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    Uomo politico (Casale Monferrato 1810 - Roma 1882). Medico, ma
    maggiormente dedito all'agricoltura e al giornalismo, nel 1848
    accorse volontario in Lombardia per combattere gli Austriaci e nel
    maggio fu eletto deputato. Dapprima contrario alla ripresa delle
    ostilità con l'Austria, quindi favorevole alla resistenza a
    oltranza dopo la sconfitta di Novara, votò contro la pace di
    Milano. Vicepresidente della Camera (1853), ministro dell'Istruzione
    (1855), poi delle Finanze (1858), fu eletto (1860) presidente della
    Camera, ed esercitò quest'ufficio con rigida
    imparzialità. Accentuatasi intanto la sua evoluzione dal
    centro-sinistra alla destra, della quale divenne uno dei capi
    più autorevoli, fu ministro dell'Interno (sett. 1864 - ag.
    1865), nuovamente presidente della Camera (1867-68 e 1869); quindi,
    presidente del Consiglio (dic. 1869 - luglio 1873), proseguì
    la riduzione delle spese militari in un regime di stretta economia,
    evitando l'intervento in favore della Francia, allora in guerra con
    la Prussia. Proprio la disfatta francese permise l'acquisizione di
    Roma al Regno (1870). Dimessosi perché respinti i suoi
    provvedimenti finanziarî, visse poi prevalentemente a Torino,
    ove (dal 1878) fu presidente dell'Associazione costituzionale.
    
    *
    
    di Silvano Montaldo
    
    LANZA, Giovanni. - Nato a Casale Monferrato il 15 febbr. 1810, perse
    in giovane età il padre Francesco, fabbro e negoziante in
    ferro, ma grazie all'impegno della madre Angela Maria Inardi e
    all'aiuto di uno zio la famiglia raggiunse una certa agiatezza,
    tanto da acquistare nel 1836, per 41.550 lire, una proprietà
    di 33 ettari a Roncaglia. Dopo gli studi nel reale collegio di
    Casale, nell'autunno 1827 si trasferì a Torino per terminare
    le scuole secondarie e iscriversi alla facoltà di medicina; a
    causa dei provvedimenti repressivi adottati nel 1830, dovette
    però completare gli studi presso l'ospedale di Vercelli e,
    tornato nella capitale (dove potè laurearsi solo nel 1832),
    sviluppò una forte insofferenza verso l'autoritarismo e il
    gesuitismo che dominavano l'Università. L'anno successivo,
    approfittando delle facilitazioni previste dall'ordinamento, si
    laureò anche in chirurgia. Durante il periodo torinese
    stabilì un legame di amicizia con A. Sobrero e con la
    famiglia di C. Zoppis, di cui il 25 luglio 1851 sposò la
    figlia Clementina.
    
    Alla mancanza di una tradizione familiare e all'origine provinciale,
    che di fatto gli precludevano l'accesso alla carriera accademica, il
    L. reagì con un forte impegno nello studio: nel novembre 1834
    si trasferì a Pavia, dove insegnavano scienziati
    d'avanguardia, come B. Panizza, e stava iniziando ad affermarsi il
    metodo positivo e sperimentale. Dovette, però, interrompere
    gli studi pavesi per una grave infezione, contratta nel gennaio 1835
    durante l'esecuzione di un'autopsia e, nell'agosto seguente, prese
    la decisione di tornare in Piemonte per fronteggiare l'epidemia di
    colera. Dopo aver prestato volontariamente la sua opera in provincia
    di Cuneo e a Genova, il L. rientrò a Pavia, da dove, nel
    marzo 1836, raggiunse Milano per visitare ospedali e istituti di
    assistenza, ma il soggiorno fu interrotto dalla polizia austriaca.
    
    Il suo confidente e biografo E. Tavallini accenna all'imprudenza del
    L., che "osava qualche volta chiacchierare anche dello stato in cui
    giaceva allora l'Italia e dell'assolutismo dei troppi suoi governi;
    e le sue idee egli spiattellava apertamente, senza cautele"
    (Tavallini, I, pp. 23 s.).
    
    Costretto a rinunciare al proposito di recarsi a Vienna, il L. si
    trasferì a Parma, poi a Modena e a Bologna, da dove raggiunse
    a piedi, con lo zaino in spalla, Firenze. Vi si fermò alcuni
    mesi, entrando in contatto con M. Bufalini, sostenitore dello
    sperimentalismo. Rientrato a Torino nel 1837 con un notevole
    bagaglio di conoscenze, il L. tentò la carriera accademica,
    ma un'affezione oftalmica lo costrinse nuovamente a lasciare gli
    studi e a trasferirsi a Roncaglia. In questa circostanza il L.
    maturò la decisione di dedicarsi alla cura della
    proprietà terriera applicandovi metodi scientifici.
    
    All'epoca la ricostituzione dell'antico Senato come suprema
    magistratura di appello per il Piemonte orientale stava attirando a
    Casale giovani avvocati di idee liberali, quali U. Rattazzi, C.
    Cadorna, F. Mellana, P.D. Pinelli, che trovarono un luogo di
    aggregazione presso l'Accademia filarmonica, di cui il L. divenne
    socio. Agli studi agronomici e alla sperimentazione di aratri e
    seminatrici in ferro affiancò la lettura di Muratori e Botta,
    Denina, Sismondi, Hume e Galileo, di diverse opere di storia
    parlamentare inglese, di legislazione del Piemonte, Belgio,
    Inghilterra, e di alcune traduzioni dal tedesco.
    
    Furono però anche anni di insoddisfazione e incertezza per il
    L., cui pesavano l'orizzonte ristretto e il senso di
    inutilità, solo in parte mitigato dall'assistenza gratuita
    che prestava ai poveri della zona. Da qui la decisione di ritentare
    la strada di Torino, cercando un'occupazione presso un ente
    ospedaliero o assistenziale; il L. dovette, però, scontrarsi
    di nuovo con le chiusure corporative e i limiti del mercato del
    lavoro, che lo costrinsero ad accettare il ruolo di medico
    volontario presso il ricovero di mendicità.
    
    Nel 1842 la nascita dell'Associazione agraria fornì
    l'opportunità di pubbliche discussioni su temi economici e
    agì come palestra di educazione politica. Aderendovi tra i
    primi, il L. ne divenne uno dei principali animatori, svolgendo
    un'intensa attività pubblicistica sulle pagine della Gazzetta
    dell'Associazione, cui affiancò la collaborazione alle
    Letture di famiglia di L. Valerio e al Messaggiere torinese di A.
    Brofferio, occupandosi di statistica, credito agrario, enologia,
    rete viaria, insegnamento e piccola proprietà contadina,
    pauperismo e beneficenza. Ebbe inoltre vari incarichi
    nell'Associazione e fu tra i fondatori del comizio agrario di
    Casale.
    
    Nel 1846 andavano delineandosi con maggiore chiarezza schieramenti
    partitici caratterizzati da una visione profondamente diversa dei
    principali problemi politici e sociali da affrontare, il che
    provocò una spaccatura nel movimento riformatore. Dopo un
    duro scontro con C. Cavour, allora su posizioni piuttosto
    conservatrici, Valerio, il L., M. Cordero di Montezemolo e R. Sineo
    assunsero il controllo dell'Agraria, grazie all'appoggio dei
    ministri più orientati verso le riforme e dello stesso Carlo
    Alberto, interessati a conservare buoni rapporti con un gruppo la
    cui influenza era crescente nel paese, nonostante gli allarmismi di
    chi lo indicava come "parti libéral exagéré",
    radicale o "populaire". In realtà, come il L. ammise un anno
    più tardi, i suoi massimi ideali erano l'unità e
    l'indipendenza della patria, "la fratellanza di tutti i suoi
    abitanti, la conquista dei diritti, che solo possono rendere
    prospera la sua sorte futura, rendere e ripartire una maggiore copia
    di beni fra tutti gli italiani, e far cessare quella ineguaglianza
    di diritti, che mantiene miserabile e ignorante la più gran
    parte di loro" (il L. a C. Zoppis, 7 sett. 1847, in Le carte di G.
    Lanza, I, p. 163).
    
    Nel maggio 1846 il L. si recò in Toscana, dove per conto di
    Valerio e di C. Balbo incontrò G. Capponi, G.P. Vieusseux, C.
    Ridolfi, E. Mayer. Nei mesi seguenti assunse una posizione di
    rilievo nelle iniziative volte a incitare il governo a più
    rapide riforme e a spingerlo su posizioni sempre più
    intransigenti nei confronti dell'Austria. Fu lui, alla fine
    dell'agosto 1847, a scrivere l'indirizzo al re col quale si offriva
    all'esercito il concorso di una guardia nazionale e a raccogliere,
    insieme con Valerio e G. Cornero, adesioni a tale documento durante
    il congresso agrario di Casale, finché non intervenne il
    presidente F. Avogadro di Collobiano, che denunciò la vicenda
    a Carlo Alberto provocando la celebre lettera in cui questi
    annunciava il proposito d'intraprendere una guerra d'indipendenza.
    
    In novembre il L. fu tra i fondatori della Concordia, il giornale
    politico voluto da Valerio, da cui si allontanò in dicembre
    per fondare l'Opinione, che, diretto da G. Durando, si
    collocò in una posizione intermedia tra la Concordia e il
    Risorgimento di Balbo e Cavour. La riconciliazione con Valerio
    avvenne il 7 genn. 1848, durante la riunione dei giornalisti
    torinesi all'albergo d'Europa, quando Cavour avanzò la
    proposta di chiedere al re la costituzione e Valerio e il L., decisi
    a restare fedeli alla direttiva giobertiana di evitare passi che
    potessero incrinare i buoni rapporti con Carlo Alberto, rifiutarono
    di aderire alla proposta.
    
    Alla notizia dell'insurrezione di Milano il L. varcò il
    Ticino armato di fucile, impegnandosi tra i volontari nella
    propaganda antimazziniana e filoalbertista. In Lombardia lo
    raggiunse la notizia che tre collegi lo avevano proposto come
    candidato alle prime elezioni del Parlamento subalpino. Fu quello di
    Frassineto a eleggerlo, dando inizio a una carriera politica
    destinata a proseguire ininterrottamente per quattordici
    legislature. Il suo primo collegio lo riconfermò fino al 1874
    (nella VII legislatura in unione con Occimiano, dall'VIII all'XI
    accorpato ad altri collegi, con capoluogo Vignale), quando,
    sconfitto a Frassineto, fu eletto in quello di Torino II, che lo
    riconfermò nelle elezioni del 1876 ma non in quelle del 1880,
    quando si affermò nella sua città.
    
    All'esordio parlamentare militò a sinistra, rivendicò
    il carattere popolare della guerra e in agosto rifiutò la
    carica di primo ufficiale agli Interni che gli offriva l'effimero
    governo presieduto da G. Casati, accettando invece l'incarico di
    commissario straordinario della milizia comunale di Vercelli e
    Casale. Salito al potere V. Gioberti, il L. ne sostenne fortemente
    l'operato, alla Camera e sull'Opinione, e continuò a
    difenderlo anche quando si profilò l'intervento in Toscana
    per restaurare Leopoldo II, che portò alla crisi del
    ministero. Le divergenze insorte con i democratici si accentuarono
    di fronte alla ripresa delle ostilità con l'Austria, che il
    L. non voleva avvenisse senza il concorso degli altri Stati
    italiani. Secondo il Risorgimento, egli era la guida della Sinistra
    moderata che si stava differenziando sempre più dalla
    Sinistra pura di Valerio. Dopo la sconfitta di Novara, trascorsi i
    giorni più difficili in cui il L. lanciò accuse di
    tradimento e invocò la resistenza popolare, tale processo di
    separazione proseguì e si rafforzò con l'ascesa al
    potere di M. d'Azeglio: il L., Cornero e Cadorna, preoccupati che
    l'intransigenza di Valerio mettesse a rischio lo statuto, si
    staccarono dall'opposizione e tra l'estate e l'autunno incontrarono
    più volte gli esponenti del governo.
    
    Chiusosi il biennio rivoluzionario con il trattato di pace, che il
    L. respinse rilevandone il carattere incostituzionale, insieme con
    Rattazzi, Cornero, Cadorna e Buffa fondò il centro-sinistra e
    assecondò l'impegno di d'Azeglio per lo sviluppo del
    liberalismo. Come membro della commissione permanente di Agricoltura
    e commercio e della commissione generale di Bilancio, si
    sobbarcò a un duro lavoro partecipando alla trattazione di
    numerose questioni e affinando la conoscenza dei meccanismi della
    vita statale. Fu per questa via che il L., dopo un iniziale
    scetticismo, si rese disponibile a partecipare al connubio, con il
    quale uomini che avevano un passato di militanza democratica
    facevano il loro ingresso nella classe di governo, aprendo la strada
    ad altri antichi esponenti della democrazia radicale, di ogni parte
    d'Italia, che li seguirono negli anni successivi formando la Destra
    storica.
    
    Il 16 nov. 1853 il L. fu eletto alla vicepresidenza della Camera,
    cui venne riconfermato nella quinta legislatura, durante la quale
    fece parte anche della commissione di Bilancio, di cui fu relatore,
    di quelle di Finanza e del Catasto; inoltre, fu commissario di
    vigilanza della Cassa depositi e prestiti. Grazie a un impegno
    febbrile, sviluppò una grande competenza in queste materie e
    rafforzò l'ascendente sui colleghi. Liberista intransigente,
    marcò il proprio dissenso dal governo sui trattati di
    commercio, ma lo sostenne nei difficili mesi del 1854 e nel 1855,
    quando, convinto che Cavour dovesse restare al potere,
    rifiutò l'incarico ministeriale offertogli da Durando
    all'epoca della crisi Calabiana. Tale coerenza gli valse la stima di
    Cavour, di cui divenne confidente. La loro collaborazione
    iniziò con la preparazione della spedizione in Crimea, quando
    il L. si adoperò per allentare le resistenze della Sinistra e
    fu relatore della commissione che esaminò il trattato di
    alleanza. Il 31 maggio 1855 il L. entrò nel governo Cavour
    come ministro della Pubblica Istruzione. Furono Rattazzi e lo stesso
    Vittorio Emanuele II a vincere le perplessità del L., conscio
    della necessità di cambiare profondamente il sistema
    educativo e adeguare l'università ai livelli europei
    facendone un pilastro dell'ideologia liberale.
    
    Il progetto si scontrò con un bilancio statale critico, che
    costrinse a concentrare le risorse su Torino, e con l'opposizione
    dell'establishment accademico piemontese a uno svecchiamento
    radicale che facesse spazio a scienziati provenienti dagli altri
    Stati italiani e con esperienze di militanza politica e d'esilio,
    come R. Piria e S. Cannizzaro. Per vincere le resistenze, il 12 nov.
    1855 il L. presentò in Senato un progetto di legge sul
    riordinamento dell'amministrazione superiore della Pubblica
    Istruzione, sul quale si aprì un ampio dibattito. Nonostante
    la forte opposizione degli ambienti ecclesiastici, la legge
    entrò in vigore il 22 giugno 1857, rafforzando
    l'autorità del ministro e contribuendo a qualificare in senso
    liberale la condotta del governo. Non giunse in aula, invece, il
    disegno di legge sulla scuola elementare presentato il 10 dic. 1855,
    non meno ambizioso ai fini di una politica di nazionalizzazione: il
    L. dovette limitarsi a far approvare la parte relativa alla
    formazione dei maestri, ma il controprogetto redatto dalla
    commissione parlamentare confluì nella legge Casati, che
    inoltre disegnò l'apparato amministrativo della scuola
    italiana plasmandolo sul modello della legge del 1857.
    
    Nel gennaio 1858, all'uscita di Rattazzi dal governo, il L. ebbe la
    reggenza del ministero delle Finanze, in cui si era già
    impegnato per brevi periodi nel 1855 e nel 1856 in sostituzione di
    Cavour. Ciò non fu senza conseguenze: l'astio di Rattazzi
    verso il conte si estese anche al L., il quale, intanto, si
    addossava un enorme lavoro, fino a che, in ottobre, ottenne la
    titolarità delle Finanze e cedette il dicastero
    dell'Istruzione a Cadorna. Dopo aver sostenuto una dura battaglia
    durante la discussione del bilancio preventivo del 1859, il L.,
    d'accordo con Cavour, per appianare le difficoltà finanziarie
    e approntare le risorse necessarie alla realizzazione degli accordi
    di Plombières varò un prestito interno di 50 milioni
    di lire. L'operazione, non priva di rischi, ottenne un notevole
    successo, che assunse anche un chiaro significato politico
    dimostrando il consenso che il governo riscuoteva presso i ceti
    medi.
    
    Non meno ardito fu il salvataggio della Banca nazionale sarda, in
    condizioni critiche per l'eccessiva esposizione verso il Credito
    mobiliare, che lo stesso L. aveva dovuto liquidare, e per i forti
    acquisti e le numerose anticipazioni su azioni e obbligazioni
    ferroviarie. L'operazione fu realizzata con l'assunzione da parte
    dello Stato della proprietà di alcune linee ferroviarie,
    lasciando libera la conversione tra azioni e titoli del debito
    pubblico.
    
    Dimissionario col resto del ministero dopo l'armistizio di
    Villafranca, il L. non entrò nel nuovo governo Cavour, ma il
    10 apr. 1860 venne candidato dal conte alla presidenza della Camera
    in contrapposizione a Rattazzi. Fu un'elezione contrastata, per
    l'ostilità che circondava Cavour da quando si era diffusa la
    notizia dell'intenzione di cedere Nizza e Savoia, e per i rancori
    personali e la fama di eccessiva rigidità che il L. si era
    acquistato durante la permanenza al governo.
    
    Sul seggio presidenziale il L. non fece nulla per smentire tale
    opinione, guadagnandosi quel nomignolo di "carabiniere" che gli
    rimase cucito addosso, in cui si riflettevano certe sue asprezze
    caratteriali ma anche le esigenze di una fase del tutto
    straordinaria, che richiedeva l'assimilazione delle regole della
    vita parlamentare da parte della nuova classe politica, il
    consolidamento delle istituzioni rappresentative e lo sviluppo
    dell'azione governativa in tempi rapidi. Benché non avesse
    approvato l'impresa dei Mille, temendo il rischio di una guerra
    civile e di un'estensione internazionale del conflitto, in
    qualità di presidente della Camera accolse il re Vittorio
    Emanuele II a Napoli. Da quel viaggio il L. trasse la convinzione
    che gli ordinamenti costituzionali non sarebbero bastati per
    governare le nuove province e che fosse necessaria una sorta di
    dittatura per "rigenerare civilmente e politicamente gl'italiani del
    Sud" (il L. a Cavour, 8 dic. 1860, in Tavallini, I, p. 253).
    
    Tornato semplice deputato con l'inizio della nuova legislatura per
    favorire un riavvicinamento tra Rattazzi e Cavour, alla morte di
    quest'ultimo il L. era ormai uno dei capi della Destra, ma,
    preoccupato per l'emergere delle divisioni regionali tra i partiti,
    attonito di fronte ai fatti di Aspromonte, si occupò
    soprattutto di questioni finanziare e amministrative e presiedette
    la commissione d'inchiesta sulle Ferrovie meridionali, che per la
    prima volta mise in luce i pericolosi legami tra deputati e ambienti
    affaristici. Al governo ritornò in condizioni difficilissime
    il 27 sett. 1864, dopo i tumulti avvenuti a Torino il 21 e 22 in
    seguito alla notizia della perdita del ruolo di capitale. Costretto
    alle dimissioni M. Minghetti, che alcuni giorni prima aveva proposto
    al L. di entrare nel ministero, l'incarico di formare un nuovo
    governo cadde su A. Ferrero della Marmora, che affidò al L.
    il dicastero dell'Interno.
    
    Pur riconoscendo come inopportuno e dannoso il trasporto della
    capitale, il L. presentò la convenzione di settembre come un
    passo verso la soluzione della questione romana e insistette sul
    fatto che essa non conteneva una rinuncia a Roma e che il ritiro
    delle truppe francesi apriva la via ad accordi diretti col papa non
    escludendo la possibilità che i Romani prendessero
    l'iniziativa. In novembre la convenzione fu approvata e in dicembre
    poté essere promulgata la legge per il trasporto della
    capitale, ma il risentimento per l'abbandono di Torino indusse la
    maggioranza dei deputati piemontesi a costituire l'Associazione
    liberale permanente, decisa a difendere gli interessi della regione
    e a combattere qualsiasi governo che non avesse perseguito
    l'obiettivo di Roma capitale.
    
    Il clima politico infuocato sortì tuttavia l'effetto di
    accelerare la fine dell'incertezza legislativa e amministrativa in
    cui versava il Paese. Il L. e il guardasigilli G. Vacca presentarono
    due disegni di legge per autorizzare il governo a rendere esecutivo
    con semplice decreto un ampio pacchetto di provvedimenti quasi tutti
    ancora in discussione nelle commissioni e mai giunti in aula.
    
    L'approvazione del disegno di legge Lanza subì però un
    iter diverso. Ministro e commissione parlamentare si accordarono per
    la presentazione di sei nuove leggi come allegati di un'unica
    brevissima legge: una sorta di voto in blocco del corpus normativo
    fondante il nuovo ordinamento amministrativo, che all'epoca
    sollevò più di una perplessità sulla
    legittimità costituzionale della procedura: ancora oggi
    è oggetto di discussione se la delega ottenuta dal governo
    segnò il tramonto dell'illusoria centralità delle
    Camere o fu piuttosto una temporanea cessione di sovranità da
    parte di un Parlamento consapevole dei suoi limiti. I lunghi e
    sterili conflitti in cui si erano impantanati Camera e Senato negli
    anni precedenti facilitarono infatti il compito dell'esecutivo e
    dopo solo tre mesi di discussione un Parlamento demotivato e stanco
    cedette: la legge di unificazione amministrativa, destinata a
    diventare un perno della legislazione italiana, venne promulgata il
    20 marzo 1865.
    
    Completata l'inchiesta sui fatti di Torino, il L. dovette affrontare
    un altro difficile tornante: aiutato dal presidente della Camera,
    G.B. Cassinis, radunò nella sua abitazione i principali
    deputati piemontesi per persuaderli a non sollevare discussioni e si
    accordò con B. Ricasoli per un ordine del giorno che
    troncò ogni polemica, ma sottovalutò la portata del
    risentimento popolare e non impedì lo svolgimento del
    tradizionale ballo a corte per il carnevale, che fornì
    l'occasione a una parte della cittadinanza di dimostrare
    l'ostilità verso lo stesso sovrano. Il L. offrì le sue
    dimissioni, subito respinte, ma dovette impegnarsi in una difficile
    mediazione tra la corte e il Consiglio comunale. Ad avvicinare il L.
    a Vittorio Emanuele II fu, in quei mesi, il suo coinvolgimento nella
    diplomazia parallela del sovrano per la preparazione di
    un'insurrezione popolare in Veneto e in Dalmazia, poi abbandonata
    quando fu stretta l'alleanza con la Prussia.
    
    Fino ad allora il L. aveva avuto un peso notevole nella compagine
    ministeriale; la situazione si modificò di fronte alla
    questione romana. Irritato per il modo con cui il governo aveva
    lasciato fallire la missione di F.S. Vegezzi e per il ritiro del
    progetto Vacca-Sella sulla soppressione degli ordini religiosi, il
    L. si attirò l'ostilità delle correnti laiche e
    progressiste e si trovò sempre più isolato. Infatti,
    per quanto piemontese, egli non entrò mai nella Associazione
    permanente e mantenne una certa equidistanza rispetto alle divisioni
    regionali, auspicando il ricompattamento dei partiti intorno a
    principî generali. A queste idee si ispirava una sorta di
    avvertimento agli elettori, scritto da d'Azeglio e promosso dal L.
    in vista delle elezioni politiche ormai imminenti, che egli
    però non poté organizzare: rassegnò le
    dimissioni il 22 ag. 1865, dopo uno scontro con Sella, che aveva
    nominato a segretario delle Finanze G. Finali, uomo della
    Consorteria tosco-romagnola e amico di Minghetti.
    
    Il L. intervenne ancora contro il malcostume politico durante la
    discussione della legge sulle incompatibilità parlamentari,
    ma si concentrò soprattutto sulla situazione delle Finanze,
    come presidente della commissione per i provvedimenti finanziari e
    membro della commissione di Bilancio. Nel novembre 1867 L.F.
    Menabrea, che aveva assunto il governo dopo le dimissioni di
    Rattazzi, per dividere l'opposizione fortemente mobilitata di fronte
    agli errori che avevano portato al disastro di Mentana, propose alla
    presidenza della Camera il L., che non aveva approvato la politica
    rattazziana e che, pur non essendo un seguace del governo, non gli
    era ostile. Il 9 dic. 1867 il L. fu eletto contro Rattazzi,
    candidato della Sinistra, e nel suo discorso di insediamento
    replicò alla presa di posizione del ministro francese E.
    Rouher, che aveva fermamente negato il diritto dell'Italia su Roma.
    Tale presidenza non sarebbe durata a lungo: il 6 ag. 1868 il L.
    abbandonò il suo seggio per pronunciare un durissimo discorso
    contro la legge istitutiva della Regìa cointeressata dei
    tabacchi voluta dal ministro L.G. Cambray Digny. La Regìa fu
    approvata e il L. si dimise dalla presidenza, ma dalla discussione
    era emerso un nuovo schieramento delle parti politiche: si
    pronunciarono infatti contro la convenzione la Permanente, il L.,
    Sella e i loro seguaci, il gruppo rattazziano e la maggioranza della
    Sinistra.
    
    Si trattava di forze molto eterogenee, che però si erano
    già espresse congiuntamente contro il macinato e le
    operazioni di credito del governo e, più in generale, si
    opponevano a una condotta politica che subiva fortemente le
    influenze della corte. La votazione aveva inoltre aggravato la
    frattura fra i due più forti gruppi della Destra, i
    piemontesi e i toscani. Menabrea venne così a trovarsi in
    serie difficoltà nel novembre seguente, quando le voci
    circolanti sulla corruzione di alcuni deputati che avevano votato in
    favore della Regìa furono rilanciate dalla stampa di
    sinistra. La questione si trascinò nei mesi seguenti, tra
    vari colpi di scena, senza scalfire la stretta compenetrazione tra
    capitalismo bancario e affaristico e ceto politico, ma logorò
    il governo.
    
    Il 19 nov. 1869 le forze che si erano opposte alla Regìa
    riuscirono a eleggere il L. alla presidenza della Camera contro il
    candidato governativo A. Mari. Il giorno dopo Menabrea si dimise,
    aprendo una lunga crisi, resa difficile dall'atteggiamento del re,
    che si era fortemente esposto, e dall'impossibilità di
    fondare un nuovo governo con la maggioranza che aveva eletto il
    Lanza. Vittorio Emanuele II cercò finché poté
    di evitare di conferire l'incarico al L., il quale, del resto, non
    intendeva far leva sulla maggioranza prevalentemente di sinistra che
    lo aveva votato, dalla quale non voleva essere dominato e da cui lo
    separava anche la convinzione della necessità di aumentare la
    pressione fiscale per raggiungere il pareggio. Lo stesso gruppo
    piemontese era tutt'altro che compatto, dato che il L. e Sella erano
    rivali tra loro ed erano stati spesso in contrasto con la
    Permanente. All'inizio di dicembre il L. rinunciò a
    costituire il governo, ma il fallimento dell'incarico a E. Cialdini
    e poi a Sella lo mise in condizione di riprovare e di riuscire.
    
    Il nuovo governo entrò in carica il 14 dic. 1869, composto
    dal L. (presidenza e Interno), Sella (Finanze), E. Visconti Venosta
    (Esteri), G. Govone (Guerra), M. Raeli (Giustizia), C. Correnti
    (Istruzione), G. Gadda (Lavori pubblici), S. Castagnola
    (Agricoltura, industria e commercio), cui si aggiunse, l'8 genn.
    1870, G. Acton (Marina): negli uomini, quasi tutti di origine
    settentrionale, rappresentava quanto di nuovo e di avanzato poteva
    esprimere il grande partito liberale moderato, sebbene si
    presentasse piuttosto in nome delle proprie idee che di un partito,
    capace di garantire la continuità della linea della Destra in
    politica estera e in politica finanziaria e al tempo stesso di porre
    fine all'eccessiva faziosità verso la Sinistra costituzionale
    che aveva caratterizzato il governo Menabrea. Inoltre, il L.
    costrinse Vittorio Emanuele II a limitare le interferenze del
    partito di corte, ottenendo il licenziamento di F.A. Gualterio da
    ministro della Real Casa e il ritiro di Menabrea e Cambray Digny
    dagli incarichi che avevano presso la Casa militare e civile del re.
    
    Il 15 dicembre il L. presentò il governo alla Camera
    evidenziando la centralità del problema finanziario e
    ribadendo una linea moderata in tutte le altre questioni, ma il
    Sella chiese misure gravi e impietose, che urtarono la maggioranza.
    Fu Minghetti, ispirato dagli ambienti di corte, a soccorrere il
    governo con una manovra che indebolì il L. il quale, accusato
    dai giornali di essere stato salvato dalla Consorteria, attaccato
    anche dalla Sinistra e da Rattazzi, cadde in una profonda crisi
    morale. Le sue difficoltà si acuirono in maggio e in giugno,
    quando scoppiarono in varie parti d'Italia i tentativi
    insurrezionali mazziniani. Messo sotto accusa dalla Consorteria che
    puntava a sostituirlo con Minghetti, il L. ricevette un aiuto dalle
    tensioni scoppiate tra Francia e Prussia: il 25 luglio 1870, a
    guerra dichiarata, il dibattito parlamentare sulla situazione
    dell'ordine pubblico non poté che riconfermare il suo
    operato.
    
    D'altra parte, la crisi internazionale indusse il L. a moltiplicare
    gli sforzi contro l'organizzazione repubblicana: il 12 agosto
    Mazzini, appena sbarcato a Palermo, fu arrestato e trasferito a
    Gaeta, dove restò imprigionato fino al 14 ott. 1870, quando
    fu liberato in seguito all'amnistia decretata per la presa di Roma.
    
    Nel frattempo altri motivi di preoccupazione erano venuti al L.
    dall'apertura del concilio Vaticano I (8 dic. 1869), rispetto al
    quale il governo aveva cercato di rinforzare la corrente
    antinfallibilista, e, su un altro fronte, dalla politica personale
    di Vittorio Emanuele II a sostegno di un'alleanza tra Vienna, Parigi
    e Firenze in funzione antiprussiana. Le trattative si erano arenate
    di fronte alle richieste italiane per Roma, ma lo scoppio della
    guerra e la richiesta d'aiuto partita da Napoleone III riproposero
    la questione, nonostante il governo si fosse subito proclamato
    neutrale. Visconti Venosta seppe prendere tempo, tenendo in sospeso
    le offerte francesi fino a quando le vittorie prussiane di inizio
    agosto costrinsero il re e i militari che più si erano
    impegnati per l'alleanza con la Francia a recedere dalle loro
    posizioni. Ciononostante, per tutto agosto Vittorio Emanuele II
    continuò a esprimere la propria ostilità al governo,
    tanto da indurre il L. a presentare il 7 settembre le dimissioni,
    che tuttavia furono respinte.
    
    Il ritiro delle truppe francesi accelerò la ricerca di una
    soluzione della questione romana: di fronte al pericolo di colpi di
    mano di matrice garibaldina o repubblicana, il governo si
    cautelò inviando un forte contingente sul confine del Lazio
    al comando di R. Cadorna e chiedendo al Parlamento uno stanziamento
    straordinario di 40 milioni di lire per spese militari. Alla Camera,
    riconvocata d'urgenza il 16 agosto, il L. difese l'operato di
    Visconti Venosta dagli attacchi della Sinistra dichiarando che il
    governo avrebbe approfittato di ogni circostanza per risolvere la
    questione romana, ma escludendo il ricorso a mezzi rivoluzionari. Il
    20 agosto la Camera approvò un ordine del giorno di fiducia
    al governo con una formula che ribadiva le aspirazioni nazionali su
    Roma, ma senza rassicurare la Sinistra, che minacciò di
    dimettersi in massa. A questo punto, con Sella deciso a lasciare
    qualora il governo non avesse mantenuto l'impegno, il L. fu
    costretto a premere su Visconti Venosta, che con molte cautele stava
    avviando la preparazione diplomatica di un'eventuale occupazione
    dello Stato pontificio.
    
    Il Consiglio dei ministri prese per base di future trattative con il
    pontefice il progetto di sistemazione preparato da Cavour e diede
    ampie informazioni in proposito ai rappresentanti italiani
    all'estero. Il 3 settembre, alla notizia della sconfitta francese di
    Sedan, la Sinistra rinnovò la minaccia di dimissioni in massa
    e una forte agitazione percorse l'opinione pubblica del Paese, ma il
    Consiglio dei ministri respinse la proposta di Sella e Castagnola di
    procedere all'occupazione dello Stato pontificio. Il giorno
    successivo la proposta, avanzata dal L., fu approvata nonostante i
    voti contrari di Visconti Venosta, Acton e Govone, ma prevalse
    l'opinione di non estendere l'occupazione alla città di Roma.
    Solo il 5 settembre, quando si seppe che in Francia era stata
    proclamata la repubblica, si decise all'unanimità di occupare
    anche Roma, previo un ultimo tentativo di accordo con Pio IX
    affidato a G. Ponza di San Martino, mentre Visconti Venosta inviava
    una nuova circolare ai rappresentanti italiani in cui giustificava
    la decisione con la necessità di garantire la sicurezza
    dell'Italia. Il 20 settembre, fallita la missione di Ponza di San
    Martino e anche l'ultimo tentativo di evitare il ricorso alle armi
    fatto dal ministro prussiano a Roma, la fanteria e i bersaglieri
    entrarono in Roma. Il ministero diede però l'impressione di
    essere stato incerto fino all'ultimo, meritandosi gli icastici versi
    carducciani su "L'Italia grande e una" che andava nottetempo a Roma
    "perché il dottor Lanza teme i colpi di sole".
    
    La presa di Roma non diminuì le tensioni all'interno della
    compagine governativa: il L. e Sella si scontrarono sui tempi
    dell'andata a Roma del re (che il primo voleva avvenisse solo dopo
    la sistemazione dei rapporti col papa) e sulla decisione del secondo
    di candidarsi alle elezioni come rappresentante della Città
    eterna: a tale proposito Sella rinunciò quando il L.
    minacciò nuovamente di dimettersi.
    
    Dopo lo svolgimento del plebiscito per l'annessione, che fu esteso
    alla Città leonina, e il fallimento delle trattative col
    cardinale G. Antonelli, il 20 nov. 1870 si svolsero le elezioni
    politiche generali. Il governo si presentò con un programma
    che era il risultato del suo carattere composito e non si prestava a
    favorire un nuovo e più chiaro schieramento dei partiti che
    anche il L. auspicava. Al tempo stesso, però, il governo si
    riaffermava come punto di riferimento insostituibile per coloro che
    erano convinti della necessità di chiudere le grandi
    questioni ancora aperte e avviare una nuova fase nella vita del
    Paese. Le elezioni, in cui per la prima volta non si verificarono
    forti interferenze governative, cosicché lo stesso presidente
    del Consiglio fu costretto a ricorrere al ballottaggio, furono
    caratterizzate da una bassissima affluenza e portarono alla Camera
    ben 184 nuovi deputati, che sedettero in prevalenza al Centro e
    contribuirono a rendere ancor più sfumate le distinzioni tra
    i partiti. Anche questo era il segno di una svolta che il governo L.
    si assunse il compito di portare a compimento, sebbene la Sinistra
    passasse in blocco all'opposizione, di cui si fece portavoce
    Rattazzi.
    
    Il 9 dicembre il L. presentò tre disegni di legge relativi
    alla conversione in legge del decreto di accettazione del plebiscito
    romano, al trasporto della capitale a Roma, alle garanzie di
    indipendenza del papa e del libero esercizio dell'autorità
    spirituale da parte della S. Sede. Nella discussione della legge
    delle guarentigie il L., seguace del principio cavouriano della
    "libera Chiesa in libero Stato", accettò le modifiche
    introdotte dalla commissione incaricata di studiare i punti
    più controversi, che limitò il separatismo del
    progetto originario introducendo alcune restrizioni
    giurisdizionalistiche. Il testo finale, approvato il 2 maggio 1871,
    per quanto respinto da Pio IX, regolò i rapporti tra il
    governo e la S. Sede, nonostante l'assenza di rapporti ufficiali tra
    le due parti, e fu un punto di riferimento costante della politica
    estera italiana.
    
    Per il suo operato, il L. ricevette nell'ottobre 1870 il collare
    dell'Annunziata, la massima onorificenza sabauda, che lo poneva in
    una sfera di particolare vicinanza al re. Il governo poté
    contare su un periodo di relativa tranquillità politica, che
    Sella utilizzò per combattere il disavanzo dello Stato, ma
    dovette affrontare una recrudescenza di criminalità che,
    sommandosi al diffuso malcontento popolare, rese esplosiva la
    situazione in alcune province. Nel marzo 1871 il L. presentò
    una serie di provvedimenti sulla pubblica sicurezza ispirati da una
    logica di stretta difesa dell'ordine che non teneva presente la
    richiesta di un nuovo rapporto tra il cittadino e lo Stato posta dal
    diffondersi di organizzazioni politiche anche fra i ceti
    medio-bassi. La ricerca di una parziale risposta a queste esigenze
    era invece alla base dei progetti di riforma amministrativa del L.,
    che stava studiando per correggere gli aspetti più negativi
    dell'ordinamento centralistico e gerarchico adottato nel 1865 (e che
    già il 15 marzo 1870 aveva presentato una proposta di riforma
    della legge comunale e provinciale, poi ritirata). Ribadita
    l'intenzione di attuare una riforma amministrativa nel programma
    elettorale, il L. nominò una commissione per studiare il
    problema. Fu un lavoro importante, di cui egli tenne conto quando,
    il 1° dic. 1871, propose un nuovo ddl per modificare
    l'ordinamento comunale e provinciale. Pur riproducendo
    sostanzialmente i progetti dell'anno precedente, il L. aggiunse
    alcune innovazioni, quali la concessione del voto amministrativo ai
    corpi collettivi e alle donne, pensando di attuare così il
    massimo di decentramento possibile per i tempi; anche questo
    progetto, però, fu criticato sia a destra, sia a sinistra e
    venne definitivamente respinto dalla commissione incaricata di
    esaminarlo. Né ebbe maggiore fortuna il progetto di legge sul
    riordino della guardia nazionale, che decadde con la fine della
    legislatura; e il L. non riuscì a risolvere neppure le
    carenze della legge sulla sanità pubblica, di cui era
    chiaramente consapevole. Ormai la forza propulsiva del governo
    andava esaurendosi, come dimostrò la vicenda della legge
    sulla scuola preparata da Correnti.
    
    La riforma, che prevedeva l'abolizione della figura del direttore
    spirituale, fu sostenuta dalla Sinistra e ostacolata dalla Destra.
    Il governo si trovò così in una posizione ambigua,
    dalla quale uscì solo con il ritiro del progetto e le
    dimissioni di Correnti, cui il L. associò le sue e che furono
    nuovamente respinte. Le difficoltà del governo si accrebbero
    a causa di alcuni incidenti politici a sfondo regionale, suscitati
    dalla condotta del prefetto di Napoli e dalla vicenda dell'arsenale
    di Taranto, che costarono al L. pesanti accuse di
    antimeridionalismo.
    
    Tuttavia, al governo spettò ancora il compito di varare la
    legge sulle corporazioni religiose e la liquidazione dell'asse
    ecclesiastico in Roma, che aveva un riflesso internazionale non
    trascurabile poiché nella capitale risiedevano gli organi
    centrali o i rappresentanti presso il papa degli ordini religiosi,
    molti dei quali avevano all'estero la maggior parte delle loro case
    e dei loro membri. La legge, che provocò forti discussioni,
    fu approvata il 27 maggio 1873.
    
    Pochi giorni dopo moriva Rattazzi: il L. perdeva un avversario
    personale, ma la Destra non aveva più motivo di volere a
    tutti costi un governo Lanza per evitare il rischio che Rattazzi
    tornasse al potere. Respinte le proposte di quanti lo invitavano a
    cercare un compromesso con la Sinistra, d'accordo con Sella il L.
    decise di cadere in Parlamento sui provvedimenti finanziari
    necessari per evitare che le maggiori spese richieste dalla riforma
    dell'esercito facessero fallire il programma di risanamento. Il 25
    giugno 1873, un ordine del giorno accettato dal ministero che
    chiedeva l'immediata discussione dei provvedimenti finanziari fu
    respinto dalla Camera, in cui ben 257 deputati erano assenti. Il
    governo diede le dimissioni e il L. si adoperò per facilitare
    la nascita del nuovo ministero guidato da Minghetti.
    
    Uscito dal governo, il L. assunse una posizione defilata, pur
    godendo di un notevole prestigio personale. La fase calante della
    sua carriera politica fu però angustiata da una serie di
    denunce sul suo operato come ministro e presidente del Consiglio. Le
    accuse più gravi riguardarono l'esistenza di dossier
    personali sui capi dell'opposizione e l'intervento contro D. Tajani,
    procuratore generale presso la corte d'appello di Palermo; ma non
    minori amarezze costò al L. il ricorrente sospetto di essersi
    sempre opposto alla conquista di Roma. Emarginato anche da Sella e
    Minghetti, che tentarono di ricostruire le file della Destra dopo il
    1876, si impegnò nella vita politica locale lottando contro
    la diffusione delle risaie e per la tutela della salute pubblica;
    presiedette l'Associazione costituzionale, sorta a Torino per
    difendere le istituzioni statutarie, e fondò un'analoga
    organizzazione a Casale. Le sue apparizioni alla Camera furono
    però sempre più rare, anche a causa di crescenti
    difficoltà finanziarie. Nel 1882, benché malato, volle
    essere presente in Parlamento in occasione della discussione di un
    nuovo progetto di legge comunale e provinciale. Per pagare le spese
    del viaggio fu costretto a vendere l'ultima coppia di buoi rimasta a
    Roncaglia.
    
    Il L. morì a Roma il 9 marzo 1882, in una stanza d'ammezzato
    dell'albergo New York.
    
    Al vice parroco di San Lorenzo in Lucina, che lo sollecitava a
    ritrattare in punto di morte quanto aveva commesso contro la
    religione e le leggi della Chiesa, il L. non rispose.