La letteratura popolare
di Lucia Rodler
Con il romanticismo nascono la moderna cultura di massa e una
letteratura commerciale che viene prodotta da scrittori
generalmente borghesi. Con la nozione di letteratura popolare non
si intende dunque uno scrivere dal popolo, ma per il popolo
e, solo in qualche caso, col popolo.
La ricerca delle origini popolari
Prima del XIX secolo tra la gente comune dentro e fuori le
città circolano almanacchi, vite di santi, fiabe, invettive
satiriche e immagini che esprimono un'autonoma
attività folklorica in gran parte non sfiorata dai
valori letterari d'élite. Il romanticismo segna invece
il passaggio dal folklore tradizionale a una più
moderna forma di cultura di massa, espressione delle classi medie
e inferiori del loro desiderio di coinvolgimento politico o
di distrazione, e insieme adattamento entro il sistema dei generi
popolari di un'estetica che, con la Rivoluzione francese, si
socializza, trasferendosi dai salotti settecenteschi alle
piazze e ai teatri. Tale trapasso istituzionale ridefinisce
il canone letterario secondo una morfologia anticlassica che
ammette la versificazione più libera in poesia
[enjambement, rime approssimate, vocabolario ampio),
l'accantonamento delle tre unità drammatiche di tempo,
spazio, azione, la fusione di comico e tragico nel teatro in prosa
(con la conseguenza che nessun contenuto viene scartato solo
perché non appropriato a virtù e valori
classici) e il "medievalismo" sul modello di Walter Scott
(1771-1832), con figure energiche, conflitti drammatici e un
apparato scenico "goticheggiante".
Sul versante "popolare", dove le precedenti opere di poesia,
teatro e narrativa erano state semplici nella forma, anonime
per origine e liberamente disponibili nella ricezione, i
nuovi testi divengono in certa misura più complessi,
assimilando quegli elementi della poetica d'élite che
vengono filtrati da mediatori professionisti, socialmente
distinti dal pubblico dei destinatari. Viene così meno una
genuina cultura popolare, legata ai moduli dell'oralità, e
nasce la letteratura commerciale in forma stampata e venduta a
prezzo modico.
Non va infatti dimenticato che il romanticismo del primo
Ottocento coincide con lo sviluppo dell'editoria, dell'alfabetismo
(che oscilla dall'80 percento della Prussia al 2 percento del
Meridione italiano), della politicizzazione delle masse (con la
conseguente curiosità intellettuale) e con la
borghesizzazione dello scrittore di qualunque condizione sociale:
la nuova generazione di autori postrivoluzionari impara
presto a trarre profitto dal mercato culturale.
Con la nozione di "letteratura popolare" non si intende dunque uno
scrivere dal popolo, ma per il popolo e, solo in qualche caso, col
popolo.
Bisogna allora chiedersi che cosa intendono i romantici per
"popolo". Il termine non è univoco, ma per lo più
allude a un complesso di valori morali (naturale semplicità
e sanità, spesso contrapposte all'artificiosità
dei costumi moderni) ed estetici (creatività
originaria e spontanea della poesia e dell'arte) connessi
all'identità della "nazione": il popolo rappresenta la
parte sana, custode della tradizione autentica di una
collettività. A questa entità intesa come anima
nazionale e alla sua cultura (canti, leggende, fiabe e storie) si
rivolgono intellettuali quali Walter Scott, Clemens Brentano,
Achim Arnim, i fratelli Grimm e più tardi Niccolò
Tommaseo per rintracciare documenti del passato e spontanee
testimonianze della poesia medievale e cristiana.
A parte i casi di Georg Buchner - che "scopre" il quarto stato
denunciandone le sofferenze con il soldato Woyzeck - e di Heinrich
Heine - che a Parigi entra in contatto con Karl Marx - ai
letterati ottocenteschi manca dunque il concetto
socio-economico di "classe" popolare e, con esso, quelli della
divisione dei poteri e della contrapposizione degli
interessi.
Verso la metà del secolo, allorché l'entusiasmo
romantico verso la cultura "primitiva" lascia il posto a
studi antropologici scientificamente più rigorosi e la
"massa" dei lettori comincia a organizzarsi come "pubblico",
assurgendo al ruolo del committente che vuole ritrovarsi in opere
contemporanee, si afferma una tendenza culturale definita con il
termine di "populismo"; esso consiste nella rappresentazione
degli umili come modelli di moderni valori positivi (lavoro,
risparmio, igiene, rispetto, famiglia) in una società
organica in cui gli individui collaborano, ciascuno secondo
la propria funzione e senza alcuna conflittualità.
Mentre l'operaio di fabbrica va acquistando coscienza e forza
sociale, la letteratura esclude il proletariato e si fa
"campagnola" o "piccolo-medio borghese", approntando una
produzione middlebrow
adatta anche al pubblico femminile, che si addentra
volentieri nella sfera del privato e segue con partecipazione
la cronaca di vicende socio-familiari in cui chi dirige si assume
la responsabilità del destino amoroso, umano e sociale
dei sottoposti (a cui non spetta, quindi, provvedere da sé
a emanciparsi).
A parere della critica marxista, il letterato ottocentesco,
filantropo e paternalista, non rappresenta la realtà del
sistema economico borghese, basata sullo sfruttamento. Resta
comunque vero che la "folla" si è imposta sia come
tema specifico, sia come presenza sociologica sottesa alla
produzione e in certa misura incombente.
Il letterato guida il popolo
Nella prima metà del secolo alcuni artisti partecipano con
il popolo alle questioni politiche, assumendo la missione di
profeti dei destini nazionali. Nella tela La Libertà che guida il
popolo Eugène Delacroix (1798-1863) celebra
l'esperienza della rivoluzione parigina del 1830, mentre con
Le fucilazioni
Francisco Goya (1746-1828) fa vivere allo spettatore la notte
di sangue alla Puerta del Sol: così i pittori saldano
l'arte alla vita, secondo un canone civile di testimonianza
della storia del proprio tempo.
Anche la scrittura si mescola alla realtà moderna per
opera del poeta-vate, figura di patriota romantico che nasce tra
Germania e Italia, allorché le lotte per
l'indipendenza coinvolgono l'intera collettività.
Infiammato dai Discorsi
alla nazione tedesca di Fichte e sotto l'urgenza
dell'invasione napoleonica del 1812-1813, Theodor Körner
(1791- 1813) unisce la "lira" alla "spada" sino alla precoce morte
sul campo che ne consacra la fama di "poeta-soldato"
(Alessandro Manzoni gli dedica Marzo 1821). Come le poesie di guerra di
Körner, quelle del Risorgimento italiano propongono il
linguaggio e lo stile della prosa, con versi parisillabi e
cadenze facilmente orecchiabili, non senza enfasi retorica e
reminiscenze classiche (basti pensare all'"elmo di Scipio"
del Canto nazionale di Goffredo Mameli), badando comunque
sempre agli effetti sul destinatario popolare, sul cittadino che
deve essere educato alle virtù, alla libertà
della patria, all'interesse della cosa pubblica.
In altro contesto, animato non tanto da una tematica
politico-patriottica immediata, quanto dall'epica
celebrazione di vicende passate o dall'amoroso recupero delle
tradizioni, Aleksandr Sergeevic Puskin (1799-1837) si erge a
"profeta" dei "cuori degli uomini", dando impulso a una
cultura nazionale e popolare, i cui effetti sono visibili in
Turgenev e Gogol', in Goncarov e Tolstoj.
In Francia intanto l'oratoria popolare diviene voce di
protesta con Victor Hugo (1802-1885), la più vistosa
esemplificazione del poeta-vate impegnato nel dibattito
politico-sociale: in sede parlamentare interviene contro la pena
di morte e per il miglioramento delle condizioni del popolo;
finito in esilio dopo il trionfo di Napoleone III, scrive contro
l'"usurpatore" gli aspri componimenti dei Castighi e infine, ritornato
a Parigi, celebra la grandiosità dell'esperienza della
Comune e si batte per l'amnistia ai comunardi. Ma il cantore della
"folla" non cerca "popolarità" solo con
l'attività politica e con la lirica. Abile
nell'identificare le attese del pubblico e arguto
manipolatore delle tecniche retoriche, Hugo sperimenta il
romanzo e sin dal titolo - con I miserabili e poi con I lavoratori del mare - si rivolge agli umili,
affidando loro una serie di personaggi emblematici: il
generoso ex forzato Jean Valjean, il santo vescovo Myriel, la
sedotta e abbandonata Fantine con la figlia Cosette, lo spietato
commissario Javert, il monello Gavroche, il patriota Marius.
Grande affresco della società francese del primo
Ottocento, feuilleton e
insieme opera umanitaria, I
miserabili ottiene un successo straordinario.
La vicenda letteraria di Hugo è paradigmatica
dell'adattamento di un artista al suo pubblico: da un lato
autore collettivo di poesia agonale nei toni melodrammatici di
Verdi, dall'altro scrittore di intrattenimento che, accanto a
elementi seri e impegnati di analisi sociale, offre materiali
"patetici", tra avventura e mistero. Stringendo una fattiva
collaborazione col mercato in divenire, il poeta romantico
soggiace da ultimo alla legge della produzione e del consumo,
accettandone le regole: se il contesto popolare diversifica i
suoi interessi (dal politico al sociale e al sentimentale),
il prodotto letterario deve acquisire competenze specifiche per
servire i molteplici gruppi.
Questa è la cultura di quei "secoli democratici" che,
secondo il lungimirante Alexis de Tocqueville (1805-1859),
prediligono la "scintillante" varietà delle emozioni
in modo da dimenticare una quotidianità alienata dalla
divisione del lavoro. E se, a partire dalla rivoluzione
industriale, il popolo chiede un compenso onirico giornaliero
al letterato, questi elargisce con benigna concessione una
grande "massa" di testi straordinariamente omogenei nella
struttura elementare e ripetitiva e nell'ideologia
conservatrice.
Il romanzo per il popolo
Victor Hugo non è il primo a sperimentare l'efficacia dei
moduli narrativi del feuilleton:
personaggi ordinati secondo opposizioni semantiche assai
nitide; vicende di persecuzione e seduzione che, attraverso
agnizioni, rivelazioni, smascheramenti e travestimenti,
determinano il trionfo finale della giustizia; tecnica della
suspence, con apposite forme di controllo del tempo e
artifici ritardanti come il cliffhanger
(momentanea interruzione di una sequenza aneddotica).
Sempre in Francia, a partire dagli anni Trenta, la
pubblicazione di romanzi a puntate in fondo alle pagine dei
giornali diviene un vero e proprio affare sia per gli editori sia
per gli autori: Balzac, George Sand, Alexandre Dumas ed
Eugène Sue scrivono "in appendice", contribuendo non poco
alla diffusione della stampa periodica. E la domanda diviene
talmente incalzante che, per soddisfare le richieste degli
impresari, Balzac non esita ad appaltare la stesura o la
preparazione di alcune parti ad altri meno noti professionisti.
Clamoroso resta il caso di Dumas che impiega fino a 73
collaboratori, giungendo a pubblicare a suo nome assai
più di quanto gli fosse materialmente possibile scrivere. A
questa data, l'opera letteraria è davvero diventata
una merce.
Ben presto, il canale comunicativo condiziona la struttura della
narrazione perché a ogni puntata bisogna rinnovare la suspence del lettore, con
episodi sempre nuovi e inattesi che facilitino l'identificazione
con emozioni forti ma non perturbanti. Anche dopo la
metà del secolo prevale la figura dell'eroe che agisce a
favore degli oppressi (Rodolfo di Gerolstein di Sue, Jean
Valjean di Hugo) e punisce le ingiustizie (il conte di
Montecristo e i tre moschettieri - eroi "storici" alla Scott - di
Dumas); più tardi, ad esempio con Xavier de
Montépin e Carolina Invernizio, campeggiano personaggi
patetici conformi al gusto delle piccola borghesia
conservatrice; e infine si impone la lotta tra l'eroe del
male (il grande delinquente) e il garante del bene (il grande
investigatore) che tutela gli spazi dilatati della metropoli:
Rocambole di Pierre-Alexis Ponson du Terrail e, nel nuovo secolo,
Fantomas di Souvestre e Allain, e Arsenio Lupin di Maurice
Leblanc.
Con il feuilleton,
ma anche con il melodramma e il vaudeville,
la letteratura esce de "I misteri dai confini dell'"artigianato"
per estendersi alla dimensione di Eugène Sue "industriale"
della riproducibilità tecnica di tipi e situazioni. Siamo
già all'origine del processo che porta alla "perdita
dell'aura" come afferma Walter Benjamin (1892-1940),
mettendo in discussione la possibilità stessa di
sopravvivenza dell'arte, così come era stata intesa
per secoli. Ma per quale ragione, secondo la testimonianza diretta
di un Théophile Gautier (1811-1872) critico nei confronti
di Sue, "quasi tutta la Francia fu impegnata per più di un
anno con le avventure del principe Rodolfo prima di fare il
proprio lavoro?" L'ascesa della Trivialliteratur, di cui si potrebbe
assumere quale data d'inizio il 1842, allorché
appaiono i Misteri di Parigi1
di Eugène Sue, trova solide ragioni sociali, che vanno
oltre l'ipotesi gramsciana della
funzione compensatoria per un pubblico popolare cui vengono
consentite solo fantasie di vendetta e giustizia.
Sembra di capire che il feuilleton
sia anzitutto uno strumento di comprensione (anche attraverso
il brivido della paura e del mistero) di un mondo che la
rivoluzione industriale ha reso sempre più caotico e
opprimente: non a caso lo spazio urbano è l'autentico
protagonista del romanzo popolare. Ci sono le città
dei misteri, dalla Parigi di Sue alla Firenze di Collodi, dalla
Napoli di Francesco Mastriani alla Marsiglia di Émile Zola;
e ci sono i luoghi metropolitani del dolore in una Londra fatta di
quartieri popolari e ospizi di carità, analizzati con
intenzioni realistiche da Charles Dickens (il quale pratica le
tecniche del feuilleton pubblicando "a dispense" i propri
romanzi).
Verso la fine dell'Ottocento, sotto l'influsso del naturalismo
francese, la metropoli europea assume tonalità lugubri
e malinconiche, mentre aumenta il senso di reclusione fisica
e spirituale che toglie qualsiasi speranza di vita migliore
agli individui sempre più soli e alienati. Persino nel
mondo anglosassone, dove nel 1859 esce il fortunato Self-Help di Samuel Smiles
(1812- 1904) - manuale dell'uomo comune che può ottenere il
successo solo in base alla sua capacità e
intraprendenza - la città diviene sempre più di
frequente ricettacolo di crimini e violenze private,
contrastate solo dall'intelligenza di alcuni detective, come Sherlock
Holmes, creato da Conan Doyle2 (1859- 1930).
Riducendo ed esorcizzando entro ambiti "borghesi"
l'avventura e il mistero, il romanzo "poliziesco" è il
prodotto della narrativa di massa destinato a svolgere il ruolo
maggiore nel Novecento (affiancato dal romanzo "rosa"). Nata da
una società che si autointerroga sulla dilagante
criminalità e alimentata dall'operoso artigianato di
scrittori popolari quali Ponson du Terrail, non senza avere
affascinato Balzac e De Quincey, Hugo e Dickens, Dumas e
Dostoevskij, la detective
story illustra chiaramente il mutamento del gusto
dei lettori popolari: in luogo dei generici proclami
patriottici del primo Ottocento, essi esigono precise inchieste
circa le responsabilità individuali; infastiditi dalla
filantropia, vogliono un sistema di polizia efficiente e,
prima di assaporare l'irrinunciabile happy end, pretendono la
spiegazione dei "misteri" metropolitani. Meno idealista o
ribelle, la folla sembra amare l'ordine e la protezione.
Si tratta in realtà di un giro stretto di collegamenti
reciproci e condizionanti tra editori (rappresentanti degli
interessi politico-culturali dominanti), scrittori e pubblico, per
cui alla fine il lettore "chiede" spontaneamente ciò
che l'impresario vuole dargli, e l'autore soddisfa le
richieste di entrambi. Divenuto criminologo, il romanziere
non tende a instaurare un ordine nuovo (istanza implicita
nella vecchia immagine del poeta-patriota), ma restaura quello
vigente, gratificando tanto la fiducia nell'ordine pubblico
quanto la capacità logico-analitica dei lettori, coinvolti
nella caccia agli indizi e al criminale.
Con il suo repertorio di azioni complicate, tensione
crescente, colpi di scena, sangue, orrori, morte, spesso in
un clima da grand-guignol,
il romanzo poliziesco risponde a un duplice bisogno del
pubblico: da un lato esso vede rappresentati i fattori di maggiore
complessità storico-sociale in cui si trova a vivere,
dall'altro li vede ridotti all'ordine.
E poiché lo scontro insieme realistico e mitico tra bene e
male coinvolge individui di diversa provenienza sociale
(anche coloro che non ignorano la ben più drammatica lotta
di classe), il "giallo" mostra l'omogeneità culturale
dell'Europa fin de
siècle, l'esito avanzato di quel processo
romantico che ha portato il pubblico colto e quello popolare a
consumare le stesse canzoni, le stesse opere teatrali, narrative e
storiche, sempre più disponibili a basso costo.
In questa democratizzazione senza precedenti della cultura
consiste allora il mutamento più rilevante della
sensibilità ottocentesca.
1 LES MYSTÈRES DE PARIS
Eugène Sue, I misteri di Parigi,
trad. it. di M. Militello, Milano, Sugar Editore, 1965
Il 13 dicembre del 1838, in una serata piovosa e fredda, un uomo
di statura atletica, con addosso un logoro camiciotto,
attraversò il ponte e s'addentrò nella Cité,
labirinto di vie oscure, strette, tortuose che va dal palazzo di
Giustizia fino a Notre-Dame. Il quartiere del palazzo di
Giustizia, assai circoscritto, alquanto sorvegliato, serve
nondimeno d'asilo e di luogo d'appuntamento per i malfattori di
Parigi. Non è strano, o meglio fatale, che un'irresistibile
attrazione faccia sempre gravitare questi criminali attorno al
temibile tribunale che li condanna alla prigione, ai lavori
forzati, al patibolo? Quella notte, dunque, il vento s'infilava
con violenza nelle orrende viuzze del lugubre quartiere: la luce
pallida, vacillante, dei lampioni investiti dalla tramontana si
rifletteva sul rigagnolo d'acqua nerastra che scorreva in mezzo ai
selciati fangosi.
Le case color fango avevano rade finestre con le intelaiature
tarlate e quasi senza vetri. Androni neri, infetti, conducevano a
scale ancora più nere, più infette, e così
perpendicolari che chi avesse voluto salirvi
avrebbe dovuto aiutarsi con una corda fissata con ganci di ferro
ai muri alti e umidi.
Il pianterreno di alcune case era occupato da banchetti di
carbonai, di trippai, o di rivenditori di carni di bassa
macellazione. Nonostante lo scarso valore di questi generi di
consumo, la vetrina di quasi tutte le miserabili botteghe era
protetta da un'inferriata, talmente i venditori temevano l'audacia
dei ladri del quartiere. Il nostro uomo, entrando nella rue aux
Fèves, situata al centro della Cité, rallentò
di molto l'andatura: si sentiva a casa sua. La notte era profonda,
l'acqua cadeva a torrenti, forti raffiche di vento e di pioggia
frustavano le muraglie. Lontano, l'orologio del palazzo di
Giustizia, rintoccavano le dieci. Alcune donne imboscate sotto
portici a volta, oscuri, profondi come caverne, cantavano a mezza
voce qualche arietta popolare.
Una di queste creature doveva senza dubbio essere conosciuta dal
nostro uomo; perché, fermandosi bruscamente davanti a lei,
l'afferrò per un braccio. "Buonasera, Chourineur".
2 Arthur Conan Doyle, Uno studio in rosso,
Milano, Rizzoli, 1995
Sembrava proprio che non fosse difficile convivere con Holmes.
Aveva abitudini tranquille e regolari. Di rado restava alzato
oltre le dieci di sera, e invariabilmente aveva già fatto
colazione ed era uscito quando io m'alzavo, la mattina. Qualche
volta, passava la giornata al laboratorio chimico; altre volte, se
ne stava dalla mattina alla sera in sala anatomica, e, di quando
in quando, faceva lunghissime passeggiate, specialmente nei
quartieri più miserabili della città.
La sua energia sembrava inesauribile.
quando lo coglieva un accesso di attività; ma, di tanto in
tanto, succedeva in lui come una reazione. Allora, per giorni e
giorni, se ne stava sul divano del salotto, pronunciando a
malapena qualche monosillabo e senza contrarre un solo muscolo del
viso, dal mattino alla sera. In quelle occasioni avevo notato un
'espressione vacua, assente, nei suoi occhi, e avrei sospettato
che facesse uso di qualche stupefacente, se la palese temperanza e
l'igiene che regolavano la sua vita non m'avessero indotto a
respingere una simile ipotesi.