
flessione di
bilancio, ma non un deficit reale.
La
Commissione d'inchiesta per lo studio dei debiti
pubblici, presieduta
da Lord Colwyn, in una sua recente relazione conchiude
raccomandando di
intensificare l'ammortamento portando il fondo da 75 a
100 milioni di
sterline l'anno. Si capisce benissimo il significato
politico di questa
proposta, data la crisi industriale inglese: si vuole
evitare ogni
intervento efficace dello Stato, ponendo tutte le
larghe possibilità di
bilancio nelle mani dei privati, i quali poi,
probabilmente, invece di
investire nell'industria nazionale in crisi questi
enormi capitali, li
investiranno all'estero, mentre lo Stato potrebbe
riorganizzare, con
questi fondi, le industrie fondamentali a favore degli
operai.
Negli
Stati Uniti il sistema di amministrazione è fondato
sulla conversione
dei debiti consolidati in debiti redimibili con
riduzione degli
interessi.
In Francia, la Cassa
costituzionalmente autonoma e indipendente dal Tesoro,
per diffidenza
verso il Tesoro, che potrebbe mettere le mani sui
fondi di ammortamento
se si trovasse all'asciutto.
Nel Belgio il ministro Francqui aumentò il fondo di
ammortamento.
Italia. Con
R. D. 3 marzo 1926 fu costituita una Cassa per
l'ammortamento del
debito inglese e americano. Ma non è stata fissata una
somma annua
fissa ed intangibile, secondo il sistema inglese
(senza pregiudizio
degli avanzi di bilancio, che dopo aver provveduto
alle esigenze della
cassa e a temperare certi fiscalismi esagerati,
dovrebbero essere
destinati all'amministrazione. 500 milioni annui sono
già stanziati per
la graduale riduzione del debito verso la Banca
d'Italia per i
biglietti anticipati allo Stato; i 90 milioni di
dollari del prestito
Morgan passati alla Banca d'Italia hanno diminuito di
2 miliardi e
mezzo il debito della circolazione per conto dello
Stato: coi 500
milioni stanziati l'intero debito sarà estinto in 8
anni (questo debito
fu estinto quando la riserva aurea della Banca
d'Italia fu valutata
secondo la stabilizzazione della lira col passaggio
allo Stato della
plusvalenza). Nell'ultimo conto del Tesoro il debito
consolidato
apparisce al 31 marzo 1927 in circa 44 miliardi e
mezzo, cui vanno
aggiunti circa 23 miliardi e mezzo provenienti
dall'operazione dei
Buoni del Tesoro e circa 3 miliardi e mezzo del
prestito del Littorio;
circa 71 miliardi e mezzo, nei quali la parte relativa
al periodo
prebellico concorre per circa 10 miliardi; e ciò senza
dire né dei
debiti redimibili inscritti nel gran Libro del Debito
Pubblico per
3.784 milioni, dei quali la metà relativi alla guerra,
né dei buoni
poliennali che formano una massa di 7 miliardi e 1/3;
né degli altri
debiti, quasi tutti redimibili, gestiti dal Debito
Pubblico; né del
debito per circolazione bancaria, che è ancora di
4.229 milioni
(estinto in seguito come detto sopra). Trascurando i
debiti redimibili,
pei quali è in regolare corso l'estinzione graduale
e lasciando da
parte i buoni (!), poliennali, rimane il debito
perpetuo.
Benefizi
dell'ammortamento del debito: 1°, allevia il bilancio,
se pure in
misura modesta; 2°, rialza il credito dello Stato; 3°,
rende possibile
ottenere un nuovo prestito in circostanze gravi e
imprevedute; 4°,
rende possibili future conversioni; 5°, mette a
disposizione della
produzione le somme ammortate, creando nuovi cespiti
di entrata; 6°,
tiene alta la quotazione dei titoli di Stato.
Sir
Felix Schuster sostenne innanzi alla Commissione
d'inchiesta dei debiti
pubblici che anche ed anzi specialmente nei momenti
piú difficili della
pubblica finanza l'ammortamento del debito deve essere
mantenuto perché
costituisce il miglior modo di salvare il credito
dello Stato ed
impedisce il crollo dei suoi titoli. Ridurre il debito
vuol dire
rivalutare il consolidato («perciò l'impostare una
volta tanto una
somma per ridurre il debito pubblico, cioè la mancanza
di stanziamenti
fissi e intangibili, si riduce ad essere un vero e
proprio agiotaggio:
lo Stato compra i suoi titoli non per estinguerli
gradatamente ma come
operazione di borsa che ne faccia elevare la
quotazione, magari per
emetterne subito degli altri», A. G.).
L'ammortamento deve essere necessariamente
lento e moderato
per non determinare bruschi spostamenti di capitale.
Prestiti
americani. Da prima tali prestiti non erano
assecondati. Sistemati i
debiti di guerra con l'America e l'Inghilterra, la
direttiva del Tesoro
è mutata, con questo nuovo elemento essenziale,
che il piú delle
volte l'alea dei cambi per i rimborsi anziché dagli
enti contrattanti
il debito viene assunto dallo Stato, il che imprime
agli occhi dei
prestatori uno speciale carattere a tutta
l'operazione.
Questa garanzia va giudicata in relazione
all'accentramento del
controllo dei cambi prima presso il Tesoro, ed ora,
molto
opportunamente, presso l'Istituto dei cambi. Debiti
per industria,
opportuni. Debiti ai Comuni pericolosi, perché si
spende e non si saprà
come restituire. La contrazione di debiti all'estero è
sottoposta al
consenso del governo.
Imposte. 12.577
milioni d'imposte nell'esercizio 1922-1923. 16.417
milioni
nell'esercizio '25-26 con un aumento in tre anni di
3.840 milioni.
Inoltre nel 1925 le imposte locali erano previste in
4.947 milioni,
sicché carico annuale di 22 miliardi, cioè un onere
superiore a quelli
di tutti gli Stati europei e americani. Stati Uniti,
diminuite le
imposte in quattro anni, di 2 milioni di dollari.
Inghilterra diminuite
le imposte. In Italia, almeno non aumento e cessazione
di terrore
fiscale. Cosí nei Comuni, che affetti da mania
spendereccia e
tassatrice. Mantenere le basi fondamentali della
riforma tributaria
unificatrice, semplificatrice e perequatrice De
Stefani. Già si sono
avute deviazioni da questa riforma. La nuova imposta
complementare sul
reddito aveva il pregio di aver ripudiato il sistema
di accertamento
indiziario. Ma la nuova imposta sul celibato, che
varia secondo il
reddito, dà luogo a un nuovo accertamento a base
indiziaria, invece di
essere basata sul reddito accertato agli effetti della
complementare.
Cosí si hanno due accertamenti del reddito che
conducono a risultati
diversi, e poiché il contrasto non è ammissibile,
finisce col prevalere
per ambedue la procedura indiziaria. Scopo della
imposta complementare
sul reddito con partecipazione degli enti locali al
provento era di
eliminare tutte le forme imperfette e sperequate di
tasse locali sul
reddito quali la tassa di famiglia e il valore
locativo. Un
tentativo per l'istituzione di una strana tassa sul
reddito consumato
fu sventato (sic) per l'opportuno intervento
del Senato.
Poiché l'imposta complementare sul reddito doveva
eliminare le tasse di
famiglia e sul valore locativo quando fossero pagate
insieme ad essa,
per evitare una doppia tassazione sullo stesso
reddito, era giusto che
continuassero a pagarle coloro che non erano stati
iscritti sui ruoli
della complementare perché in questo caso non esisteva
duplicato.
Invece si lasciò ai Comuni facoltà o di continuare ad
applicare la
tassa di famiglia a coloro che non erano inscritti ai
ruoli della
complementare, ovvero applicare la tassa sul valore
locativo anche a
quelli che pagavano la complementare. Quasi tutti i
Comuni hanno scelto
quest'ultima e cosí siamo tornati alla doppia
tassazione. Inoltre. Gli
agenti del fisco hanno sostenuto e la Commissione
centrale delle
imposte dirette ha sanzionato che i vecchi
accertamenti della tassa di
famiglia, di cui tutti avevano riconosciuto le
sperequazioni, possono
essere presi a base dell'accertamento per l'imposta
della complementare
sul reddito. Invece di essere soppressa, cioè, ha
preso il sopravvento.
Certo la complementare ha dato un gettito inferiore
allo sperato, ma
perché il gettito delle imposte nuove è sempre nel
primo anno inferiore
a quello che dovrebbe essere, e perché per tre anni la
complementare
risente delle notevolissime riduzioni che sono state
accordate a chi ha
riscattato la tassa sul patrimonio. Contro il
fiscalismo. Nella seduta
del Senato del 14 giugno