I Avviamento allo studio della filosofia e del materialismo storico

Indice
Alcuni punti preliminari di riferimento (Quad. XVIII)
Problemi di filosofia e di storia
La discussione scientifica (Q. IlI)
Filosofia e storia (Q. IlI)
Filosofia « creativa » (Q III)
Importanza storica di una filosofia (Q. VII)
Il filosofo (Q. III)
Il linguaggio, le lingue, il senso comune (Q. III)
Che cosa è l'uomo? (1a parte: Q. III - 2a parte: Q. VII)
Progresso e divenire (1a parte: Q. III - 2a parte: Q. II)
L'individualismo (Q. II)
Esame del concetto di natura umana (Q. VII)
Filosofia e democrazia (Q. III)
Quantità e qualità (Q. III)
Teoria e pratica (0, XVIII)
Struttura e superstruttura (1a parte: Q. III - 2a parte: Q. XXVII)
Il termine di «catarsi» (Q. III)
Il «noumeno» kantiano (Q. III)
Storia e antistoria (1a parte: Q. III - 2a parte: Q. XX)
Filosofia speculativa (1a parte: Q. XVIII - 2a parte: Q. III)
« Obbiettività » della conoscenza (Q. XVIII)
Pragmatismo e politica (Q. IV)
Etica (Q. XVlll)
Scetticismo (Q. IX)
Concetto di «Ideologia» (1a parte: Q. XVIII - 2a parte: Q. VII)
La scienza e le ideologie « scientifiche » (Q. XVIII)
Gli strumenti logici del pensiero (Q. XVIII)
La metodologia di Mario Govi (Q. XVIII)
La dialettica come parte della logica formale e della retorica (Q. XIII)
Valore puramente strumentale della logica e della metodologia formali (0. XVIII)
La tecnica del pensare (Q. XVIII)
Esperanto filosofico e scientifico (Q. XVIII)
Traducibilità dei linguaggi scientìfici e filosofici (Q. XVIII)
Marx e Hegel (Q. XVI)

I.

ALCUNI PUNTI PRELIMINARI DI RIFERIMENTO

Occorre distruggere il pregiudizio molto diffuso che la filosofia sia un alcunché di molto difficile per il fatto che essa è l'attività intellettuale propria di una determinata categoria di scienziati specialisti o di filosofi professionali e sistematici. Occorre pertanto dimostrare preliminarmente che tutti gli uomini sono «filosofi», definendo i limiti e i caratteri di questa «filosofia spontanea», propria di «tutto il mondo», e cioè della filosofia che è contenuta: 1) nel linguaggio stesso, che è un insieme di nozioni e di concetti determinati e non già e solo di parole grammaticalmente vuote di contenuto; 2) nel senso comune e buon senso; 3) nella religione popolare e anche quindi in tutto il sistema di credenze, superstizioni, opinioni, modi di vedere e di operare che si affasciano in quello che generalmente si chiama «folclore».

Avendo dimostrato che tutti sono filosofi, sia pure a modo loro, inconsapevolmente, perché anche solo nella minima manifestazione di una qualsiasi attività intellettuale, il «linguaggio», è contenuta una determinata concezione del mondo, si passa al secondo momento, al momento della critica e della consapevolezza, cioè alla questione : — è preferibile «pensare» senza averne consapevolezza critica, in modo disgregato e occasionale, cioè «partecipare» a una concezione del mondo «imposta» meccanicamente dall'ambiente esterno, e cioè da uno dei tanti gruppi sociali nei quali ognuno è automaticamente coinvolto fin dalla sua entrata nel mondo cosciente (e che può essere il proprio villaggio o la provincia, può avere origine nella parrocchia e nell'«attività intellettuale» del curato o del vecchione patriarcale la cui «saggezza» detta legge, nella donnetta che ha ereditato la sapienza delle streghe o nel piccolo intellettuale inacidito nella propria stupidaggine e impotenza a operare) o è preferibile elaborare la propria concezione del mondo consapevolmente e criticamente e quindi, in connessione con tale lavorio del proprio cervello, scegliere la propria sfera di attività, partecipare attivamente alla produzione della storia del mondo, essere guida di se stessi e non già accettare passivamente e supinamente dall'esterno l'impronta alla propria personalità?

Nota I. Per la propria concezione del mondo si appartiene sempre a un determinato aggruppamento, e precisamente a quello di tutti gli elementi sociali che condividono uno stesso modo di pensare e di operare. Si è conformisti di un qualche conformismo, si è sempre uomini-massa o uomini-collettivi. La questione è questa? di che tipo storico è il conformismo, l'uomo-massa di cui si fa parte? Quando la concezione del mondo non è critica e coerente ma occasionale e disgregata, si appartiene simultaneamente a una molteplicità di uomini-massa, la propria personalità è composita in modo bizzarro: si trovano in essa elementi dell'uomo delle caverne e principi della scienza più moderna e progredita, pregiudizi di tutte le fasi storiche passate grettamente localistiche e intuizioni di una filosofia avvenire quale sarà propria del genere umano unificato mondialmente. Criticare la propria concezione del mondo significa dunque renderla unitaria e coerente e innalzarla fino al punto cui è giunto il pensiero mondiale più progredito. Significa quindi anche criticare tutta la filosofia finora esistita, in quanto essa ha lasciato stratificazioni consolidate nella filosofia popolare. L'inizio dell'elaborazione critica è la coscienza di quello che si è realmente, cioè un «conosci te stesso» come prodotto del processo storico finora svoltosi che ha lasciato in te stesso un'infinità di tracce accolte senza beneficio d'inventario. Occorre fare inizialmente un tale inventario.

Nota II. Non si può separare la filosofia dalla storia della filosofia e la cultura dalla storia della cultura. Nel senso più immediato e aderente, non si può essere filosofi, cioè avere una concezione del mondo criticamente coerente, senza la consapevolezza della sua storicità, della fase di sviluppo da essa rappresentata e del fatto che essa è in contraddizione con altre concezioni o con elementi di altre concezioni. La propria concezione del mondo risponde a determinati problemi posti dalla realtà, che sono ben determinati e «originali» nella loro attualità. Come è possibile pensare il presente e un ben determinato presente con un pensiero elaborato per problemi del passato spesso ben remoto e sorpassato? Se ciò avviene, significa che si è «anacronistici» nel proprio tempo, che si è dei fossili e non esseri modernamente viventi. O per lo meno che si è «compositi» bizzarramente. E infatti avviene che gruppi sociali che per certi aspetti esprimono la più sviluppata modernità, per altri sono in arretrato con la loro posizione sociale e pertanto sono incapaci di completa autonomia storica.

Nota III. Se è vero che ogni linguaggio contiene gli elementi di una concezione del mondo e di una cultura, sarà anche vero che dal linguaggio di ognuno si può giudicare la maggiore o minore complessità della sua concezione del mondo. Chi parla solo il dialetto o comprende la lingua nazionale in gradi diversi, partecipa necessariamente di una intuizione del mondo più o meno ristretta e provinciale, fossilizzata, anacronistica in confronto delle grandi correnti di pensiero che dominano la storia mondiale. I suoi interessi saranno ristretti, più o meno corporativi o economistici, non universali. Se non sempre è possibile imparare più lingue straniere per mettersi a contatto con vite culturali diverse, occorre almeno imparare bene la lingua nazionale. Una grande cultura può tradursi nella lingua di un'altra grande cultura, cioè una grande lingua nazionale storicamente ricca e complessa, può tradurre qualsiasi altra grande cultura, cioè essere una espressione mondiale. Ma un dialetto non può fare la stessa cosa.

Nota IV. Creare una nuova cultura non significa solo fare individualmente delle scoperte «originali», significa anche e specialmente diffondere criticamente delle verità già scoperte, «socializzarle» per così dire e pertanto farle diventare base di azioni vitali, elemento di coordinamento e di ordine intellettuale e morale. Che una massa di uomini sia condotta a pensare coerentemente e in modo unitario il reale presente è fatto «filosofico» ben più importante e «originale» che non sia il ritrovamento da parte di un «genio» filosofico di una nuova verità che rimane patrimonio di piccoli gruppi intellettuali.

Connessione tra il senso comune, la religione e la filosofia.

La filosofia è un ordine intellettuale, ciò che non possono essere né la religione né il senso comune. Vedere come, nella realtà, neanche religione e senso comune coincidono, ma la religione è un elemento del disgregato senso comune. Del resto «senso comune» è nome collettivo, come «religione» : non esiste un solo senso comune, che anche esso è un prodotto e un divenire storico. La filosofia è la critica e il superamento della religione e del senso comune e in tal senso coincide col «buon senso» che si contrappone al senso comune.

Relazioni tra scienza - religione - senso comune.

La religione e il senso comune non possono costituire un ordine intellettuale perché non possono ridursi a unità e coerenza neanche nella coscienza individuale per non parlare della coscienza collettiva: non possono ridursi a unità e coerenza «liberamente», perché «autoritativamente» ciò potrebbe avvenire come infatti è avvenuto nel passato entro certi limiti. Il problema della religione inteso, non nel senso confessionale ma in quello laico di unità di fede tra una concezione del mondo e una norma di condotta conforme : ma perché chiamare questa unità di fede «religione» e non chiamarla «ideologia» o addirittura «politica» ?

Non esiste infatti la filosofia in generale: esistono diverse filosofie o concezioni del mondo e si fa sempre una scelta tra di esse. Come avviene questa scelta? È questa scelta un fatto meramente intellettuale o più complesso? E non avviene spesso che tra il fatto intellettuale e la norma di condotta ci sia contraddizione? Quale sarà allora la reale concezione del mondo: quella logicamente affermata come fatto intellettuale, o quella che risulta dalla reale attività di ciascuno, che è implicita nel suo operare? E poiché l'operare è sempre un operare politico, non si può dire che la filosofia reale di ognuno è contenuta tutta nella sua politica? Questo contrasto tra il pensare e l'operare, cioè la coesistenza di due concezioni del mondo, una affermata a parole e l'altra esplicantesi nell'effettivo operare, non è dovuto sempre a malafede. La malafede può essere una spiegazione soddisfacente per alcuni individui singolarmente presi, o anche per gruppi più o meno numerosi, non è soddisfacente però quando il contrasto si verifica nella manifestazione di vita di larghe masse: allora esso non può non essere l'espressione di contrasti più profondi di ordine storico sociale.

Significa che un gruppo sociale, che ha una sua propria concezione del mondo, sia pure embrionale, che si manifesta nell'azione, e quindi saltuariamente, occasionalmente, cioè quando tal gruppo si muove come un insieme organico, — ha, per ragioni di sottomissione e subordinazione intellettuale, preso una concezione non sua a prestito da un altro gruppo e questa afferma a parole, e questa anche crede di seguire, perché la segue in «tempi normali», cioè quando la condotta non è indipendente e autonoma, ma appunto sottomessa e subordinata. Ecco quindi che non si può staccare la filosofia dalla politica e si può mostrare anzi che la scelta e la critica di una concezione del mondo è fatto politico anch'essa.

Occorre dunque spiegare come avviene che in ogni tempo coesistono molti sistemi e correnti di filosofia, come nascono, come si diffondono, perché nella diffusione seguono certe linee di frattura e certe direzioni, ecc. Ciò mostra quanto sia necessario sistemare criticamente e coerentemente le proprie intuizioni del mondo e della vita, fissando con esattezza cosa deve intendersi per «sistema» perché non sia capito nel senso pedantesco e professorale della parola. Ma questa elaborazione deve essere e può solo essere fatta nel quadro della storia della filosofia che mostra quale elaborazione il pensiero abbia subito nel corso dei secoli e quale sforzo collettivo sia costato il nostro attuale modo di pensare che riassume e compendia tutta questa storia passata, anche nei suoi errori e nei suoi deliri, che, d'altronde, per essere stati commessi nel passato ed essere stati corretti, non è detto non si riproducano nel presente e non domandino di essere ancora corretti.

Quale è l'idea che il popolo si fa della filosofia? Si può ricostruire attraverso i modi di dire del linguaggio comune. Uno dei più diffusi è quello di «prendere le cose con filosofia», che, analizzato, non è poi da buttar via del tutto. È vero che in esso è contenuto un invito implicito alla rassegnazione e alla pazienza, ma pare che il punto più importante sia invece l'invito alla riflessione, a rendersi conto e ragione che ciò che succede è in fondo razionale e che come tale occorre affrontarlo, concentrando le proprie forze razionali e non lasciandosi trascinare dagli impulsi istintivi e violenti. Si potrebbero raggruppare questi modi di dire popolari con le espressioni simili degli scrittori di carattere popolare — prendendole dai grandi vocabolari — in cui entrano i termini «filosofia» e «filosoficamente» e si potrà vedere che questi hanno un significato molto preciso, di superamento delle passioni bestiali ed elementari in una concezione della necessità che dà al proprio operare una direzione consapevole. È questo il nucleo sano nel senso comune, ciò che appunto potrebbe chiamarsi buon senso e che merita di essere sviluppato e reso unitario e coerente. Così appare che anche perciò non è possibile disgiungere quella che si chiama filosofia «scientifica» da quella filosofia «volgare» e popolare che è solo un insieme disgregato di idee e opinioni.

Ma a questo punto si pone il problema fondamentale di ogni concezione del mondo, di ogni filosofia che sia diventata un movimento culturale, una «religione», una «fede», cioè che abbia prodotto un'attività pratica e una volontà e in esse sia contenuta come «premessa» teorica implicita (una «ideologia» si potrebbe dire, se al termine ideologia si dà appunto il significato più alto di una concezione del mondo che si manifesta implicitamente nell'arte, nel diritto, nell'attività economica, in tutte le manifestazioni di vita individuali e collettive) — cioè il problema di conservare l'unità ideologica in tutto il blocco sociale che appunto da quella determinata ideologia è cementato e unificato. La forza delle religioni e specialmente della chiesa cattolica è consistita e consiste in ciò che esse sentono energicamente la necessità dell'unione dottrinale di tutta la massa «religiosa» e lottano perché gli strati intellettualmente superiori non si stacchino da quelli inferiori. La chiesa romana è stata sempre la più tenace nella lotta per impedire che «ufficialmente» si formino due religioni, quella degli «intellettuali» e quella delle «anime semplici». Questa lotta non è stata senza gravi inconvenienti per la chiesa stessa, ma questi inconvenienti sono connessi al processo storico che trasforma tutta la società civile e che in blocco contiene una critica corrosiva delle religioni; tanto più risalta la capacità organizzatrice nella sfera della cultura del clero e il rapporto astrattamente razionale e giusto che nella sua cerchia la chiesa ha saputo stabilire tra intellettuali e semplici. I gesuiti sono stati indubbiamente i maggiori artefici di questo equilibrio e per conservarlo essi hanno impresso alla chiesa un movimento progressivo che tende a dare certe soddisfazioni alle esigenze della scienza e della filosofia, ma con ritmo così lento e metodico che le mutazioni non sono percepite dalla massa dei semplici, sebbene esse appaiano «rivoluzionarie» e demagogiche agli «integralisti».

Una delle maggiori debolezze delle filosofie immanentistiche in generale consiste appunto nel non aver saputo creare una unità ideologica tra il basso e l'alto, tra i «semplici» e gli intellettuali. Nella storia della civiltà occidentale il fatto si è verificato su scala europea, col fallimento immediato del Rinascimento e in parte anche della Riforma nei confronti della chiesa romana. Questa debolezza si manifesta nella questione scolastica, in quanto dalle filosofie immanentistiche non è stato neppur tentato di costruire una concezione che potesse sostituire la religione nell'educazione infantile, quindi il sofisma pseudo-storicistico per cui pedagogisti areligiosi (aconfessionali) e in realtà atei, concedono l'insegnamento della religione perché la religione è la filosofia dell'infanzia dell'umanità che si rinnova in ogni infanzia non metaforica. L'idealismo si è anche mostrato avverso ai movimenti culturali di «andata verso il popolo», che si manifestarono nelle così dette Università popolari e istituzioni simili e non solo per i loro aspetti deteriori, perché in tal caso avrebbero solo dovuto cercare di far meglio. Tuttavia questi movimenti erano degni di interesse, e meritavano di essere studiati: essi ebbero fortuna, nel senso che dimostrarono da parte dei «semplici» un entusiasmo sincero e una forte volontà di innalzarsi a una superiore forma di ' cultura e di concezione del mondo. Mancava però in essi ogni organicità sia di pensiero filosofico, sia di saldezza organizzativa e di centralizzazione culturale; si aveva l'impressione che rassomigliassero ai primi contatti tra i mercanti inglesi e i negri dell'Africa: si dava merce di paccottiglia per avere pepite d'oro. D'altronde l'organicità di pensiero e la saldezza culturale poteva aversi solo se tra gli intellettuali e i semplici ci fosse stata la stessa unità che deve esserci tra teoria e pratica, se cioè gli intellettuali fossero stati organicamente gli intellettuali di quelle masse, se avessero cioè elaborato e reso coerenti i principi e i problemi che quelle masse ponevano con la loro attività pratica, costituendo così un blocco culturale e sociale. Si ripresentava la stessa questione già accennata : - un movimento filosofico è tale solo in quanto si applica a svolgere una cultura specializzata per ristretti gruppi di intellettuali o è invece tale solo in quanto, nel lavoro di elaborazione di un pensiero superiore al senso comune e scientificamente coerente, non dimentica mai di rimanere a contatto coi «semplici» e anzi in questo contatto trova la sorgente dei problemi da studiare e risolvere? Solo per questo contatto una filosofia diventa «storica», si depura degli elementi intellettualistici di natura individuale e si fa «vita». (Forse è utile «praticamente» distinguere la filosofia dal senso comune per meglio indicare il passaggio dall'uno all'altro momento; nella filosofia sono specialmente spiccati i caratteri di elaborazione individuale del pensiero; nel senso comune invece i caratteri diffusi e dispersi di un pensiero generico di una certa epoca in un certo ambiente popolare. Ma ogni filosofia tende a diventare senso comune di un ambiente anche ristretto (di tutti gli intellettuali). Si tratta pertanto di elaborare una filosofia che avendo già una diffusione o diffusività perché connessa' alla vita pratica e implicita in essa, diventi un rinnovato senso comune con la coerenza e il nerbo delle filosofie individuali: ciò non può avvenire se non è sempre sentita l'esigenza del contatto culturale coi «semplici».)

Una filosofia della prassi non può che presentarsi inizialmente in atteggiamento polemico e critico, come superamento del modo di pensare precedente e del concreto pensiero esistente (o mondo culturale esistente). Quindi innanzitutto come critica del «senso comune» (dopo essersi basata sul senso comune per dimostrare che «tutti» sono filosofi e che non si tratta di introdurre ex novo una scienza nella vita individuale di «tutti», ma di innovare e rendere «critica» un'attività già esistente) e quindi della filosofia degli intellettuali, che ha dato luogo alla storia della filosofia, e che, in quanto individuale (e si sviluppa infatti essenzialmente nell'attività di singoli individui particolarmente dotati) può considerarsi come le «punte» di progresso del senso comune, per lo meno del senso comune degli strati più colti della società, e attraverso questi anche del senso comune popolare. Ecco quindi che un avviamento allo studio della filosofia deve esporre sinteticamente i problemi nati nel processo di sviluppo della cultura generale, che si riflette solo parzialmente nella storia della filosofia, che tuttavia, in assenza di una storia del senso comune (impossibile a costruirsi per l'assenza di materiale documentario) rimane la fonte massima di riferimento - per criticarli, dimostrarne il valore reale (se ancora l'hanno) o il significato che hanno avuto come anelli superati di una catena e fissare i problemi nuovi attuali o l'impostazione attuale dei vecchi problemi.

Il rapporto tra filosofia «superiore» e senso comune è assicurato dalla «politica», così come è assicurato dalla politica il rapporto tra il cattolicismo degli intellettuali e quello dei «semplici». Le differenze nei due casi sono però fondamentali. Che la chiesa debba affrontare un problema dei «semplici» significa appunto che c'è stata rottura nella comunità dei «fedeli», rottura che non può essere sanata innalzando i «semplici» al livello degli intellettuali (la chiesa non si propone neppure questo compito, idealmente ed economicamente impari alle sue forze attuali) ma con una disciplina di ferro sugli intellettuali perché non oltrepassino certi limiti nella distinzione e non la rendano catastrofica e irreparabile. Nel passato queste «rotture» nella comunità dei fedeli erano sanate da forti movimenti di massa che determinavano o erano riassunti nella formazione di nuovi ordini religiosi intorno a forti personalità (Domenico, Francesco). (I movimenti ereticali del Medioevo come reazione simultanea al politicantismo della chiesa e alla filosofia scolastica che ne fu una espressione, sulla base dei conflitti sociali determinati dalla nascita dei Comuni, sono stati una rottura tra massa e intellettuali nella chiesa, «rimarginata» dalla nascita di movimenti popolari religiosi riassorbiti dalla chiesa nella formazione degli ordini mendicanti e in una nuova unità religiosa.)

Ma la Controriforma ha isterilito questo pullulare di forze popolari: la Compagnia di Gesù è l'ultimo grande ordine religioso, di origine reazionario e autoritario, con carattere repressivo e «diplomatico», che ha segnato, con la sua nascita, l'irrigidimento dell'organismo cattolico. I nuovi ordini sorti dopo hanno scarsissimo significato «religioso» e un grande significato «disciplinare» sulla massa dei fedeli, sono ramificazioni e tentacoli della Compagnia di Gesù o ne sono diventati tali, strumenti di «resistenza» per conservare le posizioni politiche acquisite, non forze rinnovatrici di sviluppo. Il cattolicismo è diventato «gesuitismo». Il modernismo non ha creato «ordini religiosi» ma un partito politico, la democrazia cristiana. (Ricordare l'aneddoto raccontato dallo Steed nelle sue Memorie del cardinale che al protestante inglese filo-cattolico spiega che i miracoli di san Gennaro sono articoli di fede per il popolino napoletano, non per gli intellettuali, che anche nell'Evangelo ci sono delle «esagerazioni» e alla domanda: «Ma non siamo cristiani?» risponde: «Noi siamo "prelati" cioè "politici" della Chiesa di Roma».)

La posizione della filosofia della prassi è antitetica a questa cattolica : la filosofia della prassi non tende a mantenere i «semplici» nella loro filosofia primitiva del senso comune, ma invece a condurli a una concezione superiore della vita. Se afferma l'esigenza del contatto tra intellettuali e semplici non è per limitare l'attività scientifica e per mantenere una unità al basso livello delle masse, ma appunto per costruire un blocco intellettuale-morale che renda politicamente possibile un progresso intellettuale di massa e non solo di scarsi gruppi intellettuali.

L'uomo attivo di massa opera praticamente, ma non ha una chiara coscienza teorica di questo suo operare che pure è un conoscere il mondo in quanto lo trasforma. La sua coscienza teorica anzi può essere storicamente in contrasto col suo operare. Si può quasi dire che egli ha due coscienze teoriche (o una coscienza contraddittoria), una implicita nel suo operare e che realmente lo unisce a tutti i suoi collaboratori nella trasformazione pratica della realtà e una superficialmente esplicita o verbale che ha ereditato dal passato e ha accolto senza critica. Tuttavia questa concezione «verbale» non è senza conseguenze: essa riannoda a un gruppo sociale determinato, influisce sulla condotta morale, sull'indirizzo della volontà, in modo più o meno energico, che può giungere fino a un punto in cui la contraddittorietà della coscienza non permette nessuna azione, nessuna decisione, nessuna scelta e produce uno stato di passività morale e politica. La comprensione critica di se stessi avviene quindi attraverso una lotta di «egemonie» politiche, di direzioni contrastanti, prima nel campo dell'etica, poi della politica per giungere a una elaborazione superiore della propria concezione del reale. La coscienza di essere parte di una determinata forza egemonica (cioè la coscienza politica) è la prima fase per una ulteriore e progressiva autocoscienza in cui teoria e pratica finalmente si unificano. Anche l'unità di teoria e pratica non è quindi un dato di fatto meccanico, ma un divenire storico, che ha la sua fase elementare e primitiva nel senso di «distinzione», di «distacco», di indipendenza appena istintivo, e progredisce fino al possesso reale e completo di una concezione del mondo coerente e unitaria. Ecco perché è da mettere in rilievo come lo sviluppo politico del concetto di egemonia rappresenta un grande progresso filosofico oltre che politico-pratico, perché necessariamente coinvolge e suppone una unità intellettuale e una etica conforme a una concezione del reale che ha superato il senso comune ed è diventata, sia pure entro limiti ancora ristretti, critica.

Tuttavia, nei più recenti sviluppi della filosofia della prassi, l'approfondimento del concetto di unità della teoria e della pratica non è ancora che ad una fase iniziale: rimangono ancora dei residui di meccanicismo, poiché si parla di teoria come «complemento», «accessorio» della pratica, di teoria come ancella della pratica. Pare giusto che anche questa questione debba essere impostata storicamente, e cioè come un aspetto della questione politica degli intellettuali. Autocoscienza critica significa storicamente e politicamente creazione di una élite di intellettuali : una massa umana non si «distingue» e non diventa indipendente «per sé», senza organizzarsi (in senso lato) e non c'è organizzazione senza intellettuali, cioè senza organizzatori e dirigenti, cioè senza che l'aspetto teorico del nesso teoria-pratica si distingua concretamente in uno strato di persone «specializzate» nell'elaborazione concettuale e filosofica. Ma questo processo di creazione degli intellettuali è lungo, difficile, pieno di contraddizioni, di avanzate e di ritirate, di sbandamenti e di riaggruppamenti, in cui la «fedeltà» della massa (e la fedeltà e la disciplina sono inizialmente la forma che assume l'adesione della massa e la sua collaborazione allo sviluppo dell'intero fenomeno culturale) è messa talvolta a dura prova. Il processo di sviluppo è legato a una dialettica intellettuali-massa; lo strato degli intellettuali si sviluppa quantitativamente e qualitativamente, ma ogni sbalzo verso una nuova «ampiezza» e complessità dello strato degli intellettuali è legato a un movimento analogo della massa dei semplici, che si innalza verso livelli superiori di cultura e allarga simultaneamente la sua cerchia di influenza, con punte individuali o anche di gruppi più o meno importanti verso lo strato degli intellettuali specializzati. Nel processo però si ripetono continuamente dei momenti in cui tra massa e intellettuali (o certi di essi, o un gruppo di essi) si forma un distacco, una perdita di contatto, quindi l'impressione di «accessorio» di complementare, di subordinato. L'insistere sull'elemento «pratica» del nesso teoria-pratica, dopo aver scisso, separato e non solo distinto i due elementi (operazione appunto meramente meccanica e convenzionale) significa che si attraversa una fase storica relativamente primitiva, una fase ancora economico-corporativa, in cui si trasforma quantitativamente il quadro generale della «struttura» e la qualità-superstruttura adeguata è in via di sorgere, ma non è ancora organicamente formata. È da porre in rilievo l'importanza e il significato che hanno, nel mondo moderno, i partiti politici nell'elaborazione e diffusione delle concezioni del "mondo in quanto essenzialmente elaborano l'etica e la politica conforme ad esse, cioè funzionano quasi da «sperimentatori» storici di esse concezioni. I partiti selezionano individualmente la massa operante e la selezione avviene sia nel campo pratico che in quello teorico congiuntamente, con un rapporto tanto più stretto tra teoria e pratica quanto più la concezione è vitalmente e radicalmente innovatrice e antagonistica dei vecchi modi di pensare. Perciò si può dire che i partiti sono gli elaboratori delle nuove intellettualità integrali e totalitarie, cioè il crogiolo dell'unificazione di teoria e pratica intesa come processo storico reale e si capisce come sia necessaria la formazione per adesione individuale e non del tipo «laburista» perché, se si tratta di dirigere organicamente «tutta la massa economicamente attiva», si tratta di dirigerla non secondo vecchi schemi ma innovando, e l'innovazione non può diventare di massa, nei suoi primi stadi, se non per il tramite di una élite in cui la concezione implicita nella umana attività sia già diventata in una certa misura coscienza attuale coerente e sistematica e volontà precisa e decisa.

Una di queste fasi si può studiare nella discussione attraverso la quale si sono verificati i più recenti sviluppi della filosofia della prassi, discussione riassunta in un articolo di D. S. Mirski, collaboratore della «Cultura». (D. S. Mirsky, Il posto del Dostojevs\ij nella letteratura russa. «La Cultura», 1931 (n. 2, febb.), pp. 100-114. Il Mirsky ha pubblicato anche un articolo (Demo\ratie und Partei im Bolschewismus) nella raccolta «Demokratie und Par-tei», a cura di P. R. Rohden, Wien, 1932, della quale parla il Glaeser, Bibliografia Fascista, 1933 [Nota della Redazione].)

Si può vedere come sia avvenuto il passaggio da una concezione meccanicistica e puramente esteriore a una concezione attivistica, che si avvicina di più, come si è osservato, a una giusta comprensione dell'unità di teoria e pratica, sebbene non ne abbia ancora attinto tutto il significato sintetico. Si può osservare come l'elemento deterministico, fatalistico, meccanicistico sia stato un «aroma» ideologico immediato della filosofia della prassi, una forma di religione e di eccitante (ma al modo degli stupefacenti), resa necessaria e giustificata storicamente dal carattere «subalterno» di determinati strati sociali.

Quando non si ha l'iniziativa nella lotta e la lotta stessa finisce quindi con l'identificarsi con una serie di sconfitte, il determinismo meccanico diventa una forza formidabile di resistenza morale, di coesione, di perseveranza paziente e ostinata. «Io sono sconfitto momentaneamente, ma la forza delle cose lavora per me a lungo andare, ecc.». La volontà reale si traveste in un atto di fede, in una certa razionalità della storia, in una forma empirica e primitiva di finalismo appassionato che appare come un sostituto della predestinazione, della provvidenza, ecc. delle religioni confessionali. Occorre insistere sul fatto che anche in tal caso esiste realmente una forte attività volitiva, un intervento diretto sulla «forza delle cose» ma appunto in una forma implicita, velata, che si vergogna di se stessa e pertanto la coscienza è contraddittoria, manca di unità critica ecc. Ma quando il «subalterno» diventa dirigente e responsabile dell'attività economica di massa, il meccanicismo appare a un certo punto un pericolo imminente, avviene una revisione di tutto il modo di pensare perché è avvenuto un mutamento nel modo sociale di essere. I limiti e il dominio della «forza delle cose» vengono ristretti perché? perché, in fondo, se il subalterno era ieri una cosa, oggi non è più una cosa ma una persona storica, un protagonista, se ieri era irresponsabile perché «resistente» a una volontà estranea, oggi sente di essere responsabile perché non più resistente ma agente e necessariamente attivo e intraprendente. Ma anche ieri era egli mai stato mera «resistenza», mera «cosa», mera «irresponsabilità» ? Certamente no, ed è anzi da porre in rilievo come il fatalismo non sia che un rivestimento da deboli di una volontà attiva e reale. Ecco perché occorre sempre dimostrare la futilità del determinismo meccanico, che, spiegabile come filosofia ingenua della massa e solo in quanto tale elemento intrinseco di forza, quando viene assunto a filosofia riflessa e coerente da parte degli intellettuali, diventa causa di passività, di imbecille autosufficienza, e ciò senza aspettare che il subalterno sia diventato dirigente e responsabile. Una parte della massa anche subalterna è sempre dirigente e responsabile e la filosofia della parte precede sempre la filosofia del tutto non solo come anticipazione teorica, ma come necessità attuale.

Che la concezione meccanicistica sia stata una religione di subalterni appare da un'analisi dello sviluppo della religione cristiana, che in un certo periodo storico e in condizioni storiche determinate è stata e continua ad essere una «necessità», una forma necessaria della volontà delle masse popolari, una forma determinata di razionalità del mondo e della vita e dette i quadri generali per l'attività pratica reale. In questo brano di un articolo della «Civiltà Cattolica» (Individualismo pagano e individualismo cristiano, fase, del 5 marzo 1932) mi pare bene espressa questa funzione del cristianesimo : «La fede in un sicuro avvenire, nell'immortalità dell'anima destinata alla beatitudine, nella sicurezza di poter arrivare al godimento eterno, fu la molla dì propulsione per un lavoro di intensa perfezione interna, e di elevazione spirituale. Il vero individualismo cristiano ha trovato qui l'impulso alle sue vittorie. Tutte le forze del cristiano furono raccolte intorno a questo fine nobile. Liberato dalle fluttuazioni speculative che snervano l'anima nel dubbio, e illuminato da principi immortali, l'uomo senti rinascere le speranze; sicuro che una forza superiore lo sorreggeva nella lotta contro il male, egli fece violenza a se stesso e vinse il mondo». Ma anche in questo caso, è il cristianesimo ingenuo che si intende; non il cristianesimo gesuitizzato, divenuto un puro narcotico per le masse popolari.

Ma la posizione del calvinismo, con la sua concezione ferrea della predestinazione e della grazia, che determina una vasta espansione di spirito di iniziativa (o diventa la forma di questo movimento) è ancora più espressiva e significativa. ( A questo proposito si può vedere Max Weber, L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, pubblicato nei «Nuovi Studi», fascicoli del 1931 e segg., e il libro del Groethuysen sulle origini religiose della borghesia in Francia [Origìnes de l'esprit bourgeois en France. 1: L'Èglise et la bourgeoisie, Paris, 1927 (ÌV. d. R.)].

Perché e come si diffondono, diventando popolari, le nuove concezioni del mondo? In questo processo di diffusione (che è nello stesso tempo di sostituzione del vecchio e molto spesso di combinazione tra il nuovo e il vecchio) influiscono (e come e in che misura) la forma razionale in cui la nuova concezione è esposta e presentata, l'autorità (in quanto sia riconosciuta ed apprezzata almeno genericamente) dell'espositore e dei pensatori e scienziati che l'espositore chiama in suo sostegno, l'appartenere alla stessa organizzazione di chi sostienela nuova concezione (dopo però essere entrati nell'organizzazione per altro motivo che non sia il condividere la nuova concezione)? Questi elementi in realtà variano a seconda del gruppo sociale e del livello culturale del gruppo dato. Ma la ricerca interessa specialmente per ciò che riguarda le masse popolari, che più difficilmente mutano di concezioni, e che non le mutano mai, in ogni caso, accettandole nella forma «pura», per dir così, ma solo e sempre come combinazione più o meno eteroclita e bizzarra. La forma razionale, logicamente coerente, la completezza del ragionamento che non trascura nessun argomento positivo o negativo di un qualche peso, ha la sua importanza, ma è ben lontana dall'essere decisiva; essa può essere decisiva in via subordinata, quando la persona data è già in condizioni di crisi intellettuale, ondeggia tra il vecchio e il nuovo, ha perduto la fede nel vecchio e ancora non si è decisa per il nuovo ecc.

Così si può dire per l'autorità dei pensatori e scienziati. Essa è molto grande nel popolo, ma di fatto ogni concezione ha i suoi pensatori e scienziati da porre innanzi e l'autorità è divisa; inoltre è possibile per ogni pensatore distinguere, porre in dubbio che abbia proprio detto in tal modo, ecc. Si può concludere che il processo di diffusione delle concezioni nuove avviene per ragioni politiche, cioè in ultima istanza sociali, ma che l'elemento formale, della logica coerenza, l'elemento autoritativo e l'elemento organizzativo hanno in questo processo una funzione molto grande subito dopo che l'orientamento generale è avvenuto, sia nei singoli individui che in gruppi numerosi. Da ciò si conclude però che nelle masse in quanto tali, la filosofia non può essere vissuta che come una fede. Si immagini del resto la posizione intellettuale di un uomo del popolo; egli si è formato delle opinioni, delle convinzioni, dei criteri di discriminazione e delle norme di condotta. Ogni sostenitore di un punto di vista contrastante al suo, in quanto è intellettualmente superiore, sa argomentare le sue ragioni meglio di lui, lo mette in sacco logicamente, ecc.; dovrebbe perciò l'uomo del popolo mutare le sue convinzioni? Perché nell'immediata discussione non sa farsi valere? ma allora gli potrebbe capitare di dover mutare una volta al giorno, cioè ogni volta che incontra un avversario ideologico intellettualmente superiore. Su quali elementi si fonda dunque la sua filosofia? e specialmente la sua filosofia nella forma che per lui ha maggiore importanza di norma di condotta? L'elemento più importante è indubbiamente di carattere non razionale, di fede. Ma in chi e che cosa? Specialmente nel gruppo sociale al quale appartiene in quanto la pensa diffusamente come lui: l'uomo del popolo pensa che in tanti non si può sbagliare, così in tronco, come l'avversario argomentatore vorrebbe far credere; che egli stesso, è vero, non è capace di sostenere e svolgere le proprie ragioni come l'avversario le sue, ma che nel suo gruppo c'è chi questo saprebbe fare, certo anche meglio di quel determinato avversario ed egli ricorda infatti di aver sentito esporre diffusamente, coerentemente, in modo che egli ne è rimasto convinto, le ragioni della sua fede. Non ricorda le ragioni in concreto e non saprebbe ripeterle, ma sa che esistono perché le ha sentite esporre e ne è rimasto convinto. L'essere stato convinto una volta in modo folgorante è la ragione permanente del permanere della convinzione, anche se essa non si sa più argomentare.

Ma queste considerazioni conducono alla conclusione di una estrema labilità nelle convinzioni nuove delle masse popolari, specialmente se queste nuove convinzioni sono in contrasto con le convinzioni (anche nuove) ortodosse, socialmente conformiste secondo gli interessi generali delle classi dominanti. Si può vedere questo riflettendo alle fortune delle religioni e delle chiese. La religione o una determinata chiesa mantiene la sua comunità di fedeli (entro certi limiti delle necessità dello sviluppo storico generale) nella misura in cui intrattiene permanentemente e organizzatamente la fede propria, ripetendone l'apologetica indefessamente, lottando in ogni momento e sempre con argomenti simili, e mantenendo una gerarchia di intellettuali che alla fede diano almeno l'apparenza della dignità del pensiero. Ogni volta che la continuità dei rapporti tra chiesa e fedeli è stata interrotta violentemente, per ragioni politiche, come è avvenuto durante la Rivoluzione francese, le perdite subite dalla chiesa sono state incalcolabili e, se le condizioni di difficile esercizio delle pratiche abitudinarie si fossero protratte oltre certi limiti di tempo, è da pensare che tali perdite sarebbero state definitive e una nuova religione sarebbe sorta, come del resto in Francia è sorta in combinazione col vecchio cattolicismo. Se ne deducono determinate necessità per ogni movimento culturale che tenda a 'sostituire il senso comune e le vecchie concezioni del mondo in generale: 1) di non stancarsi mai dal ripetere i propri argomenti (variandone letterariamente la forma) : la ripetizione è il mezzo didattico più efficace per operare sulla mentalità popolare; 2) di lavorare incessantemente per elevare intellettualmente sempre più vasti strati popolari, cioè per dare personalità all'amorfo elemento di massa, ciò che significa, di lavorare a suscitare élites di intellettuali di un tipo nuovo che sorgano direttamente dalla massa pur rimanendo a contatto con essa per diventare le «stecche» del busto. Questa seconda necessità, se soddisfatta, è quella che realmente modifica il «panorama ideologico» di un'epoca. Né, d'altronde, queste élites possono costituirsi e svolgersi senza che nel loro interno si verifichi una gerarchizzazione di autorità e di competenza intellettuale, che può' culminare in un grande filosofo individuale, se questo è capace di rivivere concretamente le esigenze della massiccia comunità ideologica, di comprendere che essa non può avere la snellezza di movimento propria di un cervello individuale e pertanto riesce a elaborare formalmente la dottrina collettiva nel modo più aderente e adeguato ai modi di pensare di un pensatore collettivo.

È evidente che una costruzione di massa di tal genere non può avvenire «arbitrariamente», intorno a una qualsiasi ideologia, per la volontà formalmente costruttiva di una personalità o di un gruppo che se lo proponga per fanatismo delle proprie convinzioni filosofiche o religiose. L'adesione di massa a una ideologia o la non adesione è il modo con cui si verifica la critica reale della razionalità e storicità dei modi dì pensare. Le costruzioni arbitrarie sono più o meno rapidamente eliminate dalla competizione storica, anche se talvolta, per una combinazione di circostanze immediate favorevoli, riescono a godere di una tal quale popolarità, mentre le costruzioni che corrispondono alle esigenze di un periodo storico complesso e organico finiscono sempre con l'imporsi e prevalere anche se attraversano molte fasi intermedie in cui il loro affermarsi avviene solo in combinazioni più o meno bizzarre ed eteroclite.

Questi svolgimenti pongono molti problemi, i più importanti dei quali si riassumono nel modo e nella qualità dei rapporti tra i vari strati intellettualmente qualificati, cioè nell'importanza e nella funzione che deve e può avere l'apporto creativo dei gruppi superiori in connessione con la capacità organica di discussione e di svolgimento di nuovi concetti critici da parte degli strati subordinati intellettualmente. Si tratta cioè di fissare i limiti della libertà di discussione e di propaganda, libertà che non deve essere intesa nel senso amministrativo e poliziesco, ma nel senso di autolimite che i dirigenti pongono alla propria attività ossia, in senso proprio, di fissazione di un indirizzo dì politica culturale. In altre parole: chi fisserà i «diritti della scienza» e i limiti della ricerca scientifica e potranno questi diritti e questi limiti essere propriamente fissati? Pare necessario che il lavorio di ricerca di nuove verità e di migliori, più coerenti e chiare formulazioni delle verità stesse sia lasciato all'iniziativa libera dei singoli scienziati, anche se essi continuamente ripongono in discussione gli stessi principi che paiono i più essenziali. Non sarà del resto difficile mettere in chiaro quando tali iniziative di discussione abbiano motivi interessati e non di carattere scientìfico. Non è del resto impossibile pensare che le iniziative individuali siano disciplinate e ordinate, in modo che esse passinoattraverso il crivello di accademie o istituti culturali di vario genere e solo dopo essere state selezionate diventino pubbliche, ecc.

Sarebbe interessante studiare in concreto, per un singolo paese, l'organizzazione culturale che tiene in movimento il mondo ideologico ed esaminarne il funzionamento pratico. Uno studio del rapporto numerico tra il personale che professionalmente è dedito al lavoro attivo culturale e la popolazione dei singoli paesi sarebbe anche utile, con un approssimativo calcolo delle forze libere. La scuola, in tutti i suoi gradi, e la Chiesa sono le due maggiori organizzazioni culturali in ogni paese, per il numero del personale che occupano. I giornali, le riviste e l'attività libraria, le istituzioni scolastiche private, sia in quanto integrano la scuola di Stato, sia come istituzioni di cultura del tipo di Università popolare. Altre professioni incorporano nella loro attività specializzata una frazione culturale non indifferente, come quella dei medici, degli ufficiali dell'esercito, della magistratura. Ma è da notare che in tutti i paesi, sia pure in misura diversa, esiste una grande frattura tra le masse popolari e i gruppi intellettuali, anche quelli più numerosi e più vicini alla periferia nazionale, come i maestri e i preti. E che ciò avviene perché, anche dove i governanti ciò affermano a parole, lo Stato come tale non ha una concezione unitaria, coerente e omogenea, per cui i gruppi intellettuali sono disgregati tra strato e strato e nella sfera dello stesso strato. L'università, eccetto che in alcuni paesi, non esercita nessuna funzione unificatrice; spesso un pensatore libero ha più influsso di tutta la istituzione universitaria eccetera.

A proposito della funzione storica svolta dalla concezione fatalistica della filosofia della prassi si potrebbe fare un elogio funebre di essa, rivendicandone la utilità per un certo periodo storico ma appunto per ciò sostenendo- la necessità di seppellirla con tutti gli onori del caso. Si potrebbe veramente paragonare la sua funzione a quella della teoria della grazia e della predestinazione per gli inizi del mondo moderno che poi ha però culminato con la filosofia classica tedesca e con la sua concezione della libertà come coscienza della necessità. Essa è stata un surrogato popolare del grido «Dio lo vuole», tuttavia anche su questo piano primitivo ed elementare era un inizio di concezione più moderna e feconda di quella contenuta nel «Dio lo vuole» o nella teoria della grazia. È possibile che «formalmente» una nuova concezione si presenti in altra veste che quella rozza e incondita dì una plebe? E tuttavia lo storico, con tutta la prospettiva necessaria, riesce a fissare e a capire che gli inizi di un mondo nuovo, sempre aspri e pietrosi, sono superiori al declinare di un mondo in agonia e ai canti del cigno che esso produce. (II deperimento del «fatalismo» e del «meccanicismo» indica una grande svolta storica; perciò la grande impressione fatta dallo studio riassuntivo del Mir-ski. Ricordi che esso ha destato; ricordare a Firenze nel novembre 1917 la discussione con l'avv. Mario Trozzi e il primo accenno di bergsonismo, di volontarismo, ecc. Si potrebbe fare un quadro semiserio di come questa concezione realmente si presentava. Ricordare anche la discussione col prof.' Presutti a Roma nel giugno 1924. Paragone col capitano Giulietti fatto da G. M. Serrati e che per lui era decisivo e di condanna capitale. Per Serrati, Giulietti era come il confuciano per il taoista, il chinese del Sud, mercante attivo e operoso per il letterato mandarino del Nord che guardava con supremo disprezzo da illuminato e da saggio per cui la vita non ha più misteri questi omiciattoli del Sud che credevano coi loro movimenti irrequieti di formiche di poter forzare la «via». Discorso di Claudio Treves sull'espiazione. C'era in questo discorso un certo spirito da profeta biblico: chi aveva voluto e fatto la guerra, chi aveva sollevato il mondo dai suoi cardini ed era quindi responsabile del disordine del dopoguerra doveva espiare portando la responsabilità di questo disordine stesso. Avevano peccato di «volontarismo», dovevano essere puniti nel loro peccato ecc. C'era una certa grandezza sacerdotale in questo discorso, uno stridore di maledizioni che dovevano impietrire di spavento e invece furono una grande consolazione, perché indicavano che il becchino non era ancora pronto e Lazzaro poteva risorgere.)

PROBLEMI DI FILOSOFIA E DI STORIA

La discussione scientifica.

Nell'impostazione dei problemi storico-critici, non bisogna concepire la discussione scientifica come un processo giudiziario, in cui c'è un imputato e c'è un procuratore che, per obbligo d'ufficio, deve dimostrare che l'imputato è colpevole e degno di essere tolto dalla circolazione. Nella discussione scientifica, poiché si suppone che l'interesse sia la ricerca della verità e il progresso della scienza, si dimostra più «avanzato» chi si pone dal punto di vista che l'avversario può esprimere un'esigenza che deve essere incorporata, sia pure come un momento subordinato, nella propria costruzione. Comprendere e valutare realisticamente la posizione e le ragioni dell'avversario (e talvolta è avversario tutto il pensiero passato) significa appunto essersi liberato dalla prigione delle ideologie (nel senso deteriore, di cieco fanatismo ideologico), cioè porsi da un punto di vista «critico», l'unico fecondo nella ricerca scientifica.

Filosofia e storia.

Cosa occorra intendere per filosofia, per filosofia in un'epoca storica, e quale sia l'importanza e il significato delle filosofie dei filosofi in ognuna di tali epoche storiche. Assunta la definizione che B. Croce dà della religione, cioè di una concezione del mondo che sia diventata norma di vita, poiché norma di vita non s'intende in senso libresco ma attuata nella vita pratica, la maggior parte degli uomini sono filosofi in quanto operano praticamente e nel loro pratico operare (nelle linee direttive della loro condotta) è contenuta implicitamente una concezione del mondo, una filosofia. La storia della filosofia come si intende comunemente, cioè come storia delle filosofie dei filosofi, è la storia dei tentativi e delle iniziative ideologiche di una determinata classe di persone per mutare, correggere, perfezionare le concezioni del mondo esistenti in ogni determinata epoca e per mutare quindi le conformi e relative norme di condotta, ossia per mutare la attività pratica nel suo complesso.

Dal punto di vista che a noi interessa, lo studio della storia e della logica delle diverse filosofie dei filosofi non è sufficiente. Almeno come indirizzo metodico, occorre attirare l'attenzione sulle altre parti della storia della filosofia; cioè sulle concezioni del mondo delle grandi masse, su quelle dei più ristretti gruppi dirigenti (o intellettuali) e infine sui legami tra questi vari complessi culturali e la filosofia dei filosofi. La filosofia di un'epoca non è la filosofia di uno o altro filosofo, di uno o altro gruppo di intellettuali, di una o altra grande partizione delle masse popolari : è una combinazione di tutti questi elementi che culmina in una determinata direzione, in cui il suo culminare diventa norma d'azione collettiva, cioè diventa «storia» concreta e completa (integrale).

La filosofia di un'epoca storica non è dunque altro che la «storia» di quella stessa epoca, non è altro che la massa di variazioni che il gruppo dirigente è riuscito a determinare nella realtà precedente : storia e filosofia sono inscindibili in questo senso, formano «blocco». Possono però essere «distinti» gli elementi filosofici propriamente detti, e in tutti i loro diversi gradi : come filosofia dei filosofi, come concezioni dei gruppi dirigenti (cultura filosofica) e come religioni delle grandi masse, e vedere come in ognuno di questi gradi si abbia a che fare con forme diverse di «combinazione» ideologica.

Filosofia «creativa».

Cosa è la filosofia? Un'attività puramente ricettiva o tutto al più ordinatrice, oppure una attività assolutamente creativa? Occorre definire cosa s'intende per «ricettivo», «ordinatore», «creativo». «Ricettivo» implica la certezza di un mondo esterno assolutamente immutabile, che esiste «in generale», obbiettivamente nel senso volgare del termine. «Ordinatore» si avvicina a «ricettivo» : sebbene implichi un'attività del pensiero, questa attività è limitata e angusta. Ma cosa significa «creativo» ? Significherà che il mondo esterno è creato dal pensiero? Ma da qual pensiero e di chi? Si può cadere nel solipsismo e infatti ogni torma di idealismo cade nel solipsismo necessariamente. Per sfuggire al solipsismo e nello stesso tempo alle concezioni meccanicistiche che sono implicite nella concezione del pensiero come attività ricettiva e ordinatrice, occorre porre la questione «storicisticamente» e nello stesso tempo porre a base della filosofia la «volontà» (in ultima analisi l'attività pratica o politica), ma una volontà razionale, non arbitraria, che si realizza in quanto corrisponde a necessità obbiettive storiche, cioè in quanto è la stessa storia universale nel momento della sua attuazione progressiva; se questa volontà è rappresentata inizialmente da un singolo individuo, la sua razionalità è documentata da ciò che essa viene accolta dal gran numero, e accolta permanentemente, cioè diventa una cultura, un «buon senso», una concezione del mondo, con una etica conforme alla sua struttura. Fino alla filosofia classica tedesca, la filosofia fu concepita come attività ricettiva o al massimo ordinatrice, cioè fu concepita come conoscenza di un meccanismo obbiettivamente funzionante all'infuori dell'uomo. La filosofia classica tedesca introdusse il concetto di «creatività» del pensiero, ma in senso idealistico e speculativo. Pare che solo la filosofia della prassi abbia fatto fare un passo avanti al pensiero, sulla base, della filosofia classica tedesca, evitando ogni tendenza al solipsismo, storicizzando il pensiero in quanto lo assume come concezione del mondo, come «buon senso» diffuso nel gran numero (e tale diffusione non sarebbe appunto pensabile senza la razionalità o storicità) e diffuso in modo tale da convertirsi in norma attiva di condotta. Creativo occorre intenderlo quindi nel senso «relativo», di pensiero che modifica il modo di sentire del maggior numero e quindi la realtà stessa che non può essere pensata senza questo maggior numero. Creativo anche nel senso che insegna come non esista una «realtà» per sé stante, in sé e per sé, ma in rapporto storico con gli uomini che la modificano, ecc.

Importanza storica di una filosofia.

Molte ricerche e studi intorno al significato storico delle diverse filosofie sono assolutamente sterili e cervellotici perché non si tiene conto del fatto che molti sistemi filosofici sono espressioni puramente (o quasi), individuali e che la parte che di essi può chiamarsi storica è spesso minima e annegata in un complesso di astrazioni di origine puramente razionale e astratta. Si può dire che il valore storico di una filosofia può essere «calcolato» dall'efficacia «pratica» che essa ha conquistato (e «pratica» deve essere intesa in senso largo). Se è vero che ogni filosofia è l'espressione di una società, dovrebbe reagire sulla società, determinare certi effetti, positivi e negativi; la misura in cui appunto reagisce e la misura della sua portata storica, del suo non essere «elucubrazione» individuale, ma «fatto storico».

Il filosofo.

Posto il principio che tutti gli uomini sono «filosofi», che cioè tra i filosofi professionali o «tecnici» e gli altri uomini non c'è differenza «qualitativa» ma solo «quantitativa» (e in questo caso «quantità» ha un significato suo particolare, che non può essere confuso con somma aritmetica, poiché indica maggiore o minore «omogeneità», «coerenza», «logicità» ecc., cioè quantità di elementi qualitativi), è tuttavia da vedere in che consista propriamente la differenza. Così non sarà esatto chiamare «filosofia» ogni tendenza di pensiero, ogni orientamento generale ecc. e neppure ogni «concezione del mondo e della vita». Il filosofo si potrà chiamare «un operaio qualificato» in confronto ai manovali, ma neanche questo è esatto, perché nell'industria, oltre al manovale e all'operaio qualificato, c'è l'ingegnere, il quale non solo conosce il mestiere praticamente, ma lo conosce teoricamente e storicamente. Il filosofo professionale o tecnico non solo «pensa» con maggior rigore logico, con maggiore coerenza, con maggiore spirito di sistema degli altri uomini, ma conosce tutta la storia del pensiero, cioè sa rendersi ragione dello sviluppo che il pensiero ha avuto fino a lui ed è in grado di riprendere i problemi dal punto in cui essi si trovano dopo aver subito il massimo di tentativo di soluzione ecc. Ha nel campo del pensiero la stessa funzione che nei diversi campi scientifici hanno gli specialisti.

Tuttavia c'è una differenza tra il filosofo specialista e gli altri specialisti: che il filosofo specialista si avvicina più agli altri uomini di ciò che avvenga per gli altri specialisti. L'avere fatto del filosofo specialista una figura simile, nella scienza, agli altri specialisti, è appunto ciò che ha determinato la caricatura del filosofo. Infatti si può immaginare un entomologo specialista, senza che tutti gli altri uomini siano «entomologhi» empirici, uno specialista della trigonometria, senza che la maggior parte degli altri uomini si occupino di trigonometria ecc. (si possono trovare scienze raffinatissime, specializzatissime, necessarie, ma non perciò «comuni»), ma non si può pensare nessun uomo che non sia anche filosofo, che non pensi, appunto perché il pensare è proprio dell'uomo come tale (a meno che non sia patologicamente idiota).

Il linguaggio, le lingue, il senso comune.

In che consiste esattamente il pregio di quello che suol chiamarsi «senso comune» o <c buon senso» ? Non solamente nel fatto che, sia pure implicitamente, il senso comune impiega il principio di causalità, ma nel fatto molto più ristretto, che in una serie di giudizi il senso comune identifica la causa esatta, semplice e alla mano, e non si lascia deviare da arzigogolature e astruserie metafisiche, pseudo-profonde, pseudoscientifiche ecc. Il «senso comune» non poteva non essere esaltato nei secoli XVII e XVIII, quando si reagì al principio di autorità rappresentato dalla Bibbia e da Aristotile: si scopri infatti che nel «senso comune» c'era una certa dose di «sperimentalismo» e di osservazione diretta della realtà, sia pure empirica e limitata. Anche oggi, in rapporti simili, si ha lo stesso giudizio di pregio del senso comune, sebbene la situazione sia mutata e il «senso comune» odierno abbia molta più limitatezza nel suo pregio intrinseco.

Posta la filosofia come concezione del mondo e l'operosità filoso: fica non concepita più solamente come elaborazione «individuale» di concetti sistematicamente coerenti ma inoltre e specialmente come lotta culturale per trasformare la «mentalità» popolare e diffondere le innovazioni filosofiche che si dimostreranno «storicamente vere» nella misura in cui diventeranno concretamente cioè storicamente e socialmente universali, — la questione del linguaggio e delle lingue «tecnicamente» deve essere posta in primo piano. Saranno da rivedere le pubblicazioni in proposito dei pragmatisti. (Cfr. gli Scritti di G. Vailati (Firenze, 1911), tra i quali lo studio «Il linguaggio come ostacolo alla eliminazione di contrasti illusori».)

Nel caso dei pragmatisti, come in generale nei confronti di qualsiasi altro tentativo di sistemazione organica della filosofia, non è detto che il riferimento sia alla totalità del sistema o al nucleo essenziale di esso. Mi pare di poter dire che la concezione del linguaggio del Vailati e di altri pragmatisti non sia accettabile; tuttavia pare che essi abbiano sentito delle esigenze reali e le abbiano «descritte» con esattezza approssimativa, anche se non sono riusciti a impostare i problemi e a darne la soluzione. Pare si possa dire che «linguaggio» è essenzialmente un nome collettivo, che non presuppone una cosa «unica» né nel tempo né nello spazio. Linguaggio significa anche cultura e filosofia (sia pure nel grado di senso comune) e pertanto il fatto (( linguaggio» è in realtà una molteplicità di fatti più o meno organicamente coerenti e coordinati: al limite si può dire che ogni essere parlante ha un proprio linguaggio personale, cioè un proprio modo di pensare e di sentire. La cultura, nei suoi vari gradi, unifica una maggiore o minore quantità di individui in strati numerosi, più o meno a contatto espressivo, che si capiscono tra loro in gradi diversi ecc. Sono queste differenze e distinzioni storico-sociali che si riflettono nel linguaggio comune e producono quegli «ostacoli» e quelle «cause di errore» di cui i pragmatisti hanno trattato.

Da questo si deduce l'importanza che ha il «momento culturale» anche nell'attività pratica (collettiva): ogni atto storico non può non essere compiuto dall'«uomo collettivo», cioè presuppone il raggiungimento di una unità «culturale-sociale» per cui una molteplicità di voleri disgregati, con eterogeneità di fini, si saldano insieme per uno stesso fine, sulla base di una uguale e comune concezione del mondo (generale e particolare, transitoriamente operante — per via emozionale — o permanente, per cui la base intellettuale è così radicata, assimilata, vissuta che può diventare passione). Poiché così avviene, appare l'importanza della questione linguistica generale, cioè del raggiungimento collettivo di uno stesso «clima» culturale.

Questo problema può e deve essere avvicinato all'impostazione moderna della dottrina e della pratica pedagogica, secondo cui il rapporto tra maestro e scolaro è un rapporto attivo, di relazioni reciproche e pertanto ogni maestro è sempre scolaro e ogni scolaro maestro. Ma il rapporto pedagogico non può essere limitato ai rapporti specificatamente «scolastici», per i quali le nuove generazioni entrano in contatto con le anziane e ne assorbono le esperienze e i valori storicamente necessari «maturando» e sviluppando una propria personalità storicamente e culturalmente superiore. Questo rapporto esiste in tutta la società nel suo complesso e per ogni individuo rispetto ad altri individui, tra ceti intellettuali e non intellettuali, tra governanti e governati, tra élites e seguaci, tra dirigenti e diretti, tra avanguardie e corpi di esercito. Ogni rapporto di «egemonia» è necessariamente un rapporto pedagogico e si verifica non solo nell'interno di una nazione, tra le diverse forze che la compongono, ma nell'intero campo internazionale e mondiale, tra complessi di civiltà nazionali e continentali.

Perciò si può dire che la personalità storica di un filosofo individuale è data anche dal rapporto attivo tra lui e l'ambiente culturale che egli vuole modificare, ambiente che reagisce sul filosofo e costringendolo a una continua autocritica, funziona da «maestro». Così si è avuto che una delle maggiori rivendicazioni dei moderni ceti intellettuali nel campo politico è stata quella delle così dette «libertà di pensiero e di espressione del pensiero (stampa e associazione)», perché solo dove esiste questa condizione politica si realizza il rapporto di maestro-discepolo nei sensi più generali su ricordati e in realtà si realizza «storicamente» un nuovo tipo di filosofo che si può chiamare «filosofo democratico», cioè del filosofo convinto che la sua personalità non si limita al proprio individuo fisico, ma è un rapporto sociale attivo di modificazione dell'ambiente culturale. Quando il «pensatore» si accontenta del pensiero proprio, «soggettivamente» libero, cioè astrattamente libero, dà oggi luogo alla beffa : l'unità di scienza e vita è appunto una unità attiva, in cui solo si realizza la libertà di pensiero, è un rapporto maestro-scolaro, filosofo-ambiente culturale in cui operare, da cui trarre i problemi necessari da impostare e risolvere, cioè è il rapporto filosofia-storia.

Che cosa è l'uomo?

È questa la domanda prima e principale della filosofia. Come si può rispondere? La definizione si può trovare nell'uomo stesso, e cioè in ogni singolo uomo. Ma è giusta? In ogni singolo uomo si può trovare che cosa è ogni «singolo uomo». Ma a noi non interessa che cosa è ogni singolo uomo, che poi significa che cosa è ogni singolo uomo in ogni singolo momento. Se ci pensiamo, vediamo che ponendoci la domanda che cosa è l'uomo, vogliamo dire: che cosa l'uomo può diventare, se cioè l'uomo può dominare il proprio destino, può «farsi», può crearsi una vita. Diciamo dunque che l'uomo è un processo e precisamente è il processo dei suoi atti. Se ci pensiamo, la stessa domanda: cosa è l'uomo? non è una domanda astratta o «obbiettiva». Essa è nata da ciò che abbiamo riflettuto su noi stessi e sugli altri e vogliamo sapere, in rapporto a ciò che abbiamo riflettuto e visto, cosa siamo, e cosa possiamo diventare, se realmente ed entro quali limiti, siamo «fabbri di noi stessi», della nostra vita, del nostro destino. E ciò vogliamo saperlo «oggi», nelle condizioni date oggi, della vita «odierna» e non di una qualsiasi vita e di un qualsiasi uomo.

La domanda è nata, riceve il suo contenuto, da speciali, cioè determinati modi di considerare la vita e l'uomo: il più importante di questi modi è la «religione» ed una determinata religione, il catto-licismo. In realtà, domandandoci : «cos'è l'uomo», quale importanza ha la sua volontà e la sua concreta attività nel creare se stesso e la vita che yive, vogliamo dire : «è il cattolicismo una concezione esatta dell'uomo e della vita? essendo cattolici, cioè facendo del cattolicismo una norma di vita, sbagliamo o siamo nel vero?» Tutti hanno la vaga intuizione che, facendo del cattolicismo una norma di vita, sbagliano, tanto vero che nessuno si attiene al cattolicismo come norma di vita, pur dichiarandosi cattolico. Un cattolico integrale, che cioè applicasse in ogni atto della vita, le norme cattoliche sembrerebbe un mostro, ciò che è, a pensarci, la critica più rigorosa del cattolicismo stesso e la più perentoria.

I cattolici diranno che nessuna altra concezione è seguita puntualmente, ed hanno ragione, ma ciò dimostra solo che non esiste di fatto, storicamente, un modo di concepire ed operare uguale per tutti gli uomini e niente altro; non ha nessuna ragione favorevole al cattolicismo, sebbene questo modo di pensare ed operare da secoli sia organizzato a questo scopo, ciò che ancora non è avvenuto per nessun'altra religione con gli stessi mezzi, con lo stesso spirito di sistema, con la stessa continuità e centralizzazione. Dal punto di vista «filosofico» ciò che non soddisfa nel cattolicismo è il fatto che esso, nonostante tutto, pone la causa del male nell'uomo stesso individuo, cioè concepisce l'uomo come individuo ben definito e limitato. Tutte le filosofie finora esistite può dirsi che riproducono questa posizione del cattolicismo, cioè concepiscono l'uomo come individuo limitato ' alla sua individualità e lo spirito come tale individualità. È su questo punto che occorre riformare il concetto dell'uomo. Cioè occorre concepire l'uomo come una serie di rapporti attivi (un processo) in cui se l'individualità ha la massima importanza, non è però il solo elemento da considerare. L'umanità che si riflette in ogni individualità è composta di diversi elementi: 1) l'individuo; 2) gli altri uomini; 3) la natura. Ma il 20 e il 30 elemento non sono così semplici come potrebbe apparire. L'individuo non entra in rapporti con gli altri uomini per giustapposizione, ma organicamente, cioè in quanto entra a far parte di organismi dai più' semplici ai più complessi. Così l'uomo non entra in rapporti con la natura semplicemente per il fatto di essere egli stesso natura, ma attivamente, per mezzo del lavoro e della tecnica. Ancora. Questi rapporti non sono meccanici. Sono attivi e coscienti, cioè corrispondono a un grado maggiore o minore d'intelligenza che di essi ha il singolo uomo. Perciò si può dire che ognuno cambia se stesso, si modifica, nella misura in cui cambia e modifica tutto il complesso di rapporti di cui egli è il centro di annodamento. In questo senso il filosofo reale è e non può non essere altri che il politico, cioè l'uomo attivo che modifica l'ambiente, inteso per ambiente l'insieme dei rapporti di cui ogni singolo entra a far parte. Se la propria individualità è l'insieme di questi rapporti, farsi una personalità significa acquistare coscienza di tali rapporti, modificare la propria personalità significa modificare l'insieme di questi rapporti.

Ma questi rapporti, come si è detto, non sono semplici. Intanto, alcuni di essi sono necessari, altri volontari. Inoltre averne coscienza più o meno profonda (cioè conoscere più o meno il modo con cui si possono modificare) già li modifica. Gli stessi rapporti necessari in quanto sono conosciuti nella loro necessità, cambiano d'aspetto e d'importanza. La conoscenza è potere, in questo senso. Ma il problema è complesso anche per un altro aspetto: che non basta conoscere l'insieme dei rapporti in quanto esistono in un momento dato come un dato sistema, ma importa conoscerli geneticamente, nel loro moto di formazione, poiché ogni individuo non solo è la sintesi dei rapporti esistenti ma anche della storia di questi rapporti, cioè è il riassunto di tutto il passato. Si dirà che ciò che ogni singolo può cambiare è ben poco, in rapporto alle sue forze. Ciò che è vero fino a un certo punto. Poiché il singolo può associarsi con tutti quelli che vogliono Io stesso cambiamento e se questo cambiamento è razionale, il singolo può moltiplicarsi per un numero imponente di volte e ottenere un cambiamento ben più radicale di quello che a prima vista può sembrare possibile.

Le società alle quali un singolo può partecipare sono molto numerose, più di quanto può sembrare. È attraverso queste «società» che il singolo fa parte del genere umano. Così sono molteplici i modi con cui il singolo entra in rapporto colla natura, poiché per tecnica deve intendersi non solo quell'insieme di nozioni scientifiche applicate industrialmente che di solito s'intende, ma anche gli strumenti «mentali», la conoscenza filosofica.

Che l'uomo non possa concepirsi altro che vivente in società è luogo comune, tuttavia non se ne traggono tutte le conseguenze necessarie anche individuali : che una determinata società umana presupponga una determinata società delle cose e che- la società umana sia possibile solo in quanto esiste una determinata società delle cose è anche luogo comune. È vero che finora a questi organismi oltre individuali è stato dato un significato meccanicistico e deterministico (sia la socìetas hominum che la societas rerum): quindi la reazione. Bisogna elaborare una dottrina in cui tutti questi rapporti sono attivi e in movimento, fissando ben chiaro che sede di questa attività è la coscienza dell'uomo singolo che conosce, vuole, ammira, crea, in quanto già conosce, vuole, ammira, crea, ecc. e si concepisce non isolato ma ricco di possibilità offertegli dagli altri uomini e dalla società delle cose di cui non può non avere una certa conoscenza. (Come ogni uomo è filosofo, ogni uomo è scienziato, ecc.).

L'affermazione di Feuerbach : «L'uomo è quello che mangia», può essere presa in sé, interpretata variamente. Interpretazione gretta e stolta : — cioè l'uomo è volta per volta quello che mangia materialmente, cioè i cibi hanno una immediata influenza determinatrice sul modo di pensare. Ricordare l'affermazione di Amadeo (Amadeo Bordiga, ex-dirigente comunista, estremista, poi espulso dal partito [N. d. R.]) che, se si sapesse ciò che un uomo ha mangiato prima di un discorso, per esempio, si sarebbe in grado di interpretare meglio il discorso stesso. Affermazione infantile, e, di fatto, estranea anche alla scienza positiva, poiché il cervello non viene nutrito di fave o di tartufi, ma i cibi giungono a ricostituire le molecole del cervello trasformati in sostanze omogenee e assimilabili, che hanno cioè la «stessa natura» potenziale delle molecole cerebrali. Se questa affermazione fosse vera, la storia avrebbe la sua matrice determinante nella cucina e le rivoluzioni coinciderebbero coi mutamenti radicali dell'alimentazione di massa. Il contrario è storicamente vero: cioè sono le rivoluzioni e il complesso sviluppo storico che hanno modificato l'alimentazione e creato i «gusti» successivi nella scelta dei cibi. Non è la semina regolare del frumento, che ha fatto cessare il nomadismo, ma viceversa, le condizioni emergenti contro il- nomadismo hanno spinto alle semine regolari, ecc. (Cfr. questa affermazione del Feuerbach con la campagna di S. E. Marinetti contro la pastasciutta e la polemica di S. E. Bontempelli in difesa, e ciò nel 1930, in pieno sviluppo della crisi mondiale.)

D'altronde è anche vero che «l'uomo è quello che mangia», in quanto l'alimentazione è una delle espressioni dei rapporti sociali nel loro complesso, e ogni raggruppamento sociale ha una sua fondamentale alimentazione, ma allo stesso modo si può dire che l'«uomo è il suo abbigliamento», 1*»uomo è il suo appartamento», l'«uomo è il suo particolare modo di riprodursi cioè la sua famiglia», poiché coll'alimentazione, l'abbigliamento, la casa, la riproduzione sono elementi della vita sociale in cui appunto in modo più evidente e più diffuso (cioè con estensione di massa) si manifesta il complesso dei rapporti sociali.

Il problema di cos'è l'uomo è dunque sempre i) così detto problema della «natura umana» o anche quello del così detto «uomo in generale», cioè la ricerca di creare una scienza dell'uomo (una filosofia) che parta da un concetto inizialmente «unitario», da un'astrazione in cui si possa contenere tutto l'«umano». Ma l’»umano» è un punto di partenza o un punto di arrivo, come concetto e fatto unitario ? o non è piuttosto, questa ricerca, un residuo «teologico» e «metafisico» in quanto posto come punto di partenza? La filosofia non può essere ridotta ad una naturalistica «antropologia», cioè l'unità del genere umano non è data dalla natura «biologica» dell'uomo: le differenze dell'uomo, che contano nella storia non sono quelle biologiche (razze, conformazione del cranio, colore della pelle ecc., e a ciò si riduce poi l'affermazione : «l'uomo è ciò che mangia» — mangia grano in Europa, riso in Asia ecc. — che si ridurrebbe poi all'altra affermazione: «l'uomo è il paese dove abita», poiché la gran parte degli alimenti in generale, è legata alla terra abitata) e neppure P»unità biologica» ha mai contato gran che nella storia (l'uomo è quell'animale che ha mangiato se stesso, proprio quando era più vicino allo «stato naturale», cioè quando non poteva moltiplicare «artificialmente» la produzione dei beni naturali). Neanche «la facoltà di ragionare» o lo «spirito» ha creato unità e può essere riconosciuto come fatto «unitario», perché concetto solo formale, categorico. Non il «pensiero», ma ciò che realmente si pensa unisce o differenzia gli uomini.

Che la «natura umana» sia il «complesso dei rapporti sociali» è la risposta più soddisfacente, perché include l'idea del divenire: l'uomo diviene, si muta continuamente col mutarsi dei rapporti sociali e perché nega l’»uomo in generale» : infatti i rapporti sociali sono espressi da diversi gruppi di uomini che si presuppongono, la cui unità è dialettica, non formale. L'uomo è aristocratico in quanto è servo della gleba ecc. Si può anche dire che la natura dell'uomo è la «storia» (e in questo senso — posto storia uguale spirito — che la natura dell'uomo è lo spirito) se appunto si dà a storia il significato di «divenire», in una «concordia discors» che non parte dall'unità, ma ha in sé le ragioni di una unità possibile : perciò la «natura umana» non può ritrovarsi in nessun uomo particolare ma in tutta la storia del genere umano (e il fatto che si adoperi la parola «genere», di carattere naturalistico ha il suo significato) mentre in ogni singolo si trovano caratteri messi in rilievo dalla contraddizione con quelli di altri. La concezione di «spirito» delle filosofie tradizionali come quella di «natura umana» trovata nella biologia dovrebbero spiegarsi come «utopie scientifiche» che sostituirono la maggior utopia della «natura umana» cercata in Dio (e gli uomini — figli di Dio) e servono a indicare il travaglio continuo della storia, un'aspirazione razionale e sentimentale ecc. È vero che tanto le religioni che affermano l'eguaglianza degli uomini come figli di Dio o le filosofie che affermano la loro uguaglianza come partecipanti della facoltà di ragionare, sono state espressioni di complessi movimenti rivoluzionari (la trasformazione del mondo classico — la trasformazione dei mondo medioevale) che hanno posto gli anelli più potenti dello sviluppo storico.

Che la dialettica hegeliana sia stata l'ultimo riflesso di questi grandi nodi storici e che la dialettica, da espressione delle contraddizioni sociali debba diventare, con la sparizione di queste contraddizioni, una pura dialettica concettuale, sarebbe alla base delle ultime filosofie a base utopistica come quella del Croce.

Nella storia l'«uguaglianza» reale, cioè il grado di «spiritualità» raggiunto dal processo storico della «natura umana», si identifica nel sistema di associazioni «private e pubbliche», «esplicite ed implicite» che si annodano nello «Stato» e nel sistema mondiale politico : si tratta di «uguaglianze» sentite come tali fra i membri di una associazione e di «diseguaglianze» sentite tra le diverse associazioni; uguaglianze e disuguaglianze che valgono in quanto se ne abbia coscienza individualmente e come gruppo. Si giunge così anche alla eguaglianza o equazione tra «filosofia e politica» tra pensiero e azione, cioè ad una filosofia della prassi. Tutto è politico, anche la filosofia o le filosofie , e la sola «filosofia» è la storia in atto, cioè è la vita stessa. In questo senso si può interpretare la tesi del proletariato tedesco erede della filosofia classica tedesca — e si può affermare che la teorizzazione e la realizzazione dell'egemonia fatta da Ilici (Lenin) è stato anche un grande avvenimento «metafisico».

Progresso e divenire.

Si tratta di due cose diverse o di aspetti diversi di uno stesso concetto? Il progresso è una ideologia, il divenire è una concezione filosofica. Il «progresso» dipende da una determinata mentalità, a costituire la quale entrano certi elementi culturali storicamente determinati; il «divenire» è un concetto filosofico, da cui può essere assente il «progresso». Nell'idea di progresso è sottintesa la possibilità di una misurazione quantitativa e qualitativa : più e meglio. Si suppone quindi una misura «fissa» o fissabile, ma questa misura è data dal passato, da una certa fase del passato, o da certi aspetti misurabili, ecc. (Non che si pensi a un sistema metrico del progresso). Come è nata l'idea del progresso? Rappresenta questa nascita un fatto culturale fondamentale, tale da fare epoca? Pare di si. La nascita e lo sviluppo dell'idea del progresso corrisponde alla coscienza diffusa che è stato raggiunto un certo rapporto tra la società e la natura (incluso nel concetto di natura quello di caso e di «irrazionalità») tale per cui gli uomini, nel loro complesso sono più sicuri del loro avvenire, possono concepire «razionalmente» dei piani complessivi della loro vita. Per combattere l'idea di progresso il Leopardi deve ricorrere alle eruzioni vulcaniche, cioè a quei fenomeni naturali che sono ancora «irresistibili» e senza rimedio. Ma nel passato c'erano ben più numerose forze irresistibili: carestie, epidemie, ecc. che entro certi limiti sono state dominate.

Che il progresso sia stata una ideologia democratica è indubbio, che abbia servito politicamente alla formazione dei moderni stati costituzionali, ecc., pure. Che oggi non sia più in auge, anche; ma in che senso? Non in quello che si sia perduta la fede nella possibilità di dominare razionalmente la natura e il caso, ma in senso «democratico» ; cioè che i «portatori» ufficiali del progresso sono divenuti incapaci di questo dominio, perché hanno suscitato forze distruttive attuali altrettanto pericolose e angosciose di quelle del passato (ormai dimenticate «socialmente», se non da tutti gli elementi sociali, perché i contadini continuano a non comprendere il «progresso», cioè credono di essere, e sono ancora troppo in balia delle forze naturali e del caso, conservano quindi una mentalità «magica», medioevale, «religiosa») come le «crisi», la disoccupazione, ecc. La crisi dell'idea di progresso non è quindi crisi dell'idea stessa, ma crisi dei portatori di essa idea, che sono diventati «natura» da dominare essi stessi. Gli assalti all'idea di progresso, in questa situazione, sono molto interessati e tendenziosi.

Può disgiungersi l'idea di progresso da quella di divenire? Non pare. Esse sono nate insieme, come politica (in Francia), come filosofia (in Germania, poi sviluppata in Italia). Nel «divenire» si è cercato di salvare ciò che di più concreto è nel «progresso», il movimento e anzi il movimento dialettico (quindi anche un approfondimento, perché il progresso è legato alla concezione volgare dell'evoluzione).

Da un articoluccio di Aldo Capasso nell'«Italia Letteraria» del 4 dicembre 1932 riporto alcuni brani che presentano i dubbi volgari su questi problemi :

Anche da noi è comune l'irrisione verso l'ottimismo umanitario e democratico di stile ottocentesco, e Leopardi non è un solitario quando parla delle «sorti progressive» con ironia; ma s'è escogitato quell'astuto travestimento del «Progresso» che è l'idealistico «Divenire»; idea che resterà nella storia, crediamo, più ancora come italiana che come tedesca. Ma che senso può avere un Divenire che si prosegue ad infinitum, un miglioramento che non sarà mai paragonabile ad un bene fisico? Mancando il criterio di un «ultimo» gradino stabile, manca, del «miglioramento» l'unità di misura. E inoltre non si può arrivare nemmeno a pascersi della fiducia di essere, noi uomini reali e viventi, migliori, che so, o dei Romani o dei primi Cristiani, perché il «miglioramento» andando inteso in un senso tutto ideale, è perfettamente ammissibile che noi oggi siamo tutti «decadenti» mentre, allora, fossero quasi tutti uomini pieni o magari santi. Sicché, dal punto di vista etico, l'idea di ascesa ad infinitum implicita nel concetto di Divenire resta alquanto ingiustificabile, dato che il «melioramento» etico è fatto individuale e che nel piano individuale è proprio possibile concludere, procedendo caso per caso, che tutta l'epoca ultima è deteriore... E allora il concetto del Divenire ottimistico si fa inafferrabile tanto sul piano ideale quanto sul piano reale. ... È noto come il Croce negasse il valore raziocinativo del Leopardi, asserendo che pessimismo e ottimismo sono atteggiamenti sentimentali, non filosofici. Ma il pessimista potrebbe osservare che, per l'appunto la concezione del Divenire idealistica, è un fatto d'ottimismo e di sentimento, perché il pessimista e l'ottimista (se non animati di fede nel Trascendente) concepiscono allo stesso modo la Storia: come lo scorrere di un fiume senza foce; e poi collocano l'accento sulla parola «fiume» o sulle parole «senza foce», secondo il loro stato sentimentale. Dicono gli uni: non c'è foce, ma, come in un fiume armonioso, c'è la continuità delle onde e la sopravvivenza, sviluppata, nell'oggi, dello ieri... E gli altri: c'è la continuità di un fiume, ma non c'è la foce... Insomma, non dimentichiamo che l'ottimismo è sentimento, non meno del pessimismo. Resta che ogni «filosofia» non può fare a meno di atteggiarsi sentimentalmente, «come pessimismo 0 come ottimismo» ecc. ecc.

Non c'è molta coerenza nel pensiero del Capasso, ma il suo modo di pensare è espressivo di uno stato d'animo diffuso, molto snobistico è incerto, molto sconnesso e superficiale e talvolta anche senza molta onestà e lealtà intellettuale e senza la necessaria logicità formale.

La questione è sempre la stessa: cos'è l'uomo? cos'è la natura umana? Se si definisce l'uomo come individuo, psicologicamente o speculativamente, questi problemi del progresso e del divenire sono insolubili o rimangono di mera parola. Ma se si concepisce l'uomo come l'insieme dei rapporti sociali, intanto appare che ogni paragone tra uomini, nel tempo, è impossibile, perché si tratta di cose diverse, se non eterogenee. D'altronde, poiché l'uomo è anche l'insieme delle sue condizioni di vita, si può misurare quantitativamente la differenza tra il passato e il presente, poiché si. può misurare la misura in cui l'uomo domina la natura e il caso. La possibilità non è la realtà, ma è anch'essa una realtà: che l'uomo possa fare una cosa o non possa farla, ha la sua importanza per valutare ciò che realmente si fa. Possibilità vuol dire «libertà». La misura delle libertà entra nel concetto d'uomo. Che ci siano le possibilità obbiettive di non morire di fame, e che si muoia di fame ha la sua importanza, a quanto pare. Ma l'esistenza delle condizioni obbiettive, o possibilità o libertà non è ancora sufficiente : occorre «conoscerle» e sapersene servire. Volersene servire. L'uomo, in questo senso, è volontà concreta, cioè applicazione effettuale dell'astratto volere o impulso vitale ai mezzi concreti che tale volontà realizzano. Si crea la propria personalità : i) dando un indirizzo determinato e concreto («razionale») al proprio impulso vitale o volontà; 2) identificando i mezzi che rendono tale volontà concreta e determinata e non arbitraria; 3) contribuendo a modificare l'insieme delle condizioni concrete che realizzano questa volontà nella misura dei propri limiti di potenza e nella forma più fruttuosa. L'uomo è da concepire come un blocco storico di elementi puramente individuali e soggettivi e di elementi di massa e oggettivi o materiali coi quali l'individuo è in rapporto attivo. Trasformare il mondo esterno, i rapporti generali, significa potenziare se stesso, sviluppare se stesso. Che il «miglioramento» etico sia puramente individuale è illusione ed errore: la sintesi degli elementi costitutivi dell'individualità è «individuale», ma essa non si realizza e sviluppa senza un'attività verso l'esterno, modificatrice dei rapporti esterni, da quelli verso la natura a quelli verso gli altri uomini in vari gradi, nelle diverse cerchie sociali in cui si vive, fino al rapporto massimo, che abbraccia tutto il genere umano. Perciò si può dire che l'uomo è essenzialmente «politico», poiché l'attività per trasformare e dirigere coscientemente gli altri uomini realizza la sua «umanità», la sua «natura umana».

L'individualismo.

Sul così detto «individualismo», cioè sull'atteggiamento che ogni periodo storico ha avuto sulla posizione dell'individuo nel mondo e nella vita storica: ciò che oggi si chiama «individualismo» ha avuto origine nella rivoluzione culturale successa al Medioevo (Rinascimento e Riforma) e indica una determinata posizione verso il problema della divinità e quindi della Chiesa: è il passaggio dal pensiero trascendente all'immanentismo.

Pregiudizi contro l'individualismo, fino a ripetere contro di esso le geremiadi, più che critiche, del pensiero cattolico e retrivo : l'«individualismo» che è diventato antistorico oggi è quello che si manifesta nell'appropriazione individuale della ricchezza, mentre la produzione della ricchezza si è andata sempre più socializzando. Che i cattolici poi siano i meno adatti a gemere sull'individualismo si può dedurre dal fatto che essi sempre, politicamente, hanno riconosciuto una personalità politica solo alla proprietà, cioè l'uomo valeva non per sé, ma in quanto integrato da beni materiali. Cosa significava il fatto che si era elettori in quanto si aveva un censo e che si apparteneva a tante comunità politico-amministrative in quante comunità si aveva beni materiali, se non un abbassamento dello «spirito» di fronte alla «materia» ? Se è concepito «uomo» solo chi possiede, e se è diventato impossibile che tutti possiedano, perché sarebbe antispirituale il cercare una forma di proprietà in cui le forze materiali integrino e contribuiscano a costituire tutte le personalità? In realtà, implicitamente si riconosceva che la «natura» umana era non dentro l'individuo, ma nell'unità dell'uomo e delle forze materiali : pertanto la conquista delle forze materiali è un modo, e il più importante, di conquistare la personalità. (In questi ultimi tempi è stato molto lodato un libro del giovane scrittore cattolico francese Daniel Rops, Le monde sans àme, Paris, Plon, 1932, tradotto anche in Italia, in cui sarebbe da prendere in esame tutta una serie di concetti attraverso i quali, sofisticamente, si rimettono in onore posizioni del passato come fossero di attualità, ecc.

Esame del concetto di natura umana.

Origini del sentimento di «uguaglianza» : la religione con la sua idea di dio-padre e uomini-figli, quindi uguali; — la filosofia secondo l'aforisma Omnis enim philosophia, cum ad communem hominum cogitandi facultatem revocet, per se democratica est; ideoque ab optimatibus non iniuria sibi exstimatur perniciosa. La scienza biologica, che afferma l'uguaglianza «naturale» cioè psico-fisica di tutti gli elementi individuali del «genere» umano: tutti nascono allo stesso modo, ecc. «L'uomo è mortale; Tizio è uomo, Tizio è mortale». Tizio uguale tutti gli uomini. Così ha origine empirico-scientifica (empirico-scienza folcloristica) la formula: «Siamo nati tutti nudi».

Ricordare la novella di Chesterton sulla «Ingenuità di padre Brown», sull'uomo-portalettere e l'uomo piccolo costruttore di macchine portentose. C'è un'osservazione di questo genere: «Una vecchia dama abita in un castello con venti servi: è visitata da un'altra dama e dice a questa: — Sono sempre così sola, — ecc. Il medico le annunzia che c'è la peste in giro, infezioni, ecc. e allora dice: — Siamo in tanti». (Il Chesterton trae da questo spunto effetti puramente novellistici di intrigo).

Filosofia e democrazia.

Si può osservare il parallelo svolgersi della democrazia moderna e di determinate forme di materialismo metafisico e di idealismo. L'uguaglianza è ricercata dal materialismo francese del secolo XVIII nella riduzione dell'uomo a categoria della storia naturale, individuo di una specie biologica, distinto non per qualificazioni sociali e storiche, ma per doti naturali; in ogni caso essenzialmente uguale ai suoi simili. Questa concezione è passata nel senso comune, che ha come affermazione popolare che «siamo nati tutti nudi» (se pure l'affermazione di senso comune non è precedente alla discussione ideologica degli intellettuali). Nell'idealismo si ha l'affermazione che la filosofia è la scienza democratica per eccellenza in quanto si riferisce alla facoltà di ragionare comune a tutti gli uomini, cosa per cui si spiega l'odio degli aristocratici per la filosofia e le proibizioni legali contro l'insegnamento e la cultura da parte delle classi del vecchio regime.

Quantità e qualità.

Poiché non può esistere quantità senza qualità e qualità senza quantità (economia senza cultura, attività pratica senza intelligenza e viceversa) ogni contrapposizione dei due termini è un non senso razionalmente. E infatti, quando si contrappone la qualità alla quantità con tutte le variazioni melense alla Guglielmo Ferrerò e Co., in realtà si contrappone una certa qualità ad altra qualità, una certa quantità ad altra quantità, cioè si fa una certa politica e non si fa un'affermazione filosofica. Se il nesso quantità-qualità è inscindibile si pone la questione: ove sia più utile applicare la propria forza di volere: a sviluppare la quantità o la qualità? Quale dei due aspetti è più controllabile?' quale più facilmente misurabile? su quale si possono fare previsioni, costruire piani di lavoro? La risposta non pare dubbia: sull'aspetto quantitativo. Affermare pertanto che si vuole lavorare sulla quantità, che si vuole sviluppare l'aspetto «corposo» del reale non significa che si voglia trascurare la «qualità», ma significa invece che si vuole porre il problema qualitativo nel modo più concreto e realistico, cioè si vuole sviluppare la qualità nel solo modo in cui tale sviluppo è controllabile e misurabile.

La questione è connessa all'altra espressa nel proverbio : «Primum vivere, deinde philosophari». In realtà non è possibile staccare il vivere dal filosofare; tuttavia il proverbio ha un significato pratico: vivere significa occuparsi specialmente dell'attività pratica economica, filosofare occuparsi di attività intellettuali di otium lìcteratum. Tuttavia c'è chi «vive» solamente, chi è costretto a un lavoro servile, estenuante, ecc., senza di cui alcuni non potrebbero avere la possibilità di essere esonerati dall'attività economica per filosofare. Sostenere la «qualità» contro la quantità significa proprio solo questo : mantenere intatte determinate condizioni di vita sociale in cui alcuni sono pura quantità, altri qualità. E come è piacevole ritenersi rappresentanti patentati della qualità, della bellezza, del pensiero, ecc. Non c'è signora del bel mondo che non creda di adempiere a tale funzione di conservare sulla terra la qualità e la bellezza!

Teoria e pratica.

È da ricercare, analizzare e criticare la diversa forma in cui si è presentato nella storia delle idee il concetto di unità della teoria e della pratica, poiché pare indubbio che ogni concezione del mondo e ogni filosofia si è preoccupata di questo problema. Affermazione di san Tommaso e della scolastica : «Intellectus speculativus extensione fit practicus», la teoria per semplice estensione si fa pratica, cioè affermazione della necessaria connessione tra l'ordine delle idee e quello dell'azione. Aforisma del Leibnitz, tanto ripetuto dagli idealisti italiani : «Quo magis speculativa, magis practica» detto della scienza. La proposizione di G. B. Vico «verum ipsum factum» tanto discussa e variamente interpretata (cfr. il libro del Croce sul Vico e altri scritti polemici del Croce stesso) e che il Croce svolge nel senso idealistico che il conoscere sia un fare e che si conosce ciò che si fa, in cui «fare» ha un particolare significato, tanto particolare che poi significa niente altro che «conoscere» cioè si risolve in una tautologia (concezione che tuttavia deve essere messa in relazione colla concezione propria della filosofia della prassi).

Poiché ogni azione è il risultato di volontà diverse, con diverso grado di intensità, di consapevolezza, di omogeneità con l'intiero complesso di volontà collettiva, è chiaro che anche la teoria corrispondente e implicita sarà una combinazione di credenze e punti di vista altrettanto scompaginati ed eterogenei. Tuttavia vi è adesione completa della teoria alla pratica, in questi limiti e in questi termini. Se il problema di identificare teoria e pratica si pone, si pone in questo senso: di costruire su una determinata pratica una teoria che, coincidendo e identificandosi con gli elementi decisivi della pratica stessa, acceleri il processo storico in atto, rendendo la pratica più omogenea, coerente, efficiente in tutti i suoi elementi, cioè potenziandola al massimo, oppure, data una certa posizione teorica, di organizzare l'elemento pratico indispensabile per la sua messa in opera. L'identificazione di teoria e pratica è un atto critico, per cui la pratica viene dimostrata razionale e necessaria o la teoria realistica e razionale. Ecco perché il problema dell'identità di teoria e pratica si pone specialmente in certi momenti storici così detti di transizione, cioè di più rapido movimento trasformativo, quando realmente le forze pratiche scatenate domandano di essere giustificate per essere più efficienti ed espansive, o si moltiplicano i programmi teorici che domandano di essere anch'essi giustificati realisticamente in quanto dimostrano di essere assimilabili dai movimenti pratici che solo così diventano più pratici e reali.

Struttura e superstruttura.

La proposizione contenuta nell'introduzione alla «Critica dell'economia politica» che gli uomini prendono coscienza dei conflitti di struttura nel terreno delle ideologie deve essere considerata come un'affermazione di valore gnoseologico e non puramente psicologico e morale. Da ciò consegue che il principio teorico-pratico dell'egemonia ha anche esso una portata gnoseologica e pertanto in questo campo è da ricercare l'apporto teorico massimo di Ilic alla filosofia della prassi. Ilic avrebbe fatto progredire effettivamente la filosofia come filosofia in quanto fece progredire la dottrina e la pratica politica. La realizzazione di un apparato egemonico, in quanto crea un nuovo terreno ideologico, determina una riforma delle coscienze e dei metodi di conoscenza, è un fatto di conoscenza, un fatto filosofico. Con linguaggio crociano : quando si riesce a introdurre una nuova morale conforme a una nuova concezione del mondo, si finisce con l'introdurre anche tale concezione, cioè si determina una intera riforma filosofica.

La struttura e le superstrutture formano un «blocco storico», cioè l'insieme complesso contraddittorio e discorde delle soprastrutture è il riflesso dell'insieme dei rapporti sociali di produzione. Se ne trae: — che solo un sistema di ideologie totalitario riflette razionalmente la contraddizione della struttura e rappresenta l'esistenza delle condizioni oggettive per il rovesciamento della prassi. Se si forma un gruppo sociale omogeneo al 100 % per l'ideologia, ciò significa che esistono al 100 % le premesse per questo rovesciamento, cioè che il «razionale» è reale attuosamente e attualmente. Il ragionamento si basa sulla reciprocità necessaria tra struttura e super-strutture (reciprocità che è appunto il processo dialettico reale).

Il termine di «catarsi».

Si può impiegare il termine di «catarsi» per indicare il passaggio dal momento meramente economico (o egoistico-passionale) al momento etico-politico, cioè l'elaborazione superiore della struttura in super-struttura nella coscienza degli uomini. Ciò significa anche il passaggio dall'«oggettivo al soggettivo» e dalla «necessità alla libertà». La struttura da forza esteriore che schiaccia l'uomo, lo assimila a sé, lo rende passivo, si trasforma in mezzo di libertà, in strumento per creare una nuova forma etico-politica, in origine di nuove iniziative. La fissazione del momento «catartico» diventa così, mi pare, il punto di partenza di tutta la filosofia della prassi; il processo catartico coincide con la catena di sintesi che sono risultate dallo svolgimento dialettico. (Ricordare sempre i due punti tra cui oscilla questo processo: — che nessuna società si pone compiti per la cui soluzione non esistano già o siano in via di apparizione le condizioni necessarie e sufficienti — e che nessuna società perisce prima di aver espresso tutto il suo contenuto potenziale.)

Il «noumeno» kantiano.

La questione della «oggettività esterna del reale» in quanto è connessa col concetto della «cosa in sé» e del «noumeno» kantiano. Pare difficile escludere che la «cosa in sé» sia una derivazione dell'«oggettività esterna del reale» e del così detto realismo greco-cristiano (Aristotele - san Tommaso) e ciò si vede anche nel fatto che tutta una tendenza del materialismo volgare e del positivismo ha dato luogo alla scuola neokantiana e neocritica.

Se la realtà è come noi la conosciamo e la nostra conoscenza muta continuamente, se cioè nessuna filosofia è definitiva ma è storicamente determinata, è difficile immaginare che la realtà oggettivamente muti col nostro mutare ed è difficile ammetterlo non solo per il senso comune ma anche per il pensiero scientifico. Nella Sacra Famiglia si dice che la realtà si esaurisce tutta nei fenomeni e che al di là dei fenomeni non c'è nulla, e così è certamente. Ma la dimostrazione non è agevole. Cosa sono i fenomeni? Sono qualcosa di oggettivo, che esistono in sé e per sé, o sono qualità che l'uomo ha distinto in conseguenza dei suoi interessi pratici (la costruzione della sua vita economica) e dei suoi interessi scientifici, cioè della necessità di trovare un ordine nel mondo e di descrivere e classificare le cose (necessità che è anch'essa legata a interessi pratici mediati e futuri)? Posta l'affermazione che ciò che noi conosciamo nelle cose è niente altro che noi stessi, i nostri bisogni e i nostri interessi, cioè che le nostre conoscenze sono soprastrutture (o filosofie non definitive) è difficile evitare che si pensi a qualcosa di reale di là di queste conoscenze, non nel senso metafisico di un «noumeno», di un «dio ignoto» o di «un inconoscibile», ma nel senso concreto di una «relativa ignoranza» della realtà, di qualcosa di ancora «sconosciuto» che però potrà essere un giorno conosciuto quando gli strumenti «fisici» e intellettuali degli uomini saranno più perfetti, cioè quando saranno mutate, in senso progressivo, le condizioni sociali e tecniche della umanità. Si fa quindi una previsione storica che consiste semplicemente nell'atto del pensiero che proietta nell'avvenire un processo di sviluppo come quello che si è verificato dal passato ad oggi. In ogni modo occorre studiare Kant e rivedere i suoi concetti esattamente.

Storia e antistoria.

È da osservare che l'attuale discussione tra k storia e antistoria» non è altro che la ripetizione nei termini della cultura filosofica moderna della discussione, avvenuta alla fine del secolo scorso, nei termini del naturalismo e positivismo, se la natura e la storia procedono per «salti» o solo per evoluzione graduale e progressiva. La stessa discussione si ritrova svolta anche dalle generazioni precedenti, sia nel campo delle scienze naturali (dottrine del Cuvier) sia nel campo filosofico (e si trova la discussione nello Hegel). Si dovrebbe fare la storia di questo problema in tutte le sue manifestazioni concrete e significative e si troverebbe che esso è sempre stato attuale, perché in ogni tempo ci sono stati conservatori e giacobini, progressisti e retrivi. Ma il significato «teorico» di questa discussione mi pare consistere in ciò : essa indica il punto di passaggio «logico» di ogni concezione del mondo alla morale che le è conforme, di ogni «contemplazione» all’»azione», di ogni filosofia all'azione politica che ne dipende. È il punto cioè in cui la concezione del mondo, la contemplazione, la filosofia diventano «reali» perché tendono a modificare il mondo, a rovesciare la prassi. Si può dire perciò che questo è il nesso centrale della filosofia della prassi, il punto in cui essa si attualizza, vive storicamente, cioè socialmente e non più solo nei cervelli individuali, cessa dall'essere «arbitraria» e diventa necessaria-razionale-reale.

Il problema è da vedere storicamente, appunto. Che i tanti mascheroni nietzschiani rivoltati verbalmente contro tutto l'esistente, contro i convenzionalismi, ecc. abbiano finito con lo stomacare e col togliere serietà a certi atteggiamenti, può essere ammesso, ma non bisogna, nei propri giudizi, lasciarsi guidare dai mascherotti. Contro il titanismo di maniera, il velleitarismo, l'astrattismo occorre avvertire la necessità di essere «sobri» nelle parole e negli atteggiamenti esteriori, appunto perché ci sia più forza nel carattere e nella volontà concreta. Ma questa è questione di stile, non «teoretica».

La forma classica di questi passaggi dalla concezione del mondo alla norma pratica di condotta, mi pare quella per cui dalla predestinazione calvinistica sorge uno dei maggiori- impulsi all'iniziativa pratica che si sia avuto nella storia mondiale. Così ogni altra forma di determinismo a un certo punto si è sviluppata in spirito di iniziativa e in tensione estrema di volontà collettiva.

Dalla recensione di Mario Missiroli («I.C.S.», gennaio 1929) del libro di Tilgher (Saggi di Etica e di Filosofia del Diritto, Torino, Bocca, 1928, 8°, pp. xv-218), appare che la tesi fondamentale dell'opuscoletto Storia e Antistoria ha una grande portata nel sistema (!) filosofico del Tilgher.

Scrive il Missiroli: «Si è detto, e non a torto, che l'idealismo italiano, che fa capo a Croce ed a Gentile, si risolve in un puro fenomenismo. Non v'è posto per la personalità. Contro questa tendenza reagisce vivacemente Adriano Tilgher con questo volume. Risalendo alla tradizione della filosofia classica, particolarmente a Fichte, Tilgher ribadisce con gran vigore la dottrina della libertà e del " dover essere ". Dove non c'è libertà di scelta, c'è " natura ". Impossibile sottrarsi al fatalismo. La vita e la storia perdono ogni senso e nessuna risposta ottengono gli eterni interrogativi della coscienza. Senza riferirsi ad un quid che trascenda la realtà empirica, non si può parlare di moralità, di bene e di male. Vecchia tesi. L'originalità di T. consiste nell'aver esteso per primo questa esigenza alla logica. Il " dover essere " è necessario alla logica non meno che alla morale. Di qui l'indissolubilità della logica e della morale che i vecchi trattatisti amavano tenere distinte. Posta la libertà come una premessa necessaria, ne consegue una teoria del libero arbitrio come assoluta possibilità di scelta fra il bene e il male. Così la pena (acutissime le pagine su il diritto penale) trova il suo fondamento non soltanto nella responsabilità (scuola classica) ma nel fatto puro e semplice che l'individuo può fare il male conoscendolo come tale. La causalità può tenere le veci della responsabilità. Il determinismo di chi delinque equivale al determinismo di chi punisce. Tutto bene. Ma questo energico richiamo al "dover essere", all'antistoria, che crea la storia, non restaura, logicamente, il dualismo e la trascendenza? Non si può riguardare la trascendenza come un "momento" senza ricadere nell'immanentismo. Non si viene a patti con Platone».

Filosofia speculativa. Non bisogna nascondersi le difficoltà che presenta la discussione e la critica del carattere «speculativo» di certi sistemi filosofici e la «negazione» teorica della «forma speculativa» delle concezioni filosofiche.

Questioni che nascono : 1) l'elemento «speculativo» è proprio di ogni filosofia, è la forma stessa che deve assumere ogni costruzione teorica in quanto tale, cioè «speculazione» è sinonimo di filosofia e di teoria? 2) oppure è da farsi una questione «storica»: il problema è solo un problema storico e non teorico nel senso che ogni concezione del mondo, in una sua determinata fase storica, assume una forma «speculativa» che ne rappresenta l'apogeo e l'inizio del dissolvimento? Analogia e connessione collo sviluppo dello Stato, che dalla fase «economico-corporativa» passa alla fase «egemonica» (di consenso attivo). Si può dire cioè che ogni cultura ha il suo momento speculativo e religioso, che coincide col periodo di completa egemonia del gruppo sociale che esprime e forse coincide proprio col momento in cui l'egemonia reale si disgrega alla base, molecolarmente, ma il sistema di pensiero, appunto perciò (per reagire alla disgregazione) si perfeziona dogmaticamente, diventa una «fede» trascendentale: perciò si osserva che ogni epoca così detta di decadenza (in cui avviene una disgregazione del vecchio mondo) è caratterizzata da un pensiero raffinato e altamente «speculativo».

La critica pertanto deve risolvere la speculazione nei suoi termini reali di ideologia politica, di struménto d'azione pratica; ma la critica stessa avrà una sua fase speculativa, che ne segnerà l'apogeo. La questione è questa : se questo apogeo non sia per essere l'inizio di una fase storica di nuovo tipo, in cui necessità-libertà essendosi compenetrate organicamente non ci saranno più contraddizioni sociali e la sola dialettica sarà quella ideale, dei concetti e non più delle forze storiche.

Nel brano sul «materialismo francese nel secolo XVIII» {Sacra Famiglia) è abbastanza bene e chiaramente accennata la genesi della filosofia della prassi : essa è il «materialismo» perfezionato dal lavoro della stessa filosofia speculativa e fusosi con l'umanismo. È vero che con questi perfezionamenti del vecchio materialismo rimane solo il realismo filosofico.

Altro punto da meditare è questo : se la concezione di «spirito» della filosofia speculativa non sia una trasformazione aggiornata del vecchio concetto di «natura umana» proprio sia della trascendenza che del materialismo volgare, se cioè nella concezione dello «spirito» non ci sia altro che il vecchio «Spirito santo» speculativizzato. Si potrebbe allora dire che l'idealismo è intrinsecamente teologico.

La «speculazione» (in senso idealistico) non ha introdotto una trascendenza di nuovo tipo nella riforma filosofica caratterizzata dalle concezioni immanentistiche? Pare che solo la filosofia della prassi sia la concezione conseguentemente «immanentistica». Sono specialmente da rivedere e criticare tutte le teorie storicistiche di carattere speculativo. Si potrebbe scrivere un nuovo Anti-Dühring che potrebbe essere un «Anti-Croce» da questo punto di vista, riassumendo non solo la polemica contro la filosofia speculativa, ma anche quella contro il positivismo e il meccanicismo e le forme deteriori della filosofia della prassi.

«Obbiettività» della conoscenza. Per i cattolici «... tutta la teoria idealista riposa sulla negazione dell'obbiettività di ogni nostra conoscenza e sul monismo idealista dello " Spirito " (equivalente, in quanto monismo, a quello positivista della " Materia ") per cui il fondamento stesso della religione, Dio, non esiste obbiettivamente fuori di noi, ma è una creazione dell'intelletto. Pertanto l'idealismo, non meno del materialismo, è radicalmente contrario alla religione». (Cfr. articolo del padre Mario Barbera nella «Civiltà Cattolica» del i° giugno 1929.)

La questione della «obbiettività» della conoscenza secondo la filosofia della prassi può essere elaborata partendo dalla proposizione (contenuta nella prefazione alla «Critica dell'economia politica») che «gli uomini diventano consapevoli (del conflitto tra le forze materiali di produzione) nel terreno ideologico» delle forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche, filosofiche. Ma tale consapevolezza è limitata al conflitto tra le forze materiali di produzione e i rapporti di produzione — secondo la lettera del testo — o si riferisce a ogni conoscenza consapevole? Questo è il punto da elaborare e che può esserlo con tutto l'insieme della dottrina filosofica del valore delle superstrutture. Cosa significherà, in tal caso, il termine di «monismo» ? Non certo quello materialista né quello idealista, ma identità dei contrari nell'atto storico concreto, cioè attività umana (storia-spirito) in concreto, connessa indissolubilmente a una certa «materia» organizzata (storicizzata), alla natura trasformata dall'uomo. Filosofia dell'atto (prassi, svolgimento) ma non dell'atto «puro», bensì proprio dell'atto «impuro», reale, nel senso più profano e mondano della parola.

Pragmatismo e politica. Il «pragmatismo» (di James, ecc.) non pare possa essere criticato se non si tiene conto del quadro storico anglosassone in cui è nato e si è diffuso. Se è vero che ogni filosofia è una «politica» e che ogni filosofo è essenzialmente un uomo politico, ciò tanto più si può dire per il pragmatista che costruisce la filosofia «utilitariamente» in senso immediato. Ma ciò non è pensabile (come movimento) in paesi cattolici, dove la religione e la vita culturale si sono scissi fin dal tempo del Rinascimento e della Controriforma, mentre è pensabile per i paesi anglosassoni, in cui la religione è molto aderente alla vita culturale di ogni giorno e non è centralizzata burocraticamente e dogmatizzata intellettualmente. In ogni caso il pragmatismo evade dalla sfera religiosa positiva e tende a creare una morale laica (di tipo non francese), tende a creare una «filosofia popolare» superiore al senso comune, è un «partito ideologico» immediato più che un sistema di filosofia.

Se si prende il principio del pragmatista quale è esposto dal James : «il metodo migliore per discutere i punti diversi di qualche teoria si è di cominciare dal mettere in sodo quale differenza pratica risulterebbe dal fatto che l'una o l'altra delle due alternative fosse la vera» (W. James, Le varie forme della esperienza religiosa - Studio sulla natura umana, trad. di G. C. Ferrari e M. Calderoni, ed. Bocca, 1904, p. 382) , si vede quale sia l'immediatezza del politicismo filosofico pragmatista. Il filosofo «individuale» tipo italiano o tedesco, è legato alla «pratica» mediatamente (e spesso la mediazione è una catena di molti anelli), il pragmatista vi si vuole legare subito e in realtà appare così che il filosofo tipo italiano o tedesco è più «pratico» del pragmatista che giudica dalla realtà immediata, spesso volgare, mentre l'altro ha un fine più alto, pone il bersaglio più alto e quindi tende a elevare il livello culturale esistente (quando tende, si capisce). Hegel può essere concepito come il precursore teorico delle rivoluzioni liberali dell'8oo. I pragmatisti, tutt'al più, hanno giovato a creare il movimento del Rotary Club o a giustificare tutti i movimenti conservatori e retrivi (a giustificarli di fatto e non solo per distorsione polemica come è avvenuto per Hegel e lo Stato prussiano).

Etica. La massima di E. Kant: «Opera in modo che la tua condotta possa diventare una norma per tutti gli uomini, in condizioni simili» è meno semplice e ovvia di ciò che appare a prima vista. Cosa si intende per «condizioni simili» ? Le condizioni immediate in cui si opera, o le condizioni generali complesse e organiche, la cui conoscenza richiede una ricerca lunga e criticamente elaborata? (Fondamento dell'etica socratica, in cui la volontà «morale» ha la sua base nell'intelletto, nella sapienza, per cui il male operare è dovuto all'ignoranza, ecc. e la ricerca della conoscenza critica è la base di una superiore morale o della morale senz'altro).

La massima kantiana può essere considerata un truismo, poiché è difficile trovare uno che non operi credendo di trovarsi nelle condizioni in cui tutti opererebbero come lui. Chi ruba per fame ritiene che chi ha fame ruberebbe, chi ammazza la moglie infedele ritiene che tutti i mariti traditi dovrebbero ammazzare ecc. Solo i «matti» in senso clinico, operano senza ritenere di essere nel giusto. La qui-stione è connessa con altre: 1) ognuno è indulgente con se stesso, perché quando opera non «conformisticamente» conosce il meccanismo delle proprie sensazioni e dei propri giudizi, della catena di cause ed effetti che l'hanno portato ad operare — mentre per gli altri è rigorista, perché non ne conosce la vita interiore; 2) ognuno opera secondo la sua cultura, cioè la cultura del suo ambiente, e «tutti gli uomini» per lui sono il suo ambiente, quelli che la pensano come lui : la màssima di Kant presuppone una sola cultura, una sola religione, un conformismo «mondiale».

L'obbiezione che non pare esatta è questa che «condizioni simili» non esistono perché tra le condizioni è compreso chi opera, la sua individualità ecc. Si può dire che la massima di Kant è connessa al tempo, all'illuminismo cosmopolita, e alla concezione critica dell'autore, cioè è legata alla filosofia degli intellettuali come ceto cosmopolitico. Pertanto chi opera è il portatore delle «condizioni simili», ossia il creatore di esse : cioè egli «deve» operare secondo un «modello» che vorrebbe diffuso tra tutti gli uomini, secondo un tipo di civiltà per l'avvento del quale lavora o per la cui conservazione «resiste» contro le forze disgregatrici, ecc.

scetticismo. L'obbiezione di senso comune che si può fare allo scetticismo è questa: che per essere coerente a se stesso, lo scettico non dovrebbe fare altro che vivere come un vegetale, senza intrigarsi negli affari della vita comune. Se lo scettico interviene nella discussione, significa che egli crede di poter convincere, cioè non è più scettico, ma rappresenta una determinata opinione positiva, che di solito è cattiva e può trionfare solo convincendo la comunità che le altre sono anche peggiori, in quanto sono inutili. Lo scetticismo è collegato col materialismo volgare e col positivismo: è interessante un brano di Roberto Ardigò, in cui si dice che occorre lodare il Bergson per il suo volontarismo. Ma che significa ciò? Non è una confessione della impotenza della propria filosofia a spiegare il mondo, se occorre rivolgersi a un sistema opposto per trovare l'elemento necessario per la vita pratica? — Questo punto di Ardigò (contenuto negli Scritti vari raccolti e ordinati da G. Marchesini, Firenze, Le Monnier, 1922) deve essere messo in rapporto con le tesi su Feuerbach di Marx e dimostra appunto di quanto Marx avesse superato la posizione filosofica del materialismo volgare.

Concetto di v. ideologia». L'«ideologia» è stata un aspetto del «sensismo», ossia del materialismo francese del XVIII secolo. Il suo significato originario era quello di «scienza delle idee» e poiché l'analisi era il solo metodo riconosciuto e applicato dalla scienza, significava «analisi delle idee» cioè «ricerca dell'origine delle idee». Le idee dovevano essere scomposte nei loro «elementi» originari e questi non potevano essere altro che le «sensazioni» : le idee derivano dalle sensazioni. Ma il sensismo poteva associarsi senza troppa difficoltà colla fede religiosa, con le credenze più estreme nella «potenza dello Spirito» e nei suoi «destini immortali» e così avviene che il Manzoni, anche dopo la sua conversione o ritorno al cattolicismo, anche quando scrisse gli Inni Sacri, mantenne la sua adesione di massima al sensismo, finché non conobbe la filosofia del Rosmini. (II più efficace propagatore letterario dell'ideologia è stato Destutt de Tracy (1754-1836) per la facilità e popolarità della sua esposizione; altro, il dott. Cabanis col suo Rapport du Physique et du Moral (Condillac, Helvetius ecc. sono più strettamente filosofi). Legame tra cattolicismo e Ideologia: Manzoni, Cabanis,

Bourget, Taine (Taine è caposcuola per Maurras e altri di indirizzo cattolico) __ «romanzo psicologico» (Stendhal fu allievo del De Tracy ecc.) Di Destutt de Tracy l'opera principale è gli Elements d'Idéologie (Parigi, 1817-18) che è più completa nella traduzione italiana: Elementi di Ideologia del conte Destutt de Tracy, tradotti da G. Compagnoni, Milano, Stamperia di Giambattista Sonzogno, 1819 (nel testo francese manca una intera sezione, credo quella sull'Amore, che Stendhal conobbe e utilizzò dalla traduzione italiana).)

Come il concetto di Ideologia da «scienza delle idee», da «analisi sull'origine delle idee», sia passato a significare un determinato «sistema di idee» è da esaminare storicamente, poiché logicamente il processo è facile da cogliere e comprendere.

Si può affermare che il Freud sia l'ultimo degli Ideologi e che un «ideologo» sia il De Mari, per cui appare tanto più strano l'«entusiasmo» per il De Man del Croce e dei crociani, se non ci tosse una giustificazione «pratica» di tale entusiasmo. È da esaminare come l'autore del Saggio Popolare (N. Bukharin, Teoria del Materialismo Storico - Manuale popolare di sociologia marxista [N. d. R.]) sia rimasto impigliato nell'Ideologia, mentre la filosofia della prassi rappresenta un netto superamento e storicamente si contrappone appunto all'Ideologia. Lo stesso significato che il termine di «ideologia» ha assunto nella filosofia della prassi contiene implicitamente un giudizio di disvalore ed esclude che per i suoi fondatori l'origine delle idee fosse da ricercare nelle sensazioni e quindi, in ultima analisi, nella fisiologia: questa stessa «ideologia» deve essere analizzata storicamente, secondo la filosofia della prassi, come una superstruttura.

Un elemento di errore nella considerazione del valore delle ideologie mi pare sia dovuto al fatto (fatto che d'altronde non è casuale) che si dà il nome di ideologia sia alla soprastruttura necessaria di una determinata struttura, sia alle elucubrazioni arbitrarie di determinati individui. Il senso deteriore della parola è diventato estensivo e ciò ha modificato e snaturato l'analisi teorica del concetto di ideologia. Il processo di questo errore può essere facilmente ricostruito: 1) si identifica l'ideologia come distinta dalla struttura e si afferma che non le ideologie mutano le strutture ma viceversa; 2) si afferma che una certa soluzione politica è «ideologica» cioè è insufficiente a mutare la struttura, mentre crede di poterla mutare; si afferma che è inutile, stupida ecc.; 3) si passa ad affermare che ogni ideologia è «pura» apparenza, inutile, stupida, ecc.

Bisogna dunque distinguere tra ideologie storicamente organiche, che sono cioè necessarie a una certa struttura, e ideologie arbitrarie, razionalistiche, «volute». In quanto storicamente necessarie esse hanno una validità che è validità «psicologica», esse «organizzano» le masse umane, formano il terreno in cui gli uomini si muovono, acquistano coscienza della loro posizione, lottano, ecc. In quanto «arbitrarie» non creano altro che «movimenti» individuali, polemiche, ecc. (non sono completamente inutili neanche esse, perché sono come l'errore che si contrappone alla verità e l'afferma).

Ricordare la frequente affermazione che fa il Marx della «solidità delle credenze popolari» come elemento necessario di una determinata situazione. Egli dice presso a poco «quando questo modo di concepire avrà la forza delle credenze popolari» ecc. Altra affermazione del Marx è che una persuasione popolare ha spesso la stessa energia di una forza materiale o qualcosa di simile e che è molto significativa. L'analisi di queste affermazioni credo porti a rafforzare la concezione di «blocco storico», in cui appunto le forze materiali sono il contenuto e le ideologie la forma, distinzione di forma e contenuto meramente didascalica, perché le forze materiali non sarebbero concepibili storicamente senza forma e le ideologie sarebbero ghiribizzi individuali senza le forze materiali.

La. discussione scientifica.

Nell'impostazione dei problemi storico-critici, non bisogna concepire la discussione scientifica come un processo giudiziario, in cui c'è un imputato e c'è un procuratore che, per obbligo d'ufficio, deve dimostrare che l'imputato è colpevole e degno di essere tolto dalla circolazione. Nella discussione scientifica, poiché si suppone che l'interesse sia la ricerca della verità e il progresso della scienza, si dimostra più «avanzato» chi si pone dal punto di vista che l'avversario può esprimere un'esigenza che deve essere incorporata, sia pure come un momento subordinato, nella propria costruzione. Comprendere e valutare realisticamente la posizione e le ragioni dell'avversario (e talvolta è avversario tutto il pensiero passato) significa appunto essersi liberato dalla prigione delle ideologie (nel senso deteriore, di cieco fanatismo ideologico), cioè porsi da un punto di vista «critico», l'unico fecondo nella ricerca scientifica.

Filosofia e storia.

Cosa occorra intendere per filosofia, per filosofia in un'epoca storica, e quale sia l'importanza e il significato delle filosofie dei filosofi in ognuna di tali epoche storiche. Assunta la definizione che B. Croce dà della religione, cioè di una concezione del mondo che sia diventata norma di vita, poiché norma di vita non s'intende in senso libresco ma attuata nella vita pratica, la maggior parte degli uomini sono filosofi in quanto operano praticamente e nel loro pratico operare (nelle linee direttive della loro condotta) è contenuta implicitamente una concezione del mondo, una filosofia. La storia della filosofia come si intende comunemente, cioè come storia delle filosofie dei filosofi, è la storia dei tentativi e   delle  iniziative   ideologiche   di   una   determinata   classe   di   persone per mutare, correggere, perfezionare le concezioni del mondo esistenti in ogni determinata epoca e per mutare quindi le conformi e relative norme di condotta, ossia per mutare la attività pratica nel   suo   complesso.

Dal punto di vista che a noi interessa, lo studio della storia e della logica delle diverse filosofie dei filosofi non è sufficiente. Almeno come indirizzo metodico, occorre attirare l'attenzione sulle altre parti della storia della filosofia; cioè sulle concezioni del mondo delle grandi masse, su quelle dei più ristretti gruppi dirigenti (o intellettuali) e infine sui legami tra questi vari complessi culturali e la filosofia dei filosofi. La filosofia di un'epoca non è la filosofia di uno o altro filosofo, di uno o altro gruppo di intellettuali, di una o altra grande partizione delle masse popolari : è una combinazione di tutti questi elementi che culmina in una determinata direzione, in cui il suo culminare diventa norma d'azione collettiva, cioè diventa   «storia»   concreta   e   completa   (integrale).

La filosofia di un'epoca storica non è dunque altro che la «storia» di quella stessa epoca, non è altro che la massa di variazioni che il gruppo dirigente è riuscito a determinare nella realtà precedente : storia e filosofia sono inscindibili in questo senso, formano «blocco». Possono però essere «distinti» gli elementi filosofici propriamente detti, e in tutti i loro diversi gradi : come filosofìa dei filosofi, come concezioni dei gruppi dirigenti (cultura filosofica) e come religioni delle grandi masse, e vedere come in ognuno di questi gradi si abbia a che fare con forme diverse di «combinazione»   ideologica.

Filosofia «creativa».

Cosa è la filosofia? Un'attività puramente ricettiva o tutto al più ordinatrice, oppure una attività assolutamente creativa? Occorre definire cosa s'intende per «ricettivo», «ordinatore», «creativo». «Ricettivo» implica la certezza di un mondo esterno assolutamente immutabile, che esiste «in generale», obbiettivamente nel senso volgare del termine. «Ordinatore» si avvicina a «ricettivo» : sebbene implichi un'attività del pensiero, questa attività è limitata e angusta. Ma cosa significa «creativo» ? Significherà che il mondo esterno è creato dal pensiero? Ma da qual pensiero e di chi? Si può cadere nel solipsismo e infatti ogni torma di idealismo cade nel solipsismo necessariamente. Per sfuggire al solipsismo e nello stesso tempo alle concezioni meccanicistiche che  sono implicite nella concezione del pensiero come attività ricettiva e ordinatrice, occorre porre la quistione «storicisticamente» e nello stesso tempo porre a base della filosofia la «volontà» (in ultima analisi l'attività pratica o politica), ma una volontà razionale, non arbitraria, che si realizza in quanto corrisponde a necessità obbiettive storiche, cioè in quanto è la stessa storia universale nel momento della sua attuazione progressiva; se questa volontà è rappresentata inizialmente da un singolo individuo, la sua razionalità è documentata da ciò che essa viene accolta dal gran numero, è accolta permanentemente, cioè diventa una cultura, un «buon senso», una concezione del mondo, con una etica conforme alla sua struttura. Fino alla filosofia classica tedesca, la filosofia fu concepita come attività ricettiva o al massimo ordinatrice, cioè fu concepita come conoscenza di un meccanismo obbiettivamente funzionante all'infuori dell'uomo. La filosofia classica tedesca introdusse il concetto di «creatività» del pensiero, ma in senso idealistico e speculativo. Pare che solo la filosofia della prassi abbia fatto fare un passo avanti al pensiero, sulla base della filosofia classica tedesca, evitando ogni tendenza al solipsismo, storicizzando il pensiero in quanto lo assume come concezione del mondo, come «buon senso» diffuso nel gran numero (e tale diffusione non sarebbe appunto pensabile senza la razionalità o storicità) e diffuso in modo tale da convertirsi in norma attiva di condotta. Creativo occorre intenderlo quindi nel senso «relativo», di pensiero che modifica il modo di sentire del maggior numero e quindi la realtà stessa che non può essere pensata senza questo maggior numero. Creativo anche nel senso che insegna come non esista una «realtà» per sé stante, in sé e per sé, ma in rapporto storico con gli uomini che la modificano,   ecc.

Importanza storica di una filosofia.

Molte ricerche e studi intorno al significato storico delle diverse filosofie sono assolutamente sterili e cervellotici perché non si tiene conto del fatto che molti sistemi filosofici sono espressioni puramente (o quasi) individuali e che la parte che di essi può chiamarsi storica è spesso minima e annegata in un complesso di astrazioni di origine puramente razionale e astratta. Si può dire che il valore storico di una filosofia può essere «calcolato» dall'efficacia «pratica» che essa ha conquistato (e «pratica» deve essere intesa in senso largo). Se è vero che ogni filosofia è l'espressione di una società, dovrebbe reagire sulla società, determinare certi effetti, positivi e negativi; la misura in cui appunto reagisce e  la  misura   della   sua  portata   storica,   del   suo  non   essere   «elucubrazione» individuale, ma «fatto storico».

Il filosofo.

Posto il principio che tutti gli uomini sono «filosofi», che cioè tra i filosofi professionali o «tecnici» e gli altri uomini non c'è differenza «qualitativa» ma solo «quantitativa» (e in questo caso «quantità» ha un significato suo particolare, che non può essere confuso con somma aritmetica, poiché indica maggiore o minore (( omogeneità», «coerenza», «logicità» ecc., cioè quantità di elementi qualitativi), è tuttavia da vedere in che consista propriamente la differenza. Cosi non sarà esatto chiamare «filosofia» ogni tendenza di pensiero, ogni orientamento generale ecc. e neppure ogni «concezione del mondo e della vita». Il filosofo si potrà chiamare «un operaio qualificato» in confronto ai manovali, ma neanche questo è esatto, perché nell'industria, oltre al manovale e all'operaio qualificato, c'è l'ingegnere, il quale non solo conosce il mestiere praticamente, ma lo conosce teoricamente e storicamente. Il filosofo professionale o tecnico non solo «pensa» con maggior rigore logico, con maggiore coerenza, con maggiore spirito di sistema degli altri uomini, ma conosce tutta la storia del pensiero, cioè sa rendersi ragione dello sviluppo che il pensiero ha avuto fino a lui ed è in grado di riprendere i problemi dal punto in cui essi si trovano dopo aver subito il massimo di tentativo di soluzione ecc. Ha nel campo del pensiero la stessa funzione che nei diversi campi scientifici hanno gli specialisti.

Tuttavia c'è una differenza tra il filosofo specialista e gli altri specialisti: che il filosofo specialista si avvicina più agli altri uomini di ciò che avvenga per gli altri specialisti. L'avere fatto del filosofo specialista una figura simile, nella scienza, agli altri specialisti, è appunto ciò che ha determinato la caricatura del filosofo. Infatti si può immaginare un entomologo specialista, senza che tutti gli altri uomini siano «entomologhi» empirici, uno specialista della trigonometria, senza che la maggior parte degli altri uomini si occupino di trigonometria ecc. (si possono trovare scienze raffinatissime, specializ-zatissime, necessarie, ma non perciò «comuni»), ma non si può pensare nessun uomo che non sia anche filosofo, che non pensi, appunto perché il pensare è proprio dell'uomo come tale (a meno che non sia patologicamente idiota).

Il linguaggio, le lingue, il senso comune.

In che consiste esattamente il pregio di quello che suol chiamarsi «senso comune» o (( buon senso» ? Non solamente nel fatto che, sia pure implicitamente, il senso comune impiega il principio di causalità, ma nel fatto molto più ristretto, che in una serie di giudizi il senso comune identifica la causa esatta, semplice e alla mano, e non si lascia deviare da arzigogolature e astruserie metafisiche, pseudo-profonde, pseudoscientifiche ecc. Il «senso comune» non poteva non essere esaltato nei secoli xvn e xvm, quando si reagì al principio di autorità rappresentato dalla Bibbia e da Aristotile : si scopri infatti che nel «senso comune» c'era una certa dose di «sperimentalismo» e di osservazione diretta della realtà, sia pure empirica e limitata. Anche oggi, in rapporti simili, si ha lo stesso giudizio di pregio del senso comune, sebbene la situazione sia mutata e il «senso comune» odierno abbia molta più limitatezza nel suo pregio intrinseco.

Posta la filosofia come concezione del mondo e l'operosità filosor fica non concepita più solamente come elaborazione «individuale» di concetti sistematicamente coerenti ma inoltre e specialmente come lotta culturale per trasformare la «mentalità» popolare e diffondere le innovazioni filosofiche che si dimostreranno «storicamente vere» nella misura in cui diventeranno concretamente cioè storicamente e socialmente universali, — la quistione del linguaggio e delle lingue «tecnicamente» deve essere posta in primo piano. Saranno da rivedere le pubblicazioni in proposito dei pragmatisti. (Cfr.   gli  Scritti   di   G.   Vailati   (Firenze,   1911),   tra   i   quali   lo   studio   «Il linguaggio   come   ostacolo   alla   eliminazione   di   contrasti   illusori».)

Nel caso dei pragmatisti, come in generale nei confronti di qualsiasi altro tentativo di sistemazione organica della filosofia, non è detto che il riferimento sia alla totalità del sistema o al nucleo essenziale di esso. Mi pare di poter dire che la concezione del linguaggio del Vailati e di altri pragmatisti non sia accettabile; tuttavia pare che essi abbiano sentito delle esigenze reali e le abbiano «descritte» con esattezza approssimativa, anche se non sono riusciti a impostare i problemi e a darne la soluzione. Pare si possa dire che «linguaggio» è essenzialmente un nome collettivo, che non presuppone una cosa «unica» né nel tempo né nello spazio. Linguaggio significa anche cultura e filosofia (sia pure nel grado di senso comune) e pertanto il fatto  «linguaggio»  è  in realtà una molteplicità di  fatti più o meno organicamente coerenti e coordinati: al limite si può dire che ogni essere parlante ha un proprio linguaggio personale, cioè un proprio modo di Densare e di sentire. La cultura, nei suoi vari gradi, unifica una maggiore o minore quantità di individui in strati numerosi, più o meno a contatto espressivo, che sì capiscono tra loro in gradi diversi ecc. Sono queste differenze e distinzioni storico-sociali che si riflettono nel linguaggio comune e producono quegli «ostacoli» e quelle  «cause di errore»   di cui i pragmatisti  hanno  trattato.

Da questo si deduce l'importanza che ha il «momento culturale» anche nell'attività pratica (collettiva): ogni atto storico non può non essere compiuto dall'«uomo collettivo», cioè presuppone il raggiungimento di una unità «culturale-sociale» per cui una molteplicità di voleri disgregati, con eterogeneità di fini, si saldano insieme per uno stesso fine, sulla base di una uguale e comune concezione del mondo (generale e particolare, transitoriamente operante — per via emozionale — o permanente, per cui la base intellettuale è cosi radicata, assimilata, vissuta che può diventare passione). Poiché cosi avviene, appare l'importanza della quistione linguistica generale, cioè del raggiungimento collettivo  di uno  stesso  «clima»  culturale.

Questo problema può e deve essere avvicinato all'impostazione moderna della dottrina e della pratica pedagogica, secondo cui il rapporto tra maestro e scolaro è un rapporto attivo, di relazioni reciproche e pertanto ogni maestro è sempre scolaro e ogni scolaro maestro. Ma il rapporto pedagogico non può essere limitato ai rapporti specificatamente «scolastici», per i quali le nuove generazioni entrano in contatto con le anziane e ne assorbono le esperienze e i valori storicamente necessari «maturando» e sviluppando una propria personalità storicamente e culturalmente superiore. Questo rapporto esiste in tutta la società nel suo complesso e per ogni individuo rispetto ad altri individui, tra ceti intellettuali e non intellettuali, tra governanti e governati, tra élites e seguaci, tra dirigenti e diretti, tra avanguardie e corpi di esercito. Ogni rapporto di «egemonia» è necessariamente un rapporto pedagogico e si verifica non solo nell'interno di una nazione, tra le diverse forze che la compongono, ma nell'intero campo internazionale e mondiale, tra complessi di civiltà nazionali e continentali.

Perciò si può dire che la personalità storica di un filosofo individuale è data anche dal rapporto attivo tra lui e l'ambiente culturale che egli vuole modificare, ambiente che reagisce sul filosofo e costringendolo a una continua autocritica,  funziona da   «maestro».  Cosi si è avuto che una delle maggiori rivendicazioni dei moderni ceti intellettuali nel campo politico è stata quella delle cosi dette «libertà di pensiero e di espressione del pensiero (stampa e associazione)», perché solo dove esiste questa condizione politica si realizza il rapporto di maestro-discepolo nei sensi più generali su ricordati e in realtà si realizza «storicamente» un nuovo tipo di filosofo che si può chiamare «filosofo democratico», cioè del filosofo convinto che la sua personalità non si limita al proprio individuo fisico, ma è un rapporto sociale attivo di modificazione dell'ambiente culturale. Quando il «pensatore» si accontenta del pensiero proprio, «soggettivamente» libero, cioè astrattamente libero, dà oggi luogo alla beffa : l'unità di scienza e vita è appunto una unità attiva, in cui solo si realizza la libertà di pensiero, è un rapporto maestro-scolaro, filosofo-ambiente culturale in cui operare, da cui trarre i problemi necessari da   impostare   e   risolvere,   cioè   è   il   rapporto   filosofia-storia.

Che cosa è l'uomo?

È questa la domanda prima e principale della filosofia. Come si può rispondere? La definizione si può trovare nell'uomo stesso, e cioè in ogni singolo uomo. Ma è giusta? In ogni singolo uomo si può trovare che cosa è ogni «singolo uomo». Ma a noi non interessa che cosa è ogni singolo uomo, che poi significa che cosa è ogni singolo uomo in ogni singolo momento. Se ci pensiamo, vediamo che ponendoci la domanda che cosa è l'uomo, vogliamo dire: che cosa l'uomo può diventare, se cioè l'uomo può dominare il proprio destino, può «farsi», può crearsi una vita. Diciamo dunque che l'uomo è un processo e precisamente è il processo dei suoi atti. Se ci pensiamo, la stessa domanda: cosa è l'uomo? non è una domanda astratta o «obbiettiva». Essa è nata da ciò che abbiamo riflettuto su noi stessi e sugli altri e vogliamo sapere, in rapporto a ciò che abbiamo riflettuto e visto, cosa siamo, e cosa possiamo diventare, se realmente ed entro quali limiti, siamo «fabbri di noi stessi», della nostra vita, del nostro destino. E ciò vogliamo saperlo «oggi», nelle condizioni date oggi, della vita «odierna» e non di una qualsiasi vita e di un qualsiasi uomo.

La domanda è nata, riceve il suo contenuto, da speciali, cioè determinati modi di considerare la vita e l'uomo: il più importante di questi modi è la «religione» ed una determinata religione, il catto-licismo. In realtà, domandandoci : «cos'è l'uomo», quale importanza ha la sua volontà e la sua concreta attività nel creare se stesso e la vita che yive, vogliamo dire;  «è il cattolicismo una concezione esatta dell'uomo e della vita? essendo cattolici, cioè facendo del cattolicismo una norma di vita, sbagliamo o siamo nel vero?» Tutti hanno la vaga intuizione che, facendo del cattolicismo una norma di vita, sbagliano, tanto vero che nessuno si attiene al cattolicismo come norma di vita, pur dichiarandosi cattolico. Un cattolico integrale, che cioè applicasse in ogni atto della vita, le norme cattoliche sembrerebbe un mostro, ciò che è, a pensarci, la critica più rigorosa del cattolicismo stesso e la più perentoria.

I cattolici diranno che nessuna altra concezione è seguita puntualmente, ed hanno ragione, ma ciò dimostra solo che non esiste di fatto, storicamente, un modo di concepire ed operare uguale per tutti gli uomini e niente altro; non ha nessuna ragione favorevole al cattolicismo, sebbene questo modo di pensare ed operare da secoli sia organizzato a questo scopo, ciò che ancora non è avvenuto per nessun'altra religione con gli stessi mezzi, con lo stesso spirito di sistema, con la stessa continuità e centralizzazione. Dal punto di vista «filosofico» ciò che non soddisfa nel cattolicismo è il fatto che esso, nonostante tutto, pone la causa del male nell'uomo stesso individuo, cioè concepisce l'uomo come individuo ben definito e limitato. Tutte le filosofie finora esistite può dirsi che riproducono questa posizione del cattolicismo, cioè concepiscono l'uomo come individuo limitato alla sua individualità e lo spirito come tale individualità. È su questo punto che occorre riformare il concetto dell'uomo. Cioè occorre concepire l'uomo come una serie di rapporti attivi (un processo) in cui se l'individualità ha la massima importanza, non è però il solo elemento da considerare. L'umanità che si riflette in ogni individualità è composta di diversi elementi: i) l'individuo; 2) gli altri uomini; 3) la natura. Ma il 20 e il 30 elemento non sono cosi semplici come potrebbe apparire. L'individuo non entra in rapporti con gli altri uomini per giustapposizione, ma organicamente, cioè in quanto entra a far parte di organismi dai più semplici ai più complessi. Cosi l'uomo non entra in rapporti con la natura semplicemente per il fatto di essere egli stesso natura, ma attivamente, per mezzo del lavoro e della tecnica. Ancora. Questi rapporti non sono meccanici. Sono attivi e coscienti, cioè corrispondono a un grado maggiore o minore d'intelligenza che di essi ha il singolo uomo. Perciò si può dire che ognuno cambia se stesso, si modifica, nella misura in cui cambia e modifica tutto il complesso di rapporti di cui egli è il centro di annodamento. In questo senso il filosofo reale è e non può non essere altri che il politico,    cioè    l'uomo    attivo    che    modifica    l'ambiente,    inteso    per ambiente l'insieme dei rapporti di cui ogni singolo entra a far parte. Se la propria individualità è l'insieme di questi rapporti, farsi una personalità significa acquistare coscienza di tali rapporti, modificare la propria personalità significa modificare l'insieme di questi rapporti.

Ma questi rapporti, come si è detto, non sono semplici. Intanto, alcuni di essi sono necessari, altri volontari. Inoltre averne coscienza più o meno profonda (cioè conoscere più o meno il modo con cui si possono modificare) già li modifica. Gli stessi rapporti necessari in quanto sono conosciuti nella loro necessità, cambiano d'aspetto e d'importanza. La conoscenza è potere, in questo senso. Ma il problema è complesso anche per un altro aspetto : che non basta conoscere l'insieme dei rapporti in quanto esistono in un momento dato come un dato sistema, ma importa conoscerli geneticamente, nel loro moto di formazione, poiché ogni individuo non solo è la sintesi dei rapporti esistenti ma anche della storia di questi rapporti, cioè è il riassunto di tutto il passato. Si dirà che ciò che ogni singolo può cambiare è ben poco, in rapporto alle sue forze. Ciò che è vero fino a un certo punto. Poiché il singolo può associarsi con tutti quelli che vogliono lo stesso cambiamento e se questo cambiamento è razionale, il singolo può moltiplicarsi per un numero imponente di volte e ottenere un cambiamento ben più radicale di quello che a prima vista può  sembrare possibile.

Le società alle quali un singolo può partecipare sono molto numerose, più di quanto può sembrare. È attraverso queste «società» che il singolo fa parte del genere umano. Cosi sono molteplici i modi con cui il singolo entra in rapporto colla natura, poiché per tecnica deve intendersi non solo quell'insieme di nozioni scientifiche applicate industrialmente che di solito s'intende, ma anche gli strumenti «mentali»,  la conoscenza filosofica.

Che l'uomo non possa concepirsi aitro che vivente in società è luogo comune, tuttavia non se ne traggono tutte le conseguenze necessarie anche individuali: che una determinata società umana presupponga una determinata società delle cose e che la società umana sia possibile solo in quanto esiste una determinata società delle cose è anche luogo comune. È vero che finora a questi organismi oltre individuali è stato dato un significato meccanicistico e deterministico (sia la societas hominum che la societas rerum): quindi la reazione. Bisogna elaborare una dottrina in cui tutti questi rapporti sono attivi e in movimento, fissando ben chiaro che sede di questa attività è la coscienza dell'uomo singolo che conosce, vuole, ammira, crea, in quanto già conosce, vuole, ammira, crea, ecc. e sì concepisce non isolato ma ricco di possibilità offertegli dagli altri uomini e dalla società delle cose di cui non può non avere una certa conoscenza. (Come ogni uomo  è filosofo,  ogni uomo è  scienziato,  ecc.).

L'affermazione di Feuerbach : «L'uomo è quello che mangia», può essere presa in sé, interpretata variamente. Interpretazione gretta e stolta: — cioè l'uomo è volta per volta quello che mangia materialmente, cioè i cibi hanno una immediata influenza determinatrice sul modo di pensare. Ricordare l'affermazione di Amadeo (Amadeo Bordiga, ex-dirigente comunista, estremista, poi espulso dal partito   [N.   d.   R.) che, se si sapesse ciò che un uomo ha mangiato prima di un discorso, per esempio, si sarebbe in grado di interpretare meglio il discorso stesso. Affermazione infantile, e, di fatto, estranea anche alla scienza positiva, poiché il cervello non viene nutrito di fave o di tartufi, ma i cibi giungono a ricostituire le molecole del cervello trasformati in sostanze omogenee e assimilabili, che hanno cioè la «stessa natura» potenziale delle molecole cerebrali. Se questa affermazione fosse vera, la storia avrebbe la sua matrice determinante nella cucina e le rivoluzioni coinciderebbero coi mutamenti radicali dell'alimentazione di massa. Il contrario è storicamente vero: cioè sono le rivoluzioni e il complesso sviluppo storico che hanno modificato l'alimentazione e creato i «gusti» successivi nella scelta dei cibi. Non è la semina regolare del frumento, che ha fatto cessare il nomadismo, ma viceversa, le condizioni emergenti contro il- nomadismo hanno spinto alle semine   regolari,   ecc. (Cfr. questa affermazione del Feuerbach con la campagna di S. E. Marinetti contro la pastasciutta e la polemica di S. E. Bontempelli in difesa, e ciò nel 1930, in pieno  sviluppo della  crisi mondiale.)

D'altronde è anche vero che «l'uomo è quello che mangia», in quanto l'alimentazione è una delle espressioni dei rapporti sociali nel loro complesso, e ogni raggruppamento sociale ha una sua fondamentale alimentazione, ma allo stesso modo si può dire che l'«uomo è il suo abbigliamento», l'«uomo è il suo appartamento», l'«uomo è il suo particolare modo di riprodursi cioè la sua famiglia», poiché coll'alimentazione, l'abbigliamento, la casa, la riproduzione sono elementi della vita sociale in cui appunto in modo più evidente e più diffuso (cioè con estensione di massa) si manifesta il complesso dei rapporti  sociali.

Il problema di cos'è l'uomo è dunque sempre il cosi detto problema della «natura umana» o anche quello del cosi detto «uomo in generale», cioè la ricerca di creare una scienza dell'uomo (una filosofia) che parta da un concetto inizialmente «unitario», da un'astrazione in cui si possa contenere tutto l'«umano». Ma l'«umano» è un punto di partenza o un punto di arrivo, come concetto e fatto unitario ? o non è piuttosto, questa ricerca, un residuo «teologico» e «metafisico» in quanto posto come punto di partenza? La filosofia non può essere ridotta ad una naturalistica «antropologia», cioè l'unità del genere umano non è data dalla natura «biologica» dell'uomo: le differenze dell'uomo, che contano nella storia non sono quelle biologiche (razze, conformazione del cranio, colore della pelle ecc., e a ciò si riduce poi l'affermazione : «l'uomo è ciò che mangia» — mangia grano in Europa, riso in Asia ecc. — che si ridurrebbe poi all'altra affermazione: «l'uomo è il paese dove abita», poiché la gran parte degli alimenti in generale, è legata alla terra abitata) e neppure l'«unità biologica» ha mai contato gran che nella storia (l'uomo è quell'animale che ha mangiato se stesso, proprio quando era più vicino allo «stato naturale», cioè quando non poteva moltiplicare «artificialmente» la produzione dei beni naturali). Neanche «la facoltà di ragionare» o lo «spirito» ha creato unità e può essere riconosciuto come fatto «unitario», perché concetto solo formale, categorico. Non il «pensiero», ma ciò che realmente si pensa unisce o differenzia gli uomini.

Che la «natura umana» sia il «complesso dei rapporti sociali» è la risposta più soddisfacente, perché include l'idea del divenire : l'uomo diviene, si muta continuamente col mutarsi dei rapporti sociali e perché nega l'«uomo in generale» : infatti i rapporti sociali sono espressi da diversi gruppi di uomini che si presuppongono, la cui unità è dialettica, non formale. L'uomo è aristocratico in quanto è servo della gleba ecc. Si può anche dire che la natura dell'uomo è la «storia» (e in questo senso — posto storia uguale spirito — che la natura dell'uomo è lo spirito) se appunto si dà a storia il significato di «divenire», in una «concordia discors» che non parte dall'unità, ma ha in sé le ragioni di una unità possibile : perciò la «natura umana» non può ritrovarsi in nessun uomo particolare ma in tutta la storia del genere umano (e il fatto che si adoperi la parola «genere», di carattere naturalistico ha il suo significato) mentre in ogni singolo si trovano caratteri messi in rilievo dalla contraddizione con quelli di altri.   La   concezione   di   «spirito»   delle   filosofie   tradizionali   come quella di «natura umana» trovata nella biologia dovrebbero spiegarsi come «utopie scientifiche» che sostituirono la maggior utopia della «natura umana» cercata in Dio (e gli uomini — figli di Dio) e servono a indicare il travaglio continuo della storia, un'aspirazione razionale e sentimentale ecc. È vero che tanto le religioni che affermano l'eguaglianza degli uomini come figli di Dio o le filosofie che affermano la loro uguaglianza come partecipanti della facoltà di ragionare, sono state espressioni di complessi movimenti rivoluzionari (la trasformazione del mondo classico — la trasformazione del mondo medioevale) che hanno posto gli anelli più potenti dello sviluppo storico.

Che la dialettica hegeliana sia stata l'ultimo riflesso di questi grandi nodi storici e che la dialettica, da espressione delle contraddizioni sociali debba diventare, con la sparizione di queste contraddizioni, una pura dialettica concettuale, sarebbe alla base delle ultime filosofie a base utopistica come quella del Croce.

Nella storia l'«uguaglianza» reale, cioè il grado di «spiritualità» raggiunto dal processo storico della «natura umana», si identifica ne! sistema di associazioni «private e pubbliche», «esplicite ed implicite» che si annodano nello «Stato» e nel sistema mondiale politico : si tratta di «uguaglianze» sentite come tali fra i membri di una associazione e di «diseguaglianze» sentite tra le diverse associazioni; uguaglianze e disuguaglianze che valgono in quanto se ne abbia coscienza individualmente e come gruppo. Si giunge cosi anche alla eguaglianza o equazione tra «filosofia e politica» tra pensiero e azione, cioè ad una filosofia della prassi. Tutto è politico, anche la filosofia o le filosofie x, e la sola «filosofia» è la storia in atto, cioè è la vita stessa. In questo senso si può interpretare la tesi del proletariato tedesco erede della filosofia classica tedesca — e si può affermare che la teorizzazione e la realizzazione dell'egemonia fatta da Ilici ( Lenin) è stato anche un grande avvenimento  «metafisico».

Progresso e divenire.

Si tratta di due cose diverse o di aspetti diversi di uno stesso concetto? Il progresso è una ideologia, il divenire è una concezione filosofica. Il «progresso» dipende da una determinata mentalità, a costituire la quale entrano certi elementi culturali storicamente determinati; il «divenire» è un concetto filosofico, da cui può essere assente il  «progresso».  Nell'idea di progresso è sottintesa la possibilità di una misurazione quantitativa e qualitativa : più e meglio. Si suppone quindi una misura «fissa» o fissabile, ma questa misura è data dal passato, da una certa fase del passato, o da certi aspetti misurabili, ecc. (Non che si pensi a un sistema metrico del progresso). Come è nata l'idea del progresso? Rappresenta questa nascita un fatto culturale fondamentale, tale da fare epoca? Pare di si. La nascita e lo sviluppo dell'idea del progresso corrisponde alla coscienza diffusa che è stato raggiunto un certo rapporto tra la società e la natura (incluso nel concetto di natura quello di caso e di «irrazionalità») tale per cui gli uomini, nel loro complesso sono più sicuri del loro avvenire, possono concepire «razionalmente» dei piani complessivi della loro vita. Per combattere l'idea di progresso il Leopardi deve ricorrere alle eruzioni vulcaniche, cioè a quei fenomeni naturali che sono ancora «irresistibili» e senza rimedio. Ma nel passato c'erano ben più numerose forze irresistibili : carestie, epidemie, ecc. che entro certi limiti sono state dominate.

Che il progresso sia stata una ideologia democratica è indubbio, che abbia servito politicamente alla formazione dei moderni stati costituzionali, ecc., pure. Che oggi non sia più in auge, anche; ma in che senso? Non in quello che si sia perduta la fede nella possibilità di dominare razionalmente la natura e il caso, ma in senso «democratico»; cioè che i «portatori» ufficiali del progresso sono divenuti incapaci di questo dominio, perché hanno suscitato forze distruttive attuali altrettanto pericolose e angosciose di quelle del passato (ormai dimenticate «socialmente», se non da tutti gli elementi sociali, perché i contadini continuano a non comprendere il «progresso», cioè credono di essere, e sono ancora troppo in balia delle forze naturali e del caso, conservano quindi una mentalità «magica», medioevale, «religiosa») come le «crisi», la disoccupazione, ecc. La crisi dell'idea di progresso non è quindi crisi dell'idea stessa, ma crisi dei portatori di essa idea, che sono diventati «natura» da dominare essi stessi. Gli assalti all'idea di progresso, in questa situazione, sono molto interessati e tendenziosi.

Può disgiungersi l'idea di progresso da quella di divenire? Non pare. Esse sono nate insieme, come politica (in Francia), come filosofia (in Germania, poi sviluppata in Italia). Nel «divenire» si è cercato di salvare ciò che di più concreto è nel «progresso», il movimento e anzi il movimento dialettico (quindi anche un approfondimento, perché il progresso è legato alla concezione volgare dell'evoluzione).

Da un articoluccio di Aldo Capasso nell'«Italia Letteraria» del 4 dicembre 1932 riporto alcuni brani che presentano i dubbi volgari su   questi   problemi:

Anche da noi è comune l'irrisione verso l'ottimismo umanitario e democratico di stile ottocentesco, e Leopardi non è un solitario quando parla delle «sorti progressive» con ironia; ma s'è escogitato quell'astuto travestimento del «Progresso» che è l'idealistico «Divenire»; idea che resterà nella storia, crediamo, piti ancora come italiana che come tedesca. Ma che senso può avere un Divenire che si prosegue ad infinitum, un miglioramento che non sarà mai paragonabile ad un bene fisico? Mancando il criterio di un «ultimo» gradino stabile, manca, del «miglioramento» l'unità di misura. E inoltre non si può arrivare nemmeno a pascersi della fiducia di essere, noi uomini reali e viventi, migliori, che so, o dei Romani o dei primi Cristiani, perché il «miglioramento» andando inteso in un senso tutto ideale, è perfettamente ammissibile che noi oggi siamo tutti «decadenti» mentre, allora, fossero quasi tutti uomini pieni o magari santi. Sicché, dal punto di vista etico, l'idea di ascesa ad infinitum implicita nel concetto di Divenire resta alquanto ingiustificabile, dato che il «melioramento» etico è fatto individuale e che nel piano individuale è proprio possibile concludere, procedendo caso per caso, che tutta l'epoca ultima è deteriore... E allora il concetto del Divenire ottimistico si fa inafferrabile tanto sul piano ideale quanto sul piano reale. ... È noto come il Croce negasse il valore raziocinativo del Leopardi, asserendo che pessimismo e ottimismo sono atteggiamenti sentimentali, non filosofici. Ma il pessimista potrebbe osservare che, per l'appunto la concezione del Divenire idealistica, è un fatto d'ottimismo e di sentimento, perché il pessimista e l'ottimista (se non animati di fede nel Trascendente) concepiscono allo stesso modo la Storia: come lo scorrere di un fiume senza foce; e poi collocano l'accento sulla parola «fiume» o sulle parole «senza foce», secondo il loro stato sentimentale. Dicono gli uni: non c'è foce, ma, come in un fiume armonioso, c'è la continuità delle onde e la sopravvivenza, sviluppata, nell'oggi, dello ieri... E gli altri: c'è la continuità di un fiume, ma non c'è la foce... Insomma, non dimentichiamo che l'ottimismo è sentimento, non meno del pessimismo. Resta che ogni «filosofia» non può fare a meno di atteggiarsi sentimentalmente,   «come   pessimismo   o   come   ottimismo»   ecc.   ecc.

Non c'è molta coerenza nel pensiero del Capasso, ma il suo modo di pensare è espressivo di uno stato d'animo diffuso, molto snobistico é incerto, molto sconnesso e superficiale e talvolta anche senza molta onestà e lealtà intellettuale e senza la necessaria logicità formale.

La quistione è sempre la stessa: cos'è l'uomo? cos'è la natura umana? Se si definisce l'uomo come individuo, psicologicamente o speculativamente, questi problemi del progresso e del divenire sono insolubili o rimangono di mera parola. Ma se si concepisce l'uomo come l'insieme dei rapporti sociali, intanto appare che ogni paragone tra uomini, nel tempo, è impossibile, perché si tratta di cose diverse, se non eterogenee. D'altronde, poiché l'uomo è anche l'insieme delle sue condizioni di vita, si può misurare quantitativamente la differenza tra il passato e il presente, poiché si. può misurare la misura in cui l'uomo domina la natura e il caso. La possibilità non è la realtà, ma è anch'essa una realtà : che l'uomo possa fare una cosa o non possa farla, ha la sua importanza per valutare ciò che realmente si fa. Possibilità vuol dire «libertà». La misura delle libertà entra nel concetto d'uomo. Che ci siano le possibilità obbiettive di non morire di fame, e che si muoia di fame ha la sua importanza, a quanto pare. Ma l'esistenza delle condizioni obbiettive, o possibilità o libertà non è ancora sufficiente : occorre «conoscerle» e sapersene servire. Volersene servire. L'uomo, in questo senso, è volontà concreta, cioè applicazione effettuale dell'astratto volere o impulso vitale ai mezzi concreti che tale volontà realizzano. Si crea la propria personalità : 1) dando un indirizzo determinato e concreto («razionale») al proprio impulso vitale o volontà; 2) identificando i mezzi che rendono tale volontà concreta e determinata e non arbitraria; 3) contribuendo a modificare l'insieme delle condizioni concrete che realizzano questa volontà nella misura dei propri limiti di potenza e nella forma più fruttuosa. L'uomo è da concepire come un blocco storico di elementi puramente individuali e soggettivi e di elementi di massa e oggettivi o materiali coi quali l'individuo è in rapporto attivo. Trasformare il mondo esterno, i rapporti generali, significa potenziare se stesso, sviluppare se stesso. Che il «miglioramento» etico sia puramente individuale è illusione ed errore : la sintesi degli elementi costitutivi dell'individualità è •( individuale», ma essa non si realizza e sviluppa senza un'attività verso l'esterno, modificatrice dei rapporti esterni, da quelli verso la natura a quelli verso gli altri uomini in vari gradi, nelle diverse cerchie sociali in cui si vive, fino al rapporto massimo, che abbraccia tutto il genere umano. Perciò si può dire che l'uòmo è essenzialmente «politico», poiché l'attività per trasformare e dirigere coscientemente gli altri uomini realizza la sua «umanità», la sua «natura umana».

L'individualismo.

Sul cosi detto «individualismo», cioè sull'atteggiamento che ogni periodo storico ha avuto sulla posizione dell'individuo nel mondo e nella vita storica : ciò che oggi si chiama «individualismo» ha avuto origine nella rivoluzione culturale successa al Medioevo (Rinascimento e Riforma) e indica una determinata posizione verso il problema della divinità e quindi della Chiesa : è il passaggio dal pensiero  trascendente  all'immanentismo.

Pregiudizi contro l'individualismo, fino a ripetere contro di esso le geremiadi, più che critiche, del pensiero cattolico e retrivo : l'«individualismo» che è diventato antistorico oggi è quello che si manifesta nell'appropriazione individuale della ricchezza, mentre la produzione della ricchezza si è andata sempre più socializzando. Che i cattolici poi siano i meno adatti a gemere sull'individualismo si può dedurre dal fatto che essi sempre, politicamente, hanno riconosciuto una personalità politica solo alla proprietà, cioè l'uomo valeva non per sé, ma in quanto integrato da beni materiali. Cosa significava il fatto che si era elettori in quanto si aveva un censo e che si apparteneva a tante comunità politico-amministrative in quante comunità si aveva beni materiali, se non un abbassamento dello «spirito» di fronte alla «materia» ? Se è concepito «uomo» solo chi possiede, e se è diventato impossibile che tutti possiedano, perché sarebbe antispirituale il cercare una forma di proprietà in cui le forze materiali integrino e contribuiscano a costituire tutte le personalità? In realtà, implicitamente si riconosceva che la «natura» umana era non dentro l'individuo, ma nell'unità dell'uomo e delle forze materiali : pertanto la conquista delle forze materiali è un modo, e il più importante, di conquistare la personalità. ( In questi ultimi tempi è stato molto lodato un libro del giovane scrittore cattolico francese Daniel Rops, Le monde sans àme, Paris, Plon, 1932, tradotto anche in Italia, in cui sarebbe da prendere in esame tutta una serie di concetti attraverso i quali, sofisticamente, si rimettono in onore posizioni del passato come fossero   di  attualità,   ecc.)

Esame del concetto di natura umana.

Origini del sentimento di «uguaglianza» : la religione con la sua idea di dio-padre e uomini-figli, quindi uguali; — la filosofia secondo l'aforisma Omnis enim philosophia, cum ad communem homìnum cogitandì jacultatem revocet, per se democratica est; ideoque ab opti-matibus non iniuria sibi exstimatur perniciosa. La scienza biologica, che afferma l'uguaglianza «naturale» cioè psico-fisica di tutti gli elementi individuali del «genere» umano: tutti nascono allo stesso modo, ecc. «L'uomo è mortale; Tizio è uomo, Tizio è mortale». Tizio uguale tutti gli uomini. Cosi ha origine empirico-scientifica (empirico-scienza folcloristica) la formula:   «Siamo nati tutti nudi».

Ricordare la novella di Chesterton sulla «Ingenuità di padre Brown», sull'uomo-portalettere e l'uomo piccolo costruttore di macchine portentose. C'è un'osservazione di questo genere: «Una vecchia dama abita in un castello con venti servi: è visitata da un'altra dama e dice a questa: — Sono sempre cosi sola, — ecc. Il medico le annunzia che c'è la peste in giro, infezioni, ecc. e allora dice: — Siamo in tanti». (Il Chesterton trae da questo spunto effetti puramente   novellistici   di   intrigo).

Filosofia e democrazia.

Si può osservare il parallelo svolgersi della democrazia moderna e di determinate forme di materialismo metafisico e di idealismo. L'uguaglianza è ricercata dal materialismo francese del secolo xvm nella riduzione dell'uomo a categoria della storia naturale, individuo di una specie biologica, distinto non per qualificazioni sociali e storiche, ma per doti naturali; in ogni caso essenzialmente uguale ai suoi simili. Questa concezione è passata nel senso comune, che ha come affermazione popolare che «siamo nati tutti nudi» (se pure l'affermazione di senso comune non è precedente alla discussione ideologica degli intellettuali). Nell'idealismo si ha l'affermazione che la filosofia è la scienza democratica per eccellenza in quanto si riferisce alla facoltà di ragionare comune a tutti gli uomini, cosa per cui si spiega l'odio degli aristocratici per la filosofia e le proibizioni legali contro l'insegnamento e la cultura da parte delle classi del vecchio regime.

Quantità e qualità.

Poiché non può esistere quantità senza qualità e qualità senza quantità (economia senza cultura, attività pratica senza intelligenza e viceversa) ogni contrapposizione dei due termini è un non senso razionalmente. E infatti, quando si contrappone la qualità alla quantità con tutte le variazioni melense alla Guglielmo Ferrerò e Co., in realtà si contrappone una certa qualità ad altra qualità, una certa quantità ad altra quantità, cioè si fa una certa politica e non si fa un'affermazione filosofica. Se il nesso quantità-qualità è inscindibile si pone la questione: ove sia più utile applicare la propria forza di volere: a sviluppare la quantità o la qualità? Quale dei due aspetti è più controllabile? quale più facilmente misurabile? su quale si possono fare previsioni, costruire piani di lavoro? La risposta non pare dubbia: sull'aspetto quantitativo. Affermare pertanto che si vuole lavorare sulla quantità, che si vuole sviluppare l'aspetto «corposo» del reale non significa che si voglia trascurare la «qualità», ma significa invece che si vuole porre il problema qualitativo nel modo più concreto e realistico, cioè si vuole sviluppare la qualità nel solo modo in cui tale sviluppo è controllabile e misurabile.

La quistione è connessa all'altra espressa nel proverbio : «Primum vivere, deinde philosophari». In realtà non è possibile staccare il vivere dal filosofare; tuttavia il proverbio ha un significato pratico: vivere significa occuparsi specialmente dell'attività pratica economica, filosofare  occuparsi di attività intellettuali  di  otium  licteratum.  Tuttavia c'è chi «vive» solamente, chi è costretto a un lavoro servile, estenuante, ecc., senza di cui alcuni non potrebbero avere la possibilità di essere esonerati dall'attività economica per filosofare. Sostenere la «qualità» contro la quantità significa proprio solo questo : mantenere intatte determinate condizioni di vita sociale in cui alcuni sono pura quantità, altri qualità. E come è piacevole ritenersi rappresentanti patentati della qualità, della bellezza, del pensiero, ecc. Non c'è signora del bel mondo che non creda di adempiere a tale funzione  di  conservare  sulla  terra la qualità e la bellezza!

Teoria e pratica.

È da ricercare, analizzare e criticare la diversa forma in cui si è presentato nella storia delle idee il concetto di unità della teoria e della pratica, poiché pare indubbio che ogni concezione del mondo e ogni filosofia si è preoccupata di questo problema. Affermazione di san Tommaso e della scolastica : «Intellectus speculativa* extensione fit practicus», la teoria per semplice estensione si fa pratica, cioè affermazione della necessaria connessione tra l'ordine delle idee e quello dell'azione. Aforisma del Leibnitz, tanto ripetuto dagli idealisti italiani : «Quo magis speculativa, magis practica» detto della scienza. La proposizione di G. B. Vico «verum ipsum factum» tanto discussa e variamente interpretata (cfr. il libro del Croce sul Vico e altri scritti polemici del Croce stesso) e che il Croce svolge nel senso idealistico che il conoscere sia un fare e che si conosce ciò che si fa, in cui «fare» ha un particolare significato, tanto particolare che poi significa niente altro che «conoscere» cioè si risolve in una tautologia (concezione che tuttavia deve essere messa in   relazione   colla   concezione   propria   della   filosofia   della   prassi).

Poiché ogni azione è il risultato di volontà diverse, con diverso grado di intensità, di consapevolezza, di omogeneità con l'intiero complesso di volontà collettiva, è chiaro che anche la teoria corrispondente e implicita sarà una combinazione di credenze e punti di vista altrettanto scompaginati ed eterogenei. Tuttavia vi è adesione completa della teoria alla pratica, in questi limiti e in questi termini. Se il problema di identificare teoria e pratica si pone, si pone in questo senso: di costruire su una determinata pratica una teoria che, coincidendo e identificandosi con gli elementi decisivi della pratica stessa, acceleri il processo storico in atto, rendendo la pratica più omogenea, coerente, efficiente in tutti i suoi elementi, cioè potenziandola al massimo,   oppure,   data   una   certa   posizione   teorica,   di   organizzare l'elemento pratico indispensabile per la sua messa in opera. L'identificazione di teoria e pratica è un atto critico, per cui la pratica viene dimostrata razionale e necessaria o la teoria realistica e razionale. Ecco perché il problema dell'identità di teoria e pratica si pone specialmente in certi momenti storici cosi detti di transizione, cioè di più rapido movimento trasformativo, quando realmente le forze pratiche scatenate domandano di essere giustificate per essere piti efficienti ed espansive, o si moltiplicano i programmi teorici che domandano di essere anch'essi giustificati realisticamente in quanto dimostrano di essere assimilabili dai movimenti pratici che solo cosi diventano più pratici e reali.

Struttura e superstruttura.

La proposizione contenuta nell'introduzione alla «Critica dell'economia politica» che gli uomini prendono coscienza dei conflitti di struttura nel terreno delle ideologie deve essere considerata come un'affermazione di valore gnoseologico e non puramente psicologico e morale. Da ciò consegue che il principio teorico-pratico dell'egemonia ha anche esso una portata gnoseologica e pertanto in questo campo è da ricercare l'apporto teorico massimo di Ilic (Lenin) alla filosofia della prassi. Ilic avrebbe fatto progredire effettivamente la filosofia come filosofia in quanto fece progredire la dottrina e la pratica politica. La realizzazione di un apparato egemonico, in quanto crea un nuovo terreno ideologico, determina una riforma delle coscienze e dei metodi di conoscenza, è un fatto di conoscenza, un fatto filosofico. Con. linguaggio crociano : quando si riesce a introdurre una nuova morale conforme a una nuova concezione del mondo, si finisce con l'introdurre anche tale concezione, cioè si determina una intera riforma filosofica.

La struttura e le superstrutture formano un «blocco storico», cioè l'insieme complesso contraddittorio e discorde delle soprastrutture è il riflesso dell'insieme dei rapporti sociali di produzione. Se ne trae : — che solo un sistema di ideologie totalitario riflette razionalmente la contraddizione della struttura e rappresenta l'esistenza delle condizioni oggettive per il rovesciamento della prassi. Se si forma un gruppo sociale omogeneo al ioo % per l'ideologia, ciò significa che esistono al ioo % le premesse per questo rovesciamento, cioè  che  il   «razionale»   è reale  attuosamente  e  attualmente.   Il  ragionamento  si   basa   sulla  reciprocità   necessaria   tra   struttura   e   super-strutture   (reciprocità   che  è   appunto   il   processo   dialettico   reale).

Il termine di «catarsi».

Si può impiegare il termine di «catarsi» per indicare il passaggio dal momento meramente economico (o egoi-stico-passionale) al momento etico-politico, cioè l'elaborazione superiore della struttura in super-struttura nella coscienza degli uomini. Ciò significa anche il passaggio dall'«oggettivo al soggettivo» e dalla <( necessità alla libertà». La struttura da forza esteriore che schiaccia l'uomo, lo assimila a sé, lo rende passivo, si trasforma in mezzo di libertà, in strumento per creare una nuova forma etico-politica, in origine di nuove iniziative. La fissazione del momento «catartico» diventa cosi, mi pare, il punto di partenza di tutta la filosofia della prassi; il processo catartico coincide con la catena di sintesi che sono risultate dallo  svolgimento dialettico. ( Ricordare sempre i due punti tra cui oscilla questo processo: — che nessuna società si pone compiti per la cui soluzione non esistano già o siano in via di apparizione le condizioni necessarie e sufficienti — e che nessuna società perisce prima  di  aver  espresso  tutto  il  suo  contenuto  potenziale.)

Il «noumeno» kantiano.

La quistione della «oggettività esterna del reale» in quanto è connessa col concetto della «cosa in sé» e del «noumeno» kantiano. Pare difficile escludere che la «cosa in sé» sia una derivazione dell'«oggettività esterna del reale» e del cosi detto realismo greco-cristiano (Aristotele - san Tommaso) e ciò si vede anche nel fatto che tutta una tendenza del materialismo volgare e del positivismo ha dato luogo alla scuola neokantiana e neocritica.

Se la realtà è come noi la conosciamo e la nostra conoscenza muta continuamente, se cioè nessuna filosofia è definitiva ma è storicamente determinata, è difficile immaginare che la realtà oggettivamente muti col nostro mutare ed è difficile ammetterlo non solo per il senso comune ma anche per il pensiero scientifico. Nella Sacra Famiglia si dice che la realtà si esaurisce tutta nei fenomeni e che al di là dei fenomeni non c'è nulla, e così è certamente. Ma la dimostrazione non è agevole. Cosa sono i fenomeni? Sono qualcosa di oggettivo, che esistono in sé e per sé, o sono qualità che l'uomo ha distinto in conseguenza dei suoi interessi pratici (la costruzione della sua vita economica) e dei suoi interessi scientifici, cioè della necessità di trovare un ordine nel mondo e di  descrivere e classificare  le cose (necessità che è anch'essa legata a interessi pratici mediati e futuri)? Posta l'affermazione che ciò che noi conosciamo nelle cose è niente altro che noi stessi, i nostri bisogni e i nostri interessi, cioè che le nostre conoscenze sono soprastrutture (o filosofie non definitive) è difficile evitare che si pensi a qualcosa di reale di là di queste conoscenze, non nel senso metafisico di un «noumeno», di un «dio ignoto» o di «un inconoscibile», ma nel senso concreto di una «relativa ignoranza» della realtà, di qualcosa di ancora «sconosciuto» che però potrà essere un giorno conosciuto quando gli strumenti «fisici» e intellettuali degli uomini saranno più perfetti, cioè quando saranno mutate, in senso progressivo, le condizioni sociali e tecniche della umanità. Si fa quindi una previsione storica che consiste semplicemente nell'atto del pensiero che proietta nell'avvenire un processo di sviluppo come quello che si è verificato dal passato ad oggi. In ogni modo  occorre  studiare  Kant  e  rivedere  i   suoi  concetti   esattamente.

Storia e antistoria.

È da osservare che l'attuale discussione tra <i storia e antistoria» non è altro che la ripetizione nei termini della cultura filosofica moderna della discussione, avvenuta alla fine del secolo scorso, nei termini del naturalismo e positivismo, se la natura e la storia procedono per «salti» o solo per evoluzione graduale e progressiva. La stessa discussione si ritrova svolta anche dalle generazioni precedenti, sia nel campo delle scienze naturali (dottrine del Cuvier) sia nel campo filosofico (e si trova la discussione nello Hegel). Si dovrebbe fare la storia di questo problema in tutte le sue manifestazioni concrete e significative e si troverebbe che esso è sempre stato attuale, perché in ogni tempo ci sono stati conservatori e giacobini, progressisti e retrivi. Ma il significato «teorico» di questa discussione mi pare consistere in ciò : essa indica il punto di passaggio «logico» di ogni concezione del mondo alla morale che le è conforme, di ogni «contemplazione» all'«azione», di ogni filosofia all'azione politica che ne dipende. È il punto cioè in cui la concezione del mondo, la contemplazione, la filosofia diventano «reali» perché tendono a modificare il mondo, a rovesciare la prassi. Si può dire perciò che questo è il nesso centrale della filosofia della prassi, il punto in cui essa si attualizza, vive storicamente, cioè socialmente e non più solo nei cervelli individuali, cessa dall'essere «arbitraria» e diventa necessaria-razionale-reale.

Il problema è da vedere storicamente, appunto. Che i tanti mascheroni   nietzschiani   rivoltati   verbalmente   contro   tutto   l'esistente, contro i convenzionalismi, ecc. abbiano finito con lo stomacare e col togliere serietà a certi atteggiamenti, può essere ammesso, ma non bisogna, nei propri giudizi, lasciarsi guidare dai mascherotti. Contro il titanismo di maniera, il velleitarismo, l'astrattismo occorre avvertire la necessità di essere «sobri» nelle parole e negli atteggiamenti esteriori, appunto perché ci sia più forza nel carattere t nella volontà concreta. Ma questa è quistione di stile, non «teoretica».

La forma classica di questi passaggi dalla concezione del mondo alla norma pratica di condotta, mi pare quella per cui dalla predestinazione calvinistica sorge uno dei maggiori impulsi all'iniziativi! pratica che si sia avuto nella storia mondiale. Cosi ogni altra forma di determinismo a un certo punto si è sviluppata in spirito di iniziativa e in tensione estrema di volontà collettiva.

Dalla recensione di Mario Missiroli («I.C.S.», gennaio 1929) del libro di Tilgher (Saggi di Etica e di Filosofia del Diritto, Torino, Bocca, 1928, 8°, pp. xv-218), appare che la tesi fondamentale dell'opuscoletto Storia e Antistoria ha una grande  portata nel sistema  (!) filosofico del  Tilgher.

Scrive il Missiroli: «Si è detto, e non a torto, che l'idealismo italiano, che fa capo a Croce ed a Gentile, si risolve in un puro fenomenismo. Non v'è posto per la personalità. Contro questa tendenza reagisce vivacemente Adriano Tilgher con questo volume. Risalendo alla tradizione della filosofia classica, particolarmente a Fichte, Tilgher ribadisce con gran vigore la dottrina della libertà e del "dover essere". Dove non c'è libertà di scelta, c'è "natura". Impossibile sottrarsi al fatalismo. La vita e la storia perdono ogni senso e nessuna risposta ottengono gli eterni interrogativi della coscienza. Senza riferirsi ad un quid che trascenda la realtà empirica, non si può parlare di moralità, di bene e di male. Vecchia tesi. L'originalità di T. consiste nell'aver esteso per primo questa esigenza alla logica. Il " dover essere " è necessario alla logica non meno che alla morale. Di qui l'indissolubilità della logica e della morale che i vecchi trattatisti amavano tenere distinte. Posta la libertà come una premessa necessaria, ne consegue una teoria del libero arbitrio come assoluta possibilità di scelta fra il bene e il male. Cosi la pena (acutissime le pagine su il diritto penale) trova il suo fondamento non soltanto nella responsabilità (scuola classica) ma nel fatto puro e semplice che l'individuo può fare il male conoscendolo come tale. La causalità può tenere le veci della responsabilità. Il determinismo di chi delinque equivale al determinismo di chi punisce. Tutto bene. Ma questo energico richiamo al " dover essere ", all'antistoria, che crea la storia, non restaura, logicamente, il dualismo e la trascendenza? Non si può riguardare la trascendenza come un "momento" senza ricadere nell'immanentismo.   Non  si  viene  a  patti  con   Platone».

Filosofia speculativa.

Non bisogna nascondersi le difficoltà che presenta   la   discussione   e   la   critica   del   carattere   «speculativo»   di certi sistemi filosofici e la «negazione» teorica della «forma speculativa «   delle  concezioni  filosofiche.

Quistioni che nascono : 1) l'elemento «speculativo» è proprio di ogni filosofia, è la forma stessa che deve assumere ogni costruzione teorica in quanto tale, cioè «speculazione» è sinonimo di filosofia e di teoria? 2) oppure è da farsi una quistione «storica»: il problema è solo un problema storico e non teorico nel senso che ogni concezione del mondo, in una sua determinata fase storica, assume una forma «speculativa» che ne rappresenta l'apogeo e l'inizio del dissolvimento? Analogia e connessione collo sviluppo dello Stato, che dalla fase «economico-corporativa» passa alla fase «egemonica» (di consenso attivo). Si può dire cioè che ogni cultura ha il suo momento speculativo e religioso, che coincide col periodo di completa egemonia del gruppo sociale che esprime e forse coincide proprio col momento in cui l'egemonia reale si disgrega alla base, molecolarmente, ma il sistema di pensiero, appunto perciò (per reagire alla disgregazione) si perfeziona dogmaticamente, diventa una «fede» trascendentale: perciò si osserva che ogni epoca cosi detta di decadenza (in cui avviene una disgregazione del vecchio mondo) è caratterizzata da un pensiero raffinato e altamente «speculativo».

La critica pertanto deve risolvere la speculazione nei suoi termini reali di ideologia politica, di strumento d'azione pratica; ma la critica stessa avrà una sua fase speculativa, che ne segnerà l'apogeo. La quistione è questa: se questo apogeo non sia per essere l'inizio di una fase storica di nuovo tipo, in cui necessità-libertà essendosi compenetrate organicamente non ci saranno più contraddizioni sociali e la sola dialettica sarà quella ideale, dei concetti e non più delle forze storiche.

Nel brano sul «materialismo francese nel secolo xvm» (Sacra Famiglia) è abbastanza bene e chiaramente accennata la genesi della filosofia della prassi : essa è il «materialismo» perfezionato dal lavoro della stessa filosofia speculativa e fusosi con l'umanismo. È vero che con questi perfezionamenti del vecchio materialismo rimane solo il realismo filosofico.

Altro punto da meditare è questo : se la concezione di «spirito» della filosofia speculativa non sia una trasformazione aggiornata del vecchio concetto di «natura umana» proprio sia della trascendenza che del materialismo volgare, se cioè nella concezione dello «spirito» non  ci  sia  altro  che   il   vecchio   «Spirito  santo»   speculativizzato.   Si potrebbe   allora   dire   che  l'idealismo   è   intrinsecamente   teologico.

La «speculazione» (in senso idealistico) non ha introdotto una trascendenza di nuovo tipo nella riforma filosofica caratterizzata dalle concezioni immanentistiche? Pare che solo la filosofia della prassi sia la concezione conseguentemente «immanentistica». Sono specialmente da rivedere e criticare tutte le teorie storicistiche di carattere speculativo. Si potrebbe scrivere un nuovo Anti-Diihring che potrebbe essere un «Anti-Croce» da questo punto di vista, riassumendo non solo la polemica contro la filosofia speculativa, ma anche quella contro il positivismo e il meccanicismo e le forme deteriori della filosofia della prassi.

«Obbiettività» della conoscenza

. Per i cattolici «... tutta la teoria idealista riposa sulla negazione dell'obbiettività di ogni nostra conoscenza e sul monismo idealista dello " Spirito " (equivalente, in quanto monismo, a quello positivista della " Materia ") per cui il fondamento stesso della religione, Dio, non esiste obbiettivamente fuori di noi, ma è una creazione dell'intelletto. Pertanto l'idealismo, non meno del materialismo, è radicalmente contrario alla religione». (Cfr. articolo del padre Mario Barbera nella «Civiltà Cattolica» del 1° giugno   1929.)

La quistione della «obbiettività» della conoscenza secondo la filosofia della prassi può essere elaborata partendo dalla proposizione (contenuta nella prefazione alla «Critica dell'economia politica») che cfgli uomini diventano consapevoli (del conflitto tra le forze materiali di produzione) nel terreno ideologico» delle forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche, filosofiche. Ma tale consapevolezza è limitata al conflitto tra le forze materiali di produzione e i rapporti di produzione — secondo la lettera del testo — o si riferisce a ogni conoscenza consapevole? Questo è il punto da elaborare e che può esserlo con tutto l'insieme della dottrina filosofica del valore delle superstrutture. Cosa significherà, in tal caso, il termine di «monismo» ? Non certo quello materialista né quello idealista, ma identità dei contrari nell'atto storico concreto, cioè attività umana (storia-spirito) in concreto, connessa indissolubilmente a una certa «materia» organizzata (storicizzata), alla natura trasformata dall'uomo. Filosofia   dell'atto   (prassi,   svolgimento)   ma   non   dell'atto   «puro», bensì   proprio   dell'atto   «impuro»,   reale,   nel   senso   più   profano   e mondano della parola.

Pragmatismo e politica.

Il «pragmatismo» (di James, ecc.) non pare possa essere criticato se non si tiene conto del quadro storico anglosassone in cui è nato e si è diffuso. Se è vero che ogni filosofia è una «politica» e che ogni filosofo è essenzialmente un uomo politico, ciò tanto più si può dire per il pragmatista che costruisce la filosofia «utilitariamente» in senso immediato. Ma ciò non è pensabile (come movimento) in paesi cattolici, dove la religione e la vita culturale si sono scissi fin dal tempo del Rinascimento e della Controriforma, mentre è pensabile per i paesi anglosassoni, in cui la religione è molto aderente alla vita culturale di ogni giorno e non è centralizzata burocraticamente e dogmatizzata intellettualmente. In ogni caso il pragmatismo evade dalla sfera religiosa positiva e tende a creare una morale laica (di tipo non francese), tende a creare una «filosofia popolare» superiore al senso comune, è un «partito ideologico» immediato più che un sistema di filosofìa.

Se si prende il principio del pragmatista quale è esposto dal James : «il metodo migliore per discutere i punti diversi di qualche teoria si è di cominciare dal mettere in sodo quale differenza pratica risulterebbe dal fatto che l'una o l'altra delle due alternative fosse la vera» (W.   James,   Le  varie forme della  esperienza religiosa   -  Studio sulla  natura umana,  trad.  di G.  C. Ferrari e M.  Calderoni, ed.  Bocca,  1904,  p. 382), si vede quale sia l'immediatezza del politicismo filosofico pragmatista. Il filosofo «individuale» tipo italiano o tedesco, è legato alla «pratica» mediatamente (e spesso la mediazione è una catena di molti anelli), il pragmatista vi si vuole legare subito e in realtà appare cosi che il filosofo tipo italiano o tedesco è più «pratico» del pragmatista che giudica dalla realtà immediata, spesso volgare, mentre l'altro ha un fine più alto, pone il bersaglio più alto e quindi tende a elevare il livello culturale esistente (quando tende, si capisce). Hegel può essere concepito come il precursore teorico delle rivoluzioni liberali dell'8oo. I pragmatisti, tutt'al più, hanno giovato a creare il movimento del Rotary Club o a giustificare tutti i movimenti conservatori e retrivi (a giustificarli di fatto e non solo per distorsione polemica come è avvenuto per Hegel e lo Stato prussiano).

Etica.

La massima di E. Kant: «Opera in modo che la tua condotta possa diventare una norma per tutti gli uomini, in condizioni simili» è meno semplice e ovvia di ciò che appare a prima vista. Cosa si intende per «condizioni simili» ? Le condizioni immediate in cui si opera, o le condizioni generali complesse e organiche, la cui conoscenza richiede una ricerca lunga e criticamente elaborata? (Fondamento dell'etica socratica, in cui la volontà «morale» ha la sua base nell'intelletto, nella sapienza, per cui il male operare è dovuto all'ignoranza, ecc. e la ricerca della conoscenza critica è la base di una superiore morale o della morale senz'altro).

La massima kantiana può essere considerata un truismo, poiché è difficile trovare uno che non operi credendo di trovarsi nelle condizioni in cui tutti opererebbero come lui. Chi ruba per fame ritiene che chi ha fame ruberebbe, chi ammazza la moglie infedele ritiene che tutti i mariti traditi dovrebbero ammazzare ecc. Solo i «matti» in senso clinico, operano senza ritenere di essere nel giusto. La qui-stione è connessa con altre: i) ognuno è indulgente con se stesso, perché quando opera non «conformisticamente» conosce il meccanismo delle proprie sensazioni e dei propri giudizi, della catena di cause ed effetti che l'hanno portato ad operare — mentre per gli altri è rigorista, perché non ne conosce la vita interiore; 2) ognuno opera secondo la sua cultura, cioè la cultura del suo ambiente, e «tutti gli uomini» per lui sono il suo ambiente, quelli che la pensano come lui : la màssima di Kant presuppone una sola cultura, una sola religione, un conformismo  «mondiale».

L'obbiezione che non pare esatta è questa che «condizioni simili» non esistono perché tra le condizioni è compreso chi opera, la sua individualità ecc. Si può dire che la massima di Kant è connessa al tempo, all'illuminismo cosmopolita, e alla concezione critica dell'autore, cioè è legata alla filosofia degli intellettuali come ceto cosmopolitico. Pertanto chi opera è il portatore delle «condizioni simili», ossia il creatore di esse : cioè egli «deve» operare secondo un «modello» che vorrebbe diffuso tra tutti gli uomini, secondo un tipo di civiltà per l'avvento del quale lavora o per la cui conservazione «resiste»  contro le forze  disgregatrici, ecc.

Scetticismo.

L'obbiezione di senso comune che si può fare allo scetticismo è questa: che per essere coerente a se stesso, lo scettico non dovrebbe fare altro che vivere come un vegetale, senza intrigarsi negli  affari  della  vita  comune.   Se  lo  scettico  interviene  nella  discussìone, significa che egli crede di poter convincere, cioè non è più scettico, ma rappresenta una determinata opinione positiva, che di solito è cattiva e può trionfare solo convincendo la comunità che le altre sono anche peggiori, in quanto sono inutili. Lo scetticismo è collegato col materialismo volgare e col positivismo: è interessante un brano di Roberto Ardigò, in cui si dice che occorre lodare il Bergson per il suo volontarismo. Ma che significa ciò? Non è una confessione della impotenza della propria filosofia a spiegare il mondo, se occorre rivolgersi a un sistema opposto per trovare l'elemento necessario per la vita pratica? — Questo punto di Ardigò (contenuto negli Scritti vari raccolti e ordinati da G. Marchesini, Firenze, Le Monnier, 1922) deve essere messo in rapporto con le tesi su Feuerbach di Marx e dimostra appunto di quanto Marx avesse superato la posizione filosofica del materialismo volgare.

Concetto di «ideologia».

L'«ideologia» è stata un aspetto del «sensismo», ossia del materialismo francese del xvm secolo. Il suo significato originario era quello di «scienza delle idee» e poiché l'analisi era il solo metodo riconosciuto e applicato dalla scienza, significava «analisi delle idee» cioè «ricerca dell'origine delle idee». Le idee dovevano essere scomposte nei loro «elementi» originari e questi non potevano essere altro che le «sensazioni» : le idee derivano dalle sensazioni. Ma il sensismo poteva associarsi senza troppa difficoltà colla fede religiosa, con le credenze più estreme nella «potenza dello Spirito» e nei suoi «destini immortali» e cosi avviene che il Manzoni, anche dopo la sua conversione o ritorno al cattolicismo, anche quando scrisse gli Inni Sacri, mantenne la sua adesione di massima al sensismo, finché non conobbe la filosofia del Rosmini. (II più efficace propagatore letterario dell'ideologia è stato Destutt de Tracy (1754-1836) per la facilità e popolarità della sua esposizione; altro, il dott. Cabanis col suo Rapport du Physique et du Mora! (Condillac, Helvetius ecc. sono più strettamente   filosofi).    Legame    tra   cattolicismo   e   Ideologia:    Manzoni,    Cabanis, Bourget,  Taine (Taine è caposcuola  per Maurras e  altri  di  indirizzo  cattolico)  __ «romanzo psicologico» (Stendhal fu allievo del De Tracy ecc.) Di Destutt de Tracv l'opera principale è gli Eléments d'idéologie (Parigi, 1817-18) che è più completa nella traduzione italiana: Elementi di Ideologia del conte Destutt de Tracy, tradotti da G. Compagnoni, Milano, Stamperia di Giambattista Sonzogno, 1819 (nel testo francese manca una intera sezione, credo quella sull'Amore, che Stendhal   conobbe   e   utilizzò   dalla   traduzione   italiana.)

Come il concetto di Ideologia da  «scienza delle idee», da «anallisi sull'origine delle idee», sia passato a significare un determinato «sistema di idee» è da esaminare storicamente, poiché logicamente il processo è facile da cogliere e comprendere.

Si può affermare che il Freud sia l'ultimo degli Ideologi e che un «ideologo» sia il De Man, per cui appare tanto più strano l'«entusiasmo» per il De Man del Croce e dei crociani, se non ci tosse una giustificazione «pratica» di tale entusiasmo. È da esaminare come l'autore del Saggio Popolare (N.  Bukhamn,  Teoria del Materialismo Storico  - Manuale popolare di sociologia   marxista) sia rimasto impigliato nell'Ideologia, mentre la filosofia della prassi rappresenta un netto superamento e storicamente si contrappone appunto all'Ideologia. Lo stesso significato che il termine di «ideologia» ha assunto nella filosofia della prassi contiene implicitamente un giudizio di disvalore ed esclude che per i suoi fondatori l'origine delle idee fosse da ricercare nelle sensazioni e quindi, in ultima analisi, nella fisiologia: questa stessa «ideologia» deve essere analizzata storicamente, secondo la filosofia della prassi, come una superstruttura.

Un elemento di errore nella considerazione del valore delle ideologie mi pare sia dovuto al fatto (fatto che d'altronde non è casuale) che si dà il nome di ideologia sia alla soprastruttura necessaria di una determinata struttura, sia alle elucubrazioni arbitrarie di determinati individui. Il senso deteriore della parola è diventato estensivo e ciò ha modificato e snaturato l'analisi teorica del concetto di ideologia. Il processo di questo errore può essere facilmente ricostruito: 1) si identifica l'ideologìa come distinta dalla struttura e si afferma che non le ideologie mutano le strutture ma viceversa; 2) si afferma che una certa soluzione politica è «ideologica» cioè è insufficiente a mutare la struttura, mentre crede di poterla mutare; si afferma che è inutile, stupida ecc.; 3) si passa ad affermare che ogni ideologia   è   «pura»   apparenza,   inutile,   stupida,   ecc.

Bisogna dunque distinguere tra ideologie storicamente organiche, che sono cioè necessarie a una certa struttura, e ideologie arbitrarie, razionalistiche, «volute». In quanto storicamente necessarie esse hanno una validità che è validità «psicologica», esse «organizzano» le masse umane, formano il terreno in cui gli uomini si muovono, acquistano coscienza della loro posizione, lottano, ecc. In quanto «arbitrarie»   non   creano   altro   che   «movimenti»   individuali,   polemiche,   ecc.   (non   sono   completamente   inutili   neanche   esse,   perché sono come l'errore che si contrappone alla verità e l'afferma).

Ricordare la frequente affermazione che fa il Marx della «solidità delle credenze popolari» come elemento necessario di una determinata situazione. Egli dice presso a poco «quando questo modo di concepire avrà la forza delle credenze popolari» ecc. Altra affermazione del Marx è che una persuasione popolare ha spesso la stessa energia di una forza materiale o qualcosa di simile e che è molto significativa. L'analisi di queste affermazioni credo porti a rafforzare la concezione di «blocco storico», in cui appunto le forze materiali sono il contenuto e le ideologie la forma, distinzione di forma e contenuto meramente didascalica, perché le forze materiali non sarebbero concepibili storicamente senza forma e le ideologie sarebbero  ghiribizzi  individuali  senza le  forze  materiali.

LA SCIENZA E LE IDEOLOGIE «SCIENTIFICHE»

L'affermazione di Eddington : «Se nel corpo di un uomo eliminassimo tutto lo spazio privo di materia e riunissimo i suoi protoni ed elettroni in una sola massa, l'uomo (il corpo dell'uomo) sarebbe ridotto a un corpuscolo appena visibile al microscopio» (Cfr. La natura del mondo fisico, ed. francese, p. 20) ha colpito e messo in moto la fantasia di G. A. Borgese (cfr. il suo Libretto).

Ma che significa concretamente l'affermazione di Eddington? A rifletterci un po', non significa proprio nulla, oltre il suo significato letterale. Se anche la riduzione su descritta venisse fatta (da chi?) e fosse però estesa a tutto il mondo, i rapporti non muterebbero, le cose rimarrebbero tali come sono. Le cose muterebbero se solamente gli uomini o determinati uomini subissero questa riduzione in modo da avere, nell'ipotesi, una realizzazione di alcuni capitoli dei Viaggi di Gulliver, con i Lillipuziani, i giganti e Borgese-Gulliver tra di loro.

In realtà si tratta di puri giochi di parole, di scienza romanzata, non di un nuovo pensiero scientifico o filosofico, di un modo di porre le quistioni atto solo a far fantasticare le teste vuote. Forse la materia vista al microscopio non è piú materia realmente oggettiva, ma una creazione dello spirito umano che non esiste oggettivamente o empiricamente? Si potrebbe ricordare, a questo proposito, la novellina ebrea della ragazza che ha subito un guasto piccolo, piccolo, tic... come un colpetto d'unghia. Nella fisica di Eddington e in molte altre manifestazioni scientifiche moderne, la sorpresa del lettore ingenuo dipende dal fatto che le parole adoperate per indicare determinati fatti sono piegate a indicare arbitrariamente fatti assolutamente diversi. Un corpo rimane «massiccio» nel senso tradizionale anche se la «nuova» fisica dimostra che esso è costituito dì 1/1.000.000 di materia e di 999.999 parti di vuoto. Un corpo è «poroso» nel senso tradizionale e non lo diventa nel senso della «nuova» fisica anche dopo l'affermazione di Eddington. La posizione dell'uomo rimane la stessa, nessuno dei concetti fondamentali della vita viene minimamente scosso e tanto meno capovolto. Le glosse dei diversi Borgese varranno solo, a lungo andare, a rendere ridicole le concezioni soggettivistiche della realtà che permettono simili banali giochetti di parole.

Il prof. Mario Camis (Nuova Antologia» del io novembre 1931 nella rubrica Scienze biologiche e mediche) scrive: «Considerando la insuperata minutezza di questi metodi di indagine ci tornava alla memoria la espressione di un membro dell'ultimo Congresso filosofico di Oxford il quale, secondo riferisce il Borgese, parlando dei fenomeni infinitamente piccoli cui l'attenzione di tanti è oggi rivolta, osservava che "essi non si possono considerare indipendentemente dal soggetto che li osserva". Sono parole che inducono a molte riflessioni e che rimettono in campo, da punti di vista completamente nuovi, i grandi problemi dell'esistenza soggettiva dell'universo e del significato delle informazioni sensoriali nel pensiero scientifico». A quanto consta, è questo uno dei pochi esempi di infiltrazione fra gli scienziati italiani del modo di pensare funambolesco di certi scienziati specialmente inglesi a proposito della «nuova» fisica. Il prof. Camis avrebbe dovuto riflettere che se l'osservazione riportata dal Borgese fa riflettere, la prima riflessione dovrebbe essere questa: che la scienza non può piú esistere, cosí come è concepita finora, ma deve trasformarsi in una serie di atti di fede nelle affermazioni dei singoli sperimentatori, perché i fatti osservati non esistono indipendentemente dal loro spirito. Tutto il progresso scientifico non si è manifestato finora nel fatto che le nuove esperienze ed osservazioni hanno corretto e ampliato le esperienze ed osservazioni precedenti? Come questo potrebbe avvenire se l'esperienza data non si riproducesse anche se, mutato l'osservatore, non potesse essere controllata, ampliata, dando luogo a nessi nuovi e originali? Ma la superficialità dell'ossérvazione del Camis risulta proprio dal contesto dell'articolo da cui è fatta la citazione riferita, poiché in esso il Camis spiega implicitamente come l'espressione che ha fatto tanto vaneggiare il Borgese possa e debba intendersi in un senso meramente empirico e non filosofico.

Lo scritto del Camis è una recensione dell'opera On the principles of renal function, di Gösta Ekehorn (Stoccolma, 1931). Si parla di esperienze su elementi cosí piccoli che non possono essere descritti (e si intende anche ciò in senso relativo) con parole che siano valide e rappresentative per gli altri e che pertanto l'esperimentatore non riesce ancora a scindere dalla propria personalità soggettiva e ad oggettivare: ogni sperimentatore deve giungere alla percezione con mezzi propri, direttamente, seguendo minutamente tutto il processo. Si faccia questa ipotesi : che non esistano microscopi e che solo alcuni uomini abbiano la forza visiva naturale uguale a quella dell'occhio normale armato di microscopio. In questa ipotesi è evidente che le esperienze dell'osservatore munito di una vista eccezionale non possono essere scisse dalla sua personalità fisica e psichica e non possono essere «ripetute». Solo l'invenzione del microscopio pareggerà le condizioni fisiche di osservazione e permetterà a tutti gli scienziati di riprodurre l'esperienza e di svilupparla collettivamente. Ma questa ipotesi permette di osservare e identificare solo una parte delle difficoltà; nelle esperienze scientifiche non è solo la forza visiva in gioco. Come dice il Camis : l'Ekehorn punge un glomerulo di rene di rana con una cannula «la cui preparazione è opera di tanta finezza e tanto legata alle indefinibili ed inimitabili intuizioni manuali dello sperimentatore, che lo stesso Ekehorn, nel descrivere l'operazione del taglio a sghembo del capillare di vetro, dice di non poterne dare i precetti a parole, ma deve accontentarsi di una vaga indicazione». L'errore è di credere che simili fenomeni si verifichino solo nell'esperimento scientifico. In realtà, in ogni officina, per certe operazioni industriali di precisione, esistono specialisti individuali, la cui capacità si basa proprio e solo sull'estrema sensibilità della vista, del tatto, della rapidità del gesto. Nei libri di Ford si possono trovare esempi in proposito: nella lotta contro l'attrito, per ottenere superfici senza minime granulosità o ineguaglianze (ciò che permette un risparmio notevole di materiale) si sono fatti passi in avanti incredibili, con l'aiuto delle macchine elettriche, che collaudano l'aderenza perfetta ,del materiale come l'uomo non potrebbe fare. E' da ricordare il fatto riferito dal Ford di un tecnico scandinavo che riesce a dare all'acciaio una tale uguaglianza di superficie che per staccare due superfici fatte aderire tra loro occorre il peso di alcuni quintali.

Ciò che pertanto osserva il Camis non ha nessuna coerenza con le fantasticherie del Borgese e delle sue fonti. Se fosse vero che i fenomeni infinitamente piccoli in questione non si possono considerare esistenti indipendentemente dal soggetto che li osserva, essi in realtà non sarebbero neppure «osservati», ma «creati» e cadrebbero nello stesso dominio della pura intuizione fantastica dell'individuo. Sarebbe anche da porre la questione se lo stesso individuo può «due volte» creare (osservare) lo stesso fatto. Non si tratterebbe neppure di «solipsismo» ma di demiurgia o di stregoneria. Non i fenomeni (inesistenti) ma queste intuizioni fantastiche sarebbero allora oggetto di scienza, come le opere d'arte. Il gregge degli scienziati, che non gode di facoltà demiurgiche, studierebbe scientificamente il piccolo gruppo dei grandi scienziati taumaturghi. Ma se invece, nonostante tutte le difficoltà pratiche inerenti alla diversa sensibilità individuale, il fenomeno si ripete, e può essere osservato oggettivamente da vari scienziati, indipendentemente gli uni dagli altri, cosa significa l'affermazione riportata dal Borgese se non appunto che si fa una metafora per indicare le difficoltà inerenti alla descrizione e alla rappresentazione oggettiva dei fenomeni osservati? E non pare difficile spiegare questa difficoltà: 1) con l'incapacità letteraria degli scienziati, didatticamente preparati finora a descrivere e rappresentare solo i fenomeni macroscopici; 2) con l'insufficienza del linguaggio comune, foggiato anch'esso per i fenomeni macroscopici; 3) col relativamente piccolo sviluppo di queste scienze minimoscopiche, che attendono un ulteriore sviluppo dei loro metodi e criteri per essere comprese dai molti per comunicazione letteraria (e non solo per diretta visione sperimentale, che è privilegio di pochissimi); 4) occorre ancora ricordare che molte esperienze minimoscopiche sono esperienze indirette, a catena, il cui risultato «si vede» nei risultati e non in atto (cosí le esperienze di Rutherford).

Si tratta, in ogni modo, di una fase transitoria e iniziale di una nuova epoca scientifica, che ha prodotto, combinandosi con una grande crisi intellettuale e morale, una nuova forma di «sofistica», che richiama i classici sofismi di Achille e della tartaruga, del mucchio e del granello, della freccia scoccata dall'arco che non può non essere ferma, ecc. Sofismi che tuttavia hanno rappresentato una fase nello sviluppo della filosofia e della logica e hanno servito a raffinare gli strumenti del pensiero.

Raccogliere le principali definizioni che sono state date della scienza (nel senso di scienza naturale). «Studio dei fenomeni e delle loro leggi di somiglianza (regolarità), di coesistenza (coordinazione), di successione (causalità)». Altre tendenze, tenendo conto dell'ordinamento piú comodo che la scienza stabilisce tra i fenomeni, in modo da poterli meglio far padroneggiare dal pensiero e dominarli per i fini dell'azione, definiscono la scienza come « la descrizione piú economica della realtà».

La questione piú importante da risolvere intorno al concetto di scienza è questa : se la scienza può dare, e in che modo, la «certezza » dell'esistenza obbiettiva della cosí detta realtà esterna. Per il senso comune la quistione non esiste neppure; ma da che cosa è originata la certezza del senso comune? Essenzialmente dalla religione (almeno dal cristianesimo in occidente); ma la religione è un'ideologia, l'ideologia piú radicata e diffusa, non una prova o una dimostrazione. Si può sostenere come sia un errore domandare alla scienza come tale la prova dell'obbiettività del reale, poiché questa obbiettività è una concezione del mondo, una filosofia e non può essere un dato scientifico. Cosa può dare la scienza in questa direzione? La scienza seleziona le sensazioni, gli elementi primordiali della conoscenza : considera certe sensazioni come transitorie, come apparenti, come fallaci perché dipendono da speciali condizioni individuali e certe altre come durature, come permanenti, come superiori alle condizioni speciali individuali.

Il lavoro scientifico ha due aspetti principali : uno che incessantemente "rettifica il modo della conoscenza, rettifica e rafforza gli organi delle sensazioni, elabora principi nuovi e complessi di induzione e deduzione, cioè affina gli strumenti stessi dell'esperienza e del suo controllo; l'altro che applica questo complesso strumentale (di strumenti materiali e mentali) a stabilire ciò che nelle sensazioni è necessario da ciò che è arbitrario, individuale, transitorio. Si stabilisce ciò che è comune a tutti gli uomini, ciò che tutti gli uomini possono controllare nello stesso modo, indipendentemente gli uni dagli altri, purché essi abbiano osservato ugualmente le condizioni tecniche di accertamento. «Oggettivo a significa proprio e solo questo : che si afferma essere oggettivo, realtà oggettiva, quella realtà che è accertata da tutti gli uomini, che è indipendente da ogni punto di vista che sia meramente particolare o di gruppo.

Ma in fondo anche questa è una particolare concezione del mondo, è una ideologia. Tuttavia questa concezione, nel suo insieme e per la direzione che segna, può essere accettata dalla filosofia della prassi mentre è da rigettare quella del senso comune, che pure conclude materialmente nello stesso modo. Il senso comune afferma l'oggettività del reale in quanto la realtà, il mondo, è stato creato da dio indipendentemente dall'uomo, prima dell'uomo; essa è pertanto espressione della concezione mitologica del mondo; d'altronde il senso comune, nel descrivere questa oggettività, cade negli errori piú grossolani; in gran parte è ancora rimasto alla fase dell'astronomia tolemaica, non sa stabilire i nessi reali di causa ed effetto, ecc., cioè afferma «oggettiva» una certa « soggettività» anacronistica perché non sa neanche concepire che possa esistere una concezione soggettiva del mondo e cosa ciò voglia o possa significare.

Ma tutto ciò che la scienza afferma è «oggettivamente» vero? In modo definitivo? Se le verità scientifiche fossero definitive, la scienza avrebbe cessato di esistere come tale, come ricerca, come nuovi esperimenti e l'attività scientifica si ridurrebbe a una divulgazione del già scoperto. Ciò che non è vero, per fortuna della scienza. Ma se le verità scientifiche non sono neanche esse definitive e perentorie, anche la scienza è una categoria storica, è un movimento in continuo sviluppo. Solo che la scienza non pone nessuna forma di «inconoscibile» metafisico, ma riduce ciò che l'uomo non conosce a una empirica «non conoscenza» che non esclude la conoscibilità, ma la condiziona allo sviluppo degli strumenti fisici e allo sviluppo dell'intelligenza storica dei singoli scienziati.

Se è cosí, ciò che interessa la scienza non è tanto dunque l'oggettività del reale, ma l'uomo che elabora i suoi metodi di ricerca, che rettifica continuamente i suoi strumenti materiali che rafforzano gli organi sensori e gli strumenti logici (incluse le matematiche) di discriminazione e di accertamento, cioè la cultura, cioè la concezione del mondo, cioè il rapporto tra l'uomo e la realtà con la mediazione della tecnologia. Anche nella scienza, cercare la realtà fuori degli uomini, inteso ciò nel senso religioso o metafisico, appare niente altro che un paradosso. Senza l'uomo, cosa significherebbe la realtà dell'universo? Tutta la scienza è legata ai bisogni, alla vita, all'attività dell'uomo. Senza l'attività dell'uomo, creatrice di tutti i valori, anche scientifici, cosa sarebbe l'«oggettività»? Un caos, cioè niente, il vuoto, se pure cosí si può dire, perché realmente, se si immagina che non esiste l'uomo, non si può immaginare la lingua e il pensiero. Per la filosofia della prassi l'essere non può essere disgiunto dal pensare, l'uomo dalla natura, l'attività dalla materia, il soggetto dall'oggetto; se si fa questo distacco si cade in una delle tante forme di religione o nell'astrazione senza senso.

Porre la scienza a base della vita, fare della scienza la concezione del mondo per eccellenza, quella che snebbia gli occhi da ogni illusione ideologica, che pone l'uomo dinanzi alla realtà cosí come essa è, significa ricadere nel concetto che la filosofia della prassi abbia bisogno di sostegni filosofici all'infuori di se stessa. Ma in realtà anche la scienza è una superstruttura, una ideologia. Si può dire, tuttavia, che nello studio delle superstrutture la scienza occupi un posto privilegiato, per il fatto che la sua reazione sulla struttura ha un carattere particolare, di maggiore estensione e continuità di sviluppo, specialmente dopo il '700, da quando alla scienza fu fatto un posto a parte nell'apprezzamento generale? Che la scienza sia una superstruttura è dimostrato anche dal fatto che essa ha avuto dei periodi interi di ecclisse, oscurata come essa fu da un'altra ideologia dominante, la religione che affermava di aver assorbito la scienza stessa; cosí la scienza e la tecnica degli arabi apparivano ai cristiani pura stregoneria. Inoltre : la scienza, nonostante tutti gli sforzi degli scienziati, non si presenta mai come nuda nozione obbiettiva; essa appare sempre rivestita da una ideologia e concretamente è scienza l'unione del fatto obbiettivo con un'ipotesi o un sistema d'ipotesi che superano il mero fatto obbiettivo. vero però che in questo campo è relativamente facile distinguere la nozione obbiettiva dal sistema d'ipotesi, con un processo di astrazione che è insito nella stessa metodologia scientifica, in modo che si può appropriarsi dell'una e respingere l'altra. Ecco perché un gruppo sociale può appropriarsi la scienza di un altro gruppo senza accettarne l'ideologia (l'ideologia dell'evoluzione volgare, per esempio) cosí ché le osservazioni in proposito del Missiroli (e del Sorel) cadono.

E' da notare che accanto alla piú superficiale infatuazione per le scienze, esiste in realtà la piú grande ignoranza dei fatti e dei metodi scientifici, cose molto difficili e che sempre piú diventano difficili per il progressivo specializzarsi di nuovi rami di ricerca. La superstizione scientifica porta con sé illusioni cosí ridicole e concezioni cosí infantili che la stessa superstizione religiosa ne viene nobilitata. Il progresso scientifico ha fatto nascere la credenza e l'aspettazione di un nuovo tipo di Messia, che realizzerà in questa terra il paese di Cuccagna; le forze della natura, senza nessun intervento della fatica umana, ma per opera di meccanismi sempre piú perfezionati, daranno alla società in abbondanza tutto il necessario per soddisfare i suoi bisogni e vivere agiatamente. Contro questa infatuazione, i cui pericoli sono evidenti (la superstiziosa fede astratta nella forza taumaturgica dell'uomo, paradossalmente porta ad isterilire le basi stesse di questa stessa forza e a distruggere ogni amore al lavoro concreto e necessario, per fantasticare, come se si fosse fumato una nuova specie di oppio) bisogna combattere con vari mezzi, dei quali il piú importante dovrebbe essere una migliore conoscenza delle nozioni scientifiche essenziali, divulgando la scienza per opera di scienziati e di studiosi seri e non piú di giornalisti onnisapienti e di autodidatti presuntuosi. In realtà, poiché si aspetta troppo dalla scienza, la si concepisce come una superiore stregoneria, e perciò non si riesce a valutare realisticamente ciò che di concreto la scienza offre.

 

Gli strumenti logici del pensiero

La metodologia di Mario Govi. Il Govi (MARIO Govi, Fondazione della Metodologia - Logica ed Epistemologia, Torino, Bocca, 1929, pp. 579) è un positivista e il suo libro tende a rinnovare il vecchio positivismo classico, a creare un neopositivismo. In fondo per il Govi «metodologia» ha un significato molto ristretto, di «piccola logica»: si tratta per lui di costruire una nuova logica formale, astratta da ogni contenuto, anche dove egli parla delle varie scienze (classificate secondo la metodologia generale, ma sempre esteriormente) che sono presentate nella loro particolare logica astratta (specializzata, ma astratta), che il Govi chiama Epistemologia. Il Govi appunto divide la Metodologia in due parti : Metodologia generale o Logica propriamente detta e Metodologia speciale o Epistemologia.

La Epistemologia ha come scopo primario e principale la conoscenza esatta di quello speciale scopo conoscitivo a cui ciascuna diversa ricerca è diretta, per poter poi determinare i mezzi e il procedimento per conseguirlo. Il Govi riduce a tre i diversi scopi conoscitivi legittimi della ricerca umana : questi tre scopi costituiscono lo scibile umano e sono irriducibili a uno solo ossia sono essenzialmente diversi. Due sono scopi conoscitivi finali : la conoscenza teoretica o della realtà — la conoscenza pratica o di ciò che si deve e non si deve fare; il terzo consiste nelle conoscenze le quali sono mezzi per l'acquisizione delle precedenti. Si hanno dunque tre parti nella Epistemologia; scienza teorica o della realtà, scienza pratica, scienza strumentale. Da ciò tutta una analitica classificazione delle scienze. Il concetto di « legittimo» ha una grande importanza nel sistema del Govi (esso è parte della Metodologia generale o scienza del giudizio): ogni giudizio, considerato in sé, è vero o falso; considerato soggettivamente, ossia come prodotto dell'attività del pensiero di chi lo fa, è legittimo o illegittimo. Un giudizio può essere conosciuto vero o falso solo in quanto è riconosciuto legittimo o illegittimo. Sono legittimi i giudizi che sono eguali in tutti gli uomini (che li abbiano o li facciano) e vengono formati in tutti ugualmente; sono quindi legittimi i concetti primitivi formati a naturalmente» e senza dei quali non si può pensare, i concetti scientifici formati metodologicamente, i giudizi primitivi e i giudizi metodologicamente derivati dai giudizi legittimi.

Questi cenni sono tratti dall'articolo Metodologia e agnosticismo nella « Civiltà Cattolica» del 15 novembre 1930.

Pare che il libro del Govi sia interessante per il materiale storico che raccoglie specialmente intorno alla Logica generale e speciale, al problema della conoscenza e alle teorie sull'origine delle idee, alla classificazione delle scienze e alle varie divisioni dello scibile umano, alle varie concezioni e divisioni della Scienza teoretica, pratica ecc. La sua filosofia il Govi la chiama a empiristico-integralista», distinguendola dalla concezione religiosa e da quella razionalistica, nella quale primeggia la filosofia kantiana : la distingue anche, ma in modo subordinato, dalla concezione «empiristico-particolaristica» che è il positivismo. Egli si distingue dal positivismo in quanto ne ribatte alcuni eccessi e cioè la negazione non solo di ogni metafisica religiosa o razionalistica, ma anche ogni possibilità e legittimità di una metafisica; il Govi ammette invece la legittimità di una metafisica, ma con fondamenti puramente empirici (!) e costruita, in parte dopo e sulla base delle scienze reali particolari. (Cfr. quante delle teorie del Govi sono prese dai ncorealisti inglesi e specialmente da Bcrtrand Russell.)

La dialettica come parte della logica formale e della retorica. Cfr. per il modo di concepire la dialettica dei neotomisti, il libretto dei padri Liberatore e Corsi della Compagnia di Gesú (Napoli, Tipografia commerciale, 1930, in 80, pp. 70), Il padre Liberatore è stato uno dei piú celebri polemisti gesuiti e direttore della «Civiltà Cattolica».

Sono da cfr. anche i due volumi sulla Dialettica di B. Labanca, cattolico. Del resto nel suo capitolo su «Dialettica e Logica» nei Problemi fondamentali, Plekhanov concepisce la dialettica come una sezione della logica formale, come la logica del movimento in confronto alla logica della stasi. Il legame tra dialettica e retorica continua anche oggi nel linguaggio comune, in senso superiore quando si vuole indicare una oratoria stringente, in cui la deduzione o il nesso tra causa ed effetto è di carattere particolarmente convincente e in senso deteriore per l'oratoria pagliettesca, che fa stare a bocca aperta i villani.

Valore puramente strumentale della logica e della metodologia formali. Si può accostare la logica formale e la metodologia astratta alla « filologia». Anche la filologia ha un valore schiettamente strumentale, insieme con l'erudizione. Una funzione analoga è quella delle scienze matematiche. Concepita come valore strumentale, la logica formale ha un suo significato e un suo contenuto (il contenuto è nella sua funzione) cosf come hanno un loro valore e un loro significato gli strumenti e gli utensili da lavoro. Che una «lima» possa indifferentemente essere usata per limare ferro, rame, legno, diverse leghe metalliche ecc. non significa che sia a senza contenuto», puramente formale ecc. Cosí la logica formale ha un suo sviluppo, una sua storia, ecc.; può essere insegnata, arricchita ecc.

La tecnica del pensare. Su questo argomento è da confrontare l'affermazione contenuta nella prefazione dell'Anti-Diihring ( III ed., Stoccarda, 1894, p. XIX) che I'«arte di operare coi concetti non è alcunché di innato o di dato nella coscienza comune, ma è un lavoro tecnico del pensiero, che ha una lunga storia, né piú né meno della ricerca sperimentale delle scienze naturali». (Citato dal CROCE in Materialismo Storico ed Economia Marxista, 1921, IV, P. 31.)

Il Croce, citandola, nota tra parentesi che non si tratta di un concetto a peregrino », ma che esso era diventato di senso comune già prima di Engels. Ma non si tratta della maggiore o minore originalità o peregrinità del concetto, in questo caso e per questa trattazione : si tratta della sua importanza e del posto che deve occupare in un sistema di filosofia della prassi e si tratta di vedere se esso ha quel riconoscimento «pratico e culturale» che deve avere. A questo concetto occorre richiamarsi per intendere ciò che vuol dire Engels quando scrive che, dopo le innovazioni portate dalla filosofia della prassi, della vecchia filosofia rimane, tra l'altro, la logica formale, affermazione che il Croce riporta nel suo saggio sullo Hegel accompagnandola di un punto esclamativo : lo stupore del Croce per la «riabilitazione» della logica formale che pare implicita nell'affermazione dell'Engels deve essere collegato alla sua dottrina della «tecnica» dell'arte, per esempio, e a tutta una serie di altre sue opinioni che costituiscono la somma del suo effettivo «antistoricismo» e astrattismo metodico (le « distinzioni», il cui principio «metodico» è vanto del Croce aver introdotto nella tradizione «dialettica», diventano da principio scientifico, causa di «astrattezza» e di antistoricismo nella loro formalistica applicazione). Ma l'analogia tra la « tecnica» artistica e la «tecnica» del pensiero è superficiale e fallace, almeno in un certo senso. Può esistere un artista che « consapevolmente» o «riflessa-mente» non conosce nulla dell'elaborazione tecnica precedente (la sua tecnica egli la prenderà ingenuamente dal senso comune); ma ciò non può avvenire nella sfera della scienza in cui esiste progresso e deve esistere progresso, in cui il progresso della conoscenza è strettamente connesso al progresso strumentale, tecnico, metodologico e ne è anzi condizionato proprio come nelle scienze sperimentali in senso stretto.

E' da porre addirittura la questione se l'idealismo moderno e particolarmente il crocismo, con la sua riduzione della filosofia a una metodologia della storia non sia essenzialmente una «tecnica»; se lo stesso concetto di «speculazione» non sia essenzialmente una ricerca «tecnica», inteso certo in un significato superiore, meno estrinseco e materiale della ricerca che culminò nella costruzione della scolastica logica formale. Non pare che sia lontano da un tale punto di vista Adolfo Omodeo quando scrive (Critica a del 20 luglio 1932, p. 295) : (Il Loisy) «che aveva fatto l'esperienza dei sistemi di teologia, diffida di quelli di filosofia. Teme che una formula di sistema uccida ogni interesse per la storia concreta, che una deduzione piú o meno dialettica annienti la pienezza umana dell'effettiva formazione spirituale. E invero, in tutte le filosofie post-kantiane insieme con l'avviamento ad una visione panistorica, è attiva una tendenza metaistorica che vorrebbe dare di per sé un concetto metafisico dello spirito. Il Loisy avverte lo stesso bisogno che in Italia ha generato il tentativo di ridurre la filosofia a mera metodologia astratta della storia, contro la boria metafisica che disprezza " le grosse materialità della storia ". Egli chiarisce assai bene il suo concetto nel problema della morale, scarta le formule filosofiche perché esse, con una considerazione riflessa sulla morale, annullano il problema della vita e dell'azione morale, della formazione della personalità e della coscienza, ciò che noi siamo soliti chiamare la storicità dello spirito, la quale non è corollario di filosofia astratta. Ma forse l'esigenza è spinta troppo oltre, sino a disconoscere la funzione della filosofia come controllo metodico dei nostri concetti».

Nell'affermazione dell'Engels è da vedere, sia pure espressa in termini non rigorosi, questa esigenza metodica, che è tanto piú viva quanto piú il riferimento sottinteso è fatto non per gli intellettuali e per le così dette classi colte, ma per le masse popolari incolte, per le quali è necessaria ancora la conquista della logica formale, della piú elementare grammatica del pensiero e della lingua. Potrà sorgere la questione del posto che una tale tecnica deve occupare nei quadri della scienza filosofica, se essa cioè faccia parte della scienza come tale, già elaborata, o della propedeutica scientifica, del processo di elaborazione come tale. (Cosí nessuno può negare l'importanza, in chimica, dei corpi catalitici, perché di essi non rimane traccia nel risultato finale). Anche per la dialettica si presenta lo stesso problema; essa è un nuovo modo di pensare, una nuova filosofia, ma è anche perciò una nuova tecnica. Il principio della distinzione, sostenuto dal Croce, e pertanto tutte le sue polemiche con l'attualismo gentiliano non sono anche quistioni tecniche? Si può staccare il fatto tecnico da quello filosofico? Lo si può però isolare ai fini pratici didascalici. E infatti è da notare l'importanza che ha la tecnica del pensiero nella costruzione dei programmi didattici. Né si può fare il paragone tra la tecnica del pensiero e le vecchie retoriche. Queste né creavano artisti, né creavano il gusto, né davano criteri per apprezzare la bellezza: erano utili solo per creare un «conformismo a culturale, e un linguaggio da conversazione tra letterati. La tecnica del pensiero, elaborata come tale, non creerà certo grandi filosofi, ma darà criteri di giudizio e di controllo e correggerà le storture del modo di pensare del senso comune.

Sarebbe interessante un esame comparativo della tecnica del senso comune, della filosofia dell'uomo della strada, e la tecnica del pensiero riflesso e coerente. Anche in questo riguardo vale l'osservazione del Macaulay sulle debolezze logiche della cultura formatasi per via oratoria e declamatoria.

È da approfondire la questione dello studio della tecnica del pensiero come propedeutica, come processo di elaborazione, ma occorre esser cauti perché l'immagine di «strumento» tecnico può trarre in errore. Tra «tecnica a e «pensiero in atto» esistono piú identità che non esistano nelle scienze sperimentali tra « strumenti materiali a e scienza propriamente • detta. Forse un astronomo che non sappia servirsi dei suoi strumenti è concepibile (può avere da altri il materiale di ricerca da elaborare matematicamente) perché i rapporti tra «astronomia» e « strumenti astronomici» sono esteriori e meccanici e anche in astronomia esiste una tecnica del pensiero oltre alla tecnica degli strumenti materiali. Un poeta può non saper leggere e scrivere: in un certo senso anche un pensatore può farsi leggere e scrivere tutto ciò che lo interessa degli altri o egli ha già pensato. Perché il leggere e scrivere si riferiscono alla memoria, sono un aiuto della memoria. La tecnica del pensiero non può essere paragonata a queste operazioni, per cui si possa dire che importa insegnare questa tecnica come importa insegnare a leggere e a scrivere senza che ciò interessi la filosofia come il leggere e lo scrivere non interessa il poeta come tale.

Esperanto filosofico e scientifico. Dal non comprendere la storicità dei linguaggi e quindi delle filosofie, delle ideologie e delle opinioni scientifiche consegue la tendenza, che è propria di tutte le forme di pensiero (anche di quelle idealistico-storicistiche) a costruire se stesse come un esperanto o volapiik della filosofia e della scienza. Si può dire che si sia perpetuato (in forme sempre diverse e piú o meno attenuate) lo stato d'animo dei popoli primitivi verso gli altri popoli con cui entravano in rapporto. Ogni popolo primitivo chiamava (o chiama) se stesso con una parola che significa anche «uomo» e gli altri con parole che significano «muti» o «balbettanti» (barbari), in quanto non conoscono la «lingua degli uomini» (ne è venuto il bellissimo paradosso per cui «cannibale» o mangiatore di uomini significa originalmente — etimologicamente — «uomo per eccellenza» o «uomo vero»). Per gli esperantisti della filosofia e della scienza tutto ciò che non è espresso nel loro linguaggio è delirio, è pregiudizio, è superstizione, ecc.; essi (con un processo analogo a quello che si verifica nella mentalità settaria) trasformano in giudizio morale o in diagnosi di ordine psichiatrico quello che dovrebbe essere un mero giudizio storico. Molte tracce di questa tendenza si trovano nel Saggio popolare. L'esperantismo filosofico è specialmente radicato nelle concezioni positivistiche e naturalistiche; la «sociologia» è forse il maggior prodotto di una tale mentalità. Cosi le tendenze alla «classificazione» astratta, al metodologismo e alla logica formale. La logica e la metodologia generale vengono concepite come esistenti in sé e per sé, come formule matematiche, astratte dal pensiero concreto e dalle concrete scienze particolari (cosí come si suppone che la lingua esista nel vocabolario e nelle grammatiche, la tecnica fuori del lavoro e dell'attività concreta ecc.). D'altronde non bisogna pensare che la forma di pensiero «antiesperantistico» significhi scetticismo o agnosticismo o ecclettismo. È certo che ogni forma di pensiero deve ritenere se stessa come «esatta» e «vera» e combattere le altre forme di pensiero, ma ciò «criticamente». Dunque la quistione è sulla dose di «criticismo» e di «storicismo» che sono contenute in ogni forma di pensiero. La filosofia della prassi, riducendo la «speculatività» ai suoi limiti giusti (negando cioè che la «speculatività» come l'intendono anche gli storicisti dell'idealismo sia il carattere essenziale della filosofia), appare essere la metodologia storica più, aderente alla realtà e alla verità.

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teoria storiografica (è anche utile per combattere alcuni astrattismi meccanicistici).

È da vedere se questo principio critico possa essere avvicinato o confuso con affermazioni analoghe. Nel fascicolo di settembre-ottobre 1930 dei «Nuovi Studi di Diritto, Economia Politica», in una lettera aperta di Luigi Einaudi a Rodolfo Benini («Se esista, storicamente, la pretesa ripugnanza degli economisti verso il concetto dello Stato produttore») in una nota a p. 303 si legge:

«Se io possedessi la meravigliosa facoltà che in sommo grado aveva il compianto amico Vailati di tradurre una qualunque teoria dal linguaggio geometrico in quello algebrico, da quello edonista in quello della morale kantiana, dalla terminologia economica pura normativa in quella applicata precettistica; potrei tentare di ritradurre la pagina dello Spirito nella formalistica tua, ossia economistica classica. Sarebbe un esercizio fecondo, simile a quelli di cui racconta Loria, da lui intrapresi in gioventú, di esporre successivamente una data dimostrazione economica prima in linguaggio di Adamo Smith e poi di Ricardo, quindi di Marx, di Stuart Mill e di Cairnes. Ma sono esercizi che vanno, come faceva Loria, dopo fatti, riposti nel cassetto. Giovano ad insegnare la umiltà ad ognuno di noi, quando per un momento ci illudiamo di aver visto qualcosa di nuovo. Perché se questa novità poteva essere stata detta con le loro parole e inquadrarsi nel pensiero dei vecchi, segno è che quel qualcosa era contenuto in quel pensiero. Ma non possono né devono impedire che ogni generazione usi quel linguaggio che meglio si adatta al modo suo di pensare e d'intendere il mondo. Si riscrive la storia; perché non si dovrebbe riscrivere la scienza economica, prima in termini di costo di produzione e poi di utilità e quindi di equilibrio statico e poi di equilibrio dinamico?»

Lo spunto metodologico-critico dell'Einaudi è molto circoscritto e si riferisce piuttosto che a linguaggi di culture nazionali, a linguaggi particolari di personalità della scienza. L'Einaudi si riattacca alla corrente rappresentata da alcuni pragmatisti italiani, dal Pareto, dal Prezzolini. Egli si propone con la sua lettera fini critici e metodologici assai limitati : vuole dare una piccola lezione a Ugo Spirito, nel quale, molto spesso, la novità delle idee, dei metodi, dell'impostazione dei problemi, è puramente e semplicemente una quistione verbale, di terminologia, di un «gergo» personale o di gruppo. Tuttavia è da vedere se questo non sia il primo grado del piú vasto e profondo problema che è implicito nell'affermazione della Sacra Famiglia.

Come due «scienziati» formatisi nel terreno di una stessa cultura fondamentale, credono di sostenere «verità» diverse solo perché impiegano un diverso linguaggio (e non è detto che tra loro non ci sia una differenza e che essa non abbia il suo significato) scientifico cosí due culture nazionali, espressioni di civiltà fondamentalmente simili, credono di essere diverse, opposte, antagonistiche, una superiore all'altra, perché impiegano linguaggi di tradizione diversa, formatisi su attività caratteristiche e particolari a ognuna di esse; linguaggio politico-giuridico in Francia, filosofico, dottrinario, teorico in Germania. Per lo storico, in realtà, queste civiltà sono traducibili reciprocamente, riducibili l'una all'altra. Questa traducibilità non è «perfetta» certamente, in tutti i particolari, anche importanti, (ma quale lingua è esattamente traducibile in un'altra? quale singola parola è traducibile esattamente in un'altra lingua?) ma lo è nel «.fondo essenziale». È anche possibile che una sia realmente superiore all'altra, ma quasi mai in ciò che i loro rappresentanti e i loro chierici fanatici pretendono, e specialmente quasi mai nel loro complesso : il progresso reale della civiltà avviene per la collaborazione di tutti i popoli, per «spinte» nazionali, ma tali spinte quasi sempre riguardano determinate attività culturali o gruppi di problemi.

La filosofia gentiliana è oggi quella che fa piú questioni di « parole», di «terminologia», di «gergo», che dà per « creazioni» nuove quelle che sono espressioni verbali nuove non sempre molto felici e adeguate. La nota dell'Einaudi ha perciò esasperato Ugo Spirito che non riesce però a rispondere nulla di conclusivo.

L'osservazione contenuta nella Sacra Famiglia che il linguaggio politico francese equivale al linguaggio della filosofia classica tedesca è stata espressa «poeticamente» dal Carducci nella espressione: «decapitaro Emmanuel Kant, iddio - Massimiliano Robespierre, il re». A proposito di questo riavvicinamento carducciano tra la politica pratica 'di M. Robespierre e il pensiero speculativo di E. , Kant, B. Croce registra una serie di «fonti» filologiche molto interessanti, ma che per il Croce sono di portata puramente filologica e culturale, senza alcun significato teorico e « speculativo». Il Carducci attinse il motivo da Enrico Heine (terzo libro del Zur Geschichte der Religion und Philosophie in Deutschland del 1834). Ma il riavvicinamento di Robespierre a Kant non è originale dello Heine. Il Croce, che ha ricercato l'origine del riavvicinamento, scrive di averne trovato un lontano cenno in una lettera del 21 luglio 1795 dello Hegel allo Schelling (Contenuto in Briefe von and' an Hegel, Leipzig, 1887, I, 14-16) svolto poi nelle lezioni che lo stesso Hegel tenne sulla storia della filosofia e sulla filosofia della storia. Nelle prime lezioni di storia della filosofia, Hegel dice che «la filosofia del Kant, del Fichte e dello Schelling contiene in forma di pensiero la rivoluzione», alla quale lo spirito negli ultimi tempi ha progredito in Germania, in una grande epoca cioè della storia universale, a cui «solo due popoli hanno preso parte, i Tedeschi e i Francesi, per opposti che siano tra loro, anzi appunto perché opposti»; sicché, laddove il nuovo principio in Germania «ha fatto irruzione come spirito e concetto », in Francia invece si è esplicato «come realtà effettuale» (Cfr. Vorles. iiber clic Gesch. cl. Philos. 2», Berlino, 5844, III, 485.)

Nelle lezioni di filosofia della storia, Hegel spiega che il principio della volontà formale, della libertà astratta, secondo cui «la semplice unità dell'autocoscienza, l'Io, è la libertà assolutamente indipendente e la fonte di tutte le determinazioni universali» «rimase presso i Tedeschi una tranquilla teoria, ma i Francesi vollero eseguirlo praticamente». ( «Vorles. iiber die Philos. der Gesch. 3», Berlino, 5848, PP. 535-2.) Questo passo di Hegel è appunto, pare, parafrasato dalla Sacra Famiglia dove si difende un'affermazione di Proudhon contro i Bauer — o se non la si difende, la si spiega secondo questo canone ermeneutico hegeliano. Ma il passo di Hegel pare assai piú importante come «fonte» del pensiero espresso nelle Tesi su Feuerbach che «i filosofi hanno spiegato il mondo e si tratta ora di mutarlo», cioè che la filosofia deve diventare politica per inverarsi, per continuare ad essere filosofia, che la «tranquilla teoria» deve essere « eseguita praticamente» deve farsi «realtà effettuale», come fonte dell'affermazione di Engels che la filosofia classica tedesca ha come erede legittimo il popolo tedesco e infine come elemento per la teoria dell'unità di teoria e di pratica.

A. Ravà nel suo libro Introduzione allo studio della filosofia di Fichte (Modena, Formiggini, 1909, pp. 6-8 n.) fa osservare al Croce che già nel 1791 il Baggesen in una lettera al Reinhold accostava le due rivoluzioni, che lo scritto di Fichte del 1792 sulla rivoluzione francese è animato da questo senso di affinità tra l'opera della filosofia e l'avvenimento politico e che nel 1794 lo Schaumann svolse particolarmente il paragone, notando che la rivoluzione politica di Francia «fa sentire dall'esterno il bisogno di una determinazione fondamentale dei diritti umani» e la riforma filosofica tedesca «mostra dall'interno i mezzi e la via per cui e sulla quale solamente questo bisogno, può essere soddisfatto»; anzi che lo stesso paragone dava motivo nel 1797 a una scrittura satirica contro la filosofia kantiana. Il Ravà conclude che il «paragone era nell'aria».

Il paragone venne ripetuto moltissime volte nel corso dell'800 (dal Marx, per es. nella Critica della filosofia del diritto di Hegel) e «dilatat » dallo Heine. In Italia, qualche anno prima del Carducci, lo si ritrova in una lettera di Bertrando Spaventa, dal titolo Paolottismo, positivismo e razionalismo, pubblicata nella « Rivista bolognese» del maggio 1868 e ristampata negli Scritti filosofici (ed. Gentile, p. 301). Il Croce conclude facendo delle riserve sul paragone in quanto «affermazione di un rapporto logico e storico». «Perché se è vero che al Kant giusnaturalista risponde assai bene nel campo dei fatti la rivoluzione francese, è anche vero che quel Kant appartiene alla filosofia del secolo decimottavo, che precesse e informò quel moto politico; laddove il Rant che apre l'avvenire, il Kant della sintesi a priori -, è il primo anello di una nuova filosofia, la quale oltrepassa la filosofia che s'incarnò nella rivoluzione francese». Si capisce questa riserva del Croce che però è impropria e incongruente, poiché le stesse citazioni del Croce da Hegel mostrano che non del particolare paragone di Kant col Robespierre si tratta, ma di qualcosa di piú esteso e comprensivo del moto politico francese nel suo complesso e della riforma filosofica tedesca nel suo complesso. Che il Croce sia favorevole alle «tranquille teorie» e non alle «realtà effettuali», che una riforma «in idea» gli sembri la fondamentale e non quella in atto, si capisce : in tal senso la filosofia tedesca ha influito in Italia nel periodo del Risorgimento, col «moderatismo» liberale (nel senso piú stretto di «libertà nazionale»), sebbene nel De Sanctis si senta l'insofferenza di questa posizione «intellettualistica» come appare dal suo passaggio alla Sinistra e da alcuni scritti, specialmente Scienza e vita e gli articoli sui verismo, ecc. Tutta la quistione sarebbe da rivedere, ristudiando i riferimenti dati dal Croce e dal Ravà, cercandone altri, per inquadrarli nella quistione della traducibilità dei linguaggi e cioè che due strutture fondamentalmente simili hanno superstrutture « equivalenti» e reciprocamente traducibili, qualunque sia il loro linguaggio particolare e nazionale. Di questo fatto avevano coscienza i contemporanei della rivoluzione francese e ciò è di sommo interesse. (Le note del Croce sul paragone carducciano tra Robespierre e Kant sono pubblicate nella II Serie delle Conversazioni Critiche, pp. 292 sgg.)

L'espressione tradizionale che l'«anatomia» della società à costituita dalla sua «economia» è una semplice metafora ricavata dalle discussioni svoltesi intorno alle scienze naturali e alla classificazione delle specie animali, classificazione entrata nella sua fase «scientifica» quando appunto si parti dall'anatomia e non piú da caratteri secondari e accidentali. La metafora era giustificata anche dalla sua popolarità», cioè dal fatto che offriva anche a un pubblico non intellettualmente raffinato, uno schema di facile comprensione (di questo fatto non si tiene quasi mai il conto debito: che la filosofia della prassi, proponendosi di riformare intellettualmente e moralmente strati sociali culturalmente arretrati, ricorre a metafore talvolta « grossolane e violente» nella loro popolarità). Lo studio dell'origine linguistico-culturale di una metafora impiegata per indicare un concetto o un rapporto nuovamente scoperto, può aiutare a comprendere meglio il concetto stesso, in quanto esso viene riportato al mondo culturale, storicamente determinato, in cui è sorto, cosi come è utile per precisare il limite della metafora stessa, cioè ad impedire che essa si materializzi e meccanizzi. Le scienze sperimentali e naturali sono state, in una certa epoca, un «modello», un «tipo»; e poiché le scienze sociali (la politica e la storiografia) cercavano di trovare un fondamento obbiettivo e scientificamente adatto a dar loro la stessa sicurezza ed energia delle scienze naturali, è facile comprendere che a queste si sia ricorso per crearne il linguaggio.

D'altronde, da questo punto di vista, occorre distinguere tra i due fondatori della filosofia della prassi, il cui linguaggio non ha la stessa origine culturale e le cui metafore riflettono interessi diversi.

Un altro spunto «linguistico» è legato allo sviluppo delle scienze giuridiche : si dice nell'introduzione alla Critica dell'Economia politica che «non si può giudicare un'epoca storica da ciò che essa pensa di se stessa», cioè dal complesso delle sue ideologie. Questo principio è da connettere a quello quasi contemporaneo per cui un giudice non può giudicare l'imputato da ciò che l'imputato pensa di se stesso e dei propri atti od omissioni (sebbene ciò non significhi che la nuova storiografia sia concepita come un'attività tribunalizia) principio che ha portato alla radicale riforma dei metodi processuali, ha contribuito a far abolire la tortura e ha dato all'attività giudiziaria e penale una base moderna.

A questo stesso ordine di osservazioni appartiene l'altra questione riguardante il fatto che le soprastrutture sono considerate come mere e labili «apparenze». Anche in questo «giudizio» è da vedere piú un riflesso delle discussioni nate sul terreno delle scienze naturali (della zoologia e della classificazione delle specie, della scoperta che l'«anatomia» deve essere posta alla base delle classificazioni) che un derivato coerente del materialismo metafisico, per il quale i fatti spirituali sono una mera apparenza, «irreale», «illusoria», dei fatti corporali. A questa origine storicamente accertabile del «giudizio» si è venuta in parte sovrapponendo e in parte addirittura sostituendo ciò che si può dire un mero «atteggiamento psicologico» senza portata « conoscitiva o filosofica», come non è difficile dimostrare, in cui il contenuto teorico è scarsissimo (o indiretto, e forse si limita a un atto di volontà, che in quanto universale, ha un valore filosofico o conoscitivo implicito) e predomina la immediata passione polemica non solo contro una esagerata e deformata affermazione in senso inverso (che solo lo «spirituale» sia reale) ma contro l'«organizzazione» politica-culturale di cui tale teoria è espressione. Che l'affermazione dell'«apparenza» delle superstrutture non sia un atto filosofico, di conoscenza, ma solo un atto pratico, di polemica politica, risulta da ciò che essa non è posta come «universale», ma solo per determinate superstrutture. Si può osservare, ponendo la quistione in termini individuali, che chi è scettico per il «disinteresse» degli altri, ma non per il proprio cc disinteresse» non è «scettico» filosoficamente, ma fa una quistione di «storia concreta individuale»; lo scetticismo sarebbe tale, cioè un atto filosofico, se lo scettico dubitasse di se stesso e della propria capacità filosofica, di conseguenza. E infatti è osservazione ovvia che lo scettico, filosofando per negare la filosofia, in realtà la esalta e la afferma. Nel caso dato, l'affermazione dell'«apparenza » delle superstrutture significa solo l'affermazione che una determinata «struttura» è condannata a perire, deve essere distrutta e il problema che si pone è se questa affermazione sia di pochi o di molti, sia già o sia per diventare una forza storica decisiva o sia puramente l'opinione isolata (o isolabile) di qualche singolare fanatico ossessionato da idee fisse.

L'atteggiamento «psicologico» che sostanzia l'affermazione dell'«apparenza» delle superstrutture potrebbe essere paragonato all'atteggiamento che si è verificato in certe epoche (anch'esse «materialistiche » e «naturalistiche»!) verso la «donna» e l'«amore». Si vedeva una graziosa giovinetta, fornita di tutti quei pregi fisici che tradizionalmente destano il giudizio di «amabilità». L'uomo «pratico» valutava la sua struttura «scheletrica», l'ampiezza del «bacino », cercava di conoscere sua madre e sua nonna, per vedere quale probabile processo di deformazione ereditaria l'attuale giovinetta avrebbe subito con gli anni, per avere la possibilità di prevedere quale «moglie» egli avrebbe avuto dopo dieci, venti, trenta anni. Il giovanotto «satanico» atteggiantesi al pessimismo ultra-realistico, avrebbe osservato la giovinetta con occhi « stecchettiani» : l'avrebbe giudicata «in realtà» un puro sacco di putredine, l'avrebbe immaginata già morta e sotterrata, con le « occhiaie fetenti e vuote», ecc. ecc. Pare che questo atteggiamento psicologico sia proprio dell'età subito dopo la pubertà, legato alle prime esperienze, alle prime riflessioni, ai primi disinganni, ecc. Tuttavia viene superato dalla vita e una «determinata» donna non susciterà piú quei tali pensieri.

Nel giudizio di «apparenza» delle superstrutture c'è un fatto dello stesso genere : un «disinganno», un pseudopessimismo ecc. che scompare di colpo quando si è «conquistato» lo stato e le superstrutture sono quelle del proprio mondo intellettuale e morale. E infatti queste deviazioni dalla filosofia della prassi sono in gran parte legate a gruppi di intellettuali «vagabondi» socialmente, disincantati ecc., disancorati, ma pronti ad ancorarsi in qualche buon porto.

Marx e Hegel.

Nello studio dello hegelismo di Marx occorre ricordare (dato specialmente il carattere eminentemente pratico-critico del Marx) che Marx partecipò alla vita universitaria tedesca poco dopo la morte di Hegel, quando doveva essere vivissimo il ricordo dell'insegnamento «orale» di Hegel e delle discussioni appassionate, con riferimento alla storia concreta, che tale insegnamento certamente suscitò, nelle quali, cioè, la concretezza storica del pensiero di Hegel doveva risultare molto piú evidente di quanto risulti dagli scritti sistematici. Alcune affermazioni di Marx mi pare siano da ritenere specialmente legate a questa vivacità «conversativa»; per esempio l'affermazione che Hegel «fa camminare gli uomini con la testa in giú». Hegel si serve veramente di questa immagine parlando della Rivoluzione francese : egli scrive che in un certo momento della Rivoluzione francese (quando fu organizzata la nuova struttura statale, mi pare) «pareva» che il mondo camminasse sulla testa o qualcosa di simile. Mi pare che il Croce si domandi di dove il Marx abbia preso questa immagine : essa è certamente in un libro di Hegel (forse la Filosofia del Diritto non ricordo), ma essa veramente sembra scaturita da una conversazione tanto è fresca, spontanea, poco «libresca». (Antonio Labriola nello scritto Da un secolo all'altro: a Gli è proprio quel codino di Hegel che disse come quegli uomini (della Convenzione) avessero pei primi, dopo Anassagora, tentato di capovolgere la nozione del mondo, poggiando questo su la ragione» (cfr. A. LABRIOLA, Da un secolo all'altro, ediz. Del Pane, P. 43).