V.

Noterelle di Economia

Indice

NOTERELLE DI ECONOMIA
Punti di meditazione sull'economia (Q. III)
Quando si può parlare di un inizio della scienza economica? (Q. III)
Sul metodo di ricerca economica (Q. Ill)
«Homo oeconomicus» (Q. III)
Distribuzione delle forze umane di lavoro e di consumo (Q. III)
«Economia pura» (Q. III)
Le idee di Agnelli (la parte: Q. III - 2a parte: Q. II)
Ugo Spirito e C. (Q. XXVIII)
La polemica Einaudi-Spirito sullo Stato (Q. 117)
Libertà e «automatismo » o razionalità (Q. III)
Gli studi di storia economica (O. XXVIII)
Su Graziadei (Q. VII)
Il paese di Cuccagna di Graziadei (Q. VII)
Per un compendio di economia critica (Q. III)

Punti di meditazione sull'economia.

Impostare il problema se può esistere una scienza economica e in che senso. Può darsi che la scienza economica sia una scienza sui generis, anzi unica nel suo genere. Si può vedere in quanti sensi è impiegata la parola scienza dalle varie correnti filosofiche, e se qualcuno di questi sensi si possa   applicare   alle  ricerche   economiche.

A me pare che la scienza economica stia a sé, cioè sia una scienza unica, poiché non si può negare che sia scienza e non solo nel senso «metodologico», cioè non solo nel senso che i suoi procedimenti sono scientifici e rigorosi. Mi pare anche che non possa avvicinarsi l'economia alla matematica, sebbene tra le varie scienze la matematica forse si avvicina piò di tutte all'economia. In ogni modo l'economia non può essere ritenuta una scienza naturale (qualunque sia il modo di concepire la natura e il mondo esterno, soggettivistico od oggettivistico) né una scienza «storica» nel senso comune della parola ecc. Uno dei pregiudizi contro i quali bisogna forse ancora lottare è che per essere «scienza» una ricerca debba aggrupparsi con altre ricerche in un tipo e che tale «tipo» sia la «scienza». Può invece avvenire che l'aggruppamento sia impossibile non solo, ma che una ricerca sia «scienza» in un certo periodo storico e non in un altro : infatti altro pregiudizio è che se una ricerca è «scienza» avrebbe potuto esserlo sempre e sempre la sarà. (Non lo fu perché mancarono gli «scienziati»,   non   la   materia   della   scienza).

Per l'economia appunto questi elementi critici sono da esaminare: c'è stato un periodo in cui non poteva esserci «scienza» non solo perché mancavano gli scienziati, ma perché mancavano certe premesse che creavano quella certa «regolarità» o quel certo «automatismo»,   il   cui   studio   dà   origine   appunto   alla   ricerca   scientifica.

Ma la regolarità o l'automatismo possono essere di tipi diversi nei diversi tempi e ciò creerà diversi tipi di «scienze». Non è da credere che essendo sempre esistita una «vita economica» debba sempre essere esistita la possibilità di una «scienza economica», cosi come essendo sempre esistito un movimento degli astri è sempre esistita la «possibilità» di un'astronomia, anche se gli astronomi si chiamavano astrologhi ecc. Nell'economia l'elemento «perturbatore» è la volontà umana, volontà collettiva, diversamente atteggiata a seconda delle condizioni generali in cui gli uomini vivevano, cioè diversamente   «cospirante»   o   organizzata.

Nella «Riforma Sociale» di marzo-aprile 1933 è contenuta una recensione firmata tre stelle di «An essay on the nature and signifi-cance of economie science», by Lionel Robbins, professore di economia all'Università di Londra. (London,   Macmillan  and   Co.,   1932,   pp.   XII,   141.) Anche il recensore si pone la domanda «Che cosa è la scienza economica?» e in parte accetta, in parte rettìfica o integra i concetti esposti dal Robbins.

Pare che il libro corrisponda all'esigenza posta dal Croce nei suoi saggi di prima del 1900 sulla necessità di far precedere ai trattati di economia una prefazione teorica in cui siano esposti i concetti e i metodi propri dell'economia stessa, ma la corrispondenza deve essere intesa con discrezione: non pare che il Robbins abbia quel rigore filosofico che il Croce domandava e sia piuttosto un «empirico» e un logico formale. Il libro può essere interessante come il più recente saggio di questa linea di ricerche, dipendente dalla insoddisfazione che si nota spesso da parte degli economisti a proposito delle definizioni della loro scienza e dei limiti che ad essa si sogliono porre. Anche per il Robbins l'«economia» finisce per avere una significazione «amplissima e genericissima», che malamente coincide con i problemi concreti che gli economisti realmente studiano, e che coincide piuttosto con quella che il Croce chiama una «categoria dello spirito», il «momento pratico» o economico, cioè il rapporto razionale del mezzo al fine. Il Robbins «esamina quali sono le condizioni che caratterizzano l'attività umana studiata dagli economisti ed arriva a concludere che esse sono: 1) la diversità dei fini; 2) la insufficienza dei mezzi; 3) la possibilità di usi alternativi. In conseguenza 'definisce l'economia come quella scienza che studia il modo di comportarsi degli uomini quale relazione tra i fini ed i mezzi scarsi che abbiano usi alternativi».

Pare che il Robbins voglia liberare l'economia dal cosi detto principio «edonistico» e separare nettamente l'economia dalla psicologia, «rifiutando gli ultimi residui di quella che è stata l'associazione passata tra utilitarismo ed economia» (ciò che probabilmente significa che il Robbins ha elaborato un nuovo concetto dell'utile diverso e più comprensivo di quello tradizionale). A parte ogni apprezzamento sul merito della questione, è da mettere in rilievo quali attenti studi gli economisti moderni dedichino a perfezionare continuamente gli strumenti logici della loro scienza, tanto che si può dire che una gran parte del prestigio che gli economisti godono è dovuta al loro rigore formale, all'esattezza dell'espressione ecc. La stessa tendenza non si verifica nell'economia critica che si vale troppo spesso di espressioni stereotipate, e si esprime in un tono di superiorità a cui non corrisponde il valore dell'esposizione: dà l'impressione di arroganza noiosa e niente altro e perciò pare utile mettere in rilievo questo aspetto degli studi economici e della  letteratura  economica. ( Nella «Riforma Sociale» le pubblicazioni del tipo di questa del Robbins sono sempre segnalate e non sarà difficile avere una bibliografia in proposito.)

E' da vedere se l'impostazione che Robbins dà al problema economico non sia1 in genere una demolizione della teoria marginalista, quantunque pare che egli dica che sull'analisi marginale è possibile costruire «la complessiva teoria economica in modo perfettamente unitario» (cioè abbandonando completamente il dualismo ancora sostenuto dal Marshall nei criteri della spiegazione del valore, cioè il doppio gioco della utilità marginale e del costo di produzione). Infatti se le valutazioni individuali sono la sola fonte di spiegazione dei fenomeni economici, cosa significa che il campo dell'economia è stato separato dal campo della psicologia e dell'utilitarismo? Per ciò che riguarda la necessità di una introduzione metodico-filosofica ai trattati di economia, ricordare l'esempio delle prefazioni al primo volume di Economia crìtica e al volume di Critica dell'Economia politica : ognuna di esse è forse troppo breve e scarna, ma il principio e seguito: d'altronde nel corpo dei volumi si trovano molti accenni metodici filosofici.

Quando si può parlare di un inizio della scienza economica? (Cfr. Luigi Einaudi, Di un quesito intorno alla nascita della scienza economica, nella «Riforma Sociale» marzo-aprile 1932, a proposito di alcune pubblicazioni   di   Mario   De   Bernardi   su   Giovanni   Boterò.)

Se ne può parlare da quando si fece la scoperta che la ricchezza non consiste nell'oro (e quindi tanto meno nel possesso dell'oro) ma consiste nel lavoro. William Petty (A  treatise of taxes and contributions,   1662,  e  Verbum  Sapientis,   1666) intravvide e Cantillon (1730) esplicitamente affermò che la ricchezza non consiste nell'oro : «... La rìchesse en elle-méme n'est autre chose que la nourriture, les com-modités et les agréments de la vie... le travail de l'homme donne la forme de richesse à tout cela». Il Boterò si era avvicinato a una affermazione molto somigliante, in un brano del suo lavoro Delle cause della grandezza delle città stampato nel 1588. Ristampato ora dal De Bernardi su questa edizione — principe — nei «Testi inediti e rari» pubblicati sotto la direzione dell'Istituto giuridico della R.   Università  di  Torino,  Torino   1930,   in-8°,   pp.  XII,   84)

«E perché l'arte gareggia con la natura, m'adimandera alcuno quale delle due cose importi più per ringrandire e per rendere popoloso un luogo, la fecondità del terreno o l'industria delPhuomo? L'industria senza dubbio. Prima perché le cose prodotte dall'artifiziosa mano del-l'huomo sono molto più e di molto maggior prezzo delle cose generate dalla natura, conciosiaché la natura dà la materia e il soggetto, ma la sottigliezza e l'arte dell'huomo dà l'inenarrabile varietà delle forme, ecc.».

Secondo l'Einaudi però non si può rivendicare al Boterò né la teoria della ricchezza-lavoro né la paternità della scienza economica di contro al Cantillon, per il quale «non si tratta più solo di un paragone atto a farci sapere quale dei due fattori: la natura o il lavoro, dia il maggior prezzo alle cose, come ricerca il Boterò; ma della  ricerca   teorica  intorno   a   che   cosa   sia   la   ricchezza».

Se questo è il punto di partenza della scienza economica e se in tal modo è stato fissato il concetto fondamentale dell'economia, ogni ulteriore ricerca non potrà che approfondire teoricamente il concetto di «lavoro», che intanto non potrà essere annegato nel concetto più generico di industria e di attività, ma dovrà invece essere fissato in quella attività umana che in ogni forma sociale è ugualmente necessaria. Questo approfondimento è stato compiuto dall'economia critica. (Sarà da vedere La Storia delle dottrine economiche (Das Mehrwert) del  Cannan,   «A review  of economie  theory».)

Sul metodo di ricerca economica.

Nell'esame della questione del metodo di ricerca economica e del concetto di astrazione, è da vedere se l'appunto critico che il Croce fa all'economia critica di procedere attraverso «una continua mescolanza di deduzione teorica e di descrizione storica, di nessi logici e di nessi di fatto» l non sia invece uno dei tratti caratteristici della superiorità dell'economia critica sull'economia pura e una delle forze che la rendono più feconda per il progresso scientifico. Del resto sono da notare le manifestazioni dell'insoddisfazione e del fastidio da parte dello stesso Croce per i procedimenti più comuni dell'economia pura, coi suoi bizantinismi e la sua mania scolastica di rivestire di un pomposo mantello scientifico le più triviali banalità di senso comune e le più  vuote  generalità.

L'economia critica ha cercato un giusto contemperamento tra il metodo deduttivo e il metodo induttivo, cioè di costruire ipotesi astratte non sulla base indeterminata di un uomo in generale, storicamente indeterminato e che da nessun punto dì vista può essere riconosciuto astrazione di una realtà concreta, ma sulla realtà effettuale, «descrizione storica», che dà la premessa reale per costruire ipotesi scientifiche, cioè per astrarre l'elemento economico o quelli tra gli aspetti dell'elemento economico su cui si vuole attrarre l'attenzione ed esercitare l'esame scientifico. In tal modo non' può esistere l'homo oeconomicus generico, ma può astrarsi il tipo di ognuno degli agenti o protagonisti dell'attività economica che si sono successi nella storia : il capitalista, il lavoratore, lo schiavo, il padrone di schiavi, il barone feudale, il servo della gleba. Non per nulla la scienza economica è nata nell'età moderna, quando il diffondersi del sistema capitalistico ha diffuso un tipo relativamente omogeneo di uomo economico, cioè ha creato le condizioni reali per cui un'astrazione scientifica diveniva relativamente meno arbitraria e genericamente vacua di quanto  fosse prima possibile.

Il rapporto tra l'economia politica e l'economia critica non è stato saputo mantenere nelle sue forme organiche e storicamente attuali. In che cosa le due correnti di pensiero si distinguono nell'impostazione del problema economico? Si distinguono attualmente, nei termini culturali attuali e non già e più nei termini culturali di ottanta anni fa? Dai manuali di economia critica ciò non appare (per es. dal Précis ( Précis  d'Economie  politique  di  Lapidus   e  Ostkovitianov), eppure è questo il punto che interessa subito i principianti e dà l'orientamento generale per tutta la ricerca posteriore. In generale questo punto viene dato non solo per noto ma per accettato senza discussione, mentre nessuna delle due cose è vera. Cosi avviene che solo gli spiriti gregari e che fondamentalmente si infischiano della questione sono avviati allo studio dei problemi economici e ogni sviluppo scientifico è reso impossibile. Ciò che colpisce è questo: come un punto di vista critico che richiede il massimo di intelligenza, di spregiudicatezza, di freschezza mentale e di inventività scientifica sia divenuto il monopolio di biascicazione di cervelli ristretti e meschini, che solo per la posizione dogmatica riescono a mantenere una posizione non nella scienza, ma nella bibliografia marginale della scienza. Una forma di pensare ossificato è il pericolo più grande in queste quistioni: è da preferire una certa sbrigliatezza disordinata alla difesa filistea delle  posizioni  culturali  costituite.

«Homo oeconomicus».

La discussione intorno al concetto di homo oeconomicus è diventata una delle tante discussioni sulla cosi detta «natura umana». Ognuno dei disputanti ha una sua «fede», e la sostiene con argomenti di carattere prevalentemente moralistico. L'homo oeconomicus è l'astrazione dell'attività economica di una determinata forma di società, cioè di una determinata struttura economica. Ogni forma sociale ha il suo homo oeconomicus, cioè una sua attività economica. Sostenere che il concetto di homo oeconomicus scientificamente non ha valore non è che un modo di sostenere che la struttura economica e la sua attività conforme è radicalmente mutata, oppure che la struttura economica è talmente mutata che necessariamente deve mutare il modo di operare economico, perché diventi conforme alla nuova struttura. Ma appunto in ciò è dissenso, e non tanto dissenso scientifico obbiettivo, ma politico. Cosa significherebbe del resto un riconoscimento scientifico che la struttura economica è mutata radicalmente e che deve mutare l'operare economico per conformarsi alla nuova struttura? Avrebbe un significato di stimolo politico, nulla più. Tra la struttura economica e lo Stato con la sua legislazione e la sua coercizione sta la società civile, e questa deve essere radicalmente trasformata in concreto e non solo sulla carta della legge e dei libri degli scienziati; lo Stato è lo strumento per adeguare la società civile alla struttura economica, ma occorre che lo Stato «voglia» far ciò, che cioè a guidare lo Stato siano i rappresentanti del mutamento avvenuto nella struttura economica. Aspettare che, per via di propaganda e di persuasione, la società civile si adegui alla nuova struttura, che il vecchio homo oeconomicus sparisca senza essere seppellito con tutti gli onori che merita, è una nuova forma di retorica economica, una   nuova   forma   di   moralismo   economico   vacuo   e   inconcludente.

A proposito del cosi detto homo oeconomicus, cioè dell'astrazione dei bisogni dell'uomo, si può dire che una tale astrazione non è per nulla fuori della storia, e quantunque si presenti sotto l'aspetto delle formulazioni matematiche, non è per nulla della stessa natura delle astrazioni matematiche. L'homo oeconomicus è l'astrazione dei bisogni e delle operazioni economiche di una determinata forma di società, cosi come l'insieme delle ipotesi poste dagli economisti nelle loro elaborazioni scientifiche non è altro che l'insieme delle premesse che sono alla base di una determinata forma di società. Si potrebbe fare un lavoro utile raccogliendo sistematicamente le «ipotesi» di qualche grande economista «puro»; per esempio, di M. Pantaleoni, e coordinandole in modo da mostrare che esse appunto  sono  la  «descrizione»  di una determinata  forma di  società.

Distribuzione delle forze umane di lavoro e di consumo.

Si può osservare come vadano sempre piti crescendo le forze di consumo in confronto a quelle di produzione.

La popolazione economicamente passiva e parassitaria: ma il concetto di «parassitario» deve essere ben precisato. Può avvenire che una funzione parassitaria intrinsecamente si dimostri necessaria date le condizioni esistenti : ciò rende ancor piti grave tale parassitismo. Appunto quando un parassitismo è «necessario», il sistema che crea tali necessità è condannato in se stesso. Ma non solo i puri consumatori aumentano di numero, aumenta anche il loro tenore di vita, cioè aumenta la quota di beni che da essi è consumata (o distrutta). Se si osserva bene si deve giungere alla conclusione che l'ideale di ogni elemento della classe dirigente è quello di creare le condizioni in cui i suoi eredi possano vivere senza lavorare, di rendita: come è possibile che una società sia sana quando si lavora per essere in grado di non lavorare piti? Poiché questo ideale è   impossibile   e   malsano,   significa   che   tutto   l'organismo   è   viziato e malato. Una società che dice di lavorare per creare dei parassiti, per vivere sul così detto lavoro passato (che è metafora per indicare il presente lavoro degli altri) in realtà distrugge se stessa.

«Economia pura». (Principi di economia pura di M. Pantaleoni, nuova ediz., 1931, Treves-Treccam-Tumminelli.)

1) A rileggere il libro del Pantaleoni si comprendono   meglio   i   motivi   delle   abbondanti   scritture   di   Ugo Spirito.

2)   La parte prima del libro, dove si tratta del postulato edonìstico, potrebbe più acconciamente servire come introduzione a un raffinato manuale di arte culinaria o ad un ancor più raffinato manuale sulle posizioni degli amanti. È un peccato che gli scrittori di arte culinaria non studino l'economia pura, perché coi sussidi di gabinetti di psicologia sperimentale e del metodo statistico potrebbero giungere a trattazioni ben più complete e sistematiche di quelle volgarmente diffuse : lo stesso si dica della più clandestina ed esoterica attività scientifica che si affatica ad elaborare l'arte dei godimenti  sessuali.

3)   La filosofia del Pantaleoni è il sensismo del secolo XVIII, sviluppato nel positivismo del secolo XIX: il suo «uomo» è l'uomo in generale, nelle premesse astratte, cioè l'uomo della biologia, un insieme di sensazioni dolorose o piacevoli, che però diventa l'uomo di una determinata forma sociale ogni qualvolta dall'astratto si passa al concreto, cioè ogni qualvolta si parla d'economia e non di scienza naturale in genere. Il libro del Pantaleoni è quello che si può chiamare un'«opera materialistica» in senso «ortodosso» e scientifico!

4)    Questi economisti «puri» pongono l'origine della scienza economica nella scoperta fatta dal Cantìllon che la ricchezza è il lavoro, è l'industria umana. Quando però cercano di fare scienza essi stessi, dimenticano le origini e affogano nell'ideologia che prima sviluppò secondo i suoi metodi la scoperta iniziale. Delle origini essi sviluppano non il nucleo positivo, ma l'alone filosofico legato al mondo culturale del tempo, quantunque questo mondo sia stato criticato e superato dalla cultura  successiva.

5)   Cosa dovrebbe sostituirsi al cosi detto «postulato edonistico» dell'economìa «pura» in un'economia critica e storicistica ? La descrizione   del   «mercato   determinato »,   cioè   la   descrizione   della forma sociale determinata, del tutto in confronto della parte, del tutto che determina in quella determinata misura, quell'automatismo e insieme di uniformità e regolarità che la scienza economica cerca di descrivere col massimo di esattezza e precisione e completezza. Si può dimostrare che una tale impostazione della scienza economica è superiore a quella dell'economia «pura» ? Si può dire che il postulato edonistico non è astratto, ma generico: infatti esso può essere premesso non alla sola economia, ma a tutta una serie di operazioni umane, che possono chiamarsi «economiche» solo allargando e genericizzando enormemente la nozione di economia fino a renderla empiricamente vuota di significato o a farla coincidere con una categoria filosofica, come infatti ha cercato di fare il Croce.

È da fissare con esattezza il punto in cui si distingue tra «astrazione» e «generizzazione». Gli agenti economici non possono essere sottoposti a un processo di astrazione per cui l'ipotesi di omogeneità diventa l'uomo biologico; questa non è astrazione ma gene-rizzazione o «indeterminazione». Astrazione sarà sempre astrazione di una categoria storica determinata, vista appunto in quanto categoria e non in quanto molteplice individualità. Uhomo oeco-nomicus è anch'esso storicamente determinato pur essendo insieme-mente determinato: è un'astrazione determinata. Questo processo nell'economia critica avviene ponendo come valore il valore di scambio e non quello d'uso e riducendo quindi il valore d'uso al valore di scambio, potenzialmente, nel senso che una economia di scambio modifica anche le abitudini fisiologiche e la scala psicologica dei gusti e dei gradi finali di utilità, che appaiono cosi come «superstrutture » e non dati economici primari, oggetto della scienza  economica.

Occorre fissare il concetto di mercato determinato. Come viene assunto nell'economia «pura» e come nell'economia critica. Mercato determinato nell'economia pura è una astrazione arbitraria, che ha un valore puramente convenzionale ai fini di un'analisi pedantesca e scolastica. Mercato determinato per l'economia critica sarà imece l'insieme delle attività economiche concrete di una forma sociale determinata, assunte nelle loro leggi di uniformità, cioè «astratte», ma senza che l'astrazione cessi di essere storicamente determinata. Si astrae la molteplicità individuale degli agenti economici   della   società   moderna   quando   si   parla   di   capitalisti,   ma appunto l'astrazione è nell'ambito storico di una economia capitalistica e non di una generica attività economica che astragga nelle sue categorie tutti gli agenti economici apparsi nella storia mondiale riducendoli genericamente e indeterminatamente all'uomo biologico.

Si può domandare se l'economia pura sia una scienza oppure se essa sia «un qualche cosa d'altro» che però si muove con un metodo che in quanto metodo ha un suo rigore scientifico. Che esistano attività di questo genere è mostrato dalla teologia. Anche la teologia parte da una certa serie di ipotesi e quindi costruisce su di esse tutto un massiccio edifizio dottrinale saldamente coerente e rigorosamente dedotto. Ma la teologia è perciò una scienza? L'Einaudi (Cfr.   Ancora  intorno   al   modo   di   scrivere   la   storia   del   dogma   economico in   «Riforma  Sodale»   del  maggio-giugno   1932) scrive che l'economia è «una dottrina avente la medesima indole delle scienze matematiche e fisiche (affermazione questa, si osservi, la quale non ha alcun necessario legame con l'altra che sia necessario od utile nel suo studio l'impiego dello strumento matematico)», ma sarebbe difficile dimostrare coerentemente e rigorosamente questa affermazione. Lo stesso concetto è stato espresso dal Croce («Critica»,   gennaio   1931)con le parole : «L'Economia non cangia natura quali che siano gli ordinamenti sociali, capitalistici o comunistici, quale che sia il corso della storia, al modo stesso che non cangia natura l'aritmetica pel variare delle cose da numerare». Intanto mi pare non sia da confondere la matematica e la fisica. La matematica si può chiamare una scienza puramente «strumentale», complementare di tutta una serie di scienze naturali «quantitative», mentre la fisica è una scienza immediatamente «naturale». Alla matematica può essere paragonata la logica formale con la quale del resto la matematica superiore si è unificata sotto molti aspetti. Può dirsi lo stesso della economia pura? La discussione è ancora vivace e non pare stia per finire. Del resto già nei cosi detti economisti puri non c'è grande compattezza. Per alcuni è economia pura solo quella ipotetica, che imposta le sue dimostrazioni con un «supposto che», cioè è economia pura anche quella che rende astratti ossia generalizza tutti i problemi economici storicamente posti. Per altri invece è economia pura solo quella che si può dedurre    dal    principio    economico    o    postulato    edonistico,    che   cioè astrae completamente da ogni storicità e presuppone solo una generica «natura umana» uguale nel tempo e nello spazio. Ma se si tiene conto della lettera aperta dell'Einaudi a Rodolfo Benini, pubblicata nei «Nuovi Studi» qualche tempo fa, si vede che la posizione degli economisti puri è tentennante e mal sicura.

Le idee dì Agnelli. (Cfr.   «Riforma Sociale»,  gennaio-febbraio  1933.)

Alcune osservazioni preliminari sul modo di porre il problema tanto da parte di Agnelli che di Einaudi: 1) Intanto il progresso tecnico non avviene «evolutivamente», un tanto per volta, per cui si possano fare delle previsioni oltre certi limiti: il progresso avviene per spinte determinate, in certi campi. Se fosse cosi come ragiona specialmente Einaudi, si giungerebbe all'ipotesi del paese di Cuccagna, in cui le merci si ottengono senza lavoro alcuno. 2) La questione poi più importante è quella della produzione di alimenti : non si pensa che «finora» data la molteplicità di livelli di lavoro tecnicamente più o meno progrediti, il salario è stato «elastico» solo perché è stata permessa, entro certi limiti, una ridistribuzione degli alimenti e specialmente di alcuni di essi, di quelli che danno il tono alla vita (con gli alimenti occorre porre l'abbigliamento e l'abitazione). Ora nella produzione degli alimenti i limiti alla produttività del lavoro sono più segnati che nella produzione dei beni manufatti (e si intende «quantità globale» degli alimenti, non loro modificazioni merceologiche, che non ne aumentano la quantità). Le possibilità di «ozio» (nel senso dell'Einaudi) oltre certi limiti, sono date dalla possibilità della moltiplicazione degli alimenti come quantità e non dalla produttività del lavoro, e la «superficie della terra» con il regime delle stagioni ecc., pongono limiti ferrei, quantunque sia da ammettere che   prima   di   raggiungere   tali   limiti   ci   sia   ancora   molto   viaggio.

Le polemiche tipo Agnelli-Einaudi fanno pensare al fenomeno psicologico che durante la fame si pensa di più all'abbondanza di cibo: sono ironiche, per dire il meno. Intanto la discussione è sbagliata psicologicamente, perché tende a far credere che l'attuale disoccupazione sia «tecnica », mentre ciò è falso. La disoccupazione «tecnica» è poca cosa in confronto della disoccupazione generale. Inoltre, il ragionamento è fatto come se la società fosse costituita di «lavoratori» e di «industriali» (datori di lavoro in senso stretto, tecnico),   ciò   che   è   falso   e   porta   a   ragionamenti   illusori.   Se   cosi fosse, dato che l'industriale ha bisogni limitati, la questione sarebbe semplice realmente: la questione di ricompensare l'industriale con plus salari o premi di capacità sarebbe cosa da nulla e che nessun uomo sensato rifiuterebbe di prendere in considerazione: il fanatismo dell'eguaglianza non nasce dai «premi» che vengono dati agli industriali valenti. Il fatto è questo: che, date le condizioni generali, il maggior profitto creato dai progressi tecnici del lavoro, crea nuovi parassiti, cioè gente che consuma senza produrre, che non «scambia» lavoro con lavoro, ma lavoro altrui con «ozio» proprio (e ozio nel senso deteriore). Dato il rapporto prima notato sul progresso tecnico nella produzione degli alimenti, avviene una selezione dei consumatori di alimenti, in cui i «parassiti» entrano nel conto prima dei lavoratori effettivi e specialmente prima dei lavoratori potenziali (cioè attualmente disoccupati). È da questa situazione che nasce il «fanatismo» dell'eguaglianza, e rimarrà «fanatismo» cioè tendenza estrema e irrazionale, finché tale situazione durerà. Si vede che esso scompare già dove si vede che per lo meno si lavora a far scomparire o attenuare tale situazione generale.

Il fatto che la «società industriale» non è costituita solo di «lavoratori» e di «imprenditori», ma di «azionisti» vaganti (speculatori) turba tutto il ragionamento di Agnelli: avviene che se il progresso tecnico permette un più ampio margine di profitto, questo non sarà distribuito razionalmente ma «sempre» irrazionalmente agli azionisti e affini. Né oggi si può dire che esistano «imprese sane». Tutte le imprese sono divenute malsane, e ciò non si dice per prevenzione moralistica o polemica, ma oggettivamente. È la stessa «grandezza» del mercato azionario che ha creato la mal-sania: la massa dei portatori di azioni è cosi grande che essa ormai ubbidisce alle leggi di «folla» (panico,, ecc. che ha i suoi termini tecnici speciali nel «boom», nel «run» ecc.) e la speculazione è diventata una necessità tecnica, più importante del lavoro degli ingegneri   e   degli   operai.

L'osservazione sulla crisi americana del 1929 appunto questo ha messo in luce: l'esistenza di fenomeni irrefrenabili di speculazione, da cui sono travolte anche le aziende «sane», per cui si può dire che «aziende sane» non ne esistono più : si può pertanto usare la parola «sana» accompagnandola da un riferimento storico : «nel senso  di  una  volta»,   cioè   quando  esistevano  certe  condizioni  generali   che   permettevano   certi   fenomeni   generali   non   solo   in   senso relativo,  ma  anche  in   senso   assoluto. ( È  da   vedere  il   libro   di  Sir   Artur   Salter,   Ricostruzione:  .come  finirà  la crisi,    Milano,    Bompiani,    1932,    pp.    398.)

Luigi Einaudi ha raccolto in volume i saggi pubblicati in questi anni di crisi. Uno dei motivi su cui l'Einaudi ritorna più spesso è questo: che dalla crisi si uscirà quando l'inventività degli uomini avrà ripreso un certo slancio. Non pare che l'affermazione sia esatta da nessun punto di vista. È certo che il periodo di sviluppo delle forze economiche è stato caratterizzato anche dalle invenzioni, ma è esatto che in questo ultimo periodo le invenzioni siano state meno essenziali e anche meno numerose? Non pare: si può dire tutt'al più che hanno colpito meno le immaginazioni, appunto perché precedute da un periodo di tipo simile, ma più originale. Tutto il processo di razionalizzazione non è che un processo di «inven-tività», di applicazione di nuovi ritrovati tecnici e organizzativi. Pare che l'Einaudi intenda per invenzioni solo quelle che portano all'introduzione di nuovi tipi di merci, ma anche da questo punto di vista forse l'affermazione non è esatta. In realtà però le invenzioni essenziali sono quelle che determinano una diminuzione dei costi, quindi allargano i mercati di consumo, unificano sempre più vaste masse umane, ecc.; da questo punto di vista quale periodo è stato più «inventivo» di quello della razionalizzazione ? Anche troppo inventivo, a quanto pare, fino all'«invenzione» della vendita a rate e della creazione artificiosa di nuovi bisogni nel consumo popolare. La verità è che pare quasi impossibile creare «bisogni» nuovi essenziali da soddisfare, con nuove industrie completamente originali, tali da determinare un nuovo periodo di civiltà economica corrispondente a quello dello sviluppo della grande industria. Oppure questi «bisogni» sono propri di strati della popolazione socialmente   non   essenziali   e   il   cui   diffondersi   sarebbe   morboso. ( Cfr.   l'invenzione   della   «seta   artificiale»   che   soddisfa   il   bisogno   di   un lusso   apparente   dei   ceti   medio   borghesi.)

Ugo Spirito e C.

L'accusa all'economia politica tradizionale di essere concepita «naturalisticamente» e «deterministicamente» : accusa senza fondamento, perché gli economisti classici non si debbono    essere    preoccupati    molto    della    questione    «metafisica»    del determinismo e tutte le loro deduzioni e calcoli sono basati sulla premessa del  «supposto che».

Cos'è questo «supposto che» ? Lo Jannaccone, recensendo nella «Riforma Sociale» il libro dello Spirito, definisce il «supposto che» come un «mercato determinato» e questo è giusto secondo il linguaggio degli economisti classici. Ma cos'è il «mercato determinato» e da che cosa appunto è determinato ? Sarà determinato dalla struttura fondamentale della società in questione e allora occorrerà analizzare questa struttura e identificarne quegli elementi che, relativamente costanti, determinano il mercato ecc. e quegli altri «variabili e in isviluppo» che determinano le crisi congiunturali fino a quando anche gli elementi «relativamente costanti» ne vengono  modificati   e   si   ha   la   crisi   organica.

L'economia classica è la sola «storicista» sotto l'apparenza delle sue astrazioni e del suo linguaggio matematico, mentre proprio lo Spirito dissolve lo storicismo e annega la realtà economica in un diluvio di parole e di astrazioni. Tuttavia la tendenza rappresentata dallo Spirito e dagli altri del suo gruppo è un «segno dei tempi». La rivendicazione di una «economia secondo un piano» e non solo nel terreno nazionale, ma su scala mondiale, è interessante di per sé, anche se la sua giustificazione sia puramente verbale; e «segno dei tempi» è l'espressione ancora «utopistica» di condizioni in via di sviluppo che, esse, rivendicano l'«economia   secondo   un   piano».

L'interesse attuale di scrittori come lo Spirito risalta ancor più per l'accostamento con certi scrittori di economia classica come Einaudi. Gli articoli dell'Einaudi sulla crisi, ma specialmente quelli pubblicati nella «Riforma Sociale» del gennaio-febbraio 1932 sono spesso delle arguzie da rammollito. Einaudi ristampa brani di economisti di un secolo fa e non sì accorge che il «mercato» è cambiato, che i «supposto che» non sono più quelli. La produzione internazionale si è sviluppata su tale scala e il mercato è talmente divenuto complesso, che certi ragionamenti appaiono infantili, letteralmente. Forse che in questi anni non sono nate nuove industrie? Basta citare quella della seta artificiale e quella dell'alluminio. Ciò che dice Einaudi è genericamente giusto, perché significa che le crisi passate sono state superate: 1) allargando il circolo mondiale della produzione capitalistica; 2) elevando il tenore di vita di determinati strati della popolazione o relativamente di tutti gli strati. Ma   Einaudi   non   tiene  conto   che   sempre   più  la   vita  economica   si è venuta incardinando su una serie di produzioni di grande massa e queste sono in crisi: controllare questa crisi è impossibile appunto per la sua ampiezza e profondità, giunte a tale misura che la quantità diviene qualità, cioè crisi organica e non più di congiuntura. Einaudi fa ragionamenti appropriati per le crisi di congiuntura, perché vuol negare che esista una crisi organica, ma questa è «politica immediata», non analisi scientifica, è «volontà di credere», «medicina per le anime» e ancora esercitata in modo puerile e comico.

La polemica Einaudi-Spirito sullo Stato.

È da connettere con la polemica Einaudi-Benini. (Cfr.   «Riforma Sociale»,   sett.-ottobre  1931.) Ma nella polemica Einaudi-Spirito hanno torto ambedue i litiganti : essi si riferiscono a cose diverse e usano linguaggi diversi. La polemica Benini-Einaudi illumina la precedente polemica. In ambedue queste polemiche l'Einaudi assume la stessa posizione di quando cerca di limitare, in polemica col Croce, ogni funzione scientìfica della filosofia della prassi. La coerenza della posizione dell'Einaudi è mirabile «intellettualmente» : egli comprende che ogni concessione teorica all'avversario, sia  pure   solo  intellettuale,   può   far  franare   tutto  il  proprio  edificio.

Nella concezione dello Stato, Einaudi pensa all'intervento governativo nei fatti economici, sia come regolatore «giuridico» del mercato, cioè come la forza che dà al mercato determinato la forma legale, in cui tutti gli agenti economici si muovano a «parità di condizioni giuridiche», sia all'intervento governativo come creatore di privilegi economici, come perturbatore della concorrenza a favore di determinati gruppi. Lo Spirito invece si riferisce alla sua concezione speculativa dello Stato, per cui l'individuo si identifica con lo Stato. Ma c'è un terzo aspetto della questione, che è sottinteso nell'uno e nell'altro scrittore, ed è quello per cui, identificandosi lo Stato con un gruppo sociale, l'intervento statale non solo avviene nel modo accennato dall'Einaudi, o nel modo voluto dallo Spirito, ma è una condizione preliminare di ogni attività economica collettiva, è un elemento del mercato determinato, se non è addirittura lo stesso mercato determinato, poiché è la stessa espressione politico-giuridica del fatto per cui una determinata merce (il lavoro) è preliminarmente deprezzata, è messa in condizioni di inferiorità competitiva,   paga --per   tutto   il   sistema   determinato.   Questo   punto è messo in luce dal Benini, e non si tratta certo di una scoperta; ma è interessante che il Benini vi sia giunto e in che modo vi è giunto. Poiché il Benini vi è giunto partendo da principi dell'economia  classica,  ciò  che  appunto  irrita  l'Einaudi.

Tuttavia l'Einaudi aveva, nella lettera pubblicata dai «Nuovi Studi», accennato alla «maravigliosa capacità» di Giovanni Vailati, di presentare un teorema economico (e anche filosofico) e la sua soluzione, nei diversi linguaggi scientifici sorti dal processo storico di sviluppo delle scienze, cioè aveva implicitamente ammesso la traducibilità reciproca di questi linguaggi: il Benini ha proprio fatto questo, ha presentato in linguaggio dell'economia liberale un fatto economico già presentato nel linguaggio della filosofia della prassi, pur con tutte le limitazioni e cautele del caso. (L'episodio Benini è da avvicinare all'episodio Spirito al Convegno di Ferrara.)

Ricordare a questo proposito l'affermazione di Engels a proposito della possibilità di giungere, anche partendo dalla concezione marginalista del valore, alle stesse conseguenze (se pure in forma volgare) di quelle a cui giunse l'economia critica. L'affermazione di Engels va analizzata in tutte le sue conseguenze : — una di esse mi pare questa, che se si vuole difendere la concezione critica dell'economia, bisogna sistematicamente insistere sul fatto che l'economia ortodossa tratta gli stessi problemi, in altro linguaggio, dimostrando tale identità di problemi trattati e dimostrando che la soluzione critica è superiore : insomma occorre che i testi siano sempre «bilingui», — il testo autentico, e la traduzione «volgare» o dell'economia  liberale,   a  lato,  o  interlineata.

Per mostrare il verbalismo delle nuove enunciazioni di «economia speculativa» del gruppo Spirito e C, basta ricordare che l'identificazione di individuo e Stato è anche l'identificazione di Stato e individuo; un'identità non muta se un termine è primo o secondo nell'ordine grafico e fonico, evidentemente. Perciò dire che occorre identificare individuo e Stato è meno che nulla, è puro vaniloquio, se le cose stessero in questi termini. Se individuo significa «egoismo» in senso gretto, «sordidamente ebraico», la identificazione non sarebbe che un modo metaforico di accentuare   l'elemento    «sociale»    dell'individuo,   ossia   di   affermare   che «egoismo» in senso economico significa qualcosa di diverso da (( grettamente egoista». Mi pare che anche in questo caso si tratta della assenza di una chiara enunciazione del concetto di Stato, della distinzione in esso tra società civile e società politica, tra dittatura ed egemonia, ecc.

Libertà e «automatismo» o razionalità.

Sono in contrasto la libertà e il così detto automatismo? L'automatismo è in contrasto con l'arbitrio, non con la libertà. L'automatismo è una libertà di gruppo,   in  opposizione  all'arbitrio  individualistico.

Quando Ricardo diceva «poste queste condizioni» si avranno queste conseguenze in economia, non rendeva «deterministica» l'economia stessa né la sua concezione era «naturalistica». Osservava che posta l'attività solidale e coordinata di un gruppo sociale, che operi secondo certi principi accolti per convinzione (liberamente) in vista di cèrti fini, si ha uno sviluppo che si può chiamare automatico e si può assumere come espressione di certe leggi riconoscibili e isolabili col metodo delle scienze esatte. In ogni momento c'è una scelta libera, che avviene secondo certe linee direttrici identiche per una gran massa di individui o volontà singole, in quanto queste sono diventate omogenee in un determinato clima etico-politico. Né è da dire che tutti operano in modo uguale: gli arbitri individuali sono anzi molteplici, ma la parte omogenea predomina e «detta legge». Che se l'arbitrio si generalizza, non è più arbitrio, ma spostamento della base dell'cc automatismo», nuova razionalità. Automatismo è niente altro che razionalità, ma nella parola «automatismo» è il tentativo di dare un concetto spoglio di ogni alone speculativo; è possibile che la parola razionalità finisca coll'attribuirsi all'automatismo nelle operazioni umane, mentre quella «automatismo» tornerà a indicare il movimento delle macchine, che diventano «automatiche» dopo l'intervento dell'uomo e il cui automatismo è solo una metafora verbale, come lo è detto delle  operazioni  umane.

Gli studi di storia economica.

Ricordare la polemica Einaudi-Croce (Einaudi nella «Riforma Sociale») quando usci la quarta edizione del volume Materialismo Storico ed Economia Marxistica con  la   nuova  prefazione  del   1917.

Può essere interessante studiare per i vari paesi come si sono formate  le varie correnti  di  studio e di ricerca di  storia economico-sociale, come si sono atteggiate ecc. Che sia esistita in Inghilterra una scuola di storia economica, legata all'economia classica, è certo, ma i suoi sviluppi ulteriori sono, oppure no, stati influenzati dal materialismo storico? (II libro del Seligman (L'interpretazione economica della storia) in quanto rientra in questa corrente e in quanto esprime appunto il bisogno di essa di fare i  conti  col   materialismo   storico?)

Cosi in Francia una corrente economico-giuridica, che ha operato sul materialismo storico (Guizot, Thierry, Mignet) ma è poi stata influenzata a sua volta (Henri Pirenne, e i moderni francesi Henri Sée, Hauser, ecc.). In Germania la corrente è più strettamente legata all'economia (con List). Ma Sombart ha subito l'influsso del materialismo storico ecc. Anche in Italia è più strettamente legata al materialismo storico (ma risente l'influsso di Romagnosi  e  Cattaneo).

Su Graziadei.

Per aver ragione di Graziadei occorre risalire ai concetti fondamentali della scienza economica, 1) Occorre fissare che la scienza economica parte dall'ipotesi di un mercato determinato, o di pura concorrenza o di puro monopolio, salvo a •stabilire poi quali variazioni può apportare a questa costante l'uno o l'altro elemento della realtà, che non è mai «pura» ; 2) che si studia la produzione di nuova ricchezza reale e non le ridistribuzioni di ricchezza esisterete (a meno che non si voglia proprio studiare questa ridistribuzione) cioè la produzione di valore e non la ridistribuzione del   valore   già   distribuito   sulla   base   della   produzione   determinata.

Su Graziadei bisognerà poi fare una accurata ricerca sulla biografia politica e scientifica. Il suo libro sul nitrato del Cile: egli non poteva pensare alla possibilità della produzione sintetica dell'azoto che ha battuto in breccia il monopolio cileno : sarà interessante rivedere le affermazioni perentorie che egli ha fatto su questo monopolio.

Per la sua posizione politica la risposta di Graziadei all'inchiesta del «Viandante» nel 1908-09 : Graziadei era dei più destri opportunisti. Opuscolo sul sindacato: il modello di Graziadei era il laburismo inglese, egli era un liquidatore del partito. La sua posizione del dopoguerra è un curioso fenomeno di psicologia di intellettuale, che è persuaso «intellettualmente» dell'asinità del riformismo politico e perciò se ne distacca e lo avversa. Ma altro è la sfera dell'intelligenza  astratta  e  altro  quella  della  pratica  e  dell'azione.

Nel campo scientifico trova, dopo il '22, il terreno di ritirata e il ritorno alla posizione di avanguerra. Si pone il problema: è leale ricercare nel passato di un uomo tutti gli errori che egli ha commesso per rimproverarglieli ai fini della polemica attuale? Non è umano che si sbagli? Non è anzi attraverso gli sbagli che si sono formate le attuali personalità scientifiche? E la biografia di ognuno non è in gran parte la lotta contro il passato e il superamento del passato?

Se uno oggi è areligioso, è lecito ricordargli che egli è stato battezzato ed ha, fino ad una certa età, osservato le regole del culto?

Ma il caso del Graziadei è ben diverso. Egli si è ben guardato dal criticare e superare il proprio passato. Nel campo economico egli si è limitato, per un certo tempo, a tacere : oppure ha sostenuto, a proposito del ritmo di accentramento del capitale nella campagna, che la «pratica attuale» dava ragione alle sue teorie sulla superiorità della mezzadria sull'impresa capitalistica accentrata, ciò che era lo stesso che dire sulla superiorità dell'artigianato sul sistema di fabbrica. Egli si basava sulla Romagna e anzi addirittura su Imola per queste sue conclusioni. Non teneva conto della quasi sparizione dell'obbligato nel periodo 1901-1910, come risulta dal censimento del 1911 e specialmente non teneva conto dei fattori politico-protezionistici che determinavano la situazione nella valle padana : l'Italia aveva tale scarsezza di capitali che sarebbe stato davvero miracoloso un largo impiego nell'agricoltura.

In politica egli se la cavò affermando sofisticamente di essere stato «storicista» (se domina il boia, bisogna fargli da tirapiedi — ecco lo storicismo di Graziadei), o «tempista», cioè di non aver mai avuto principi; nel periodo '95-914 «bisognava» essere laburisti, nel dopoguerra antilaburisti, ecc.

Ricordare l'insistenza noiosa di Graziadei a proposito dell'affermazione «le spese militari improduttive» che egli si vantava d'aver sempre avversato come sciocca e demagogica: sta a vedere come l'avversava allora, quando era favorevole all'andata al governo. Cosi è da notare la sua concezione pessimistico-pettegola sugli «italiani» in blocco, tutti senza carattere, vigliacchi, esseri civilmente inferiori, ecc. ecc., concezione stolta e banalmente disfattista, forma di antiretorica, che era poi una vera e propria retorica deprimente e da falso furbo, tipo Stenterello-Machiavelli. Che in Italia ci sia uno strato piccolo-borghese   particolarmente   repugnante   è   certamente   vero,   ma è questo strato tutta l'Italia? Sciocca generalizzazione. D'altronde anche questo fenomeno ha un'origine storica e non è affatto una fatale qualità dell'uomo italiano: il materialismo storico del Graziadei rassomiglia a quello di Ferri, di Niceforo, di Lombroso, di Sergi e si sa quale funzione storica questa concezione biologica della «barbarie» attribuita ai Meridionali (anzi ai Sudici) ha avuto nella politica della  classe dirigente italiana.

Il paese di Cuccagna di Graziadei.

Nel suo volumetto Capitale e salari il Graziadei si ricorda finalmente, dopo 35 anni, di riferirsi alla nota sul paese di Cuccagna a lui dedicata dal Croce nel saggio «Recenti interpretazioni della teoria marxista del valore» (p. 147 del voi. Materialismo storico, ecc., IV ediz.) e chiama «alquanto grossolano» il suo esempio analizzato dal Croce.

Realmente il caso del Graziadei di «una società in cui non già col sopralavoro, ma col non lavoro esista il profitto» è tipico anche per tutta la recente produzione del Graziadei e bene ha fatto il Rudas a riportarlo nell'inizio del suo saggio sul Prezzo e sopraprezzo pubblicato nell'«Unter dem Banner» del 1926 (non ricordo piò se il Rudas gli ha dato questo valore essenziale). Tutta la concezione del Graziadei è basata su questo sgangherato principio che le macchine e l'organizzazione materiale (di per sé) producano profitto, cioè valore: nel 1894 (articolo della «Critica Sociale» analizzato dal Croce) la sua ipotesi era totale (tutto il profitto esiste senza nessun lavoro); ora la sua ipotesi è parziale (non tutto il profitto esiste per il lavoro) ma la «grossolanità» (grazioso eufemismo chiamare solo «grossolana» l'ipotesi primitiva) rimane parzialmente. Tutto il modo di pensare è «grossolano», da volgare leguleio e non da economista. Col Graziadei bisogna proprio rifarsi ai principi fondamentali dell'economia, alla logica di questa scienza: il Graziadei è maestro nella piccola logica, nell'arte del cavillo e della casistica sofistica, ma non della grande logica, sia dell'economia, sia di ogni altra scienza del pensiero.

Lo stesso principio del Graziadei del paese di Cuccagna appare dall'introduzione della protezione doganale come elemento «creatore» di margini di profitto e di margini di salario: è dimostrato infatti (confr. letteratura antiprotezionista) che senza produrre nessun «valore» e senza far lavorare un solo operaio (lavorano solo le dattilografe   che   scrivono   i   certificati   di   azioni   inesistenti)   si   possono avere lauti «profitti», distribuire alti «dividendi» (Cfr.  per  es.  L.  E.  e  E.   Giretti,  Le  società  anonime a  catena,   «Riforma Sociale»,    del   gennaio-febbraio    1931); è da vedere se di questa attività «economica» debba occuparsi la scienza economica (sebbène essa sia «economica» nel senso crociano, come il brigantaggio, la camorra ecc.) o la magistratura penale.

Ricordare una polemica nella «Critica Sociale» tra il Graziadei e Luigi Negro (prima del '900, mi pare) in cui il Negro osservava che il Graziadei è portato ad accogliere come «esatte» e base di speculazione scientìfica le affermazioni pubbliche degli industriali sulla loro attività.

Vedere nel Gog di Papini (intervista con Ford, p. 24) le parole attribuite a Ford: «Fabbricare senza nessun operaio un numero sempre più grande di  oggetti che non costino  quasi nulla».

Per un compendio di economia critica.

È da riflettere su questo punto: come potrebbe e dovrebbe essere compilato modernamente un sommario di scienza critica economica che riproducesse il tipo rappresentato nel passato e per le passate generazioni dai compendi del Cafiero, del Deville, del Kautsky, dell'Aveling, del Fabietti, più modernamente del compendio del Borchardt (J.   Borchardt,   Das  Kapital  -   Gemeinverstiindliche  Ausgabe,   Berlin,   1922) e, in una serie distinta, dalla letteratura economica di divulgazione scolastica che nelle lingue occidentali è rappresentata dal Précis d'Economie politique di Lapidus e Ostrovitianov, ma che nella lingua originale deve essere rappresentato ormai da una quantità ragguardevole di compendi di diverso tipo e di mole molto variabile a secondo del pubblico cui i compendi stessi sono  dedicati.

Si osserva: 1) che oggi dopo l'avvenuta pubblicazione dell'edizione critica delle diverse opere di economia critica, il problema del rifacimento di tali compendi è divenuto di soluzione necessaria, scientificamente doverosa; 2) che il compendio del Borchardt, in quanto non è compilato sul solo I volume della Critica dell'Economia politica ma sui tre volumi, è superiore evidentemente a quelli del Deville, del Kautsky ecc. (lasciando da parte, per il momento, il valore intrinseco delle diverse trattazioni); 3) che il tipo del compendio moderno dovrebbe ancora essere più esteso di quello del Borchardt, in quanto dovrebbe tener conto di tutta la trattazione economica dovuta allo stesso autore e presentarsi come un compendio e una esposizione di tutto il corpo dottrinale dell'Economia crìtica e non solo come un sunto di determinate opere sia pure fondamentali; 4) che il metodo dell'esposizione non dovrebbe essere determinato dalle fonti letterarie date, ma dovrebbe nascere ed essere dettato dalle esigenze critiche e culturali di attualità cui si vuole dare una soluzione scientifica e organica; 5) che, pertanto, sono da escludere senz'altro i sunti pedissequi e materiali, ma tutto il materiale deve essere rifuso e riorganizzato in modo «originale», preferibilmente sistematico, secondo uno schema che faciliti «didatticamente» lo studio e l'appren4imento; 6) che tutto il corredo di esempi e di fatti concreti deve essere aggiornato e quelli contenuti nei testi originali devono e possono essere riferiti solo nella misura in cui la storia economica e la legislazione del paese per cui il compendio è fatto, non ne offrano di corrispondenti per un diverso sviluppo del processo storico o non cosi rilevanti ed espressivi; 7) che l'esposizione deve essere critica e polemica, nel senso che deve rispondere sia pure implicitamente e per sottinteso, all'impostazione che dei problemi economici è data, nel paese determinato, dalla cultura economica più diffusa e dagli economisti ufficiali e in auge. Il manuale del Lapidus e Ostrovitianov da questo punto di vista è «dogmatico», presenta le sue affermazioni e i suoi svolgimenti come se essi non fossero «contestati» e rigettati radicalmente da nessuno, ma fossero l'espressione di una scienza che dal periodo della lotta e della polemica per affermarsi e trionfare è già entrata nel periodo classico della sua espansione organica. Evidentemente questo non è il caso, invece. Il compendio deve essere appunto energicamente polemico ed aggressivo e non lasciare senza risposta (implicita e sottintesa nella propria autonoma impostazione, se cosi forse è meglio) ogni questione essenziale o che come essenziale è presentata dall'economia volgare, in modo da cacciare questa qui da tutti i suoi ripari e le sue difese e squalificarla al cospetto delle giovani generazioni di studiosi; 8) il compendio di scienza economica non può andare disgiunto da un corso di storia delle dottrine economiche. 11 cosi detto IV volume della Critica dell'Economia politica è appunto una storia delle dottrine economiche e con questo titolo appunto è stato tradotto in francese. Tutta la concezione dell'economia critica è storicistica (ciò che non vuol dire che essa debba confondersi con la cosi detta scuola storica dell'economia) e la sua trattazione   teorica   non  può   scompagnarsi   da  una   storia  della   scienza economica, il cui nucleo centrale oltre che nel detto IV volume può ricostruirsi in parte almeno da accenni contenuti dispersamente in tutta l'opera degli scrittori originari; 9) cosi non si può fare a meno di una sia pur breve introduzione generale che sulla traccia della prefazione alla 2a ed. del I voi. dia un'esposizione riassuntiva della filosofia della prassi e dei principi metodologici più importanti ed essenziali, estraendoli dall'insieme delle opere economiche, dove sono incorporati nella trattazione o dispersi e accennati quando se ne presenta  l'opportunità  concreta.

Nella concezione dello Stato, Einaudi pensa all'intervento governativo nei fatti economici, sia come regolatore «giuridico» del mercato, cioè come la forza che dà al mercato determinato la forma legale, in cui tutti gli agenti economici si muovano a «parità di condizioni giuridiche», sia all'intervento governativo come creatore di privilegi economici, come perturbatore della concorrenza a favore di determinati gruppi. Lo Spirito invece si riferisce alla sua concezione speculativa dello Stato, per cui l'individuo si identifica con lo Stato. Ma c'è un terzo aspetto della questione, che è sottinteso nell'uno e nell'altro scrittore, ed è quello per cui, identificandosi lo Stato con un gruppo sociale, l'intervento statale non solo avviene nel modo accennato dall'Einaudi, o nel modo voluto dallo Spirito, ma è una condizione preliminare di ogni attività economica collettiva, è un elemento del mercato determinato, ziati; lo Stato è lo strumento per adeguare la società civile alla struttura economica, ma occorre che lo Stato «voglia» far ciò, che cioè a guidare lo Stato siano i rappresentanti del mutamento avvenuto nella struttura economica. Aspettare che, per via di propaganda e di persuasione, la società civile si adegui alla nuova struttura, che il vecchio homo oeconomicus sparisca senza essere