Jacini, Stefano

 

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di Giuseppe Ignesti

Nacque a Milano, il 3 nov. 1886, da Giovanni Battista e da Carolina Cavi, primo di sei figli, in una famiglia della più cospicua nobiltà (dal 1880) agraria lombarda, nipote dell'omonimo politico ed economista risorgimentale, più volte ministro dei Lavori pubblici, il quale aveva legato il suo nome alla grande inchiesta agraria del 1877-84.

Studiò a Milano e a Genova, e presso l'Università della città ligure si laureò in giurisprudenza nel 1908. L'anno seguente sposò Elisabetta dei principi Borromeo Arese, dalla quale ebbe il figlio Giovanni.

Tuttavia, fin d'allora lo J. si mostrò attratto più che dalla carriera forense dagli studi filosofici - subendo il fascino del pensiero di P. Martinetti, del quale seguì le lezioni universitarie - e dagli studi storici, cui prevalentemente finì per dedicarsi.

Sua guida spirituale negli anni giovanili fu A. Ratti, il futuro Pio XI, allora dottore all'Ambrosiana, il quale, a cavallo del secolo, frequentava casa Jacini, dove era stato introdotto dagli amici Gallarati Scotti. Al periodo degli studi universitari risale la frequentazione e l'amicizia con i padri barnabiti G. Semeria e P. Gazzola.

Fu per influsso di questi ultimi, ma soprattutto del secondo, che, nel 1906, lo J. prese parte all'iniziativa, promossa da T. Gallarati Scotti, A. Casati, A.A. Alfieri e U. Pestalozza, di dar vita alla rivista di cultura religiosa, Il Rinnovamento.

Questa si proponeva un programma appunto di rinnovamento religioso e civile, riprendendo temi e progetti che nei decenni precedenti erano stati al centro degli interessi di uomini e ambienti del cattolicesimo liberale. L'apporto del giovane J., il quale pure non figurava fra i direttori, fu di primo piano, sia con i suoi scritti, sia procurando corrispondenti e contatti per tutta Europa. Coinvolta nella crisi modernista, la rivista cessava tuttavia le pubblicazioni nel dicembre 1909.

L'amicizia della famiglia con mons. G. Bonomelli avvicinò lo J. anche alle iniziative religiose e sociali promosse dall'Opera di assistenza agli emigranti, fondata dallo stesso Bonomelli, rendendolo esperto dei complessi problemi legati all'emigrazione.

Nel gennaio 1911, con l'elezione a consigliere comunale di Milano nella lista costituzionale e moderata, lo J. dette inizio al suo impegno diretto nella vita politica; mancata la rielezione alle amministrative del giugno 1914, divenne però, quello stesso anno, consigliere provinciale per il mandamento di Vimercate, incarico che conservò fino al 1919. Considerato, nonostante la giovane età, esponente di primo piano dell'ambiente cattolico milanese, nel 1914 venne chiamato a far parte del consiglio di vigilanza de L'Italia, autorevole quotidiano cattolico del capoluogo lombardo.

Allo scoppio della prima guerra mondiale, dopo un'iniziale scelta neutralista, lo J. si persuase della necessità di aderire alla guerra, intesa come scelta unitaria del paese per il compimento della stagione risorgimentale; richiamato alle armi quale ufficiale di complemento in cavalleria, fu destinato all'ufficio degli Affari civili istituito presso il comando supremo.

Partecipò agli eventi bellici sia in missioni che, dalla sede del comando in Udine, lo portarono a ispezionare gli avamposti sul fronte, sia come ufficiale di stato maggiore presso la 4ª divisione alpina "Farisoglio", sul Monte Nero. Partecipò, quindi, a Verona a un corso di stato maggiore, durante il quale conobbe, tra gli altri, G. Gronchi e F. Parri. Inviato di nuovo ai reparti operativi dopo la disfatta di Caporetto, dal 1917 fino al termine del conflitto prestò servizio al Montello, quale ufficiale di collegamento tra le truppe italiane e il XIV corpo di armata britannico. Nel corso della guerra ottenne una medaglia e due croci di guerra al valore, nonché un'onorificenza britannica.

Congedato, tornò alla vita pubblica, accogliendo l'appello di don L. Sturzo ai "liberi e forti": nella militanza nel Partito popolare italiano (PPI) lo J. vide realizzarsi quasi una naturale confluenza delle tradizioni familiari, cattoliche e liberali, con le sue personali inclinazioni per una più diretta azione a vantaggio delle classi popolari. In un primo momento lo J. partecipò anche alla vita dell'associazione milanese Religione e patria, di indirizzo moderato e conservatore, formatasi intorno a C.O. Cornaggia Medici, ma finì con lo staccarsene quando, alle elezioni generali del maggio 1921, questa aderì formalmente al Blocco nazionale, in aperta concorrenza con la lista popolare.

Alieno dalle posizioni politiche estreme, nell'ambito del PPI lo J. sostenne una linea moderata di centro, condividendo gli indirizzi del segretario politico Sturzo; contrastò, quindi, sia le posizioni conservatrici e clericali della destra cattolica, sia le iniziative delle correnti più radicali della sinistra popolare, in particolare del sindacalismo "bianco" che faceva capo a G. Miglioli. Fu tra i fondatori delle sezioni di Milano, Como e Varese del PPI, e prese parte, come delegato lombardo, al I congresso nazionale (Bologna, 14-16 giugno 1919): scrivendo di quel congresso, lo J. riconosceva e sottolineava l'acume politico di Sturzo nel volere un partito interclassista, di mediazione sociale, proprio mentre sembrava dominare la scena politica italiana l'estremismo socialista.

Anche a livello locale, a Milano, lo J. sostenne sempre tale linea moderata, attenta a mantenere la specifica fisionomia politica del partito, laica, pur nell'ispirazione religiosa, e autonoma rispetto ad altre formazioni ecclesiali, sociali e politiche. Di tale scelta "centrista" diede prova fin dalla formazione delle liste per le prime elezioni politiche del dopoguerra, mostrandosi favorevole alla predisposizione di liste "aperte", che consentissero di raccogliere consensi da quegli ambienti cattolici e moderati che, pur non aderendo al partito, fossero tuttavia a esso vicini. Questo indirizzo incontrò l'approvazione della direzione nazionale che appoggiò la linea tattica sostenuta dallo J., facendo rientrare la lista "aperta" milanese tra le poche eccezioni ammesse alla regola nazionale, più intransigente.

Alle elezione del 16 nov. 1919, lo J. fu eletto nel collegio di Como, con 60.672 voti. Sin da allora pose al centro della sua attività parlamentare soprattutto problemi di politica estera, in particolare quelli connessi con l'emigrazione, con l'attuazione - da parte dell'Italia - di una concreta linea politica mirata al ristabilimento di una pace duratura in Europa e nel Mediterraneo, e lavorando alla realizzazione di costanti iniziative per la costituzione di una organizzazione internazionale "bianca".

In questo quadro, nell'agosto-settembre 1921, prese parte al viaggio compiuto in Germania da Sturzo, A. De Gasperi, R. Ruffo della Scaletta e dal giornalista F. Bianco, allo scopo di allacciare, in nome del PPI, rapporti con il Partito cristiano del Centro; e in tal senso orientò pure la sua partecipazione al II congresso nazionale del partito (Napoli, 8-11 apr. 1920).

Presentatosi alle elezioni politiche del 1921 come capolista popolare nella circoscrizione di Como, fu confermato con il più alto numero di preferenze, grazie anche all'aiuto del quotidiano cattolico comasco L'Ordine. Membro della commissione per gli Affari esteri della Camera, fece parte anche della commissione parlamentare di vigilanza sul fondo dell'emigrazione, nella quale svolse le funzioni di segretario.

Sul tema dell'emigrazione, rimasto centrale nella sua attività parlamentare, continuò a lavorare anche nell'ambito del partito: al III congresso (Venezia, 20-23 ott. 1921) fece approvare un ordine del giorno nel quale si ribadiva come doverosa da parte dello Stato la funzione di proteggere e tutelare l'emigrazione nazionale, considerata "fenomeno fondamentale e per certi aspetti decisivo della nostra odierna situazione economica". Al congresso di Torino dell'aprile 1923 - in cui vennero al pettine i nodi dei rapporti tra popolari e fascismo - riuscì a far mettere l'emigrazione tra i punti centrali del programma. Per affrontare realisticamente il problema nei termini in cui si presentava al momento, tenendo conto del nuovo clima di chiusura dei principali mercati mondiali, lo J. proponeva che l'Italia agisse soprattutto: sulla riforma del Commissariato dell'emigrazione nel senso di uno snellimento delle procedure con l'abrogazione delle norme amministrative introdotte negli anni della guerra; sulla introduzione, anche in Italia, dell'istituto della doppia cittadinanza; sull'affidamento a iniziative private, con particolare riguardo alle congregazioni religiose e alle opere di assistenza, delle scuole italiane all'estero, previo il solo controllo esterno dello Stato.

Eletto per la terza volta nel collegio di Como il 6 apr. 1924, all'indomani della crisi politica seguita al delitto Matteotti lo J. fu tra quanti non si trovarono d'accordo con la scelta secessionista dell'Aventino, in quanto riteneva che il Parlamento fosse, nonostante tutto, l'unica sede idonea ove discutere la difficile situazione politico-istituzionale maturata nel paese con l'ascesa del fascismo.

Egli, infatti, considerava la protesta dell'Aventino, in linea di principio moralmente giusta, debole proprio sul piano politico in quanto inefficace sia a rappresentare una valida alternativa politico-parlamentare al governo Mussolini, sia a suscitare nel paese il vasto consenso popolare necessario a sostenere tale alternativa.

Partecipò, tuttavia, con spirito di disciplina, alle varie iniziative promosse dai partiti aderenti alla secessione aventiniana e il 30 nov. 1924, a Milano, fu presente alla prima adunanza del Comitato delle opposizioni dell'Alta Italia in rappresentanza dei popolari. Sperò che Vittorio Emanuele III avrebbe preso l'iniziativa per ricondurre la lotta politica al rispetto dello statuto e delle leggi costituzionali e fu tra i 54 firmatari del messaggio indirizzato al re, il 6 giugno 1925, dai deputati costituzionali dell'opposizione.

Perdurando il clima di grave violazione delle libertà pubbliche, il 24 dic. 1925 lo J., anche per non arrecare danno con la sua presenza a quanto si era ottenuto in favore degli emigranti, fu costretto a rassegnare le dimissioni da vicepresidente generale e da membro del consiglio direttivo dell'Opera Bonomelli, che andava affiancandosi al regime. Deluso dal comportamento passivo del sovrano, fu tuttavia tra quanti spinsero per il ritorno dell'opposizione in Parlamento, concretizzatosi, l'8 genn. 1926, con la decisione del direttorio del gruppo parlamentare popolare di porre termine alla secessione.

Lo J. prese quindi parte al tentativo di rientrare in aula, il successivo 16 gennaio, in occasione della solenne seduta dedicata alla commemorazione della regina Margherita; come gli altri deputati popolari presenti in Parlamento, fu fatto segno ad atti di violenza da parte dei colleghi fascisti riportando una ferita al naso.

Lo J. non cessò, comunque, di partecipare alla lotta politica, sia pure nelle forme permesse dalle particolari circostanze.

Fece parte dell'organismo collegiale - la cosiddetta "pentarchia" - nominato dal Consiglio nazionale alla direzione del PPI dopo le dimissioni di De Gasperi da segretario politico, organismo che ebbe vita breve e stentata. In veste di "pentarca" lo J. partecipò a una delle ultime assemblee pubbliche organizzate dal partito a Roma, il 27 e 28 giugno 1926; in quella sede, con maggior vigore che nel passato, lo J. pronunciò un discorso decisamente antifascista, in cui invitava i popolari a "non deflettere dall'intransigenza attuale" e a "lasciare intera la responsabilità politica a chi intera se l'è assunta". In questo periodo collaborò anche alla nuova rivista Cronaca sociale d'Italia, fondata e diretta, nel febbraio 1926, a Firenze da Gronchi e R. Cappugi, la quale, tuttavia, cessò le pubblicazioni nell'autunno dello stesso anno a causa delle restrizioni imposte dal fascismo.

Dopo che, il 9 nov. 1926, venne dichiarata la decadenza dal mandato parlamentare dei deputati aventiniani, lo J., nell'impossibilità di svolgere attività politica, si dedicò con crescente impegno a quella culturale. Fino al 1926 aveva frequentato assiduamente il Circolo filologico, presieduto dall'amico Gallarati Scotti, ma i suoi interessi, che si rivolgevano anche allo studio della filosofia, della teologia, della sociologia e dell'economia, vennero via via concentrandosi sulla storiografia.

Nonostante gli eventi bellici e l'impegno nel partito popolare, lo J., fra il 1912 e il 1926, non aveva mai cessato di lavorare alla biografia del nonno paterno, suo omonimo, Un conservatore rurale della nuova Italia, la quale, pubblicata da Laterza (Bari 1926), si impose all'attenzione degli studiosi come un modello di storiografia; sull'opera espressero, fra gli altri, lusinghieri apprezzamenti B. Croce e A. Gramsci. Lo J. era stato pure sollecitato da P. Gobetti a curare la ristampa di alcune opere di Jacini senior, ma il progetto non poté andare in porto.

Nonostante i controlli esercitati dalla polizia politica del regime, in quegli anni lo J. era riuscito a mantenere contatti, sia pure sporadici, con molti colleghi di partito, in particolare non interruppe mai i rapporti con De Gasperi, G. Spataro, M. Cingolani, A. Grandi, G. Tupini, G.B. Migliori ed E. Clerici; partecipò, quindi, ai primissimi incontri tenutisi a Roma, intorno a De Gasperi, fin dalla fine degli anni Trenta, allo scopo di aggiornare la riflessione politica sui vari problemi del paese nelle mutate condizioni storiche, interne e internazionali.

Sollecitato forse da tali incontri e soprattutto dal desiderio di chiarire, specialmente a se stesso, significati e limiti della prima esperienza politica dei cattolici democratici italiani, riprese le riflessioni su I popolari (pubblicato a Milano nel 1923) e lavorò, soprattutto nel biennio 1939-40, alla Storia del Partito popolare italiano, edita solo più tardi (ibid. 1951). Nello stesso periodo scrisse anche Il regime fascista (ibid. 1947).

Dopo l'inizio della seconda guerra mondiale partecipò a incontri clandestini con esponenti cattolici di vario indirizzo e, in particolare, nell'ottobre 1942 a Milano, fu presente alla riunione, presieduta da De Gasperi, nella quale si gettarono le basi, nell'Italia settentrionale, del futuro partito dei cattolici di orientamento democratico.

In quella circostanza, all'interno di una commissione costituita ad hoc e da lui presieduta e coordinata, lo J. operò, in stretta intesa con De Gasperi, per comporre, in una visione programmatica unitaria, le istanze politiche e sociali che venivano dai giovani cattolici provenienti dalle file antifasciste del movimento neoguelfo e dall'Università cattolica di Milano, con la tradizione sturziana e popolare.

Richiamato alle armi, prestò servizio come ufficiale di stato maggiore, dapprima sul fronte occidentale, quindi presso il comando supremo in Albania, come capo dell'ufficio per gli Affari civili. Caduto il regime fascista e formatosi il primo governo Badoglio, lo J. venne chiamato a Roma e incaricato di rappresentare, insieme con De Gasperi e Spataro, la Democrazia cristiana (DC) in seno al Comitato nazionale delle correnti antifasciste, costituitosi il 27 luglio.

Lo J., portavoce a Roma dei democratici cristiani del Norditalia e personalmente di sentimenti filomonarchici, si trovò in una non facile posizione in quanto proprio nel Nord l'orientamento del suo partito sulla questione istituzionale era, a larga maggioranza, repubblicano. Di fatto la presenza di un cattolico, democratico e antifascista e al tempo stesso liberale e monarchico, come lo J., fu di aiuto alla strategia globale di De Gasperi, per tranquillizzare i cattolici più conservatori.

Dopo l'8 sett. 1943, lo J., per sottrarsi all'arresto, fu costretto all'esilio in Svizzera, dove incontrò numerosi rifugiati, di diverse tendenze politiche, fra cui C. Facchinetti, C. Marchesi, G. Battisti, B. Bellotti e l'amico Gallarati Scotti, con i quali avviò un importante lavoro di analisi e di approfondimento programmatico, i cui risultati vennero pubblicati su Il Secondo Risorgimento, settimanale diretto da L. Einaudi.

Rientrato in Italia, dopo un viaggio fortunoso, verso la fine del 1944, su richiesta del governo Bonomi raggiunse Roma, già liberata dalle truppe alleate, riprendendo il suo impegno politico. Fu nominato membro della Consulta nazionale e ministro della Guerra nel governo Parri (21 giugno - 10 dic. 1945); il 22 dic. 1945 venne chiamato a presiedere il primo comitato nazionale della DC.

Come ministro lo J. si trovò a dirigere il dicastero della Guerra in un periodo particolarmente delicato, in quanto bisognava provvedere a una prima riorganizzazione delle forze armate, mentre gli uomini erano ancora dispersi sui vari fronti e nei campi di concentramento sparsi per il mondo.

Come membro della Consulta nazionale, durante la campagna referendaria lo J. si batté in favore della monarchia e difese tale scelta istituzionale anche in seno alla DC: al I congresso del partito, tenutosi a Roma nell'aprile 1946, raccolse i consensi di un quarto degli iscritti a sostegno dell'opzione monarchica.

Candidato alle elezioni generali del 2 giugno 1946, venne eletto membro dell'Assemblea costituente, dove pronunciò un importante discorso in occasione della votazione sull'art. 5 del progetto di carta costituzionale, relativo all'inserimento nel testo dei Patti lateranensi.

Lo J., in questa circostanza, premise di parlare a titolo personale, consapevole della diversa opinione di molti suoi colleghi; di fatto le sue parole furono ispirate a un grande equilibrio politico che giustificava il richiamo ai Patti del Laterano anche a tutela della pace religiosa in Italia.

Risoltasi la battaglia per la scelta istituzionale con la vittoria della Repubblica, lo J. continuò a difendere con coerenza, all'interno del partito, le posizioni moderate di cui era stato da sempre un convinto assertore.

Appoggiò quindi la politica centrista di De Gasperi sostenendolo al momento dell'estromissione degli esponenti social-comunisti dal governo (maggio 1947) e nella successiva battaglia per l'adesione dell'Italia al Patto atlantico e per l'ingresso nel North Atlantic Treaty Organization (NATO; aprile-settembre 1949). In entrambe queste occasioni la sua azione, moderata ed equilibrata, mai toccata da tentazioni scissioniste o di forte contestazione interna, improntata al pieno rispetto delle decisioni assunte dagli organi istituzionali di gruppo e di partito, fu molto utile a De Gasperi in un momento in cui certe scelte erano sollecitate forse più dall'esterno - dalle gerarchie ecclesiastiche, dagli imprenditori e dagli alleati angloamericani - che dall'interno della DC.

Lo J. svolse per il governo italiano importanti incarichi all'estero: ambasciatore straordinario presso la Repubblica argentina nel 1947, operò con competenza per la stipula di un trattato sull'emigrazione che venne firmato a Buenos Aires il 27 genn. 1948; rappresentante italiano presso l'United Nations educational scientific and cultural organization (UNESCO; 14 nov. 1947), quindi capo della delegazione italiana alla sua III conferenza generale, fu infine nominato presidente del Consiglio esecutivo; europeista convinto, venne scelto dal Senato quale membro del Consiglio d'Europa e da questa assemblea eletto, nel 1949, vicepresidente. Membro dell'Istituto di studi politici internazionali di Milano, ne fu a lungo vicepresidente.

Con il 18 apr. 1948 divenne senatore di diritto della I legislatura repubblicana, in quanto già parlamentare per tre legislature (XXV, XXVI e XXVII) e dichiarato decaduto dal mandato il 9 nov. 1926. In senato fu presidente della commissione Esteri. Il suo ultimo intervento in Parlamento fu la relazione, svolta il 15 marzo 1952 a nome della maggioranza, durante il dibattito per la ratifica del trattato istitutivo della Comunità europea del carbone e dell'acciaio (CECA) di cui individuava il valore politico nella volontà di istituire una "organizzazione supernazionale", convinto che da "questo modesto principio muova una svolta notevole della storia universale".

Lo J. morì a Milano il 31 maggio 1952.