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Anton Francesco Grazzini detto il Lasca (Staggia Senese, 22 marzo
1504 – Firenze, 18 febbraio 1584) è stato un poeta, scrittore
e commediografo italiano.
Biografia
Nasce da una famiglia originaria di Staggia, centro murato situato
in Valdelsa. Sul luogo della sua nascita permangono dubbi (Staggia
Senese oppure Firenze), tuttavia Anton Francesco Grazzini stesso
scrive di sé Io sono a Staggia, ch'è la patria mia, e
de' miei primi l'antica magione (...)[1]. I suoi familiari erano
noti farmacisti. All'interno della Farmacia del Moro di Firenze
è presente una lapide in marmo che riporta: In questa
officina già del Saracino or del Moro, fin dal MDXXI fu
farmacista A.F. Grazzini da Staggia, leggiadro poeta, commediografo
e novelliere che quivi accolti a sua cura precipua Machiavelli,
Mazzuoli da Strada e lo Zanchino, con altri di quei dotti in lieti
convegni, l'Accademia degli Umidi di poi Fiorentina, fondava le cui
dette incruscate adunanze in quelle della celebre Crusca si
trasmutarono, nelle quali tutte ei tolse il nome da impresa ove una
lasca guizza dall'onda a ghermire incauta farfalla (Firenze
curiosità: la farmacia del Moro). Il padre era invece notaio.
Anton Francesco non segue però totalmente le orme dei suoi
consanguinei, rimanendo comunque associato alla farmacia di
famiglia. Sin da giovane si nota la sua natura anticonformista, il
suo essere insofferente alle regole e alle pedanterie. Non compie
studi regolari, ma da autodidatta si costruisce una solida cultura;
volutamente non impara né il greco né il latino,
preferendo e lodando la lingua italiana. Fermamente criticò
l'uso aristocratico di queste lingue, e combatté la sua
battaglia soprattutto con l'ironia, l'umorismo e la satira.
Fu tra i fondatori nel 1540 dell'Accademia degli Umidi, da cui viene
espulso nel 1547 a causa delle sue idee anticlassiciste) per poi
essere riammesso nel 1566.
Sempre nel 1540 fece il suo esordio letterario nel salotto della
colta cortigiana Maria da Prato. In occasione dell'epifania di
quell'anno vi rappresentò la farsa Il frate. Nel 1582 fonda
insieme a Leonardo Salviati e altri, l'Accademia della Crusca creata
per mantenere la "purezza" della lingua italiana e per preservarla
da ogni contaminazione.
Dopo aver dedicato l'intera vita alla letteratura, muore a Firenze
dove fu sepolto nella tomba di famiglia nella chiesa di san Pier
Maggiore, edificio abbattuto nel 1784.
Stile e opere
Il suo stile rispecchia la tradizione boccacesca e bernesca e il suo
anticonformismo. Fu strenuo difensore e continuatore della
tradizione fiorentina della poesia giocosa e popolaresca.
Tra le poesie, le più note sono burlesche, sull'esempio del
Berni; tra le altre Á riformatori della lingua toscana, In
lode del Boccaccio rinnovato e la poesia umoristica Contro alle
Sberrettate. Da ricordare anche la Raccolta de' Canti
Carnascialeschi e Trionfi in cui assemblò i componimenti che,
sul modello di quelli di Lorenzo il Magnifico, erano stati scritti
fino ad allora (il libro comprendeva Canti del Lasca stesso). Il
metro era quello delle Laudi sacre, ma venivano cantati in maschera
per carnevale su carri che rappresentavano le diverse corporazioni.
Avevano un testo licenzioso e scabroso, e non passarono indenni la
censura. Il volume fu sequestrato e ne furono esclusi i testi di
Giovan Battista dell'Ottonaio e Araldo della Signoria, mentre il
rimanente poté essere stampato nel 1558[2].
La sua fama è però legata alle Commedie e alle Cene.
Le Cene (1549) sono una raccolta di novelle narrate da dieci
giovani, cinque ragazzi e cinque ragazze, che si riuniscono per tre
giovedì consecutivi in periodo di Carnevale. Il modello
strutturale è quello del Decameron. Le Commedie sono in tutto
sette, e sono tutte anteriori al 1566: La gelosia (1551), La
spiritata (1560), La strega, La sibilla, La pinzochera, I parentadi,
L'arzigogolo[3]. Secondo Arturo Graf, ce n'è un'ottava, Il
pedante, che sarebbe stata data alle fiamme dall'autore stesso[4].
Solo due, tuttavia, furono rappresentate vivente l'autore, La
gelosia, presso la sala del Papa del chiostro di S.Maria Novella nel
carnevale del 1550, e La spiritata, prima a Bologna e poi a Firenze,
presso Bernardetto de' Medici, in occasione del carnevale 1560[5].
Affrontò anche il poema epico-romanzesco. Ci è rimasto
un poemetto incompiuto di 44 ottave, La guerra de' mostri, in cui,
malgrado la base comica, è riscontrabile un'allegoria oscura
(la lotta dei Giganti contro gli Dèi, i quali si alleano con
i Nani), da interpretare forse come sfogo polemico in seguito
all'esclusione del Lasca dall'Accademia Fiorentina. La prima
edizione dell'opera porta infatti la data del 1547. La Guerra voleva
essere una continuazione della Gigantea e della Nanea,
rispettivamente di Girolamo Amelonghi e Michelangelo Serafini.
Alcuni elementi del testo grazziniano - fra tutti una evidente
influenza della Batracomiomachia pseudo-omerica - hanno indotto gli
studiosi a parlare per la Guerra del primo testo eroicomico della
letteratura italiana[6].
Dopo la morte, cadde nell'oblìo per un secolo e mezzo, fino a
quando l'editore Francesco Moucke ne pubblicò le Rime nel
1741-42. L'opera fu curata da Antonio Maria Biscioni, che vi premise
una Vita del Lasca da cui è stato possibile trarre la maggior
parte delle informazioni biografiche sul Grazzini.
Curiosità
In difesa della tradizione letteraria della
poesia giocosa curò la pubblicazione e la stampa delle poesie
di diversi autori, tra i quali Berni, Burchiello, Antonio Alamanni e
di altri poeti berneschi e burchielleschi[7]. Voleva licenziare
anche un'edizione critica del Morgante, ma il governo lo
vietò a causa di molti passi dell'opera ritenuti pericolosi
per la fede, in un periodo dominato dalla spinta controriformistica.
Note
1. Rime di Antonfrancesco detto il Lasca, parte
prima, Stamperia di Francesco Moucke, Firenze 1741, pag. XXI.
2. R.Fornaciari, «Introduzione» a
A.F.Grazzini, Scritti scelti, Firenze, Sansoni, 1911, p.VIII.
3. L'Arzigolo è la rielaborazione della
Giostra, commedia laschiana non giunta fino a noi
4. Lo sostiene in un articolo apparso su Nuova
Antologia il 1º dicembre 1886, poi confluito in A. Graf,
Attraverso il Cinquecento, Torino, Elibron, 2005 (1888)
5. R.Fornaciari, p.XVIII
6. R.Fornaciari, p.XVII. In origine anche la Gigantea e
la Nanea erano state attribuite al Lasca, ma sembra ormai fugato
ogni dubbio
7. Di Berni curò due edizioni giuntine nel 1548
e nel 1552. I Sonetti di Burchiello e Alamanni (in un unico volume)
videro la luce nel 1552 presso il medesimo editore
*
DBI
di Franco Pignatti
GRAZZINI, Antonfrancesco (detto il Lasca) nacque a Firenze il 22 marzo 1504 da Grazzino e Lucrezia di ser
Lorenzo de' Santi.
Il padre del G. era nato nel 1452; rimasto orfano, fu allevato
insieme con i tre fratelli dagli zii paterni Simone e Iacopo,
entrambi notai. Divenuto anch'egli notaio, rogò a partire dal
1470; nel 1485 accedette alla carica di notaio della Signoria e dal
1502 al 1512 ricoprì vari incarichi pubblici. Dopo il ritorno
dei Medici fu escluso dagli uffici. Morì nel 1516. Dal
matrimonio con Lucrezia nacquero altri tre figli - Girolamo,
Lorenzo, Simone -, tutti premorti al G., che era il primogenito. Di
mestiere erano tiralori, cioè artigiani che riducevano in
fili l'oro e l'argento.
Sulla formazione del G. non si hanno notizie precise, ma certamente
non seguì studi regolari; in vari componimenti confessa di
ignorare il latino. L'esordio nella vita letteraria fiorentina ebbe
luogo negli anni del principato di Alessandro de' Medici, con la
partecipazione a riunioni di letterati dilettanti, provenienti dai
mestieri, nelle quali si leggevano gli autori volgari fiorentini e
venivano proposti nuovi componimenti. La qualifica di "compositor",
cioè scrittore, in un documento degli Otto di guardia e balia
del 23 marzo 1537 (in Plaisance, La structure…, p. 92) indica che a
quella data egli non esercitava un mestiere, ma era già
pubblicamente noto per la sua produzione letteraria. Luca Martini,
scrivendo a Carlo Strozzi il 21 ag. 1540 (ibid., pp. 93 s.),
riferisce che "canti, commedie e favole" del G. andavano in giro
sotto il nome di Gismondo Martelli, uno dei "poetini" della cerchia
che il G. riuniva intorno a sé: dunque il G. esercitava
allora l'ufficio di mentore dei giovani fiorentini che coltivavano
la poesia.
Alieno per indole da prese di posizione politiche, il G., pur
essendo per tradizione familiare non avverso ai Medici, dovette
vivere l'esperienza dell'assedio e del regime tirannico instaurato
da Alessandro come un evento traumatico; comunque, in una lettera
del 29 apr. 1536 (Lettera a messer Bernardo Guasconi, a cura di C.
Guasti, in Giornale degli archivi toscani, III [1859], pp. 288-294),
descrisse l'ingresso di Carlo V in Firenze manifestando sentimenti
apertamente filomedicei e filoimperiali. Salutò con favore
l'avvento di Cosimo I, che sembrava aprire un periodo di
legalità e di tolleranza. La disposizione ottimistica verso
il potere cosimiano permaneva intatta tre anni dopo, quando il G.
partecipò con una lunga egloga al clima di festa per le nozze
tra Cosimo I ed Eleonora di Toledo.
Verso la fine degli anni Trenta il G. era in relazione con Benedetto
Varchi, che si era stabilito a Padova dopo avere lasciato Firenze
nel 1537, e la cerchia dei suoi corrispondenti fiorentini. Tra gli
amici del G. erano Luca Martini, Carlo di Roberto Strozzi, Cosimo di
Palla di Bernardo Rucellai, allievo del Vettori, il mercante
fiorentino residente a Roma Bartolomeo Bettini. Tramite questi
canali il G. poté avere notizia dell'attività della
padovana Accademia degli Infiammati, che, costituitasi nell'aprile
1540 ebbe tra i suoi membri il Varchi, Ugolino Martelli e Carlo
Strozzi.
In attesa che i fermenti della vita culturale a Firenze si
concretizzassero in un'iniziativa organica, l'attività
letteraria del G. nello scorcio degli anni Trenta resta ancora mal
conosciuta. Non si sa bene come interpretare la notizia che il G.
dà in un sonetto rinterzato a B. Bettini (A. Grazzini, Le
rime burlesche, a cura di C. Verzone, Firenze 1882, sonetto LXXIV),
secondo la quale alcune sue rime circolavano sotto il nome di
Vittoria Colonna, quando, nel 1538, la marchesa di Pescara si
trovava a Firenze per ascoltare le prediche di B. Ochino in S.
Reparata. I titoli di quattro "commedie spirituali" sono trasmessi
dalla Tavola delle opere stesa dal G. il 15 sett. 1566 (ibid., pp.
CXXI-CXXIV). La Croce o Santa Helena, Santa Apollinare, Santa
Caterina, Santa Orsola furono molto probabilmente composte per
essere lette durante le riunioni di compagnie religiose di laici. Il
G. prendeva parte alle attività della Compagnia della Cicilia
(sette canti carnascialeschi recanti nei codici la didascalia
"andato alla Cicilia", il secondo anche la data 1543, sono ibid.,
pp. 210-214, 217-219); alla compagnia di S. Domenico detta del
Bechello indirizzò dodici sonetti spirituali (Firenze, Bibl.
nazionale, Mss., II.IV.1, cc. 100r-105v) e probabilmente, la sera
del venerdì santo di anni non precisabili, vi lesse quattro
Orazioni alla Croce, in una delle quali Plaisance (1997, p. 493) ha
rintracciato echi del Beneficio di Cristo.
Negli anni Trenta vanno collocati anche due commenti burleschi del
G., per i quali dovette giocare la suggestione del Commento al
capitolo della primiera di F. Berni (1526) e di quello composto da
A. Caro sul Capitolo de' fichi di F.M. Molza (1538): il Comento
sopra il Piangirida (due stanze, intitolate Del pianto e Del riso,
del poeta Piero Buondelmonti, 1516-90) e il Comento sopra il
capitolo della salsiccia, composto dallo stesso Grazzini. Solo il
secondo fu stampato, postumo, nel 1589 dai tipografi della Crusca D.
e F. Manzani (poi da D. Manzani nel 1606), con un'attribuzione di
fantasia e la dedica all'arciconsolo Pierfrancesco Cambi: Lezione di
maestro Niccodemo della Pietra al Migliaio sopra il capitolo della
salsiccia del Lasca.
Il gruppo di letterati dilettanti di cui faceva parte il G. nel
corso del 1540 trovò un nuovo polo di aggregazione nella
figura di Giovanni Mazzuoli da Strada in Chianti, detto Stradino,
nella cui casa, in via S. Gallo, vide la luce il 1° nov. 1540
l'Accademia degli Umidi. Lo Stradino era stato soldato di ventura al
seguito di Giovanni dalle Bande Nere, rimanendo legatissimo a casa
Medici anche dopo il 1527. Il G., che gli fu molto amico, lo celebra
in numerose poesie. Il 14 novembre fu scelto il nome dell'Accademia
tra quelli proposti dagli undici fondatori. Il titolo di Umidi pare
essere un ironico contrappasso a quello di Infiammati, con allusione
sull'elemento acquatico come fonte di prosperità e di
accrescimento. In relazione con l'acqua furono anche gli pseudonimi
assunti dagli accademici; il G. confermò quello di Lasca, con
cui era già noto e che conservò gelosamente per il
resto della vita, pretendendo di mantenerlo anche quando fu membro
dell'Accademia della Crusca, con il pretesto che le lasche, per
essere fritte, devono essere prima infarinate. Negli statuti era
previsto che fossero lette e commentate poesie del Petrarca e di
altri buoni autori toscani. La prima lezione su cui abbiamo notizie
circostanziate è una lezione pubblica, pronunciata da
Francesco Verino il 17 febbr. 1541 in una sala di S. Maria Novella,
ma già nel novembre 1540 si tennero lezioni su Petrarca entro
il consesso degli accademici. Il 21 novembre G. Martelli lesse il
sonetto Una candida cerva sovra l'erba (in Rerum vulgarium fragmenta
[da ora in poi R.V.F.] 190); nella Tavola delle opere al 1566 del G.
risultano tre commenti petrarcheschi, tra di essi proprio uno su
R.V.F. 190 (il che fa ipotizzare a Plaisance, Une première…,
p. 391, che fosse il G. l'estensore della lezione tenuta dal
Martelli), poi uno sul sonetto Già fiammeggiava l'amorosa
stella (R.V.F. 33), oggi introvabile, e un altro su un sonetto non
specificato, da identificare con Erano i capei d'oro a l'aura sparsi
(R.V.F. 90; Commento a Erano i capei d'oro a l'aura sparsi. Per
nozze Mancini-D'Achiardi, a cura di G. Gentile, Castelvetrano 1898).
L'ingresso tra gli Umidi di Cosimo Bartoli e di Pierfrancesco
Giambullari il 25 dic. 1540 segnò l'inizio di una rapida
evoluzione dell'Accademia che portò, l'11 febbr. 1541, alla
trasformazione in Accademia Fiorentina e alla cooptazione nella
politica mecenatizia di Cosimo I. Bartoli e Giambullari, oltre a
possedere una cultura superiore a quella che potevano vantare gli
Umidi, erano da sempre strettamente legati ai Medici e la loro
azione all'interno dell'Accademia fu volta con decisione a imprimere
al consesso una svolta istituzionale e a garantire una precisa
funzione di rappresentanza in campo culturale nell'organigramma del
nuovo Stato principesco. Il 15 e il 20 genn. 1541, furono accolti
nuovi accademici, tutti personaggi più o meno legati ai
Medici; il 31 gennaio fu insediata una commissione con l'incarico di
procedere a una riforma: l'11 febbraio i risultati del lavoro furono
approvati dagli altri accademici quasi all'unanimità,
ventisette voti su ventotto, con la sola opposizione del G., che era
cancelliere e si dimise, rifiutandosi di copiare il nuovo statuto.
In attesa che l'Accademia funzionasse secondo i nuovi statuti, il
che avvenne a partire dal 25 marzo, furono eletti degli organi
provvisori, tra di essi fu anche il G., nominato, con un gesto
conciliante, provveditore.
Nel giorno dell'Epifania del 1541, nella casa della cortigiana Maria
da Prato, ebbe luogo, per la rappresentazione della Compagnia del
Fiore, l'esordio del G. come autore teatrale con la farsa Il frate.
Nel prologo del Frate il G. espone le ragioni del suo rifiuto delle
norme della commedia regolata, ricavate da Plauto e Terenzio, ma
annuncia l'uscita a stampa, entro sei mesi, di alcune sue commedie,
nelle quali mostrerà di essere capace di comporre secondo le
regole dei classici. La sorte del Frate rappresenta un capitolo a
sé nelle vicende editoriali del teatro grazziniano. Rimasto
inedito fino al XVIII secolo, fu incluso tra le Commedie, terzine ed
altre opere edite ed inedite di N. Macchiavelli [sic] (Cosmopoli [ma
Venezia] 1769) per l'arbitraria attribuzione dell'editore G.
Pasquali, il quale l'aveva tratto dal ms. conservato in Venezia,
Bibl. naz. Marciana, Mss. it., cl. X, 27 (= 7173), dove si trova
adespoto e anepigrafo. I sostenitori della paternità
machiavelliana trassero argomento dalle affinità tra il
personaggio di frate Alberigo nel Frate e quello di fra Timoteo
nella Mandragola, e giudicarono la farsa opera tarda rispetto al
capolavoro teatrale del segretario fiorentino, finché la
restituzione al G. avvenne alla fine del XIX secolo.
Nei primi mesi del 1541 il G. continuava ad animare il gruppo degli
Umidi, che costituiva ormai una fazione a sé all'interno
dell'Accademia e si riuniva per conto suo in casa dello Stradino o
di altri accademici. Del resto, il prevalere dell'indirizzo erudito
e la concentrazione sulle lezioni (l'Accademia non fece
rappresentare commedie fino al 9 nov. 1544, quando fu dato il Furto
di F. D'Ambra) significava precludere agli Umidi settori a loro
congeniali. Nell'autunno 1541 il G. disertò le riunioni
accademiche, riprese il 25 settembre.
Un'ulteriore riforma, volta a garantire una migliore organizzazione
delle letture pubbliche e private degli accademici, fu varata nel
settembre 1542 con una procedura straordinaria. Il 6 settembre,
cioè durante la sospensione estiva delle attività,
nella casa del segretario del duca Francesco Campana, una giunta
redasse i nuovi articoli, che furono approvati il giorno 16, nella
stessa sede, dai soli 19 accademici presenti. L'8 nov. 1542,
estratti a sorte per tenere una lettura, secondo le nuove procedure,
il G. e Piero Covoni si rifiutarono di farlo, e questo irrigidimento
degli Umidi, seguiti anche da altri accademici, compromise il
sistema delle lezioni, che si tennero con irregolarità fino
ai primi mesi del 1543. Nell'aprile dello stesso anno più di
una quarantina di accademici, tra i quali coloro che si erano
rifiutati di leggere, furono privati del diritto di voto e di
eleggibilità, così impedendo loro di partecipare alla
vita dell'Accademia; furono reintegrati solo il 15 ag. 1544 dal
consolo uscente Ugolino Martelli per procedere all'elezione dei
nuovi magistrati. Nel frattempo l'ingresso in Accademia di Benedetto
Varchi l'8 marzo 1543 era stato un fatto di grande rilievo,
poiché il letterato si congedava dai suoi trascorsi
repubblicani per conciliarsi con il regime mediceo e accettava di
reinserirsi nella vita culturale fiorentina. Il gruppo degli Umidi,
e tra di essi il G., vide nel Varchi la personalità
prestigiosa che poteva rompere l'accerchiamento in cui erano stati
costretti, ma il Varchi optò per una condotta neutrale, che
lo portò, in effetti, al consolato il 1° febbr. 1545.
Il G., proposto per la censura in questa occasione, non fu eletto, e
anche per quella di provveditore Migliore Visino ebbe la meglio su
di lui e su Simone Della Volta. Tuttavia la sostanziale tolleranza
religiosa e culturale che regnò a Firenze fino al 1547
consentì ancora una discreta possibilità di manovra.
In questa congiuntura favorevole si inserisce la Strega, del G., la
cui composizione cade nei mesi dell'allestimento della guerra contro
la Lega smalcaldica, nel maggio-giugno 1546.
La Strega è incentrata sulla figura di Taddeo Saliscendi,
giovane goffo e innamorato della Geva, il quale smania di partire
per la guerra contro i luterani, perché il padre della
ragazza non gliela vuole dare in moglie. A scongiurare la partenza
dello sprovveduto e ingenuo miles gloriosus si mettono la madre e lo
zio, preoccupati che, in caso di morte, il patrimonio di famiglia
sia devoluto all'ospedale di S. Maria Nuova. La commedia, la meglio
riuscita del G., ha le sue cose più felici nella
caratterizzazione del personaggio dello sciocco, burlato dal servo
Farfanicchio e blandito dai parenti, che ricorrono a madonna
Sabatina, la "strega" del titolo, mezzana e presunta fattucchiera,
per farlo recedere dai suoi propositi bellicosi. Motivo d'interesse
è la registrazione ghiotta di espressioni popolari fiorentine
a fini comici, che fanno della Strega un testo di lingua.
Altrettanto visibili sono però le allusioni alla contingenza
politico-militare, dalle quali emerge con chiarezza l'indifferenza
del G. alla lotta contro i luterani e, anzi, la condivisione del
motivo polemico della decadenza della Chiesa e della corruzione del
clero. Non solo, la Strega lascia trasparire con una certa evidenza
memorie e nostalgie del passato repubblicano che non la potevano
rendere gradita al nuovo regime: Taddeo si arma della spada usata
dal padre all'assedio del 1530, ricorda le cariche politiche della
Repubblica, la sua smania di combattere può sfogarsi solo
partecipando a una guerra del papa, che non ha alcun interesse per i
Fiorentini, nella sola prima scena appare un personaggio appena
uscito dalle carceri ducali e non sa neanche il motivo per cui
è stato imprigionato.
Il 4 febbr. 1546, in casa di F. Campana, fu approvato un'ulteriore
riforma dell'Accademia Fiorentina. Tra l'altro, fu approvata la
norma per cui, a parte coloro che avevano ricoperto il consolato e i
padri approvati, i membri che si erano rifiutati di tenere una
lezione non sarebbero stati considerati abili alle magistrature.
Tale norma, però, fu sospesa per tutto il consolato seguente,
di Lorenzo di Bernardo Ridolfi. Nelle elezioni del febbraio 1547 il
consolato fu appannaggio di Agnolo Guicciardini; ma egli
rinunciò alla carica e fu necessaria una seconda votazione,
che si tenne nella casa di Lelio Torelli, primo segretario del duca,
il 28 febbraio. In questa sede fu deciso all'unanimità di far
valere l'articolo della riforma del 4 febbr. 1546: il G. e i suoi
amici non poterono così partecipare alla votazione, da cui
uscì eletto il Giambullari. Il primo atto del nuovo consolo
fu l'epurazione di tutti quegli elementi che non furono considerati
adatti al nuovo corso. Tra i cassati fu quasi tutta la vecchia
guardia degli Umidi (eccetto l'inamovibile Stradino, massaio a vita)
e con essa il Grazzini.
Gli avvenimenti del 1547 diedero materia ad alcuni poemetti
burleschi, in cui le vicende dell'Accademia furono rappresentate
allegoricamente. La Gigantea di Girolamo Amelonghi, forse plagio di
una Gigantomachia di Betto Arrighi, il cui manoscritto (ora perduto)
l'Amelonghi avrebbe sottratto allo Stradino, racconta la conquista
dell'Olimpo da parte dei giganti, che andrebbero identificati negli
Umidi. Michelangelo Serafini compose una continuazione della
Gigantea, la Nanea, che narrava come i nani e i pigmei, accorsi in
aiuto degli dei, sconfiggono i giganti (i due poemi, entrambi sotto
il nome dell'Amelonghi, uscirono a stampa nel 1549). Il G. da parte
sua compose la Guerra de' mostri, in 44 ottave (due edizioni per D.
Manzani, nel 1584 e nel 1612, insieme con la Gigantea e la Nanea).
All'inizio della Guerra il G. menziona con sufficienza la Gigantea e
la Nanea e annuncia che canterà una terza razza, quella dei
mostri (da identificare negli avversari degli Umidi), che affrontano
e sconfiggono i nani e i giganti, questi ultimi risuscitati dagli
dei a loro difesa.
La risposta del G. alla cassazione fu risentita, ma anche
preoccupata del rischio a cui si esponeva assumendo una posizione di
aperta polemica: la sonettessa LXXXIII, a Cosimo I, allude
addirittura a manovre per farlo incarcerare e nella sonettessa
LXXXIV si premura di confermare al duca la sua lealtà di
suddito e il rispetto per l'Accademia come istituzione. Qualche
venatura compromettente emerge nel Lamento dell'Accademia degli
Umidi, posteriore all'agosto 1547 (Le rime burlesche, pp. 342-346),
nel quale il G. finge che la prosopopea dell'Accademia invochi il
suo aiuto affinché la difenda dalle offese recatele dagli
altri membri e si spinge a paragonare la decadenza degli istituti
accademici a quella degli ordini della Chiesa primitiva, buoni in
origine e guastati dall'avidità e dall'ipocrisia del clero.
Il 6 giugno 1549, per far fronte al rallentamento che avevano subito
le attività a seguito della riforma del 1547, fu consentito
che fossero riammessi gli accademici cassati, a condizione che in
passato avessero tenuto una lezione o avessero mandato fuori qualche
composizione approvata dai censori. Non era il caso del G., ma il
consolato di Piero Orsilago, medico, eletto il 19 ag. 1549, fu da
lui salutato con favore; progettò di rappresentare una
commedia in suo onore nel carnevale 1550, ma Migliore Visino, che
avrebbe dovuto partecipare come attore, morì nel gennaio e
non se ne fece nulla.
In questi anni il G. curò alcune edizioni di testi della
produzione popolare o popolareggiante fiorita a Firenze già
da prima dell'età laurenziana e di cui il G. rivendicava la
vitalità di contro all'opzione classicistica e cortigiana che
la nuova cultura medicea andava imponendo.
L'edizione de Il primo libro dell'opere burlesche, di m. Francesco
Berni, di m. Gio. Della Casa, del Varchi, del Mauro, di m. Bino, del
Molza, del Dolce, et del Firenzuola curata per i Giunti nel 1548
(ristampe non passive nel 1550 e 1552) nasce dall'intento di
affermare l'indiscusso magistero del Berni nella poesia burlesca e
antipetrarchista, ma anche di tracciarne una discendenza, tra poeti
fiorentini e Accademia Romana dei Vignaiuoli, nella quale il G.
ambiva collocare pure se stesso. Nella prefatoria a L. Scala il G.
annuncia l'intenzione di pubblicare una prima parte delle sue "rime
in sulla burla" in un secondo volume, ma il progetto non ebbe
seguito: il secondo volume di poeti berneschi uscì nel 1555,
ma senza la sua curatela. Ne I sonetti del Burchiello, et di messer
Antonio Alamanni, alla burchiellesca, apparsi sempre per i Giunti
nel 1552, il barbiere di Calimala si vede accreditare, in
virtù della sua oscurità, una patente sapienziale che
lo innalza al fianco delle massime autorità del volgare
fiorentino, affrancandolo dal rango di mero verseggiatore burlesco.
L'edizione di Tutti i trionfi, carri, mascheaate [sic] o canti
carnascialeschi andati per Firenze dal tempo del magnifico Lorenzo
il vecchio de' Medici […] infino a questo anno presente 1559
costituisce la prima recensio di testi che avevano avuto finora una
circolazione informale, legata a eventi effimeri, al poetare
spontaneo, cui il G., pur nel rispetto del carattere popolaresco e
giocoso, intendeva conferire continuità negli anni e un
legame con gli usi cittadini, come evidenzia il fatto che il suo
ritrovamento viene attribuito al Magnifico e che il volume
uscì dai torchi del tipografo ducale Lorenzo Torrentino con
dedica al principe Francesco de' Medici. L'edizione diede luogo a
vivaci polemiche, su cui getta luce una lettera del G. a Luca
Martini del 22 febbr. 1558 (Prose fiorentine, Firenze 1734, IV, 1,
pp. 76-79). Quando le copie erano pronte per essere messe in
commercio, Paolo dell'Ottonaio, canonico di S. Lorenzo, si rivolse
al consolo dell'Accademia Fiorentina, cui dal marzo 1542 spettava
per diritto di giudicare in tutte le controversie sulle stampe,
affinché ne impedisse la diffusione, sostenendo che i
componimenti del fratello Giovan Battista erano stati editi in
maniera scorretta. Il 5 marzo un rescritto del duca dispose il
sequestro e la questione si trascinò fino al 24 genn. 1561,
quando un secondo rescritto ducale dispose che il libro fosse
finalmente messo in commercio, detrattene le carte con i canti
dell'Ottonaio (ma non pochi sono oggi gli esemplari integri
esistenti); nel frattempo il fratello Paolo aveva provveduto a
un'edizione a parte nel 1560, sempre per il Torrentino.
Il rientro del G. nei ranghi della letteratura fiorentina ufficiale
fu agevolato dall'amicizia che egli strinse con il giovane Raffaello
di Francesco di Raffaello di Giuliano de' Medici (1543-1629)
verosimilmente dall'inizio degli anni Sessanta, stante la dedica a
Raffaello dell'edizione 1561 della commedia La spiritata. Il G. si
atteggiò a mentore del giovane Medici, rivivendo forse
l'esperienza del circolo dei "poetini", di cui era stato punto di
riferimento alla metà degli anni Trenta. Ma il Medici
intraprese poco dopo la carriera militare (nel 1565 entrò
nell'Ordine di S. Stefano e ne fu ammiraglio dal 1572 al 1575) e
diplomatica. La riammissione del G. in Accademia avvenne nel 1566,
dovuta all'iniziativa di L. Salviati, consolo per quell'anno. Al
Salviati il G. era legato almeno dal 1562, quando lo aveva difeso,
insieme con il Varchi e altri, in una serie di sonetti satirici
contro Iacopo Corbinelli, che lo aveva bersagliato per le cortigiane
orazioni composte in morte di don Garzia de' Medici. Secondo la
riforma del 6 giugno 1549, il G. dovette sottoporre una sua opera al
giudizio dei censori: presentò dieci egloghe al censore G.B.
Adriani il giovane, che diede parere favorevole, e il 6 maggio 1566
fu riammesso. Il 2 febbr. 1572 fu eletto provveditore e in questa
veste fu incaricato, secondo la consuetudine, di presentare una
tazza e un anello d'argento rispettivamente al consolo e al censore
uscenti (nelle ottave CXVI si lamentò di aver dovuto
sottostare a questo ufficio inadeguato alla sua età e di non
essere stato eletto, piuttosto, censore). Dall'inizio degli anni
Ottanta il G. animò un altro cenacolo, privato, che teneva le
sue riunioni nella libreria dei Giunti presso la Badia. Intendimento
originale di quella che sarebbe divenuta poi l'Accademia della
Crusca era di contrapporsi allo stile ufficiale dell'Accademia
Fiorentina, ripristinando l'impronta scherzosa e dilettantesca che
era stata degli Umidi. Tra i Cruscanti, alla fine di ottobre del
1582, fu accolto anche L. Salviati, il quale, per onorare la doppia
vocazione, seria e scherzevole, dell'Accademia, tra il 25 gennaio e
il 18 febbr. 1584 compose e fece stampare, anonimo, presso D.
Manzani un paradosso intitolato Il Lasca dialogo, cruscata ovver
paradosso d'Ormannozzo Rigogoli, rivisto e ampliato da Panico
Granacci… Nel quale si mostra, che non importa che la storia sia
vera, e quistionasi per incidenza alcuna cosa contra la poesia (P.
Granacci è il G., O. Rigogoli G.B. Deti).
Il G. si spense a Firenze il 18 febbr. 1584 e fu sepolto nella
chiesa di S. Pier Maggiore, nel "popolo" di S. Croce, dov'era la
tomba di famiglia dei Grazzini.
A partire dall'edizione settecentesca delle Rime (Firenze 1742,
I-II) è diffuso un ritratto del G. - calvo, coronato di
alloro, con la barba crespa, il portamento dignitoso - copiato,
secondo quanto riferisce il curatore A.M. Biscioni (I, pp. XVII s.),
da una tavola di Agnolo Bronzino, casualmente ritrovata in casa
dell'abate Giovambattista Grazzini.
Rime del G. apparvero, in vita, in raccolte d'occasione, fiorentine
e non, ad esempio in morte di Michelangelo e del Varchi (la
bibliografia in Le rime burlesche, pp. IX-XXXIX). Gli unici versi
del G. che furono pubblicati da soli, sono le stanze In dispregio
delle sberrettate, ad Antonio Bini, impressi nel 1579 a istanza di
Francesco Dini da Colle. Dopo la sua scomparsa, la fortuna del G.
nella cultura fiorentina fu condizionata dalla normalizzazione
controriformistica, imposta durante i principati di Francesco I e di
Ferdinando I. Sue carte furono bruciate dopo la morte per ordine
dell'inquisitore, perché lascive e disoneste. Gli Accademici
della Crusca tentarono per due volte nel 1589-90 e 1591 di allestire
un'edizione delle rime, ma senza portare a compimento il progetto.
Il G. fu accolto tra i citati nella terza edizione (1691) del
Vocabolario della Crusca.
Per una completa rivalutazione, l'opera grazziniana dovette
attendere il XVIII secolo. Le Rime furono pubblicate in due volumi
in un'edizione della Crusca (Firenze, F. Moüke, 1741-42) da
A.M. Biscioni, che premise una importante Vita del Lasca, ma
l'edizione fu controllata dalle autorità ecclesiastiche e
alcuni componimenti furono soppressi o rimaneggiati. Le Cene
apparvero prima in un'edizione parziale: La seconda cena di A. G.
[…] ove si raccontano dieci bellissime, e piacevolissime novelle non
mai più stampate, "In Stambul. Dell'Egira 122. Appresso
Ibrahim Achmet stampatore del Divano" (edizione fiorentina del 1743,
a cura dell'abate A. Bonducci, accademico fiorentino; fu proibita
con decreto della sacra congregazione dei Riti il 7 ott. 1746 e
parecchi esemplari furono bruciati). Poi A.M. Bandini nel 1753
ritrovò la Prima Cena e l'ultima novella della Terza e G.V.
Molini eseguì la stampa a Parigi nel 1756: La prima e la
seconda cena. […] Alle quali si aggiunge una novella della terza
cena (con l'indicazione Londra, appresso G. Nourse; un'edizione
contraffatta a Lucca lo stesso anno). Rinaldo Maria Bracci, sotto lo
pseudonimo di Neri del Boccia ripropose la raccolta grazziniana di
Tutti i trionfi, carri, mascherate o canti carnascialeschi…
(Cosmopoli [Lucca, F.M. Benedini], 1750) con un giudizio negativo
sul lavoro del G. come editore che suscitò una polemica con
il Biscioni.
A parte il Frate e la Strega e le commedie spirituali, che non ci
sono giunte, l'opera teatrale del G. presenta notevoli problemi di
datazione e di ricostruzione della storia interna dei testi. Nella
Tavola delle opere al 1566 il G. trasmette i titoli di sei commedie
(oltre al Pedante, "che si stracciò ed arse") e tre farse,
rispettivamente: La gelosia, La spiritata, La pinzochera, La
stregaoLa Taddea, I parentadi, La medagliaoLa sibilla; Il frate, La
monica, La giostra. Secondo un'ipotesi formulata dal Gentile (pp.
121 s.) e generalmente accolta, dopo il 1566 la Giostra fu
rielaborata nella commedia l'Arzigogolo con l'aggiunta di altri due
atti per portarla alla misura regolare di cinque. La nuova parte
consiste nella riedizione della famosa farsa francese
quattrocentesca di maître Pathelin, la cui possibile fonte
potrebbero essere i Detti, et fatti di diversi signori et persone
private di L. Domenichi (Firenze 1562, pp. 182-184). Della Monica ci
resta solo il prologo, ma abbiamo notizia di due rappresentazioni,
senza però l'anno: una prima d'estate, alla presenza del
duca, l'altra l'anno dopo in casa di L. Scala. Pubblica fu invece la
rappresentazione della Gelosia, nel carnevale del 1551, nella Sala
del papa nel chiostro di S. Maria Novella. Fu stampata lo stesso
anno dai Giunti di Firenze, con dedica a B. Minerbetti vescovo di
Arezzo e accademico fiorentino, due prologhi, uno agli uomini e uno
alle donne (il che fa pensare a una doppia rappresentazione, come
è documentato per altri casi contemporanei) e sei intermezzi;
nel 1552 fu ristampata da G. Griffio a Venezia e nel 1568 di nuovo
dai Giunti. Ebbe anche una versione francese, quasi letterale, col
titolo Le morfondu, opera di Pierre de Larivey, canonico di Troyes
(in Le six premières comedies facecieuses à
l'imitation des anciens grecs, latins et modernes italiens, Paris,
chez Abel l'Angelier, 1579). Se ne conserva un'altra redazione
manoscritta autografa (Firenze, Bibl. naz., Magl., VII.180),
anteriore a quella andata a stampa. La spiritata fu portata sulle
scene a Bologna (non si conosce la data precisa) e replicata nel
1550 a Firenze durante il carnevale; ne furono eseguite tre stampe
(Firenze, Giunti, 1561; Venezia, F. Rampazzetto, 1562, 1566). I
Parentadi hanno un sicuro termine ante quem nel gennaio 1550, quando
morì Migliore Visino, nominato nella scena 5 del II atto, ma
Caselli (p. 493) propone una datazione ristretta al periodo 10 genn.
1537 e il marzo 1538. Sulla base di allusioni alla cronaca
politico-militare del tempo e alla legislazione medicea Caselli data
probabilisticamente la Pinzochera al 1541-46, la Spiritata tra il
novembre 1547 e il novembre 1549, la Sibilla agli ultimi mesi del
1553.
Nel 1582 uscì a Venezia, per i tipi di Bernardo Giunti e
fratelli, un'edizione delle Commedie, senza però
l'Arzigogolo. In precedenza, nello stesso 1582, era uscita in
un'altra stampa giuntina La strega, nella cui prefatoria Ai lettori
il G., ormai vecchio e sfiduciato, dichiarava di voler procedere
all'edizione di tutte le sue commedie, per cui egli dava fuori
questo primo frutto e si accingeva alla revisione di Spiritata,
Pinzochera, Sibilla e Parentadi. Resta fuori dall'elenco
L'arzigogolo, il che può far pensare a una composizione a
ridosso della stampa veneziana, tale da non consentire un
inserimento in essa della nuova commedia. Il progetto editoriale si
interruppe per qualche motivo e all'edizione di tutte le commedie
grazziniane i Giunti procedettero in proprio, utilizzando le stampe
esistenti o manoscritti non rivisti dall'autore. L'Arzigogolo
dovette attendere l'edizione 1750 (Firenze [ma Venezia]) del Teatro
comico fiorentino, in cui figura insieme con le altre commedie
grazziniane (III e IV tomo).
Un bilancio del teatro grazziniano deve partire da un rilievo di
costituzionale carenza drammatica, legata alla mancanza di motivi
dominanti e all'incapacità di approfondire la statura
psicologica dei personaggi. Le commedie del G. presentano
solitamente un intreccio piuttosto elaborato, ma lo sviluppo si
regge soprattutto sull'efficacia con cui vengono costruiti i
dialoghi e per il tratteggio di alcuni personaggi, risolti
nell'espressività linguistica. Questo tratto costituisce la
lucida evoluzione della linea fiorentina del genere, che aveva
trovato la sua enunciazione teorica nel Discorso sulla nostra lingua
del Machiavelli e consisteva in una visione cittadinesca e borghese
e nell'inscindibile rapporto tra comicità e linguaggio, che
portava la commedia a registrare gli strati più bassi della
lingua e a scartare soluzioni più illustri come l'uso del
verso. L'insofferenza per le regole derivate dal teatro
plautino-terenziano cede talora il passo a costruzioni
convenzionali, ma il G. avverte con chiarezza la trasformazione
della commedia fiorentina contemporanea, che tendeva a raffinarsi in
un genere conveniente e manierato, adottabile come spettacolo
decorativo e d'apparato nelle occasioni pubbliche che offriva il
regime principesco.
L'opera cui è soprattutto legato il nome del G. sono le
novelle delle Cene. La raccolta doveva comprendere, nell'intenzione
dell'autore, trenta novelle divise in tre giornate, secondo una
progressione che andava dalle "piccole", alle "mezzane", alle
"grandi". Possediamo solo le prime venti e la decima del terzo
gruppo, oltre a una "Introduzzione al novellare", che funge da
cornice, e a una breve conclusione. Non si può affermare
tuttora con certezza se l'opera ci sia giunta mutila o sia rimasta
incompiuta. Incerte restano le date di composizione, che dovrebbero
coprire un arco di tempo compreso tra circa il 1540 e la morte. Una
circolazione spicciolata è testimoniata dalla lettera del G.
a Masaccio di Calorigna (verosimilmente un personaggio d'invenzione)
tramandata dal ms. Magl. VI.190, insieme con la stesura più
antica di due novelle e una terza senza altri riscontri, che
l'autore, appunto, inviava al destinatario affinché le
correggesse e le presentasse in dono allo Stradino (il che fissa la
data di morte di questo, giugno 1549, come termine ante quem).
In mancanza di dati che permettano di collocare con maggiore
sicurezza documentale la prova novellistica nella produzione
grazziniana e nel panorama coevo del genere, è probabile che
il progetto delle Cene abbia preso forma nella seconda metà
degli anni Quaranta, allorché apparvero i Ragionamenti del
Firenzuola, che con la loro cornice arieggiante il Decameron
potevano costituire il più diretto punto di riferimento del
G. novelliere. In realtà, l'opzione boccacciana della cornice
è risolta dal G. con una forte reductio rispetto al modello:
in una scena di borghese convivio, nel quale si rinuncia alla
presenza di un re o di una regina e i narratori si succedono secondo
il caso, sprovvisti di una vera e propria personalità.
Al di là dello spostamento dei contenuti e dei registri
stilistici e situazionali rispetto al modello trecentesco, la
sintassi narrativa delle Cene costituisce il tentativo di riproporre
la struttura della novella di beffa del Decameron, in cui l'intera
impalcatura narrativa converge verso un centro unitario, fine e
motore di tutta l'azione narrata, invece di seguire un andamento
paratattico, caratteristico delle spicciolate quattrocentesche. La
beffa è tema predominante delle Cene (ben diciassette novelle
insistono su di essa), ma, rispetto al modello boccacciano, la beffa
non si risolve nel gioco nitido e gratuito dell'ingegno, e si
esprime con una concretezza tutt'affatto materiale, con esiti spesso
di inusitata violenza e crudeltà. La chiara impronta
popolaresca e l'inclinazione verso un realismo un po' plebeo ha come
corrispettivo una sostanziale indifferenza per il tratteggio
psicologico dei personaggi, per lo più risolti in caratteri
bizzarri e singolari privi di una reale articolazione interna,
funzionali all'evoluzione dell'intreccio e risolti soprattutto sul
piano dell'espressione linguistica.
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Iter Italicum, Cumulative index to volumes I-VI, sub voce.