(tratto da A.De Bernardi-S.Guarracino, I saperi della storia, Bruno Mondadori 2006, pp.608-9)
In questa lunga vicenda di dibattiti e interpretazioni si possono distinguere quattro fasi: la prima riguarda l'iniziale riflessione critica sul Risorgimento che si apri all'interno stesso dei
movimenti che stavano contribuendo alla sua riuscita all'indomani del biennio rivoluzionario 1848- 49; la seconda coincide con i primi decenni postunitari e fu incentrata essenzialmente sul tentativo
di dare un'immagine mitica del processo di formazione dello stato unitario; la terza
consiste nell'ampia e complessa discussione che si aprì sul Risorgimento in epoca fascista, soprattutto dopo la pubblicazione nel 1928 del saggio del filosofo Benedetto Croce,
Storia d'Italia dal 1871 al 1914; la quarta è quella che prese avvio con la pubblicazione nell'immediato secondo dopoguerra dei Quaderni dal carcere di Antonio Gramsci.
Analizziamo
separatamente ciascuna di queste fasi.
Come si è detto, la prima fase coincise cronologicamente con gli eventi stessi che portarono all'unificazione nazionale, e il dibattito storiografico si intrecciò con quello politico, anzi ne fu una parte integrante fino a giungere quasi a sovrapporsi. Già dopo il fallimento della rivoluzione del 1848-49 si aprì un ampio dibattito tra i democratici (Carlo Cattaneo, Mazzini, Pisacane, Ferrari,
Montanelli) e tra i liberali moderati (La Farina, Cesare Balbo, Farini) nel quale si delinearono alcune questioni che caratterizzarono in maniera permanente il dibattito storiografico fino ai giorni nostri: la funzione che il
Piemonte venne assumendo nel processo risorgimentale; il ruolo della
casa Savoia nel determinare gli esiti della battaglia nazionalistica; l'influenza
della rivoluzione francese e più in generale della Francia nelle vicende italiane; gli esiti storici che la mancata o la scarsa partecipazione dei ceti popolari ebbe sui caratteri del moto risorgimentale e sulla futura connotazione dello stato unitario.
Dopo questa fase ricca di contrasti e di chiaroscuri, il
dibattito si mosse in
direzione opposta. Nei decenni immediatamente postunitari infatti gli storici, tra cui spiccano Nìcomede Bianchi con la sua monumentale Storia
documentata
della diplomazia europea in
Italia dall'anno 1814 all'anno 1861, scritta fra il 1865 e il 1872, e Carlo Tivaroni, con la sua Storia critica del Risorgimento italiano, pubblicata a partire dal
1888, tentarono di ricostruire un'immagine mitica
e profondamente ideologica del Risorgimento. Come ha scritto lo storico contemporaneo Giorgio Candeloro: "Si venne formando, pur attraverso persistenti polemiche tra monarchici e repubblicani, l'immagine di un Risorgimento perfettamente concluso con la formazione del regno d'Italia e sì diffuse quindi la tendenza a considerare la contrastante attività delle correnti politiche risorgimentali come cospirante, quasi per disegno provvidenziale, ad una soluzione da accettarsi ormai da tutti senza
discussioni nei
suoi due aspetti fondamentali: l'unità e la monarchia
sabauda».
Esempio, forse meno noto, ma non meno significativo di questa tendenza fu la ricostruzione storica che del
Risorgimento ci consegnò Alessandro Manzoni in alcune sue note sparse del 1873, che in parte confluirono nel trattatello Dell’indipendenza italiana. «Certo – scriveva Manzoni - a nessuna mente umana era
dato di predire la successione dei mezzi con cui l'Italia sarebbe arrivata alla sua mirabile formazione e che, tra questi mezzi, uno dei più potenti, anzi il solo efficiente e determinante, avesse a essere la concordia, allora tanto lontana, degli Italiani, nell'intendere e nel
volere, delle specie immaginate, di una tale formazione, la
sola desiderabile. E fu però questa concordia che, iniziata dai primi fatti [...] d'un re e di un popolo d'una parte d'Italia, e portata sempre più avanti da una continuità non interrotta di fatti consentanei ai primi, pervenne in dieci anni, a quell'alta maggioranza che, nelle cose del genere è la sola sperabile e, come l'esito ha mostrato, poté ciò che volle.»
Questa
storiografia, tutta rivolta, per dirla con Gramsci, a ricostruire una ideale e spesso ideologica
«biografia della nazione», cominciò a mostrare notevoli crepe già sul finire dell'Ottocento; una serie di saggi, prevalentemente di storici appartenenti alla cosiddetta scuola economico-giuridica - tra cui spicca Antonio Anzillotti -, allargarono l'orizzonte delle ricerche agli aspetti economici che sottesero il Risorgimento e ai diversi gruppi sociali di cui fu espressione.
La terza fase del dibattito
si intreccia strettamente con la crisi
dello stato liberale e con
l'avvento del fascismo. Si sviluppò una riconsiderazione storica delle vicende risorgimentali orientata su due direttrici di fondo: quella degli storici fascisti
come
Gioacchino
Volpe
che, riprendendo la valutazione positiva del Risorgimento come
"conquista regia della casa Savoia, spostavano l'accento sulla costruzione della compagine statale unitaria e individuavano nel fascismo l'esito culminante di tutte le vicende
risorgimentali; quella degli
storici liberali fortemente ispirati
da Croce, che si mossero in direzione di una complessa opera di rivalutazione della linea d'intervento
del movimento
liberale. In questa
corrente di pensiero si inserisce il libro di Adolfo Omodeo su L'opera politica del Conte
di Cavour, uscito nel 1940, in cui veniva ricostruita
l'elaborazione dello
statista piemontese riuscendo a mettere in luce
il ruolo
da lui
svolto nella formazione del regime
parlamentare nello stato
italiano.
Questo lavoro si configurava soprattutto come
risposta
alle
tesi sostenute diversi anni addietro da un giovane intellettuale torinese, Piero Gobetti,
militante antifascista, morto esule
a Parigi appena
venticinquenne anche
per le conseguenze di una barbara aggressione di alcuni squadristi torinesi. Gobetti, nello sforzo di individuare le ragioni della crisi dello stato liberale, operò
una profonda revisione delle analisi storiografiche del Risorgimento, definendo il processo di creazione dello stato unitario una "rivoluzione fallita". Per "rivoluzione
fallita" Gobetti
intendeva il fatto che la direzione liberale e
moderata del movimento risorgimentale non era riuscita a coinvolgere
le grandi masse popolari, formando sulla loro partecipazione le basi sociali
della
nuova compagine
sorta dalla lotta per l'indipendenza.
Omodeo
sostenne
invece
che la rivoluzione non era affatto fallita, anzi aveva
sortito gli esiti migliori, perché era stata
il trionfo di quel liberalismo
moderato incarnato dalla figura dì Cavour,
che aveva
contribuito maggiormente
alla
realizzazione
del Risorgimento.
La nuova fase di dibattito si aprì dopo la Seconda guerra mondiale.
Fu soprattutto per merito di Antonio Granisci e delle felici
elaborazioni contenute
nei famosi Quaderni,
compilati durante la lunga carcerazione impostagli dai tribunali fascisti,
che la riflessione critica sul Risorgimento
fece
un notevole salto di qualità, esplorando nuovi territori
e confrontandosi con nuove e più ampie
problematiche. Analizzando la
vittoria dei moderati,
Gramsci la spiegava con il fatto che essi erano
un gruppo di intellettuali socialmente e culturalmente omogeneo
con le classi e i ceti, la
grande e
la media
borghesia,
sia urbana sia rurale,
che di fatto alimentarono ed egemonizzarono il
processo unitario.
I democratici al contrario non erano l'espressione politica di classi omogenee;
per esserlo avrebbero dovuto
trasformare il loro programma in senso sociale, come
indicavano
Pisacane e Ferrari, diventando il partito dei lavoratori poveri
e delle masse contadine diseredate,
prevalentemente meridionali. Essi non operarono questa
conversione del programma e rimasero stritolati politicamente
tra l'egemonia moderata
della borghesia
e l'immobilismo popolare. Il Risorgimento
era quindi una "rivoluzione fallita" perché
non aveva saputo
raccogliere, attraverso una decisa riforma
agraria, l'adesione delle masse contadine, che rappresentavano la
stragrande
maggioranza della popolazione,
allargando così le basi dello stato e garantendo il
superamento dell'arretratezza economica di tanta parte
del paese.
Gramsci
intende anche
come
“rivoluzione passiva”
quella in cui i liberali
moderati
hanno avuto strategicamente la meglio sui repubblicani democratici mantenendo l’ordine
feudale esistente causando la permanente
spaccatura tra Stato e società
civile. Il fascismo
è la
diretta
conseguenza di questa situazione, cioè un tentativo della
borghesia
debole di ridefinire
un sistema
politico che stava crollando.
Questa
chiave interpretativa
fu ripresa
da parecchi studiosi e divenne il punto
di riferimento teorico di numerose ricerche tra cui spiccano quelle di Emilio Sereni,
di Giuseppe Berti, di Franco Della Peruta e di Giorgio
Candeloro. Queste posizioni critiche,
che configurano una vera e propria
scuola
storiografica di ispirazione marxista,
suscitarono notevole opposizione,
soprattutto sul problema della questione agraria nel Risorgimento.
Lo storico Rosario Romeo, per esempio, in due interventi comparsi sulla rivista "Nord-Sud" nel 1956 e nel 1958 sostenne che la posizione degli storici gramsciani era errata, quando attribuivano alla mancata riforma agraria l'arretratezza della società e dello stato italiano, perché l'accumulazione di capitali che si verificò dopo l'Unità (la cosiddetta accumulazione primitiva) e che consentì il decollo industriale di fine Ottocento non si sarebbe potuta determinare se una redistribuzione delle terre avesse impedito una rivoluzione agricola di segno capitalistico, soprattutto nelle campagne settentrionali.
In opposizione alle interpretazioni marxiste,
gli storici liberali
(Romeo, Luzzatto)
sottolineano gli ostacoli al progresso politico ed economico dell’Italia:
la dipendenza dalle potenze straniere, la discordia interna,
l’arretratezza dei governi reazionari.
Le ricerche di Romeo, fortemente influenzate dai nuovi approcci della storia economica e della teoria
dello sviluppo, aprirono una nuova prospettiva
di studio
indirizzata all'analisi della storia dell'industrializzazione italiana, che avrebbe costituito negli
anni seguenti
il vero centro degli
interessi della storiografia italiana.
Luzzatto critica
l’interpretazione del Risorgimento come espressione borghese,
dal momento
che questa classe sociale
non esisteva a causa dell’assenza di uno sviluppo economico pre-1960. Le interpretazioni marxiste e liberali condividono l’esigenza di spiegare il significato della vittoria moderata del Sessanta
alla luce degli insuccessi successivi dell’Italia Liberale: idea
di una deviazione rispetto a modelli democratico-borghesi.
L’unificazione nazionale viene considerata una soluzione parziale a problemi
specifici,
non un momento di rottura con il passato:
rimessa in
discussione di nessi causali prima consolidati. Per i revisionisti, l’idea di deviazione
italiana è stata
inventata dagli
storici influenzati da modelli
di spiegazione deterministici
dello sviluppo politico ed economico. Si tende, così, a sottolineare gli aspetti
positivi dei
regimi pre-unitari e a inserire la crisi
dei governi della restaurazione e l’unificazione in
un contesto più ampio: l’unità è esito
di processi diversi, a volte contraddittori, identificabili con l’affermazione degli stati moderni,
con la formazione di una cultura nazionale basata su lingua e economia capitalista. La storiografia revisionista non analizza l’azione politica, dimentica gli
elementi di conflitto e di crisi dell’Italia 800.
La dimensione culturale
Nuova corrente di ricerca che ha orientato la propria
attenzione sulla
creazione, nell’ambito della cultura romantica,
di un’idea di Italia. Il tentativo di Banti (La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore
alle
origini
dell'Italia
unita 2006) è
quello di rimettere
in discussione l’immagine dell’identità Italiana frammentata,
indebolita dai conflitti interni:
esisteva “una sorta
di narrazione coerente della nazione
italiana, un discorso
ricco di rimandi e di coerenze, una sorta
di pensiero
unico della nazione” che attingeva ad un comune repertorio di temi, metafore e
simboli.
Il Risorgimento
viene considerato un movimento
di massa, attivamente
partecipato dai cittadini (nelle sue guerre, nella lotta politica, nelle
feste e commemorazioni), che ha creato un movimento culturale più ampio, di portata europea.
L’approccio secondo cui si mette
al centro la cultura permette
di mettere
in rilievo il processo di “italianizzazione” già precedente
l’Unità: pur mantenendo una dimensione
locale, l’attività
culturale
iniziò a proporre temi, linguaggi, rituali “Italiani” (cfr: il
campo musicale, pittorico e soprattutto teatrale; lo sviluppo della
lingua italiana; la nascita di associazioni economiche e scientifiche nazionali).