L’età moderna e contemporanea

La Biblioteca di Repubblica-L’Espresso
Milano 2012
L’età del Romanticismo vol. 13 pp. 584-595


La letteratura popolare

di Lucia Rodler

Con il romanticismo nascono la moderna cultura di massa e una letteratura commerciale che viene prodotta da scrittori generalmente borghesi. Con la nozione di letteratura popolare non si intende dunque uno scrivere dal popo­lo, ma per il popolo e, solo in qualche caso, col popolo.

​La ricerca delle origini popolari

Prima del XIX secolo tra la gente comune dentro e fuori le città circolano almanacchi, vite di santi, fiabe, invettive sati­riche e immagini che esprimono un'autonoma attività folklo­rica in gran parte non sfiorata dai valori letterari d'élite. Il ro­manticismo segna invece il passaggio dal folklore tradiziona­le a una più moderna forma di cultura di massa, espressione delle classi medie e inferiori del loro desiderio di coinvolgi­mento politico o di distrazione, e insieme adattamento entro il sistema dei generi popolari di un'estetica che, con la Rivo­luzione francese, si socializza, trasferendosi dai salotti sette­centeschi alle piazze e ai teatri. Tale trapasso istituzionale ri­definisce il canone letterario secondo una morfologia anticlas­sica che ammette la versificazione più libera in poesia [enjambement, rime approssimate, vocabolario ampio), l'ac­cantonamento delle tre unità drammatiche di tempo, spazio, azione, la fusione di comico e tragico nel teatro in prosa (con la conseguenza che nessun contenuto viene scartato solo per­ché non appropriato a virtù e valori classici) e il "medievali­smo" sul modello di Walter Scott (1771-1832), con figure energiche, conflitti drammatici e un apparato scenico "goticheggiante".

Sul versante "popolare", dove le precedenti opere di poesia, teatro e narrativa erano state sempli­ci nella forma, anonime per origine e liberamente disponibili nella rice­zione, i nuovi testi divengono in cer­ta misura più complessi, assimilando quegli elementi della poetica d'élite che vengono filtrati da mediatori pro­fessionisti, socialmente distinti dal pubblico dei destinatari. Viene così meno una genuina cultura popolare, legata ai moduli dell'oralità, e nasce la letteratura commerciale in forma stampata e venduta a prezzo modico.

Non va infatti dimen­ticato che il romanticismo del primo Ottocento coincide con lo sviluppo dell'editoria, dell'alfabetismo (che oscilla dall'80 percento della Prussia al 2 percento del Meridione italiano), della politicizzazione delle masse (con la conseguente curio­sità intellettuale) e con la borghesizzazione dello scrittore di qualunque condizione sociale: la nuova generazione di auto­ri postrivoluzionari impara presto a trarre profitto dal mer­cato culturale.

Con la nozione di "letteratura popolare" non si intende dunque uno scrivere dal popolo, ma per il popolo e, solo in qualche caso, col popolo.

Bisogna allora chiedersi che cosa intendono i romantici per "popolo". Il termine non è univoco, ma per lo più allude a un complesso di valori morali (naturale semplicità e sanità, spes­so contrapposte all'artificiosità dei costumi moderni) ed este­tici (creatività originaria e spontanea della poesia e dell'arte) connessi all'identità della "nazione": il popolo rappresenta la parte sana, custode della tradizione autentica di una colletti­vità. A questa entità intesa come anima nazionale e alla sua cultura (canti, leggende, fiabe e storie) si rivolgono intellet­tuali quali Walter Scott, Clemens Brentano, Achim Arnim, i fratelli Grimm e più tardi Niccolò Tommaseo per rintraccia­re documenti del passato e spontanee testimonianze della poesia medievale e cristiana.

A parte i casi di Georg Buchner - che "scopre" il quarto stato denunciandone le sofferenze con il soldato Woyzeck - e di Heinrich Heine - che a Parigi en­tra in contatto con Karl Marx - ai letterati ottocenteschi man­ca dunque il concetto socio-economico di "classe" popolare e, con esso, quelli della divisione dei poteri e della contrap­posizione degli interessi.

Verso la metà del secolo, allorché l'entusiasmo romantico ver­so la cultura "primitiva" lascia il posto a studi antropologici scientificamente più rigorosi e la "massa" dei lettori comin­cia a organizzarsi come "pubblico", assurgendo al ruolo del committente che vuole ritrovarsi in opere contemporanee, si afferma una tendenza culturale definita con il termine di "po­pulismo"; esso consiste nella rappresentazione degli umili co­me modelli di moderni valori positivi (lavoro, risparmio, igie­ne, rispetto, famiglia) in una società organica in cui gli indi­vidui collaborano, ciascuno secondo la propria funzione e senza alcuna conflittualità.

Mentre l'operaio di fabbrica va acquistando coscienza e forza sociale, la letteratura esclude il proletariato e si fa "campagno­la" o "piccolo-medio borghese", approntando una produzio­ne middlebrow adatta anche al pubblico femminile, che si ad­dentra volentieri nella sfera del privato e segue con partecipa­zione la cronaca di vicende socio-familiari in cui chi dirige si assume la responsabilità del destino amoroso, umano e socia­le dei sottoposti (a cui non spetta, quindi, provvedere da sé a emanciparsi).

A parere della critica marxista, il letterato otto­centesco, filantropo e paternalista, non rappresenta la realtà del sistema economico borghese, basata sullo sfruttamento. Resta comunque vero che la "folla" si è imposta sia come te­ma specifico, sia come presenza sociologica sottesa alla pro­duzione e in certa misura incombente.

​Il letterato guida il popolo

Nella prima metà del secolo alcuni artisti partecipano con il popolo alle questioni politiche, assumendo la missione di pro­feti dei destini nazionali. Nella tela La Libertà che guida il po­polo Eugène Delacroix (1798-1863) celebra l'esperienza del­la rivoluzione parigina del 1830, mentre con Le fucilazioni Fran­cisco Goya (1746-1828) fa vivere allo spettatore la notte di sangue alla Puerta del Sol: così i pittori saldano l'arte alla vi­ta, secondo un canone civile di testimonianza della storia del proprio tempo.

Anche la scrittura si mescola alla realtà mo­derna per opera del poeta-vate, figura di patriota romantico che nasce tra Germania e Italia, allorché le lotte per l'indipen­denza coinvolgono l'intera collettività. Infiammato dai Di­scorsi alla nazione tedesca di Fichte e sotto l'urgenza dell'in­vasione napoleonica del 1812-1813, Theodor Körner (1791- 1813) unisce la "lira" alla "spada" sino alla precoce morte sul campo che ne consacra la fama di "poeta-soldato" (Alessan­dro Manzoni gli dedica Marzo 1821). Come le poesie di guer­ra di Körner, quelle del Risorgimento italiano propongono il linguaggio e lo stile della prosa, con versi parisillabi e caden­ze facilmente orecchiabili, non senza enfasi retorica e remini­scenze classiche (basti pensare all'"elmo di Scipio" del Can­to nazionale di Goffredo Mameli), badando comunque sempre agli effetti sul destinatario popolare, sul cittadino che de­ve essere educato alle virtù, alla libertà della patria, all'inte­resse della cosa pubblica.

In altro contesto, animato non tanto da una tematica politi­co-patriottica immediata, quanto dall'epica celebrazione di vi­cende passate o dall'amoroso recupero delle tradizioni, Aleksandr Sergeevic Puskin (1799-1837) si erge a "profeta" dei "cuo­ri degli uomini", dando impulso a una cultura nazionale e popolare, i cui effetti sono visibili in Turgenev e Gogol', in Goncarov e Tolstoj.

In Francia intanto l'oratoria popolare diviene voce di prote­sta con Victor Hugo (1802-1885), la più vistosa esemplifica­zione del poeta-vate impegnato nel dibattito politico-sociale: in sede parlamentare interviene contro la pena di morte e per il miglioramento delle condizioni del popolo; finito in esilio dopo il trionfo di Napoleone III, scrive contro l'"usurpato­re" gli aspri componimenti dei Castighi e infine, ritornato a Parigi, celebra la grandiosità dell'esperienza della Comune e si batte per l'amnistia ai comunardi. Ma il cantore della "fol­la" non cerca "popolarità" solo con l'attività politica e con la lirica. Abile nell'identificare le attese del pubblico e arguto ma­nipolatore delle tecniche retoriche, Hugo sperimenta il roman­zo e sin dal titolo - con I miserabili e poi con I lavoratori del mare - si rivolge agli umili, affidando loro una serie di perso­naggi emblematici: il generoso ex forzato Jean Valjean, il san­to vescovo Myriel, la sedotta e abbandonata Fantine con la figlia Cosette, lo spietato commissario Javert, il monello Gavroche, il patriota Marius. Grande affresco della società fran­cese del primo Ottocento, feuilleton e insieme opera umani­taria, I miserabili ottiene un successo straordinario.

La vicenda letteraria di Hugo è paradigmatica dell'adattamen­to di un artista al suo pubblico: da un lato autore collettivo di poesia agonale nei toni melodrammatici di Verdi, dall'al­tro scrittore di intrattenimento che, accanto a elementi seri e impegnati di analisi sociale, offre materiali "patetici", tra av­ventura e mistero. Stringendo una fattiva collaborazione col mercato in divenire, il poeta romantico soggiace da ultimo al­la legge della produzione e del consumo, accettandone le re­gole: se il contesto popolare diversifica i suoi interessi (dal po­litico al sociale e al sentimentale), il prodotto letterario deve acquisire competenze specifiche per servire i molteplici grup­pi.

Questa è la cultura di quei "secoli democratici" che, se­condo il lungimirante Alexis de Tocqueville (1805-1859), pre­diligono la "scintillante" varietà delle emozioni in modo da dimenticare una quotidianità alienata dalla divisione del la­voro. E se, a partire dalla rivoluzione industriale, il popolo chie­de un compenso onirico giornaliero al letterato, questi elar­gisce con benigna concessione una grande "massa" di testi straordinariamente omogenei nella struttura elementare e ri­petitiva e nell'ideologia conservatrice.

​Il romanzo per il popolo

Victor Hugo non è il primo a sperimentare l'efficacia dei mo­duli narrativi del feuilleton: personaggi ordinati secondo op­posizioni semantiche assai nitide; vicende di persecuzione e seduzione che, attraverso agnizioni, rivelazioni, smascheramen­ti e travestimenti, determinano il trionfo finale della giustizia; tecnica della suspence, con apposite forme di controllo del tem­po e artifici ritardanti come il cliffhanger (momentanea inter­ruzione di una sequenza aneddotica).

Sempre in Francia, a partire dagli anni Trenta, la pubblica­zione di romanzi a puntate in fondo alle pagine dei giornali diviene un vero e proprio affare sia per gli editori sia per gli autori: Balzac, George Sand, Alexandre Dumas ed Eugène Sue scrivono "in appendice", contribuendo non poco alla diffu­sione della stampa periodica. E la domanda diviene talmen­te incalzante che, per soddisfare le richieste degli impresari, Balzac non esita ad appaltare la stesura o la preparazione di alcune parti ad altri meno noti professionisti. Clamoroso re­sta il caso di Dumas che impiega fino a 73 collaboratori, giun­gendo a pubblicare a suo nome assai più di quanto gli fosse materialmente possibile scrivere. A questa data, l'opera lette­raria è davvero diventata una merce.

Ben presto, il canale comunicativo condiziona la struttura della narrazione perché a ogni puntata bisogna rinnovare la suspence del lettore, con episodi sempre nuovi e inattesi che facilitino l'identificazione con emozioni forti ma non pertur­banti. Anche dopo la metà del secolo prevale la figura dell'eroe che agisce a favore degli oppressi (Ro­dolfo di Gerolstein di Sue, Jean Valjean di Hugo) e punisce le ingiustizie (il con­te di Montecristo e i tre moschettieri - eroi "storici" alla Scott - di Dumas); più tar­di, ad esempio con Xavier de Montépin e Carolina Invernizio, campeggiano per­sonaggi patetici conformi al gusto delle pic­cola borghesia conservatrice; e infine si im­pone la lotta tra l'eroe del male (il gran­de delinquente) e il garante del bene (il grande investigatore) che tutela gli spazi dilatati della metropoli: Rocambole di Pierre-Alexis Ponson du Terrail e, nel nuovo secolo, Fantomas di Souvestre e Allain, e Arsenio Lupin di Maurice Leblanc.

Con il feuilleton,  ma anche con il melodramma e il vaudeville, la letteratura esce de "I misteri dai confini dell'"artigianato" per estendersi alla dimensione di Eugène Sue "industriale" della riproducibilità tecnica di tipi e situazioni. Siamo già all'origine del processo che porta alla "perdita del­l'aura" come afferma Walter Benjamin (1892-1940), metten­do in discussione la possibilità stessa di sopravvivenza dell'ar­te, così come era stata intesa per secoli. Ma per quale ragione, secondo la testimonianza diretta di un Théophile Gautier (1811-1872) critico nei confronti di Sue, "quasi tutta la Francia fu impegnata per più di un anno con le avventure del principe Rodolfo prima di fare il proprio la­voro?" L'ascesa della Trivialliteratur, di cui si potrebbe assu­mere quale data d'inizio il 1842, allorché appaiono i Misteri di Parigi1 di Eugène Sue, trova solide ragioni sociali, che van­no oltre l'ipotesi gramsciana della funzione compensatoria per un pubblico popolare cui vengono consentite solo fantasie di vendetta e giustizia.

Sembra di capire che il feuilleton sia an­zitutto uno strumento di comprensione (anche attraverso il brivido della paura e del mistero) di un mondo che la rivolu­zione industriale ha reso sempre più caotico e opprimente: non a caso lo spazio urbano è l'autentico protagonista del roman­zo popolare. Ci sono le città dei misteri, dalla Parigi di Sue alla Firenze di Collodi, dalla Napoli di Francesco Mastriani alla Marsiglia di Émile Zola; e ci sono i luoghi metropolitani del dolore in una Londra fatta di quartieri popolari e ospizi di carità, analizzati con intenzioni realistiche da Charles Dickens (il quale pratica le tecniche del feuilleton pubblican­do "a dispense" i propri romanzi).

Verso la fine dell'Ottocento, sotto l'influsso del naturalismo fran­cese, la metropoli europea assume tonalità lugubri e malinco­niche, mentre aumenta il senso di reclusione fisica e spiritua­le che toglie qualsiasi speranza di vita migliore agli individui sempre più soli e alienati. Persino nel mondo anglosassone, do­ve nel 1859 esce il fortunato Self-Help di Samuel Smiles (1812- 1904) - manuale dell'uomo comune che può ottenere il suc­cesso solo in base alla sua capacità e intraprendenza - la città diviene sempre più di frequente ricettacolo di crimini e vio­lenze private, contrastate solo dall'intelligenza di alcuni detec­tive, come Sherlock Holmes, creato da Conan Doyle2 (1859- 1930).

Riducendo ed esorcizzando entro ambiti "borghesi" l'av­ventura e il mistero, il romanzo "poliziesco" è il prodotto della narrativa di massa destinato a svolgere il ruolo maggiore nel Novecento (affiancato dal romanzo "rosa"). Nata da una società che si autointerroga sulla dilagante cri­minalità e alimentata dall'operoso artigianato di scrittori popolari quali Ponson du Terrail, non senza avere affasci­nato Balzac e De Quincey, Hugo e Dickens, Dumas e Do­stoevskij, la detective story illustra chiaramente il mutamen­to del gusto dei lettori popolari: in luogo dei generici pro­clami patriottici del primo Ottocento, essi esigono precise inchieste circa le responsabilità individuali; infastiditi dalla filantropia, vogliono un sistema di polizia efficiente e, pri­ma di assaporare l'irrinunciabile happy end, pretendono la spiegazione dei "misteri" metropolitani. Meno idealista o ri­belle, la folla sembra amare l'ordine e la protezione.

Si tratta in realtà di un giro stretto di collegamenti recipro­ci e condizionanti tra editori (rappresentanti degli interessi politico-culturali dominanti), scrittori e pubblico, per cui al­la fine il lettore "chiede" spontaneamente ciò che l'impre­sario vuole dargli, e l'autore soddisfa le richieste di entram­bi. Divenuto criminologo, il romanziere non tende a instau­rare un ordine nuovo (istanza implicita nella vecchia immagine del poeta-patriota), ma restaura quello vigente, gratifican­do tanto la fiducia nell'ordine pubblico quanto la capacità logico-analitica dei lettori, coinvolti nella caccia agli indizi e al criminale.

Con il suo repertorio di azioni complicate, ten­sione crescente, colpi di scena, sangue, orrori, morte, spes­so in un clima da grand-guignol, il romanzo poliziesco rispon­de a un duplice bisogno del pubblico: da un lato esso vede rappresentati i fattori di maggiore complessità storico-sociale in cui si trova a vivere, dall'altro li vede ridotti all'ordine.

E poiché lo scontro insieme realistico e mitico tra bene e ma­le coinvolge individui di diversa provenienza sociale (anche coloro che non ignorano la ben più drammatica lotta di clas­se), il "giallo" mostra l'omogeneità culturale dell'Europa fin de siècle, l'esito avanzato di quel processo romantico che ha portato il pubblico colto e quello popolare a consumare le stesse canzoni, le stesse opere teatrali, narrative e storiche, sempre più disponibili a basso costo.

In questa democratiz­zazione senza precedenti della cultura consiste allora il mu­tamento più rilevante della sensibilità ottocentesca.


1 LES MYSTÈRES DE PARIS
​Eugène Sue, I misteri di Parigi,
trad. it. di M. Militello, Milano, Sugar Editore, 1965

Il 13 dicembre del 1838, in una serata piovosa e fredda, un uomo di statura atletica, con addosso un logoro camiciotto, attraversò il ponte e s'addentrò nella Cité, labirinto di vie oscure, strette, tortuose che va dal palazzo di Giustizia fino a Notre-Dame. Il quartiere del palazzo di Giustizia, assai circoscritto, alquanto sorvegliato, serve nondimeno d'asilo e di luogo d'appuntamento per i malfattori di Parigi. Non è strano, o meglio fatale, che un'irresistibile attrazione faccia sempre gravitare questi criminali attorno al temibile tribunale che li condanna alla prigione, ai lavori forzati, al patibolo? Quella notte, dunque, il vento s'infilava con violenza nelle orrende viuzze del lugubre quartiere: la luce pallida, vacillante, dei lampioni investiti dalla tramontana si rifletteva sul rigagnolo d'acqua nerastra che scorreva in mezzo ai selciati fangosi.

Le case color fango avevano rade finestre con le intelaiature tarlate e quasi senza vetri. Androni neri, infetti, conducevano a scale ancora più nere, più infette, e così perpendicolari che chi avesse voluto salirvi
avrebbe dovuto aiutarsi con una corda fissata con ganci di ferro ai muri alti e umidi.

Il pianterreno di alcune case era occupato da banchetti di carbonai, di trippai, o di rivenditori di carni di bassa macellazione. Nonostante lo scarso valore di questi generi di consumo, la vetrina di quasi tutte le miserabili botteghe era protetta da un'inferriata, talmente i venditori temevano l'audacia dei ladri del quartiere. Il nostro uomo, entrando nella rue aux Fèves, situata al centro della Cité, rallentò di molto l'andatura: si sentiva a casa sua. La notte era profonda, l'acqua cadeva a torrenti, forti raffiche di vento e di pioggia frustavano le muraglie. Lontano, l'orologio del palazzo di Giustizia, rintoccavano le dieci. Alcune donne imboscate sotto portici a volta, oscuri, profondi come caverne, cantavano a mezza voce qualche arietta popolare.

Una di queste creature doveva senza dubbio essere conosciuta dal nostro uomo; perché, fermandosi bruscamente davanti a lei, l'afferrò per un braccio. "Buonasera, Chourineur".

2 Arthur Conan Doyle, Uno studio in rosso,
Milano, Rizzoli, 1995

Sembrava proprio che non fosse difficile convivere con Holmes. Aveva abitudini tranquille e regolari. Di rado restava alzato oltre le dieci di sera, e invariabilmente aveva già fatto colazione ed era uscito quando io m'alzavo, la mattina. Qualche volta, passava la giornata al laboratorio chimico; altre volte, se ne stava dalla mattina alla sera in sala anatomica, e, di quando in quando, faceva lunghissime passeggiate, specialmente nei quartieri più miserabili della città.
La sua energia sembrava inesauribile.
quando lo coglieva un accesso di attività; ma, di tanto in tanto, succedeva in lui come una reazione. Allora, per giorni e giorni, se ne stava sul divano del salotto, pronunciando a malapena qualche monosillabo e senza contrarre un solo muscolo del viso, dal mattino alla sera. In quelle occasioni avevo notato un 'espressione vacua, assente, nei suoi occhi, e avrei sospettato che facesse uso di qualche stupefacente, se la palese temperanza e l'igiene che regolavano la sua vita non m'avessero indotto a respingere una simile ipotesi.