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Forma di condotta comunicativa atta a trasmettere informazioni e a
stabilire un rapporto di interazione che utilizza simboli aventi
identico valore per gli individui appartenenti a uno stesso
ambiente socioculturale. Dalle peculiarità della lingua
rispetto a ogni altro codice semiologico derivano le
peculiarità del l. verbale rispetto a ogni altro tipo di
semiosi. La capacità di comunicare (cioè di
individuare stati dell’esperienza collegandoli a variazioni dello
stato di un mezzo fisico nell’ambito di un codice) non è
privilegio esclusivo dell’uomo: oggi conosciamo un numero
crescente di diversi codici di comunicazione che vengono adoperati
dalle più varie specie animali.
LINGUISTICA
Tra i codici animali e i molti codici non verbali o artificiali
foggiati dall’uomo, la classe delle lingue storico-naturali spicca
per peculiarità (lingua), in quanto il complessivo campo
semantico di ciascuna di queste lingue (l’insieme delle cose
dicibili in una lingua storico-naturale) coincide con la
totalità delle esperienze possibili, diversamente da quanto
accade per ogni altro tipo di codice, sia animale, sia foggiato
artificialmente dall’uomo. Tale possibilità di individuare
ogni tipo di esperienza grazie a uno dei segni di una lingua
storico-naturale conferisce al l. verbale una vasta gamma di
funzioni nella vita individuale e collettiva della specie.
1. Le caratteristiche fonico-acustiche di un linguaggio
A rendere vasta la gamma di funzioni di un l. verbale concorre,
senza dubbio, il fatto che le variazioni dello stato fisico
realizzanti il versante significante dei segni linguistici possono
essere, e sono normalmente, di carattere fonico-acustico. La
vocalità non è una caratteristica necessaria del l.
verbale. Il fatto che i segni linguistici possano essere e siano
in effetti realizzati graficamente, a volte anche mimicamente e
spesso endofonicamente, prova che la vocalità non è
un requisito indispensabile per il linguaggio. Ciò non
significa che la preferenza accordata alle realizzazioni di tipo
vocale sia casuale o di scarsa importanza. Anzitutto, può
osservarsi che la realizzazione fonico-acustica di un segno
è possibile con un dispendio di energia minimo rispetto a
realizzazioni grafiche o mimiche; inoltre, essa è possibile
sfruttando un materiale come l’aria, presente in tutto il pianeta
e indispensabile per ogni vivente, mentre realizzazioni grafiche
richiedono il reperimento di appositi materiali; essa non richiede
strumenti estranei all’organismo umano e, rispetto a realizzazioni
mimiche, impegna l’organismo solo in parte minima. In pratica, la
realizzazione fonico-acustica di un messaggio non impaccia
(diversamente da realizzazioni grafiche o mimiche) l’esecuzione di
altre attività proprie dell’uomo. Si aggiunga che le
realizzazioni fonico-acustiche sono possibili in ogni condizione
di luminosità e, entro certi limiti, possono scavalcare
ostacoli e diaframmi. Infine, le vibrazioni acustiche prodotte
fonicamente sono agevolmente modulabili quanto a frequenza, e
ciò consente di produrre vibrazioni d’alta frequenza che si
trasmettono senza che ne sia ubicabile la sorgente e vibrazioni di
bassa frequenza che sono invece orientabili in una direzione
determinata: due caratteristiche che costituiscono un ulteriore
vantaggio rispetto a segnali di tipo ottico-luminoso. Tutto
ciò concorre a spiegare perché la specie umana ha
adottato segnali di tipo fonico-acustico per realizzare il
significante dei segni linguistici. Se a questa duttilità
del versante significante si aggiunge la già rammentata
plasticità dei significati dei segni linguistici, si
comprende come e perché il l. verbale ha potuto assolvere e
assolve a molteplici funzioni nella vita individuale e sociale.
2. Le funzioni del l. verbale
Il tema delle funzioni del l. verbale è affrontato
già nell’Encomio di Elena di Gorgia e nel De
interpretatione di Aristotele in cui si distinguono due funzioni:
la semantica (designativa), genericamente significativa di qualche
cosa (preghiera, ordini ecc.), e la apofantica (enunciativa), che
produce enunciati veri o falsi. Questa bipartizione è
riaffiorata più volte nella storia delle dottrine
linguistiche, come distinzione tra funzione denotativa o
descrittiva o prosastica o comunicativa ecc., da un lato, e
funzione connotativa o emotiva o poetica o espressiva ecc.,
dall’altro. In sostanza anche le partizioni di K. Bühler, che
distingueva tra funzione rappresentativa (centrata sulla
rappresentazione del referente), espressiva (che pone in primo
piano l’atteggiamento del soggetto parlante), appellativa
(centrata sul suscitare una reazione dell’ascoltatore), e di R.
Jakobson, che distingue 6 funzioni (emotiva, centrata sul
produttore o emittente di un segno; conativa, volta a suscitare
qualche reazione nell’ascoltatore; referenziale, relativa alla
rappresentazione e comunicazione di un contenuto; poetica,
esaltante le caratteristiche formali del messaggio; fàtica,
relativa al controllo della buona trasmissione del messaggio;
metalinguistica, relativa al chiarimento della struttura del
messaggio), sono partizioni che continuano sia in senso materiale
sia in senso formale l’impostazione gorgiana e aristotelica. Per
contro L.J. Wittgenstein, nelle Philosophische Untersuchungen,
afferma che esistono «innumerevoli» differenti tipi di
impiego dei segni linguistici, «e questa molteplicità
non è qualche cosa di fisso, di dato una volta per tutte;
ma nuovi giuochi linguistici ... sorgono e altri invecchiano e
vengono dimenticati». In conformità a tale
impostazione, la linguistica scientifica contemporanea è
largamente orientata verso l’analisi e descrizione delle
molteplici possibili interrelazioni tra fenomeni percettivi e
conoscitivi individuali, stati emotivi ecc., e acquisizione e
sviluppo di abitudini linguistiche (psicolinguistica), verso
l’analisi delle interrelazioni tra abiti linguistici collettivi e
vita sociale (sociolinguistica), infine verso l’identificazione,
in sede storica, dei vari tipi di norme di realizzazione delle
varie lingue, e cioè verso lo studio dell’uso poetico o
giornalistico o letterario o rituale o giuridico ecc. di questa o
quella lingua nell’una o nell’altra comunità storica.
FILOSOFIA
Gli antecedenti di quella che sarà poi la riflessione
filosofica sul l. possono ritrovarsi nelle credenze di età
arcaiche sui poteri della parola divina e umana: nell’inno vedico
a Vac («la Voce»), traspare l’opinione che tutte le
cose dell’universo siano pervase da un’intrinseca vocalità,
risuonino di un loro nome; nell’esordio del Genesi la
divinità biblica non crea mediante un fare, ma con il
semplice parlare. Diffusa era la convinzione e la pratica magica
per cui la conoscenza del nome di una persona o di una cosa ne
conferisce il dominio (donde, per es., presso gli Aztechi
l’abitudine di una doppia imposizione del nome, una segreta e una
pubblica). La tradizione speculativa greca conserva ancora tracce
cospicue di tali convinzioni magiche. Per la tradizione eraclitea,
una delle prove della intrinseca contraddittorietà del
reale è che cose che divengono, si mutano, scorrono (per
es., un fiume), hanno un nome in permanenza, sicché
sussiste una tensione tra il permanere del nome e il continuo
tramutarsi della cosa.
Occorre aspettare l’eleatismo del pieno 5° sec. e la sofistica
perché cominci ad affermarsi la consapevolezza del
carattere convenzionale e non naturale delle denominazioni con cui
una lingua inquadra l’esperienza. A Platone dobbiamo la prima
estesa trattazione superstite interamente dedicata al l., il
Cratilo, dialogo in cui Socrate media tra la tesi della scuola
eraclitea (secondo cui i segni ineriscono naturalmente alle cose e
le qualità foniche dei significanti riflettono le essenze
intime delle cose denominate) e la tesi convenzionalista (secondo
cui i nomi sono prodotti umani): i nomi sono strumenti fallibili
creati dall’uomo per mezzo dei quali arriviamo a conoscere la
natura delle cose. Ad Aristotele si deve la prima sistemazione
delle teorie e delle conoscenze intorno al linguaggio. All’analisi
dei fatti linguistici egli non giunge tanto sotto la spinta di
interessi eruditi (esegesi omerica) o naturalistico-enciclopedici,
ma per ragioni che costituiscono parte essenziale del nucleo della
sua ontologia e della sua logica. Il l. si presenta come una base
per la ragione e, nelle sue partizioni e strutture, riflette
partizioni e strutture della realtà, per la cui conoscenza
esso è un accesso privilegiato. Da ciò, fin dal De
interpretatione, una costante attenzione per le forme
linguistiche, che porta Aristotele a edificare una dottrina
generale della lingua. Le tesi aristoteliche furono riprese e
svolte dai primi stoici: a questi, e ai primi peripatetici,
risalgono le elaborazioni e definizioni di categorie grammaticali
come i casi nominali, le costruzioni transitive, intransitive e
assolute dei verbi ecc. Di tali elaborazioni logico-linguistiche
si servirono i filologi alessandrini come base e inquadramento
delle loro descrizioni grammaticali del greco, ricalcate poi dai
primi scrittori di grammatica latina.
Nella tarda antichità, Agostino, Boezio, Isidoro
riecheggiano (con originalità il primo) posizioni stoiche,
aristoteliche, dottrine grammaticali ed etimologiche; Prisciano
raccoglie in un corpus unitario le antiche dottrine grammaticali.
Questi autori costituirono la base delle conoscenze e teorie
linguistiche durante il Medioevo fino all’affermarsi dei volgari e
alla tarda scolastica. Il pensiero linguistico della scolastica,
rimasto a lungo ignorato, si è in seguito andato rivelando
ricco di contributi profondi e originali in materia di dottrine
semantiche e sintattiche, certamente presenti ai logici e
grammatici di Port-Royal. L’affermarsi dei volgari, d’altra parte,
non è privo di riflessi in sede teorica: esso genera la
consapevolezza del legame specifico, storicamente peculiare tra
ciascun idioma e ciascun popolo ed età storica.
Nel Convivio e nel De vulgari eloquentia Dante dà i primi
documenti di questa concezione storicizzante delle lingue,
destinata a precisarsi nel pensiero europeo del Seicento e del
Settecento: le relazioni sintattiche e i significati divergono da
una lingua all’altra, da una ad altra epoca storica (F. Bacone, J.
Locke, G.B. Vico, G.W. Leibniz ecc.); le forme linguistiche
condizionano la vita intellettuale, le elaborazioni concettuali,
il pensiero (T. Hobbes, G. Berkeley, D. Hume, J.G. Hamann),
cosicché le categorizzazioni dell’intelletto e il
filosofare (come sottolinea Hamann in polemica con Kant) non sono
degli apriori, degli assoluti, ma sono formazioni storicizzate e
relativizzate. Dopo Kant, nella filosofia europea l’interesse per
il l. viene meno: riaffiorano nel corso dell’Ottocento le idee
dell’aristotelismo antico e della tarda scolastica, riflesse nei
testi grammaticali di Port-Royal, la cui fortuna dal Seicento
all’Ottocento è immensa e quasi incontrastata nelle scuole
di tutti i paesi.
A cavallo tra 19° e 20° sec., in ambiti culturali assai
diversi, si riaccende l’interesse per le attività
simboliche: C.S. Peirce e J. Dewey negli USA, A. Marty e G. Frege
nell’Europa centro-orientale, B. Russell e G.E. Moore in
Inghilterra, L. Wittgenstein e i neopositivisti del circolo di
Vienna in Austria e, dopo la diaspora provocata dall’annessione
nazista, nei paesi anglosassoni, E. Cassirer in Germania, B. Croce
in Italia, ripropongono, con assai varia articolazione, i temi
della filosofia del l. prekantiana. In particolare, nella
filosofia analitica del l. assume un ruolo centrale lo studio del
significato (logica) e del rapporto tra l. e realtà.
*
di Raffaele Simone
Linguaggio
Sommario: 1. Preliminari: a) due definizioni; b) il paradosso
della variazione; c) il discrimine dell'arbitrarietà. 2.
Hardware e software del linguaggio: a) lo sviluppo del linguaggio;
b) omogeneità della base del linguaggio; c) linguaggio e
conoscenza. 3. Il software del linguaggio: a) principi formali
fondamentali; b) principi semantici fondamentali; c)
ripartibilità in tipi. 4. Attorno al nucleo stabile: a)
fenomeni instabili; b) accuratezza strutturale ed efficacia
predicativa; c) modelli per spiegare le 'irregolarità'; d)
dispositivi di sicurezza. La 'proiezione sociale' della
variazione; e) le variazioni sociali e il loro significato. □
Bibliografia.
1. Preliminari
Quando si studiano i fenomeni del linguaggio, si resta colpiti dal
fatto che la riflessione su questo tema, ben lungi dall'essere
un'invenzione moderna (come accade invece per diverse altre aree
delle scienze dell'uomo e della cognizione, alle quali anche la
linguistica viene ascritta), è attestata già nei
più antichi documenti di diverse tradizioni culturali, sia
europee che orientali (v. Lepschy, 1990-1994). Il linguaggio
costituisce, insomma, una sfida intellettuale sin dai primi tempi
in cui l'uomo è stato capace di riflessione. Ma, oltre che
per avere stimolato secoli di analisi, esso si caratterizza anche
per essere riguardato da una ricchissima varietà di
approcci, orientamenti e angoli di osservazione. Di esso si
occupano infatti, e non da oggi, prospettive così diverse
come quelle della filosofia, della psicologia, della storia, della
sociologia, della filologia, delle scienze fisiche, biologiche e
dell'informazione e altre ancora. Tutto ciò dà
l'idea della complessità dell'oggetto 'linguaggio', ma
rende molto difficile estrarne gli aspetti principali per
costruirne uno schizzo compatto.
Nelle pagine che seguono presenteremo, senza alcuna pretesa di
essere completi, alcune osservazioni sui fondamenti della teoria
generale del linguaggio.
a) Due definizioni
Del linguaggio si possono dare diverse definizioni, secondo il
peso che si attribuisce al ruolo dell'utente umano. Abbiamo da una
parte una definizione 'fredda' (che esclude, cioè,
l'utente), per la quale il linguaggio è un codice semiotico
costituito dall'associazione di due ordini di entità: il
contenuto (cioè l'insieme dei significati che si possono
concepire, che per natura sono interni e mentali e dunque non
percepibili all'esterno) e l'espressione (un insieme di segnali
sensoriali come i suoni, la scrittura, ecc.). L'espressione serve
a rendere manifesto il contenuto, cioè a permetterne la
trasmissione dall'emittente al ricevente. Questa definizione, che
ha le sue origini nel Cours de linguistique générale
di Ferdinand de Saussure (v., 1916), ha avuto molta fortuna nella
linguistica del Novecento. Malgrado ciò, essa ha il difetto
di non sottolineare che il sistema semiotico che così si
crea deve poter essere usato da un utente umano che non vive
isolato o in coppia, ma fa parte di una collettività di
persone che comunicano tra loro.Una definizione 'calda',
all'opposto, assegna un posto centrale all'utente, sostenendo che
il linguaggio è sì un'associazione di espressione e
contenuto, ma fatta in modo da dare soddisfazione alle
necessità comunicative dell'utente umano e da riflettere le
limitazioni che esso impone. L'utente infatti non ha
potenzialità infinite, bensì finite quanto a
memoria, capacità di discriminazione dei segnali,
attenzione, e così via. Inoltre, all'utente si possono
attribuire attese e preferenze naturali per quanto riguarda
l'organizzazione del linguaggio, e si può supporre che
queste attese si riflettano in qualche modo su di esso.Nel seguito
adopereremo sistematicamente la definizione 'calda', che è
per molti aspetti più soddisfacente dell'altra
perché permette di dar conto di alcuni fatti cruciali, tra
i quali i seguenti:
1) tutte le lingue, quale che sia l'epoca e il luogo in cui
vengono usate, presentano tratti comuni (i cosiddetti 'universali
linguistici': v. Greenberg, 1978), che non possono essere spiegati
se non come imposizioni derivanti dal fatto che esse devono poter
essere usate da utenti dotati delle stesse proprietà e
limitazioni biologiche;
2) tutte le lingue dispongono di risorse specifiche per svolgere
le funzioni pragmatiche tipiche della comunicazione tra le
persone, come narrare storie, far domande, chiedere prestazioni,
informazioni e servizi, descrivere eventi, formulare ipotesi, e
così via (v. Givón, 1979; v. Halliday, 1984).
Inoltre, le lingue sono dotate di risorse allocutive (cioè
fatte per designare uno o più interlocutori) anche molto
complesse, e ciò fa pensare che la loro stessa architettura
presupponga l'esistenza di un interlocutore (v. Benveniste,
1966-1974);
3) tutte le lingue, per quanto complicate dal punto di vista
strutturale, possono essere adoperate dai nativi senza
difficoltà e senza nessuna particolare istruzione:
ciò vuol dire che sono 'fatte per l'utente', o, come anche
si dice, sono sistemi semiotici 'orientati all'utente' (v. Simone,
1995⁶).
Tali proprietà possono essere spiegate solo tenendo in
conto l'utente come entità biologico-sociale: è
proprio quest'ultimo, sostengono i difensori di questo
orientamento, che impone alle lingue proprietà specifiche,
perché proietta su di esse caratteristiche che rispecchiano
le sue proprie limitazioni. Le lingue sono quindi sistemi
semiotici fatti per poter essere adoperati da utenti
caratterizzati da due fondamentali proprietà: a) hanno
capacità limitate di elaborazione; b) sono mossi dalla
necessità non solo di scambiarsi informazioni, ma anche di
svolgere col linguaggio azioni sociali, cioè di "far cose
con le parole" (secondo il titolo di un famoso libro di John
Austin: v., 1962).
Per poter essere adoperato realmente, infatti, il linguaggio ha
bisogno di una collettività numerosa di parlanti, di un
gruppo associato che conviene che una determinata forma
linguistica è accettata e altre possibili non lo sono, che
'licenzia' solo le forme ammesse e che mediante il linguaggio
svolge determinate azioni sociali. Per questo la seconda
definizione che abbiamo dato va ulteriormente arricchita
rappresentando attorno al singolo utente una cornice sociale che
lo integra e legittima la sua scelta di codice. La 'massa
parlante' (per usare un'espressione di Saussure) è insomma
indispensabile perché il linguaggio si crei, si stabilizzi
e funzioni. La connessione con il sociale risalta anche da un
altro fenomeno, che commenteremo più avanti: il linguaggio
non serve solo ai due scopi che abbiamo detto, ma anche
all'ulteriore funzione, di enorme importanza, di conservare le
conoscenze accumulate dalla collettività e favorirne la
trasmissione da una generazione all'altra (v. Tobias, 1991; v.
Cardona, 1990).
b) Il paradosso della variazione
Per le ragioni sopra indicate, le lingue nascono per l'utente
umano associato in collettività e si conformano secondo le
sue possibilità di elaborarle. Ciò non deve
però far pensare che siano 'perfette' rispetto all'utente
che se ne serve. Se lo fossero, non avrebbero alcuna ragione di
cambiare, né nel tempo né nello spazio. Al
contrario, la prima e la più forte esperienza di chiunque
studi il linguaggio e le lingue è proprio questa: le lingue
cambiano continuamente, e anzi il cambiamento è in un certo
senso una loro caratteristica intrinseca. In linguistica questo
fenomeno viene definito variazione (v. Labov, 1994).
Le lingue variano dunque almeno ai seguenti livelli.
1. Nello spazio: è esperienza comune che popoli diversi
abbiano diverse lingue, e che, anche in seno ad un popolo che si
può considerare unitario, esistano forme diverse di una
stessa lingua o addirittura lingue diverse.
2. Nel tempo: nel corso del tempo (o, come si dice gergalmente, in
diacronia) le lingue cambiano in tutti i loro aspetti. Il
cambiamento può essere talmente radicale che due fasi
diacronicamente diverse di una stessa lingua possono essere non
comprensibili tra loro.
3. Nello stesso individuo: ciascun parlante è in grado di
usare forme diverse della sua lingua in accordo con le circostanze
sociali in cui si trova, adattandosi alla situazione secondo
parametri precisi (descritti dalla sociolinguistica). Ma nello
stesso individuo le lingue variano anche per un'altra ragione: i
parlanti hanno diversi gradi di conoscenza (o 'competenza') della
propria lingua, e non sempre sono capaci di controllare
consapevolmente l'uso che ne fanno. Si danno cioè gradi
diversi di sicurezza linguistica (v. Labov, 1994). Nei parlanti
meno sicuri la variazione si può manifestare in un'altra
forma, in quanto si può oscillare nello scegliere una
soluzione oppure un'altra per dire la stessa cosa.
4. Nell'esecuzione: lo stesso parlante non pronuncia neanche due
volte la stessa parola allo stesso modo, né associa allo
stesso messaggio sempre esattamente il medesimo significato. Ogni
volta che si produce un atto linguistico individuale (la parole di
cui parlava Saussure), il messaggio che si emette è per
più aspetti diverso da ogni altro precedente, anche se
prodotto dalla stessa persona.
Questa ricchezza di forme di variazione apre un paradosso a cui
non è stata ancora data una sistemazione sicura. Essa
lascia infatti inspiegati un paio di fatti essenziali: come
riescono i parlanti a comunicare tra loro con (relativa)
efficacia, se non ci sono due soli segnali linguistici che siano
fisicamente identici, né due soli sensi che si somiglino
tra loro? Inoltre, dal punto di vista del linguista, la questione
apre quello che possiamo chiamare il 'paradosso della grammatica
generale': se le lingue si presentano intrinsecamente sotto forma
di variazione, come è possibile formulare su di esse
generalità e regolarità come quelle della
linguistica che, proprio per questo, si chiama 'generale'?
Le due domande sono un modo per formulare un delicato problema
filosofico: come si può conciliare la varietà delle
lingue con l'unicità del linguaggio? Questo problema era
già stato identificato con chiarezza da Wilhelm von
Humboldt (v., 1836), che tentò di risolverlo in una maniera
che appare ancora oggi di grande profondità. È la
mente dell'uomo, sosteneva Humboldt, che definisce i limiti entro
cui le lingue possono variare, e che è in grado di estrarre
invarianze (cioè aspetti costanti e comuni) dalla
molteplicità dei fenomeni a cui è esposta. Una
posizione analoga a questa fu presa da Saussure (v., 1916) agli
inizi del Novecento: se la parole (cioè la maniera
individuale e concreta di eseguire gli atti linguistici) è
ogni volta diversa da ogni precedente esecuzione, esiste nella
mente dei parlanti un sistema astratto (la langue), una sorta di
vaglio che scarta le variazioni non significative e riconduce i
singoli comportamenti entro una stessa classe, a condizione che
abbiano la stessa funzione. La linguistica recente ha adottato una
risposta somigliante: in molti suoi lavori Noam Chomsky ha
distinto tra la 'competenza' della lingua da parte del parlante e
l''esecuzione' che questi fa delle conoscenze possedute (v.
Chomsky, 1965). In altri termini, le lingue possono variare anche
fortemente pur continuando a restare efficienti perché i
parlanti riescono a cogliere aspetti costanti al di sotto delle
variazioni.
c) Il discrimine dell'arbitrarietà
Nella teoria generale del linguaggio occorre distinguere tra due
concetti apparentemente somiglianti: quello di 'linguaggio' e
quello di 'lingua'. Il linguaggio (come chiarì
magistralmente Saussure) è la facoltà di collegare
un'espressione a un contenuto, e pertanto, come oggi possiamo
dire, è fondato biologicamente e si può supporre
uguale presso tutti gli appartenenti alla specie Homo sapiens. Le
lingue sono invece le singole forme in cui il linguaggio
storicamente si presenta, e il loro numero può variare
illimitatamente (v. Coseriu, 1971). Siccome le lingue (dette anche
'verbali' o 'storiche' o 'naturali') sono manifestazioni storiche,
esse sono concepite (almeno da Aristotele in poi) come
entità arbitrarie. Questo termine indica il fatto che tra
il significante (cioè l'insieme di suoni usati per
esprimersi) e il significato che esso rende manifesto non esiste
alcuna somiglianza o nesso necessario e naturale. Il segno
linguistico si fonda insomma su una radicale eterogeneità
semiotica (v. Simone, 1995⁶). È per ragioni di
arbitrarietà, ad esempio, e non c'è nessuna ragione
perché il cane si chiami dog in inglese, Hund in tedesco,
perro in spagnolo e kalbi in arabo. Se le lingue non fossero
arbitrarie, si argomenta, le 'cose' dovrebbero chiamarsi
dappertutto nella stessa maniera.
Questa concezione ha una lunga storia nella riflessione
linguistica, ed è stata rilanciata nel nostro secolo
dall'opera di Saussure, che ne ha fatto uno dei capisaldi del suo
pensiero. Saussure presentava, per la verità,
argomentazioni più complesse. Secondo lui, infatti, non
è arbitrario soltanto il rapporto tra significante e
significato, ma anche quello tra un significante e l'altro e tra
un significato e l'altro. Ad esempio, non c'è nessuna
ragione necessaria perché in inglese esista una differenza
sistematica tra la /i/ e /i:/ (i breve e i lunga), mentre in
italiano questa differenza non comporta alcuna variazione di
significato.
In questa prospettiva, l'arbitrarietà domina l'intera
architettura delle lingue. La 'massa parlante' è sì
indispensabile perché le lingue possano costituirsi e
funzionare, ma non impone a esse alcuna particolare
caratteristica. Anche cambiando nel tempo esse non perdono la
proprietà di essere arbitrarie, ma si limitano semmai a
spostarsi da una soluzione arbitraria a un'altra. La lingua
è insomma un'entità 'autonoma', il cui modo di
organizzarsi è indipendente dal parlante e dalla
collettività di cui fa parte.
La concezione dell'arbitrarietà che Saussure formulava
è diventata un vero e proprio paradigma, tanto che a essa
si richiamano, in forma esplicita o no, quasi tutta la linguistica
e la filosofia del linguaggio moderne. A questo paradigma la
storia della linguistica ne ha però opposto un altro di
segno decisamente diverso, che nega che la lingua sia autonoma,
sostenendo all'opposto che essa ha una forte connessione con il
parlante, le sue proprietà e le sue limitazioni biologiche
intrinseche (v. Simone, 1995⁶). Essa muove da alcuni
principî collegati.
1. Principio del determinismo fisico. Essendo l'utente linguistico
un elaboratore di informazione limitato, i suoi limiti devono
lasciare una traccia sul modo in cui le lingue sono fatte. Ad
esempio, non deve poter esistere una lingua troppo complicata
perché gli utenti umani possano usarla (v. Jespersen,
1924).
2. Principio di adeguatezza rappresentativa. Le lingue sono fatte
per rappresentare in qualche modo la realtà esterna, e
quindi deve esistere una qualche somiglianza di struttura tra i
messaggi linguistici e le situazioni reali a cui essi si
riferiscono. In particolare, siccome le 'azioni' possono essere
analizzate nei loro componenti (attore o attori, azione,
beneficiario, oggetto, ecc.), le strutture linguistiche devono
essere in grado di offrire degli analoghi verbali di ciascuno di
essi (v. Givón, 1979 e 1984-1990).
3. Principio di omogeneità pragmatica. Le lingue, essendo
fatte anche per rispondere a necessità pragmatiche che sono
largamente comuni a tutti gli uomini, devono avere risorse per
svolgere le funzioni pragmatiche basiche.
4. Principio di variazione limitata. Essendo limitate le
capacità di elaborazione degli utenti umani, la gamma di
variazione che le lingue possono avere non è infinita: nel
loro variare, esse devono restare entro un campo determinato e
specificabile, dal quale non possono uscire (un'antica idea di
Humboldt, ripresa dalla linguistica moderna; v. Hjelmslev, 1963;
v. Chomsky, 1981).Tra queste due posizioni si possono ripartire,
sia pure a costo di qualche schematismo, tutte le scuole
linguistiche di fine Novecento. In generale, i sostenitori della
definizione di linguaggio che dà un posto centrale
all'utente tendono anche ad accettare, quasi a mo' di assiomi, i
quattro principi accennati prima. Ma, a parte la divisione delle
scuole, è difficile negare che quei principi (in versioni
più o meno liberali) formino la base dell'analisi del
linguaggio di oggi.
2. Hardware e software del linguaggio
Quando ci si occupa dei fondamenti della teoria del linguaggio, un
altro aspetto essenziale è costituito dalla sua connessione
con la conoscenza, a cui abbiamo già accennato. Essa vale
almeno in due sensi diversi:
1) come si è osservato prima, il linguaggio verbale si
è installato nell'uomo perché costituiva per la
specie un essenziale vantaggio evolutivo, permettendole di
accumulare conoscenze di utilità collettiva e di
trasmetterle alle generazioni successive;
2) il linguaggio, nel suo operare, funziona come un sistema
cognitivo.
a) Lo sviluppo del linguaggio
Vediamo anzitutto il primo aspetto. Disponendo del linguaggio per
accumulare le conoscenze acquisite, la specie non è
costretta a rifare a ogni nuova generazione lo sforzo di
impadronirsi delle tecniche, delle procedure e delle informazioni
che le sono necessarie per vivere. Può ritrovare tutto
questo patrimonio accumulato sotto forma di messaggi linguistici,
realizzando così un enorme vantaggio di tempo ed
efficienza. Questo processo di trasmissione del sapere per mezzo
del linguaggio aveva luogo già in epoca remota, quando il
linguaggio era solamente parlato e le conoscenze dovevano essere
conservate nella memoria dei singoli, che le trasmettevano a voce
alle nuove generazioni; e si è ripetuto in modo via via
più efficiente con l'invenzione della scrittura, della
stampa e dell'informatica (v. Cardona, 1990). Una
collettività senza linguaggio, se mai fosse possibile
immaginarla, sarebbe priva di sapere di gruppo e non avrebbe la
possibilità di educare (nel senso più ampio di
questo termine) le generazioni più giovani. Perciò,
si può supporre che esista un circolo virtuoso tra la
formazione di gruppi associati e l'uso del linguaggio: il
linguaggio è creato dalle collettività, ma al tempo
stesso permette ad esse di conservarsi e consolidarsi,
perché offre uno straordinario strumento per conservare le
loro conoscenze in senso lato. Per questo, il linguaggio è
anche 'formatore di società' (v. Benveniste, 1966-1974,
vol. I).
Bisogna tenere presente, a questo proposito, che il linguaggio
verbale non è la prima forma comunicativa che la specie
umana abbia adoperato, ma è stato per così dire
'scelto' tra le diverse possibilità che essa aveva a
disposizione. Le altre possibilità sono state scartate o,
come è accaduto per i gesti, sono sopravvissute in veste di
supporto al linguaggio parlato stesso. Ciò è
rivelato senza possibilità di dubbio dal fatto che nessuna
parte dell'apparato fonatorio (polmoni, laringe, bocca, lingua,
naso) serve solo per produrre suoni. Al contrario: i polmoni
servono anzitutto per la respirazione, la laringe per chiudere la
trachea proteggendola dal rischio di intrusione di materiali
estranei, la bocca e la lingua per l'ingestione e la masticazione
del cibo, e il naso come via di immissione dell'aria e di
percezione degli odori. La produzione dei suoni di cui la lingua
verbale è costituita (cioè la fonazione) è
dunque una funzione secondaria e in un certo senso parassita,
perché si è installata accanto ad altre funzioni
fino a coabitare con esse, sottraendo a ciascuna una quota di
funzionalità. La fonazione, ad esempio, ha parzialmente
ridotto l'efficienza della respirazione: questa perdita,
evolutivamente molto seria, deve essere stata compensata dagli
straordinari vantaggi semiotici che la voce realizza. La specie
deve quindi aver scelto la fonazione attraverso una sorta di
valutazione comparata di costi e benefici, scegliendo alla fine la
soluzione che le assicurava i maggiori vantaggi evolutivi (v.
Lieberman, 1984 e 1991).
Non si riflette abbastanza sul fatto che la voce è un mezzo
dotato di un'efficienza e di una flessibilità elevatissime.
Infatti, (1) a differenza dei gesti (il probabile primo
'linguaggio' umano), può essere prodotta e percepita anche
da interlocutori che non sono l'uno in vista dell'altro (al buio,
di spalle, da lontano, ecc.); (2) permette di produrre suoni
differenziati tra loro anche per un coefficiente fisico minimo, e
quindi adatti a formare catene di segmenti fonici variati; (3) non
richiede altro che il corpo per essere prodotta, e quindi è
facilmente 'trasportabile'; (4) inoltre - ed è l'aspetto
evolutivamente più importante - lascia libere le mani,
permettendo all'uomo di svolgere anche altre attività
mentre i suoni vengono prodotti. Per quest'ultima ragione, gli
specialisti dell'evoluzione ritengono che lo sviluppo della
fonazione abbia avuto luogo simultaneamente alla cosiddetta
'liberazione della mano' ed abbia anzi contribuito a favorirla.
(5) La voce permette una codificazione rapida, a differenza di
altri sistemi di espressione, la cui messa in atto richiede sempre
un tempo maggiore.
Lo sviluppo del linguaggio verbale ha comportato del resto
nell'Homo sapiens una serie di profonde modificazioni e
adattamenti anatomico-fisiologici, soprattutto a carico
dell'apparato respiratorio. Anzitutto la discesa della laringe,
che originariamente si trovava (come è attualmente nello
scimpanzé e nel neonato umano) allo stesso livello della
radice della lingua, e gradualmente è scesa all'altezza
della quarta vertebra. Da questo processo è stata toccata
la lingua stessa: originariamente doveva essere piatta, con una
radice poco profonda, incapace di staccarsi dal pavimento della
bocca e di lunghezza limitata. Nell'uomo moderno, al contrario,
essa è libera di estendersi anche al di là del
limite dei denti, la sua radice si è fatta più
profonda, la sua massa può cambiar forma, posizione e
volume secondo il suono che sta articolando. Contemporaneamente
dev'essere cambiata la capacità discriminatoria dell'udito:
questo era originariamente incapace di distinguere differenze
fisiche minime dell'onda sonora, mentre nell'uomo moderno è
strutturato in modo da percepire con maggior nettezza proprio la
gamma di vibrazioni in cui rientra l'insieme dei suoni verbali (v.
Lieberman, 1984).
Oltre che le modificazioni di struttura anatomica, la nascita del
linguaggio verbale ha prodotto anche capitali trasformazioni
dell'encefalo. Secondo un'interpretazione largamente accettata,
infatti, l'aumento della massa del cervello che ha permesso
all'Homo di diventare sapiens è stato attivato proprio
dallo sviluppo del linguaggio. Non va dimenticato, infatti, che
per produrre i suoni verbali il cervello deve governare un enorme
repertorio di micromovimenti muscolari delle diverse parti
dell'apparato fonatorio (i movimenti volontari più sottili
che l'uomo sia in grado di compiere), e a questo scopo deve
essersi sviluppata una complessa rete di vie nervose per collegare
cervello e muscoli. D'altro canto, l'aumento di massa e di
complessità del cervello dev'essere andato di pari passo
con la capacità di elaborare significati via via più
ricchi e variati (v. Tobias, 1991; v. Dart, 1959).
Nella sua evoluzione il linguaggio si è quindi creato una
raffinata base fisica specializzata, una sorta di hardware
proprio. Il mutamento è stato talmente importante che non
sorprende che le tracce di questo hardware siano ancora oggi
impresse nel modo in cui le lingue sono fatte e funzionano, e che
queste risentano in molti modi delle proprietà della
'macchina' fisica che le elabora. Questa complessa
interconnessione si può formulare dicendo che lo hardware
linguistico ha contribuito a modellare il software e viceversa:
come talune applicazioni informatiche sono fatte per funzionare
solo con determinati processori, così le lingue verbali
funzionano solo con lo hardware fisico della specie.
b) Omogeneità della base del linguaggio
Basterà qualche esempio per chiarire questo punto. Malgrado
le loro grandi differenze fonologiche, le lingue del mondo seguono
una linea costante (v. Hagège, 1982): tra i vari suoni che
l'apparato fonatorio può produrre, tendono a scegliere
quelli fonologicamente più stabili, cioè che possono
essere prodotti e ricevuti col minor rischio di confondersi con
altri. Tra questi sono [k] e [t], suoni che non a caso appaiono in
tutte le lingue. La stessa cosa accade per le vocali: [a], [i] e
[u] sono presenti in tutte le lingue conosciute perché sono
le vocali più nettamente distinte l'una dall'altra e quindi
meno esposte al rischio di confondersi. Alla stessa maniera, se
tutte le lingue hanno vocali non nasali (come la [a] di casa),
solo poche hanno vocali nasali (come la [a] del francese en): la
ragione di ciò è che i suoni nasali si prestano
più facilmente a essere confusi con altri somiglianti
(così accade per la [m] e la [b], che sono identiche in
tutto fuorché nel fatto che la prima è nasale e la
seconda no) (v. Lieberman, 1991). Analogamente, non è un
caso che in diacronia i suoni fonologicamente meno stabili tendano
a modificarsi più spesso di quelli stabili. Fenomeni come
questi non si possono interpretare se non pensando che lo hardware
fisico della specie scelga e conservi i suoni 'migliori' e
modifichi quelli 'peggiori' fino a espellerli o convertirli in
altri.
Considerazioni analoghe possono esser fatte a proposito di altri
aspetti del linguaggio. Se consideriamo ad esempio il livello
morfologico, le lingue hanno un numero limitato di risorse per
produrre variazioni nella forma delle parole. Semplificando
drasticamente, diciamo che esse aggiungono materiali morfologici
(tecnicamente, i morfi) o a sinistra o a destra o al centro della
radice. Il primo caso è dato dalla prefissazione (scienza →
pre+scienza), il secondo dalla suffissazione (bello → bell+ezza),
il terzo dall'infissazione (gioc+are → gioch+erell+are). A
ciò si aggiunge che un dato morfo, per quanto possa variare
(per il processo di allomorfia: uom+o ∼ um+ano), conserva quasi
sempre una certa stabilità fonologica. Questo fenomeno, che
si riscontra in tutte le lingue del mondo, risponde al fatto che
l'utente umano deve poter riconoscere la 'parentela' tra le
parole, sicché è difficile che in una lingua
esistano parole totalmente diverse l'una dall'altra. In questo
modo, tra l'altro, le parole nuove possono essere ottenute con
manipolazioni morfologiche diverse a partire da parole 'vecchie',
con un evidente vantaggio di memoria. In sintassi, la testa del
sintagma (la parte di esso che impone a tutto il resto il proprio
comportamento sintattico) può stare o all'inizio o alla
fine del sintagma stesso: abbiamo allora lingue a testa iniziale
(come l'italiano: Voglio il caffè) o lingue a testa finale
(come il turco: Kahve severim, 'Voglio il caffè', lett. 'il
caffè voglio'). In termini generali, ciò significa
che, per risolvere un dato problema strutturale, le lingue hanno a
disposizione un numero limitato e normalmente piccolo di opzioni,
e sono quindi libere di scegliere tra l'una e l'altra ma non di
fare qualunque cosa.
Naturalmente queste affermazioni non devono essere prese in senso
assoluto. Se così fosse, occorrerebbe concludere che le
lingue sono, malgrado le apparenze, tutte uguali e che sono
adattate in modo perfetto per essere impiegate dagli utenti. In
realtà sono molto diverse l'una dall'altra. Ma la loro
diversità va intesa con sottigliezza: esse sono diverse
perché i punti sui quali devono compiere le loro opzioni
(scelta dei segmenti fonici, delle strutture sillabiche, degli
ordinamenti ammessi dei diversi tipi di segmenti, e così
via) sono tanto numerosi che l'insieme delle opzioni che ciascuna
prende dà un'impressione esteriore di enorme
varietà. Ma, se guardiamo ai livelli di scelta uno per uno,
ci accorgiamo di due cose:
1) che le lingue rispettano gli stessi livelli di scelta;
2) che, su ciascuno di essi, le alternative sono limitate (v.
Chomsky, 1985).
L'insieme di questi fatti e considerazioni ha riportato in vigore,
alla metà del Novecento, l'antico concetto filosofico di
innatismo, applicato stavolta proprio al linguaggio. È
stato soprattutto Chomsky, sin dalle prime sue opere (v. Chomsky,
1968), a sostenere che il linguaggio è innato nell'uomo, in
quanto si sviluppa da un programma genetico che governa non solo
il manifestarsi delle diverse capacità linguistiche, ma
anche il momento e il modo in cui entrano in azione i meccanismi
di cui esse sono fatte. Certo, l'innatismo di cui parla la
linguistica di oggi non è quello metafisico proprio della
filosofia sei- e settecentesca ma ha un carattere biologico.
È l'equipaggiamento biologico della specie che, come induce
il bambino normale a camminare verso i dodici mesi, così lo
spinge a parlare con straordinaria regolarità e
indipendentemente dalla cultura di cui fa parte.
È difficile stabilire dove finiscano le proprietà
innate e dove comincino quelle apprese, in fatto di linguaggio. Le
diverse scuole differiscono proprio per il punto in cui mettono
questo confine. Ma sembra ormai innegabile che il fondamento del
linguaggio (inteso come facoltà) sia nella dotazione
biologica della specie.
c) Linguaggio e conoscenza
L'altro senso in cui il linguaggio si intreccia con la cognizione
fu identificato già dalla filosofia sei- e settecentesca, e
trovò le sue formulazioni più forti (in chiavi
diverse) in Vico, Condillac, Leibniz o Humboldt. Il linguaggio
crea, secondo questa prospettiva, un circolo con la conoscenza
umana: contribuisce alla formazione dei concetti e delle idee e
alla costruzione di una rappresentazione del mondo ("il linguaggio
è l'organo formativo del pensiero", secondo Humboldt: v.,
1836, p. 42), ma al tempo stesso riceve dalla cognizione il
proprio contenuto e la propria articolazione. Questo tema è
stato ripreso nella storia del pensiero moderno una
infinità di volte e in mille forme, dando luogo in taluni
casi a complesse tradizioni filosofiche. Anche nella linguistica
di oggi la preoccupazione cognitiva è fortissima e si
manifesta in più varianti.
Schematizzando drasticamente, basterà dire che le posizioni
principali sono oggi due. Da una parte c'è quella
rappresentata in particolare da Chomsky e dalla sua scuola (v.
Chomsky, 1985), secondo la quale il linguaggio è uno dei
sistemi cognitivi dell'uomo, perché serve alla definizione
della conoscenza e funziona per taluni aspetti come un
calcolatore. Dall'altra c'è l'idea, molto prossima a
posizioni vichiane, secondo cui il pensiero nasce naturalmente
metaforico, e rivela questa sua proprietà nel linguaggio in
una varietà di forme (v. Lakoff, 1987). Malgrado la
differenza delle posizioni, è innegabile che la linguistica
di oggi adotti globalmente un atteggiamento 'cognitivo', anche
perché considera l'osservazione sistematica del linguaggio
come una delle vie per accedere al funzionamento della mente. Il
funzionamento delle lingue, e in particolare gli aspetti
universali che esse presentano indipendentemente dalle parentele
genetiche, permettono di fare ipotesi sul modo di funzionare della
mente, se non del cervello.
Del resto, già la filosofia antica aveva riconosciuto che
le principali operazioni logiche sono rese possibili
essenzialmente dal linguaggio: designare (cioè 'nominare'
le cose), predicare ('affermare qualcosa di qualcos'altro'),
quantificare (dire 'quante cose' ci sono), generalizzare
('estrarre aspetti comuni a più oggetti o entità'),
specificare ('isolare un tratto o un oggetto da un insieme di
tratti o oggetti'), asserire ('dire che x è vero'), negare
('dire che x è falso'), ipotizzare, e così via, sono
operazioni che non solo si esprimono nel linguaggio, ma che sono
diventate possibili proprio a partire dal momento in cui l'uomo si
è munito di questa risorsa e fanno parte di quello che
è stato chiamato l''apparato formale dell'enunciazione' (v.
Benveniste, 1966-1974, vol. II). È anche probabile che il
linguaggio abbia contribuito a far nascere nell'uomo uno dei suoi
tratti più specificamente umani, la coscienza, che non a
caso si rappresenta in molte culture con una metafora verbale (la
'voce' che parla nel silenzio della mente o dell'anima) (v.
Lieberman, 1991). Un'ipotesi molto suggestiva sostiene perfino che
la matematica non è che la forma raffinata di risorse gia
presenti nel linguaggio. Le principali operazioni matematiche (a
partire da quelle dell'aritmetica) possono essere viste come
formalizzazioni di analoghe risorse linguistiche (v. Hockett,
1968), alludendo così a un continuum tra la
verbalità e le manifestazioni più elaborate della
mente.
3. Il software del linguaggio
a) Principi formali fondamentali
Per capire il principio architettonico secondo cui le lingue sono
fatte, bisogna tener presente che esse sono sistemi semiotici
sviluppati in una condizione di drastica penuria di mezzi.
Ciò discende dai limiti dell'utente di cui si è
già parlato, che impedirebbero di usare sistemi
eccessivamente complicati. Per fare solo un esempio, benché
i suoni che l'apparato fonatorio può produrre siano
infiniti, non tutti sono utilizzabili fonologicamente: per questo
i segmenti fonici (i 'fonemi') di cui le lingue si servono non
sono mai più di cinquanta e la loro media è attorno
ai trenta.Ma se le parole fossero fatte di un solo segmento - come
l'italiano è o il latino i ("va"') - le lingue potrebbero
avere non più di una trentina di parole in tutto. A questa
limitazione intrinseca la specie ha risposto con una geniale
trovata: creando un insieme di meccanismi formali che permettono
di ottenere sistemi complessi anche a partire da pochi o perfino
pochissimi elementi di base. Di questi meccanismi illustriamo i
principali (v. De Mauro, 1982).
1. Il principio di combinazione. Le lingue sono organizzate in
livelli gerarchicamente disposti, tali che il livello inferiore
fornisce il materiale a quello superiore. Per dirla in modo molto
generico, i segmenti fonici servono a creare unità
morfologiche, queste compongono le parole, le parole formano le
frasi e le frasi si organizzano in strutture complesse chiamate
testi. Ora, il numero degli elementi aumenta passando da un
livello all'altro (fonologia, morfologia, sintassi, testo),
perché le lingue mettono all'opera sistemi combinatori per
i quali, concatenando elementi semplici in base a un numero
relativamente ridotto di regole, si ottengono entità via
via più complesse. La combinazione degli elementi non
avviene in modo casuale, ma rispettando scrupolosamente taluni
'profili' (in inglese templates) che ciascuna lingua accetta come
propri ed escludendo quelli che rifiuta. Lo sbalzo numerico (il
'salto semiotico': v. Simone, 1995⁶) che si realizza passando da
un livello all'altro è enorme, e si può rilevare a
colpo d'occhio notando come in ogni lingua, a partire da un numero
molto ristretto di segmenti fonici, si ottenga un numero
illimitato di parole e di frasi.
Una chiara illustrazione di questo fatto si ha al livello
fonologico. Come si è detto, ogni lingua ha un numero
ristretto di segmenti fonici discreti. Per ottenere un numero
più alto di entità, i segmenti si combinano secondo
templates particolari. In italiano, ad esempio, abbiamo non solo
parole di un solo segmento, ma anche di due (ma, re, dà,
ecc.), di tre (fra, amo, ora, ecc.), di quattro (fare, mare, alto,
orma, ecc.) e così via. I segmenti che intervengono sono
sempre gli stessi, ma le parole risultanti sono infinitamente
più numerose. Immaginando che l'italiano abbia ventiquattro
segmenti fonici, le parole possibili sono il prodotto cartesiano
di ventiquattro, dunque un numero altissimo. In aggiunta, nel modo
in cui i segmenti si concatenano l'italiano segue dei templates
che sono diversi da quelli, poniamo, del tedesco: in italiano
è illegale la sequenza /m/+/r/ che invece è ammessa
in tedesco (ad esempio umringen 'girare attorno') (v. Trubeckoj,
1939).
Le parole che così si ottengono possono differire solamente
per un segmento pur avendo significati del tutto indipendenti:
mare non ha nulla a che fare con male, né arto con orto (v.
Lyons, 1972). Ma poco importa che la differenza sia minima: la
possibilità di cogliere differenze di significato affidate
a così esigue differenze foniche è garantita non
solo dalla stabilità degli elementi fonici che ogni lingua
sceglie, ma anche dal fatto che attorno a ogni parola esiste un
contesto sia verbale sia non verbale che aumenta la
probabilità di una data parola riducendo fino a zero quella
di un'altra. Un ulteriore dispositivo di sicurezza è
costituito dal fatto che le lingue seguono templates tipici di
successione dei segmenti fonici e di struttura delle sillabe.
2. Il principio della ripartizione in classi omogenee. Se
prendiamo le parole di una lingua (lasciando qui del tutto
intuitiva la nozione di 'parola'), verifichiamo facilmente che
esse non sono l'una completamente diversa dall'altra, ma tendono a
distribuirsi in classi omogenee, i membri di ciascuna delle quali
hanno un comportamento in tutto o in parte somigliante. In una
frase come Tuo fratello e tua sorella sono arrivati con la zia, ad
esempio, fratello, sorella, e zia, benché superficialmente
diversi, hanno diversi tratti di comportamento omogenei: sono, per
dirne una, capaci tutti di occupare le posizioni di soggetto,
oggetto e complemento indiretto. Sono, in altri termini, tre
rappresentanti di una stessa classe di forme, che siamo abituati a
chiamare 'nomi' (v. Bosque, 1991).
La tradizione occidentale ha, sin dai suoi inizi, elaborato una
lista di classi di forme (le 'parti del discorso') in base alla
geniale osservazione che le parole di una lingua si possono
ripartire in categorie. Allo sviluppo di questa concezione non
è estraneo il concetto tipico della medicina antica,
secondo cui nella varietà dei segni medici esistono delle
'somiglianze' che permettono di definire classi stabili di segni,
ciascuna delle quali può essere attribuita a una specifica
malattia (v. Viano, 1985). La classificazione tradizionale
è stata molto arricchita dalla riflessione moderna. Questa
ad esempio distingue i nomi in 'numerabili', 'di massa' e
'collettivi', secondo la loro natura semantica. I numerabili si
riferiscono a entità che possono essere 'contate'
(fratello, gatto, tavolo, libro), quelli di massa a entità
non articolate, che quindi non sono composte da individui (latte,
grano, fauna), quelli collettivi a entità fatte di
individui singoli, cioè a totalità discrete (folla,
gregge, gruppo). Pur essendo tutte composte da nomi, le tre
categorie si comportano in modi parzialmente diversi. Ad esempio,
i nomi di massa tendono a non avere un plurale. Altre ripartizioni
articolano le categorie maggiori in maniera ancora più
fine. Numerose sub-partizioni sono state riconosciute ad esempio
tra i verbi: basta pensare agli impersonali, ai verbi atmosferici
(che in molte lingue hanno un comportamento a sé), ai
transitivi, agli intransitivi, ai medi, agli stativi (rimanere,
stare, ecc.), ai verbi psicologici (pensare, credere, ecc.), agli
'inaccusativi' (che hanno un soggetto posposto: Arrivano i
ragazzi), e così via. Il comportamento di queste
sottoclassi è in parte identico a quello di tutti i
componenti della classe dei verbi, in parte specifico: per fare
solo un esempio, gli stativi possono apparire in un contesto
indicante durata (Rimani qui per un paio d'ore), i non stativi no
(*Svegliati per un paio d'ore).
All'inverso, le classi di forme si ripartiscono in tutte le lingue
in due super-categorie: una che contiene classi a numero chiuso di
membri e una che contiene classi a numero aperto. Tra le prime
stanno ad esempio i pronomi, le congiunzioni, le proposizioni (o
le post-posizioni); tra le seconde i nomi, i verbi e gli
aggettivi. Non tutte le lingue peraltro hanno le stesse classi, e
una stessa classe può essere affollata in una lingua e
molto povera in un'altra: per il primo punto, basta notare che in
cinese la distinzione tra nomi e verbi è spessissimo
malcerta (v. Li e Thompson, 1981); per il secondo, che alcune
lingue native dell'Australia hanno solo sette o otto aggettivi (in
queste lingue, perciò, gli aggettivi formano una classe
chiusa) (v. Dixon, 1977). Ma, a dispetto di queste differenze
locali, resta il fatto che le parole di una lingua tendono a
distribuirsi in un numero ristretto di tipi e sottotipi (le
'classi omogenee'), che riduce drasticamente il numero dei
meccanismi (delle 'regole') che bisogna dominare per far
funzionare l'insieme.
3. Il principio sintagmatico. Un altro aspetto cruciale del
software delle lingue sta nel fatto che nell'enunciato le parole
non sono slegate, ma sono sempre in qualche modo connesse tra
loro. Insomma, esse tendono a collegarsi in 'gruppi', ciascuno dei
quali, benché costituito da più parole, si comporta
sintatticamente come un tutto omogeneo. I 'gruppi' di cui stiamo
parlando sono chiamati tecnicamente sintagmi: si dice allora che
gli enunciati sono costituiti da parole combinate tra loro in
sintagmi. I sintagmi a loro volta sono composti da unità di
due tipi: la testa (la parola o l'insieme di parole che dà
al resto del sintagma il suo comportamento sintattico) e il
complemento (tutto il resto). Una frase semplice come (1)
può essere analizzata in sintagmi come è indicato in
(2) e la sua struttura può essere rappresentata con un
diagramma ad albero come (3):
(1) Il fratello di Carlo ha visto poca gente per strada
(2) [[[Il fratellosn] [di Carlosp] sn] sn] [[[ha vistosv] poca
gentesn] per stradasp] sv] f
(3) schema
Le parentesi quadre racchiudono i sintagmi che costituiscono
l'enunciato. I simboli accanto alla parentesi di chiusura indicano
i diversi tipi di sintagma: F=Frase; SN=Sintagma Nominale;
SV=Sintagma Verbale; SP=Sintagma Preposizionale. Questa
rappresentazione mette in luce alcune cose: 1) un sintagma
qualunque può contenerne un altro della stessa o di diversa
specie (così il SV ha visto poca gente per strada contiene
ha visto che è a sua volta un SV; il SN il fratello di
Carlo contiene un SN più breve che è il fratello);
2) la maggior parte dei confini interni di sintagma (indicati
dalle parentesi quadre) si colloca tra il soggetto della frase (il
fratello di Carlo) e il resto, mentre tra verbo e complemento
oggetto non ci sono confini altrettanto ricchi, facendo
così pensare che il soggetto sia un'entità
intrinsecamente diversa dal verbo e per qualche aspetto anche
indipendente.
La linguistica del Novecento ha svolto un imponente lavoro sulla
tipologia dei sintagmi, arrivando ad alcune formulazioni di grande
generalità (v. ad esempio Chomsky, 1975). Anzitutto, nelle
lingue i sintagmi sono di pochi tipi (più o meno i tre
accennati prima), quali che siano le concrete parole che li
compongono. In secondo luogo, la struttura dei sintagmi, quale che
sia la loro natura, è approssimativamente la stessa:
ciò vuol dire che sotto la grande varietà
superficiale dei fenomeni sintattici si può ravvisare una
sorprendente omogeneità di struttura. Chomsky (v., 1986) ha
addirittura supposto che i sintagmi abbiano la struttura
universale descritta da (4):
(4) schema
dove X rappresenta la testa del sintagma, Comp il complemento, X'
il sintagma di livello più alto di cui X può essere
parte, e X" quello di livello massimo di cui sia X' che X possono
essere parte. Spec è lo specificatore, cioè
un'entità come l'articolo rispetto al nome, l'avverbio
rispetto all'aggettivo o al verbo, ecc.
Lo schema (4) descrive allora la struttura di sintagmi
apparentemente così diversi come Il fratello di Carlo e
(con qualche adattamento) ha visto poca gente per strada,
cioè di un SN non meno che di un SV; esso mostra anche un
altro aspetto importante della struttura dei sintagmi, cioè
il fatto che questi non sono piatti, ma contengono una struttura
gerarchica, in cui alcuni costituenti stanno 'più in alto'
e altri 'più in basso'.
La proposta di Chomsky a sostegno della struttura unica (a forma
di 'bilancia asimmetrica', orientata tanto a sinistra quanto a
destra) dei sintagmi ha suscitato molte discussioni, ma ha se non
altro messo in rilievo che è legittimo cercare di ridurre i
molteplici tipi apparenti di sintagmi a un nucleo minimo di
strutture, sui terminali delle quali si possono inserire
illimitate manifestazioni superficiali diverse. Ha sottolineato,
insomma, che la mente opera con metodiche 'minimaliste' e cerca di
ottenere con questi mezzi il massimo di varietà di
risultati (v. Chomsky, 1992). Se quest'ipotesi fosse vera, avremmo
una buona spiegazione del modo in cui la mente riesce a dominare
una varietà di fenomeni così disparata come quella
in cui si manifestano le lingue.
4. Il principio dei ri-uso. Le unità di cui le lingue sono
fatte sono ricorrenti, cioè sono sottoposte a frequenti
reimpieghi nel sistema delle lingue stesse. Questo fenomeno
è evidente al livello fonologico, dove, come si è
detto, le stesse unità si ricombinano con risultati
svariatissimi. In morfologia, inoltre, le unità (i morfi)
vengono riadoperate una varietà di volte in combinazioni
diverse. Ad esempio, il morfo ri- appare in risalire, ripetere,
rivolgere, ecc., e, nella forma re-, in resistere, recuperare,
replicare, reagire, e così via. Ma oltre che unità
visibili (come i morfi o i fonemi), sono ricorrenti anche le
unità 'vuote', cioè astratte: uno stesso sintagma
(come sopra si è accennato) può essere riempito da
una varietà di materiali lessicali, ma la sua struttura
rimarrà sempre la stessa. In altri termini, qualunque
unità possiamo identificare nelle lingue, essa viene
riadoperata una varietà di volte, in modo che materiali
nuovi siano impiegati il meno possibile. È per questa
singolare proprietà che sin dalla grammatica antica alcuni
aspetti delle lingue possono essere descritti mediante
'paradigmi', cioè modelli tipici ai quali si uniformano una
varietà di casi singoli.
Questo principio vale non soltanto (come negli esempi accennati
prima) sull'asse paradigmatico, cioè nel sistema
linguistico, ma anche su quello sintagmatico, cioè nelle
combinazioni di unità che si producono per ottenere
messaggi. Ciò significa che gli utenti riadoperano di
continuo parole, frasi, modi di dire, sequenze già
adoperate da altri e memorizzate come tali. Il sapere linguistico
e l'esecuzione sono fatti almeno in parte di 'moduli', 'pezzi'
belli e fatti che vengono riusati, cioè assemblati secondo
le circostanze e le necessità.Questa concezione finisce per
contrastare nettamente con un'idea che ha circolato largamente
nella linguistica e nelle scienze cognitive di questo secolo, che
sostiene che il comportamento linguistico è intrinsecamente
creativo, in quanto consisterebbe nella produzione e nella
ricezione di messaggi ogni volta nuovi (v. De Mauro, 1982). In
effetti, i parlanti possono forse essere 'creativi' nei
significati ai quali danno espressione, ma le risorse che usano
per esprimerli sono costituite dalla combinazione di 'pezzi'
già adoperati, sicché - se si preferisce questa
formula - essi sono destinati a 'imitarsi' a vicenda in modo
continuo, attingendo a una più o meno vasta 'libreria' di
modelli e di tipi. L'effetto di 'nuovo' che si può avere in
taluni casi (ad esempio nella creazione letteraria o poetica)
è piuttosto il risultato di una combinatoria molto
complessa che di una innovazione in senso proprio. Un messaggio
veramente 'creativo' (cioè realmente inaudito prima)
correrebbe il rischio di essere incomprensibile.
5. Il principio di segmentazione. Benché la catena
linguistica (sia nella sua forma parlata sia in quella scritta) si
presenti come un 'treno' continuo di elementi, essa contiene,
oltre che una struttura (come si è visto prima), anche una
serie di segnali di confine, che servono a separare
un'unità dall'altra (v. Harris, 1957). In sostanza, il
linguaggio può funzionare proprio perché si
manifesta sotto forma di unità discrete: sono unità
i segmenti fonici, le sillabe, i morfi, le parole, i sintagmi, e
così via. Siccome tra un'unità e l'altra passano
confini di diverso peso, la catena linguistica può essere
rappresentata come scandita da un gran numero di confini: è
cioè segmentabile. Le parentesi quadre negli esempi portati
sopra sono un esempio di confine sintattico; ma confini esistono
anche in fonologia, in morfologia e a livello testuale. In
fonologia, ad esempio, determinati (gruppi di) segmenti possono
trovarsi solo in fine di parola o di morfo (così in inglese
/ŋ/: /siŋ/ sing 'cantare'). Ciò vuol dire che la catena di
segnali si può segmentare in parti più o meno
stabili, e queste sono spesso indicate da segnali di confine. Di
questi confini il parlante ha una qualche consapevolezza, e li
adopera per analizzare il messaggio e per gestirlo.
b) Principi semantici fondamentali
I meccanismi formali illustrati finora sono strumentali a un fine
diverso e in un certo senso eterogeneo: quello di esprimere
significati. È a questo che le lingue servono, e le risorse
formali di cui sono dotate non sono che mezzi per ottenere questo
risultato. Il significato, il suo modo di organizzarsi e
articolarsi nelle lingue, è l'oggetto di studio della
semantica, ma non si può fare a meno di notare che questa
disciplina, tra le diverse che si occupano del linguaggio e delle
lingue, nella sua storia recente è riuscita ad accumulare
più domande che risposte. Perciò, in questo
paragrafo ci limiteremo ad alcuni problemi fondamentali.
Il più importante è quello della referenza,
cioè il fatto che le parole delle lingue sono dotate di
specializzazioni semantiche diverse. Una parte di esse designano
'oggetti' (i 'referenti'), sia esterni che mentali; altre servono
per assicurare coesione tra le parole referenziali; altre per
'ancorare' i discorsi nel tempo e nello spazio. Un esempio tipico
delle prime sono i nomi, delle seconde le preposizioni, delle
terze alcuni avverbi (come qui, ora, dopo, ecc.: i cosiddetti
deìttici). Questa classificazione però non dice
nulla di un problema più basilare: come riescono gli utenti
linguistici a 'convertire' la loro esperienza in parole? quale
'interfaccia' adoperano per compiere il passaggio che è al
centro della filosofia del linguaggio, quello dalle 'cose' ai
'discorsi'?
Occorre riconoscere che le risposte che si danno a queste domande
sono tuttora molto approssimative. Quando ci si occupa degli
aspetti semantici del software del linguaggio, ci si limita
allora, più prudentemente, a mettere in evidenza alcune
risorse che le lingue devono avere per poter parlare delle 'cose',
e che formano nel loro insieme (v. Benveniste, 19661974, vol. II)
'l'apparato formale dell'enunciazione'. Intanto, il linguaggio
deve riflettere in qualche modo (per il principio di adeguatezza
rappresentativa già menzionato) le strutture d'azione del
mondo extra-linguistico. Nessuno di noi era presente quando i
Romani rapirono le Sabine, ma sappiamo quel che accadde e come
accadde perché un discorso verbale ce lo ha tramandato.
Perché il linguaggio esplichi i suoi vantaggi evolutivi,
l'ispezione dei messaggi linguistici deve surrogare l'ispezione
dei fatti 'reali'. Il linguaggio deve quindi poter designare gli
attori che intervengono, le azioni che essi svolgono, la natura di
queste (durata, qualità, ecc.), la loro localizzazione
nello spazio e nel tempo, il grado di 'controllo' che l'attore
può esercitare sull'azione della quale è titolare,
le principali operazioni pragmatiche che può svolgere
(affermare, negare, interrogare, ...), e così via.
Le lingue possono dare risposte diverse a questi problemi, ma non
possono essere prive di mezzi per ciascuno di essi, e con la
varietà dei modi di rispondere organizzano globalmente la
loro grammatica (v. Lazard, 1994). Ad esempio, la maniera in cui
rispondono al problema di indicare il 'controllo' dell'attore
sull'evento è alla base di una capitale distinzione
grammaticale, quella tra verbi transitivi e intransitivi. I verbi
transitivi servono per attribuire all'attore un alto grado di
controllo sull'evento, i verbi intransitivi un grado assai minore.
Alcune lingue segnalano l'alto grado di controllo esercitato
dall'attore non solo mediante la natura del verbo, ma anche dando
un caso particolare (l'ergativo) al soggetto che lo esprime.
c) Ripartibilità in tipi
L'insieme dei meccanismi illustrati costituisce quella che
globalmente si chiama la 'grammatica' di una lingua. Questa
può essere quindi intesa come la 'forma' che le lingue
hanno assunto per risolvere i problemi semantici indicati sopra,
pur essendo in condizione di penuria di risorse. Essa è
fatta perciò essenzialmente di regolarità,
ricorrenze e anche ripetizioni di strutture, cioè di
'regole', il cui essenziale vantaggio sta nel fatto che permettono
di gestire la molteplicità a partire da poche risorse.
Inoltre, le 'forme' grammaticali che le lingue possono assumere
non possono variare illimitatamente, ma solo entro una scala
determinata.
Diverse ipotesi importanti sono nate dallo sforzo di identificare
l'ambito entro il quale la grammatica delle lingue può
variare, il livello di equipaggiamento minimo al di sotto del
quale esse non riescono a funzionare. La più notevole
è quella formulata dalla tipologia linguistica (v. ad
esempio Comrie, 1981). Quest'area d'indagine, che risponde a una
preoccupazione già molto viva nel secolo scorso, in
particolare in Humboldt (v. Morpurgo Davies, 1994), studia le
affinità che le lingue possono presentare indipendentemente
dalla loro parentela genetica. Lingue anche molto distanti nel
tempo e nello spazio possono avere fasci di tratti in comune, e
può accadere anche che, dato un tratto x qualunque, esso si
presenti sempre associato a un tratto y, cioè che i tratti
si implichino l'uno con l'altro. La tipologia studia dunque i
'tipi' entro i quali le lingue del mondo possono ripartirsi,
assumendo come fondamento che questi non possano essere illimitati
ma formino una lista chiusa, secondo l'avvertimento di Hjelmslev
che in un certo senso ne ha segnato il cammino: "Una tipologia
linguistica esauriente è il compito più grande e
importante che si offra alla linguistica. [...] il suo compito
è di rispondere alla domanda: quali sono le strutture
linguistiche possibili, e perché tali strutture sono
possibili mentre altre non lo sono? Così facendo essa,
più di qualunque altra specie di linguistica, si
avvicinerà a quello che si potrebbe chiamare il problema
della natura della lingua" (v. Hjelmslev, 1963, tr. it., p.110).
Finora non si è riusciti, per la verità, a
identificare che pochi tipi globali capaci di contenere l'intera
struttura di una lingua, ma si preferisce trattare le lingue per
'strati' (la fonologia, la morfologia, la sintassi, ecc.), ognuno
dei quali appartenente a un tipo.
La tipologia rivela anche che non tutti i meccanismi contemplati
dalla linguistica teorica sono ugualmente necessari per il
funzionamento di una lingua. Non sembra, ad esempio, che per le
lingue sia indispensabile avere una morfologia; ce ne sono
svariate (a partire dal cinese) che ne usano una molto ridotta,
altre che probabilmente non ne hanno alcuna. Secondo una delle
ipotesi possibili (v. Bickerton, 1984 e 1990), di talune risorse
le lingue non possono fare a meno (come i pronomi personali, una
preposizione locativa di uso generale o una particella per
trasformare una frase in una relativa), di altre possono esser
addirittura prive (la morfologia verbale o derivazionale). Tra i
diversi meccanismi di cui una lingua è fatta sembra
esistere quindi una 'gerarchia', della quale anche l'utente come
tale ha qualche percezione. La struttura del linguaggio sarebbe
allora paragonabile a una 'cipolla', fatta di strati più
profondi (quelli che si imparano per primi e vengono toccati per
ultimi dal cambiamento linguistico) e di altri via via più
superficiali (che si imparano più tardi e sono toccati
prima dal cambiamento) Questo argomento, che è legato alle
indagini di Roman Jakobson (v., ad esempio, 1941), si esemplifica
bene in fonologia (dove i fonemi basici si imparano per primi in
qualunque lingua e sono sempre gli stessi), ma si documenta anche
sugli altri livelli delle lingue. Su questa base è stato
persino proposto un repertorio di risorse 'minimo' che le lingue
conservano in qualunque circostanza, rispetto al quale tutto il
resto non è che un'aggiunta. Sebbene sulla composizione di
questo repertorio ci sia un'intensa discussione, si può
ridurre questo modo di ragionare al principio generale secondo il
quale 'le lingue coincidono nei minimi, mentre differiscono nei
massimi'.
Al linguista si pongono allora due problemi fondamentali: capire
dove va messo il confine tra i minimi (tratti indispensabili e
obbligatori delle lingue) e i massimi (tratti individuali di
ciascuna), e spiegare come i parlanti riescano a dominare nel loro
comportamento tanto gli uni quanto gli altri.
4. Attorno al nucleo stabile
a) Fenomeni instabili
I principi generali che abbiamo descritto finora sono sì
numerosi, ma non bastano a costituire per intero nessuna lingua.
Come accade spesso, la linguistica opera anche su questo punto
all'insegna di un'opposizione già identificata
nell'antichità greca, quella tra 'analogia' e 'anomalia',
considerate dagli antichi come i due moventi basici
nell'organizzazione e nell'espansione dei sistemi linguistici. La
concezione che abbiamo presentato finora a proposito del software
del linguaggio può lasciar pensare che nel funzionamento
delle lingue operino esclusivamente principi analogici,
cioè regolari, omogenei e descrivibili con relativa
nettezza. Sarebbero questi, allora, a stabilire che le regole
siano in numero limitato e di applicazione frequente e che tutte
le strutture linguistiche possano essere ridotte a poche.
Ma il principio anomalistico, che già gli antichi
postulavano per giustificare i fenomeni che 'non tornano', non
può essere escluso neanche oggi, e anzi numerosi fenomeni
non sembrano, per ora, spiegabili se non su quella base. Nelle
lingue, infatti, attorno a un nucleo organizzato nel modo che si
è detto si estende una vasta frangia di fenomeni instabili,
a volte anche isolati, che non sembrano, perlomeno allo stato
attuale delle conoscenze, riconducibili a regolarità e
nondimeno fanno parte della competenza dei parlanti e sono
perfettamente adoperabili. Basta pensare a strutture come le frasi
idiomatiche (come Siamo ai ferri corti): non esprimono un
significato che si possa ottenere dalla composizione delle parti e
quindi non sembrano riducibili a regole generali; nondimeno il
parlante è in grado di impararle, di dominarle nell'uso e
di capirle quando le incontra. Oggi si tenta di ricondurre ai
'minimi' anche le espressioni idiomatiche, considerandole come
manifestazioni superficiali di poche 'metafore' fondamentali (ad
esempio l'espressione citata sopra, essere ai ferri corti,
è resa possibile da una metafora generale come la vita
è una guerra) (v. Lakoff, 1987). Ma è ancora dubbio
che questo tentativo si possa applicare a tutte le espressioni di
una lingua.
La competenza di un parlante consiste nella sua conoscenza delle
regole della sua lingua e nella sua capacità di applicarle
(v. Chomsky, 1965 e 1985), ma anche nella sua capacità di
correlare la conoscenza della lingua con quella del mondo esterno
(v. Coseriu, 1988). L'aspetto sorprendente di questo fenomeno
è che queste regole per lo più non vengono imparate
in forma esplicita, ma sono acquisite gradualmente in modo tacito.
Anche chi abbia studiato a scuola la 'grammatica' della propria
lingua, nell'uso linguistico reale adopera una varietà di
meccanismi e di regole che non può aver incontrato sui
libri e della cui complessità non si rende neanche conto. I
parlanti sono in condizione di imparare e usare le regole della
loro lingua per il solo fatto di essere 'esposti' a un ambiente in
cui essa è usata. Ciò significa anche che il vero
depositario delle regole della lingua non è il singolo, ma
la collettività dei parlanti attorno a lui. Ora, le regole
che il parlante impara non sono sempre di tipo generale e di vasta
applicabilità, ma si riferiscono anche a fenomeni marginali
e periferici della lingua.
Questi fenomeni sono considerati 'periferici' solo per
approssimazione: in effetti sono talmente numerosi da contribuire
in modo decisivo a caratterizzare e differenziare le diverse
lingue. Per giunta, dal punto di vista semiotico, creano una seria
difficoltà alla teoria del linguaggio, perché questa
tende per sua natura a ricercare meccanismi semplici e a ridurre
la molteplicità dei fenomeni a poche classi generali. Come
è possibile, infatti, che il parlante riesca ad acquisire e
a conoscere tanti 'frammenti' della propria lingua, dei quali
apparentemente non esiste nessuna 'grammatica'? Fa comodo a questo
proposito, anche se non risolve affatto il problema, distinguere
nella competenza linguistica strutture generabili e strutture
memorizzate. Le prime, rispondendo a regole semplici e potenti,
possono essere generate ogni volta che servono applicando quelle
regole. Ciò che si ricorda è quindi la regola, non i
risultati delle sue applicazioni. Le seconde, non rispondendo a
regole, devono essere memorizzate una per una come entrate
separate. Questa distinzione corrisponde approssimativamente ai
due procedimenti che adoperiamo per ottenere un numero: se il
numero si può calcolare con un'operazione aritmetica, non
lo impariamo a memoria ma ci limitiamo a calcolarlo applicando
quell'operazione; se invece non nasce da nessun algoritmo (come
quando si tratta di un numero di telefono), dobbiamo memorizzarlo
tale e quale e collocarlo accanto ad altri numeri della stessa
natura. Questa distinzione, come abbiamo accennato, non risolve
però il paradosso indicato prima, perché resta
inspiegato il fatto che la mente dell'utente sia da un lato una
formidabile cercatrice di economia e dall'altro una ugualmente
formidabile dissipatrice di risorse.
b) Accuratezza strutturale ed efficacia predicativa
Nondimeno, le lingue pullulano di fenomeni 'instabili', che anzi
contribuiscono in modo potente a dare a esse un effetto di
'realtà', che non avrebbero se funzionassero solo in base a
regole rigorose e generali. Tra questi andrà posto
anzitutto il fatto che le lingue variano anche secondo che siano
scritte o parlate (secondo, cioè, quella che spesso
è chiamata la 'modalità' del loro impiego). Ora,
nelle loro forme parlate, esse violano continuamente diversi dei
principi che abbiamo presentato sopra, e in particolare il
principio sintagmatico. Facciamo un esempio. Nei sintagmi operano
spesso regole di ordinamento che possono essere descritte (v.
Chomsky, 1975). Ad esempio, in (5a) l'ordine dei sintagmi
preposizionali rispetto alla testa nominale non è libero ma
vincolato, sicché non può essere accettato (5b):
(5) a. Lo studente di giornalismo di Perugia
b. *Lo studente di Perugia di
giornalismo
Le ragioni di questo ordinamento sono studiate dalla teoria dei
sintagmi, che spiega che studente, essendo derivato da un verbo
(studiare), ordina i suoi complementi alla stessa maniera del
verbo. Si ha qui un caso, insomma, in cui il nome 'eredita' alcune
delle proprietà sintattiche del verbo da cui deriva:
pertanto di giornalismo è in un certo senso l'oggetto di
studente, e come tale deve essere immediatamente adiacente a esso.
L'ordine dei due sintagmi preposizionali (di giornalismo e di
Perugia) è dovuto quindi alla natura parzialmente verbale
del nome-testa. In modo somigliante possono essere spiegati altri
casi più complicati, come (6a), che è l'unico
ordinamento possibile tra i diversi riportati qui sotto:
(6) a. Il quadro di Carlo V di Tiziano del Prado
b. *Il quadro del Prado di Tiziano
di Carlo V
c. *Il quadro di Tiziano del Prado
di Carlo V
In parole povere, ogni complemento tende a 'cercare il suo posto'
naturale rispetto alla testa e agli altri complementi. Ebbene,
tutti gli ordinamenti di cui parla la teoria dei sintagmi sembrano
valere solamente per alcune delle modalità in cui la lingua
opera, in particolare per le varietà 'accurate' o 'formali'
di essa, siano esse scritte o parlate. Ma in una versione
'informale' di lingua, gli ordinamenti in questione possono essere
violati, come rivelano le numerose ricerche che si fanno in tutto
il mondo su vasti corpora di lingua parlata. Potremo allora avere
(7)
(7) Il quadro di Tiziano del Prado di Carlo V
anche perché l'intonazione, che la lingua scritta non ha
modo di riprodurre, permette di dare all'interlocutore segnali
abbastanza chiari per ricostruire le relazioni tra testa e
complementi. Alla stessa maniera, nella lingua parlata diventa
spesso confusa se non impossibile una delle distinzioni in cui la
sintassi ha più fiducia, cioè quella tra frasi
principali e subordinate (v. Blanche-Benveniste e altri, 1987).
Questi fenomeni si accentuano via via che si scende nella scala di
accuratezza e di 'formalità' e soprattutto man mano che
l'emittente del messaggio è meno colto e meno capace di
controllare la 'qualità' dei suoi prodotti linguistici (v.
Labov, 1994).
Occorrerebbe allora concludere che le varietà 'informali'
sono 'scorrette' o 'agrammaticali' rispetto a quelle 'formali'. Ma
questa affermazione non si può sostenere quando si osserva
che quelle 'scorrettezze' vengono prodotte e accettate non da
individui isolati, ma da intere comunità. Bisogna pensare
perciò che gli usi 'formali' e quelli 'informali' del
linguaggio seguano sistemi di regole parzialmente diverse e mirino
a risultati non coincidenti.
Si sono ricercate diverse soluzioni per dar conto di questa
divergenza, che, se fosse portata fino alle ultime conseguenze,
spingerebbe a concludere che le regole e le regolarità
postulate dalla linguistica semplicemente non esistono. Una
possibile maniera di spiegare la divergenza consiste nel dire che
mentre le varietà 'formali' puntano all'accuratezza
strutturale, quelle 'informali' privilegiano l'efficacia
predicativa e pragmatica: quello che importa, cioè,
è che l'enunciato 'dica quello che voleva dire' e
'funzioni' nell'interazione sociale (v. Givón, 1979).
Ciò significa che l'obiettivo a cui si tende con gli usi
informali delle lingue non è quello di produrre strutture
chiaramente ricostruibili e soggette a regole nette, ma quello di
'farsi capire' nel modo più rapido e semplice possibile, di
enunciare le 'predicazioni' che si hanno in mente, sia pure con
messaggi di dubbia qualità strutturale.
Molti fenomeni che a prima vista catalogheremmo come 'scorretti'
mirano in realtà allo stesso scopo: ottenere una
'predicazione' dotata di efficacia pragmatica, senza preoccuparsi
dell'accuratezza strutturale. Per quanto riguarda il parlato,
questa importante divergenza si osserva anche sul piano
fonologico. La pronuncia della maggior parte degli enunciati
spontanei non è articolata con la nettezza che la teoria
fonologica si aspetterebbe, ma è decisamente
'ipoarticolata': segmenti che dovrebbero esserci non ci sono, la
pronuncia di altri è approssimativa o rilassata, alcuni
segmenti si indeboliscono fino a scomparire, ecc. (v. Lindblom,
l987). Inoltre, il grado di ipoarticolazione aumenta nella stessa
persona con la rapidità dell'eloquio, fino a cancellare una
larga varietà di segmenti (v. Dressler, 1975). I suoni che
vengono prodotti dovrebbero essere, a rigore, incomprensibili, ma
in effetti funzionano. Probabilmente ciò è dovuto al
fatto che le catene foniche non vengono percepite nei loro
segmenti singoli, ma solo in modo globale, e così attivano
una conoscenza di 'parti di mondo' che permette all'interlocutore
di capire di che cosa si sta parlando. La stessa cosa accade sul
piano semantico, dove lo scambio comunicativo è fatto
spesso di referenze generiche e approssimative, che rinviano in
larga misura alle conoscenze che si presume che i parlanti abbiano
in comune. Potremo allora, nel parlato conversativo, avere frasi
come (8), che non contiene alcuna predicazione riconoscibile, ma
ne consegue una contando esclusivamente sul fatto che chi riceve
abbia sulla persona menzionata e sulle sue azioni delle
informazioni che sono già sotto forma predicativa:
(8) Hai capito Franco, eh? E bravo, eh? E noi invece... E va bene,
va bene...
In realtà, nella circolazione di messaggi in contesti
informali non esiste alcuna possibilità di applicare
criteri analitici 'a rigore': messaggi poco articolati e
semanticamente approssimativi possono riuscire comprensibili non
meno di quelli più accurati e ben articolati (v. De Mauro,
1994). Ciò dipende dal fatto che nell'elaborazione di
messaggi linguistici la conoscenza della lingua si intreccia
profondamente con quella del mondo extra-linguistico: è
proprio questa che dà al ricevente le informazioni che gli
servono per supplire alle lacune e alle approssimazioni del
segnale linguistico.
Per dirla in termini intuitivi, gli usi informali delle lingue
sono molto più 'tolleranti' (cioè instabili) di
quelli formali e non hanno bisogno di strutture ben architettate e
chiaramente segmentabili: messaggi incompleti e poco articolati
vengono accettati dagli interlocutori e si capiscono
perfettamente. Quindi bisogna ricercare un livello più
profondo di spiegazione, per il quale diventi accettabile un
numero di enunciati molto maggiore di quelli che accetterebbe una
teoria puramente formale. Per queste ragioni, non sembra che una
rappresentazione globale del linguaggio possa essere offerta solo
da sistemi di regole stabili. Occorre prevedere anche insiemi di
regole 'instabili', che rendano conto del fatto che la
comunicazione funziona anche con enunciati fonologicamente
ipoarticolati, sintatticamente disordinati e semanticamente
approssimativi.
c) Modelli per spiegare le 'irregolarità'
Per questo motivo, se il modello 'regolare' dell'organizzazione
delle lingue che abbiamo dato nel capitolo 3 può essere
considerato soddisfacente per spiegarne i meccanismi fondamentali,
per gli altri occorrono modelli più sfumati. In
quest'ambito, per la verità, la linguistica non ha
raggiunto risultati del tutto persuasivi, ma si è limitata
a indicare alcune piste e possibilità di interpretazione.
Le lingue godono infatti di una proprietà che le rende
sorprendenti: più da vicino le si guarda, più
esibiscono nuove dimensioni che, a uno sguardo generale, erano
rimaste del tutto invisibili. Se prendiamo ad esempio la classe
dei verbi (sulla quale come si è detto è stato fatto
un imponente lavoro analitico), ci accorgiamo che non basta
stabilire che ciascun verbo ha una sua 'griglia tematica'
(cioè definisce quali e quanti complementi può
avere), perché le griglie tematiche possono essere
imprevedibilmente diverse tra loro e formare nel loro insieme una
lista estesissima (v. Gross, 1975). Ad esempio, i verbi rapire,
rapinare, derubare e svaligiare, pur essendo 'affini' per
significato, in quanto hanno tutti a che fare con il significato
'asportare illegalmente', hanno griglie tematiche diversissime.
Proviamo a indicarle qui sotto:
rapire
Soggetto: [+Umano]
Oggetto: [+Umano]
Complemento: Nulla
Esempi: Hanno rapito il figlio di un industriale
*Hanno rapito l'automobile
rapinare, derubare
Soggetto: [+Umano]
Oggetto: [+Umano]
Complemento (con di): [-Umano], [+Inanimato]
Esempi: Lo hanno rapinato di una valigia
*Lo hanno rapinato di un figlio
svaligiare
Soggetto: [+Umano]
Oggetto: [-Umano], [+Inanimato]
Complemento: Nulla
Esempi: Hanno svaligiato la banca
*Hanno svaligiato la banca di tutto
Altre serie possono presentare differenze ancora più
sottili, che non si riflettono affatto nella forma esterna dei
verbi stessi, e quindi devono essere apprese come voci singole.
Tutti questi fenomeni formano la cosiddetta 'grammatica fine'
delle lingue, costituita da differenze 'minime' che nondimeno
caratterizzano la lingua come un tutto.
Data l'abbondanza di questi fenomeni non sono sufficienti i
modelli di spiegazione che vedono nella grammatica delle lingue
insiemi limitati di regole rigorosamente applicabili. Bisogna
ricorrere a modelli più potenti che prevedano
l'instabilità accanto alla stabilità e che rendano
conto della straordinaria quantità di dettagli, formalmente
imprevedibili, che le lingue contengono. Secondo un'immagine
metaforica (ma non poi del tutto) le lingue possono essere intese
come 'oggetti frattali' in senso proprio, perché il grado
di dettaglio dei loro meccanismi (e quindi delle regole che
occorre conoscere per farli funzionare) aumenta via via che le si
guarda più da vicino. Un altro modello metaforico che a
volte si usa evoca una massa di densità discontinua: a
dispetto della superficie, che sembra omogenea, porzioni singole
della massa possono essere più ricche di distinzioni di
altre, ponendo quindi problemi speciali all'utente della lingua in
questione e al linguista che deve dar conto del modo in cui
è fatta la sua competenza. Questa non può essere
rappresentata, infatti, come una raccolta di regole stabili,
omogenee e ben collegate, ma come una superficie increspata dai
bordi frattali. Resta però il problema di capire come un
sistema di questo genere possa essere conosciuto e adoperato da un
utente finito, se non attraverso una serie stratificata di
algoritmi di diversa potenza.
d) Dispositivi di sicurezza. La 'proiezione sociale' della
variazione
Le lingue, dunque, sono sottoposte strutturalmente a rarefazioni e
condensazioni, a trazioni e distorsioni, ad approssimazioni e
variazioni. Occorre domandarsi come mai, così facendo, esse
non finiscano per 'sregolarsi' del tutto, diventando inadoperabili
e convertendosi in ammassi senza senso. Devono esistere dunque dei
dispositivi di sicurezza per evitare che l'instabilità
produca la dissipazione dei sistemi linguistici.
A costituire una barriera di sicurezza intervengono almeno due
ordini di fattori: a) il carattere biologicamente insopprimibile
del software di cui si è parlato, che non permette che, nel
rendere 'generici' e 'approssimativi' (fonologicamente,
sintatticamente, semanticamente) gli enunciati, si superino certi
limiti (per ora del tutto indefiniti) che li porterebbero a non
funzionare affatto; b) l'azione continua di un monitoring
collettivo, che in molte società si esercita sotto forma
perentoria attraverso una varietà di sistemi: l'educazione,
il 'controllo' di gusto e appropriatezza, l'effetto stabilizzante
esercitato da grammatiche pratiche e dizionari, la retroazione
delle forme scritte su quelle parlate, l'influsso della 'classe
dei colti' come modello di comportamento linguistico, ecc. Quando
le lingue entrano nell'uso sociale, quindi, al modellamento
esercitato dalla mente si assomma quello svolto dalle pressioni e
dai controlli collettivi.
Questi fattori interagiscono potentemente facendo sì che la
libertà del parlante sia sempre 'vigilata', e che le
rappresentazioni che questi si fa della propria lingua siano
sempre 'rappresentazioni controllate'. Perfino l'elaborazione,
diffusa in molte culture riflesse, di 'regole pratiche' di
comportamento linguistico (ad esempio la regola italiana che dice
'bisogna dire capace di fare e non capace a fare') interviene a
esercitare un effetto-barriera nei confronti della naturale
tendenza delle lingue (più propriamente, dei parlanti)
all'instabilità e alla variazione.
A questo effetto-barriera può essere ricondotta anche
un'altra misura che si riscontra in tutte le comunità
linguistiche e che chiameremo 'proiezione sociale della
variazione'. I comportamenti linguistici che le comunità
tendono a considerare 'errati', 'impropri', 'imprecisi' e perfino
'inaccettabili' non vengono mai espulsi dalla lista dei
comportamenti possibili, ma vengono 'salvati' con lo stratagemma
di attribuirli a livelli d'uso socialmente via via meno pregiati.
Le 'regole' si organizzano insomma in una sorta di 'libreria' di
regole, e queste, nella loro varietà (da quelle stabili a
quelle massimamente instabili), si dispongono su una scala
sociale: la regola più stabile è attribuita ai
livelli d'uso considerati più alti (classi sociali elevate,
o registri formali, come lo scritto), quelle via via meno stabili
ai livelli gradualmente più bassi. In questo modo la
stratificazione sociale 'salva', collocandoli a livelli diversi di
accettabilità, la gradazione di regole e di comportamenti
che possono essere prodotti in una lingua. Per dirla in maniera
più intuitiva, le lingue 'non gettano via nulla', ma
allocano ai livelli sociali più bassi i comportamenti che
vengono sentiti come di 'bassa qualità'. Le celebri
indagini di Labov (v., 1966) sulla realizzazione della /r/ a New
York City possono essere lette in questo modo. Labov
accertò che la pronuncia della /r/ in fine di parola
nell'inglese di New York varia secondo il livello sociale,
passando da una pronuncia accurata (propria dei livelli alti) a
una quasi cancellata (propria di quelli bassi). In un caso di
questo genere, tutte le varianti identificate fanno parte della
stessa lingua, ma la società dei parlanti le 'alloca' a
diversi livelli sociali: chi pronuncia una varietà non
tipica del suo livello, quindi, sta 'imitando' o 'citando' un
altro livello sociale.In questo modo anche le varietà
più 'estreme' delle lingue trovano il modo di esser
recuperate nel seno del sistema, e questo riesce a preservare se
stesso da variazioni destabilizzanti che potrebbero perfino
distruggerlo. Affiora qui il tema, che abbiamo tenuto da parte
finora, del mutamento linguistico, dei suoi motivi e della luce
che può gettare sulla natura globale del linguaggio.
Basterà dire che le diverse forme di instabilità a
cui le lingue danno luogo possono essere considerate,
diacronicamente, come colpi di sonda con cui la
collettività dei parlanti esplora continuamente i punti
deboli e quelli forti della struttura della propria lingua,
ricercando così le aree di possibile cambiamento (v.
Coseriu, 1958; v. Labov, 1994).
e) Le variazioni sociali e il loro significato
Inserite nella loro cornice sociale, le lingue vengono sottoposte
a una varietà di fenomeni di modellamento e di controllo.
Non si conosce nessuna cultura (sia essa primitiva o avanzata) che
non eserciti una qualche forma di 'controllo' sulla propria
lingua, il che può costituire un segno indiretto
dell'importanza della lingua per il funzionamento dello stesso
corpo sociale. I fenomeni connessi sono d'interesse della
sociolinguistica, che si è articolata da tempo in due
sub-aree, che si occupano degli usi sociali così come si
registrano rispettivamente nell'interazione tra due o poche
persone (micro-sociolinguistica) o nel funzionamento di gruppi
sociali più estesi (macro-sociolinguistica).
È d'interesse della microsociolinguistica, ad esempio, il
modo in cui funzionano le conversazioni tra le persone, ed
è suo merito aver mostrato la straordinaria varietà
di meccanismi, regole, rituali che permettono a una conversazione
di procedere o che, viceversa, la inceppano. Alcuni di questi si
possono considerare universali (così la presa di turno,
l'insieme di segnali che indica che il parlante A è
disposto a cedere il turno di parola al parlante B), altri invece
legati alla singola lingua e alla società che la esprime
(così i rituali di cortesia, talvolta estremamente
pervasivi: v. Levinson, 1987). La microsociolinguistica definisce
anche i contesti (i settings) che in una data cultura sono
rilevanti dal punto di vista comunicativo, perché
regolamentati in modo particolarmente fitto: in talune culture, ad
esempio, la 'visita' di estranei è un setting regolato
linguisticamente in modo molto sottile (così a Samoa o
presso i Tarahumara del Messico: v. Duranti, 1992), mentre in
altre è totalmente irrilevante. Infine, essa contribuisce a
definire i tipi di atto linguistico che ricorrono nella
comunicazione interpersonale, e a studiare le 'regole' che
ciascuno di essi incorpora.
È invece d'interesse macrosociolinguistico il fatto che una
comunità abbia la capacità di usare una
varietà di lingue (abbia cioè un 'repertorio
linguistico') e regoli la scelta dell'una o dell'altra secondo una
complessa gamma di fattori. In quest'ambito sono rilevanti anche
le nozioni fondamentali della scienza sociale (come quello di
classe), in quanto possono comportare effetti linguistici.
Gli effetti della proiezione sociale del linguaggio sono studiati
anche dall'etnolinguistica (v. Cardona, 1976) che considera
l'intricato sistema di consuetudini, costumi, credenze, mitologie,
pratiche magiche che si proiettano sul linguaggio e sulle lingue,
quasi a comprovare l'importanza anche simbolica e inconscia di
questi nella percezione dei popoli. Il fenomeno del tabu
linguistico, per il quale talune parole cariche di 'potere' (come
il nome di dio), non possono essere menzionate e vanno sostituite
con altre che siano percepite come scariche, è conosciuto
da tempo e viene riscontrato in qualsivoglia cultura.
Analogamente, il linguaggio è oggetto o strumento di
pratiche magiche radicate nella tradizione dei popoli: ad esempio,
la scrittura è sfruttata spesso in atti di magia, e a essa
si collega l'uso di cercare nelle parole altre parole attraverso
anagrammi (reso famoso e regolamentato nella tradizione
cabbalistica ebraica). Un ulteriore aspetto importante è il
modo in cui le società organizzano attraverso le lingue la
propria classificazione dell'esperienza (v. Cardona, i contributi
del 1985).
Le società (intese sia in senso largo che stretto)
'controllano' potentemente il comportamento linguistico dei loro
componenti non solo stabilendo criteri di correttezza e di
appropriatezza, ma anche definendo quel che si può e quel
che non si può fare con la lingua. Ad esempio, stabiliscono
con regole in parte tacite e in parte esplicite che di alcuni
significati si 'può' parlare e di altri si deve tacere,
cioè definiscono e aggiornano il repertorio semantico
socialmente ammissibile.Ai fini della teoria generale del
linguaggio, l'aspetto importante dei fenomeni di modellamento e di
controllo che abbiamo accennato è che essi non toccano
solamente la 'periferia' delle lingue, ma possono retroagire sulla
struttura di esse modificandola in profondità, e sono
quindi un fattore sia di conservazione sia di dinamismo. In
giapponese, ad esempio, i raffinati meccanismi di cortesia che
regolano i rapporti tra le persone sono talmente pervasivi che
questa lingua non ha un mezzo esplicito per indicare la prima
persona ('io'), forse perché una sua menzione sarebbe
percepita come scortese. Alla stessa maniera, l'intera costruzione
del discorso giapponese è fatta in modo da evitare ogni
riferimento a se stessi e, soprattutto, qualunque cosa possa
sembrare un'invasione dello spazio di rispetto dovuto agli altri.
La grammatica del giapponese ha incorporato dei meccanismi
sociali, trasformandoli in strutture della lingua.
La fenomenologia delle interazioni tra linguaggio e società
costituisce quindi uno dei discrimini della stessa teoria del
linguaggio. Alcuni teorici (a partire da Saussure: v., 1916)
considerano il linguaggio fondato sul sociale e sottoposto a
cambiamenti per motivi essenzialmente sociali. All'opposto, per la
linguistica a indirizzo cognitivo il modellamento profondo delle
lingue è dovuto essenzialmente all'equipaggiamento
biospicologico della specie, e la variazione sociale può
solo contribuire a farne variare alcune proprietà, ma pur
sempre nell'ambito di quanto è previsto dalla teoria
generale del linguaggio.
In queste pagine non è possibile discutere un'antinomia
come questa, che è una delle più taglienti ragioni
di opposizione e di scontro concettuale nella scienza del
linguaggio di fine secolo. Si può concludere dicendo che il
linguaggio va visto in un continuo pendolo tra il biologico e il
sociale, e che entro questi due estremi va collocata anche la
storia, l'altro motore di cambiamento e di funzionamento delle
lingue.