www.treccani.it
    
    Poeta (Recanati 29 giugno 1798 - Napoli 14 giugno 1837). Tra i
    massimi scrittori della letteratura italiana di tutti i tempi, nella
    sua opera risulta centrale il tema dell’infelicità
    costitutiva dell’essere umano, intesa come legge di natura alla
    quale nessun uomo può sottrarsi. Lo Zibaldone di
    pensieri  (pubbl. col tit. Pensieri di varia filosofia e di
    bella letteratura, 7 voll., 1898-1900) e soprattutto l'Epistolario
    (a cura di P. Viani, 1849; a cura di F. Moroncini e G. Ferretti, 7
    voll., 1934-41) vanno considerati non solo come documenti
    indispensabili per l'interpretazione dell'anima e della poesia di
    L., ma come opere d'arte a sé stanti che, insieme con le
    Operette morali (1ª ed. Milano 1827), lo pongono anche tra i
    maggiori prosatori italiani.
    
    Vita e operePrimo dei cinque figli di Monaldo e di Adelaide Antici.
    Nonostante che la madre fosse poco espansiva e piuttosto rigida e il
    padre distratto dai suoi studî, la prima fanciullezza di L. fu
    lieta, soprattutto per la compagnia dei fratelli Carlo e Paolina, di
    soli uno e due anni più giovani. Sotto la guida di istitutori
    privati e del padre medesimo, che avrebbe inizialmente emulato e del
    quale avrebbe assecondato le ambizioni con un "grandissimo, forse
    smoderato e insolente desiderio di gloria", si avviò
    precocemente agli studî, all'età di undici anni
    riuscendo tra l'altro a tradurre il I libro delle Odi di Orazio e
    scrivendo a quattordici due tragedie, La virtù indiana e
    Pompeo in Egitto. Nello stesso 1812 abbozzò un'erudita Storia
    dell'astronomia, e nel 1815 il Saggio sugli errori popolari degli
    antichi; ma l'adolescente molto altro tradusse e scrisse, di
    poderosa filologia ed erudizione. Era cominciato il periodo di sette
    anni, come egli stesso disse, di "studio matto e disperatissimo" nel
    chiuso della ricca biblioteca paterna, che gli minò la
    gracile complessione. Dopo aver stretto amicizia con P. Giordani
    (1817), che, intuendone le doti straordinarie, lo confermò
    nelle sue ambizioni (continuando poi di volta in volta a incitarlo e
    sorreggerlo), e dopo aver composto l'anno successivo l'importante
    Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica, nel 1819
    attraversò un periodo di grave crisi: impeditagli dalle
    condizioni fisiche anche la lettura, non gli rimaneva che meditare,
    approdando a quella che poi chiamerà "conversione filosofica"
    e toccando il fondo della disperazione intellettuale e sentimentale.
    Dello stesso anno è un ingenuo tentativo di fuga da Recanati,
    facilmente sventato; dal suo "borgo" si allontanò più
    tardi con il consenso dei genitori per un deludente soggiorno di
    cinque mesi a Roma (1822-23), dove trasse conforto solo dalla stima
    e dall'amicizia di alcuni studiosi stranieri. Nel luglio 1825
    poté finalmente stabilirsi a Milano stipendiato dall'editore
    A. F. Stella, per il quale pubblicò un commento a Petrarca
    (1826) e due crestomazie, di prose (1827) e di versi (1828), di
    autori italiani. Da Milano nel settembre 1826 si trasferì a
    Bologna sempre stipendiato da Stella; dal novembre 1826 all'aprile
    1827 fu a Recanati; quindi passò di nuovo a Bologna e in
    giugno a Firenze e (inverno 1827-28) a Pisa, dove registrò
    poeticamente un "risorgimento" degli affetti. Nel novembre 1828,
    cessatogli ogni aiuto, dové peraltro tornare a Recanati;
    ormai, come egli credeva, per sempre. Ma il provvido intervento di
    P. Colletta, che con delicati sotterfugi lo indusse ad accettare,
    per un anno, un aiuto pecuniario suo e di altri collaboratori
    dell'Antologia di G. P. Viesseux con cui era entrato in contatto,
    gli permise di tornare nel maggio 1830 a Firenze, dove
    partecipò senza troppo calore di consensi alla fiorente vita
    letteraria e mondana della città. Qui conobbe A. Ranieri, con
    il quale, dal dicembre 1830, decise di vivere insieme e di mettere
    in comune le proprie risorse (dal luglio 1831 sarebbe riuscito a
    ottenere dalla famiglia un modesto assegno mensile). Nel marzo era
    stato nominato deputato di Recanati all'assemblea che dopo i moti di
    quell'anno si sarebbe dovuta tenere a Bologna, ma, prima ancora
    della repressione dei moti, la sua diffidenza nei confronti di
    qualsiasi illusione di rinnovamento politico gli impedì
    persino di accettare la nomina. Nell'ottobre 1831 L. e Ranieri
    partirono improvvisamente da Firenze per Roma, dove si trattennero
    sino al marzo 1832, quando tornarono a Firenze. L'improvvisa
    partenza meravigliò allora amici e parenti: oltre al
    desiderio di L. di accompagnare a Roma l'amico Ranieri, che vi si
    recava per seguire l'attrice M. Pelzet di cui era innamorato, c'era
    probabilmente qualche altra ragione, più personale, che ci
    sfugge. Certo essa non poté consistere, come più tardi
    si credette, nell'amore disperato per una signora fiorentina, F.
    Targioni Tozzetti: questo amore può ritenersi storicamente
    provato, ma il suo inizio è da collocare probabilmente nella
    primavera del 1833; esso si concluse con l'estrema delusione due
    anni dopo, quando già, sin dal settembre 1833, L. era a
    Napoli con Ranieri. A Napoli L. visse gli ultimi suoi tristi anni:
    scampato al colera scoppiato nell'ottobre 1836, morì qualche
    mese dopo per idropisia e conseguente attacco di asma. La sua salma,
    sottratta dal Ranieri alla fossa comune, fu tumulata a Fuorigrotta,
    dove più tardi fu eretto un piccolo monumento. I resti di L.
    furono poi trasportati nel Parco Virgiliano.
    
    Non è esatto quel che si credeva un tempo, che gli
    studî eruditi e filologici di L. appartenessero alla prima
    giovinezza di lui e venissero ben presto abbandonati a favore della
    poesia: in verità L. alternò le due attività
    almeno sino al 1827 e fornì le prove filologiche migliori
    negli anni 1823-1827. Abbandonò gli studî di filologia
    solo nel 1830, quando consegnò i suoi manoscritti di quella
    materia a L. De Sinner, che aveva promesso di pubblicarli; ma anche
    negli ultimi anni mandava al De Sinner aggiunte a quei manoscritti,
    e non cessò mai di considerarli come opera di grandissimo
    pregio. Tali studî, specie quelli di critica testuale, lodati
    da B. G. Niebhur, J.-F. Boissonade, F. Nietzsche, U. von Wilamowitz,
    sono stati nuovamente valorizzati dalla critica più recente,
    che considera L. come uno dei pochissimi filologi italiani del primo
    Ottocento che abbia statura europea. Risale al 1816 il suo primo
    componimento poetico importante, la cantica Appressamento della
    morte; ma il 1818 è l'anno del vero inizio della sua poesia,
    con le due canzoni All'Italia e Sopra il monumento di Dante, alle
    quali è da collegare strettamente, posteriore di due anni,
    quella Ad Angelo Mai. Il giovane poeta s'inserisce, con accenti
    proprî, nella tradizione di eloquente lirica civile e morale
    che risaliva al Petrarca, avendo come punto di partenza prossimo gli
    spiriti eroici di Alfieri e del Foscolo alfieriano. Egli non vede
    intorno a sé che ignavia e codardia: si assume il compito di
    risvegliare al coraggio e all'azione gli Italiani del suo tempo
    immemori del loro passato. Pur obbedendo a un imperativo morale
    addirittura eroico, l'indignato confronto tra la nobiltà
    degli antichi e la moderna decadenza d'ogni virtù,
    anziché ispirarsi alle recenti vicende politiche, sembra
    piuttosto nutrito di considerazioni generalmente antropologiche e ha
    di mira intanto un orizzonte culturale e letterario, nel quale
    infatti risulta più efficace e appropriato. Insieme con
    quella al Mai, avrebbe voluto pubblicare, e non poté farlo
    per l'opposizione paterna, altre due canzoni di tutt'altro argomento
    allora composte (Per una donna inferma di malattia lunga e mortale e
    Nella morte di una donna fatta trucidare col suo portato dal
    corruttore per mano di un chirurgo), lasciate da L. anche in seguito
    fuori dei Canti, ma criticamente interessanti, poiché
    mostrano un poeta che già alterna ai temi civili la
    considerazione della privata infelicità. Allo stesso periodo
    risalgono anche i piccoli idilli, voce di un L. intimo e segreto,
    che non saranno pubblicati se non nel 1825. Tra l'ottobre del 1821 e
    il settembre del 1823 furono composte altre sette canzoni (Nelle
    nozze della sorella Paolina; A un vincitore nel pallone; Bruto
    minore; Alla primavera o delle favole antiche; Ultimo canto di
    Saffo; Inno ai patriarchi o De' principii del genere umano; Alla sua
    donna), che insieme alle tre precedenti L. pubblicò a Bologna
    nel 1824 in un volumetto di Canzoni, accompagnate da erudite
    Annotazioni, che ne giustificano le scelte linguistiche, invocando
    di volta in volta il buon senso e l'autorità della Crusca. La
    canzone a Paolina, che è lo sviluppo d'un abbozzo risalente
    forse al 1819, non è lontana nello spirito dalle prime tre,
    proponendosi concreti fini educativi: l'uomo superiore non deve
    deflettere dalle proprie convinzioni, anche se ciò gli
    costerà l'incomprensione o l'ostilità degli uomini
    comuni, cioè l'infelicità. Ma già nella canzone
    A un vincitore nel pallone appare il concetto che ogni meta è
    deludente e vana, che non c'è nessuna vera differenza tra il
    combattere per uno scopo che si reputa alto e il combattere per un
    gioco. E nella canzone cronologicamente contigua, Bruto minore, L.
    procede ancora oltre: la virtù non è che una "larva",
    una parola e non una cosa salda. Bruto riconosce che la rovina di
    Roma, come la morte di tutto, è una "ferrata
    necessità", contro cui è illusorio e vano lottare.
    Tuttavia, mentre l'uomo comune si consola del male quando lo
    riconosce necessario, l'uomo superiore non si rassegna al destino:
    non potendo più fare altro si uccide, e con ciò
    diventa vincitore nell'atto stesso d'essere vinto. Ma pochi mesi
    dopo L. compone L'ultimo canto di Saffo, nel quale la poetessa greca
    si uccide senza intenzioni di rivalsa: si riconosce vinta e,
    anziché maledire la vita, se ne distacca sconsolata di
    lasciarla senza averla goduta. Il titanismo genericamente romantico
    di Bruto giunge così a un passo dalla "fiera compiacenza"
    più specificamente leopardiana: dall'orgoglio, cioè,
    di avere lui solo il coraggio di affrontare l'orrido vero, di
    "strappare ogni manto alla coperta e misteriosa crudeltà del
    destino umano", di non piegare il capo a tale destino; e
    dall'ebbrezza di dolore che da quell'orgoglio deriva. Questo
    particolare titanismo, trasferito dall'azione al pensiero,
    sarà, con diverse modulazioni, motivo di poesia costante in
    L. sino alla fine, secondo un'estensione del decoro formale
    classicistico all'ambito etico e intellettuale.
    
    Solo nel 1825, L. si decise a pubblicare nel Nuovo ricoglitore di
    Milano, con il titolo di Idilli, alcune sue poesie composte tra il
    1819 e il 1821: quelle che i critici usano chiamare "i piccoli
    idilli", cioè (come s'intitolarono definitivamente):
    L'Infinito, La sera del dì di festa; Alla luna; Il sogno; Lo
    spavento notturno; La vita solitaria. Esse contengono alcune delle
    pagine più alte di tutta l'opera leopardiana. Sono
    espressioni di una deliberata e fiera solitudine; eppure a esse,
    nell'ediz. 1835 dei Canti, L. premise Il passero solitario, composto
    assai più tardi, nel quale egli sente come una condanna la
    sua impossibilità di partecipare alla gioia e alla vita degli
    altri. Tale esclusione si rivela un autentico motivo informatore,
    perché dal piano biografico passa facilmente a quello
    culturale, connotando la condizione di inferiorità in cui
    versa la poesia moderna rispetto a quella degli antichi, e
    soprattutto corrisponde all'ideale di linguistica socievolezza cui
    L. sottopone tanto la sua opzione classicistica, quanto l'ardua
    sostanza intellettuale del suo messaggio. In questo senso,
    l'idillismo leopardiano, lungamente preferito dalla critica ai
    grandi componimenti degli ultimi anni, realizza effettivamente in
    maniera più compiuta il prodigio di un canto ricavato senza
    sforzo apparente dalle parole di tutti i giorni e con le immagini
    che sono sotto gli occhi di tutti: di un canto perciò capace
    di mettere la semplicità e l'immediatezza al servizio della
    verità universale del sentimento.
    
    Dal 1823 al 1828, a parte l'epistola Al conte Carlo Pepoli (1826),
    L. tace come poeta. In questi anni egli porta alle ultime
    conseguenze il suo pessimismo. L'infelicità umana non
    è frutto di contingenze particolari a questo o a quell'uomo;
    e neppure nasce, come aveva creduto in un primo tempo per influsso
    dei pensatori settecenteschi, da situazioni storiche, dal prevalere
    della ragione sulla fantasia per effetto dell'avanzare della
    civiltà, del costituirsi degli uomini in società, che
    necessariamente tarpa le ali alla libertà e alla
    spontaneità individuale; ma è una legge di natura,
    alla quale nessun uomo in nessun tempo, anzi nessun essere
    può sottrarsi. È quello che gli studiosi chiamano il
    "pessimismo cosmico" leopardiano. L'uomo non cerca altro che la sua
    felicità, l'amor sui è l'unica molla della vita; e
    tuttavia la natura non si propone la felicità degli
    individui, ma tende soltanto alla propria conservazione, per la
    quale come sono necessarie le nascite così sono necessarie le
    morti. La vita non è che un più o meno lento morire:
    assistiamo intorno a noi, dentro di noi, al progressivo inesorabile
    sfiorire e morire d'ogni cosa, finché non interviene lo
    stacco supremo, dopo il quale soltanto si ha, nell'annullamento
    totale, il definitivo riposo. La vita dunque non è che
    un'"inutile miseria": e l'accento del poeta batte soprattutto su
    questa inutilità. Donde il "tedio", la grande malattia
    spirituale dei romantici, di cui L. è il cantore italiano
    più alto e l'interprete più acuto: la vanità
    del tutto è per lui implicita nelle aspettative di
    felicità. Intorno a tali temi, impostano una interrogazione
    radicale le Operette morali, venti delle quali, il corpo dell'opera,
    furono tutte scritte dal gennaio al dicembre 1824 (ne scrisse
    un'altra nel 1825, e ancora due nel 1827, e due nel 1832). La
    conclusione logica di questa concezione della vita non può
    essere che una: la necessità del suicidio. E tuttavia, se
    Porfirio, nel dialogo che s'intitola a lui e a Plotino,
    energicamente afferma quella necessità, Plotino lo dissuade:
    non ci è lecito, è da barbari, privarci della
    consolazione che ci viene dall'affettuosa presenza delle persone che
    ci vogliono bene, togliendo a queste la consolazione della nostra
    presenza. È la felice contraddizione da cui nasce la poesia
    leopardiana. Le Operette sono per lo più dialoghi, in cui
    spesso L. fa sibilare lo staffile del suo sarcasmo contro gli uomini
    illusi e vili che si rifiutano di fissare gli occhi sull'orrido
    vero. A questi toni sarcastici lo scrittore si concede volentieri,
    riuscendo a governare con mano ferma stridori e dissonanze: nelle
    Operette è del resto più genericamente ammirevole la
    lucidità con cui è colta una realtà così
    totalmente negativa che sembrerebbe non potersi esprimere che con un
    grido o un disperato gesto. Questa fermezza e questa lucidità
    si riflettono nella sostenutezza dell'elaboratissimo stile, pur qua
    e là percorsa e in certo senso sottolineata da abbandoni
    sentimentali.
    
    Le Operette nascono dunque nella più triste stagione
    leopardiana: nella quale il poeta è veramente solo, non
    soccorso dalla sua pietà, dal bisogno di consolare e d'essere
    consolato. Quando, nel 1828, uscirà da questo orribile stato,
    dirà che è rinata in lui finalmente la facoltà
    di piangere, che credeva gli fosse preclusa per sempre. E può
    quindi comporre poesie "col cuore d'una volta". Aveva nel
    Risorgimento (1828) celebrato questo rinascere in lui non della
    speranza, ma della vita sentimentale: seguono, dallo stesso 1828 al
    1830, i canti leopardiani che si designano come "grandi idilli", e
    che segnano secondo molti l'apice della sua poesia: A Silvia; Le
    ricordanze; La quiete dopo la tempesta; Il sabato del villaggio; Il
    canto notturno di un pastore errante dell'Asia, e probabilmente
    anche Il passero solitario. Il pessimismo cosmico assume il suo vero
    volto poetico: la pietà cosmica. Con il pianto, cioè
    con la pietà per gli altri e per sé stesso, non sono
    compatibili né lo sdegno e il disprezzo per i codardi,
    né l'esaltazione del proprio coraggio. Ma anche quel Pastore
    errante, che è vittima e non combattente e che non vede
    intorno a sé bersagli a cui mirare, bensì compagni di
    pena da compiangere, anche egli non si rassegna, non viene a patti
    con il destino; e perciò in sostanza combatte ancora:
    sconsolato titano sconfitto, a cui però resta l'amaro
    conforto di non essere stato e di non essere vile. In questo gruppo
    di mirabili poesie, sui toni agonistici e titanici, che pur non
    mancano, prevalgono quelli di raccolto solidale dolore; i quali a
    loro volta non erano mancati neppure nel L. eroico-alfieriano, e non
    mancheranno mai. La pietà di L. è attiva, vuole
    consolare; e consolare non si può chi per viltà chiude
    gli occhi al vero, accetta la realtà supinamente o per
    "fetido orgoglio". Pietà e consolazione non possono volgersi
    a chi soffre, e in primo luogo ai giovani, che per la loro ingenua
    fiducia nella vita, per la loro inesperienza non sono in grado di
    capire la legge universale dell'infelicità, e s'illudono di
    essere felici, e soprattutto di esserlo domani. Intorno al Canto
    notturno, gli altri grandi idilli si possono considerare tessuti
    tutti sul tema della speranza, una speranza vista non nel suo valore
    positivo, forza della vita, bensì considerata con la
    tenerezza di chi ne conosce la vanità: lo sbocciare e il
    fruttificare della speranza in Silvia, in Nerina, in sé
    stesso giovane, la morte e la vita stessa che la tradiscono, in A
    Silvia e nelle Ricordanze; l'aspettativa d'una gioia che non
    verrà, nelle appena accennate figure del Sabato; il risorgere
    dell'alacre gioia, dell'attaccamento alla vita dopo la tempesta, in
    quelle altre umili figure che affollano nitide la Quiete. Se la
    speranza è per L. giovinezza, giovinezza è per lui,
    sempre, compagnia: la gioia di ciascuno si riflette e ha senso nella
    gioia corale del borgo: il poeta del Passero solitario si rammarica
    appunto di non saper partecipare, pur giovane, a questo coro; dunque
    di non sapere essere giovane.
    
    Dopo il 1830, si ha un'altra pausa nell'attività poetica di
    L., colmata nel 1832 dalle due ultime Operette. Poi, l'estrema
    illusione, l'estremo inganno: l'amore per F. Targioni Tozzetti, da
    vicino e da lontano, che come abbiamo detto deve essere collocato
    probabilmente negli anni 1833-35. Nascono cinque altre poesie,
    costituenti un ciclo, detto "di Aspasia". Dall'estasi d'un dolce
    Pensiero dominante, che rafforza l'intransigenza morale, lo sdegno
    per ogni umana viltà; dall'esaltazione dell'amore come del
    piacere maggiore che si trova nel mare dell'essere, fratello in
    ciò solo della morte (Amore e morte; Consalvo, che è
    la meno intensa drammatizzazione della precedente poesia), si passa,
    quando la grande illusione sarà caduta, ai secchi, terribili
    versi di A se stesso, lirica epigrafe mortuaria, e poi alla
    rappresentazione, più pacata ma carica di amarezza, delle
    circostanze dell'inganno (Aspasia). Si alternano in questo ciclo i
    toni eroici della speranza impossibile, con le invettive e i
    sarcasmi della disperazione, che sembra quasi suggerire i modi
    rinnovati di una espressione in cui ormai coincidono
    intensità e rigore. Gli ultimi anni napoletani sono
    caratterizzati, come sempre nei periodi leopardiani di più
    nera depressione, da scritti satirici (la Palinodia diretta a G.
    Capponi; lo scherno dei tentativi risorgimentali nei Paralipomeni
    alla Batracomiomachia, della fede religiosa nei Nuovi credenti). Ma
    insieme c'è un lento risalire dalla china, come mostrano, non
    tanto le canzoni Sopra un basso rilievo antico sepolcrale e Sopra il
    ritratto di una bella donna, quanto la già citata La
    ginestra, e soprattutto Il tramonto della luna, nel quale canto vi
    sono gruppi di versi degni della proverbiale eloquente
    felicità dei grandi idilli. Postumi furono pubblicati, con le
    cose minori, il ricco Epistolario (a cura di P. Viani, 1849; a cura
    di F. Moroncini e G. Ferretti, 7 voll., 1934-41) e lo Zibaldone di
    pensieri: 4526 pagine nel manoscritto, nelle quali L. dal 1817 al
    1832 andò via via segnando, con maggiore o minore frequenza,
    quanto le sue letture e la sua meditazione gli andavano suggerendo
    sui più svariati argomenti (pubbl. col tit. Pensieri di varia
    filosofia e di bella letteratura, a cura di una commissione di
    studiosi presieduta da G. Carducci, 7 voll., 1898-1900; la
    più recente ed. critica, col tit. Zibaldone di pensieri,
    è a cura di G. Pacella, 3 voll., 1992); da esso per la
    maggior parte L. stesso trasse e rielaborò i centoundici
    Pensieri, pubblicati postumi (in Opere di G. L., a cura di A.
    Ranieri, 2 voll., 1845). Dei Canti si ebbero due diverse edizioni in
    vita di L.: presso Piatti (Firenze 1831) e presso Starita (Napoli
    1835); più complessa la storia delle Operette morali, la cui
    1ª ed. in volume apparve a Milano nel 1827 e la 3ª,
    incompleta, a Napoli nel 1835. Le prime edd. critiche si debbono a
    F. Moroncini: Canti (2 voll., 1927); Operette morali (2 voll.,
    1928); Opere minori approvate (2 voll., 1931). Oltre alle edd.
    complessive (Tutte le opere di G. L., a cura di F. Flora, 5 voll.,
    1937-49; Tutte le Opere, a cura di W. Binni e E. Ghidetti, 2 voll.,
    1969), sono disponibili varie sillogi e singole edd., con ottimi
    commenti, apparati, riproduzione degli autografi. È stata
    avviata la pubblicazione degli scritti filologici e sono state
    approntate le concordanze dell'intera opera poetica.
    
    Centro nazionale di studi leopardiani. - Fu fondato a Recanati nel
    1937 dal conte Ettore Leopardi; ha avuto come direttori M. Porena,
    E. Leopardi, R. Vuoli, U. Bosco, F. Foschi. Possiede una biblioteca
    specializzata di circa 7000 titoli e le fotografie di tutti gli
    autografi leopardiani esistenti nelle biblioteche di Firenze e di
    Napoli, di gran parte di quelli custoditi nell'attiguo palazzo
    Leopardi, e varî altri. Promuove convegni internazionali (L. e
    il Settecento, 1962; L. e l'Ottocento, 1967; L. e il Novecento,
    1972; L. e la letteratura italiana dal Duecento al Seicento, 1976;
    L. e il mondo antico, 1980; Il pensiero storico e politico di G. L.,
    1984; Le città di G. L., 1987; Lingua e stile di G. L.,
    1991); cura una Bibliografia analitica (il volume che la aggiorna al
    1980 è uscito a Firenze nel 1986); una collana di Documenti e
    studi; una collana di Scritti inediti o rari del Leopardi.
    
    *
    
    DBI
    
    di A. Tartaro
    
    Primogenito del conte Monaldo e di Adelaide dei marchesi Antici,
    nacque il 29 giugno 1798 a Recanati, alla periferia dello Stato
    pontificio. Visse gli anni della fanciullezza in un clima familiare
    improntato a un cattolicesimo reazionario e ancorato a radicati
    pregiudizi nobiliari. In questo periodo fu centrale la figura del
    padre che, interdetto dall'amministrazione domestica e sostituito
    dalla moglie, seguì personalmente l'educazione dei figli
    maggiori, Carlo e Paolina oltre al L., coadiuvato da precettori
    ecclesiastici (G. Torres, V. Diotallevi e, dal 1807, S. Sanchini). I
    giochi infantili, le inclinazioni testimoniate dal padre e dai
    fratelli, i saggi annuali alla presenza dei parenti sulle materie di
    studio costituiscono un patrimonio aneddotico certo insufficiente a
    chiarire la rapida evoluzione della sua personalità.
    
    Nel 1812 il padre prese atto che il L. non aveva più nulla da
    imparare dal modesto Sanchini. Già da tre anni egli mostrava
    una precoce passione per lo studio, che lo spingeva a isolarsi nella
    biblioteca paterna (apprese da solo greco e ebraico) e ai cui
    eccessi imputò in seguito la fragilità fisica e
    l'avergli reso "l'aspetto miserabile, e dispregevolissima tutta
    quella gran parte dell'uomo, che è la sola a cui guardino i
    più" (lettera a P. Giordani, 2 marzo 1818).
    
    Prose e poesie del 1809-10 documentano la fase dell'istruzione
    scolastica del L., dedicata all'apprendimento del latino e agli
    studi retorico-letterari, sulla scorta del De arte rhetorica di
    Domenico da Colonia. I temi arcadici (nelle canzonette de La
    campagna), classici e biblico-religiosi evidenziano la tendenza a
    ripercorrere strade già battute, anche minori (favolistica
    morale in versi, versi burleschi), con l'obiettivo di mostrarsi
    padrone di un'intera tradizione tecnico-espressiva. Forse su
    suggerimento del canonico G.A. Vogel, profugo alsaziano allora
    residente a Recanati, cui    sembra risalire anche
    l'idea dello Zibaldone, il L. tradusse le Odi e l'Arte poetica di
    Orazio nella metrica "barbara" di G. Fantoni; mentre la sua materia
    andava dilatandosi nella struttura del poemetto narrativo (Il
    Baalamo, Le notti puniche, Il diluvio universale) o nel composito
    disegno del Catone in Affrica, vero campionario di forme poetiche.
    
    Di uno stadio scolastico più avanzato sono le Dissertazioni
    filosofiche (1811-12) su questioni di logica, di metafisica, di
    fisica e di morale (la felicità, le virtù etiche e
    intellettuali). A parte la prontezza con cui il L. affronta una
    problematica del tutto nuova, le Dissertazioni si muovono nel solco
    della teologia cattolica sei-settecentesca (F. Suárez, F.
    Jacquier, J. Sauri, il cardinale M. de Polignac ecc.), dalla quale
    il giovane L. trae le ragioni di una verità affrancata dagli
    esiti del materialismo sensistico e in grado di competere con
    l'Illuminismo e con il razionalismo.
    
    L'esperienza letteraria degli scritti puerili si prolunga nelle
    tragedie in tre atti La virtù indiana (1811, che riprendeva
    l'esotismo del Montezuma di Monaldo) e Pompeo in Egitto (1812).
    Sulla scia dei più recenti studi filosofici, il L. confutava
    intanto i negatori del libero arbitrio (Dialogo filosofico sopra un
    moderno libro intitolato "Analisi delle idee ad uso della
    gioventù", 1812), puntando sulla leggerezza della forma
    dialogica, secondo modelli antichi e moderni (Platone, Cicerone,
    Luciano, Fontenelle, F. Algarotti). Ma nel 1813 rivelò i suoi
    principali interessi nella Storia della astronomia dalla sua origine
    fino all'anno 1811.
    
    La Storia ribadiva la fede nel progresso, nell'ottica di una
    sapienza coincidente con gli insegnamenti della religione. Il punto
    di vista, illuministico-cristiano, si univa a una minuziosa
    esplorazione di testimonianze erudite, accompagnate a loro volta da
    un vivo interesse filologico. Il L. fu anche un filologo in senso
    tecnico, attivo soprattutto tra 1813 e 1815, poi nel 1816-17,
    1822-23 e 1827, con lavori su autori e opere della tarda
    grecità (Esichio Milesio, la Vita Plotini di Porfirio, i
    retori e gli scrittori di storia ecclesiastica dei primi secoli).
    Corredava i testi, originali o tradotti, con commentari per lo
    più in latino, elenchi di varianti e ingenti note
    bio-bibliografiche. L'impegno filologico affiorava quando il L.
    avanzava le proprie congetture. Su questo terreno dette il meglio di
    sé, senza confronti. Anche A. Mai, alle cui scoperte di
    codici si collegò molta sua produzione filologica (dai lavori
    su Frontone e su Dionigi d'Alicarnasso del 1816-17 a quelli sulla
    Cronica di Eusebio e sul De re publica di Cicerone del 1823), fu
    mediocre conoscitore delle lingue classiche (specie del greco); le
    sue cure si esaurivano nell'illustrazione dei dati puramente
    esterni, storico-geografici e antiquari. Oltre che nei contributi
    legati a Mai - prima ammirato ma, dopo la canzone a lui dedicata,
    giudicato con il tempo in termini aspramente liquidatori - le
    qualità della filologia leopardiana si confermarono nel
    periodo romano, culminando nello studio di moralisti e satirici
    dell'antichità classica, nelle osservazioni testuali su
    Libanio e i retori greci e in quelle suggerite dall'edizione dei
    Papiri torinesi curata da A. Peyron (1824-27).
    
    Già nel 1815 l'attività filologico-erudita del L. ebbe
    qualche risonanza fuori di Recanati. A Roma lo zio materno, Carlo
    Antici, aveva sottoposto i suoi scritti all'esame di F. Cancellieri.
    Questi ne parlò nella Dissertazione intorno agli uomini
    dotati di gran memoria (Roma 1815), enfatizzando il parere
    equilibratamente elogiativo sul Porfirio dell'epigrafista e
    diplomatico svedese J.D. Akerblad (che però aveva anche
    espresso alcune sostanziali riserve su un'opera che prima di essere
    pubblicata richiedeva una più estesa consultazione del
    materiale manoscritto). Antici, apprese dal Cancellieri le obiezioni
    di Akerblad, le comunicò al cognato (che ne rese edotto il
    L.), non senza auspicare che il figlio lasciasse la filologia per la
    carriera ecclesiastica, cui sembrava portato e nella quale era
    prevedibile per lui un avvenire ricco di soddisfazioni.
    
    Consapevole o meno del suggerimento, il L. continuò a
    coltivare gli interessi eruditi nel Saggio sopra gli errori popolari
    degli antichi (1815): quasi in coincidenza del suo "passaggio […]
    dall'erudizione al bello" (Zibaldone, 1741). Rispetto alla Storia
    della astronomia, da cui provengono alcuni dei temi trattati, la
    prosa del Saggio acquista in scioltezza e mobilità; nel gioco
    fra il puntiglio dell'informazione (attinta in prevalenza ai poeti
    greci e latini) e la varietà dei toni - ironici, riflessivi o
    coinvolti nell'intrinseca suggestione dei miti - si intravede la via
    alle Operette morali. L'attenzione formale è tutt'uno con
    un'ideologia sensibilmente mutata. Ferma restando l'inclinazione
    illuministico-cristiana del discorso, l'inventario degli "errori
    popolari" (le superstizioni che ostano alla conoscenza del "vero"
    metafisico, fisico o naturale) si sottrae all'idea provvidenziale di
    un progresso immancabile. L'ignoranza degli antichi, per quanto
    confutata e corretta, si protraeva ancora nei pregiudizi di un
    secolo che pure si diceva "illuminato"; allo scrittore altro non
    restava se non farsi banditore della ragione cristiana contro la
    credulità del volgo, arroccandosi nella fiducia che il
    "vivere nella vera Chiesa è il solo rimedio contro la
    superstizione" (Tutte le opere, I, p. 867).
    
    Il distacco del Saggio dall'ottimismo provvidenziale e apologetico
    della Storia della astronomia annuncia l'emancipazione del L.
    dall'ideologia familiare. La strada imboccata male si conciliava con
    la precedente professione di una milizia cattolica volta alla
    celebrazione del progresso umano sotto le bandiere della fede.
    L'ultimo suo tributo alle posizioni paterne fu l'orazione
    Agl'Italiani, in occasione della liberazione del Piceno (1815), per
    la vittoria degli Austriaci su Gioacchino Murat a Tolentino. Il L.
    vi condannò la "tirannia" di Napoleone e dei suoi; con la
    Restaurazione l'Europa tornava alla pace dopo lo sconvolgimento
    della Rivoluzione. Da ciò l'immagine idilliaca di un'Italia
    sotto l'"amministrazione paterna di Sovrani amati e legittimi",
    garanti della pace e quindi della vera felicità dei popoli,
    contro ogni illusoria promessa di libertà e indipendenza;
    alla luce di un patriottismo diviso fra pragmatismo benpensante
    ("Italiani! rinunziamo al brillante ed appigliamoci al solido") e
    orgogliosa rivendicazione di un primato artistico resistente ai
    saccheggi perpetrati dalle armi francesi (Tutte le opere, I, pp.
    872, 873).
    
    Il "passaggio" al bello, "non subitaneo, ma gradato" (Zibaldone,
    1741), significava intanto, nel 1816, la conversione alla poesia.
    Tale passaggio si rispecchia in una serie di impegnate versioni
    poetiche, oltre che nelle contraffazioni di un Inno a Nettuno (1816)
    e di due anacreontiche (le Odae adespotae) fatte passare per antiche
    (1816), e ha i primi significativi sbocchi nell'idillio funebre Le
    rimembranze e soprattutto nella cantica Appressamento della morte
    (fine 1816).
    
    Rispetto alla versione delle Odi di Orazio, ferma al gusto
    genericamente classicheggiante di tanta Arcadia, le traduzioni del
    1815-17 mostrano una sensibile correzione teorica. Tradurre è
    ora, per il L., riprodurre i colori dell'età classica,
    piegando la lingua alla "naturalezza" e "semplicità" del
    greco di Mosco o affrancandola da frigide interpretazioni letterali
    nel caso della burlesca Batracomiomachia, senza rinunciare al "sapor
    greco" dell'originale (Tutte le opere, I, p. 388). Tale fu il
    criterio della traduzione del I libro dell'Odissea, del II libro
    dell'Eneide, del volgarizzamento del Moretum (La torta) e della
    successiva versione della Titanomachia, dove un linguaggio
    studiatamente energico mira a riprodurre il primitivismo che sarebbe
    stato di Esiodo. Allo stile delle traduzioni si collegano i
    componimenti originali alle soglie della maggiore stagione
    leopardiana. Nei limiti del divertimento letterario (che sostenne
    anche il falso volgarizzamento del Martirio de' Santi Padri,
    scambiato per autenticamente trecentesco da A. Cesari e pubblicato
    nel 1826) il suo classicismo torna nel dettato solenne e favoloso
    dell'Inno a Nettuno, denso di grecismi e latinismi, e in odi in
    greco sul modello di Anacreonte intessute di ricordi da Omero,
    Saffo, Euripide, Teocrito e Virgilio. Un ricordo della versione di
    Mosco resta nella fattura de Le rimembranze, debitrice della
    raffinatezza di S. Gessner (mediata dalla traduzione di F. Soave),
    sul registro elegiaco poi costitutivo degli Idilli. Sta a sé
    l'Appressamentodella morte, dove l'esperienza di traduzione si
    innesta nel tentativo di una poesia autobiografica che si leva a
    denunciare i mali dell'esistenza, dalla follia amorosa
    all'empietà e violenza dei tiranni. Il poemetto (cinque canti
    in terzine), carico di figurazioni allegoriche e concitatamente
    predicatorio, deve molto a Dante, al Petrarca dei Trionfi, alle
    Visioni di A. Varano e alla Bassvilliana di V. Monti.
    
    Per il L. l'Appressamento della morte fu un punto fermo della sua
    "carriera poetica"; ne pose l'inizio, ritoccato, tra i Frammenti che
    chiudono il libro maggiore, ma già nel 1820 ne citò la
    conclusione a prova della propria capacità di dare voce a
    "certi affetti" quando "le sventure [lo] stringevano e [lo]
    travagliavano assai" (Zibaldone, 144). La testimonianza riguardava
    in effetti un momento fondamentale. Pur con enfasi moralistica e
    artificialità d'impianto, l'Appressamento della morte
    rifletteva una crisi profonda; le precarie condizioni fisiche
    portavano al pensiero assillante di una fine vicina (ripreso, nel
    1817, nel sonetto Letta la vita dell'Alfieri scritta da esso),
    mentre nuove, irrinunciabili esigenze - a partire da quella di
    lasciare Recanati - rafforzavano la percezione di una
    felicità negata.
    
    In questo quadro ha grande importanza la corrispondenza epistolare
    con P. Giordani, intanto per la cordialità con cui lo
    scrittore affermato, avuta in omaggio dal L. la traduzione del libro
    II dell'Eneide, si dispose verso il giovane. Le lettere del L.,
    particolarmente fitte fra 1817 e 1821, rivelano una fiduciosa
    espansività. Le confidenze personali (l'insopportabile
    costrizione recanatese, la precarietà fisica, il desiderio di
    veder riconosciute le proprie qualità, il tarlo della
    malinconia) si intrecciano con riflessioni e progetti letterari. Il
    L., eletto a guida l'interlocutore, lesse i trecentisti con
    l'interesse prima riservato agli autori del Cinquecento ma
    soprattutto colse l'occasione di aprire un varco nella propria
    solitudine intellettuale. A Giordani egli parve il "perfetto
    scrittore d'Italia", il nobile virtuoso e dotto a lungo vagheggiato,
    l'ottimo conoscitore delle lingue classiche persuaso che "il solo
    scriver bello italiano può conseguirsi coll'unire lingua del
    trecento a stile greco" (lettera del 21 sett. 1817). Il L.,
    lusingato, non tardò a indirizzarsi all'eloquenza civile, che
    nel settembre-ottobre del 1818, poco dopo una visita dell'amico a
    Recanati, dette forma al patriottismo di marca liberale delle
    canzoni politiche (All'Italia, Sopra il monumento di Dante).
    
    Il poeta si sentì ufficialmente introdotto nella cultura
    letteraria neoclassica, in appoggio della quale era intervenuto con
    una Lettera (non pubblicata) alla Biblioteca italiana, in risposta
    all'articolo di madame de Staël Sulla maniera e
    l'utilità delle traduzioni (1816). Gli interessi comuni lo
    collegavano già a Mai, allora bibliotecario dell'Ambrosiana,
    successivamente prefetto della Vaticana, ma Giordani lo mise in
    relazione con numerosi intellettuali del côté
    classicista: lo storico e filologo greco A. Mustoxidi (dedicatario
    del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi), D. Strocchi, lo
    storico C. Rosmini, C. Arici, F. Reina (editore di Parini), G.
    Mezzofanti, B. Borghesi, A. Peyron, e poi ancora G.B. Niccolini, M.
    Angelelli, F. Schiassi, G. Marchetti, G. Roverella, G. Grassi, L.
    Trissino (a cui il L. dedicò la canzone Ad Angelo Mai). Alla
    stessa cerchia apparteneva G. Perticari, genero e collaboratore di
    Monti, del quale il L. cercò l'amicizia attraverso il cugino
    F. Cassi; il loro legame sarà però superficiale e in
    definitiva deludente. Altra consistenza ebbe l'amicizia con G.
    Montani, legato al gruppo del Conciliatore, poi a quello fiorentino
    dell'Antologia. Questi intuì lo spessore delle canzoni civili
    ("mi conferma nell'opinione, che allora avremo grandi poeti quando
    avremo gran cittadini": lettera del 5 maggio 1819); e nel 1827,
    recensendo le Operette morali, colse l'originalità di quella
    "musica - altamente melanconica - le cui voci tutte si rispondono e
    recano all'anima la più grave delle impressioni" (Scritti
    letterari, a cura di A. Ferraris, Torino 1980, p. 197). Tra gli
    amici di Giordani e presto del L. fu infine, a Bologna, il
    servizievole P. Brighenti, cultore di letteratura e musica, ex
    giacobino e funzionario napoleonico poi divenuto, dopo rovesci
    economici, confidente della polizia austriaca.
    
    L'amicizia non cancellava la sostanziale differenza fra il
    classicismo di Giordani, eminentemente accademico, e quello del L.,
    che prese le distanze dalla sua poetica astrattamente normativa
    difendendo la legittimità del "brutto" in sede estetica e ne
    respinse il consiglio di esercitarsi nelle traduzioni in prosa prima
    di tentare le difficoltà del linguaggio poetico (lettera del
    30 apr. 1817).
    
    Il L. continuava a sperimentare le risorse del linguaggio in
    più direzioni: da quella tragica dell'appena abbozzata Maria
    Antonietta (1816) a quella comica dei Sonetti in persona di ser
    Pecora fiorentino beccaio (1817) contro G. Mansi, bibliotecario
    romano colpevole di "parole indegne" verso Giordani e Monti (Tutte
    le opere, I, p. 318), a quella introspettiva, vistosamente
    petrarcheggiante (diversa dal contemporaneo diario in prosa, teso
    alla schiettezza del resoconto sentimentale) dell'Elegia I,
    intitolata poi Il primo amore - cui seguì nel 1818 l'Elegia
    II - collegata all'infatuazione per Geltrude Cassi Lazzari, cugina
    del padre, di passaggio a Recanati (1817).
    
    In quest'ambito le canzoni All'Italia e Sopra il monumento di Dante
    che si preparava in Firenze si offrono come altrettante incursioni
    nella lirica eloquente, sulla scia del Petrarca civile ma con
    l'occhio ai pindarici seicenteschi (G. Chiabrera, F. Testi); assunta
    a chiave interpretativa dell'attualità politica, la
    classicità si tradusse in vibrata esortazione civile.
    L'impostazione parenetica delle due canzoni (che aprirono i Canti,
    avviando la cronologia ideale del capolavoro) fa leva sul contrasto
    con la stagione del patriottismo, smarrito nei tempi perversi della
    Restaurazione. Nella seconda canzone il L. si identifica con Dante,
    nuovo Omero; ma soprattutto nella prima, rifacendo il canto di
    Simonide di Ceo, il poeta tenta di rivivere la dimensione
    dell'antichità, oggetto di una nostalgia culturale e morale
    le cui motivazioni riguardano c0ncetti fondamentali del suo
    pensiero.
    
    Lo Zibaldone di pensieri - l'imponente diario steso dal
    luglio-agosto del 1817 al 1832, documento insostituibile della sua
    storia intellettuale - esordisce perentoriamente: "La ragione
    è nemica d'ogni grandezza: la ragione è nemica della
    natura: la natura è grande, la ragione è piccola"
    (14). Quasi identicamente si esprime il Discorso di un italiano
    intorno alla poesia romantica (1818). La fedeltà ai classici
    e alla tradizione nazionale, proclamata nella risposta alla
    Staël, è argomentata più ampiamente, in polemica
    con le Osservazioni di L. di Breme. Ai romantici il L. risponde
    contrapponendo alla condizione moderna, dominata dalla ragione,
    l'aurora del genere umano, l'età felice della fantasia e
    delle illusioni non compromesse dall'incivilimento. La poesia,
    destinata a dilettare con gli inganni dell'immaginazione e
    perciò contraria al vero razionale, deve ispirarsi alla
    natura; i poeti moderni, guastati dalla civiltà e
    dall'intelletto, devono calarsi nel primitivismo di Omero, Esiodo,
    Anacreonte, Callimaco. È questo il nodo di un classicismo
    innervato di passione patriottica e politica (nell'apostrofe ai
    giovani italiani alla conclusione del Discorso e nelle canzoni
    civili), volto a privilegiare il postulato antropologico della
    polemica letteraria, quel conflitto natura-ragione che, causa
    dell'infelicità umana, è presto al centro
    dell'indagine pessimistica del Leopardi.
    
    Egli situò nel 1819 un altro passaggio, quello dal bello al
    vero filosofico: una "mutazione totale", identica al trapasso
    dell'umanità dalla condizione primigenia alla moderna. Un
    forte abbassamento della vista, impedendogli la lettura, gli fece
    sentire l'infelicità in modo "assai più tenebroso", e
    lo portò a "riflettere profondamente" e a provare
    "l'infelicità certa del mondo, in luogo di conoscerla"
    (Zibaldone, 143-144).
    
    La nuova conversione comportò una sorta di paralisi della
    fantasia, il venire meno della capacità di reagire anche a
    spettacoli naturali; escluso perciò l'accesso alla poesia
    vera, quella antica e dell'immaginazione, non restava che attingere
    alla materia sentimentale e filosofica, sola consentita a un
    moderno. Esemplificando l'accaduto, il L. citava la sua produzione
    del 1819, dove la facoltà inventiva si sarebbe limitata ad
    "affari di prosa", mentre nei versi le immagini sarebbero sgorgate a
    stento, lasciando posto esclusivamente al sentimento. L'allusione
    alla prosa riguardava i cosiddetti Ricordi d'infanzia e di
    adolescenza, una congerie di appunti autobiografici per un romanzo
    di argomento amoroso e politico, in parte epistolare, sul modello
    del Werther e dell'Ortis. Egli intendeva riprodurre i momenti
    salienti di una vita interiore dominata dall'attesa della morte, ma
    palpitante di passione antitirannica e attratta dalla bellezza
    femminile e dal desiderio d'amore, evocando esperienze anche minime
    - sensazioni visive e acustiche, raccordi spontanei, fantasie - del
    proprio passato intimo. Sul progetto tornò in seguito (nel
    1825 pensò a una Storia di un'anima scritta da Giulio
    Rivalta), non andando oltre rapide annotazioni. L'accenno ai versi
    alludeva a due canzoni poi rifiutate, Per una donna inferma di
    malattia lunga e mortale e Nella morte di una donna fatta trucidare
    col suo portato dal corruttore per mano ed arte di un chirurgo,
    nelle quali l'"infelicità certa del mondo", verificata e non
    solo nota concettualmente, si era espressa come effusione
    sentimentale a forti tinte emotive, incline nella seconda canzone a
    certa crudezza patetica già rimproverata ai romantici. Lo
    sperimentalismo leopardiano, ribadito peraltro dalla Telesilla
    (dramma pastorale incompiuto ricavato dal poema cinquecentesco
    Girone il cortese di L. Alamanni, riletto in chiave tragicamente
    conflittuale), risultava qui scarsamente produttivo: gli spunti di
    una problematica esistenziale destinata a grandi sviluppi riuscivano
    banalizzati, come sopraffatti dalla concitazione.
    
    Altrimenti redditizio fu il percorso avviato sempre nel 1819 da
    L'infinito e proseguito probabilmente nello stesso anno da Alla luna
    e dal Frammento XXXVII (originariamente: Lo spavento notturno). Il
    L. intraprendeva il ciclo che disse degli Idilli e che avrebbe
    pubblicato solo nel 1825, dedicato a rappresentare "situazioni,
    affezioni, avventure storiche del [suo] animo" (Tutte le opere, I,
    p. 372).
    
    Sciolto l'ingorgo sentimentale delle canzoni rifiutate, il L.
    fissò alcune intense sensazioni e suggestioni: il perdersi
    nella dimensione mentale, prelogica, dell'infinito spazio-temporale
    (L'infinito); il piacere del ricordare, pur nella coscienza di un
    destino doloroso, nel passato come nel presente (Alla luna);
    l'attrazione culturale del primitivo, recuperato nelle movenze di
    una svagata fantasia pastorale (Frammento XXXVII). Le avventure
    idilliche non eludevano le verità generali su cui andava
    costruendo un "sistema" di pensiero, perché ne accertavano
    l'urgenza e fondatezza razionale, verificandole sul terreno del
    vissuto. In questa prospettiva il confronto con il "ver0"
    poté trapassare dalle emozioni private a considerazioni di
    assoluta portata storico-morale (La sera del dì di festa,
    1820); oppure insinuarsi nella trama letteraria de Il sogno
    (1820-21), dove il tema petrarchesco convoglia motivi e toni del
    Monti dei Pensieri d'amore; o infine scandire drammaticamente le ore
    del giorno su una traccia che tradisce l'influenza congiunta di
    Parini e di Pindemonte (La vita solitaria, 1821).
    
    Intanto un ingenuo tentativo di fuga, nel luglio del 1819, era stato
    la spia di una situazione fattasi insostenibile. Non appena
    maggiorenne il L. si risolse a rompere con la famiglia e con
    Recanati. Un conoscente del padre, S. Broglio d'Ajano, gli ottenne
    il passaporto per il Lombardo-Veneto, ma Monaldo bloccò
    l'iniziativa. In una lettera al padre acclusa a un'altra indirizzata
    al fratello Carlo, il L. lo accusò di condannarlo a "vivere e
    morire come i [suoi] antenati"; abbandonarsi "a occhi chiusi" -
    scrisse a Carlo - "nelle mani della fortuna" era l'unico modo di
    sottrarsi a una miserabile vita di "orribili malinconie", laddove
    egli preferiva "essere infelice che piccolo" (lettera a Carlo e
    Monaldo, fine luglio 1819). Il padre si convinse ancor più
    che il figlio fosse male influenzato da Giordani; il L. tornò
    a sperimentarne l'ingombrante tutela quando, nel 1820, composta la
    canzone Ad Angelo Mai, la inviò a Brighenti con le due
    dell'anno precedente in vista di una pubblicazione a Bologna. Quando
    Monaldo si oppose a questo e a una ristampa di All'Italia e Sopra il
    monumento di Dante, egli poté solo protestare contro
    l'interferenza, estesa anche a Nella morte di una donna, il cui
    titolo avrebbe fatto immaginare al genitore "mille sozzure
    nell'esecuzione, e mille sconvenienze del soggetto". Il L.
    stampò la sola canzone a Mai (presto vietata nel
    Lombardo-Veneto), il cui titolo non poteva impensierire il padre,
    non sospettandone questi l'"orribile fanatismo" (lettera a P.
    Brighenti, 28 apr. 1820).
    
    Enunciando nello Zibaldone il passaggio dal "bello" al "vero", egli
    mise a fuoco l'aspetto forse più delicato della propria
    identità di scrittore: il nesso strettissimo tra riflessione
    filosofico-morale e miti poetici, dato acquisito dalla critica
    postidealistica contro una lettura frammentaria intesa (da F. De
    Sanctis a B. Croce) a sorprendere nei Canti una liricità
    indenne da sovrastrutture intellettualistiche, ma anche contro
    semplicistiche riduzioni della poesia a meccanico rispecchiamento
    delle idee. La poetica del vero sottendeva una funzione conoscitiva,
    intrinsecamente filosofica, della letteratura e diveniva base di un
    pensiero a cui concorrevano il momento zibaldoniano della
    concettualizzazione e quello che diremmo della riflessione lirica,
    condotta con gli strumenti della poesia (si rimanda agli studi di W.
    Binni, C. Luporini, S. Timpanaro; e fra i più recenti a
    quelli di C. Galimberti, L. Blasucci, A. Dolfi, M. Santagata).
    L'impossibilità di rivivere la condizione degli antichi
    avviò la fase di rimpianto dello stato naturale, che
    durò nella storia del L. fino al 1822. La natura, madre
    benefica e previdente, aveva garantito un'esistenza felice
    all'umanità primitiva, ignara della verità ma animata
    da illusioni e passioni; il prevalere della ragione in età
    moderna aveva inaridito le facoltà vitali e introdotto, con
    l'egoismo, la noia, il vuoto e la nullità del mondo. Su
    questa tematica e le sue articolazioni nello Zibaldone ruotano le
    canzoni degli anni 1820-22. In Ad Angelo Mai, quand'ebbe trovato i
    libri di Cicerone della Repubblica (1820), l'impegno civile illustra
    la frattura fra passato e presente con un motivo foscoliano, la
    rassegna dei grandi italiani (da Dante ad Alfieri), testimoni di una
    realtà decaduta nell'attuale squallore. La condanna del
    "secol morto", nel ritrovato impianto parenetico delle canzoni del
    1821, Nelle nozze della sorella Paolina e A un vincitore nel
    pallone, addita gli esempi da seguire nella classicità: la
    romana Virginia, per le donne consapevoli del ruolo di spose e di
    madri; la "sudata virtude", principio di una pedagogia che,
    valorizzando l'esercizio fisico e l'agonismo, educhi la
    gioventù italiana alla virile abnegazione dei Greci a
    Maratona. Nel Bruto minore (pure del 1821) alla delusione dell'eroe
    dopo la battaglia di Filippi seguono il rinnegamento della
    virtù e la denuncia della sua illusorietà, con la
    scelta alfieriana e ortisiana di darsi la morte per una passione
    libertaria che non sottostà a proibizioni religiose. La
    nostalgia dell'età perduta si accampa nella canzone Alla
    Primavera, o Delle favole antiche (1822), dove con ricercata
    eleganza il L. collega i miti classici alla stagione della piena
    armonia degli esseri umani con la natura, quando quest'ultima,
    fantasticamente animata, non era ancora resa estranea dall'"atra
    face del ver". Nello stesso anno l'Ultimo canto di Saffo, denso di
    elementi ossianici e preromantici, presentò il suicidio in
    termini diversi dal Bruto minore. Lo stato d'animo che aveva portato
    la poetessa, priva di bellezza e non corrisposta nell'amore per
    Faone, a togliersi la vita era più teneramente dolente e
    ricco di sfumature. La requisitoria contro la natura, pervasa del
    sentimento di un'ingiusta esclusione, era ristretta a un caso
    personale (leggibile peraltro in chiave autobiografica) ma sul punto
    sempre di divenire larga considerazione dell'esistenza e del dolore
    umano. L'Ultimo canto fa intravedere il ribaltamento del concetto
    della natura materna. Ma la felicità primitiva ridiventa,
    nello stesso 1822, oggetto di rimpianto nell'Inno ai patriarchi, o
    De' principii del genere umano: grandioso affresco biblico, dove
    l'idea originaria di un canto religioso (secondo un progetto di Inni
    cristiani risalente al 1819) diviene rimpianto dei tempi propizi
    all'"umana stirpe" e polemica verso i moderni, che in nome di una
    pretestuosa missione civilizzatrice esportano la propria
    infelicità presso popoli che vivono nella beata
    inconsapevolezza voluta dalla "saggia natura".
    
    Per quanto esposta a dubbi fin dal 1819, la concezione positiva
    della natura resisté nel L. finché ritenne che l'umana
    sofferenza nascesse alla fine dell'antichità, con l'avvento
    della ragione e del vero. Un primo mutamento è implicito
    nella "teoria del piacere", riconoscimento su basi sensistiche (in
    pagine dello Zibaldone del 1820-21) del meccanismo psicologico che,
    stimolando i viventi a cercare una felicità senza limiti, li
    condanna alla frustrazione di un desiderio fatalmente inappagato.
    Esso divenne radicale con la scoperta del pessimismo antico,
    accennata nella Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di
    Teofrasto vicini a morte (1822) e confermata nel soggiorno romano
    dalla lettura del Voyage du jeune Anacharsis di J.-J.
    Barthélemy e di Plutarco. L'infelicità era insita
    nella natura; non poteva non cadere ogni nostalgia verso il passato.
    
    Dal 23 nov. 1822 al maggio 1823 il L. fu a Roma presso lo zio
    Antici. Le lettere ai genitori e ai fratelli testimoniano una grande
    delusione; la grande città lo sgomentò e i monumenti
    lo lasciarono indifferente, ma fu deluso soprattutto dalla cultura
    romana, che lo accolse come filologo ed erudito. Nel 1819 aveva
    richiesto a Broglio il passaporto per il Lombardo-Veneto o in
    alternativa per la capitale pontificia, dove sperava di esprimere le
    sue inclinazioni meglio che a Recanati, ma ora Cancellieri gli parve
    "un coglione, un fiume di ciarle, il più noioso e disperante
    uomo della terra" (lettera a Carlo Leopardi, 25 nov. 1822).
    Giudicò negativamente, con qualche ingiustizia, la moda
    antiquaria e archeologica; al senso di estraneità si
    accompagnava in lui solo il "piacere delle lagrime", come dinanzi al
    sepolcro del Tasso (allo stesso, 15 febbr. 1823). Apprezzò
    invece gli intellettuali stranieri conosciuti perlopiù
    attraverso J.G. Reinhold, plenipotenziario dei Paesi Bassi: il
    grecista F.W. Thiersch, professore a Monaco, suo convinto
    estimatore, l'archeologo C. Bunsen, B.G. Niebuhr, ministro di
    Prussia, il belga A. Jacopssen. Con un nuovo interesse per la
    filologia prese a catalogare i codici greci della Barberiniana e
    accolse l'offerta di F. De Romanis, editore delle Effemeridi
    letterarie e del Giornale arcadico, di tradurre tutti i dialoghi di
    Platone. Ma il progetto non ebbe seguito, così come cadde la
    speranza di ottenere un impiego a Roma.
    
    Il L. aveva rinunciato all'aspirazione a lungo coltivata - per la
    quale chiese aiuto allo zio, a Perticari e a Mai - di una
    collocazione alla Biblioteca Vaticana; la morte di Pio VII e la
    sostituzione di E. Consalvi alla segreteria di Stato vanificarono
    anche le promesse fatte al Niebuhr (e, dopo la partenza di questo, a
    Bunsen) di sistemarlo come cancelliere del Censo, mentre
    seguitò a rifiutarsi di prendere i voti in vista della
    carriera ecclesiastica vagheggiata per lui da Antici. Il ritorno a
    Recanati gli riservò un'ulteriore delusione. Nella
    Barberiniana aveva scoperto un'orazione di Libanio, che avrebbe
    voluto pubblicare, ma fu preceduto da Mai, imbattutosi nello stesso
    testo in altri manoscritti; a torto o a ragione il L. pensò a
    un "dispetto" personale (lettera a G. Melchiorri del 14 luglio 1823)
    e interruppe i rapporti con Mai.
    
    Con il mito della natura materna poté pensare che venisse
    meno anche la condizione della poesia, travolta da una problematica
    a cui più si addicevano la ragionevolezza e il distacco della
    prosa. Siamo vicini alle Operette morali e al periodo del silenzio
    poetico, che sarebbe terminato nel 1828. Prima dell'interruzione la
    canzone Alla sua donna (1823), deponendo la sostenuta eloquenza e
    gli ardimenti stilistici delle precedenti, proclamò
    un'aspirazione assoluta di bellezza e di amore e, a fronte della
    negatività del reale, rivendicò la consistenza e
    l'autosufficienza della pura creazione mentale, fuori da evasioni
    metafisiche, platoniche e spiritualeggianti, precluse dall'abbandono
    (fra 1821 e 1822) della fede religiosa. Solo nelle Operette morali,
    nel 1824, il L. corresse espressamente la sua posizione sulla
    natura; la correzione venne in corso d'opera con il Dialogo della
    Natura e di un Islandese, affidata all'immagine mostruosa e
    smisurata di una donna indifferente alla sorte delle sue creature e
    unica responsabile delle loro sofferenze.
    
    Il disegno delle Operette, risalente al 1819-20 ("Dialoghi satirici
    alla maniera di Luciano": Tutte le opere, I, p. 368) era stato
    avviato in abbozzi di "prosette satiriche" di cui il L.
    accennò a Giordani il 4 sett. 1820 (Novella: Senofonte e
    Niccolò Machiavello, Dialogo… Filosofo greco, Murco senatore
    romano, popolo romano, congiurati, Dialogo di un cavallo e un bue,
    Dialogo Galantuomo e mondo). Intendeva trattare in chiave comica la
    corruzione morale dei moderni, anticipando rispetto al Bruto minore
    il tema della virtù rinnegata e dando risalto a un'aspra
    critica contro l'antropocentrismo. Le Operette stemperarono
    l'aggressività in ironia sulla presunzione degli uomini, non
    rassegnati alla loro infima parte nell'universo; la brama di
    felicità si commisurò alla realtà disperante
    del "tedio"; la distinzione fra "esistere" e "vivere" culminò
    nell'individuazione di rimedi solo negativi al supremo patimento
    della noia (distrazione, ebbrezza, ricerca del pericolo,
    "dimenticanza di se medesimi"). Il discorso - di volta in volta
    narrazione, apologo, dialogo, brano lirico-riflessivo - si
    aprì con l'allegoria solenne della Storia del genere umano,
    tramata di ricordi platonici; proseguì sulla falsariga
    comico-realistica del modello lucianeo (Dialogo d'Ercole e di
    Atlante) e con spunti paradossali e satirici di derivazione
    più vicina (pariniana nel Dialogo della Moda e della Morte;
    da T. Boccalini nella Proposta di premi fatta dall'Accademia dei
    Sillografi e forse da Voltaire nel Dialogo di un Folletto e di uno
    Gnomo). Accantonata l'irrisione, ma non la reinvenzione fantastica,
    affrontò il problema della felicità e del piacere
    (Dialogo di Malambruno e di Farfarello, Dialogo della Natura e di
    un'Anima), tornando quindi alla maniera ironica di Luciano (Dialogo
    della Terra e della Luna, La scommessa di Prometeo) prima di
    ritrovare le ragioni di un fermo scetticismo verso gli illusori
    progressi della scienza (Dialogo di un Fisico e di un Metafisico),
    come già della tecnica. Personaggi storici, a partire dal
    Tasso, furono introdotti a esemplificare gli assunti del poeta: il
    confronto fra la realtà e l'immaginazione o il sogno, in
    rapporto alla noia (Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio
    familiare); la scoraggiante difficoltà di conseguire la
    gloria specialmente nella letteratura filosofica (Il Parini, ovvero
    Della gloria); la piacevole naturalezza del trapasso dalla vita alla
    morte, paragonabile a quello dalla veglia al sonno (Dialogo di
    Federico Ruysch e delle sue mummie). Interrotti dalla "singolare"
    filosofia socratica di un personaggio d'invenzione (Detti memorabili
    di Filippo Ottonieri), gli exempla riprendono a proposito
    dell'utilità del rischio per vincere la noia dell'esistenza
    (Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez); mentre alla
    remota sapienza del neoplatonico Amelio l'Elogio degli uccelli
    attribuisce l'esaltazione, fra seria e paradossale, di una vita
    totalmente affrancata dai pesanti condizionamenti terreni. Alla luce
    della verità antinaturalistica emersa nel frattempo nel
    Dialogo della Natura e di un Islandese, il L. suggellò
    l'opera in senso apocalittico accreditando fantasticamente una
    tradizione cabalistica conveniente allo "spaventoso" mistero
    dell'esistere (Cantico del gallo silvestre). Ma a chiudere il libro
    nell'edizione del 1827 provvede il Dialogo di Timandro e di
    Eleandro, per il carattere apologetico e insieme di consuntivo: non
    l'odio verso i suoi simili ha ispirato le Operette, ma
    l'insofferenza per ogni infingimento e la constatazione della
    "infelicità necessaria di tutti i viventi", da cui discende
    la scelta di rispondere con il riso ai mali comuni.
    
    L'edizione del '27 comprese anche il Dialogo di un lettore di
    umanità e di Sallustio, escluso in quella napoletana del
    1835. La seconda edizione fiorentina (1834) incluse due operette
    composte nel 1832 (Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un
    passeggere, Dialogo di Tristano e di un amico); invece dopo qualche
    incertezza il L. risolse di non pubblicarne due del 1827 (Il
    Copernico, dialogo e il Dialogo di Plotino e di Porfirio): nel 1835
    una stampa napoletana, che le prevedeva assieme al Frammento
    apocrifo di Stratone da Lampsaco del 1825, anch'esso inedito, fu
    bloccata a causa della censura.
    
    La sofferenza umana è intrinseca a un "perpetuo circuito di
    produzione e distruzione" (Tutte le opere, I, p. 117) ordinato alla
    conservazione dell'universo, che solo interessa alla natura. Il
    Dialogo della Natura e di un Islandese formula l'interrogativo
    ultimo: a chi giova che il mondo si conservi "con danno e con morte
    di tutte le cose che lo compongono"? L'assenza di risposta rivela il
    punto di vista ormai seccamente antiprovvidenziale del L.; un
    pessimismo "cosmico", che B. Zumbini distinse da quello "storico"
    precedente, rimasto definitivo nel suo pensiero.
    
    Il L. trasse i termini di una spiegazione scientifica e atea del
    male di esistere dalla cultura settecentesca, specie sensistica;
    suoi interlocutori più o meno diretti furono Rousseau,
    Montesquieu, Voltaire, Condillac, Verri, Beccaria, Helvétius,
    Holbach, La Mettrie. La denuncia del degrado etico-esistenziale dei
    moderni divenne odio per la natura; la commiserazione della
    condizione umana si unì alla negazione del principio, sia
    illuministico sia cattolico-liberale, della perfettibilità e
    del progresso; la vana tensione dell'uomo al piacere esaltò
    la contraddizione fra la consapevolezza che il bene autentico
    consiste nella morte e il tenace attaccamento alla vita, l'istinto
    attraverso il quale la natura perpetra un suo orrido inganno per
    assicurarsi il mantenimento della specie.
    
    Il materialismo meccanicistico, ribadito nel Frammento apocrifo di
    Stratone da Lampsaco (1825), si accordava con l'interesse del L. per
    la morale ellenistica e segnatamente stoica, durato fin verso il
    1827 e certificato dalle traduzioni di Isocrate e soprattutto del
    Manuale di Epitteto. Pur credendo impossibile l'atarassia,
    l'imperturbabilità stoica gli sembrò l'atteggiamento
    migliore, per i moderni più che per gli antichi; se la
    realtà consente solo una rassegnata accettazione, la morale
    dell'astensione è scelta obbligata per un "animo forte e
    grande" (la definizione è nel Parini), cosciente che ogni
    pretesa di incidere sui fatti del vivere è fallace. La
    polemica con il razionalismo e la indiscriminata avversione per gli
    effetti dell'incivilimento trapassarono in una valutazione
    più articolata. Anche se fa "strage delle illusioni", il
    sollevarsi dei popoli alla cognizione della vanità delle cose
    è un valore intrinseco, ancorché nel caso italiano
    origini un cinico allentamento dei legami sociali: in un'ottica,
    comunque, non disposta a confondere l'ingenuità degli antichi
    con la "barbarie" delle superstizioni e pregiudizi medievali, dai
    quali ci avrebbero liberato Rinascimento e Illuminismo (Discorso
    sopra lo stato presente dei costumi degl'Italiani, 1824 o forse
    1826; Tutte le opere, I, pp. 969, 978). L'avvenuta riabilitazione
    della ragione illuministica, in senso chiaramente laico e
    antispiritualistico (sulla linea già dei Paralipomeni della
    Batracomiomachia e de La ginestra), si associò alla
    più recente persuasione - testimoniata nell'Epistola al conte
    Carlo Pepoli (1826), unica eccezione (di gusto tra oraziano e
    pariniano) al silenzio poetico di quegli anni - circa i "diletti"
    del vero: quelli della filosofia, cui il L. pensava di dedicare
    "l'ingrato avanzo della ferrea vita" (vv. 139, 152).
    
    Nel frattempo si era data la tanto desiderata opportunità di
    lasciare Recanati. Invitato dall'editore A.F. Stella a dirigere
    un'edizione delle opere di Cicerone, il L. partì per Milano
    nel luglio 1825, giungendovi il 30 dopo un breve soggiorno a
    Bologna. Per circa due mesi fu ospite dello Stella; dal tardo
    settembre al 3 nov. 1826 fu a Bologna dove, trascorsi alcuni mesi in
    famiglia, tornò il 26 apr. 1827; il 20 giugno proseguì
    per Firenze, dove rimase fino all'ottobre, quando si trasferì
    a Pisa, attratto dal clima, fino agli inizi di giugno del 1828.
    Rientrato nel capoluogo toscano, ne ripartì nel novembre per
    Recanati in compagnia di V. Gioberti, conosciuto un mese prima al
    Gabinetto Vieusseux.
    
    L'incontro con Milano fu negativo. A parte il vecchio Monti, che il
    L. visitò appena arrivato, la cultura milanese, manzoniana e
    romantica, gli rimase estranea, così come quella della
    Biblioteca italiana, che non gli era stata né gli sarebbe
    stata mai amica, a partire dal direttore G. Acerbi (l'"infame
    diffamato mascalzone […] che tutti predicano per spia pubblica":
    lettera di P. Giordani del 31 dic. 1817). Isolato, e pentito di
    avere accettato l'incarico dello Stella, dopo aver redatto due
    Manifesti e la Notizia bibliografica per un'edizione di tutte le
    opere di Cicerone ripartì per Bologna. Qui intraprese per lo
    stesso Stella l'ingrato commento alle Rime di Petrarca (pubblicato
    nel 1826), cui seguirono presso il medesimo editore la Crestomazia
    italiana della prosa (1827) e la Crestomazia italiana poetica
    (1828); tradusse poi, fra novembre e dicembre del 1825, il Manuale
    di Epitteto. A Bologna vide la luce anche la raccolta dei Versi
    (Stamperia delle Muse, 1826), che affiancarono le dieci Canzoni
    edite nel 1824 nella stessa città (per i tipi del Nobili, a
    spese dell'autore e con la mediazione del Brighenti); e dove
    ripubblicò i sei Idilli apparsi nel 1825 sul milanese Nuovo
    Ricoglitore, le due Elegie, i Sonetti in persona di ser Pecora
    fiorentino beccaio, la Guerra dei topi e delle rane (e cioè
    la traduzione della Batracomiomachia già stampata nel 1816) e
    il volgarizzamento della Satira di Simonide sopra le donne. Vi
    stampò infine l'Epistola all'amico Pepoli, letta dal L.
    nell'Accademia dei Felsinei il lunedì di Pasqua del 1826.
    
    A Bologna il poeta si invaghì della quarantunenne contessa
    fiorentina Teresa Carniani Malvezzi, colta traduttrice di Cicerone e
    di A. Pope, amica di Monti; non ricambiato, ruppe presto ogni
    rapporto. Nello stesso periodo svanì la speranza nel posto di
    segretario della Accademia di belle arti, per il quale il Bunsen gli
    aveva procurato l'appoggio del cardinale G.M. Della Somaglia,
    segretario di Stato di Leone XII; stesso esito ebbe l'aspettativa
    per una cattedra di eloquenza latina e greca nella Sapienza romana o
    di qualche sistemazione nella Biblioteca Vaticana. Agli ostacoli
    burocratici una relazione del cardinale P.F. Galeffi a Leone XII
    unì riserve sul L., amico di "persone già note per il
    loro non savio pensare" e che aveva rivelato "sentimenti assai
    favorevoli alle nuove opinioni morali e politiche in certe odi
    italiane da lui stampate" (le Canzoni del 1824); le sue
    qualità avrebbero dato più frutto nella capitale,
    sotto gli "occhi del Governo" (A. Giuliano, G. L. e la
    Restaurazione, pp. 105-110).
    
    Dopo il rientro a Recanati e il secondo soggiorno bolognese il L.
    entrò in diretto contatto con la fiorentina Antologia.
    Già nel 1824 Vieusseux lo aveva invitato a fornire alla
    rivista articoli sulle "novità scientifiche e letterarie
    dello Stato pontificio"; ma il poeta, oltre ad alcune sensate
    osservazioni, aveva fatto presente la difficoltà per lui di
    un'adeguata informazione nel "deserto" in cui viveva (lettere di
    Vieusseux, 15 genn. 1824, e del L., 2 febbraio). Nel 1826,
    inviandogli il numero dell'Antologia dove (su pressioni di Giordani)
    erano apparse tre delle Operette morali, Vieusseux gli aveva di
    nuovo prospettato una collaborazione fissa con scritti satirici di
    impegno sociale, ma il L. si era detto "nella filosofia sociale […]
    un vero ignorante", condannato alla solitudine ("anche in mezzo alla
    conversazione, nella quale, per dirlo all'inglese, io sono
    più absent di […] un cieco e sordo") e la cui filosofia non
    era del "genere che si apprezza ed è gradito in questo
    secolo" (lettere di Vieusseux, 1° marzo 1826, e del L., 4
    marzo). A Firenze, oltre a Vieusseux, conobbe di persona i
    cattolico-liberali della sua cerchia, in particolare G. Capponi, G.
    Montani, G.B. Niccolini, P. Colletta e N. Tommaseo (che gli fu
    sempre ostile, forse per il giudizio giustamente severo da lui
    formulato, senza conoscerne l'autore, sui criteri dell'edizione
    ciceroniana elaborati per lo Stella). Incontrò anche Manzoni
    e avvicinò alcuni degli esuli napoletani allora a Firenze (C.
    Troya, G. e A. Poerio, P.E. e M. Imbriani); nel 1828, tramite A.
    Poerio, conobbe A. Ranieri, compagno nell'ultima parte della vita.
    
    La permanenza a Pisa, pur turbata al termine dalla morte del
    fratello Luigi (4 maggio 1828), fu di eccezionale benessere fisico e
    psicologico. Il L., confortato dalla mitezza del clima, fu
    finalmente a suo agio in una città di dimensioni umane: "un
    misto di città grande e di città piccola, di cittadino
    e di villereccio, un misto così romantico, che non ho mai
    veduto altrettanto" (lettera a Paolina Leopardi, 12 nov. 1827). Pisa
    fu anche un luogo di relativa spensieratezza mondana e di cordiali
    amicizie. Vi consolidò il legame con lo scienziato e
    linguista G. Cioni, conosciuto a Firenze nell'ambiente
    dell'Antologia, tramite il quale entrò in familiarità
    con G. Carmignani, insigne giurista appassionato di letteratura. Ma
    soprattutto divenne amico di G. Rosini, docente di eloquenza
    italiana e scrittore eclettico, della cui Monaca di Monza (composta
    in quel periodo) rivide poi la forma.
    
    L'Epistola a Pepoli annunciò le Operette morali, apparse nel
    1827 (ed. Stella); e corrispose, per l'esplicita rinuncia alla
    poesia, a una decisione che il L. poté credere definitiva.
    Ancora nel 1827, d'altra parte, incrementò il numero delle
    prose filosofiche. Ne Il Copernico la satira dell'antropocentrismo
    lasciò spazio, fra l'altro, a giocose osservazioni sul ruolo
    della poesia e della filosofia, in rapporto rispettivamente alla
    giovinezza e all'età matura; mentre la ripresa del tema del
    suicidio, nel Dialogo di Plotino e di Porfirio, se fu occasione di
    ampliare (e rafforzare) la visuale del Bruto minore, accolse anche
    motivazioni sentimentali che, connesse con il "senso dell'animo" che
    ci sollecita a perseverare nella vita, militano contro l'"atto fiero
    e inumano", egoisticamente dimentico del dolore provocato in amici e
    parenti. Sulla poesia, però, il L. continuava a riflettere,
    affermando nel 1826 il primato della lirica ("espressione libera e
    schietta di qualunque affetto vivo e ben sentito": Zibaldone, 4234),
    in sintonia con ragioni teoriche che, riassunte nel titolo Canti,
    informano specialmente i componimenti pisano-recanatesi del 1828-30.
    A parte la constatazione semiseria di quanto poco conti il lavoro di
    lima per uno scrittore moderno (Scherzo, 1828), il ritorno alla
    poesia - confidato alla sorella Paolina in una lettera da Pisa del 2
    maggio 1828 ("ho fatto dei versi quest'aprile; ma versi veramente
    all'antica […]") - è fatto coincidere con la rinascita del
    cuore, la rinnovata capacità di sentire, su cui insiste Il
    Risorgimento (1828) nelle agili movenze di una canzonetta arcadica
    modellata su Il brindisi di Parini. La recuperata vitalità e
    reattività affettiva non riaccende la speranza, perché
    coesiste con l'"infausta verità" sempre immanente. La fine
    della capacità di sognare e sperare, all'"apparir del vero",
    si fissò poi nella figura di una giovane morta precocemente,
    nel gioco fra ricordo autobiografico e trasposizione simbolica. In A
    Silvia (1828) riemergono gesti e pensieri della giovinezza,
    restituendo al poeta - nel metro di una canzone libera, affabilmente
    discorsiva - il calore della loro beata, virginale inesperienza,
    drammaticamente confrontata con la scoperta degli inganni della
    natura. Su un'altra delicata immagine femminile, Nerina, si condensa
    la tensione memoriale negli endecasillabi sciolti de Le ricordanze
    (1829): nella piacevolezza e anzi dolcezza del ricordare
    (indipendenti dai ricordi in se stessi), consistenti nell'illusione
    di rinverdire la fiducia nel futuro propria della fanciullezza,
    irrompono "il pensier del presente", la certezza
    dell'irrevocabilità del passato, la straziata percezione del
    finito per sempre, che trasformano il "dolce rimembrar" in
    "rimembranza acerba". Alle esperienze personali il L.
    continuerà ad attingere nei canti seguenti, riproducendo
    scene di vita borghigiana, evidentemente recanatese, a cui si
    collegano - nella struttura della canzone libera, bipartita fra un
    momento descrittivo e uno ragionativo - inconfutabili verità:
    il carattere solo negativo del piacere, sensisticamente inteso come
    privazione del dolore (La quiete dopo la tempesta, 1829); e, ancora,
    l'illusorietà della speranza, esemplificata nell'aspettativa
    del giorno festivo, posta a confronto con la "tristezza e noia" che
    questo puntualmente arreca (Il sabato del villaggio, 1829). Deposta
    la materia autobiografica e la connessa poetica della ricordanza,
    nel Canto notturno di un pastore errante dell'Asia (1829-30) il L.
    ritrova il proprio pessimismo radicale, che chiude una lunga
    elaborazione lirico-concettuale, tesa a imprimere nelle strofe
    libere (o lasse, propriamente) i segni di una sapienza remota,
    collocata fuori di un tempo determinato e di uno spazio
    circoscritto.
    
    Dedicando la prima edizione dei Canti (ed. G. Piatti, Firenze 1831)
    agli "amici suoi di Toscana" il L. sciolse un debito di gratitudine
    per la generosa iniziativa che gli aveva consentito di vivere per un
    anno a Firenze a loro spese e si accomiatò "dalle lettere e
    dagli studi", compromessi dalle peggiorate condizioni fisiche, nella
    prospettiva di ripiombare peraltro nell'inferno recanatese (Tutte le
    opere, I, p. 53). Ma a Recanati non tornò più. Al
    seguito di Ranieri si aprì il travagliato periodo conclusivo
    di un'esistenza afflitta dalle difficoltà economiche oltre
    che dallo stato di salute, che lo vide diviso tra Firenze e Roma e
    poi a Napoli, dal 1833 alla morte.
    
    Dalla fine del 1828 alla primavera del 1830 era tornato a
    sperimentare la costrizione di una vita alla quale pareva
    impossibile sottrarsi. Venuto meno il compenso pattuito con lo
    Stella ed escluso il ricorso all'aiuto paterno, per lasciare
    Recanati gli occorreva un lavoro compatibile con le precarie
    condizioni fisiche, l'ufficio pubblico che non aveva ottenuto
    né nello Stato pontificio, "dove ogni cosa è per li
    preti e i frati", né fuori, dove "un forestiero" non aveva
    "speranza d'impieghi" (lettera a P. Colletta, 16 genn. 1829). Andati
    a vuoto ripetuti tentativi di Bunsen, compresa l'eventualità
    - frustrata nel 1826 dalle solite ragioni di salute - di una
    cattedra di letteratura italiana a Berlino o a Bonn, non rimase al
    L. che sperare nell'aiuto degli amici. Nel 1829 F. Maestri, genero
    del medico e scienziato G. Tommasini, conosciuto a Bologna,
    cercò di sistemarlo nell'Università di Parma come
    insegnante di storia naturale; Colletta ipotizzò un
    insegnamento a Livorno, nell'ateneo di cui riteneva prossima
    l'apertura; Giordani, sconsigliandogli per il clima l'offerta
    parmense, del resto presto sfumata, insisté con Vieusseux su
    un trasferimento a Firenze. E proprio alla volta di Firenze,
    accettando - dopo che alle Operette morali non andò il premio
    di 1000 scudi bandito dall'Accademia della Crusca (vinto dalla
    Storia d'Italia di C. Botta: il L. ebbe forse l'appoggio del solo
    Capponi) - un sussidio mensile per un anno offertogli da Colletta a
    nome di un gruppo di "amici", il L. partì da Recanati il 29
    apr. 1830; vi giunse il 10 maggio, dopo una breve sosta a Bologna.
    Nell'estate A. Poerio lo presentò a Fanny Targioni Tozzetti
    nata Ronchivecchi, donna in vista nella società fiorentina,
    assai probabile ispiratrice dei canti del cosiddetto "ciclo di
    Aspasia"; strinse inoltre amicizia con il filologo svizzero L. de
    Sinner e dette inizio al settennale sodalizio con Ranieri, che
    vorrà farsene memorialista in un infelice scritto pubblicato
    nel 1880.
    
    Il 20 marzo 1831 il L. fu nominato rappresentante di Recanati
    nell'Assemblea convocata dal governo provvisorio delle Provincie
    unite a Bologna, ma il mandato fu vanificato dal ritorno degli
    Austriaci. Apparve intanto la prima edizione dei Canti, accolti con
    freddezza da Colletta per la loro "medesima eterna, ormai non
    sopportabile, melanconia" (Lettere di G. Capponi e di altri a lui,
    I, Firenze 1884, pp. 331 s.). Nell'ottobre lasciò Firenze per
    Roma con Ranieri, che voleva raggiungere un'attrice sua amante,
    l'ungherese Maria Maddalena Signorini di Pelzet. Tornato a Firenze
    nel marzo del 1832, in una lettera al Vieusseux pubblicata
    nell'Antologia smentì la paternità degli anonimi
    Dialoghetti sulle materie correnti nell'anno 1831 ("quei sozzi,
    fanatici dialogacci": lettera a G. Melchiorri, 15 magg. 1832).
    Infine il 2 sett. 1833 partì con Ranieri per Napoli, dove
    giunse il 2 ottobre dopo una sosta a Roma. Anche Napoli finì
    per deluderlo. I cattolico-liberali della rivista Il Progresso
    (fondata nel 1832 e diretta da G. Ricciardi sulla linea
    dell'Antologia, nel frattempo soppressa) gli furono subito ostili,
    respingendone l'ideologia pessimistica e materialistica.
    
    Già prima del suo arrivo C. Dalbono lo aveva escluso da una
    rassegna della poesia lirica contemporanea; altrettanto fece Matteo
    Baldacchini, malgrado la simpatia personale di cui darà prova
    in alcuni versi a lui dedicati; R. Liberatore uscì invece
    allo scoperto, mettendo a confronto l'Inno ai patriarchi con quello
    omonimo di T. Mamiani ed esprimendo la sua preferenza per l'autore
    degli Inni sacri (destinato, certo non casualmente, a esemplificare
    ne La ginestra l'insulso ottimismo degli spiritualisti). Gli umori
    antileopardiani, testimoniati nel 1836 da una lettera di A. Poerio -
    di recente rientrato a Napoli - a Tommaseo, rifluiscono in scritti
    di S. Baldacchini, come la novella in versi Claudio Vanini e
    soprattutto il saggio Del fine immediato d'ogni poesia (1836). S.
    Baldacchini (fratello di Matteo), amico di C. Troya e anticipatore
    di ideali neoguelfi, nel proprio modello culturale commisto di
    platonismo cristiano e vichismo, segnato da gusto antiromantico e
    segnatamente antibyroniano, tracciava una linea maestra della nostra
    letteratura moderna che da Parini, Alfieri e Monti giungeva al
    culmine con Manzoni, lasciando fuori Foscolo e il Leopardi. La
    solitudine intellettuale del poeta non fu risarcita dalle rare
    manifestazioni di simpatia, come quelle di A. von Platen, autore nel
    suo diario di un indimenticabile ritratto leopardiano, o di T.
    Gargallo, umanamente solidale dinanzi alle reazioni negative a
    Napoli alla II edizione dei Canti (ed. S. Starita, 1835). Una
    calorosa pubblica dichiarazione di stima di F. Fuoco non fu
    raccolta, e assolutamente episodica restò la buona
    accoglienza ricevuta nella visita alla scuola di B. Puoti, rievocata
    da De Sanctis ne La giovinezza. La delusione del L. fu accentuata
    dalla forzata rinuncia a stampare le proprie opere con il libraio
    Starita. Alla nuova edizione delle poesie (estesa al cosiddetto
    ciclo di Aspasia, al dittico delle "sepolcrali" e alla Palinodia al
    marchese Gino Capponi, oltre a Il passero solitario) sarebbe dovuta
    seguire una terza edizione in due volumi delle Operette morali (con
    l'inclusione del Copernico, del Dialogo di Plotino e di Porfirio e
    del Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco). Ma il progetto, che
    prevedeva altri tre e forse quattro volumi di scritti pubblicati
    sparsamente o ancora inediti, come i Pensieri, fu interrotto
    dall'intervento della censura ("La mia filosofia è
    dispiaciuta ai preti, i quali e qui ed in tutto il mondo, sotto un
    nome o sotto un altro, possono ancora e potranno eternamente tutto":
    lettera a L. de Sinner, 22 dic. 1836).
    
    A smentire presto il congedo dalla letteratura nella dedica agli
    "amici suoi di Toscana" avrebbero provveduto i canti del ciclo di
    Aspasia, legati all'amore per la Targioni Tozzetti: espressione di
    una poetica che, lasciata alle spalle l'esperienza
    pisano-recanatese, fece leva sulla recente lettura della lirica
    predantesca - Cavalcanti oltre a Dante e a Petrarca (D. De Robertis)
    - alla luce di una rinnovata sperimentazione stilistica e di un
    atteggiamento energicamente contestativo che segna l'intero ultimo
    tempo della poesia leopardiana.
    
    Il ciclo di Aspasia ricostruì - in strofe libere di
    endecasillabi sciolti - le fasi della passione per Fanny: dallo
    "stupendo incanto" dell'animo che si inebria del sentimento amoroso,
    pur conoscendone la natura illusoria, fino a dimenticare "tutto
    quanto il ver" (Il pensiero dominante, forse 1831); al desiderio di
    morire, imparentato al "fier desio" dell'amore in quanto promessa di
    pace nella consapevolezza della vanità delle cose (Amore e
    Morte, forse 1832); all'oggettivazione della propria avventura
    sentimentale, nelle linee di una patetica proiezione narrativa
    (Consalvo, forse 1832); al disinganno conclusivo, esteso dalla
    vicenda personale alla certezza della negatività del vivere
    (A se stesso, forse 1833); all'acre sfogo misogino che, tornando sul
    tema svolto in Alla sua donna, contrappone alla passione esaurita
    l'intatta verità dell'idealizzata immagine femminile
    (Aspasia, forse 1834).
    
    Il disprezzo dell'età presente e dei suoi miti
    utilitaristici, congiunto al coraggio di guardare in faccia la
    realtà nella serena attesa della morte, è il tratto
    saliente dell'immagine di se stesso che L. ora propose. Un'immagine
    alleggerita nella controfigura affabilmente ironica del Dialogo di
    un venditore d'almanacchi e di un passeggere (1832), ma ricondotta,
    sempre nel 1832, al ben altrimenti grave Dialogo di Tristano e di un
    amico, sunto estremo del suo pessimismo. Qui la finale implorazione
    della morte scioglie la finzione palinodica cui è consegnata
    la polemica contro la cultura imperante, che emarginando il poeta lo
    isola negli interrogativi la cui sola risposta, nelle canzoni
    "sepolcrali", è la rinnovata denuncia della crudele
    illogicità della natura (Sopra un basso rilievo sepolcrale,
    dove una giovane morta è rappresentata in atto di partire,
    accommiatandosi dai suoi; Sopra il ritratto di una bella donna
    scolpita nel monumento sepolcrale della medesima: 1834-35). Ancora a
    una finta ritrattazione affidò dal 1830 la ferma polemica con
    l'ottimismo spiritualistico dei cattolico-liberali toscani e
    napoletani. Negli endecasillabi sciolti della Palinodia al marchese
    Gino Capponi (1835) il L. dette fondo alle ragioni del suo
    materialismo e laicismo, rovesciando il mito di una virgiliana
    età dell'oro e ribadendo, in un probabile cenno a Tommaseo,
    l'intento di sfidare l'impopolarità con un atteggiamento
    radicalmente negativo, impermeabile a mode, alle suggestioni del
    progresso tecnico-scientifico e a ogni soluzione religiosa. Il suo
    sentimento verso il destino, aveva confidato a L. de Sinner, sarebbe
    rimasto quello del Bruto minore: alieno dal cercare conforto in una
    pretesa felicità futura e ancorato ai risultati di una
    "philosophie désespérante" (la stessa invocata nel
    Tristano), che chiedeva ai lettori di discutere nei suoi fondamenti
    razionali, astenendosi da spiegazioni riduttive, biografiche e
    psicologiche (lettera del 24 maggio 1832). Nell'emblema de Il
    passero solitario, scritto verosimilmente dopo il 1831 - forse a
    Firenze o forse a Napoli, in prossimità dell'edizione Starita
    - ma risalente a uno spunto più antico, addirittura del 1819,
    ritrasse la condizione innaturale di una giovinezza schiacciata
    dalla consapevolezza del futuro. La retrodatazione del testo alla
    stagione idillica dissimulava l'anacronismo tecnico (il metro della
    canzone libera, di là da venire), accreditando uno stato
    d'animo anticipatamente senile, sordo ai richiami della natura e
    delle illusioni. Al dramma dell'incomprensione e
    dell'alterità dal resto degli uomini, che l'afflisse in
    particolare negli anni napoletani, il poeta tentò di reagire
    con l'arma della caricatura nel capitolo bernesco I nuovi credenti
    (1835-36), escluso dai Canti, e con quella della satira nei
    Paralipomeni della Batracomiomachia, il "libro terribile" (Gioberti)
    composto in otto canti fra il 1831 e il 1836, sul modello degli
    Animali parlanti di G. Casti: documento di un ostinato razionalismo
    che dagli obiettivi immediati dell'allegoria politica (la
    vacuità dei topi liberali, a fronte delle rane legittimiste e
    all'ottuso dispotismo degli Austriaci, raffigurati dai granchi)
    giunge a una larga e aspra diagnosi comica delle deformazioni
    mentali - soprattutto le mistificazioni dell'ottimismo progressista
    e dello spiritualismo - che si frappongono alla conoscenza del vero.
    Sul registro dell'aforisma e della prosa morale il L. redasse infine
    fra 1832 e 1836 i centoundici Pensieri "sur les caractères
    des hommes et sur leur conduite dans la Société"
    (lettera a Sinner, 2 marzo 1837). Il materiale, ricavato in buona
    parte dallo Zibaldone, restituiva una riflessione oscillante fra la
    pensosa severità della critica di costume e la più
    distaccata ironia di chi osserva, sulla scena del mondo, i
    meccanismi che presiedono ai comportamenti degli individui. Il L. ne
    smascherava l'orgoglio e la vanità, la tendenza alla
    sopraffazione inseparabile dalla proterva ricerca dell'utile
    personale, e quindi la congenita asocialità riconoscibile,
    ancorché dissimulata, negli esseri umani. La spinta di una
    collaudata vocazione alla scrittura satirica (dalle "prosette" del
    1820 ai Paralipomeni, attraverso la scattante incisività di
    "detti memorabili" al modo dell'Ottonieri), esaltava i contrasti fra
    il dire e il fare, le situazioni oggettivamente paradossali prodotte
    dall'impostura o dall'autoinganno.
    
    Nell'aprile del 1836, per sfuggire al colera imperversante a Napoli,
    il poeta si rifugiò con Ranieri nella villa di un cognato di
    questo, G. Ferrigni, alle pendici del Vesuvio, fra Torre del Greco e
    Torre Annunziata.
    
    Vi scrisse gli ultimi canti, La ginestra o Il fiore del deserto e Il
    tramonto della luna, che volle includere nel libro maggiore -
    riedito postumo nel 1845 - ma in ordine inverso. Nella poderosa
    tessitura logico-fantastica e simbolica de La ginestra, accanto al
    tema centrale dell'ostilità della natura, ritrovò i
    motivi della polemica contro l'antropocentrismo e il sarcasmo verso
    le "superbe fole" (v. 154) consolatorie di un risarcimento
    ultraterreno. All'ottimismo dei cattolico-liberali continuò a
    contrapporre il vero laico del materialismo e dell'Illuminismo, pur
    esente dall'illusione del progresso e sulla scorta della cognizione
    che la feroce legge naturale permette ai viventi solo di
    fronteggiare solidalmente; era così recuperata l'urgenza del
    patto sociale. Questo il messaggio della Ginestra, provvisto del
    rigore logico di un teorema, di qua da istanze o presagi
    etico-politici (il socialismo di cui avrebbe parlato G. Carducci; lo
    Stato scientifico o la Società delle nazioni invocati da L.
    Salvatorelli). Il L. lo inscriveva in una utopia filosofico-morale
    di conversione dell'umanità al vero: la coscienza del
    negativo, innervata di memoria storica e dall'esperienza concreta
    dell'effimero, segnava il discrimine fra la rassegnazione e
    l'atteggiamento, simboleggiato dalla ginestra, di virile opposizione
    al male di vivere. La ginestra, come vide l'autore, era il naturale
    punto di arrivo dei Canti, anche se l'itinerario era suscettibile -
    come dimostrò Il tramonto della luna - di ulteriori riprese e
    scavi.
    
    Di ritorno a Napoli, il L. vi morì dopo qualche mese, il 14
    giugno 1837, amorevolmente assistito da Ranieri e da una sorella di
    questo, Paolina. Il corpo, sottratto dall'amico alla fossa comune
    cui erano destinate le vittime dell'epidemia, fu tumulato nella
    chiesa di S. Vitale sulla via di Pozzuoli. Sulla tomba una lapide,
    dettata da Giordani, ne celebrò la grandezza di filologo, di
    "scrittore di filosofia" e di poeta "da paragonare solamente coi
    greci". Nel 1939 i resti furono trasferiti presso la cosiddetta
    tomba di Virgilio, nel parco di Piedigrotta.
    
    L'edizione di Tutte le opere di W. Binni, con la collaborazione di
    E. Ghidetti, I-II, Firenze 1969, ha sostituito quella di F. Flora
    (I-V, Milano 1937-49). Inoltre: Tutte le poesie e tutte le prose e
    Zibaldone, a cura di L. Felici - E. Trevi, I-II, Roma 1997; Poesie e
    prose, a cura di R. Damiani - M.A. Rigoni, con un saggio di C.
    Galimberti, I-II, Milano 1987-88. I primi scritti sono stati
    pubblicati da M. Corti, "Entro dipinta gabbia". Tutti gli scritti
    inediti, rari e editi. 1809-1810, Milano 1972, ristampati a cura di
    A. Longoni, Milano 1994, e di T. Crivelli, Dissertazioni filosofiche
    (1811-1812), Padova 1995. Per le opere erudite e filologiche:
    Scrittifilologici (1817-1832), a cura di G. Pacella - S. Timpanaro,
    Firenze 1969; Fragmenta Patrum Graecorum. Auctorum historiae
    ecclesiasticae fragmenta (1814-1815), a cura di C. Moreschini,
    Firenze 1976; Porphyrii de vita Plotini et ordine librorum eius, a
    cura di C. Moreschini, Firenze 1982; Giulio Africano, a cura di C.
    Moreschini, Bologna 1997. I Canti sono stati editi da F. Moroncini
    (I-II, Bologna 1927), E. Peruzzi (Milano 1981), D. De Robertis
    (I-II, Milano 1984); inoltre: A. Bufano, Concordanze dei "Canti" del
    L., Firenze 1969; G. Savoca, Concordanze dei "Canti" di G. Leopardi.
    Concordanza, liste di frequenza, indici, Firenze 1994. Per le
    Operette morali, le edizioni critiche di F. Moroncini (I-II, Bologna
    1928) e O. Besomi (Milano 1979). Vedi anche: Concordanze diacroniche
    delle "Operette morali" di G. L., a cura di O. Besomi et al.,
    Hildesheim 1988. Per lo Zibaldone di pensieri le edizioni di E.
    Peruzzi, I-X, Pisa 1989-94; di G. Pacella, I-III, Milano 1991; di R.
    Damiani, I-III, Milano 1997. Per la corrispondenza: Epistolario di
    G. Leopardi. Nuova edizione ampliata con lettere dei corrispondenti
    e con note illustrative, a cura di F. Moroncini, I-VII, Firenze
    1934-41 (l'ultimo volume a cura di G. Ferretti, con indice di A.
    Duro); Epistolario, a cura di F. Brioschi - P. Landi, I-II, Torino
    1998. Altre opere: Crestomazia italiana, I-II, Torino 1968 (La
    prosa, a cura di G. Bollati; La poesia, a cura di G. Savoca);
    Appressamento della morte, ed. critica di L. Posfortunato, Firenze
    1983; Discorso di un italiano alla poesia romantica, ed. critica di
    O. Besomi et al., Bellinzona 1988; Scritti e frammenti
    autobiografici, a cura di F. D'Intino, Roma 1995; G. Savoca,
    Concordanza dei "Paralipomeni" di G. L.: testo con commento,
    concordanza, liste di frequenza, Firenze 1998; Discorso sopra lo
    stato presente dei costumi degl'Italiani, intr. di M.A. Rigoni,
    testo critico di M. Dondero, commento di R. Melchiori, Milano 1998;
    Pensieri, ed. critica di M. Durante, Firenze 1998; Poeti greci e
    latini, a cura di F. D'Intino, Roma 1999; Teatro, ed. critica e
    commento di I. Innamorati, Roma 1999; Appunti e ricordi, a cura di
    E. Pasquini - P. Rota, Roma 2000.
    
    Fonti e Bibl.: G. Mazzatinti - M. Menghini - G. Natali, Bibliografia
    leopardiana, I (fino al 1898) - II (1898-1910), Firenze 1931-32; G.
    Natali - C. Musumarra, Bibliografia leopardiana, III (1931-51),
    Firenze 1953; A. Tortoreto, Bibliografia analitica leopardiana
    (1952-1960), Firenze 1963; A. Tortoreto - C. Rotondi, Bibliografia
    analitica leopardiana (1961-1970), Firenze 1973; E. Carini,
    Bibliografia analitica leopardiana (1971-1980), Firenze 1986; E.
    Giordano, Il labirinto leopardiano. Bibliografia 1976-1983 (con una
    breve appendice 1984-1985), Napoli 1986; Il labirinto leopardiano,
    II, Bibliografia 1984-1990 (con un'appendice 1991-1995), Firenze
    1997; E. Carini - A. Sbriccoli, Bibliografia analitica leopardiana
    (1981-1986), Firenze 1998. Per la biografia: A. Ranieri, Sette anni
    di sodalizio con G. L., Milano 1880; G. Chiarini, Vita di G. L.,
    Firenze 1905; G. Ferretti, Vita di G. L., Bologna 1940; I. Origo, L.
    (1953), Milano 1974; R. Wis, G. L.: studio biografico, Firenze 1959;
    R. Damiani, Vita di L., Milano 1992; A. Giuliano, G. L. e la
    Restaurazione, Napoli 1994; N. Bellucci, G. L. e i contemporanei.
    Testimonianze dall'Italia e dall'Europa in vita e in morte del
    poeta, Firenze 1996; A. Giuliano, G. L. e la Restaurazione. Nuovi
    documenti, Napoli 1998. Sulla critica: E. Bigi, G. L., in I classici
    italiani nella storia della critica, a cura di W. Binni, II, Firenze
    1955, pp. 351-407; C. Goffis, L., Palermo 1961; A. Frattini, L.
    nella critica dell'Otto e del Novecento, Roma 1989. Studi: P.
    Giordani, Scritti editi e postumi, a cura di A. Gussalli, Milano
    1856-58, IV, pp. 118-131, 151-178; VI, pp. 122 ss.; V. Gioberti,
    Pensieri e giudizi sulla letteratura italiana e straniera, a cura di
    F. Ugolini, Firenze 1859, pp. 398-414; F. De Sanctis, L., in Id.,
    Opere, XIII, a cura di C. Muscetta - A. Perna, Torino 1960 (unisce
    all'incompiuto Studio su G. L. gli scritti di argomento
    leopardiano); G. Carducci, L. e Manzoni (1896-98), in Edizione naz.
    delle opere, XX, Bologna 1944, pp. 3-231; B. Zumbini, Studi sul L.,
    I-II, Firenze 1902-04; G.A. Levi, Storia del pensiero di G. L.,
    Torino 1911; N. Serban, L. et la France, Paris 1913; B. Croce, L.,
    in Id., Poesia e non poesia. Note sulla letteratura europea del
    secolo decimonono, Bari 1923, pp. 103-119; K. Vossler, L.,
    München 1923; A. Zottoli, L.: storia di un'anima, Bari 1927; G.
    Gentile, Manzoni e L.: saggi critici, Milano 1928, pp. 31-217; L.
    Salvatorelli, Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870, Torino
    1935, ad ind.; A. Tilgher, La filosofia di L., Roma 1940; F.
    Figurelli, G. L. poeta dell'idillio, Bari 1941; G. De Robertis,
    Saggio sul L., Firenze 1944; C. Luporini, L. progressivo, in Id.,
    Filosofi vecchi e nuovi, Firenze 1947, pp. 183-279; W. Binni, La
    nuova poetica leopardiana, Firenze 1947; G. De Robertis, Primi studi
    manzoniani e altre cose, Firenze 1949, pp. 150-172; E. Bigi, Dal
    Petrarca al L.: studi di stilistica storica, Milano-Napoli 1954, pp.
    111-181; S. Timpanaro, La filologia di G. L. (1955), ed. accr.,
    Roma-Bari 1978; U. Bosco, Titanismo e pietà in G. L. e altri
    studi leopardiani, Firenze 1957; K. Maurer, G. L.s "Canti" und die
    Auflösung der lyrischen Genera, Frankfurt a.M. 1957; C.
    Galimberti, Linguaggio del vero in L., Firenze 1959; M. Porena,
    Scritti leopardiani, Bologna 1959; C. Muscetta, Ritratti e letture,
    Milano 1961; P. Bigongiari, L., Firenze 1962; L. Spitzer,
    L'"Aspasia" di L., in Id., Studi italiani, a cura di C. Scarpati,
    Milano 1976, pp. 251-292; G. Getto, Saggi leopardiani, Firenze 1966;
    E. Bigi, La genesi del "Canto notturno" e altri studi sul L.,
    Palermo 1967; G. Savarese, Saggio sui "Paralipomeni" di G. L.,
    Firenze 1967; A. Monteverdi, Frammenti critici leopardiani, Napoli
    1967; C. De Lollis, Petrarchismo leopardiano, in Id., Scrittori
    d'Italia, a cura di G. Contini - V. Santoli, Milano-Napoli 1968, pp.
    193-219; G. Singh, L. e l'Inghilterra, Firenze 1968; N. Sapegno, G.
    L., in Storia della letteratura italiana (Garzanti), VII,
    L'Ottocento, Milano 1969, pp. 815-958; S. Timpanaro, Classicismo e
    illuminismo nell'Ottocento italiano, Pisa 1969; G. Lonardi,
    Classicismo e utopia nella lirica leopardiana, Firenze 1969; G.
    Contini, Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi
    (1938-1968), Torino 1970, pp. 41-52; W. Binni, La protesta di L.,
    Firenze 1973; A. Dolfi, L. fra negazione e utopia, Padova 1973; G.
    Lonardi, Leopardismo. Saggio sugli usi di L. dall'Otto al Novecento,
    Firenze 1974; B. Biral, La posizione storica di G. L., Torino 1974;
    L. Lugnani, Il tramonto di "Alla luna", Padova 1976; S. Campailla,
    La vocazione di Tristano. Storia interiore delle "Operette morali",
    Bologna 1977; U. Carpi, Il poeta e la politica. Belli, L., Montale,
    Napoli 1978; A. Tartaro, L., Roma-Bari 1978; F.P. Botti, La
    nobiltà del poeta. Saggio su L., Napoli 1979; E. Peruzzi,
    Studi leopardiani, I-II, Firenze 1979-87; M. Marti, Dante,
    Boccaccio, L., Napoli 1980, pp. 261-402; G. Montani, Scritti
    letterari, a cura di A. Ferraris, Torino 1980, pp. 193-215; A.
    Prete, Il pensiero poetante. Saggio su L., Milano 1980; F. Brioschi,
    La poesia senza nome. Saggio su L., Milano 1980; S. Timpanaro,
    Aspetti e figure della cultura ottocentesca, Pisa 1980; F.
    Ceragioli, I canti fiorentini di G. L., Firenze 1981; T. Bolelli, L.
    linguista ed altri saggi, Messina-Firenze 1982; S. Timpanaro,
    Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana, Pisa 1982; S.
    Gensini, Linguistica leopardiana, Bologna 1984; M. Ricciardi, G. L.:
    la logica dei "Canti", Milano 1984; L. Blasucci, L. e i segnali
    dell'infinito, Bologna 1985; W. Binni, Lettura delle "Operette
    morali", Genova 1987; A. Ferraris, L'ultimo L.: pensiero e poetica
    1830-1837, Torino 1987; C. Ferrucci, L. filosofo e le ragioni della
    poesia, Venezia 1987; S. Solmi, Studi leopardiani (1969), a cura di
    G. Pacchiano, Milano 1987; N. Borsellino, Il socialismo della
    "Ginestra". Poesia e poetiche leopardiane, Poggibonsi s.d. [ma
    1988]; C. Dionisotti, Appunti sui moderni. Foscolo, L., Manzoni,
    Bologna 1988; M. Marti, I tempi dell'ultimo L., Galatina 1988; L.
    Blasucci, I titoli dei "Canti" e altri studi leopardiani, Napoli
    1989; M. de las Nieves Muñiz Muñiz, Poetiche della
    temporalità, Palermo 1990, pp. 111-184; E. Severino, Il nulla
    e la poesia alla fine dell'età della tecnica: L., Milano
    1990; A. Sole, Foscolo e L. fra rimpianto dell'antico e coscienza
    del moderno, Napoli 1990; N. Bonifazi, L.: l'immagine antica, Torino
    1991; A. La Penna, Tersite censurato e altri studi di letteratura
    fra antico e moderno, Pisa 1991; M. Fubini, Foscolo, L. e altre
    pagine di critica e di gusto, a cura di D. Conrieri et al., I-II,
    Pisa 1992; M. Vitale, La lingua della prosa di G. L.: le "Operette
    morali", Firenze 1992; W. Binni, Lezioni leopardiane, a cura di N.
    Bellucci, Firenze 1994; A. Negri, Interminati spazi ed eterno
    ritorno: Nietzsche e L., Firenze 1994; M. Santagata, Quella celeste
    naturalezza. Le canzoni e gli idilli di L., Bologna 1994; E.
    Gioanola, L., la malinconia, Milano 1995; P. Girolami,
    L'antiteodicea. Dio, dei, religione nello "Zibaldone" di G. L.,
    premessa di G. Luti, saggio introduttivo di M. Biondi, Firenze 1995;
    B. Stasi, Apologie della letteratura. L. tra De Roberto e
    Pirandello, Bologna 1995; S. Timpanaro, Nuovi studi sul nostro
    Ottocento, Pisa 1995; L. Blasucci, I tempi dei "Canti". Nuovi studi
    leopardiani, Torino 1996; D. De Robertis, L.: la poesia,
    Bologna-Roma 1996; L. Cellerino, L'io del topo. Pensieri e letture
    dell'ultimo L., Roma 1997; M.A. Rigoni, Il pensiero di L., prefaz.
    di E.M. Cioran, Milano 1997; E. Severino, Cosa arcana e stupenda.
    L'Occidente e L., Milano 1997; M. Manotta, L.: la retorica e lo
    stile, Firenze 1998; U. Dotti, Lo sguardo sul mondo. Introduzione a
    L., Roma-Bari 1999; C. Luporini, Decifrare L., Napoli 1999; L.
    Diafani, La "stanza silenziosa". Studio sull'epistolario di L.,
    Firenze 2000; A. Dolfi, Ragione e passione. Fondamenti e forme del
    pensare leopardiano, Roma 2000; E. Landoni, Questo deserto,
    quell'infinita felicità. La lingua poetica leopardiana oltre
    materialismo e nichilismo, Roma 2000; G. Tellini, L., Roma 2001.
    Importanti gli atti dei convegni promossi dal 1962 a Recanati dal
    Centro nazionale di studi leopardiani (tutti pubblicati a Firenze),
    tra i quali: L. e il Settecento, 1964; L. e l'Ottocento, 1970; L. e
    il Novecento, 1974; L. e la letteratura italiana dal Duecento al
    Seicento, 1978; L. e il mondo antico, 1982; Il pensiero storico e
    politico di G. L., 1989; Le città di G. L., 1991; Lingua e
    stile di G. L., 1994; Il riso leopardiano. Comico, satira, parodia,
    1998; Lo "Zibaldone" cento anni dopo. Composizione, edizione, temi,
    I-II, 2001. Si veda infine: Lectura leopardiana. I quarantuno
    "Canti" e "I nuovi credenti", a cura di A. Maglione, Venezia 2003.