Antonio Piromalli, Storia della letteratura italiana, Cap. 8

 

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Capitolo 8: Niccolò Machiavelli

Paragrafo 1: La vita e i tempi di Machiavelli

La personalità di Niccolò Machiavelli1 (1469-1527) è quella del politico impegnato, espressione del carattere concreto per cui il Rinascimento è detto naturalismo. L'aspetto estetico, formalistico del Rinascimento è del tutto estraneo a Machiavelli il quale incarna il suo pensiero nella realtà e nella natura per conoscerne le leggi oggettive, materiali e per studiare, di conseguenza, l'agire umano.
Egli vive in un periodo di crisi politica non solamente fiorentina ma italiana e durante la quale le vicende italiane sono legate alla storia delle grandi monarchie europee, soprattutto Francia e Spagna. Dopo oltre mezzo secolo di predominio, nel 1494 i Medici sono cacciati in seguito alla calata di Carlo VIII; succede la repubblica la cui costituzione democratica è di spirito savonaroliano.
Dopo la morte di Savonarola (1498) Pier Soderini è eletto gonfaloniere a vita e in quello stesso anno Machiavelli diventa segretario della seconda cancelleria (interni e guerra) di una repubblica in cui le vecchie forze economiche di origine comunale-municipale rappresentavano la dirigenza politica dello Stato che nelle cancellerie aveva gli organismi tecnici le cui relazioni erano con l'interno, con i principati assoluti e le repubbliche italiane, con le monarchie assolute straniere.
Nella fase di lotta di Francia e Spagna per l'egemonia in Europa, di lotta per l'equilibrio degli Stati italiani minacciati dal papato, Machiavelli compie la sua carriera e la sua esperienza fino al ritorno dei Medici (1512) in seguito alla soccombenza dei francesi in Italia e alla caduta della Repubblica fiorentina.
In quegli anni il segretario fiorentino fece parte come osservatore di legazioni a Pisa che si era ribellata a Firenze, di legazioni a Urbino e Senigallia (1502) presso Cesare Borgia, figlio di Alessandro VI che allargava i suoi domini intorno a Firenze, a Roma (1503) per l'elezione di Giulio II, tre volte in Francia presso la corte di Luigi XII, in Tirolo (1507) presso l'imperatore Massimiliano d'Asburgo. Da queste esperienze derivano le relazioni Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati (1502), Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nell'ammazzare Vitellozzo Vitelli etc. (1503), Rapporto delle cose della Magna (1508), Ritratti delle cose di Francia (1510) etc.
Lo sguardo di Machiavelli è rivolto alle monarchie europee in cui si sviluppano le forze progressive borghesi e al Valentino che elimina i signorotti feudali per avere il consenso di gruppi produttivi più moderni (contadini e mercanti) ma nello stesso tempo studia il modo di creare ordinamenti militari in funzione di stabilità politica. In tutte le sue missioni Machiavelli studia l'organizzazione di uno Stato forte che vinca l'anarchia feudale (signorotti assoluti instabili, operanti su base personale e familiare, politicamente incapaci per eccesso di avidità o di immotivata violenza, «centauri» dotati della soli natura ferina, non idonei a creare continuità di Stato), abbia tranquillità interna e il consenso necessario per esercitare l'egemonia.
Al di fuori di ogni astrazione e assolutismo teorico Machiavelli pensava a un forte Stato in Italia che avesse i caratteri del principato assoluto nella fase di formazione e di governo misto nei successivi momenti della conservazione. Nel 1512 Machiavelli è allontanato dall'ufficio, arrestato quale presunto congiurato antimediceo sicché dopo la liberazione si ritira all'Albergaccio, un possedimento presso S. Casciano.
Vivendo privatamente scrisse il Principe (1513), i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio (1513-17), i Dialoghi dell'arte della guerra (1516), la Vita di Castruccio Castracani (1520) e tenne corrispondenze con l'amico Francesco Vettori, ambasciatore fiorentino a Roma. Nel 1520 il cardinale Giulio dei Medici gli fece avere l'incarico dallo Studio fiorentino di scrivere la storia di Firenze (Istoria fiorentina, 1520-25) ma neanche dopo la nuova cacciata dei Medici e il ristabilimento della Repubblica (1527) poté riprendere il posto di segretario della cancelleria.

Paragrafo 2: Il problema dello Stato. La politica come scienza. Il «Principe»

Machiavelli vive la crisi strutturale e istituzionale dell'Italia «dove non è osservanza di religione, non di leggi, non di milizia»; la vive in modo passionale, con la vitalità caratteristica del temperamento e con la lucidità dell'intelletto, come caos e anarchia, come perpetuazione di irrazionalità; la vive anche nel confronto con le situazioni delle grandi monarchie e dell'Impero e con la propria esperienza di tecnico della cancelleria appartenente a una classe dirigente che ha elaborato in uno Stato autonomo quale Firenze una politica aperta ma che è certamente da liberare dalle sopravvivenze medievali e da ricreare in un confronto con gli Stati moderni.
Perciò egli non è puro scienziato, ma nella sua ricerca del modo in cui la politica possa ordinare la società agiscono motivi passionali e individuali che alla fine del Principe gli fanno invocare non un principe ideale ma un condottiero reale che ne sia la personificazione. Certamente il Principe nasce dall'osservazione delle condizioni concrete dell'Italia, dalla necessità di rendere autonoma la politica dalla religione e dalla morale.
Il principio dell'autonomia della politica, della creazione delle leggi che rendano la politica metodo scientifico è un prodotto dell'umanesimo laico, è l'antitesi della concezione medievale per cui l'agire politico è quello della religione. Dietro la ricerca machiavelliana è l'umanesimo dei grandi storici latini i quali avevano descritto una realtà regolata dai rapporti di forza esistenti tra uomini che lottavano anche con i vizi e il valore della loro natura.
La politica è scienza dell'uomo, criterio ordinatore dei flussi sociali in base allo studio oggettivo della «realtà effettuale» e della «natura» dell'uomo. Machiavelli «speculatore» considera che per perseguire l'utile politico è necessario guardare la realtà così come essa è, senza travestimenti né ottimismi né speranze né utopie né presupposti religiosi o idealistici.
Alla «realtà effettuale» si contrappone la «imaginazione di essa», la finzione dilettosa o evasiva o estetica che non tiene conto delle forze, dei pesi, delle misure, delle tensioni concrete. Molti scrittori di politica si sono immaginati Stati ideali, principi virtuosi, sudditi devoti, hanno scritto cioè pagine retoriche e utopistiche.
Per la prima volta nella storia Machiavelli indica nella «realtà effettuale» il modo in cui devono operare le forze storiche in relazione all'utile, al bene dello Stato; può farlo perché egli pensa non a un modello di Stato ma a una realtà concreta che deve essere, che deve realizzarsi in Italia in quel momento.
Il «profeta disarmato» (Savonarola), gli utopisti (Platone, Cicerone) non progettarono realtà congruenti alla situazione oggettiva e materiale ma astrazioni pericolose o inutili. Lo Stato per Machiavelli si costruisce creando equilibri più avanzati alla realtà esistente e muovendo da questa. Il principe prima di Machiavelli non esisteva nella realtà, era soltanto un simbolo; con Machiavelli diventa guida storica che opera servendosi dell'informe per farlo diventare volontà che trionfa, attività che trasforma.
La politica come attività autonoma che è diversa dalla religione e dalla morale e lo studio della «realtà effettuale» sono due principi che modificano la cultura del tempo di Machiavelli, principi rivoluzionari in quanto spezzano le ideologie tradizionali e liberano la nuova forza che acquista caratteri suoi, moderni e attivi, per operare contro l'agire politico caotico, moralistico, utopistico, religioso, immaginario.
Machiavelli scrive per dare coscienza e intelletto politici alle forze che sono, in quanto più avanzate e concrete di Savonarola, capaci di creare il tecnico della politica e delle armi, il nuovo principe riformatore dello Stato, principe necessariamente «golpe e lione», Centauro mezzo uomo e mezzo bestia, vezzeggiatore e spegnitore di uomini nella prima fondazione dello Stato. L'autonomia della politica e l'esame della realtà esaltati da Machiavelli suscitarono, da parte degli amatori della finzione, un secolare odio contro il segretario fiorentino.
Alla necessità di dare alla politica leggi proprie Machiavelli aggiunge la necessità di scoprire le leggi della natura umana, il loro modo di operare nella realtà. In opposizione alla visione trascendente che vede l'uomo perfettibile Machiavelli rinascimentale, osservatore della realtà, è razionalmente pessimista. Nei suoi comportamenti politici la natura umana è mossa dalle passioni che rendono gli uomini
ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de' pericoli, cupidi di guadagno; e mentre fai loro bene, sono tutti tua, offerenti el sangue, la roba, la vita, e' figliuoli […] quando il bisogno è discosto, ma quando ti si appressa, e' si rivoltano.

L'uomo come aggregato fisico e psicologico ha tali caratteri costitutivi della sua essenza individuale che gli servono a conservare se stesso; il modo di operare di queste naturalità costituisce la legge del suo reale manifestarsi, né tale legge è stata mai modificata: sempre eguali a se stessi nei loro comportamenti gli uomini «nacquero, vissero e morirono, sempre con un medesimo ordine». Essi non conoscono altro bene che l'utile privato e «si dimenticano più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio».
Ogni idealismo sulla natura umana (tutta energia terrestre, con elementi selvatici e ferini) allontana dall'esame oggettivo: «Gli uomini non operano mai nulla bene se non per necessità».
Sarebbe preferibile vivere in un mondo pacifico e leale ma le passioni naturali non lo consentono e chi compie un'analisi sbagliata delle forze reali, dei comportamenti e delle leggi è destinato a cadere:
È tanto discosto da come si vive a come si dovrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si dovrebbe fare impara piuttosto la ruina che la preservazione sua: perché un uomo che voglia fare in tutte le parti la professione di buono, conviene rovini infra tanti che non sono buoni.

Questo meccanicismo naturalistico è il fondamento da conoscere per sviluppare l'azione politica, per mutare la realtà e organizzarla. Colui che ha questa conoscenza, il principe, ha la conoscenza dell'agire ma per potere operare occorrono la «virtù» e la Fortuna. La virtù è la capacità individuale, la somma di qualità d'intelletto, di esperienza, di deduzione logica e di intervento politico che il principe deve avere per superare i limiti condizionanti della situazione storica: l'«occasione», cioè le condizioni particolari che in una situazione consentono l'intervento, rivela nel principe la grande personalità, gli consente di fare eccellere la virtù individuale.
Il punto di partenza è sempre la conoscenza della realtà, quello di arrivo la concreta organizzazione politica. Ma nella realtà esistono forze non prevedibili, esterne al volere dell'uomo, oltrepassanti i suoi limiti (avvenimenti fortuiti, contingenti, improvvisi, esplosioni passionali, mancamenti che avvengono in un preciso momento), determinati da quella che Machiavelli chiama Fortuna: di fronte ad essa occorre sapersi adattare alle circostanze impreviste ma anche mettere in opera la virtù come creatività artistica ed eroica che superi i limiti, e gli ostacoli.
Al di sopra di ogni interesse è quello dello Stato in cui la natura umana è corretta e ordinata; il principe in quanto organizzatore dello Stato non può fare «in tutte le parti professione di buono» perché andrebbe in rovina «infra tanti che non sono buoni» sicché seguendo la realtà effettuale non si dovrà preoccupare «di incorrere nella infamia di quelli vizii, senza quali e' possa difficilmente salvare lo stato»: il principe deve saper sacrificare la bontà all'interesse dello Stato, essere temuto piuttosto che amato perché «il timore è tenuto da una paura di pena che non ti abbandona mai», non curarsi «della infamia di crudele, per tenere li sudditi sua uniti e in fede» («era tenuto Cesare Borgia crudele; nondimanco quella sua crudeltà aveva racconcia la Romagna, unitola, ridottola in pace e in fede»).
Machiavelli quando fornisce questi consigli distingue la sfera privata e quella politica; nella sfera politica occorre superare l'opera meccanica della natura: «Quanto sia laudabile in uno principe mantenere la fede e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende» ma
sendo uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quello pigliare la golpe e il lione […]. E, se gli uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma, perché sono tristi e non la osservarebbero a te [la fedeltà], tu etiam non l'hai ad osservare a loro.

Principe «necessitato», principe «nuovo» debbono guardare anzitutto alla realtà effettuale e usare i mezzi adatti che saranno sempre ritenuti giusti perché gli uomini giudicano le azioni dall'esito che esse hanno.
Il principe che sa ordinare lo Stato, salvarlo nel pericolo, governarlo con la «maestà della dignità sua» (mostrandosi «amatore delle virtù», onorando «li eccellenti in una arte», consentendo la pratica della mercatura e dell'agricoltura, premiando chi cerca di migliorare lo Stato e tenendo «occupati e populi con le feste e spettaculi» nei momenti convenienti) è un eroe come lo furono Mosé, Ciro, Teseo, Romolo, dotati di virtù superiore perché anzitutto furono uomini politici.
Se tutto deve essere sacrificato allo Stato il sacrificio deve essere assoluto quando lo Stato è in guerra. Machiavelli propugna l'adozione di milizie cittadine in luogo di quelle professionali o mercenarie avendo l'occhio a uno Stato nazionale in cui la forza militare sia in funzione dell'organizzazione politica e della difesa delle istituzioni. Da qui deriva l'insistenza di Machiavelli sui problemi dell'arte della guerra in un'epoca in cui mantenimento o perdita dello Stato, per il mutarsi degli equilibri di forza, dipendevano dalla forza militare non meno che dall'esperienza e dalle alleanze politiche.
L'idea delle milizie cittadine per chi guardava a uno Stato nazionale e alle monarchie straniere non era del tutto utopistica ma connaturata al modello da creare (anche se nella pratica le milizie cittadine organizzate nel 1512 da Machiavelli fornirono cattivi risultati contro le milizie spagnole e pontificie). Per la migliore difesa dell'istituzione politica statale Machiavelli proponeva che le milizie fossero soprattutto del contado in modo da salvare politicamente città e campagna.
Il principe doveva avere, perciò, in modo precipuo le qualità tecniche del militare, del condottiero di eserciti perché nell'ultimo capitolo del Principe ormai il personaggio assume sembianza concreta di «redentore» di un'Italia «più stiava che gli Ebrei, più serva che e' Persi, più dispersa che gli Ateniesi, senza case, senza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa».

Capitolo 8: Niccolò Machiavelli
Paragrafo 3: «Discorsi», «Dialoghi dell'arte della guerra», «Istorie fiorentine»

I Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio in tre libri sono delle considerazioni sul testo liviano che trattano del governo interno dello Stato, dell'organizzazione militare e dell'espansione dello Stato, della stabilità e della decadenza politica. Il fondatore dello Stato è un signore assoluto ma la conservazione si ha preferibilmente con il governo libero, repubblicano, che abbia il consenso popolare e con una forma mista in cui il potere regio sia moderato da nobili e popolo.
In quest'opera non c'è l'urgenza appassionata che il principe prenda le armi per porre fine al «barbaro dominio», il tono è quello dello studio delle «cose del mondo» e delle varie etiche politiche del passato che non esclude una società civile secondo l'esempio delle repubbliche antiche e di quella elvetica moderna. Ma anche qui il fine supremo dello Stato assoggetta ogni altra considerazione, compresa quella religiosa.
La religione strumento di governo fu tra «le prime cagioni della felicità» di Roma perché rese ubbidiente il popolo ma seppe anche in esso suscitare l'amore della gloria mondana mentre il cristianesimo con la mortificazione e la rassegnazione ha spento tale amore. Dal punto di vista politico Machiavelli assegna alla chiesa romana la colpa di non avere ridotto l'Italia a monarchia e di avere impedito che altri lo facesse.
Anche in quest'opera Machiavelli esalta l'uso delle milizie cittadine, tema fondamentale dei sette libri di Dell'arte della guerra (1519-20) dialoghi che si immaginano tenuti a Firenze negli Orti Oricellari (giardini dei Rucellai) nel 1516 e che hanno come interlocutore anche Fabrizio Colonna il quale esprime le idee dell'autore. Machiavelli non soltanto per eliminare la corruttela militare professionale ma soprattutto per unire politica ed esercito, per fare di questo un elemento di forza sostanziale, politica, dello Stato, è sostenitore delle milizie cittadine, come aveva fatto con l'«ordinanza» del 1512. Non pochi temi dei dialoghi derivano dal mondo classico, soprattutto romano.
Della legione romana, rammodernata dagli esempi svizzeri e spagnoli, deriva il «battaglione» di fanteria elemento decisivo sul campo mentre la cavalleria è utile per inseguimenti, ricognizioni. I dialoghi trattano anche della scelta, dell'istruzione dei soldati, dell'ordinamento degli eserciti, dei combattimenti, delle fortificazioni. Scarsa importanza dà, stranamente, Machiavelli alle armi da fuoco, forse per la loro imperfezione. Tuttavia nel 1512 a Ravenna esse erano state largamente sperimentate, e principi e capi di Stato fabbricano in quegli anni colubrine e bombarde.
Ma ciò che importa nello studiare Machiavelli è l'unità del pensiero e del metodo di indagine del segretario fiorentino. Quando egli scrive le Istorie fiorentine non sempre fornisce notizie accertate e le fonti sono raramente controllate ma i fatti sono, per la prima volta in un'opera storica, coordinati secondo un disegno e sono fatti derivare dalle condizioni reali e dalle passioni degli uomini. L'opera in otto libri, dedicata a Clemente VII, nei primi quattro libri tratta la storia di Firenze fino al 1434, quando si instaura il potere mediceo, e negli altri quattro libri (fino alla morte di Lorenzo il Magnifico) le guerre e le cause che condussero alla servitù.
Eliminato ogni elemento provvidenziale Machiavelli insiste sulla necessità che un personaggio dotato di forte individualità fondi lo Stato sul danno che l'Italia ha avuto dal governo temporale della chiesa, dalle compagnie di ventura, dalla mancanza di veri capi suscitatori e organizzatori del popolo. In questa storia civile Machiavelli, poco curante dei particolari, mira a tracciare le linee generali che derivano da principi del passato validi per il presente.
Anche nella Vita di Castruccio Castracani, signore di Lucca morto nel 1328, Machiavelli derivò i particolari da fonti incerte e attribuì a Castracani fatti e detti riferiti da Diodoro Siculo e Diogene Laerzio a personaggi antichi. La biografia è, così, il ritratto ideale di un principe accorto e valoroso, un modello di eroe del Trecento valido per il principe del Cinquecento.

Paragrafo 4: Le opere minori; la «Mandragola»; la prosa di Machiavelli

Radicato profondamente nella tradizione culturale fiorentina delle novelle beffarde, dei canti carnascialeschi a doppio senso, del mondo degli scherzi e delle arguzie, il Machiavelli delle opere letterarie esprime la conoscenza dell'uomo e della natura e una visione acre della realtà. Anzitutto i suoi componimenti in versi non sono da leggere liricamente ma nella loro nativa discorsività, quale comunicazione bizzarra e umoristica; inoltre essi hanno carattere letterario disinteressato, sono una sorta di otium contemplativo.
Così è nei Canti carnascialeschi in cui i romiti invitano le donne a salvarsi dal diluvio sulle montagne o gli «spiriti beati» venuti sulla terra invitano ironicamente i cristiani ad alzare le mani con zelo di pietà davanti a Turchi perché non siano loro interdette le vie del cielo o gli «uomini che vendono le rime» alzano il loro canto ricco di doppi sensi. Non manca il tono idillico-umanistico nei versi per la donna amata in villa a S. Casciano o per la cantatrice e ballerina Barbera Salutati amata negli ultimi anni.
I due Decennali in terzine sono un compendio degli avvenimenti dal 1494 in avanti. I pubblici avvenimenti sono cantati in questi lunari politici al modo in cui facevano gli araldi della Signoria ma di quando in quando, come in tutti gli scrittori minori, si avverte la zampata del leone quando Machiavelli riflette sulla cecità di chi regge lo Stato e lancia delle sentenze in cui lo speculatore politico e lo scrittore dall'estro idiomatico-umoristico si danno la mano.
Autobiografico-allegorico è il poemetto che imita il Grillo di Plutarco, Dell'asino d'oro (scritto dopo la fine della cancelleria per il ritorno dei Medici) in cui certamente i temi satirico-burlesco, erotico-giocoso, realistico-quotidiano non riescono a fondersi ma in cui proprio gli acerbi trapassi danno ragione del carattere non puramente formalistico dell'arte di Machiavelli: lo scrittore più vicino a Machiavelli è qui Luigi Pulci per gli accenti popolareschi, plebei, sostanzialmente pessimistici. I Capitoli, pur collegandosi con i temi della fortuna, dell'occasione, dell'ambizione, al pensiero politico, sono troppo discorsivi, raffreddati da distinzioni, manca in essi proprio l'ictus caratteristico del moralista e del polemista.
La vocazione novellistica di Machiavelli si rivela nella Favola (detta di Belfagor arcidiavolo) in cui, dopo un concilio di prìncipi infernali sulla dannazione degli uomini per colpa delle mogli, l'arcidiavolo Belfagor esperimenta il matrimonio a Firenze ma infine preferisce ritornare all'inferno. La tristizia degli uomini (Belfagor è ingannato da un villano, perseguitato dai creditori, sopraffatto dalla moglie) domina nella commedia in prosa La mandragola in cinque atti che fu rappresentata a Firenze, a Roma nel 1520. Nel prologo della commedia Machiavelli si scusa di aver trattato materia «non degna»
(perch'altrove non have
dove voltare el viso:
ché gli è stato interciso
monstrar con altre imprese altra virtue,
non sendo premio alle fatiche sue)
ma l'impegno dello scrittore, deluso di non poter essere adoperato nel trattare politica dai Medici, non è inferiore a quello delle grandi opere politiche.
Argomento è l'inganno che il parassita Ligurio ordisce al vecchio messer Nicia desideroso di avere un figlio; l'astuzia di Ligurio è assecondata dal giovane Callimaco innamorato di Lucrezia, moglie di Nicia, da fra' Timoteo per amor di guadagno, da Sostrata accomodante madre di Lucrezia, sicché questa alla fine cede a Callimaco con un risentimento che è la strada di una amara spregiudicatezza:
Poi che l'astuzie tue, — dice Lucrezia a Callimaco — la sciocchezza del mio marito, la semplicità di mia madre e la tristizia del mio confessore mi hanno condotta a fare quello che mai per me medesima arei fatto, io voglio iudicare che e' venga da una celeste disposizione che abbi voluto così...

La tristizia si rivela nell'incapacità degli uomini di essere grandi nel bene e nel male. Essi sono mediocri, strumenti che Ligurio adopera sfruttando le loro debolezze per il suo gioco che non ha nulla di onorevole.
Il pessimismo del Principe a proposito della natura umana si riverbera anche qui con lucidità amara: le cose vanno secondo il piano inclinato della mediocrità, Machiavelli è impassibile di fronte allo svilupparsi serrato dell'epilogo, il «vulgo» che è nella natura umana si dispiega nelle sue variazioni senza che alcuno cerchi di innalzarlo e di mutarlo. Nella sfera politica il principe deve «vezzeggiare e spegnere», in quella privata la natura si compie secernendo gli acri umori che l'uomo ha dentro di sé.
L'altra commedia, la Clizia che si richiama alla Casina di Plauto, accoglie molti elementi della farsa dell'originale e la beffa che la moglie Sofronia prepara a Nicomaco invaghitosi della fanciulla Clizia si colora di compatimento perché il marito si ravveda e ritorni l'uomo «grave, re-soluto, respettivo» che era prima dell'infatuazione amorosa.
Se nelle opere minori Machiavelli adopera uno stile ora discorsivo ora idiomatico fiorentino (sostenitore egli fu della lingua fiorentina) ora idiomatico umoristico, sempre attento alle cose da dire e caratteristico di chi è a conoscenza delle «cose» degli uomini («in sulla strada, nell'hosteria, — scriveva nel 1513 a Francesco Vettori — parlo con quelli che passano, domando delle nuove de' paesi loro, intendo varie cose, et noto vari gusti et diverse fantasie d'huomini»), nel Principe crea una prosa moderna logica, scarna, scientifica.
Dopo essersi sprofondato «nelle cogitazioni di questo subietto» Machiavelli tende alla dimostrazione in modo razionale, assiomatico, sviluppando incisivamente ipotesi, dilemmi, obiezioni. È lo stile di chi progetta cose essenziali e solide, di chi costruisce per un futuro stabile essendo sicuro della storia antica e del metodo cancelleresco moderno. La «varietà della materia e la gravità del subietto» lo tengono lontano dalla prosa del diplomatico, da quella dell'umanista formalista, tutta la tensione è verso la creazione del principe nuovo, uomo d'azione, di guerra, che quando diventa persona storica diventa un «redentore».
Allora la prosa è appassionata perché il principe è sentito nella sua fusione con il popolo come in esso la personalità culturale popolana di Machiavelli si fonde con quella del politico impegnato.