Antonio Gramsci

Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura
Editori riuniti, 1996

Indice




I. Per una storia degli intellettuali


La formazione degli intellettuali


Gli intellettuali sono un gruppo sociale autonomo (Q. 12)

Diversa posizione degli intellettuali (Q. 12)

Quando si distingue tra intellettuali e non-intellettuali (Q. 12)

Gli Elementi di scienza politica del Mosca (Q. 8)

Intellettuali tradizionali (Q. 6)

Sugli scrittori politici e moralisti del Seicento (Q. 6)


Note sparse


Funzione cosmopolita degli intellettuali italiani


La quistione della lingua e le classi intellettuali italiane (Q. 3)

Cfr. l'art. La politica religiosa di Costantino Magno (Q. 5)

Ettore Veo (Q. 3)

Latino ecclesiastico e volgare nel Medioevo (Q. 8)

Per la formazione delle classi intellettuali italiane nell'alto Medioevo (Q. 3)

Funzione cosmopolita della letteratura italiana (Q. 17)

La ricerca della formazione storica degli intellettuali italiani (Q. 3)

Diritto romano o diritto bizantino? (Q. 6)

[La cultura nell'alto Medioevo] (Q. 5)

Spunti di ricerca (Q. 8)

[Origine dei centri di cultura medioevale] (Q. 5)

Monachesimo e regime feudale (Q. 5)

Sulla tradizione nazionale italiana (Q. 5)

Sviluppo dello spirito borghese in Italia (Q. 5)

Su L. B. Alberti cfr. il libro di Paul-Henri Michel (Q. 6)

Da un articolo di Nello Tarchiani (Q. 2)

Cultura italiana (Q. 6)

Monsignor Della Casa (Q. 6)

La poesia provenzale in Italia (Q. 9)

Umanesimo e Rinascimento (Q. 7)

Rinascimento (Q. 3)

[La Controriforma e la scienza] (Q. 6)

Cfr. l'accenno nei Ricordi di un vecchio normalista (Q. 7)

[Cosmopolitismo letterario italiano del Settecento] (Q. 9)

Clero e intellettuali (Q. 1)

Perché a un certo punto la maggioranza dei cardinali fu composta di italiani e i papi furono sempre scelti tra italiani? (Q. 6)

Lotta tra Stato e Chiesa (Q. 7)

Formazione e diffusione della nuova borghesia in Italia (Q. 8)

Risorgimento (Q. 5)

Gioberti (Q. 8)

[Il movimento socialista] (Q. 3)

La quistione dei giovani (Q. 1)

A proposito del protestantesimo in Italia, ecc. (Q. 14)

[Gli intellettuali e lo Stato hegeliano] (Q. 8)

Note di cultura italiana (Q. 14)

[Sentimento nazionale] (Q. 6)

[Il razzismo] (Q. 6)

Elementi di cultura italiana. L'ideologia «romana» (Q. 14)

La tradizione di Roma (Q. 5)

Sicilia e Sardegna (Q. 8)

Intellettuali siciliani (Q. 1)

Storia letteraria o della cultura (Q. 15)

L'italiano meschino (Q. 3)

Fortunato Rizzi ossia dell'italiano meschino (Q. 1)

Giovanni B. Botero (Q. 6)

Regionalismo (Q. 6)

Gli ebrei (Q. 6)


Intellettuali italiani all'estero


Storia nazionale e storia della cultura (europea e mondiale) (Q. 3)

[Intellettuali stranieri in Italia] (Q. 5)

[Debolezza nazionale della classe dirigente] (Q. 3)

«Pour Nietzsche, l'intellectuel est "chez lui"» (Q. 5)

Cfr. Angelo Scarpellini (Q. 6)

[Tramonto della funzione cosmopolita degli intellettuali italiani] (Q. 3)

[La patria di Cristoforo Colombo] (Q. 3)

Individui e nazioni (Q. 6)

[Tecnici militari italiani e arte militare italica] (Q. 3)

«Nel 1563» (Q. 2)

[Il fuoruscitismo politico nel Medioevo] (Q. 5)

Un «Dizionario degli italiani all'estero» (Q. 9)

Nell'ICS [Italia che scrive] dell'ottobre 1929 (Q. 3)

Da un articolo di Arturo Pompeati (Q. 4)

Gioacchino Volpe (Q. 7)

[Mercanti lucchesi in Francia] (Q. 5)

[Pippo Spano in Ungheria] (Q. 8)

[La diplomazia libero mestiere] (Q. 7)

[Italiani in Russia] (Q. 5)

Cfr. l'articolo di Giuseppe Tucci (Q. 7)


Europa, America, Asia


[Popoli e intellettuali moderni nei vari paesi] (Q. 7)

[Nazionalismo e particolarismo] (Q. 3)

Gli intellettuali francesi (Q. 3)

Un ricco materiale da spigolare (Q. 6)

Emmanuel Berl (Q. 3)

[Gli intellettuali in Spagna] (Q. 9)

Alla Università di Madrid (Q. 6)

Intellettuali tedeschi (Q. 3)

Noterelle sulla cultura inglese (Q. 4)

Gli inglesi e la religione (Q. 6)

Sulla civiltà inglese (Q. 9)

[Educazione e lingua nell'Impero inglese] (Q. 9)

Noterelle di cultura americana (Q. 8)

[Cattolici e protestanti nel Sud-America] (Q. 6)

Noterelle di cultura islamitica (Q. 5)

La nuova evoluzione dell'Islàm (Q. 2)

L'influsso della cultura araba nella civiltà occidentale (Q. 16)

Noterelle di cultura indiana (Q. 6)

Confrontiamo la serie di articoli pubblicati nella «Civiltà Cattolica» (Q. 7)

Noterelle sulla cultura cinese (Q. 5)

[I cattolici e il nazionalismo cinese] (Q. 5)

Noterelle sulla cultura giapponese (Q. 5)

Cfr. altra nota sulle religioni nel Giappone (Q. 8)



II. L'organizzazione della cultura


L'organizzazione della scuola e della cultura


Aspetti diversi (Q. 12)


Per la ricerca del principio educativo


La frattura determinata dalla riforma Gentile (Q. 12)


Note sparse


Problemi scolastici e organizzazione della cultura


[Alcuni princípi della pedagogia moderna] (Q. 1)

[Pedagogia meccanicistica e idealistica] Antonio Labriola (Q.11)

Hegel aveva affermato che la servitú é la culla della libertà (Q. 11)

L'Umanesimo (Q. 8)

Ordine intellettuale e morale (Q. 15)

Delle università italiane (Q. 1)

Quistioni scolastiche (Q. 6)

[Scuole progressive] (Q. 9)

L'orientazione professionale (Q. 5)

[Servizi pubblici] (Q. 14)

[Le biblioteche popolari] (Q. 2)

Confrontare l'interessante articolo di Ettore Fabietti (Q. 7)

Le accademie (Q. 6)

Cultura italiana e francese e accademie (Q. 3)

[Bibliografia] (Q. 5)

[La Federazione delle Unioni Intellettuali] (Q. 3)

Organizzazione della vita culturale (Q. 8)

[I libri] (Q. 14)



III. Il giornalismo


[Giornalismo integrale] (Q. 24)

I lettori (Q. 14)

Movimenti e centri intellettuali (Q. 14)

L'essere evolutivo finale (Q. 6)

Dilettantismo e disciplina (Q. 6)

[Riviste tipiche] (Q. 24)

Per una esposizione generale dei tipi principali di riviste (Q. 24)

Annuari e almanacchi (Q. 24)

[Riviste moraleggianti] (Q. 24)

[Educazione politica] (Q. 14)

[La veste esteriore] (Q. 14)

[Informazione critica] (Q. 8)

Saggi originali e traduzioni (Q. 24)

Collaborazione straniera (Q. 7)

Le recensioni (Q. 8)

Una rubrica grammaticale-linguistica (Q. 5)

Rassegne critiche bibliografiche (Q. 5)

[Una rubrica scientifica] (Q. 4)

Economia. Rassegna di studi economici italiani (Q. 6)

Tradizione e sue sedimentazioni psicologiche (Q. 6)

[Argomenti di giurisprudenza] (Q. 6)

[Guide e manualetti] (Q. 6)

[Appendici] (Q. 9)

[Giornali d'informazione e giornali d'opinione] (Q. 24)

[Supplementi settimanali] (Q. 6)

[Giornali di Stato] (Q. 6)

Scuole di giornalismo (Q. 24)

I giornali delle grandi capitali (Q. 16)

[Settimanali provinciali] (Q. 6)

I titoli (Q. 8)

Capocronista (Q. 6)

Corrispondenti dall'estero (Q. 7)

La rassegna della stampa (Q. 8)

La cronaca giudiziaria (Q. 8)

Rubriche scientifiche (Q. 24)

Almanacchi (Q. 14)

Giornalismo (Q. 17)

I giornali tedeschi (Q. 2)

[Un manuale di giornalismo] (Q. 6)

Giornalismo (Q. 6)



IV. Appendice


Lorianismo


Di alcuni aspetti deteriori e bizzarri (Q. 28)

Il signor Nettuno (Q. 9)

L'altimetria, i buoni costumi e l'intelligenza (Q. 28)

A proposito delle teorie «altimetriche» del Loria (Q. 28)

[Attività improduttive] (Q. 6)

[Loriani] (Q. 28)

Enrico Ferri (Q. 8)

Può darsi che la conferenza di Ferri su Zola (Q. 9)

Guglielmo Ferrero (Q. 28)

Credaro-Luzzati (Q. 28)

Turati (Q. 28)

Alberto Lumbroso (Q. 28)

In una nota dedicata ad Alberto Lumbroso (Q. 3)

Loria (Q. 3)

Roberto Ardigò e la filosofia della praxis (Q. 16)

Graziadei e il paese di Cuccagna (Q. 28)

Oltre alle teorie del Loria (Q. 8)

Alfredo Trombetta (Q. 3)

Trombetti e la monogenesi del linguaggio (Q. 3)

[Gli studi sugli etruschi] (Q. 6)

Il capitalismo antico e una disputa tra moderni (Q. 16)

Giuseppe Brindisi (Q. 2)

G. A. Fanelli (Q. 28)

Paolo Orano (Q. 28)

Un articolo di P. Orano su Ibsen (Q. 3)

A proposito dei rapporti tra gli intellettuali sindacalisti italiani e Sorel (Q. 3)

Nelle lettere di G. Sorel a B. Croce (Q. 28)

[Benito Mussolini] (Q. 9)

G. A. Borgese (Q. 8)

[I libri perduti di Tito Livio] (Q. 3)

Le noccioline americane e il petrolio (Q. 3)

[Luigi Valli] (Q. 3)

Luigi Valli e la sua interpretazione «cospiratoria» e massonica del dolce stil nuovo (Q. 28)

L'ossicino di Cuvier (Q. 28)

Lorianismo nella scienza geografica (Q. 28)

[A. O. Olivetti] (Q. 8)

Giuseppe De Lorenzo (Q. 8)

Domenico Giuliotti (Q. 28)

Corso Bovio (Q. 28)

Emilio Bodrero (Q. 3)


Indice dei nomi

I. Per una storia degli intellettuali

La formazione degli intellettuali



Gli intellettuali sono un gruppo sociale autonomo e indipendente, oppure ogni gruppo sociale ha una sua propria categoria specializzata di intellettuali? Il problema è complesso per le varie forme che ha assunto finora il processo storico reale di formazione delle diverse categorie intellettuali. Le piú importanti di queste forme sono due:

1) Ogni gruppo sociale, nascendo sul terreno originario di una funzione essenziale nel mondo della produzione economica, si crea insieme, organicamente, uno o piú ceti di intellettuali che gli dànno omogeneità e consapevolezza della propria funzione non solo nel campo economico, ma anche in quello sociale e politico: l'imprenditore capitalistico crea con sé il tecnico dell'industria, lo scienziato dell'economia politica, l'organizzatore di una nuova cultura, di un nuovo diritto, ecc. ecc. Occorre notare il fatto che l'imprenditore rappresenta una elaborazione sociale superiore, già caratterizzata da una certa capacità dirigente e tecnica (cioè intellettuale): egli deve avere una certa capacità tecnica, oltre che nella sfera circoscritta della sua attività e della sua iniziativa, anche in altre sfere, almeno in quelle piú vicine alla produzione economica (deve essere un organizzatore di masse d'uomini, deve essere un organizzatore della «fiducia» dei risparmiatori nella sua azienda, dei compratori della sua merce ecc.). Se non tutti gli imprenditori, almeno una élite di essi deve avere una capacità di organizzatore della società in generale, in tutto il suo complesso organismo di servizi, fino all'organismo statale, per la necessità di creare le condizioni piú favorevoli all'espansione della propria classe; o deve possedere per lo meno la capacità di scegliere i «commessi» (impiegati specializzati) cui affidare questa attività organizzatrice dei rapporti generali esterni all'azienda. Si può osservare che gli intellettuali «organici» che ogni nuova classe crea con se stessa ed elabora nel suo sviluppo progressivo, sono per lo piú «specializzazioni» di aspetti parziali dell'attività primitiva del tipo sociale nuovo che la nuova classe ha messo in luce. (Anche i signori feudali erano detentori di una particolare capacità tecnica, quella militare, ed è appunto dal momento in cui l'aristocrazia perde il monopolio della capacità tecnico-militare che si inizia la crisi del feudalismo. Ma la formazione degli intellettuali nel mondo feudale e nel precedente mondo classico è una quistione da esaminare a parte: questa formazione ed elaborazione segue vie e modi che occorre studiare concretamente. Cosí è da notare che la massa dei contadini, quantunque svolga una funzione essenziale nel mondo della produzione, non elabora propri intellettuali «organici» e non «assimila» nessun ceto di intellettuali «tradizionali», quantunque dalla massa dei contadini altri gruppi sociali tolgano molti dei loro intellettuali e gran parte degli intellettuali tradizionali siano di origine contadina).

2) Ma ogni gruppo sociale «essenziale» emergendo alla storia dalla precedente struttura economica e come espressione di un suo sviluppo (di questa struttura), ha trovato, almeno nella storia finora svoltasi, categorie sociali preesistenti e che anzi apparivano come rappresentanti una continuità storica ininterrotta anche dai piú complicati e radicali mutamenti delle forme sociali e politiche. La piú tipica di queste categorie intellettuali è quella degli ecclesiastici, monopolizzatori per lungo tempo (per un'intera fase storica che anzi da questo monopolio è in parte caratterizzata) di alcuni servizi importanti: l'ideologia religiosa cioè la filosofia e la scienza dell'epoca, con la scuola, l'istruzione, la morale, la giustizia, la beneficenza, l'assistenza ecc. La categoria degli ecclesiastici può essere considerata essere la categoria intellettuale organicamente legata all'aristocrazia fondiaria: era equiparata giuridicamente all'aristocrazia, con cui divideva l'esercizio della proprietà feudale della terra e l'uso dei privilegi statali legati alla proprietà. Ma il monopolio delle superstrutture da parte degli ecclesiastici (da esso è nata l'accezione generale di «intellettuale» – o di «specialista» – della parola «chierico», in molte lingue di origine neolatina o influenzate fortemente, attraverso il latino chiesastico, dalle lingue neolatine, col suo correlativo di «laico» nel senso di profano, non specialista) non è stato esercitato senza lotta e limitazioni, e quindi si è avuto il nascere, in varie forme (da ricercare e studiare concretamente) di altre categorie, favorite e ingrandite dal rafforzarsi del potere centrale del monarca, fino all'assolutismo. Cosí si viene formando l'aristocrazia della toga, con suoi propri privilegi; un ceto di amministratori, ecc., scienziati, teorici, filosofi non ecclesiastici, ecc.

Siccome queste varie categorie di intellettuali tradizionali sentono con «spirito di corpo» la loro ininterrotta continuità storica e la loro «qualifica», cosí essi pongono se stessi come autonomi e indipendenti dal gruppo sociale dominante; questa auto-posizione non è senza conseguenze nel campo ideologico e politico, conseguenze di vasta portata (tutta la filosofia idealista si può facilmente connettere con questa posizione assunta dal complesso sociale degli intellettuali e si può definire l'espressione di questa utopia sociale per cui gli intellettuali si credono «indipendenti», autonomi, rivestiti di caratteri loro propri, ecc. Da notare però che se il papa e l'alta gerarchia della Chiesa si credono piú legati a Cristo e agli apostoli di quanto non siano ai senatori Agnelli e Benni, lo stesso non è per Gentile e Croce, per esempio; il Croce, specialmente, si sente legato fortemente ad Aristotile e a Platone, ma egli non nasconde, anzi, di essere legato ai senatori Agnelli e Benni e in ciò appunto è da ricercare il carattere piú rilevato della filosofia del Croce).

(Questa ricerca sulla storia degli intellettuali non sarà di carattere «sociologico», ma darà luogo a una serie di saggi di «storia della cultura» (Kulturgeschichte) e di storia della scienza politica. Tuttavia sarà difficile evitare alcune forme schematiche e astratte che ricordano quelle della «sociologia»: occorrerà pertanto trovare la forma letteraria piú adatta perché l'esposizione sia «non-sociologica». La prima parte della ricerca potrebbe essere una critica metodica delle opere già esistenti sugli intellettuali, che quasi tutte sono di carattere sociologico. Raccogliere la bibliografia sull'argomento è pertanto indispensabile).

Quali sono i limiti «massimi» dell'accezione di «intellettuale»? Si può trovare un criterio unitario per caratterizzare ugualmente tutte le diverse e disparate attività intellettuali e per distinguere queste nello stesso tempo e in modo essenziale dalle attività degli altri raggruppamenti sociali? L'errore metodico piú diffuso mi pare quello di aver cercato questo criterio di distinzione nell'intrinseco delle attività intellettuali e non invece nell'insieme del sistema di rapporti in cui esse (e quindi i gruppi che le impersonano) vengono a trovarsi nel complesso generale dei rapporti sociali. E invero l'operaio o proletario, per esempio, non è specificamente caratterizzato dal lavoro manuale o strumentale (a parte la considerazione che non esiste lavoro puramente fisico e che anche l'espressione del Taylor di «gorilla ammaestrato» è una metafora per indicare un limite in una certa direzione: in qualsiasi lavoro fisico, anche il piú meccanico e degradato, esiste un minimo di qualifica tecnica, cioè un minimo di attività intellettuale creatrice), ma da questo lavoro in determinate condizioni e in determinati rapporti sociali. Ed è stato già osservato che l'imprenditore, per la sua stessa funzione, deve avere in una certa misura un certo numero di qualifiche di carattere intellettuale, sebbene la sua figura sociale sia determinata non da esse ma dai rapporti generali sociali che appunto caratterizzano la posizione dell'imprenditore nell'industria.

Tutti gli uomini sono intellettuali, si potrebbe dire perciò; ma non tutti gli uomini hanno nella società la funzione di intellettuali (cosí, perché può capitare che ognuno in qualche momento si frigga due uova o si cucisca uno strappo della giacca, non si dirà che tutti sono cuochi e sarti). Si formano cosí storicamente delle categorie specializzate per l'esercizio della funzione intellettuale, si formano in connessione con tutti i gruppi sociali ma specialmente in connessione coi gruppi sociali piú importanti e subiscono elaborazioni piú estese e complesse in connessione col gruppo sociale dominante. Una delle caratteristiche piú rilevanti di ogni gruppo che si sviluppa verso il dominio è la sua lotta per l'assimilazione e la conquista «ideologica» degli intellettuali tradizionali, assimilazione e conquista che è tanto piú rapida ed efficace quanto piú il gruppo dato elabora simultaneamente i propri intellettuali organici. L'enorme sviluppo preso dall'attività e dall'organizzazione scolastica (in senso largo) nelle società sorte dal mondo medioevale indica quale importanza abbiano assunto nel mondo moderno le categorie e le funzioni intellettuali: come si è cercato di approfondire e dilatare l'«intellettualità» di ogni individuo, cosí si è anche cercato di moltiplicare le specializzazioni e di affinarle. Ciò risulta dalle istituzioni scolastiche di diverso grado fino agli organismi per promuovere la cosí detta «alta cultura», in ogni campo della scienza e della tecnica. (La scuola è lo strumento per elaborare gli intellettuali di vario grado. La complessità della funzione intellettuale nei diversi Stati si può misurare obiettivamente dalla quantità delle scuole specializzate e dalla loro gerarchizzazione: quanto piú estesa è l'«area» scolastica e quanto piú numerosi i «gradi» «verticali» della scuola, tanto è piú complesso il mondo culturale, la civiltà, di un determinato Stato. Si può avere un termine di paragone nella sfera della tecnica industriale: l'industrializzazione di un paese si misura dalla sua attrezzatura nella costruzione di macchine per costruire macchine e nella fabbricazione di strumenti sempre piú precisi per costruire macchine e strumenti per costruire macchine ecc. Il paese che ha la migliore attrezzatura per costruire strumenti per i gabinetti sperimentali degli scienziati e per costruire strumenti per collaudare questi strumenti, si può dire il piú complesso nel campo tecnico-industriale, il piú civile ecc. Cosí è nella preparazione degli intellettuali e nelle scuole dedicate a questa preparazione: scuole e istituti di alta cultura sono assimilabili). (Anche in questo campo la quantità non può scindersi dalla qualità. Alla piú raffinata specializzazione tecnico-culturale non può non corrispondere la maggiore estensione possibile della diffusione dell'istruzione primaria e la maggiore sollecitudine per favorire i gradi intermedi al piú gran numero. Naturalmente questa necessità di creare la piú larga base possibile per la selezione e l'elaborazione delle piú alte qualifiche intellettuali – di dare cioè all'alta cultura e alla tecnica superiore una struttura democratica – non è senza inconvenienti: si crea cosí la possibilità di vaste crisi di disoccupazione degli strati medi intellettuali, come avviene di fatto in tutte le società moderne).

Da notare che l'elaborazione dei ceti intellettuali nella realtà concreta non avviene su un terreno democratico astratto, ma secondo processi storici tradizionali molto concreti. Si sono formati dei ceti che tradizionalmente «producono» intellettuali e sono quelli stessi che di solito sono specializzati nel «risparmio», cioè la piccola e media borghesia terriera e alcuni strati della piccola e media borghesia cittadina. La diversa distribuzione dei diversi tipi di scuole (classiche e professionali) nel territorio «economico» e le diverse aspirazioni delle varie categorie di questi ceti determinano o dànno forma alla produzione dei diversi rami di specializzazione intellettuale. Cosí in Italia la borghesia rurale produce specialmente funzionari statali e professionisti liberi, mentre la borghesia cittadina produce tecnici per l'industria: e perciò l'Italia settentrionale produce specialmente tecnici e l'Italia meridionale specialmente funzionari e professionisti.

Il rapporto tra gli intellettuali e il mondo della produzione non è immediato, come avviene per i gruppi sociali fondamentali, ma è «mediato», in diverso grado, da tutto il tessuto sociale, dal complesso delle superstrutture, di cui appunto gli intellettuali sono i «funzionari». Si potrebbe misurare l'«organicità» dei diversi strati intellettuali, la loro piú o meno stretta connessione con un gruppo sociale fondamentale, fissando una gradazione delle funzioni e delle soprastrutture dal basso in alto (dalla base strutturale in su). Si possono, per ora, fissare due grandi «piani» superstrutturali, quello che si può chiamare della «società civile», cioè dell'insieme di organismi volgarmente detti «privati» e quello della «società politica o Stato» e che corrispondono alla funzione di «egemonia» che il gruppo dominante esercita in tutta la società e a quello di «dominio diretto» o di comando che si esprime nello Stato e nel governo «giuridico». Queste funzioni sono precisamente organizzative e connettive. Gli intellettuali sono i «commessi» del gruppo dominante per l'esercizio delle funzioni subalterne dell'egemonia sociale e del governo politico, cioè: 1) del consenso «spontaneo» dato dalle grandi masse della popolazione all'indirizzo impresso alla vita sociale dal gruppo fondamentale dominante, consenso che nasce «storicamente» dal prestigio (e quindi dalla fiducia) derivante al gruppo dominante dalla sua posizione e dalla sua funzione nel mondo della produzione; 2) dell'apparato di coercizione statale che assicura «legalmente» la disciplina di quei gruppi che non «consentono» né attivamente né passivamente, ma è costituito per tutta la società in previsione dei momenti di crisi nel comando e nella direzione in cui il consenso spontaneo vien meno. Questa impostazione del problema dà come risultato un'estensione molto grande del concetto di intellettuale, ma solo cosí è possibile giungere a una approssimazione concreta della realtà. Questo modo di impostare la quistione urta contro preconcetti di casta: è vero che la stessa funzione organizzativa dell'egemonia sociale e del dominio statale dà luogo a una certa divisione del lavoro e quindi a tutta una gradazione di qualifiche, in alcune delle quali non appare piú alcuna attribuzione direttiva e organizzativa: nell'apparato di direzione sociale e statale esiste tutta una serie di impieghi di carattere manuale e strumentale (di ordine e non di concetto, di agente e non di ufficiale o funzionario, ecc.), ma evidentemente occorre fare questa distinzione, come occorrerà farne anche qualche altra. Infatti l'attività intellettuale deve essere distinta in gradi anche dal punto di vista intrinseco, gradi che nei momenti di estrema opposizione dànno una vera e propria differenza qualitativa: nel piú alto gradino saranno da porre i creatori delle varie scienze, della filosofia, dell'arte, ecc.; nel piú basso, i piú umili «amministratori» e divulgatori della ricchezza intellettuale già esistente, tradizionale, accumulata. L'organismo militare, anche in questo caso, offre un modello di queste complesse graduazioni: ufficiali subalterni, ufficiali superiori, Stato maggiore; e non bisogna dimenticare i graduati di truppa, la cui importanza reale è superiore a quanto di solito si pensi. È interessante notare che tutte queste parti si sentono solidali e anzi che gli strati inferiori manifestano un piú appariscente spirito di corpo e traggono da esso una «boria» che spesso li espone ai frizzi e ai motteggi.

Nel mondo moderno, la categoria degli intellettuali, cosí intesa, si è ampliata in modo inaudito. Sono state elaborate dal sistema sociale democratico-burocratico masse imponenti, non tutte giustificate dalle necessità sociali della produzione, anche se giustificate dalle necessità politiche del gruppo fondamentale dominante. Quindi la concezione loriana del «lavoratore» improduttivo (ma improduttivo per riferimento a chi e a quale modo di produzione?), che potrebbe in parte giustificarsi se si tiene conto che queste masse sfruttano la loro posizione per farsi assegnare taglie ingenti sul reddito nazionale. La formazione di massa ha standardizzato gli individui e come qualifica individuale e come psicologia, determinando gli stessi fenomeni che in tutte le altre masse standardizzate: concorrenza che pone la necessità dell'organizzazione professionale di difesa, disoccupazione, superproduzione scolastica, emigrazione, ecc.


Diversa posizione degli intellettuali di tipo urbano e di tipo rurale. Gli intellettuali di tipo urbano sono concresciuti con l'industria e sono legati alle sue fortune. La loro funzione può essere paragonata a quella degli ufficiali subalterni nell'esercito: non hanno nessuna iniziativa autonoma nel costruire i piani di costruzione; mettono in rapporto, articolandola, la massa strumentale con l'imprenditore, elaborano l'esecuzione immediata del piano di produzione stabilito dallo stato maggiore dell'industria, controllandone le fasi lavorative elementari. Nella loro media generale gli intellettuali urbani sono molto standardizzati; gli alti intellettuali urbani si confondono sempre piú col vero e proprio stato maggiore industriale.

Gli intellettuali di tipo rurale sono in gran parte «tradizionali», cioè legati alla massa sociale campagnola e piccolo borghese, di città (specialmente dei centri minori), non ancora elaborata e messa in movimento dal sistema capitalistico: questo tipo di intellettuale mette a contatto la massa contadina con l'amministrazione statale o locale (avvocati, notai, ecc.) e per questa stessa funzione ha una grande funzione politico-sociale, perché la mediazione professionale è difficilmente scindibile dalla mediazione politica. Inoltre: nella campagna l'intellettuale (prete, avvocato, maestro, notaio, medico, ecc.) ha un medio tenore di vita superiore o almeno diverso da quello del medio contadino e perciò rappresenta per questo un modello sociale nell'aspirazione a uscire dalla sua condizione e a migliorarla. Il contadino pensa sempre che almeno un suo figliolo potrebbe diventare intellettuale (specialmente prete), cioè diventare un signore, elevando il grado sociale della famiglia e facilitandone la vita economica con le aderenze che non potrà non avere tra gli altri signori. L'atteggiamento del contadino verso l'intellettuale è duplice e pare contradditorio: egli ammira la posizione sociale dell'intellettuale e in generale dell'impiegato statale, ma finge talvolta di disprezzarla, cioè la sua ammirazione è intrisa istintivamente da elementi di invidia e di rabbia appassionata. Non si comprende nulla della vita collettiva dei contadini e dei germi e fermenti di sviluppo che vi esistono se non si prende in considerazione, non si studia in concreto e non si approfondisce, questa subordinazione effettiva agli intellettuali: ogni sviluppo organico delle masse contadine, fino a un certo punto, è legato ai movimenti degli intellettuali e ne dipende.

Altro è il caso per gli intellettuali urbani: i tecnici di fabbrica non esplicano nessuna funzione politica sulle loro masse strumentali, o almeno è questa una fase già superata; talvolta avviene proprio il contrario, che le masse strumentali, almeno attraverso i loro propri intellettuali organici, esercitano un influsso politico sui tecnici.

Il punto centrale della quistione rimane la distinzione tra intellettuali, categoria organica di ogni gruppo sociale fondamentale e intellettuali, come categoria tradizionale; distinzione da cui scaturisce tutta una serie di problemi e di possibili ricerche storiche. Il problema piú interessante è quello che riguarda, se considerato da questo punto di vista, il partito politico moderno, le sue origini reali, i suoi sviluppi, le sue forme. Cosa diventa il partito politico in ordine al problema degli intellettuali? Occorre fare alcune distinzioni: 1) per alcuni gruppi sociali il partito politico è niente altro che il modo proprio di elaborare la propria categoria di intellettuali organici, che si formano cosí e non possono non formarsi, dati i caratteri generali e le condizioni di formazione, di vita e di sviluppo del gruppo sociale dato, direttamente nel campo politico e filosofico e non già nel campo della tecnica produttiva (nel campo della tecnica produttiva si formano quegli strati che si può dire corrispondono ai «graduati di truppa» nell'esercito, cioè gli operai qualificati e specializzati in città e in modo piú complesso i mezzadri e coloni in campagna, poiché il mezzadro e il colono in generale corrisponde piuttosto al tipo artigiano, che è l'operaio qualificato di una economia medioevale); 2) il partito politico, per tutti i gruppi, è appunto il meccanismo che nella società civile compie la stessa funzione che compie lo Stato in misura piú vasta e piú sinteticamente, nella società politica, cioè procura la saldatura tra intellettuali organici di un dato gruppo, quello dominante, e intellettuali tradizionali, e questa funzione il partito compie appunto in dipendenza della sua funzione fondamentale che è quella di elaborare i propri componenti, elementi di un gruppo sociale nato e sviluppatosi come «economico», fino a farli diventare intellettuali politici qualificati, dirigenti, organizzatori di tutte le attività e le funzioni inerenti all'organico sviluppo di una società integrale, civile e politica. Si può dire anzi che nel suo ambito il partito politico compia la sua funzione molto piú compiutamente e organicamente di quanto lo Stato compia la sua in ambito piú vasto: un intellettuale che entra a far parte del partito politico di un determinato gruppo sociale, si confonde con gli intellettuali organici del gruppo stesso, si lega strettamente al gruppo, ciò che non avviene attraverso la partecipazione alla vita statale che mediocremente e talvolta affatto. Anzi avviene che molti intellettuali pensino di essere lo Stato, credenza, che, data la massa imponente della categoria, ha talvolta conseguenze notevoli e porta a complicazioni spiacevoli per il gruppo fondamentale economico che realmente è lo Stato.

Che tutti i membri di un partito politico debbano essere considerati come intellettuali, ecco un'affermazione che può prestarsi allo scherzo e alla caricatura; pure, se si riflette, niente di piú esatto. Sarà da fare distinzione di gradi, un partito potrà avere una maggiore o minore composizione del grado piú alto o di quello piú basso, non è ciò che importa: importa la funzione che è direttiva e organizzativa, cioè educativa, cioè intellettuale. Un commerciante non entra a far parte di un partito politico per fare del commercio, né un industriale per produrre di piú e a costi diminuiti, né un contadino per apprendere nuovi metodi di coltivare la terra, anche se alcuni aspetti di queste esigenze del commerciante, dell'industriale, del contadino possono trovare soddisfazione nel partito politico (l'opinione generale contraddice a ciò, affermando che il commerciante, l'industriale, il contadino «politicanti» perdono invece di guadagnare, e sono i peggiori della loro categoria, ciò che può essere discusso). Per questi scopi, entro certi limiti, esiste il sindacato professionale in cui l'attività economico-corporativa del commerciante, dell'industriale, del contadino, trova il suo quadro piú adatto. Nel partito politico gli elementi di un gruppo sociale economico superano questo momento del loro sviluppo storico e diventano agenti di attività generali, di carattere nazionale e internazionale. Questa funzione del partito politico dovrebbe apparire molto piú chiara da un'analisi storica concreta del come si sono sviluppate le categorie organiche degli intellettuali e quelle tradizionali sia nel terreno delle varie storie nazionali sia in quello dello sviluppo dei vari gruppi sociali piú importanti nel quadro delle diverse nazioni, specialmente di quei gruppi la cui attività economica è stata prevalentemente strumentale.

La formazione degli intellettuali tradizionali è il problema storico piú interessante. Esso è certamente legato alla schiavitú del mondo classico e alla posizione dei liberti di origine greca e orientale nell'organizzazione sociale dell'Impero romano.

Questo distacco non solo sociale ma nazionale, di razza, tra masse notevoli di intellettuali e la classe dominante dell'Impero romano si riproduce dopo la caduta dell'Impero tra guerrieri germanici e intellettuali di origine romanizzati, continuatori della categoria dei liberti. Si intreccia con questi fenomeni il nascere e lo svilupparsi del cattolicismo e dell'organizzazione ecclesiastica che per molti secoli assorbe la maggior parte delle attività intellettuali ed esercita il monopolio della direzione culturale, con sanzioni penali per chi vuole opporsi o anche eludere il monopolio. In Italia si verifica il fenomeno, piú o meno intenso secondo i tempi, della funzione cosmopolita degli intellettuali della penisola. Accennerò le differenze che saltano subito agli occhi nello sviluppo degli intellettuali in tutta una serie di paesi, almeno le piú notevoli, con l'avvertenza che queste osservazioni dovranno essere controllate e approfondite (d'altronde, tutte queste note devono essere considerate semplicemente come spunti e motivi per la memoria, che devono essere controllati e approfonditi):

Per l'Italia il fatto centrale è appunto la funzione internazionale e cosmopolita dei suoi intellettuali che è causa ed effetto dello stato di disgregazione in cui rimane la penisola dalla caduta dell'Impero Romano al 1870.

La Francia dà un tipo compiuto di sviluppo armonico di tutte le energie nazionali e specialmente delle categorie intellettuali; quando nel 1789 un nuovo raggruppamento sociale affiora politicamente alla storia, esso è completamente attrezzato per tutte le sue funzioni sociali e perciò lotta per il dominio totale della nazione, senza venire a compromessi essenziali con le vecchie classi, ma invece subordinandole ai propri fini. Le prime cellule intellettuali del nuovo tipo nascono con le prime cellule economiche: la stessa organizzazione ecclesiastica ne è influenzata (gallicanismo, lotte molto precoci tra Chiesa e Stato). Questa massiccia costruzione intellettuale spiega la funzione della cultura francese nei secoli XVIII e XIX, funzione di irradiazione internazionale e cosmopolita e di espansione a carattere imperialistico ed egemonico in modo organico, quindi ben diversa da quella italiana, a carattere immigratorio personale e disgregato, che non refluisce sulla base nazionale per potenziarla ma invece concorre a rendere impossibile il costituirsi di una salda base nazionale.

In Russia diversi spunti: l'organizzazione politica ed economico-commerciale è creata dai Normanni (Varieghi), quella religiosa dai greci bizantini; in un secondo tempo i tedeschi e i francesi portano l'esperienza europea in Russia e dànno un primo scheletro consistente alla gelatina storica russa. Le forze nazionali sono inerti, passive e ricettive, ma forse appunto perciò assimilano completamente le influenze straniere e gli stessi stranieri, russificandoli. Nel periodo storico piú recente avviene il fenomeno inverso: una élite di persone tra le piú attive, energiche, intraprendenti e disciplinate, emigra all'estero, assimila la cultura e le esperienze storiche dei paesi piú progrediti dell'Occidente, senza perciò perdere i caratteri piú essenziali della propria nazionalità, senza cioè rompere i legami sentimentali e storici col proprio popolo; fatto cosí il suo garzonato intellettuale, rientra nel paese, costringendo il popolo ad un forzato risveglio, ad una marcia in avanti accelerata, bruciando le tappe. La differenza tra questa élite e quella tedesca importata (da Pietro il Grande, per esempio) consiste nel suo carattere essenziale nazionale-popolare: non può essere assimilata dalla passività inerte del popolo russo, perché è essa stessa una energica reazione russa alla propria inerzia storica.

In un altro terreno e in ben diverse condizioni di tempo e di luogo, questo fenomeno russo può essere paragonato alla nascita della nazione americana (Stati Uniti): gl'immigrati anglosassoni sono anch'essi un'élite intellettuale, ma specialmente morale. Si vuol parlare naturalmente dei primi immigrati, dei pionieri, protagonisti delle lotte religiose e politiche inglesi, sconfitti, ma non umiliati né depressi nella loro patria d'origine. Essi importano in America, con se stessi, oltre l'energia morale e volitiva, un certo grado di civiltà, una certa fase dell'evoluzione storica europea, che trapiantata nel suolo vergine americano da tali agenti, continua a sviluppare le forze implicite nella sua natura ma con un ritmo incomparabilmente piú rapido che nella vecchia Europa, dove esiste tutta una serie di freni (morali intellettuali politici economici, incorporati in determinati gruppi della popolazione, reliquie dei passati regimi che non vogliono sparire) che si oppongono a un processo celere ed equilibrano nella mediocrità ogni iniziativa, diluendola nel tempo e nello spazio.

In Inghilterra lo sviluppo è molto diverso che in Francia. Il nuovo raggruppamento sociale nato sulla base dell'industrialismo moderno, ha un sorprendente sviluppo economico-corporativo, ma procede a tastoni nel campo intellettuale-politico. Molto vasta la categoria degli intellettuali organici, nati cioè sullo stesso terreno industriale col gruppo economico, ma nella sfera piú elevata troviamo conservata la posizione di quasi monopolio della vecchia classe terriera, che perde la supremazia economica ma conserva a lungo una supremazia politico-intellettuale e viene assimilata come «intellettuali tradizionali» e strato dirigente dal nuovo gruppo al potere. La vecchia aristocrazia terriera si unisce agli industriali con un tipo di sutura che in altri paesi è appunto quello che unisce gli intellettuali tradizionali alle nuove classi dominanti.

Il fenomeno inglese si è presentato anche in Germania complicato da altri elementi storici e tradizionali. La Germania, come l'Italia, è stata la sede di una istituzione e di una ideologia universalistica, supernazionale (Sacro Romano Impero della Nazione tedesca) e ha dato una certa quantità di personale alla cosmopoli medioevale, depauperando le proprie energie interne e suscitando lotte che distoglievano dai problemi di organizzazione nazionale e mantenevano la disgregazione territoriale del Medioevo. Lo sviluppo industriale è avvenuto sotto un involucro semifeudale durato fino al novembre 1918 e gli junker hanno mantenuto una supremazia politico-intellettuale ben maggiore di quella dello stesso gruppo inglese. Essi sono stati gli intellettuali tradizionali degli industriali tedeschi, ma con speciali privilegi e con una forte coscienza di essere un gruppo sociale indipendente, basata sul fatto che detenevano un notevole potere economico sulla terra, «produttiva» piú che in Inghilterra. Gli junker prussiani rassomigliano a una casta sacerdotale-militare, che ha un quasi monopolio delle funzioni direttive-organizzative nella società politica, ma ha nello stesso tempo una base economica propria e non dipende esclusivamente dalla liberalità del gruppo economico dominante. Inoltre, a differenza dei nobili terrieri inglesi, gli Junker costituivano l'ufficialità di un grande esercito stanziale, ciò che dava loro dei quadri organizzativi solidi, favorevoli alla conservazione dello spirito di corpo e del monopolio politico (nel libro Parlamento e governo nel nuovo ordinamento della Germania di Max Weber si possono trovare molti elementi per vedere come il monopolio politico dei nobili abbia impedito l'elaborazione di un personale politico borghese vasto e sperimentato e sia alla base delle continue crisi parlamentari e della disgregazione dei partiti liberali e democratici; quindi l'importanza del Centro Cattolico e della socialdemocrazia, che nel periodo imperiale riuscirono a elaborare un proprio strato parlamentare e direttivo abbastanza notevole).

Negli Stati Uniti è da notare l'assenza, in una certa misura, degli intellettuali tradizionali, e quindi il diverso equilibrio degli intellettuali in generale. Si è avuta una formazione massiccia sulla base industriale di tutte le superstrutture moderne. La necessità di un equilibrio non è data dal fatto che occorre fondere gli intellettuali organici con quelli tradizionali che non esistono come categoria cristallizzata e misoneista, ma dal fatto che occorre fondere in un unico crogiolo nazionale di cultura unitaria tipi di culture diverse portati dagli immigrati di varie origini nazionali. La mancanza di una vasta sedimentazione di intellettuali tradizionali, come si è verificata nei paesi di antica civiltà, spiega in parte, sia l'esistenza di due soli grandi partiti politici, che si potrebbero in realtà facilmente ridurre a uno solo (cfr. con la Francia non solo del dopoguerra, quando la moltiplicazione dei partiti è diventata fenomeno generale) e all'opposto la moltiplicazione illimitata delle sètte religiose (mi pare ne siano state catalogate piú di 200; confronta con la Francia e con le lotte accanite sostenute per mantenere l'unità religiosa e morale del popolo francese).

Una manifestazione interessante è ancora da studiare negli Stati Uniti ed è il formarsi di un numero sorprendente di intellettuali negri, che assorbono la cultura e la tecnica americana. Si può pensare all'influsso indiretto che questi intellettuali negri possono esercitare sulle masse arretrate dell'Africa e a quello diretto se si verificasse una di queste ipotesi: 1) che l'espansionismo americano si serva come di suoi agenti dei negri nazionali per conquistare i mercati africani ed estendervi il proprio tipo di civiltà (qualcosa di simile è già avvenuto, ma ignoro in qual misura); 2) che le lotte per l'unificazione del popolo americano si inaspriscano in tal misura da determinare l'esodo dei negri e il ritorno in Africa degli elementi intellettuali piú indipendenti ed energici, e quindi meno propensi ad assoggettarsi a una possibile legislazione ancora piú umiliante del costume attualmente diffuso. Nascerebbero due quistioni fondamentali: 1) della lingua, cioè l'inglese potrebbe diventare la lingua colta dell'Africa, unificatrice dell'esistente pulviscolo di dialetti? 2) se questo strato intellettuale possa avere la capacità assimilatrice e organizzatrice in tal misura da far diventare «nazionale» l'attuale primitivo sentimento di razza disprezzata, innalzando il continente africano al mito e alla funzione di patria comune di tutti i negri. Mi pare che, per ora, i negri d'America debbano avere uno spirito di razza e nazionale piú negativo che positivo, suscitato cioè dalla lotta che i bianchi conducono per isolarli e deprimerli: ma non è stato questo il caso degli ebrei fino a tutto il 1700? La Liberia già americanizzata e con lingua ufficiale inglese potrebbe diventare la Sion dei negri americani, con la tendenza a porsi come il Piemonte africano.

Nell'America meridionale e centrale la quistione degli intellettuali mi pare sia da esaminare tenendo conto di queste condizioni fondamentali: anche nell'America meridionale e centrale non esiste una vasta categoria di intellettuali tradizionali, ma la cosa non si presenta negli stessi termini degli Stati Uniti. Troviamo infatti alla base dello sviluppo di questi paesi i quadri della civiltà spagnola e portoghese del Cinquecento e del Seicento, caratterizzata dalla Controriforma e dal militarismo parassitario. Le cristallizzazioni resistenti ancora oggi in questi paesi sono il clero e una casta militare, due categorie di intellettuali tradizionali fossilizzate nella forma della madrepatria europea. La base industriale è molto ristretta e non ha sviluppato soprastrutture complicate: la maggior quantità di intellettuali è di tipo rurale e poiché domina il latifondo, con estese proprietà ecclesiastiche, questi intellettuali sono legati al clero e ai grandi proprietari. La composizione nazionale è molto squilibrata anche fra i bianchi, ma si complica per le masse notevoli di indii che in alcuni paesi sono la maggioranza della popolazione. Si può dire in generale che in queste regioni americane esiste ancora una situazione da Kulturkampf e da processo Dreyfus, cioè una situazione in cui l'elemento laico e borghese non ha ancora raggiunto la fase della subordinazione alla politica laica dello Stato moderno degli interessi e dell'influenza clericale e militaresca. Avviene cosí che per opposizione al gesuitismo abbia ancora molta influenza la Massoneria e il tipo di organizzazione culturale come la «Chiesa positivista». Gli avvenimenti di questi ultimi tempi (novembre 1930), dal Kulturkampf di Calles nel Messico alle insurrezioni militari-popolari in Argentina, nel Brasile, nel Perú, nel Cile, in Bolivia, dimostrano appunto la esattezza di queste osservazioni.

Altri tipi di formazione delle categorie intellettuali e dei loro rapporti con le forze nazionali si possono trovare in India, in Cina, nel Giappone. Nel Giappone abbiamo una formazione del tipo inglese e tedesco, cioè di una civiltà industriale che si sviluppa entro un involucro feudale-burocratico con caratteri propri inconfondibili.

In Cina c'è il fenomeno della scrittura, espressione della completa separazione degli intellettuali dal popolo. In India e in Cina l'enorme distanza tra gli intellettuali e il popolo si manifesta poi nel campo religioso. Il problema delle diverse credenze e del modo diverso di concepire e praticare la stessa religione tra i diversi strati della società, ma specialmente tra clero e intellettuali e popolo, dovrebbe essere studiato in generale, perché si manifesta da per tutto in una certa misura, sebbene nei paesi dell'Asia orientale abbia le manifestazioni piú estreme. Nei paesi protestanti la differenza è relativamente piccola (la moltiplicazione delle sètte è legata all'esigenza di una sutura completa tra intellettuali e popolo, ciò che riproduce nella sfera dell'organizzazione superiore tutte le scabrosità della concezione reale delle masse popolari). È molto notevole nei paesi cattolici, ma con gradi diversi: meno grande nella Germania cattolica e in Francia, piú grande in Italia, specialmente nel Mezzogiorno e nelle isole; grandissima nella penisola iberica e nei paesi dell'America latina. Il fenomeno aumenta di portata nei paesi ortodossi ove bisogna parlare di tre gradi della stessa religione: quello dell'alto clero e dei monaci, quello del clero secolare e quello del popolo. Diventa assurdo nell'Asia orientale, dove la religione del popolo spesso non ha nulla a che fare con quella dei libri, sebbene alle due si dia lo stesso nome.


Quando si distingue tra intellettuali e non-intellettuali, in realtà ci si riferisce solo alla immediata funzione sociale della categoria professionale degli intellettuali, cioè si tiene conto della direzione in cui grava il peso maggiore della attività specifica professionale, se nell'elaborazione intellettuale o nello sforzo muscolare-nervoso. Ciò significa che, se si può parlare di intellettuali, non si può parlare di non-intellettuali, perché non-intellettuali non esistono. Ma lo stesso rapporto tra sforzo di elaborazione intellettuale-cerebrale e sforzo muscolare-nervoso non è sempre uguale, quindi si hanno diversi gradi di attività specifica intellettuale. Non c'è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare l'homo faber dall'homo sapiens. Ogni uomo, infine, all'infuori della sua professione esplica una qualche attività intellettuale, è cioè un «filosofo», un artista, un uomo di gusto, partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole linea di condotta morale, quindi contribuisce a sostenere o a modificare una concezione del mondo, cioè a suscitare nuovi modi di pensare. Il problema della creazione di un nuovo ceto intellettuale consiste pertanto nell'elaborare criticamente l'attività intellettuale che in ognuno esiste in un certo grado di sviluppo, modificando il suo rapporto con lo sforzo muscolare-nervoso verso un nuovo equilibrio e ottenendo che lo stesso sforzo muscolare-nervoso, in quanto elemento di un'attività pratica generale, che innova perpetuamente il mondo fisico e sociale, diventi il fondamento di una nuova e integrale concezione del mondo. Il tipo tradizionale e volgarizzato dell'intellettuale è dato dal letterato, dal filosofo, dall'artista. Perciò i giornalisti, che ritengono di essere letterati, filosofi, artisti, ritengono anche di essere i «veri» intellettuali. Nel mondo moderno l'educazione tecnica, strettamente legata al lavoro industriale anche il piú primitivo o squalificato, deve formare la base del nuovo tipo di intellettuale. Su questa base ha lavorato l'«Ordine Nuovo» settimanale per sviluppare certe forme di nuovo intellettualismo e per determinarne i nuovi concetti, e questa non è stata una delle minori ragioni del suo successo, perché una tale impostazione corrispondeva ad aspirazioni latenti e era conforme allo sviluppo delle forme reali di vita. Il modo di essere del nuovo intellettuale non può piú consistere nell'eloquenza, motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni, ma nel mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, «persuasore permanentemente» perché non puro oratore – e tuttavia superiore allo spirito astratto matematico; dalla tecnica-lavoro giunge alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza la quale si rimane «specialista» e non si diventa «dirigente» (specialista + politico).


Gli Elementi di scienza politica del Mosca (nuova ediz. aumentata del 1923) sono da esaminare per questa rubrica. La cosí detta «classe politica» del Mosca non è altro che la categoria intellettuale del gruppo sociale dominante: il concetto di «classe politica» del Mosca è da avvicinare al concetto di élite del Pareto, che è un altro tentativo di interpretare il fenomeno storico degli intellettuali e la loro funzione nella vita statale e sociale. Il libro del Mosca è un enorme zibaldone di carattere sociologico e positivistico, con in piú la tendenziosità della politica immediata che lo rende meno indigesto e letterariamente piú vivace.


Intellettuali tradizionali. Per una categoria di questi intellettuali, la piú importante forse, dopo quella «ecclesiastica», per il prestigio e la funzione sociale che ha svolto nelle società primitive – la categoria dei medici in senso largo, cioè di tutti quelli che «lottano» o appaiono lottare contro la morte e le malattie – occorrerà confrontare la Storia della medicina di Arturo Castiglioni. Ricordare che c'è stata connessione tra la religione e la medicina e ancora in certe zone, continua ad esserci: ospedali in mano a religiosi per certe funzioni organizzative, oltre al fatto che dove appare il medico appare il prete (esorcismi, assistenze varie, ecc.). Molte grandi figure religiose erano anche o furono concepite come grandi «terapeuti»: l'idea del miracolo fino alla resurrezione dei morti. Anche per i re continuò a lungo ad esservi la credenza che guarissero con l'imposizione delle mani ecc.


Sugli scrittori politici e moralisti del Seicento, rilevati dal Croce nel suo volume Storia dell'età barocca, cfr. la recensione di Domenico Petrini (nel «Pègaso» dell'agosto 1930) Politici e moralisti del Seicento, del libro con lo stesso titolo Politici e moralisti del Seicento (Strada, Zuccolo, Settala, Accetto, Brignole Sale, Malvezzi), a cura di Benedetto Croce e Santino Caramella, Laterza, Bari, 1930, L. 25 (nella collezione «Scrittori d'Italia»).

Note sparse



Funzione cosmopolita degli intellettuali italiani


La quistione della lingua e le classi intellettuali italiane. Per lo sviluppo del concetto che l'Italia realizza il paradosso di un paese giovanissimo e vecchissimo nello stesso tempo (come Lao-Tse che nasce a ottant’anni).

I rapporti tra gli intellettuali e il popolo-nazione studiati sotto l'aspetto della lingua scritta dagli intellettuali e usata nei loro rapporti e sotto l'aspetto della funzione avuta dagli intellettuali italiani nella Cosmopoli medioevale per il fatto che il Papato aveva sede in Italia (l'uso del latino come lingua dotta è legato al cosmopolitismo cattolico).

Latino letterario e latino volgare. Dal latino volgare si sviluppano i dialetti neolatini non solo in Italia ma in tutta l'area europea romanizzata: il latino letterario si cristallizza nel latino dei dotti, degli intellettuali, il cosí detto mediolatino (cfr. l'articolo di Filippo Ermini sulla «Nuova Antologia» del 16 maggio 1928), che non può essere in nessun modo paragonato a una lingua parlata, nazionale, storicamente vivente, quantunque non sia neppure da confondersi con un gergo o con una lingua artificiale come l'esperanto. In ogni modo c'è una frattura tra il popolo e gli intellettuali, tra il popolo e la cultura. (Anche) i libri religiosi sono scritti in mediolatino, sicché anche le discussioni religiose sfuggono al popolo, quantunque la religione sia l'elemento culturale prevalente: della religione il popolo vede i riti e sente le prediche esortative, ma non può seguire le discussioni e gli sviluppi ideologici che sono monopolio di una casta.

I volgari sono scritti quando il popolo riprende importanza: il giuramento di Strasburgo (dopo la battaglia di Fontaneto tra i successori di Carlo Magno) è rimasto perché i soldati non potevano giurare in una lingua sconosciuta, senza togliere validità al giuramento. Anche in Italia le prime tracce di volgare sono giuramenti o attestazioni di testimoni del popolo per stabilire la proprietà dei fondi di convento (Montecassino). In ogni modo si può dire che in Italia dal 600 d. C., quando si può presumere che il popolo non comprendesse piú il latino dei dotti, fino al 1250, quando incomincia la fioritura del volgare, cioè per piú di 600 anni, il popolo non comprendesse i libri e non potesse partecipare al mondo della cultura. Il fiorire dei Comuni dà sviluppo ai volgari e l'egemonia intellettuale di Firenze dà una unità al volgare, cioè crea un volgare illustre. Ma cos'è questo volgare illustre? È il fiorentino elaborato dagli intellettuali della vecchia tradizione: è il fiorentino di vocabolario e anche di fonetica, ma è un latino di sintassi. D'altronde la vittoria del volgare sul latino non era facile: i dotti italiani, eccettuati i poeti e gli artisti in generale, scrivevano per l'Europa cristiana e non per l'Italia, erano una concentrazione di intellettuali cosmopoliti e non nazionali. La caduta dei Comuni e l'avvento del Principato, la creazione di una casta di governo staccata dal popolo, cristallizza questo volgare, allo stesso modo che si era cristallizzato il latino letterario. L'italiano è di nuovo una lingua scritta e non parlata, dei dotti e non della nazione. Ci sono in Italia due lingue dotte, il latino e l'italiano, e questo finisce con l'avere il sopravvento, e col trionfare completamente nel secolo XIX col distacco degli intellettuali laici da quelli ecclesiastici (gli ecclesiastici continuano anche oggi a scrivere libri in latino, ma oggi anche il Vaticano usa sempre piú l'italiano quando tratta di cose italiane e cosí finirà col fare per gli altri paesi, coerentemente alla sua attuale politica delle nazionalità). In ogni modo mi pare sia da fissare questo punto: che la cristallizzazione del volgare illustre non può essere staccata dalla tradizione del mediolatino e rappresenta un fenomeno analogo. Dopo una breve parentesi (libertà comunali) in cui c'è una fioritura di intellettuali usciti dalle classi popolari (borghesi) c'è un riassorbimento della funzione intellettuale nella casta tradizionale, in cui i singoli elementi sono di origine popolare, ma in cui prevale in essi il carattere di casta sull'origine. Non è cioè tutto uno strato della popolazione che arrivando al potere crea i suoi intellettuali (ciò è avvenuto nel Trecento) ma è un organismo tradizionalmente selezionato che assimila nei suoi quadri singoli individui (l'esempio tipico di ciò è dato dall'organizzazione ecclesiastica).

Di altri elementi occorre tener conto in un'analisi compiuta e credo che per molte quistioni la retorica nazionale del secolo scorso e i pregiudizi da essa incarnati non abbiano neanche spinto a fare le ricerche preliminari. Cosí quale fu l'area esatta della diffusione del toscano? A Venezia, per esempio, secondo me, fu introdotto già l'italiano elaborato dai dotti sullo schema latino e non ebbe mai entratura il fiorentino originario, nel senso che i mercanti fiorentini non fecero sentire la viva voce fiorentina come a Roma e a Napoli, per esempio: la lingua di governo continuò a essere il veneziano. Cosí per altri centri (Genova, credo). Una storia della lingua italiana non esiste ancora in questo senso: la grammatica storica non è ancora ciò, anzi. Per la lingua francese esistono di queste storie (quella del Brunot – e del Littré – mi pare sia del tipo che io penso, ma non ricordo). Mi pare che, intesa la lingua come elemento della cultura e quindi della storia generale e come manifestazione precipua della «nazionalità» e «popolarità» degli intellettuali, questo studio non sia ozioso e puramente erudito.

Nel suo articolo, interessante come informazione dell'importanza che ha assunto lo studio del mediolatino (questa espressione, che dovrebbe significare latino medioevale, credo, mi pare abbastanza impropria e possibile causa di errori tra i non specialisti) e a cui potrò rifarmi per una prima bibliografia, oltre che ad altri scritti dell'Ermini che è un mediolatinista, l'Ermini afferma, che in base alle ricerche, «alla teoria dei due mondi separati, del latino, che è in mano dei soli dotti e si spegne, e del neolatino, che sorge e s'avviva, bisogna sostituire la teoria dell'unità latina e della continuità perenne della tradizione classica». Ciò può significare solo che la nuova cultura neolatina sentiva fortemente gli influssi della precedente cultura, non che ci sia stata una unità «popolare-nazionale»di cultura.

Ma forse per l'Ermini mediolatino ha proprio il significato letterale, del latino che sta in mezzo tra quello classico e quello umanistico, che indubbiamente segna un ritorno al classico, mentre il mediolatino ha caratteri propri, inconfondibili: l'Ermini fa incominciare il mediolatino verso la metà del secolo IV, quando avviene l'alleanza tra la cultura (!) classica e la religione cristiana, quando «una nobile pleiade di scrittori, uscendo dalle scuole di retorica e di poetica, sente vivo il desiderio di congiungere la fede nuova alla bellezza (!) antica e cosí dar vita alla prima poesia cristiana». (Mi pare giusto far risalire il mediolatino al primo rigoglio di letteratura cristiana latina, ma il modo di esporne la genesi mi pare vago e arbitrario – cfr. la Storia della letteratura latina del Marchesi per questo punto –). [Il mediolatino occuperebbe circa un millennio, tra la metà del IV secolo] e la fine del secolo XIV, tra l'inizio dell'ispirazione cristiana e il diffondersi dell'umanesimo. Questi mille anni sono dall'Ermini suddivisi cosí: prima età delle origini, dalla morte di Costantino alla caduta dell'Impero d'Occidente (337-476); seconda età, della letteratura barbarica, dal 476 al 799, cioè fino alla restaurazione dell'Impero per opera di Carlo Magno, vero tempo di transizione nel continuo e progressivo latinizzarsi dei barbari (esagerato: del formarsi uno strato di intellettuali germanici che scrivono in latino); una terza età: del risorgimento carolino, dal 799 all'888, alla morte di Carlo il Grosso; una quarta, della letteratura feudale, dall'888 al 1000, fino al pontificato di Silvestro II, quando il feudalesimo, lenta trasformazione di ordinamenti preesistenti, apre un'èra nuova; una quinta, della letteratura scolastica, che corre sino alla fine del secolo XII, quando il sapere si raccoglie nelle grandi scuole e il pensiero e il metodo filosofico feconda tutte le scienze, e una sesta, della letteratura erudita, dal principio del XIII al termine del XIV e che accenna già alla decadenza.


Cfr. l'art. La politica religiosa di Costantino Magno nella «Civiltà Cattolica» del 7 settembre 1929. Vi si parla di un libro di Jules Maurice, Constantin le Grand. L'origine de la civilisation chrétienne, Parigi, Ed. Spes (s. d.), dove sono esposti alcuni punti di vista interessanti sul primo contatto ufficiale tra Impero e Cristianesimo, utili per questa rubrica (cause storiche per cui il latino divenne lingua del cristianesimo occidentale dando luogo al Mediolatino). Cfr. anche il «profilo» di Costantino del Salvatorelli (ed. Formiggini).


Ettore Veo, in un articolo della «Nuova Antologia», del 16 giugno 1928, Roma nei suoi fogli dialettali, nota come il romanesco rimanesse a lungo costretto nell'ambito del volgo, schiacciato dal latino. «Ma già in movimenti rivoluzionari il volgo, come succede, cerca di passare – o lo si fa passare – in primo piano». Il Sacco di Roma trova scrittori in dialetto, ma specialmente la Rivoluzione francese. (Di qui comincia di fatto la fortuna «scritta» del romanesco e la fioritura dialettale che culmina nel periodo liberale di Pio IX fino alla caduta della Repubblica Romana). Nel '47-'49 il dialetto è arma dei liberali, dopo il '70 dei clericali.


Latino ecclesiastico e volgare nel Medioevo. «La predicazione in lingua volgare risale in Francia alle origini stesse della lingua. Il latino era la lingua della Chiesa: cosí le prediche erano fatte in latino ai chierici (cleres), ai frati, anche alle monache. Ma per i laici le prediche erano fatte in francese. Fin dal IX secolo, i concili di Tours e di Reims ordinano ai preti d'istruire il popolo nella lingua del popolo. Ciò era necessario per essere compresi. Nel secolo XII vi fu una predicazione in volgare, attiva, vivace, potente, che trascinava grandi e piccoli alla crociata, riempiva i monasteri, gettava in ginocchio e in tutti gli eccessi della penitenza intere città. Dall'alto dei loro pulpiti, sulle piazze, nei campi, i predicatori erano i direttori pubblici della coscienza degli individui e delle folle; tutto e tutti passano sotto la loro aspra censura, e dalle sfrontate acconciature delle donne nessuna parte segreta o visibile della corruzione del secolo sconcertava l'audacia del loro pensiero o della loro lingua» (Lanson, Histoire de la littérature Française, Hachette, 19.ème éd., pp. 160-61). Il Lanson dà questi dati bibliografici: Abbé L. Bourgain, La Chaire française au XIIe siècle, Paris, 1879; Lecoy de la Marche, La Chaire française au moyen âge, 2.ème éd., Paris, 1886; Langlois, L'éloquence sacrée au moyen âge, «Revue des Deux Mondes», 1° gennaio 1893.


Per la formazione delle classi intellettuali italiane nell'alto Medioevo bisogna tener conto oltre che della lingua (quistione del Mediolatino) anche e specialmente del diritto. Caduta del diritto romano dopo le invasioni barbariche e sua riduzione a diritto personale e consuetudinario in confronto del diritto longobardo; emersione del diritto canonico che da diritto particolare, di gruppo, assurge a diritto statale; rinascita del diritto romano e sua espansione per mezzo delle Università. Questi fenomeni non avvengono di colpo e simultaneamente ma sono legati allo sviluppo storico generale (fusione dei barbari con le popolazioni locali, ecc.). Lo sviluppo del diritto canonico e l'importanza che esso assume nell'economia giuridica delle nuove formazioni statali, il formarsi della mentalità imperiale-cosmopolita medioevale, lo sviluppo del diritto romano adattato e interpretato per le nuove forme di vita dànno luogo al nascere e allo stratificarsi degli intellettuali italiani cosmopoliti.

C'è un periodo, quello dell'egemonia del diritto germanico, in cui però il legame tra il vecchio e il nuovo rimane quasi unicamente la lingua, il Mediolatino. Il problema di questa interruzione ha interessato la scienza e, cosa importante, ha interessato anche intellettuali come il Manzoni (vedi suoi scritti sui rapporti tra romani e longobardi a proposito dell'Adelchi): cioè ha interessato nel principio del secolo XIX quelli che si preoccupavano della continuità della tradizione italiana dall'antica Roma in poi per costituire la nuova coscienza nazionale.

Sull'argomento generale dell'oscuramento del diritto romano e sua rinascita e dell'emergere del diritto canonico cfr. I «due diritti» e il loro odierno insegnamento in Italia di Francesco Brandileone («Nuova Antologia» del 16 luglio 1928) per avere alcune idee generali, ma vedere, naturalmente le grandi storie del diritto.

Schema estratto dal saggio del Brandileone:

Nelle scuole dell'Impero Romano a Roma, a Costantinopoli, a Berito, si insegnava solo il diritto romano nelle due positiones di jus publicum e di jus privatum; nel jus publicum era compreso il jus sacrum pagano, finché il paganesimo fu religione tanto dei sudditi che dello Stato. Comparso il Cristianesimo e ordinatosi, nei secoli delle persecuzioni e delle tolleranze, come società a sé, diversa dalla società politica, esso die' luogo [a] un jus sacrum nuovo. Dopo che il Cristianesimo fu prima riconosciuto e poi elevato dallo Stato a fede unica dell'Impero, il nuovo jus sacrum ebbe bensí appoggi e riconoscimenti da parte del legislatore laico, ma non fu però considerato come l'antico. Poiché il Cristianesimo si era separato dalla vita sociale politica, si era staccato anche dal jus publicum e le scuole non si occupavano del suo ordinamento; il nuovo jus sacrum formò la speciale occupazione delle scuole tutte proprie della società religiosa (questo fatto è molto importante nella storia dello Stato romano ed è ricco di gravi conseguenze, perché inizia un dualismo di potestà che avrà lo sviluppo nel Medioevo: ma il Brandileone non lo spiega: lo pone come una conseguenza logica dell'originario distacco del Cristianesimo dalla società politica. Benissimo, ma perché, diventato il Cristianesimo religione dello Stato come lo era stato il paganesimo, non si ricostituí l'unità formale politico-religiosa? Questo è il problema).

Durante i secoli dell'alto Medioevo il nuovo jus sacrum, detto anche jus canonicum o ius ecclesiasticum e il jus romanum furono insegnati in scuole diverse e in scuole di diversa importanza numerica, di diffusione, di attività. Speciali scuole romanistiche, sia che continuassero le antiche scuole sia che fossero sorte allora, in Occidente, si incontrano solo in Italia; se anche fuori d'Italia vi furono le scholae liberalium artium e se in esse (cosí come nelle corrispondenti italiane) si impartirono nozioni elementari di diritto laico, specialmente romano, l'attività spiegata fu povera cosa come è attestato dalla scarsa, frammentaria, intermittente e di solito maldestra produzione da esse uscita e giunta sino a noi. Invece le scuole ecclesiastiche, dedicate allo studio e all'insegnamento dei dogmi della fede e insieme del diritto canonico, furono una vera moltitudine, né solo in Italia, ma in tutti i paesi diventati cristiani e cattolici. Ogni monastero e ogni chiesa cattedrale di qualche importanza ebbe la propria scuola: testimonianza di questa attività la ricchezza di collezioni canoniche senza interruzione dal VI all'XI secolo, in Italia, in Africa, Spagna, Francia, Germania, Inghilterra, Irlanda. La spiegazione di questo rigoglio del diritto canonico in confronto di quello romano è legata al fatto che mentre il diritto romano, in quanto continuava a ricevere applicazione in Occidente e in Italia, era degradato a diritto personale, ciò non avveniva per il canonico.

Per il diritto romano, l'essere diventato diritto personale volle dire essere messo in una posizione inferiore a quella spettante alle leggi popolari o Volksrechte, vigenti nel territorio dell'Impero d'Occidente, la cui conservazione e modificazione spettavano non già al potere sovrano, regio o imperiale, o per lo meno non ad esso solo, ma anche e principalmente alle assemblee dei popoli ai quali appartenevano. Invece i sudditi romani dei regni germanici, e poi dell'Impero, non furono considerati come un'unità a sé, ma come singoli individui, e quindi non ebbero una particolare assemblea, autorizzata a manifestare la sua volontà collettiva circa la conservazione e modificazione del proprio diritto nazionale. Sicché fu ridotto il diritto romano a un puro diritto consuetudinario.

Nell'Italia longobarda principi e istituti romani furono accettati dai vincitori ma la posizione del diritto romano non mutò.

La rinnovazione dell'Impero con Carlo Magno non tolse il diritto romano dalla sua posizione d'inferiorità: essa fu migliorata, ma solo tardi e per il concorso di altre cause: in complesso continuò in Italia a rimanere diritto personale fino al secolo XI. Le nuove leggi fatte dai nuovi imperatori, fino a tutto il secolo XI, non furono aggiunte al Corpus giustinianeo, ma all'Editto longobardo, e quindi non furono riguardate come diritto generale obbligatorio per tutti, ma come diritto personale proprio dei viventi a legge longobarda.

Per il diritto canonico invece la riduzione a diritto personale non avvenne, essendo il diritto di una società diversa e distinta dalla società politica, l'appartenenza alla quale non era basata sulla nazionalità: esso possedeva nei concilî e nei papi il suo proprio potere legislativo. Esso però aveva una sfera di obbligatorietà ristretta. Diventa obbligatorio o perché viene accettato spontaneamente o perché fu accolto fra le leggi dello Stato.

La posizione del diritto romano si venne modificando radicalmente in Italia a mano a mano che dopo l'avvento degli Ottoni l'impero fu concepito piú chiaramente ed esplicitamente come la continuazione dell'antico. Fu la scuola pavese che si rese interprete di un tal fatto e proclamò la legge romana omnium generalis, preparando l'ambiente in cui poté sorgere e fiorire la scuola di Bologna, e gli imperatori svevi riguardarono il Corpus giustinianeo come il codice loro, al quale fecero delle aggiunte. Questo riaffermarsi del diritto romano non è dovuto a fattori personali: esso è legato al rifiorire dopo il Mille della vita economica, dell'industria, del commercio, del traffico marittimo. Il diritto germanico non si prestava a regolare giuridicamente la nuova materia e i nuovi rapporti.

Anche il diritto canonico subisce dopo il Mille un cambiamento.

Coi Carolingi alleati al papato viene concepita la monarchia universale abbracciante tutta l'umanità, diretta concordemente dall'Imperatore nel temporale e dal Papa nello spirituale. Ma questa concezione non poteva delimitare a priori il campo soggetto a ciascuna potestà e lasciava all'imperatore una larga via d'intervento nelle faccende ecclesiastiche. Quando i fini dell'Impero, già sotto gli stessi Carolingi e poi sempre piú in seguito, si mostrarono discordanti da quelli della Chiesa e lo Stato mostrò di tendere all'assorbimento della gerarchia ecclesiastica nello Stato, incominciò la lotta che si chiuse al principio del secolo XII colla vittoria del Papato. Fu proclamata la primazia dello spirituale (sole-luna) e la Chiesa riacquistò la libertà della sua azione legislativa, ecc. ecc. Questa concezione teocratica fu combattuta teoricamente e praticamente, ma tuttavia essa, nella sua forma genuina o attenuata, rimase dominatrice per secoli e secoli. Cosí si ebbero due tribunali, il sacramentale e il non sacramentale, e cosí i due diritti furono accoppiati, utrumque ius, ecc.



Funzione cosmopolita della letteratura italiana. Ancora del saggio di Augusto Rostagni su l'Autonomia della Letteratura romana, pubblicato in 4 puntate nell'«Italia Letteraria» del 21 maggio 1933 e sgg. Secondo il Rostagni la letteratura latina sorse al principio delle guerre puniche, come causa ed effetto dell'unificazione d'Italia, come espressione essenzialmente nazionale, «con l'istinto del progresso, della conquista, con l'impulso delle piú alte e vigorose affermazioni». Concetto antistorico, perché allora non si poteva parlare di fenomeno «nazionale», ma solo di romanesimo che unifica giuridicamente l'Italia (e ancora un'Italia che non corrisponde a ciò che oggi intendiamo per Italia, poiché era esclusa l'Alta Italia, che oggi ha non poca importanza nel concetto d'Italia). Che il Rostagni abbia ragione di parlare di «autonomia» della letteratura latina, cioè di sostenere che questa è autonoma dalla letteratura greca, può accettarsi, – ma in realtà c'era piú «nazionalità» nel mondo greco che in quello romano-italico. D'altronde anche ammesso che con le prime guerre puniche qualcosa muti nei rapporti tra Roma e l'Italia, che si abbia una maggiore unità anche territoriale, ciò non toglie che questo periodo sia molto breve e abbia scarsa rilevanza letteraria: la letteratura latina fiorisce dopo Cesare, con l'Impero, cioè proprio quando la funzione dell'Italia diventa cosmopolita, quando non piú si pone il problema del rapporto tra Roma e l'Italia, ma tra Roma-Italia e l'Impero. Non si può parlare di nazionale senza il territoriale: in nessuno di questi periodi l'elemento territoriale ha importanza che non sia meramente giuridico-militare, cioè «statale» in senso governativo, senza contenuto etico-passionale. 


La ricerca della formazione storica degli intellettuali italiani porta cosí a risalire fino ai tempi dell'Impero romano, quando l'Italia, per avere nel suo territorio Roma, diventa il crogiolo delle classi colte di tutti i territori imperiali. Il personale dirigente diventa sempre piú imperiale e sempre meno latino, diventa cosmopolita: anche gli imperatori non sono latini, ecc.

C'è dunque una linea unitaria nello sviluppo delle classi intellettuali italiane (operanti nel territorio italiano) ma questa linea di sviluppo è tutt'altro che nazionale: il fatto porta a uno squilibrio interno nella composizione della popolazione che vive in Italia ecc.

Il problema di ciò che sono gli intellettuali può essere mostrato in tutta la sua complessità attraverso questa ricerca.



Diritto romano o diritto bizantino? Il «diritto» romano consisteva essenzialmente in un metodo di creazione del diritto, nella risoluzione continua della casistica giurisprudenziale. I bizantini (Giustiniano) raccolsero la massa dei casi di diritto risolti dall'attività giuridica concreta dei Romani, non come documentazione storica, ma come codice ossificato e permanente. Questo passaggio da un «metodo» a un «codice» permanente può anche assumersi come la fine di un'età, il passaggio da una storia in continuo e rapido sviluppo, a una fase storica relativamente stagnante. La rinascita del «diritto romano», cioè, della codificazione bizantina del metodo romano di risolvere le quistioni di diritto, coincide con l'affiorare di un gruppo sociale che vuole una «legislazione» permanente, superiore agli arbitri dei magistrati (movimento che culmina nel «costituzionalismo») perché solo in un quadro permanente di «concordia discorde», di lotta entro una cornice legale che fissi i limiti dell'arbitrio individuale, può sviluppare le forze implicite nella sua funzione storica.



[La cultura nell'alto Medioevo.] Alto medioevo (fase culturale dell'avvento del Mediolatino). Confrontare la Storia della letteratura latina cristiana di A. G. Amatucci (Laterza, Bari). A pp. 343-44 l'Amatucci scrivendo di Cassiodoro, dice: «... Senza scoprirvi nulla, ché non era talento da far scoperte, ma dando uno sguardo al passato, in mezzo a cui ergevasi gigantesca la figura di Gerolamo», Cassiodoro «affermò che la cultura classica, la quale per lui voleva dire cultura romana, doveva essere il fondamento di quella sacra, e questa avrebbe dovuto acquistarsi in pubbliche scuole». Papa Agapito (535-36) avrebbe attuato questo programma se non ne avesse avuto impedimento dalle guerre e dalle lotte di fazione che devastavano l'Italia. Cassiodoro fece conoscere questo programma nei due libri di Istitutiones e lo attuò nel «Vivarium», il cenobio da lui fondato presso Squillace.

Un altro punto da studiare è l'importanza avuta dal monachesimo nella creazione del feudalesimo. Nel suo volume San Benedetto e l'Italia del suo tempo (Laterza, Bari, pp. 170-71), Luigi Salvatorelli scrive: «Una comunità, e per giunta una comunità religiosa, guidata dallo spirito benedettino, era un padrone assai piú umano del proprietario singolo, col suo egoismo personale, il suo orgoglio di casta, le tradizioni di abusi secolari. E il prestigio del monastero, anche prima di concentrarsi in privilegi legali, proteggeva in una certa misura i coloni contro la rapacità del fisco e le incursioni delle bande armate legali ed illegali. Lontano dalle città in piena decadenza, in mezzo alle campagne corse e spremute che minacciavano di tramutarsi in deserto, il monastero sorgeva, nuovo nucleo sociale traente il suo essere dal nuovo principio cristiano, fuori di ogni mescolanza col decrepito mondo che si ostinava a chiamarsi dal gran nome di Roma. Cosí san Benedetto, senza proporselo direttamente, fece opera di riforma sociale e di vera creazione. Ancor meno premeditata fu la sua opera di cultura». Mi pare che in questo brano del Salvatorelli ci siano tutti o quasi gli elementi fondamentali, negativi e positivi, per spiegare storicamente il feudalismo.

Meno importante, ai fini della mia ricerca, è la quistione dell'importanza di san Benedetto o di Cassiodoro nell'innovazione culturale di questo periodo.

Su questo nesso di quistioni oltre al Salvatorelli è da vedere il volumetto di Filippo Ermini Benedetto da Norcia nei «Profili» di Formiggini, in cui bibliografia dell'argomento. Secondo l'Ermini: «... le case benedettine diverranno veramente asilo del sapere; e, piú che il castello, il monastero sarà il focolare d'ogni scienza. Ivi la biblioteca conserverà ai posteri gli scritti degli autori classici e cristiani... Il disegno di Benedetto si compie; l'orbis latinus, spezzato dalla ferocia degli invasori, si ricompone in unità e s'inizia con l'opera dell'ingegno e della mano, soprattutto dei suoi seguaci, la mirabile civiltà del Medioevo».



Spunti di ricerca. La repubblica di Platone. Quando si dice che Platone vagheggiava una «repubblica di filosofi» bisogna intendere «storicamente» il termine di filosofi che oggi dovrebbe tradursi con «intellettuali» (naturalmente Platone intendeva i «grandi intellettuali» che erano d'altronde il tipo di intellettuale del tempo suo, oltre a dare importanza al contenuto specifico dell'intellettualità, che in concreto potrebbe dirsi di «religiosità»: gli intellettuali di governo cioè erano quei determinati intellettuali piú vicini alla religione, la cui attività cioè aveva un carattere di religiosità, intesa nel significato generale del tempo e speciale di Platone, e perciò attività in certo senso «sociale», di elevazione ed educazione e direzione intellettuale, quindi con funzione di egemonia della polis). Si potrebbe perciò forse sostenere che l'«utopia» di Platone precorre il feudalismo medioevale, con la funzione che in esso è propria della Chiesa e degli ecclesiastici, categoria intellettuale di quella fase dello sviluppo storico-sociale. L'avversione di Platone per gli «artisti» è da intendersi pertanto come avversione alle attività spirituali «individualistiche» che tendono al «particolare», quindi «areligiose», «asociali».

Gli intellettuali nell'Impero Romano. Il mutamento della condizione della posizione sociale degli intellettuali a Roma dal tempo della Repubblica all'Impero (da un regime aristocratico-corporativo a un regime democratico-burocratico) è legato a Cesare che conferí la cittadinanza ai medici e ai maestri delle arti liberali affinché abitassero piú volentieri a Roma e altri vi fossero richiamati: «Omnesque medicinam Romae professos et liberalium artium doctores, quo libentius et ipsi urbem incolerent et coeteri appeterent civitate donavit» (Svetonio, Vita di Cesare, XLII). Cesare si propose quindi: 1) di far stabilire a Roma gli intellettuali che già vi si trovavano, creando cosí una permanente categoria di essi, perché senza la permanenza non poteva crearsi un'organizzazione culturale. Ci sarà stata precedentemente una fluttuazione che era necessario arrestare, ecc.; 2) di attirare a Roma i migliori intellettuali di tutto l'Impero romano, promovendo una centralizzazione di grande portata. Cosí ha inizio quella categoria di intellettuali «imperiali» a Roma, che continuerà nel clero cattolico e lascerà tante tracce in tutta la storia degli intellettuali italiani, con la loro caratteristica di «cosmopolitismo» fino al '700.



[Origine dei centri di cultura medioevale.] Mons. Francesco Lanzoni, Le Diocesi d'Italia dalle origini al principio del secolo VII (anno 604), Studio critico, Faenza, Stab. Graf. F. Lega, 1927, «Studi e Testi», n. 35, pp. XVI-1122, L. 125 (in appendice un Excursus sui Santi africani venerati in Italia). Opera fondamentale per lo studio sulla vita storica locale in Italia in questi secoli: risponde alla domanda: come vennero formandosi i raggruppamenti culturali-religiosi durante il tramonto dell'Impero romano e l'inizio del Medioevo? Evidentemente questo raggrupparsi non può essere separato dalla vita economica e sociale e dà indicazioni per la storia del nascere dei Comuni. Per l'origine delle città mercantili. Un'importante sede vescovile non poteva mancare di certi servizi, ecc. (vettovagliamento, difesa militare, ecc.) che determinavano un raggruppamento di elementi laici intorno a quelli religiosi (questa origine «religiosa» d'una serie di città medioevali, non è studiata dal Pirenne, almeno nel libretto da me posseduto; vedere nella bibliografia delle sue opere complete): la stessa scelta della sede vescovile è un'indicazione di valore storico, perché sottintende una funzione organizzativa e centralizzatrice del luogo scelto. Dal libro del Lanzoni sarà possibile ricostruire le quistioni piú importanti di metodo nella critica di questa ricerca in parte di carattere deduttivo e la bibliografia.

Sono importanti anche gli studi del Duchesne sul cristianesimo primitivo (per l'Italia: Les évêchés d'Italie et l'invasion lombarde, e Le sedi episcopali dell'antico Ducato di Roma) e sulle antiche diocesi della Gallia, e gli studi dello Harnack sulle origini cristiane, specialmente Die Mission und Ausbreitung des Christentums. Oltre che per l'origine dei centri di civiltà medioevali, tali ricerche sono interessanti per la storia reale del Cristianesimo, naturalmente.



Monachesimo e regime feudale. Sviluppo pratico della regola benedettina e del principio «Ora et labora». Il «labora» era già sottomesso all'«ora», cioè evidentemente lo scopo principale era il servizio divino. Ecco che ai monaci-contadini si sostituiscono i coloni, perché i monaci possano in ogni ora trovarsi nel convento per adempiere ai riti. I monaci nel convento cambiano di «lavoro»; lavoro industriale (artigiano) e lavoro intellettuale (che contiene una parte manuale, la copisteria). Il rapporto tra coloni e convento è quello feudale, a concessioni livellarie, ed è legato oltre all'elaborazione interna che avviene nel lavoro dei monaci, anche all'ingrandirsi della proprietà fondiaria del monastero. Altro sviluppo è dato dal sacerdozio: i monaci servono come sacerdoti il territorio circonvicino e la loro specializzazione aumenta: sacerdoti, intellettuali di concetto, copisti, operai industriali, artigiani. Il convento è la «corte» di un territorio feudale, difeso piú che dalle armi, dal rispetto religioso, ecc. Esso riproduce e sviluppa il regime della «villa» romana patrizia. Per il regime interno del Monastero fu sviluppato e interpretato un principio della Regola, ove è detto che nella elezione dell'abate debba prevalere il voto di coloro che si stimano piú savi e prudenti e che del consiglio di costoro debba l'abate munirsi quando debba decidere affari gravi, non tali tuttavia che convenga consultare l'intera congregazione; vennero cosí distinguendosi i monaci sacerdoti, che si dedicavano agli uffici corrispondenti al fine dell'istituzione, dagli altri che continuavano ad attendere ai servizi della casa.



Sulla tradizione nazionale italiana. Cfr. articolo di B. Barbadoro nel «Marzocco» del 26 settembre 1926: a proposito della Seconda Lega lombarda e della sua esaltazione come «primo conato per la indipendenza della stirpe dalla straniera oppressione che prepara i fasti del Risorgimento», il Barbadoro metteva in guardia contro questa interpretazione e osservava che «la stessa fisonomia storica di Federico II è ben diversa da quella del Barbarossa, ed altra è la politica italiana del secondo Svevo: padrone di quel Mezzogiorno d'Italia, la cui storia era disgiunta da secoli da quella della restante penisola, parve in un certo momento che la restaurazione dell'autorità imperiale nel centro e nel settentrione portasse finalmente alla costituzione di una forte monarchia nazionale».

Nel «Marzocco» del 16 dicembre 1928 il Barbadoro, in una breve nota, ricorda questa sua affermazione a proposito di un ampio studio di Michelangelo Schipa pubblicato nell'Archivio storico per le province napoletane, in cui lo spunto è ampiamente dimostrato.

Questa corrente di studi è molto interessante per comprendere la funzione storica dei Comuni e della prima borghesia italiana che fu disgregatrice dell'unità esistente, senza sapere o poter sostituire una nuova propria unità: il problema dell'unità territoriale, non fu neanche posto o sospettato e questa fioritura borghese non ebbe seguito: fu interrotta dalle invasioni straniere. Il problema è molto interessante dal punto di vista del materialismo storico e mi pare possa collegarsi con quello della funzione internazionale degli intellettuali italiani. Perché i nuclei borghesi formatisi in Italia, che pure raggiunsero la completa autonomia politica, non ebbero la stessa iniziativa degli Stati assoluti nella conquista dell'America e nell'apertura di nuovi sbocchi? Si dice che un elemento della decadenza delle repubbliche italiane è stata l'invasione turca che interruppe o almeno disorganizzò il commercio col levante e lo spostarsi dell'asse storico mondiale dal Mediterraneo all'Atlantico per la scoperta dell'America e la circumnavigazione dell'Africa. Ma perché Cristoforo Colombo serví la Spagna e non una repubblica italiana? Perché i grandi navigatori italiani servirono altri paesi? La ragione di tutto questo è da ricercare in Italia stessa, e non nei turchi o in America. La borghesia si sviluppò meglio, in questo periodo, con gli stati assoluti, cioè con un potere indiretto che non avendo tutto il potere. Ecco il problema, che deve essere collegato con quello degli intellettuali: i nuclei borghesi italiani, di carattere comunale, furono in grado di elaborare una propria categoria di intellettuali immediati, ma non di assimilare le categorie tradizionali di intellettuali (specialmente il clero) che invece mantennero ed accrebbero il loro carattere cosmopolitico. Mentre i gruppi borghesi non italiani, attraverso lo Stato assoluto, ottennero questo scopo molto facilmente poiché assorbirono gli stessi intellettuali italiani. Forse questa tradizione storica spiega il carattere monarchico della borghesia moderna italiana e può servire a comprendere meglio il Risorgimento.



Sviluppo dello spirito borghese in Italia. Confrontare articolo Nel centenario della morte di Albertino Mussato di Manlio Torquato Dazzi nella «Nuova Antologia» del 16 luglio 1929. Secondo il Dazzi, il Mussato si stacca dalla tradizione della storia teologica per iniziare la storia moderna o umanistica piú di qualsiasi altro del suo tempo (vedere i trattati di storia della storiografia, di B. Croce, del Lisio, del Fueter, del Balzani, ecc.); [nel Mussato] appaiono le passioni e i motivi utilitari degli uomini come motivi della storia. A questa trasformazione della concezione del mondo hanno contribuito le lotte feroci delle fazioni comunali e dei primi signorotti. Lo sviluppo può essere seguito fino al Machiavelli, al Guicciardini, a L. B. Alberti. La Controriforma soffoca lo sviluppo intellettuale. Mi pare che in questo sviluppo si potrebbero distinguere due correnti principali. Una ha il suo coronamento letterario nell'Alberti: essa rivolge l'attenzione a ciò che è «particulare», al borghese come individuo che si sviluppa nella società civile e che non concepisce società politica oltre l'ambito del suo «particulare»; è legata al guelfismo, che si potrebbe chiamare un sindacalismo teorico medioevale. È federalista senza centro federale. Per le quistioni intellettuali si affida alla Chiesa, che è il centro federale di fatto per la sua egemonia intellettuale e anche politica. È da studiare la costituzione reale dei Comuni, cioè l'atteggiamento concreto che i rappresentanti prendevano verso il governo comunale: il potere durava pochissimo (due mesi soli, spesso) e in questo tempo i membri del governo erano sottoposti a clausura, senza donne; essi erano gente molto rozza, che erano stimolati dagli interessi immediati della loro arte (cfr. per la Repubblica Fiorentina il libro di Alfredo Lensi sul Palazzo della Signoria dove dovrebbero essere molti aneddoti su queste riunioni di governo e sulla vita dei signori durante la clausura). L'altra corrente ha il coronamento in Machiavelli e nell'impostazione del problema della Chiesa come problema nazionale negativo. A questa corrente appartiene Dante, che è avversario dell'anarchia comunale e feudale ma ne cerca una soluzione semimedioevale; in ogni caso pone il problema della Chiesa come problema internazionale e rileva la necessità di limitarne il potere e l'attività. Questa corrente è ghibellina in senso largo. Dante è veramente una transizione: c'è affermazione di laicismo ma ancora col linguaggio medioevale.


Su L. B. Alberti cfr. il libro di Paul-Henry Michel, Un idéal humain au XVe siècle. La pensée de L. B. Alberti (1404-1472), in 8°, pp. 649, Paris, Soc. Ed. «Les Belles Lettres», 1930. Analisi minuziosa del pensiero di L. B. Alberti, ma, a quanto pare da qualche recensione, non sempre esatta, ecc.

Edizione Utet del Novellino curata da Letterio di Francia, il quale ha accertato che il nucleo originale della raccolta sarebbe stato composto negli ultimi anni del secolo XIII da un borghese ghibellino.

Ambedue i libri dovrebbero essere analizzati per la ricerca già accennata del come sia riflesso nella letteratura il passaggio dall'economia medioevale all'economia borghese dei Comuni e quindi alla caduta, in Italia, dello spirito di intrapresa economica e alla restaurazione cattolica.


Da un articolo di Nello Tarchiani nel «Marzocco» del 3 aprile 1927: Un dimenticato interprete di Michelangelo (Emilio Ollivier): «Per lui (Michelangelo) non esisteva che l'arte. Papi, principi, repubbliche erano la stessa cosa, purché gli dessero modo di operare; pur di fare, si sarebbe dato al Gran Turco, come una volta minacciò; ed in ciò gli si avvicinava il Cellini». E non solo il Cellini: e Leonardo? Ma perché ciò avvenne? E perché tali caratteri esistettero quasi solo in Italia? Questo è il problema. Vedere nella vita di questi artisti come risalti la loro anazionalità. E nel Machiavelli il nazionalismo era poi cosí forte da superare l'«amore dell'arte per l'arte»? Una ricerca di questo genere sarebbe molto interessante: il problema dello Stato italiano lo occupava piú come «elemento nazionale» o come problema politico interessante in sé e per sé, specialmente data la sua difficoltà e la grande storia passata dell'Italia?



Cultura italiana. Borghesia primitiva. Per lo studio della formazione e del diffondersi dello spirito borghese in Italia (lavoro tipo Groethuysen), cfr. anche i Sermoni di Franco Sacchetti (vedi ciò che ne scrive il Croce nella «Critica» del marzo 1931, Il Boccaccio e Franco Sacchetti).



Monsignor Della Casa. Nella puntata del suo studio La lirica del Cinquecento, pubblicata nella «Critica» del novembre 1930, B. Croce scrive sul Galateo: «... esso non ha niente di accademico e pesante ed è una serie di garbati avvertimenti sul modo gradevole di comportarsi in società e uno di quei libri iniziatori che L'Italia del Cinquecento dette al mondo moderno» (p. 410). È esatto dire che sia un libro «iniziatore» dato al «mondo moderno»? Chi è piú «iniziatore» al «mondo moderno», il Casa e il Castiglione o Leon Battista Alberti? Chi si occupava dei rapporti fra cortigiani o chi dava consigli per l'edificazione del tipo del borghese nella società civile? Tuttavia occorre tener conto del Casa in questa ricerca ed è certamente giusto non considerarlo solo «accademico e pesante» (ma in questo giudizio del «mondo moderno» non è implicito un «distacco» – e non un rapporto di iniziazione – tra il Casa e il mondo moderno?)

Il Casa scrisse altre operette politiche, le orazioni e inoltre un trattatello in latino, De officiis inter potentiores et tenuiores amicos, «intorno al rapporto che corre tra gli amici potenti e inferiori, tra quelli che, stretti dal bisogno di vivere e di avvantaggiarsi, si dànno a servire come cortigiani e coloro che li impiegano; rapporto che egli giudica, qual è, di carattere utilitario e non pretende convertirlo in legame regolato da una legge di giustizia, ma che si argomenta di far accettare da entrambe le parti e introdurvi qualche lume di bontà, con lo spiegare agli uni e agli altri la realtà delle loro rispettive posizioni e il tatto che esse richiedono».



La poesia provenzale in Italia. È stata pubblicata la raccolta completa delle Poesie provenzali storiche relative all'Italia (Roma, 1931, nella serie delle Fonti dell'Istituto Storico Italiano) per cura di Vincenzo De Bartholomaeis e ne dà un annunzio Mario Pelaez nel «Marzocco» del 7 febbraio 1932. «Di circa 2600 poesie provenzali giunte fino a noi, 400 rientrano nella Storia d'Italia, o perché trattano di argomenti italiani, sebbene siano di poeti non mai venuti in Italia, o perché composte da poeti provenzali che vi dimorarono, o infine perché scritte da Italiani. Delle 400, la metà circa sono puramente amorose, le altre storiche, e qual piú qual meno offrono testimonianze utili per la ricostruzione della vita e in generale della Storia italiana dalla fine del secolo XII alla metà del XIV. Duecento poesie di circa ottanta poeti». Questi trovatori, provenzali o italiani, vivevano nelle corti feudali dell'Italia settentrionale, all'ombra delle piccole Signorie e nei Comuni, partecipavano alla vita e alle lotte locali, sostenevano gli interessi di questo o quel Signore, di questo o quel Comune, con poesia di varia forma, di cui è ricca la lirica provenzale: serventesi politici, morali, satirici, di crociata, di compianto, di consiglio; canzoni, tenzoni, cobbole ecc. che apparendo via via e circolando negli ambienti interessati, compivano la funzione che ha oggi l'articolo di fondo del giornale. Il De Bartholomaeis ha cercato di datare queste poesie, cosa non difficile per le allusioni che contengono; le ha corredate di tutti i sussidi che ne agevolano la lettura, le ha tradotte. Di ogni trovatore è data una breve informazione biografica. Per la lettura del testo originale è dato un glossario delle voci meno facili a intendersi. Sulla poesia provenzale in Italia è da vedere il volume di Giulio Bertoni Trovatori d'Italia.



Umanesimo e Rinascimento. Confrontare Luigi Arezio, Rinascimento, Umanesimo e spirito moderno, «Nuova Antologia» del 1° luglio 1930.

L'Arezio si occupa del libro di G. Toffanin, Che cosa fu l'Umanesimo (Sansoni, Firenze, 1929), che appare, dai cenni fattine, molto interessante per il mio argomento. Accennerò qualche spunto, perché dovrò leggere il volume. (Il Voigt e il Burckhardt credettero che l'Umanesimo fosse diretto contro la Chiesa; il Pastor – sarà da leggere il suo volume sulla Storia dei Papi dalla fine del Medioevo, che concerne l'Umanesimo – non crede che l'Umanesimo fosse inizialmente diretto contro la Chiesa). Per il Toffanin, il principio della irreligiosità o della nuova religione non è la via maestra per entrare nel segreto degli umanisti; né vale parlare del loro individualismo, perché «i presunti effetti della rivalutazione della personalità umana» a opera di una cultura, sarebbero tanto piú sorprendenti in un tempo rimasto a sua volta famoso per aver «allungata la distanza fra il resto degli uomini e quelli di studio». Il fatto veramente caratteristico dell'Umanesimo «resta quella passione per il mondo antico per cui, quasi d'improvviso, con una lingua morta si tenta di soppiantarne una popolare e consacrata dal genio, s'inventa, possiam dire, la scienza filologica, si rinnova gusto e cultura. Il mondo pagano rinasce». Il Toffanin sostiene che non bisogna confondere l'Umanesimo col progressivo risveglio posteriore all'anno Mille, l'Umanesimo è un fatto essenzialmente italiano «indipendente da codesti fallaci presagi» e ad esso attingeranno per farsi classici e colti la Francia e il mondo intero. In un certo senso può chiamarsi eretica quella civiltà comunale del Duecento, che apparve in una irruzione di sentimenti e pensieri raffinatissimi in forme plebee, e «inizialmente eretico fu quell'impulso all'individualismo anche se tra il popolo esso prese coscienza d'eresia meno di quanto a un primo sguardo si sospetti». La letteratura volgare prorompente dal seno della civiltà comunale e indipendente dal classicismo è indice d'una società «in cui il lievito eretico fermentò»; lievito, che, se indeboliva nelle masse l'ossequio all'autorità ecclesiastica, diventava nei pochi un aperto distacco dalla «romanitas», caratteristico fra il Medioevo propriamente detto e l'Umanesimo. Alcuni intellettuali sembrano consapevoli di questa discontinuità storica: essi pretendono di essere colti senza leggere Virgilio, cioè senza i liberali studi, il cui generale abbandono giustificherebbe, secondo il Boccaccio, l'uso del volgare, anziché del latino, nella Divina Commedia. Massimo fra questi intellettuali Guido Cavalcanti. In Dante «l'amore della lingua plebea, germogliato da uno stato d'animo comunale e virtualmente eretico» dovette contrastare con un concetto della sapienza quasi umanistico. «Caratterizza gli umanisti la coscienza d'uno stacco senza rimedio tra uomo di cultura e folla: ideali astratti sono per loro quelli della potestà imperiale e papale; reale invece è la loro fede nella universalità culturale e nelle ragioni di essa». La Chiesa favorí il distacco della cultura dal popolo cominciato col ritorno al latino, perché lo considerò come sana reazione contro ogni mistica indisciplinatezza. L'Umanesimo, da Dante a prima del Machiavelli, è una età che sta nettamente a sé, e, contrariamente a quel che ne pensano alcuni, per il comune impulso antidemocratico e antieretico ha una non superficiale affinità con la Scolastica. Cosí il Toffanin nega che l'Umanesimo si trasfonda vitale nella Riforma, perché questa, col suo distacco dalla romanità, con la rivincita ribelle dei volgari, e con tante altre cose rinnova i palpiti della cultura comunale, fremente eresia, contro la quale l'Umanesimo era sorto. Col finire dell'Umanesimo nasce l'eresia e sono fuori dell'Umanesimo Machiavelli, Erasmo (?), Lutero, Giordano Bruno, Cartesio, Giansenio.

Queste tesi del Toffanin spesso coincidono con le note già da me fatte in altri quaderni. Solo che il Toffanin si mantiene sempre nel campo culturale-letterario e non pone l'Umanesimo in connessione con i fatti economici e politici che si svolgevano in Italia contemporaneamente: passaggio ai principati e alle signorie, perdita dell'iniziativa borghese e trasformazione dei borghesi in proprietari terrieri. L'Umanesimo fu un fatto reazionario nella cultura perché tutta la società italiana stava diventando reazionaria.

L'Arezio cerca di fare obiezioni al Toffanin, ma si tratta di inezie e di superficialità. Che l'età comunale sia tutto un fermento di eresie non pare accettabile all'Arezio che per eresia intende solo l'averroismo e l'epicureismo. Ma il Comune era una eresia esso stesso perché tendenzialmente doveva entrare in lotta col papato e rendersene indipendente. Cosí non gli piace che il Toffanin ponga tutto l'Umanesimo come fedele al cristianesimo, sebbene riconosca che anche gli scettici facevano ostentazione di religiosità. La verità è che si trattò del primo fenomeno «clericale» nel senso moderno, una Controriforma in anticipo (d'altronde era Controriforma in rapporto all'età comunale). Essi si opponevano alla rottura dell'universalismo medioevale e feudale che era implicito nel Comune e che fu soffocata in fasce, ecc. L'Arezio segue le vecchie concezioni sull'Umanesimo e ripete le affermazioni diventate classiche del Voigt, Burckhardt, del Rossi, De Nolhac, Symonds, Jebb, ecc.



Rinascimento. Come si spiega che il Rinascimento Italiano ha trovato studiosi e divulgatori numerosissimi all'estero e che non esista un libro d'insieme scritto da un italiano. Mi pare che il Rinascimento sia la fase culminante moderna della «funzione internazionale degli intellettuali italiani», e che perciò esso non abbia avuto rispondenza nella coscienza nazionale che è stata dominata e continua ad essere dominata dalla Controriforma. Il Rinascimento è vivo nelle coscienze dove ha creato correnti nuove di cultura e di vita, dove è stato operante in profondità, non dove è stato soffocato senza residuo altro che retorico e verbale e dove quindi è diventato oggetto di «mera erudizione», di curiosità estrinseca cioè.


[La Controriforma e la scienza.] Il processo di Galileo, di Giordano Bruno, ecc. e l'efficacia della Controriforma nell'impedire lo sviluppo scientifico in Italia. Sviluppo delle scienze nei paesi protestanti o dove la Chiesa [era] meno immediatamente forte che in Italia. La Chiesa avrebbe contribuito alla snazionalizzazione degli intellettuali italiani in due modi: positivamente, come organismo universale che preparava personale a tutto il mondo cattolico, e negativamente, costringendo ad emigrare quegli intellettuali che non volevano sottomettersi alla disciplina controriformistica.


Cfr. l'accenno nei Ricordi di un vecchio normalista di Girolamo Vitelli nella «Nuova Antologia» del 1° aprile 1930: la filologia classica in Italia per tre secoli (fino alla seconda metà del secolo XIX) fu completamente trascurata: «Quando si conosca un po' la storia di questi nostri studi, si sa anche che dal Rinascimento in poi, dopo gli italiani del '400 (e anche sino alla fine del '500, con l'ultima grande scuola di Pier Vettori), ne tennero successivamente l'egemonia, con tendenze piú o meno diverse, i francesi, gli olandesi, gl'inglesi, i tedeschi». Perché questa assenza degli italiani? Il Vitelli non la spiega altro che col «mercantilismo», ma chi piú mercantilista degli olandesi e degli inglesi? È curioso che proprio le nazioni protestanti (e in Francia mi pare che gli Ètiennes fossero ugonotti) mantengono lo studio del mondo antico in onore. Bisognerebbe vedere l'organizzazione di questi studi in queste nazioni e paragonare coi centri di studio in Italia. La Controriforma ha influito? ecc.



[Cosmopolitismo letterario italiano del Settecento.] Sull'Algarotti. Dall'articolo Nicolino e l'Algarotti di Carlo Calcaterra, nel «Marzocco» del 29 maggio 1932: «Impedisce tuttora nell'animo di molti un'equa valutazione degli scritti d'arte dell'Algarotti la considerazione che egli fu il consigliere e il provveditore di Augusto III di Sassonia negli acquisti per la galleria di Dresda, onde si rimprovera a lui di avere impoverito l'Italia a beneficio di corti straniere. Ma giustamente è stato detto dal Panzacchi e da altri studiosi che nel cosmopolitismo settecentesco quell'opera di diffusione dell'arte italiana, come di bellezza appartenente a tutta Europa, ha un aspetto meno odioso di quello che con tutta facilità può esserle attribuito». L'osservazione del cosmopolitismo settecentesco, che è esatta, va approfondita e specificata: il cosmopolitismo degli intellettuali italiani è esattamente della stessa natura del cosmopolitismo degli altri intellettuali nazionali? Questo è il punto: per gli italiani è in funzione di una particolare posizione che viene attribuita all'Italia a differenza degli altri paesi, cioè l'Italia è concepita come complementare di tutti gli altri paesi, come produttrice di bellezza e di cultura per tutta Europa.



Clero e intellettuali. Esiste uno studio organico sulla storia del clero come «classe-casta»? Mi pare che sarebbe indispensabile, come avviamento e condizione di tutto il rimanente studio sulla funzione della religione nello sviluppo storico ed intellettuale dell'umanità. La precisa situazione giuridica e di fatto della Chiesa e del clero nei vari periodi e paesi, le sue condizioni e funzioni economiche, i suoi rapporti esatti con le classi dirigenti e con lo Stato ecc. ecc.


Perché ad un certo punto la maggioranza dei cardinali fu composta di italiani e i papi furono sempre scelti tra italiani? Questo fatto ha una certa importanza nello sviluppo intellettuale nazionale italiano e qualcuno potrebbe anche vedere in esso l'origine del Risorgimento. Esso certamente fu dovuto a necessità interna di difesa e sviluppo della Chiesa e della sua indipendenza di fronte alle grandi monarchie straniere europee, tuttavia la sua importanza nei riflessi italiani non è perciò diminuita. Se positivamente il Risorgimento può dirsi incominci con l'inizio delle lotte tra Stato e Chiesa, cioè con la rivendicazione di un potere governativo puramente laico, quindi col regalismo e il giurisdizionalismo (onde l'importanza del Giannone), negativamente è anche certo che le necessità di difesa della sua indipendenza portarono la Chiesa a cercare sempre piú in Italia la base della sua supremazia e negli italiani il personale del suo apparato organizzativo.

È da questo inizio che si svilupperanno le correnti neoguelfe del Risorgimento, attraverso le diverse fasi (quella del sanfedismo italiano, per esempio) piú o meno retrive e primitive.

Questa nota perciò interessa oltre la rubrica degli intellettuali anche quella del Risorgimento e quella delle origini dell'Azione cattolica «italiana».

Nello sviluppo di una classe nazionale, accanto al processo della sua formazione nel terreno economico, occorre tener conto del parallelo sviluppo nei terreni ideologico, giuridico, religioso, intellettuale, filosofico, ecc.: si deve dire anzi che non c'è sviluppo sul terreno economico, senza questi altri sviluppi paralleli. Ma ogni movimento della «tesi» porta a movimenti della «antitesi» e quindi a «sintesi» parziali e provvisorie. Il movimento di nazionalizzazione della Chiesa in Italia è imposto non proposto: la Chiesa si nazionalizza in Italia in forme ben diverse da ciò che avviene in Francia col gallicanismo, ecc. In Italia la Chiesa si nazionalizza in modo «italiano», perché deve nello stesso tempo rimanere universale: intanto nazionalizza il suo personale dirigente e questo vede sempre piú l'aspetto nazionale della funzione storica dell'Italia come sede del Papato.


Lotta tra Stato e Chiesa. Diverso carattere che ha avuto questa lotta nei diversi periodi storici. Nella fase moderna, essa è lotta per l'egemonia nell'educazione popolare; almeno questo è il tratto piú caratteristico, cui tutti gli altri sono subordinati. Quindi è lotta tra due categorie di intellettuali, lotta per subordinare il clero, come tipica categoria di intellettuali, alle direttive dello Stato, cioè della classe dominante (libertà dell'insegnamento – organizzazioni giovanili – organizzazioni femminili – organizzazioni professionali).



Formazione e disillusione della nuova borghesia in Italia. In altra nota ho segnato che si potrebbe fare una ricerca «molecolare» negli scritti italiani del Medioevo per cogliere il processo di formazione intellettuale della borghesia, il cui sviluppo storico culminerà nei Comuni per subire poi una disgregazione e un dissolvimento. La stessa ricerca si potrebbe fare nel periodo 1750-1850, quando si ha la nuova formazione borghese che culmina nel Risorgimento. Anche qui il modello del Groethuysen (Origines de l'esprit bourgeois en France: 1.er L'Église et la Bourgeoisie) potrebbe servire, integrato, naturalmente, di quei motivi che sono peculiari della storia sociale italiana. Le concezioni del mondo, dello Stato, della vita contro cui deve combattere lo spirito borghese in Italia non sono simili a quelle che esistevano in Francia.

Foscolo e Manzoni in un certo senso possono dare i tipi italiani. Il Foscolo è l'esaltatore delle glorie letterarie e artistiche del passato (cfr. i Sepolcri, i Discorsi civili, ecc.), la sua concezione è essenzialmente «retorica» (sebbene occorra osservare che nel tempo suo questa retorica avesse un'efficienza pratica attuale e quindi fosse «realistica»).

Nel Manzoni troviamo spunti nuovi, piú strettamente borghesi (tecnicamente borghesi). Il Manzoni esalta il commercio e deprime la poesia (la retorica). Lettere al Fauriel. Nelle opere inedite ci sono dei brani in cui il Manzoni biasima l'unilateralità dei poeti che disprezzano la «sete dell'oro» dei commercianti, disconoscono l'audacia dei navigatori mentre parlano di sé come di esseri sovrumani. In una lettera al Fauriel scrive: «Pensi di che sarebbe piú impacciato il mondo, del trovarsi senza banchieri o senza poeti, quale di queste due professioni serva piú, non dico al comodo, ma alla cultura dell'umanità». (Cfr. Carlo Franelli, Il Manzoni e l'idea dello scrittore, nella «Critica Fascista» del 15 dicembre 1931). Il Franelli osserva: «I lavori di storia e di economia politica li mette piú in alto che una letteratura piuttosto (?!) leggera. Sulla qualità della cultura italiana d'allora ha dichiarazioni molto esplicite nelle lettere all'amico Fauriel. Quanto ai poeti, la loro tradizionale megalomania lo offende. Osserva che oggidí perdono tutto quel gran credito che godettero in passato. Ripetutamente ricorda che alla poesia ha voluto bene in "gioventú"».



Risorgimento. Nel Risorgimento si ebbe l'ultimo riflesso della «tendenza storica» della borghesia italiana a mantenersi nei limiti del «corporativismo»: il non aver risolto la quistione agraria è la prova di questo fatto. Rappresentanti di questa tendenza sono i moderati, sia neoguelfi (in essi – Gioberti – appare il carattere universalistico-papale degli intellettuali italiani che è posto come premessa del fatto nazionale) sia i cavouriani (o economisti-pratici, ma al modo dell'uomo del Guicciardini, cioè rivolti solo al loro «particulare»: da ciò il carattere della monarchia italiana). Ma le tracce dell'universalismo medioevale sono anche nel Mazzini, e determinano il suo fallimento politico; perché se al neoguelfismo successe nella corrente moderata il cavourismo, l'universalismo mazziniano nel Partito d'Azione non fu praticamente superato da nessuna formazione politica organica e invece rimase un fermento di settarismo ideologico e quindi di dissoluzione.



Gioberti. Importanza del Gioberti per la formazione del carattere nazionale moderno degli intellettuali italiani. Sua funzione accanto al Foscolo. In una nota precedente osservazioni sulla soluzione formale data dal Gioberti al problema nazionale-popolare come contemperamento di conservazione e innovazione, come «classicità nazionale». Soluzione formale non solo del maggior problema politico sociale, ma anche di quelli derivati, come quello di una letteratura nazionale-popolare. Occorrerà rivedere ai fini di questo studio le maggiori pubblicazioni polemiche del Gioberti: il Primato e il Rinnovamento, gli scritti contro i gesuiti (Prolegomeni e il Gesuita moderno). Libro dell'Anzilotti sul Gioberti.



[Il movimento socialista.] Efficacia avuta dal movimento operaio socialista per creare importanti settori della classe dominante. La differenza tra il fenomeno italiano e quello di altri paesi consiste obiettivamente in questo: che negli altri paesi il movimento operaio e socialista elaborò singole personalità politiche, in Italia invece elaborò interi gruppi di intellettuali che come gruppi passarono all'altra classe. Mi pare che la causa italiana sia da ricercare in ciò: scarsa aderenza delle classi alte al popolo: nella lotta delle generazioni, i giovani si avvicinano al popolo; nelle crisi di svolta questi giovani ritornano alla loro classe (cosí è avvenuto per i sindacalisti nazionalisti e per i fascisti). È in fondo lo stesso fenomeno generale del trasformismo, in diverse condizioni. Il trasformismo «classico» fu il fenomeno per cui si unificarono i partiti del Risorgimento; questo trasformismo mette in chiaro il contrasto tra civiltà, ideologia, ecc. e la forza di classe. La borghesia non riesce a educare i suoi giovani (lotta di generazione): i giovani si lasciano attrarre culturalmente dagli operai e addirittura se ne fanno o cercano di farsene i capi («inconscio» desiderio di realizzare essi l'egemonia della loro propria classe sul popolo), ma nelle crisi storiche ritornano all'ovile. Questo fenomeno di «gruppi» non si sarà certo verificato solo in Italia: anche nei paesi dove la situazione è analoga, si sono avuti fenomeni analoghi: i socialismi nazionali dei paesi slavi (o socialrivoluzionari o narodniki, ecc.).



La quistione dei giovani. Esistono molte «quistioni» dei giovani. Due mi sembrano specialmente importanti: 1) La generazione «anziana» compie sempre l'educazione dei «giovani»; ci sarà conflitto, discordia ecc., ma si tratta di fenomeni superficiali, inerenti a ogni opera educativa e di raffrenamento, a meno che non si tratti di interferenze di classe, cioè i «giovani» (o una parte cospicua di essi) della classe dirigente (intesa nel senso piú largo, non solo economico, ma politico-morale) si ribellano e passano alla classe progressiva che è diventata storicamente capace di prendere il potere: ma in questo caso si tratta di «giovani» che dalla direzione degli «anziani» di una classe passano alla direzione degli «anziani» di un'altra classe: in ogni caso rimane la subordinazione reale dei «giovani» agli «anziani» come generazione, pur con le differenze di temperamento e di vivacità su ricordate; 2) Quando il fenomeno assume un carattere così detto «nazionale», cioè non appare apertamente l'interferenza di classe, allora la quistione si complica e diventa caotica. I «giovani» sono in istato di ribellione permanente, perché persistono le cause profonde di essa, senza che ne sia permessa l'analisi, la critica e il superamento (non concettuale e astratto, ma storico e reale); gli «anziani» dominano di fatto, ma... après moi le déluge, non riescono a educare i giovani, a prepararli alla successione. Perché? Ciò significa che esistono tutte le condizioni perché gli «anziani» di un'altra classe debbano dirigere questi giovani, senza che possano farlo per ragioni estrinseche di compressione politico-militare. La lotta, di cui si sono soffocate le espressioni esterne normali, si attacca come una cancrena dissolvente alla struttura della vecchia classe, debilitandola e imputridendola: assume forme morbose, di misticismo, di sensualismo, di indifferenza morale, di degenerazioni patologiche psichiche e fisiche, ecc. La vecchia struttura non contiene e non riesce a dare soddisfazione alle esigenze nuove: la disoccupazione permanente o semipermanente dei cosí detti intellettuali è uno dei fenomeni tipici di questa insufficienza, che assume carattere aspro per i piú giovani, in quanto non lascia «orizzonti aperti». D'altronde questa situazione porta ai «quadri chiusi» di carattere feudale-militare, cioè inacerbisce essa stessa i problemi che non sa risolvere.



A proposito del protestantesimo in Italia, ecc. Riferimento a quella corrente intellettuale contemporanea che sostenne il principio che le debolezze della nazione e dello Stato italiano erano dovute alla mancanza di una riforma protestante, corrente rappresentata specialmente dal Missiroli. Il Missiroli, come appare, prese questa sua tesi di peso dal Sorel, che l'aveva presa dal Renan (poiché Renan una tesi simile, adattata alla Francia e piú complessa, aveva sostenuto nel libro La riforma intellettuale e morale). Nella «Critica» del 1931, in diverse puntate, è stato pubblicato un saggio inedito del Sorel, Germanesimo e storicismo di Ernesto Renan, scritto (datato) del maggio 1915 e che avrebbe dovuto servire di introduzione alla versione italiana del libro di Renan La riforma intellettuale e morale, che doveva tradurre Missiroli e pubblicare Laterza. La traduzione del Missiroli non fu pubblicata e si capisce perché: nel maggio 1915 l'Italia intervenne nella guerra e il libro del Renan con la prefazione del Sorel sarebbe apparso un atto di tedescofilia. In ogni modo pare da accertare che la posizione del Missiroli sulla quistione del «protestantesimo in Italia» è una deduzione meccanica dalle idee critiche del Renan e del Sorel sulla formazione e le necessità della cultura francese. Non è però escluso che il Missiroli conoscesse anche le idee del Masaryk sulla cultura russa (egli per lo meno conosceva il saggio sul Masaryk di Antonio Labriola: ma il Labriola accenna a questa tesi «religiosa»? non mi pare) e nel 1918 conobbe dal «Grido del Popolo» il saggio sul Masaryk, con l'accenno alla tesi religiosa, pubblicato dal «Kampf» di Vienna nel 1914, e da me tradotto appunto nel «Grido» (questo saggio era anche conosciuto dal Gobetti). Le critiche fatte al Masaryk in questo saggio, metodologicamente, si avvicinano a quelle fatte dal Croce ai sostenitori di «riforme protestanti» ed è strano che ciò non sia stato visto dal Gobetti (per il quale, del resto, non si può dire che non comprendesse questo problema in modo concreto, a differenza del Missiroli, come dimostravano le sue simpatie politico-pratiche). Occorrerebbe stroncare invece il Missiroli che è una carta asciugante di alcuni elementi culturali francesi.

Dal saggio del Sorel appare anche una strana tesi sostenuta dal Proudhon, a proposito di riforma intellettuale e morale del popolo francese (il Renan nella sua opera si interessa delle alte classi di cultura ed ha per il popolo un programma particolare: affidarne l'educazione ai parroci di campagna), che si avvicina a quella di Renan riguardante il popolo. Il Sorel sostiene che Renan anzi abbia conosciuto questo atteggiamento di Proudhon e ne sia stato influenzato. Le tesi di Proudhon sono contenute nell'opera La Justice dans la Révolution et dans l'Église, tome V, pp. 342-44, e per esse si dovrebbe giungere a una riforma intellettuale e morale del popolo francese con l'aiuto del clero, che avrebbe, con il linguaggio e il simbolismo religioso, concretato e assicurato le verità «laiche» della Rivoluzione. Il Proudhon in fondo, nonostante le sue bizzarrie, è piú concreto di quanto sembri: egli pare certamente persuaso che occorre una riforma intellettuale in senso laico («filosofico» come dice) ma non sa trovare altro mezzo didattico che il tramite del clero. Anche per Proudhon, il modello è quello protestante, cioè la riforma intellettuale e morale avvenuta in Germania con il protestantesimo, che egli vorrebbe «riprodotta» in Francia, nel popolo francese, ma con piú rispetto storico della tradizione storica francese che è contenuta nella Rivoluzione. (Naturalmente occorre leggere bene Proudhon prima di servirsene per questo argomento). Anche la posizione del Sorel è strana in questo problema: la sua ammirazione per Renan e per i tedeschi gli fa vedere i problemi da puro intellettuale astratto.

Questo problema del protestantesimo non deve essere confuso con quello «politico» presentatosi nel periodo del Risorgimento, quando molti liberali, per esempio quelli della «Perseveranza», si servirono dello spauracchio protestante per far pressione sul papa a proposito del potere temporale e di Roma.

Sicché in una trattazione del problema religioso in Italia occorre distinguere in primo luogo tra due ordini fondamentali di fatti: 1) quello reale, effettuale, per cui si verificano nella massa popolare dei movimenti di riforma intellettuale e morale, sia come passaggio dal cattolicismo ortodosso e gesuitico a forme religiose piú liberali, sia come evasione dal campo confessionale per una moderna concezione del mondo; 2) i diversi atteggiamenti dei gruppi intellettuali verso una necessaria riforma intellettuale e morale.

La corrente Missiroli è la meno seria di queste, la piú opportunistica, la piú dilettantesca e spregevole per la persona del suo corifeo.

Cosí occorre per ognuno di questi ordini di fatti distinguere cronologicamente tra varie epoche: quella del Risorgimento (col liberalismo laico, da una parte, e il cattolicismo liberale, dall'altra), quella dal '70 al '90 col positivismo e anticlericalismo massonico e democratico; quella dal '900 fino alla guerra, col modernismo e il filosofismo idealistico; quella fino al concordato, con l'organizzazione politica dei cattolici italiani; e quella post-concordataria, con una nuova posizione del problema, sia per gli intellettuali che per il popolo. È innegabile, nonostante la piú potente organizzazione cattolica e il risveglio di religiosità in questa ultima fase, che molte cose stanno mutando nel cattolicesimo, e che la gerarchia ecclesiastica ne è allarmata, perché non riesce a controllare queste trasformazioni molecolari; accanto a una nuova forma di anticlericalismo, piú raffinata e profonda di quella ottocentesca, c'è un maggiore interesse per le cose religiose da parte dei laici, che portano nella trattazione uno spirito non educato al rigore ermeneutico dei gesuiti e quindi sconfinante spesso nell'eresia, nel modernismo, nello scetticismo elegante. «Troppa grazia!» per i gesuiti, che vorrebbero invece che i laici non s'interessassero di religione altro che per seguire il culto.



[Gli intellettuali e lo Stato hegeliano.] Nella concezione non solo della scienza politica, ma in tutta la concezione della vita culturale e spirituale, ha avuto enorme importanza la posizione assegnata da Hegel agli intellettuali, che deve essere accuratamente studiata. Con Hegel si incomincia a non pensare piú secondo le caste o gli «stati», ma secondo lo «Stato», la cui «aristocrazia» sono appunto gli intellettuali. La concezione «patrimoniale» dello Stato (che è il modo di pensare per «caste») è immediatamente la concezione che Hegel deve distruggere (polemiche sprezzanti e sarcastiche contro von Haller). Senza questa «valorizzazione» degli intellettuali fatta da Hegel non si comprende nulla (storicamente) dell'idealismo moderno e delle sue radici sociali.



Note di cultura italiana. 1) La scienza e la cultura. Le correnti filosofiche idealistiche (Croce e Gentile) hanno determinato un primo processo di isolamento degli scienziati (scienze naturali o esatte) dal mondo della cultura. La filosofia e la scienza si sono staccate e gli scienziati hanno perduto molto del loro prestigio. Un altro processo di isolamento si è avuto per il nuovo prestigio dato al cattolicesimo e per il formarsi del centro neoscolastico. Cosí gli scienziati «laici» hanno contro la religione e la filosofia piú diffusa: non può non avvenire un loro imbozzolamento e una «denutrizione» dell'attività scientifica che non può svilupparsi isolata dal mondo della cultura generale. D'altronde: poiché l'attività scientifica è in Italia strettamente legata al bilancio dello Stato, che non è lauto, all'atrofizzarsi di uno sviluppo del «pensiero» scientifico, della storia, non può per compenso neanche aversi uno sviluppo della «tecnica» strumentale e sperimentale, che domanda larghezza di mezzi e di dotazioni. Questo disgregarsi dell'unità scientifica, del pensiero generale, è sentito: si è cercato di rimediare elaborando anche in questo campo un «nazionalismo» scientifico, cioè sostenendo la tesi della «nazionalità» della scienza. Ma è evidente che si tratta di costruzioni esteriori estrinseche, buone per i congressi e le celebrazioni oratorie, ma senza efficacia pratica. E tuttavia gli scienziati italiani sono valorosi e fanno, con pochi mezzi, sacrifici inauditi e ottengono risultati mirabili. Il pericolo piú grande pare essere rappresentato dal gruppo neoscolastico, che minaccia di assorbire molta attività scientifica sterilizzandola, per reazione all'idealismo gentiliano. (È da vedere l'attività organizzatrice del Consiglio Nazionale delle Ricerche e l'efficacia che ha avuto per sviluppare l'attività scientifica e tecnologica, e quella delle sezioni scientifiche dell'Accademia d'Italia).

2) Centralismo nazionale e burocratico. Lo scioglimento delle associazioni regionali avvenuto verso l'agosto del 1932. Vedere quali reazioni ha suscitato nel tempo. Vi si è visto un movimento di sempre piú salda coscienza nazionale. Ma l'illazione è giustificata? Confrontare col movimento di centralizzazione avutosi in Francia dopo la Rivoluzione e specialmente con Napoleone. La differenza pare evidente: in Francia si era avuto un movimento nazionale unitario, di cui l'accentramento fu l'espressione burocratica. In Italia non si è avuto lo stesso processo nazionale, anzi la burocrazia accentrata aveva proprio il fine di ostacolare un tale processo. Sarebbe interessante vedere quali forze unitarie nel dopoguerra si siano formate accanto alla burocrazia tradizionale: ciò che è da notare è che tali forze, se pure relativamente notevoli, non hanno un carattere di omogeneità e di permanente sistematicità, ma sono di tipo «burocratico» (burocrazia sindacale, di partito, podestà, ecc.).

3) Scienza. Vedere il volume pubblicato da Gino Bargagli-Petrucci (presso il Le Monnier) in cui sono raccolti i discorsi di scienziati italiani all'Esposizione di storia delle scienze del 1929. In questo volume è pubblicato un discorso del padre Gemelli che è segno dei tempi, per vedere la baldanza che hanno assunto questi fratacci (su questo discorso è da vedere la recensione nell'«Educazione Fascista» del 1932 e l'articolo di Sebastiano Timpanaro nell'«Italia Letteraria» dell'11 settembre e 16 ottobre 1932).



[Sentimento nazionale.] Sentimento nazionale, non popolare-nazionale (cfr. note disperse), cioè un sentimento puramente «soggettivo», non legato a realtà, a fattori, a istituzioni oggettive. È perciò ancora un sentimento da «intellettuali», che sentono la continuità della loro categoria e della loro storia, unica categoria che abbia avuto una storia ininterrotta.

Un elemento oggettivo è la lingua, ma essa in Italia si alimenta poco, nel suo sviluppo, dalla lingua popolare che non esiste (eccetto in Toscana), mentre esistono i dialetti. Altro elemento è la cultura ma essa è troppo ristretta ed ha carattere di casta: i ceti intellettuali sono piccolissimi e angusti. I partiti politici: erano poco solidi e non avevano vitalità permanente ma entravano in azione solo nel periodo elettorale. I giornali: non coincidevano coi partiti che debolmente, e poco letti. La Chiesa era l'elemento popolare-nazionale piú valido ed esteso, ma la lotta tra Chiesa e Stato ne faceva un elemento di disgregazione piú che di unità e oggi le cose non sono molto cambiate perché tutta l'impostazione del problema morale-popolare è cambiato. La monarchia – Il parlamento – L'università e la scuola – La città – Organizzazioni private come la massoneria – L'Università popolare – L'esercito – I sindacati operai - La scienza (verso il popolo, – i medici, i veterinari, le cattedre ambulanti, gli ospedali) – Il teatro – Il libro.



[Il razzismo.] Esiste un «razzismo» in Italia? Molti tentativi sono stati fatti, ma tutti di carattere letterario e astratto. Da questo punto di vista l'Italia si differenzia dalla Germania, quantunque tra i due paesi ci siano alcune somiglianze estrinseche interessanti: 1) La tradizione localistica e quindi il tardo raggiungimento dell'unità nazionale e statale. (Somiglianza estrinseca perché il regionalismo italiano ha avuto altre origini che quello tedesco: in Italia hanno contribuito due elementi principali: a) la rinascita delle razze locali dopo la caduta dell'Impero Romano; b) le invasioni barbariche prima, i domini stranieri dopo. In Germania i rapporti internazionali hanno influito, ma non con l'occupazione diretta di stranieri). 2) L'universalismo medioevale influí piú in Italia che in Germania, dove l'Impero e la laicità trionfarono molto prima che in Italia, durante la Riforma. 3) Il dominio nei tempi moderni delle classi proprietarie della campagna, ma con rapporti molto diversi. Il tedesco sente piú la razza che l'Italiano. Razzismo: il ritorno storico al romanesimo, poco sentito oltre la letteratura. Esaltazione generica della stirpe, ecc. Lo strano è che a sostenere il razzismo oggi (con l'Italia Barbara, L'Arcitaliano e lo strapaesismo) sia Kurt Erich Suckert, nome evidentemente razzista e strapaesano; ricordare durante la guerra Arturo Foà e le sue esaltazioni della stirpe italica, altrettanto congruenti che nel Suckert.



Elementi di cultura italiana. L'ideologia «romana». L'Omodeo afferma («Critica» del 20 settembre 1931): «Cerca (il Bülow) di confortarsi nella luminosa atmosfera di Roma, inebriandosi di quella poesia dell'Urbe, che il Goethe ha diffuso fra i tedeschi, e che tanto si differenzia dalla retorica romana, per buona parte figlia delle scuole gesuitiche, corrente fra noi». È da notare, a rincalzo, che nei Sepolcri del Foscolo, in cui pure sono contenuti tanti spunti della mentalità e dell'ideologia dell'intellettuale italiano del secolo XIX-XX, Roma antica ha un posto minimo e quasi nullo. (Lo stesso Primato del Gioberti è forse di origine «gesuitica», anche se il Gioberti [era] antigesuita).



La tradizione di Roma. Registrare le diverse reazioni (e il diverso carattere di queste) all'ideologia legata alla tradizione di Roma. Il futurismo fu in Italia una forma di questa reazione, in quanto contro la retorica tradizionale e accademica, e questa in Italia era strettamente legata alla tradizione di Roma (La terra dei morti del Giusti: «Noi eravamo grandi e là non eran nati»; «Tutto che al mondo è civile, grande, augusto, egli è romano ancora» del Carducci, dipendenti dai Sepolcri di Foscolo, come momento «moderno» di questa retorica). Questa reazione ha vari aspetti, oltre che diversi caratteri. Tende, per esempio a contestare che l'Italia moderna sia erede della tradizione romana (l'espressione del Lessing sui «vermi usciti dalla decomposizione della carogna romana») o a contestare l'importanza stessa di tale tradizione. Nel libro dello Wells Breve storia del mondo (ed. Laterza, con postilla polemica del traduttore Lorizio), questa reazione assume diversi aspetti: 1) nega che la storia mondiale antica si unifichi nell'impero romano, allargando la visione storica mondiale con la storia della Cina, dell'India e dei Mongoli; 2) tende a svalutare in sé la grandezza della storia romana e della sua tradizione, sia come tendenza politica (Sacro Romano Impero), sia come tendenza culturale (Chiesa cattolica). Nel libro dello Wells, se è esatto il primo punto, il secondo soffre di nuova intrusione di elementi ideologici ed è moralistico.

Altro aspetto da osservare è la valorizzazione dell'elemento non romano nella formazione delle nazioni moderne: elemento germanico nella formazione degli stati romano-germanici: questo aspetto è coltivato dai tedeschi e continua nella polemica sull'importanza della Riforma come premessa della modernità. Ma nella formazione degli Stati romano-germanici, oltre all'elemento romano e a quello germanico, c'è un terzo e anche talvolta un quarto elemento; in Francia, oltre all'elemento romano e a quello franco, c'è l'elemento celtico, dato dalla autoctona popolazione gallica; in Ispagna c'è ancora, in piú, l'elemento arabo con la sua influenza scientifica nel Medioevo. A proposito dell'elemento gallico nella formazione della civiltà francese, c'è sempre stata tutta una letteratura, di carattere misto storico e popolare. Nel tempo piú recente è da vedere l'Histoire de la Gaule di Camille Jullian, dove (nell'VIII vol., p. 311) si può leggere che è tempo di farla finita colla «ossessione della storia imperiale» e che «è necessario che noi sappiamo sbarazzarci dei modi di sentire e di ragionare che sono l'eredità dell'impero romano. I pregiudizi quasi invincibili coi quali noi siamo usciti dall'educazione classica, lo storico deve saperli vincere». Dall'articolo La figura di Roma in uno storico celtista di Piero Baroncelli nella «Nuova Antologia» del 16 marzo 1929, pare che il Jullian a questi pregiudizi ne abbia sostituito degli altri (la celtomania), ma in ogni caso è notevole il fatto che uno storico accreditato come il Jullian, membro dell'Accademia, abbia dedicato un tale scritto monumentale a sostegno della sua tesi e abbia avuto il premio dell'Accademia. Il Baroncelli ritiene che: «La gelosia, con cui oggi si guarda quasi dappertutto al nostro Paese, si rivela anche nel favore col quale sono accolte all'estero le pubblicazioni che, per un verso o per l'altro, cercano di sfatare il nome di Roma e dell'Italia. Di questa indole è appunto la citata Histoire de la Gaule, opera fortunata per diffusione, imponente per mole, autorevole per il nome dello scrittore»; e che, «Quanto agli sfregi che oggi si tentano sulla figura di Roma antica, ben sappiamo che la Roma signora e maestra di popoli ha in sé, per taluni, una grave colpa: Roma, fino dai suoi inizi, fu sempre Italia». Ai pregiudizi storici che combatte, il Baroncelli ne sostituisce anch'egli dei suoi propri, e ciò che è piú importante, dà loro una veste politica. L'argomento sarebbe da studiare con spregiudicatezza: cosa rimane ancora oggi, di proprio e inconfondibile, della tradizione romana? Concretamente molto poco: l'attività piú spiccata, moderna, è quella economica, sia teorica che pratica, e quella scientifica, e di esse nulla continua il mondo romano. Ma anche nel campo del diritto, in che rapporto esatto si trova il romanesimo con gli apporti del germanesimo e quelli piú recenti anglosassoni e qual è l'area geografica in cui il diritto romano ha piú diffusione? Sarebbe ancora da notare che nella forma in cui è diventato tradizionale, il diritto romano è stato elaborato a Costantinopoli, dopo la caduta di Roma. Quanto alla tradizione statale romana è vero che l'Italia, come tale (cioè nella figura che oggi ha assunto) non l'ha continuata (osservazione del Sorel), ecc. Seguire le pubblicazioni di Ezio Levi sull'arabismo spagnolo e sulla sua importanza per la civiltà moderna.



Sicilia e Sardegna. Per il diverso peso che esercita la grande proprietà in Sicilia e in Sardegna, e quindi per la diversa posizione relativa degli intellettuali, ciò che spiega il diverso carattere dei movimenti politico-culturali, valgono queste cifre: in Sardegna solo il 18% del territorio appartiene a Enti pubblici, il resto proprietà privata: dell'area coltivabile il 50% comprende possessi inferiori a 10 ha. e solo il 4% al di sopra di 200 ha.

Sicilia: nel 1907 il Lorenzoni assegnava 1400 proprietà di oltre 200 ha. con una estensione di ha. 717.729,16 cioè il 29,79% dell'estensione catastale dell'isola, posseduta da 787 proprietari. Nel 1929 il Molé constatava 1055 latifondi di oltre 200 ha. con estensione complessiva di ha. 540.700 cioè il 22,2% dell'area agraria e forestale (ma si tratta di vero frazionamento del latifondo).

Inoltre occorre tener conto della differenza storico-sociale-culturale dei grandi proprietari siciliani da quelli sardi: i siciliani hanno una grande tradizione e sono fortemente uniti. In Sardegna niente di ciò.



Intellettuali siciliani. Rivalità fra Palermo e Catania per contendersi il primato intellettuale dell'isola. – Catania chiamata l'Atene siciliana, anzi la «sicula Atene». – Celebrità di Catania: Domenico Tempio, poeta licenzioso, la cui attività viene dopo il terremoto del 1693 che distrusse Catania (Antonio Prestinenza collega il tono licenzioso del poeta al fatto del terremoto: morte – vita – distruzione – fecondità). – Vincenzo Bellini, contrapposto al Tempio per la sua melanconia romantica.

Mario Rapisardi è la gloria moderna di Catania. Garibaldi gli scrive: «All'avanguardia del progresso noi vi seguiremo» e Victor Hugo: «Vous êtes un précurseur». – Rapisardi-Garibaldi-Victor Hugo. – Polemica Carducci-Rapisardi. – Rapisardi-De Felice (il primo maggio De Felice conduceva il corteo sotto il portone di Rapisardi). – Popolarismo socialista mescolato col culto superstizioso di Sant'Agata: quando Rapisardi in punto di morte si volle che rientrasse nella Chiesa: «Tal visse Argante e tal morí qual visse» disse Rapisardi. – Accanto al Rapisardi: Verga, Capuana, De Roberto, che però non considerati «sicilianissimi», anche perché legati alle correnti continentali e amici del Carducci. – Catania e l'Abruzzo nella letteratura italiana dell'Ottocento.



Storia letteraria o della cultura. L'origine della teoria americana (riferita dal Cambon in una sua prefazione a un volume del Ford) che in ogni epoca i grandi uomini sono tali nell'attività fondamentale dell'epoca stessa, cosa per cui sarebbe assurdo «rimproverare» agli americani di non avere grandi artisti quando hanno «grandi tecnici», come sarebbe rimproverare al Rinascimento di aver avuto grandi pittori e scultori e non grandi tecnici, si può trovare in Carlyle (Sugli eroi e l'eroismo). Carlyle deve dire presso a poco che Dante se avesse dovuto fare il guerriero, ossia se si fosse trovato a sviluppare la sua personalità in un momento di necessità militare ecc. sarebbe stato grande lo stesso ecc., cioè l'eroismo sarebbe quasi da concepire come una forma che si riempie del contenuto eroico prevalente nel tempo o nell'ambiente determinato.

Si può tuttavia dire che in tempi di avvilimento pubblico, di compressione ecc. è impossibile ogni forma di «grandezza». Dove il grande carattere morale è combattuto non si può essere grande artista, ecc. Metastasio non può essere Dante o Alfieri. Dove prospera Ojetti può esserci un Dante? Forse un Michele Barbi! Ma la quistione in generale non pare seria, se impostata sulla necessità che appaiano grandi geni. Si può solo giudicare dell'atteggiamento verso la vita, piú o meno conformista o eroico, metastasiano o alfieriano, il che certo non è poco. Non è da escludere che dove la tradizione ha lasciato un largo strato di intellettuali, e un interesse vivace o prevalente per certe attività, si sviluppino «genî» che non corrispondono ai tempi in cui vivono concretamente, ma a quelli in cui vivono «idealmente» e culturalmente. Machiavelli potrebbe essere uno di questi. Inoltre si dimentica che ogni tempo o ambiente è contraddittorio e che si esprime e si corrisponde al proprio tempo o ambiente combattendoli strenuamente oltre che collaborando alle forme di vita ufficiale. Pare che anche in questo argomento è da tener conto della quistione degli intellettuali e del loro modo di selezionarsi nelle varie epoche di sviluppo della civiltà. E da questo punto di vista può esserci molta verità nell'affermazione americana. Epoche progressive nel campo pratico possono non aver avuto il tempo ancora di manifestarsi nel campo creativo estetico e intellettuale, o possono essere in questo arretrate, filistee ecc.



L'italiano meschino. «Il latino si studia obbligatoriamente in tutte le scuole superiori del Nord-America. La storia romana è insegnata in tutti gli istituti, e tale insegnamento rivaleggia, se non supera quello che vien fatto nei ginnasi e nei licei italiani, perché nelle scuole americane la classica storia di Roma antica è tradotta fedelmente da Tacito e da Cesare, da Sallustio e da Tito Livio, mentre in Italia si ricorre troppo spesso e troppo supinamente alle deformate (sic) traduzioni di Lipsia». Filippo Virgilii, L'espansione della cultura italiana, «Nuova Antologia», 1° dicembre 1928 (il brano è a p. 346); (né può essere errore di stampa, dato il senso di tutto il periodo! E il Virgilii è professore di Università e ha fatto le scuole classiche!)



Fortunato Rizzi ossia dell'italiano meschino. Louis Reynaud, che deve essere un discepolo di Maurras, ha scritto un libro: Le Romantisme (Les origines anglo-germaniques. Influences étrangères et traditions nationales. Le réveil du génie français), Paris, Colin, per esporre diffusamente e dimostrare una tesi propria del nazionalismo integrale: che il Romanticismo è contrario al genio francese ed è un'importazione straniera, germanica e anglo-tedesca. In questa proposizione, per Maurras e indubbiamente anche per il Reynaud, l'Italia è e deve essere con la Francia, e anzi in generale le nazioni cattoliche, il cattolicismo, sono solidali contro le nazioni protestanti, il latinismo contro il germanesimo. Il Romanticismo è una infezione d'origine germanica, infezione per la latinità, per la Francia, che ne è stata la grande vittima: nei suoi paesi originari, Inghilterra e Germania, il Romanticismo sarà o è stato senza conseguenze, ma in Francia esso è diventato lo spirito delle rivoluzioni successive dal 1789 in poi, ha distrutto o devastato la tradizione, ecc. ecc.

Ora ecco come il prof. Fortunato Rizzi, autore di un libro a quanto pare mediocrissimo (non fa maraviglia, a giudicare dal modo come egli tratta le correnti di pensiero e di sentimenti) sul '500, vede il libro del Reynaud in un articolo (Il Romanticismo francese e l'Italia) pubblicato nei «Libri del giorno» del giugno 1929. Il Rizzi ignora l'«antefatto», ignora che il libro del Reynaud è piú politico che letterario, ignora le proposizioni del nazionalismo integrale di Maurras nel campo della cultura e va a cercare con la sua lucernina di meschino italiano le tracce dell'Italia nel libro. Perbacco! L'Italia non c'è, l'Italia dunque è negletta, è misconosciuta! «È veramente singolare il silenzio quasi assoluto per quanto si riferisce all'Italia. Si direbbe che per lui (il Reynaud) l'Italia non esista né sia mai esistita: eppure se la deve esser trovata innanzi agli occhi ogni momento». Il Reynaud ricorda che il '600 nella civiltà europea è francese. E il Rizzi: «Ci voleva proprio uno sforzo eroico a notare, almeno di passaggio, di quanto la Francia del '600 sia debitrice all'Italia del '500? Ma l'Italia non esiste per i nostri buoni fratelli d'oltralpe». Che malinconia!

Il Reynaud scrive: «les anglais, puis les allemands, nous communiquent leur superstition de l'antique». E il Rizzi: «Oh guarda donde viene alla Francia l'adorazione degli antichi! Dall'Inghilterra e dalla Germania! E il Rinascimento italiano con la sua maravigliosa potenza di diffusione in Europa e, sí proprio, anche in Francia? Cancellato dalla storia...». Altri esempi sono altrettanto divertenti. «Ostentata o inconscia indifferenza o ignoranza nei riguardi dell'Italia» che, secondo il Rizzi, non aggiunge valore all'opera ma anzi «per certi rispetti la attenua grandemente e sminuisce». Conclusione: «Ma noi che siamo i figli primogeniti o, meglio (secondo il pensiero del Balbo) unigeniti di Roma, noi siamo dei signori di razza e non facciamo le piccole vendette, ecc. ecc.» e quindi riconosce che l'opera del Reynaud è ordinata, acuta, dotta, lucidissima ecc. ecc.

Ridere o piangere. Ricordo questo episodio: parlando di un Tizio, un articolista ricordava che un antenato dell'eroe era ricordato da Dante nella Divina Commedia, «questo libro d'oro della nobiltà italiana». Era ricordato infatti, ma in una bolgia dell'Inferno: non importa per l'italiano meschino, che non si accorge, per la sua mania di grandezza da nobiluomo decaduto, che il Reynaud, non parlando dell'Italia nel suo libro, le ha voluto fare il piú grande omaggio, dal suo punto di vista. Ma al Rizzi importa che il Manzoni sia stato solo ricordato in una noterella a piè di pagina!



Giovanni B. Botero. Cfr. Il numero come forza nel pensiero di Giovanni Botero di Emilio Zanette, nella «Nuova Antologia» del 1° settembre del 1930. È un articolo superficiale e di tipo giornalistico-d'occasione. Il significato dell'importanza data da Botero al «fatto» della popolazione non ha lo stesso valore di quello che può avere attualmente. Il Botero è uno degli scrittori del tempo della Controriforma piú tipicamente cosmopoliti e a-italiani. Egli parla dell'Italia come di qualsiasi altro paese e i suoi problemi politici non lo interessano specificatamente. Critica la «boria» degli Italiani che si considerano superiori ad altri paesi e dimostra infondata tale pretesa. È da studiare per tanti rispetti (ragion di Stato, machiavellismo, tendenza gesuitica ecc.). Il Gioda ha scritto sul Botero: piú recentemente saggi ecc. Per questo articolo lo Zanette potrebbe entrare nel paragrafo degli «Italiani meschini».



Regionalismo. Cfr. Leonardo Olschki, Kulturgeografie Italiens, in «Preussische Jahrbücher», gennaio 1927, pp. 19-36. Il «Leonardo» del febbraio 1927 lo giudica: «Vivace e assai ben fatto studio del regionalismo italiano, dei suoi aspetti presenti e delle sue origini storiche».



Gli ebrei. Cfr. Yoseph Colombo, Lettere inedite del p. Hyacinthe Loyson, «Nuova Antologia», 1° settembre 1930. Si parla del rabbino livornese Benamozegh, della sua concezione dell’ebraismo in rapporto al cristianesimo, dei suoi scritti, dei suoi rapporti col Loyson; si accenna all’importanza della comunità ebraica di Livorno come centro di cultura rabbinica, ecc.



Intellettuali italiani all'estero


Storia nazionale e storia della cultura (europea o mondiale). L'attività degli elementi dirigenti che hanno operato all'estero, come l'attività della moderna emigrazione, non può essere incorporata nella storia nazionale, come invece deve essere, per esempio, l'attività di elementi simili in altre condizioni. Una classe di un paese può servire in un altro paese, mantenendo i suoi legami nazionali e statali originari, cioè come espressione dell'influenza politica del paese d'origine. Per un certo tempo i missionari o il clero nei paesi d'Oriente esprimevano l'influenza francese, anche se questo clero solo parzialmente era costituito di cittadini francesi, per i legami statali tra Francia e Vaticano. Uno stato maggiore organizza le forze armate di un altro paese, incaricando del lavoro tecnici militari del suo gruppo che non perdono la nazionalità, tutt'altro. Gli intellettuali di un paese influenzano la cultura di un altro paese e la dirigono ecc. Un'emigrazione di lavoratori colonizza un paese sotto la direzione diretta o indiretta della sua propria classe dirigente economica e politica. La forza espansiva, l'influsso storico di una nazione non può essere misurato dall'intervento individuale di singoli, ma dal fatto che questi singoli esprimono consapevolmente e organicamente un blocco sociale nazionale. Se cosí non è, si deve parlare solo di fenomeni di una certa portata culturale appartenenti a fenomeni storici piú complessi: come avvenne in Italia per tanti secoli, di essere l'origine «territoriale» di elementi dirigenti cosmopoliti e di continuare in parte ad esserlo per il fatto che l'alta gerarchia cattolica è in gran parte italiana. Storicamente, questa funzione internazionale è stata la causa di debolezza nazionale e statale: lo sviluppo delle capacità non è avvenuto per i bisogni nazionali, ma per quelli internazionali, il processo di specializzazione tecnica degli intellettuali ha seguito perciò delle vie anormali dal punto di vista nazionale, perché ha servito a creare l'equilibrio di attività e di branche di attività non di una comunità nazionale ma di una comunità piú vasta che voleva «integrare» i suoi quadri nazionali, ecc. (Questo punto deve essere bene sviluppato con precisione ed esattezza).



[Intellettuali stranieri in Italia.] Per il mondo slavo confrontare Ettore Lo Gatto L'Italia nelle letterature slave, fascicoli 16 settembre, 1° ottobre, 16 ottobre della «Nuova Antologia». Oltre ai rapporti puramente letterari, determinati dai libri, ci sono molti accenni all'immigrazione di intellettuali italiani nei diversi paesi slavi, specialmente in Russia e in Polonia, e alla loro importanza come fattori della cultura locale.

Un altro aspetto della funzione cosmopolita degli intellettuali italiani da studiare, o almeno da accennare è quella svolta in Italia stessa, attirando studenti alle Università e studiosi che volevano perfezionarsi. In questo fenomeno di immigrazione di intellettuali stranieri in Italia occorre distinguere due aspetti: immigrazione per vedere l'Italia e come territorio-museo della storia passata, che è stata permanente e dura ancora con ampiezza maggiore o minore secondo le epoche, e immigrazione per assimilare la cultura vivente sotto la guida degli intellettuali italiani viventi; è questa seconda che interessa per la ricerca in quistione. Come e perché avviene che a un certo punto sono gli italiani ad emigrare all'estero e non gli stranieri a venire in Italia? (con eccezione relativa per gli intellettuali ecclesiastici, il cui insegnamento in Italia continua ad attirare discepoli in Italia fino ad oggi; in questo caso occorre però tener presente che il centro romano è andatosi relativamente internazionalizzando). Questo punto storico è di massima importanza: gli altri paesi acquistano coscienza nazionale e vogliono organizzare una cultura nazionale, la cosmopoli medioevale si sfalda, l'Italia come territorio perde la sua funzione di centro internazionale di cultura, non si nazionalizza per sé, ma i suoi intellettuali continuano la funzione cosmopolita, staccandosi dal territorio e sciamando all'estero.



[Debolezza nazionale della classe dirigente.] Prima della rivoluzione francese, prima cioè che si costituisse organicamente una classe dirigente nazionale, c'era un'emigrazione di elementi italiani rappresentanti la tecnica e la capacità direttiva, elementi che hanno arricchito gli Stati europei col loro contributo. Dopo la formazione di una borghesia nazionale e dopo l'avvento del capitalismo si è iniziata l'emigrazione del popolo lavoratore, che è andato ad aumentare il plusvalore dei capitalismi stranieri: la debolezza nazionale della classe dirigente ha cosí sempre operato negativamente. Essa non ha dato la disciplina nazionale al popolo, non l'ha fatto uscire dal municipalismo per una unità superiore, non ha creato una situazione economica che riassorbisse le forze di lavoro emigrate, in modo che questi elementi sono andati perduti in grandissima parte, incorporandosi nelle nazionalità straniere in funzione subalterna.


«Pour Nietzsche, l'intellectuel est "chez lui", non pas là oú il est né (la naissance, c'est de l'"histoire"), mais là oú lui-même engendre et met au monde: Ubi pater sum, ibi patria, "Là oú je suis père, oú j'engendre, là est ma patrie"; et non pas oú, il fut engendré». Stefan Zweig, Influence du Sud sur Nietzsche, «Nouvelles Littéraires», 19 luglio 1930 (è forse il capitolo di un libro tradotto da Alzir Hella et Olivier Bournac).


Cfr. Angelo Scarpellini, La Battaglia intorno al latino nel settecento in «Glossa Perenne», 1929. (Riassume i termini della lotta combattuta nel '700 pro e contro lo studio del latino e specialmente l'uso di esso nelle scritture, che è la quistione fondamentale dal punto di vista di un rivolgimento nell'attitudine e nei rapporti dei ceti intellettuali verso il popolo).



[Tramonto della funzione cosmopolita degli intellettuali italiani.] Forse si potrebbe far coincidere il tramonto della funzione cosmopolitica degli intellettuali italiani con il fiorire degli avventurieri del '700: l'Italia a un certo punto non dà piú tecnici all'Europa, o perché le altre nazioni hanno già elaborato una classe colta propria o perché l'Italia non produce piú capacità a mano a mano che ci allontaniamo dal '500; e le vie tradizionali di «far fortuna» all'estero sono ormai percorse da imbroglioni che sfruttano la tradizione. Da vedere e da porre in termini esatti.



[La patria di Cristoforo Colombo.] Il particolare chauvinisme italiano trova una sua manifestazione nella letteratura che rivendica le invenzioni, le scoperte scientifiche. Parlo dello «spirito»con cui queste rivendicazioni sono fatte, non del fenomeno in sé: non si tratta, insomma, di contributi... alla storia della tecnica e della scienza, ma di «pezzi» giornalistici di colore sciovinistico. Penso che molte rivendicazioni sono... oziose, nel senso che non basta aver avuto uno spunto, ma occorre saperne trarre tutte le conseguenze e applicazioni pratiche. Altrimenti si arriverebbe alla conclusione che non è stato mai inventato nulla, perché... i cinesi conoscevano già tutto. Per molte rivendicazioni questi specialisti (come il Savorgnan di Brazzà) di glorie nazionali non s'accorgono di far fare all'Italia la funzione della Cina.

A questo spunto si può riunire tutta la letteratura sulla patria di Cristoforo Colombo. A me pare che si tratti di una letteratura completamente inutile e oziosa. La quistione dovrebbe essere posta cosí: perché nessuno Stato italiano aiutò Cristoforo Colombo, o perché Colombo non si rivolse a nessuno Stato italiano? In che consiste dunque l'elemento «nazionale» della scoperta dell'America? La nascita di Cristoforo Colombo in un punto dell'Europa piuttosto che in un altro ha un valore episodico e casuale, poiché egli stesso non si sentiva legato a uno Stato italiano. La quistione, secondo me, dovrebbe essere definita storicamente fissando che l'Italia ebbe per molti secoli una funzione internazionale-europea. Gli intellettuali e gli specialisti italiani erano cosmopoliti e non italiani, non nazionali. Uomini di Stato, capitani, ammiragli, scienziati, navigatori italiani non avevano un carattere nazionale ma cosmopolita. Non so perché questo debba diminuire la loro grandezza o menomare la storia italiana, che è stata quello che è stata, e non la fantasia dei poeti o la retorica dei declamatori: avere una funzione europea, ecco il carattere del «genio» italiano dal '400 alla Rivoluzione francese.



Individui e nazioni. A proposito della quistione delle glorie nazionali legate alle invenzioni di singoli individui geniali, le cui scoperte e invenzioni non hanno però avuto applicazione o riconoscimento nel paese d'origine si può ancora osservare: che le invenzioni e le scoperte possono essere e sono spesso infatti casuali, non solo, ma che i singoli inventori possono essere legati a correnti culturali e scientifiche che hanno avuto origine e sviluppo in altri paesi, presso altre nazioni. Perciò una invenzione o scoperta perde il carattere individuale e casuale e può essere giudicata nazionale quando: l'individuo è strettamente e necessariamente collegato a una organizzazione di cultura che ha caratteri nazionali o quando l'invenzione è approfondita, applicata; sviluppata in tutte le sue possibilità dall'organizzazione culturale della nazione d'origine. Fuori di queste condizioni non rimane che l'elemento «razza» cioè una entità imponderabile e che d'altronde può essere rivendicato da tutti i paesi e che in ultima analisi si confonde con la cosí detta «natura umana». Si può dunque chiamare «nazionale» l'individuo che è conseguenza della realtà concreta nazionale o che inizia una fase determinata dell'operosità pratica o teorica nazionale. Bisognerebbe poi mettere in luce che una nuova scoperta che rimane cosa inerte non è un valore: l'«originalità» consiste tanto nello «scoprire» quanto nell'«approfondire» e nello «sviluppare» e nel «socializzare», cioè nel trasformare in elemento di civiltà universale: ma appunto in questi campi si manifesta l'energia nazionale, che è collettiva, che è l'insieme dei rapporti interni di una nazione.



[Tecnici militari italiani e arte militare italica.] Nella guerra delle Fiandre combattuta dagli Spagnoli verso la fine del Cinquecento, una gran parte dell'elemento tecnico-militare e del genio era costituita da italiani. Capitani di gran fama come Alessandro Farnese, duca di Parma, Ranuccio Farnese, Ambrogio Spinola, Paciotto da Urbino, Giorgio Basta, Giambattista del Monte, Pompeo Giustiniano, Cristoforo Mondragone e molti altri minori. La città di Namur era stata fortificata da due ingegneri italiani: Gabrio Serbelloni e Scipione Campi, ecc. Cfr. Un generale di cavalleria italo-albanese: Giorgio Basta di Eugenio Barbarich nella «Nuova Antologia» del 16 agosto 1928.

In questa ricerca sulla funzione cosmopolitica delle classi colte italiane è specialmente da tener conto dell'apporto di tecnici militari, per il valore piú strettamente «nazionale» che sempre ha avuto il servizio militare. La quistione si collega ad altre ricerche: come si erano formate queste capacità militari? La borghesia dei Comuni aveva avuto anche un'origine militare, nel senso che la sua organizzazione di classe fu originariamente anche militare e che attraverso la sua funzione militare riuscí a prendere il potere. Questa tradizione militare si spezzò dopo l'avvento al potere, dopo che il Comune aristocratico divenne Comune borghese. Come, perché? Come si formarono le compagnie di ventura, e per quale origine necessaria? Di che condizione sociale furono i condottieri in maggioranza? Mi pare piccoli nobili, ma di che nobiltà? Di quella feudale o di quella mercantile? ecc. Questi capi militari della fine del Cinquecento e dei secoli successivi come si erano formati? ecc.

Naturalmente che gli italiani abbiano cosí validamente partecipato alle guerre della Controriforma ha un significato particolare, ma parteciparono anche alla difesa dei protestanti? Né bisogna confondere questo apporto di tecnici militari con la funzione che ebbero gli Svizzeri, per esempio, quali mercenari internazionali, o i cavalieri tedeschi in Francia (reîtres) o gli arcieri scozzesi nella stessa Francia: appunto perché gli italiani non dettero solo tecnici militari, ma tecnici del genio (ingegneri), della politica, della diplomazia ecc.

Il Barbarich (credo che adesso sia generale) termina il suo articolo sul Basta con questo periodo: «La lunga pratica di quarant'anni di campagne nelle guerre aspre di Fiandra, di Francia e di Transilvania, hanno procurato a Giorgio Basta una ben straordinaria sanzione pratica alla lucida e chiara sua teoria, che sarà ripresa dal Montecuccoli. Ricordare oggidí l'una e l'altra è opera di rivendicazione storica doverosa, di buona propaganda sollecita delle tradizioni nostre, le quali affermano la indiscussa e luminosa priorità dell'arte militare italica nei grandi eserciti moderni».

Ma si può parlare in questo caso di arte militare italica? Dal punto di vista della storia della cultura può essere interessante sapere che il Farnese era italiano o Napoleone corso o Rothschild ebreo, ma storicamente la loro attività individuale è stata incorporata nello Stato al cui servizio essi sono stati assunti o nella società in cui hanno operato. L'esempio degli ebrei può dare un elemento di orientazione per giudicare l'attività di questi italiani, ma solo fino ad un certo punto: in realtà gli ebrei hanno avuto un maggior carattere nazionale di questi italiani, nel senso che nel loro operare c'era una preoccupazione di carattere nazionale che in questi italiani non c'era. Si può parlare di tradizione nazionale quando la genialità individuale è incorporata attivamente, cioè politicamente e socialmente, nella nazione da cui l'individuo è uscito (gli studi sull'ebraismo e la sua funzione internazionale possono dare molti elementi di carattere teorico per questa ricerca), quando essa trasforma il proprio popolo, gli imprime un movimento che appunto forma la tradizione. Dove esiste una continuità in questa materia tra il Farnese e oggi? Le trasformazioni, gli aggiornamenti, le innovazioni portate da questi tecnici militari nella loro arte si sono incorporate nella tradizione francese o spagnola o austriaca: in Italia sono diventate numeri di scheda bibliografica.


«Nel 1563, durante la guerra civile contro gli Ugonotti, all'assedio di Orléans, intrapreso dal Duca di Guisa, l'ingegnere militare Bartolomeo Campi di Pesaro, il quale aveva nell'esercito attaccante la carica che ora si direbbe di comandante del Genio, fece fare una grande quantità di sacchetti che, riempiti di terra, furono portati sulle spalle dei soldati nella posizione, ed, in un istante, fabbricati con quelli i ripari, ivi, in attesa del momento di avanzare, si fermarono gli assalitori al coperto dalle offese della piazza». (Enrico Rocchi, Un notevole aspetto delle campagne di Cesare nelle Gallie, «Nuova Antologia», 1° gennaio 1929).



[Il fuoruscitismo politico nel Medioevo.] In che misura lo sciamare in tutta Europa di eminenti e mediocri personalità italiane (ma di un certo vigore di carattere) fu dovuto ai risultati delle lotte interne delle fazioni comunali, al fuoruscitismo politico cioè? Questo fenomeno fu persistente dopo la seconda metà del secolo XIII: lotte comunali con dispersione delle fazioni vinte, lotte contro i principati, elementi di protestantesimo ecc., fino al 1848; nel secolo XIX il fuoruscitismo muta di carattere, perché gli esiliati sono nazionalisti e non si lasciano assorbire dai paesi di immigrazione (non tutti però: vedi Antonio Panizzi divenuto direttore del British Museum e baronetto inglese). Di questo elemento occorre tener conto, ma non è certo quello prevalente nel fenomeno generale. Cosí in un certo periodo occorre tener conto del fatto che i principi italiani sposavano le loro figlie con principi stranieri e ogni nuova regina di origine italiana portava con sé un certo numero di letterati, artisti, scienziati italiani (in Francia con le Medici, in Spagna con le Farnesi, in Ungheria, ecc.) oltre a diventare un centro di attrazione dopo la salita al trono.

Tutti questi fenomeni devono essere studiati e la loro importanza relativa fissata esattamente, in modo da dare il proprio valore al fatto fondamentale. Nell'articolo Il Petrarca a Montpellier, nella «Nuova Antologia» del 16 luglio 1929, Carlo Segré ricorda come ser Petracco, bandito da Firenze e stabilitosi con la famiglia a Carpentras, volle che suo figlio Francesco frequentasse l'Università di Montpellier per intraprendere l'attività legale. «La scelta poi si mostrava ottima, perché in Italia e nel Mezzogiorno della Francia grande era allora la richiesta di giuristi da parte di principi e di governi municipali, che li adoperavano come giudici, magistrati, ambasciatori e consulenti, senza dire che restava loro aperto l'esercizio privato dell'avvocatura, meno onorifico ma sempre vantaggioso per chi non mancasse di sveltezza». L'Università di Montpellier fu fondata nel 1160 dal giureconsulto Piacentino, che si era formato a Bologna e aveva portato in Provenza i metodi dell'insegnamento di Irnerio (questo Piacentino era però italiano? occorre sempre fare delle ricerche perché i nomi italiani possono essere soprannomi o italianizzazioni). Certo che molti italiani furono chiamati dall'estero, per organizzarvi università sul modello bolognese, pavese, ecc.



Un «Dizionario degli italiani all'estero».Cesare Balbo aveva scritto: «Una storia intiera e magnifica e peculiare all'Italia sarebbe a fare degli Italiani fuori d'Italia». Nel 1890 fu pubblicato un saggio di Dizionario degli italiani all'estero, come opera postuma di Leo Benvenuti (uno studioso modesto). Nella prefazione il Benvenuti osservava che date le condizioni delle ricerche bibliografiche al suo tempo, non sarebbe stato possibile andare oltre a un indice che avrebbe poi dovuto servire a chi si fosse accinto a scrivere la storia. Le categorie in cui il Benvenuti suddivide l'elenco onomastico (le principali) sono: Ambasciatori, antiquari, architetti, artisti (drammatici, coreografici, acrobati), astronomi, botanici, cantanti, eruditi, filosofi, fisici, geografi, giureconsulti, incisori, ingegneri (civili e militari), linguisti, insegnanti, matematici, medici e chirurghi, maestri di musica, mercanti, missionari, naturalisti, nunzi apostolici, pittori scultori e poeti, soldati di mare, soldati di terra, sovrani, storici, teologi, uomini di chiesa, viaggiatori, statisti. (Come si vede, il Benvenuti non aveva altro punto di vista che quello della nazionalità e l'opera sua, se completa, sarebbe stata un censimento degli italiani all'estero; secondo me la ricerca deve essere di carattere qualitativo e cioè studiare come le classi dirigenti – politiche e culturali – di una serie di paesi, furono rafforzate da elementi italiani i quali contribuirono a crearvi una civiltà nazionale, mentre in Italia appunto una classe nazionale mancava e non riusciva a formarsi: è questa emigrazione di elementi dirigenti che rappresenta un fatto storico peculiare, corrispondente all'impossibilità italiana di utilizzare e unificare i suoi cittadini piú energici e intraprendenti). Il Benvenuti prendeva le mosse dall'anno 1000.

Promossa dal Capo del Governo, affidata al ministero degli Affari Esteri, con la collaborazione del Reale Istituto di Archeologia e Storia dell'Arte, è in preparazione una voluminosissima pubblicazione intitolata L'Opera del Genio italiano all'estero. L'idea pare sia stata suggerita da Gioacchino Volpe che deve avere scritto il programma dell'opera (in un discorso all'Accademia, annotato in altro quaderno, il Volpe preannunziò questo lavoro). Nel programma si legge: «La Storia del genio italiano all'estero che noi vogliamo narrare trascura i tempi antichi staccati da noi da secoli oscuri e muove dalla civiltà che, spuntata dopo il Mille, ha raggiunto, sia pure tra soste e sussulti, i nostri giorni, rinnovellata da conquiste ideali e da conquiste politiche, donde l'odierna unità dell'anima e della patria italiana. Sarà opera oggettiva, scevra di antagonismi e di polemiche, ma di giusta celebrazione per quanto il genio italiano, considerato nel suo complesso, operò nel mondo per il bene di tutti». L'opera sarà divisa in dodici serie le quali sono indicate in ordine progressivo, avvertendosi che ogni serie comprenderà uno o piú volumi distribuiti in massima secondo il criterio geografico. Le 12 serie sarebbero: 1) Artisti di ogni arte; 2) Musicisti; 3) Letterati; 4) Architetti militari; 5) Uomini di guerra; 6) Uomini di mare; 7) Esploratori e Viaggiatori; 8) Principi; 9) Uomini politici; 10) Santi sacerdoti missionari; 11) Scienziati; 12) Banchieri mercanti colonizzatori. L'opera sarà riccamente illustrata. La Commissione Direttiva è composta del prof. Giulio Quirino Giglioli, di S. E. Vincenzo Lojacono e del Sen. Corrado Ricci. Segretario generale della Commissione è il barone Giovanni Di Giura. L'edizione sarà di 1000 esemplari di cui 50 di lusso. (Queste notizie sono ricavate dal «Marzocco» del 6 marzo 1932).


Nell'ICS [Italia che scrive] dell'ottobre 1929, Dino Provenzal, nella rubrica «Libri da fare» propone: Una storia degli italiani fuori d'Italia, e scrive: «L'invocava Cesare Balbo tanti anni fa, come ricorda il Croce nella sua recente Storia della età barocca in Italia. Chi raccogliesse notizie ampie, sicure, documentate, intorno all'opera di nostri connazionali esuli, o semplicemente emigrati, mostrerebbe un lato ancora ignoto dell'attitudine che gli Italiani hanno sempre posseduto a diffondere idee e costruire opere in ogni parte del mondo. Il Croce, nel ricordare il disegno del Balbo, dice che questa non sarebbe storia d'Italia. Secondo come s'intende: storia del pensiero e del lavoro italiano sí».

Né il Croce né il Provenzal intendono ciò che potrebbe essere questa ricerca. Vedere e studiare questa parte del Croce, che vede il fenomeno, mi pare, troppo legato (o esclusivamente legato) alla Controriforma e alle condizioni dell'Italia nel Seicento. Ora è certo invece che proprio la Controriforma doveva automaticamente accentuare il carattere cosmopolitico degli intellettuali italiani e il loro distacco dalla vita nazionale. Botero, Campanella, ecc., sono politici «europei», ecc.


Da un articolo di Arturo Pompeati (Tre secoli d'italianismo in Europa, «Marzocco» del 6 marzo 1932) sul volume di Antero Meozzi: Azione e diffusione della letteratura italiana in Europa (sec. XV-XVII) , Pisa, Vallerini, 1932, in 8°, pp. XXXII-304. È il primo volume di una serie. Il libro è composto di tre lunghi capitoli: Gli italiani all'estero, Stranieri in Italia, Le vie di diffusione dell'italianesimo. Capitolo per capitolo, le suddivisioni sono metodiche: paese per paese, le correnti, i gruppi, gli scrittori e non scrittori migrati dall'Italia o in Italia: e nell'ultimo capitolo i traduttori, i divulgatori, gli imitatori della nostra letteratura, genere per genere, autore per autore. Il libro ha l'andamento di un repertorio di nomi, a cui nelle note corrisponde la bibliografia relativa. Ci sono cosí i materiali della «egemonia» letteraria italiana, durata appunto tre secoli, dal XV al XVII, quando è cominciata la reazione antitaliana: dopo non si può piú parlare di influssi italiani in Europa (l'espressione «egemonia» è qui errata, perché gli intellettuali italiani non esercitarono l'influsso come gruppo nazionale, ma ogni individuo direttamente e per emigrazione di massa). Il Pompeati elogia il libro del Meozzi, sia per la raccolta dei materiali, sia per i criteri di ricerca e per l'ideologia moderata. È evidente che per molti aspetti il Meozzi si pone dei problemi inesistenti o retorici.

Molto severo è invece il Croce nella «Critica» del maggio 1932. Per il Croce il libro del Meozzi è una futilità inutile, una raccolta arida di nomi e di notizie né nuove né peregrine. «L'autore ha compilato da libri ed articoli notissimi, e, non avendo seguito ricerche originali in alcuno dei vari campi da lui toccati, non essendo pratico di essi, ha compilato senza discernimento». «Anche la materiale esattezza delle notizie e delle citazioni lascia assai da desiderare». Il Croce dà un mazzetto di errori di fatto e di metodo molto gravi. Tuttavia il libro del Meozzi potrebbe essere utile per questa rubrica come materiale di prima approssimazione.



Gioacchino Volpe nell'articolo (discorso) Il primo anno dell'Accademia d'Italia («Nuova Antologia», 16 giugno 1930) a p. 494 tra i libri di storia che l'Accademia (Sezione di scienze morali-storiche) desidererebbe fossero scritti accenna: «O dedicati a quella mirabile irradiazione della nostra cultura che si ebbe fra il XV e XVII secolo, dall'Italia verso l'Europa, pur mentre dall'Europa muovevano verso l'Italia le nuove invasioni e dominazioni».



[Mercanti lucchesi in Francia.] Nel «Bollettino storico lucchese» del 1929 o degli inizi del 1930 è apparso uno studio di Eugenio Lazzareschi sui rapporti colla Francia dei mercanti lucchesi nel Medioevo. I lucchesi, frequentando ininterrottamente dal secolo XII i grandi mercati delle città e le famose fiere della Fiandra e della Francia, erano divenuti proprietari di larghi fondi, agenti commerciali o fornitori delle Corone di Francia e di Borgogna, funzionari ed appaltatori nelle amministrazioni civili e finanziarie: avevano contratto parentadi illustri e s'erano cosí bene acclimatati in Francia che potevano ormai dire di avere due patrie: Lucca e la Francia. Perciò uno di loro, Galvano Trenta, all'inizio del 1411 scriveva a Paolo Guinigi di pregare il nuovo Papa, non appena eletto, che richiedesse al re di Francia che ogni lucchese fosse riconosciuto «borghese» di Parigi.



[Pippo Spano in Ungheria.] Il «Marzocco» del 4 ottobre 1931 riassume dall'«Illustrazione Toscana» un articolo del dottor Ladislao Holik-Barabàs su Filippo Scolari detto Pippo Spano, che fu «una delle figure piú caratteristiche fra gli italiani che hanno portato lungi dalla patria straordinarie energie conquistando gradi eminenti nei paesi d'elezione». Lo Scolari fu successivamente intendente delle miniere, poi liberatore del sovrano, re Sigismondo d'Ungheria, conte di Temesvar, governatore generale dell'Ungheria e condottiero degli ungheresi contro i turchi. Pippo Spano morí il 27 dicembre 1426.



[La diplomazia libero mestiere.] Cfr. Renaud Przezdziecki, Ambasciatori veneti in Polonia, «Nuova Antologia», 1° luglio 1930:

«La mancanza di una unità patria, di una dinastia unica, creava tra gli italiani uno stato di spirito indipendente, per cui ciascuno che fosse fornito di capacità politiche e diplomatiche, le considerava come un talento personale che poteva mettere, secondo il suo interesse, al servizio di qualunque causa, allo stesso modo che i capitani di ventura disponevano della loro spada. La diplomazia considerata come un libero mestiere, creava cosí, nei secoli XVII e XVIII, il tipo del diplomatico senza patria, di cui l'esempio piú classico è probabilmente il cardinale di Mazzarino». La diplomazia, secondo il Przezdziecki, avrebbe trovato in Italia un terreno naturale per nascere e svilupparsi: 1) vecchia cultura; 2) frazionamento «statale» che dava luogo a contrasti e lotte politiche e commerciali e quindi favoriva lo sviluppo delle capacità diplomatiche.

In Polonia si ritrovano di questi diplomatici italiani al servizio di altri Stati: un prelato fiorentino, monsignor Bonzi, fu ambasciatore di Francia a Varsavia, dal 1664 al 1669; un marchese de Monti, bolognese, fu ambasciatore di Luigi XV presso Stanislao Lesczynski; un marchese Lucchesini, fu ministro plenipotenziario del re di Prussia a Varsavia alla fine del '700. I re di Polonia si servirono spesso delle abilità diplomatiche di italiani, quantunque la nobiltà polacca avesse fatto approvare delle leggi che vietavano ai sovrani di affidare a forestieri funzioni pubbliche. Ladislao Jagellone, al principio del '400, aveva incaricato tal Giacomo de Paravesino di missioni diplomatiche, come suo ambasciatore a Venezia, a Milano, a Mantova. L'umanista fiorentino Filippo Buonaccorsi da Fiesole detto il Callimaco, dopo essere stato pedagogo dei figli di Casimiro III, andò ambasciatore di questo re presso Sisto IV, Innocenzo VIII, la Repubblica di Venezia e il Sultano. Nel secolo XVI, furono ambasciatori polacchi in vari Stati Luigi del Monte, Pietro degli Angeli, i fratelli Magni di Como. Nel secolo XVI, Domenico Roncalli è ministro di Ladislao IV a Parigi e negozia il matrimonio di quel sovrano con Luisa Maria Gonzaga; Francesco Bibboni è ambasciatore polacco a Madrid, Andrea Bollo è ministro di Polonia presso la Repubblica di Genova e un dall'Oglio incaricato d'affari a Venezia alla fine del secolo XVIII. Tra i rappresentanti polacchi presso la Santa Sede troviamo anche, nella seconda metà del secolo XVIII, un cardinale Antici e un conte di Lagnasco.

Gli Italiani hanno creato la diplomazia moderna. La Santa Sede, durante lunghi secoli arbitra in buona parte della politica mondiale, fu la prima a istituire Nunziature stabili e la Repubblica di Venezia fu il primo Stato che organizzò un servizio diplomatico regolare.



[Italiani in Russia.] Articolo di Ferdinando Nunziante Gli italiani in Russia durante il secolo XVIII, nella «Nuova Antologia» del 16 luglio 1929. Articolo mediocre e superficiale, senza indicazioni di fonti per le notizie riportate. Se ne possono trarre spunti e indicazioni generiche. Già l'importanza degli intellettuali italiani era caduta e si apriva l'èra degli avventurieri. Scrive il Nunziante per la Russia del '700: «Dalla Germania venivano ingegneri e generali per l'esercito; dall'Inghilterra ammiragli per la flotta; dalla Francia ballerini, parrucchieri e filosofi, cuochi ed enciclopedisti; dall'Italia principalmente pittori, maestri di cappella e cantanti». Ricorda che i Panini d'origine lucchese furono il ceppo della famiglia dei conti Panin, ecc.


Cfr. l'articolo di Giuseppe Tucci, Del supposto architetto del Taj e di altri italiani alla corte del Mogul, nella «Nuova Antologia» del 1° maggio 1930. Il supposto architetto del Taj sarebbe stato Jeromino Veroneo, morto nel 1640, cioè prima che Taj fosse ultimato (1648), ma che si suppone abbia fatto il piano, ultimato poi da un mussulmano (vedi l'articolo per i dettagli).



Europa, America, Asia


[Popoli e intellettuali moderni nei vari paesi.] Quando incomincia la vita culturale nei vari paesi del mondo e dell'Europa? Ciò che noi dividiamo in «Storia antica», «medioevale», «moderna», come si può applicare ai diversi paesi? Pure queste diverse fasi della storia mondiale sono state assorbite dagli intellettuali moderni anche dei paesi solo di recente entrati nella vita culturale. Tuttavia il fatto dà luogo ad attriti. Le civiltà dell'India e della Cina resistono all'introduzione della civiltà occidentale, che pure in una forma o nell'altra finirà col vincere: possono esse d'un colpo decadere alle condizioni di folklore? di superstizione? Questo fatto però non può accelerare la rottura tra popolo e intellettuali e la espressione da parte del popolo di nuovi intellettuali formatisi nella sfera del materialismo storico?



[Nazionalismo e particolarsimo.] Julien Benda. Un suo articolo nelle «Nouvelles Littéraires» del 2 novembre 1929: Comment un écrivain sert-il l'universel? è un corollario del libro Il tradimento degli intellettuali. Accenna a un'opera recente, Esprit und Geïst del Wechssler, in cui si cerca di dimostrare la nazionalità del pensiero e di spiegare che il Geist tedesco è ben diverso dall'esprit francese; invita i tedeschi a non dimenticare questo particolarismo del loro cervello e tuttavia pensa di lavorare all'unione dei popoli in virtú di un pensiero di André Gide, secondo cui si serve meglio l'interesse generale quanto piú si è particolari. Il Benda ricorda il manifesto dei 54 scrittori francesi pubblicato nel «Figaro» del 19 luglio 1919, Manifeste du parti de l'Intelligence in cui si diceva:«N'est-ce pas en se nationalisant qu'une littérature prend une signification plus universelle, un intérêt plus humainement général?». Per il Benda è giusto che l'universale si serve meglio quanto piú si è particolari. Ma una cosa è essere particolari, altra cosa predicare il particolarismo. Qui è l'equivoco del nazionalismo, che in base a questo equivoco pretende spesso di essere il vero universalista, il vero pacifista. Nazionale, cioè, è diverso da nazionalista. Goethe era «nazionale» tedesco, Stendhal «nazionale» francese, ma né l'uno né l'altro nazionalista. Un'idea non è efficace se non è espressa in qualche modo, artisticamente, cioè particolarmente. Ma uno spirito è particolare in quanto nazionale? La nazionalità è una particolarità primaria; ma il grande scrittore si particolarizza ancora tra i suoi connazionali e questa seconda «particolarità» non è il prolungamento della prima. Renan, in quanto Renan non è affatto una conseguenza necessaria dello spirito francese; egli è, per rapporto a questo spirito, un evento originale, arbitrario, imprevedibile (come dice Bergson). E tuttavia Renan resta francese, come l'uomo, pur essendo uomo, rimane un mammifero; ma il suo valore, come per l'uomo, è appunto nella sua differenza dal gruppo donde è nato.

Ciò appunto non vogliono i nazionalisti, per i quali il valore dei grandi intellettuali, dei maestri, consiste nella loro somiglianza con lo spirito del loro gruppo, nella loro fedeltà, nella loro puntualità ad esprimere questo spirito (che d'altronde viene definito come lo spirito dei grandi intellettuali, dei maestri per cui si finisce sempre con l'aver ragione).

Perché tanti scrittori moderni ci tengono tanto all'«anima nazionale» che dicono di rappresentare? È utile, per chi non ha personalità, decretare che l'essenziale è di essere nazionali. Max Nordau scrive di un tale che esclamò: «Dite che io non sono niente. Ebbene: sono pur qualche cosa: sono un contemporaneo!». Cosí molti dicono di essere scrittori francesissimi ecc. (in questo modo si costituisce una gerarchia e una organizzazione di fatto e questo è l'essenziale di tutta la quistione: il Benda, come il Croce, esamina la quistione degli intellettuali astraendo dalla situazione di classe degli intellettuali stessi e dalla loro funzione, che si è venuta precisando con l'enorme diffusione del libro e della stampa periodica). Ma se questa posizione è spiegabile per i mediocri, come spiegarla nelle grandi personalità? (forse la spiegazione è coordinata: le grandi personalità dirigono i mediocri e ne partecipano necessariamente certi pregiudizi pratici che non sono di danno alle loro opere). Wagner (cfr. l'Ecce homo di Nietzsche) sapeva ciò che faceva affermando che la sua arte era l'espressione del genio tedesco, invitando cosí tutta una razza ad applaudire se stessa nelle sue opere. Ma in molti il Benda vede come ragione del fatto la credenza che lo spirito è buono nella misura in cui adotta una certa maniera collettiva di pensare e cattivo in quanto cerca di individuarsi. Quando Barrès scriveva: «C'est le rôle des maîtres de justifier les habitudes et préjugés qui sont ceux de la France, de manière à préparer pour le mieux nos enfants à prendre leur rang dans la procession nationale», egli intendeva appunto che il suo dovere e quello dei pensatori francesi degni di questo nome, era di entrare, anch'essi, in questa processione.

Questa tendenza ha avuto effetti disastrosi nella letteratura (insincerità). In politica: questa tendenza alla distinzione nazionale ha fatto sí che la guerra, invece di essere semplicemente politica, è diventata una guerra di anime nazionali, con i suoi caratteri di profondità passionale e di ferocia.

Il Benda conclude osservando che tutto questo lavorio per mantenere la nazionalizzazione dello spirito significa che lo spirito europeo sta nascendo e che è nel seno dello spirito europeo che l'artista dovrà individualizzarsi se vuol servire l'universale. (La guerra appunto ha dimostrato che questi atteggiamenti nazionalistici non erano casuali o dovuti a cause intellettuali – errori logici, ecc. –: essi erano e sono legati a un determinato periodo storico in cui solo l'unione di tutti gli elementi nazionali può essere una condizione di vittoria. La lotta intellettuale, se condotta senza una lotta reale che tenda a capovolgere questa situazione, è sterile. È vero che lo spirito europeo sta nascendo e non solamente europeo, ma appunto ciò inasprisce il carattere nazionale degli intellettuali, specialmente dello strato piú elevato).



Gli intellettuali francesi. Nelle «Nouvelles Littéraires» del 12 ottobre 1929 in un articolo Deux époques littéraires et d'angoisse: 1815-1830 et 1918-1930, Pierre Mille cita un articolo di André Berge nella «Révue des deux mondes»: L'Esprit de la Littérature moderne, in cui si segnala l'inquietudine delle giovani generazioni letterarie francesi: disillusione, malessere e persino disperazione; non si sa piú perché si vive, perché si è sulla terra. Secondo il Mille, questo stato d'animo rassomiglia a quello da cui nacque il romanticismo, con questa differenza che i romantici se ne liberavano con l'effusione letteraria, col lirismo, con le «parole» (ma è poi vero? al romanticismo si accompagnarono anche dei fatti: il '30, il '31, il '48; ci fu l'effusione letteraria, ma non solo questa). Oggi invece le giovani generazioni non credono piú alla letteratura, al lirismo, all'effusione verbale, di cui hanno orrore: predomina la noia, il disgusto.

Per il Mille si tratta di questo: non è tanto la guerra che ha cambiato il mondo; si tratta di una rivoluzione sociale: si è formato un «supercapitalismo» che alleato tacitamente alla classe operaia e ai contadini, schiaccia la vecchia borghesia. Il Mille vuol dire che in Francia c'è stato un ulteriore sviluppo industriale e bancario e che la piccola e media borghesia che prima sembravano dominare, sono in crisi: quindi crisi degli intellettuali.

La guerra e la rivoluzione russa hanno accelerato il movimento che già esisteva prima dell'agosto '14. Crisi economica delle classi medie che «n'arrivent même pas à concevoir que vingt-cinq francs ne valent plus que cent sous» e «voudraient que ce soit comme avant»; gli operai che pensano: laggiú, all'est, c'è un paese dove il proletario è dittatore; classi che nel passato erano dirigenti, e ora non dirigono piú, che sognano all'Italia fascista. Il Mille scrive che è proprio «opportuno» ciò che domanda Emmanuel Berl nella Mort de la Pensée bourgeoise quando vorrebbe che gli scrittori, borghesi per il 90%, abbiano delle simpatie per quelli che vogliono spossessarli! Alcuni tratti del quadro mi sembrano esatti e interessanti. La vecchia Francia piccolo-borghese attraversa una crisi molto profonda, che però è ancora piú morale che immediatamente politica.


Un ricco materiale da spigolare sulle concezioni diffuse tra gli intellettuali si potrà trovare nelle raccolte di interviste pubblicate nelle «Nouvelles Littéraires» da Frédéric Lefèvre col titolo Une heure avec... . Ne sono già usciti piú volumi. In queste interviste non si trattano solo quistioni letterarie e artistiche, ma anche politiche, economiche, ecc., ideologiche in generale. Il modo di pensare è espresso con maggiore spontaneità ed evidenza che nei libri degli autori.



Emmanuel Berl. Ha scritto un libro Mort de la pensée bourgeoise che pare abbia fatto un certo chiasso. Nel 1929 ha tenuto, a Médan, nella casa di Zola, un discorso in occasione del pellegrinaggio annuale (credo) degli «amici di Zola» (democratici, Jeunesses laïques et républicaines, ecc.). «Dopo la morte di Zola e di Jaurès nessuno piú sa parlare al popolo del popolo e la nostra "letteratura di esteti" muore per il suo egocentrismo». Zola in letteratura, Jaurès in politica sono stati gli ultimi rappresentanti del popolo. Pierre Hamp parla del popolo, ma i suoi libri sono letti dai letterati. V. Margueritte è letto dal popolo, ma non parla del popolo. Il solo libro francese che continui Zola è Le feu di Barbusse, perché la guerra aveva fatto rinascere in Francia una certa fraternità. Oggi il romanzo popolare (cosa intende per romanzo popolare?) si separa sempre piú dalla letteratura propriamente detta che è diventata letteratura di esteti. La letteratura, separata dal popolo, deperisce – il proletariato escluso dalla vita spirituale (!) «n'est plus fondé en dignité» (perde la sua dignità) – (è vero che la letteratura si allontana dal popolo e diventa fenomeno di casta; ma ciò porta a una maggior dignità del popolo; la tradizionale «fraternità» non è stata che l'espressione della bohème letteraria francese, un certo momento della cultura francese intorno al '48 e fino al '70; ha avuto una certa ripresa con Zola). «Et autour de nous, nous sentons croître cette famine du peuple qui nous interroge sans que nous puissions lui répondre, qui nous presse sans que nous puissions le satisfaire, qui réclame une justification de sa peine sans que nous puissions la lui donner. On dirait que les usines géantes déterminent une zone de silence de laquelle l'ouvrier ne peut plus sortir et oú l'intellectuel ne peut plus entrer. Tellement séparés que l'intellectuel, issu du milieu ouvrier, n'en retrouve point l'accès». «La fidélité difficile, écrit Jean Guéhenno, peut-être la fidélité impossible. Le boursier n'établit nullement, comme on pouvait l'espérer, un pont entre le prolétariat et la bourgeoisie. Un bourgeois de plus, et c'est bien. Mais ses frères cessent de le reconnaître. Ils ne voient plus en lui un des leurs. Comme le peuple ne participe nullement aux modes d'expression des intellectuels, il faut, ou bien qu'il s'oppose à eux, qu'il constitue une sorte de nationalité avec son langage propre, ou bien qu'il n'ait pas de langage du tout et s'enlise dans une sorte de barbarie». La colpa è degli intellettuali, divenuti conformisti, mentre Zola era rivoluzionario (!), raffinati e preziosi nello stile, scrittori di giornali intimi mentre Zola [era] epico. Ma anche il mondo è cambiato. Zola conosceva un popolo che oggi non esiste piú, o almeno non ha piú la stessa importanza. Alto capitalismo – operaio taylorizzato – sostituisce il vecchio popolo che non si distingueva ancor bene dalla piccola borghesia e che appare in Zola, come in Proudhon, in V. Hugo, nella Sand, in E. Sue. Zola descrive l'industria nascente. Ma se è piú difficile il compito dello scrittore, non deve perciò essere trascurato. Quindi ritorno a Zola, ritorno al popolo. «Avec Zola donc ou avec rien, la fraternité ou la mort. Telle est notre devise. Tel notre drame. Et telle notre loi».



[Gli intellettuali in Spagna.] Sulla funzione che hanno avuto gli intellettuali in Ispagna prima della caduta della monarchia è da vedere il libro di S. de Madariaga, Spagna. Saggio di storia contemporanea, a cura di Alessandro Schiavi, Laterza, Bari, 1932. Sull'argomento deve esistere una larga letteratura in Ispagna, attualmente, poiché la repubblica si presenta come una repubblica di intellettuali. Il fenomeno spagnolo ha caratteri propri, peculiari, determinati dalla speciale situazione delle masse contadine in Ispagna. Pure è da riavvicinare alla funzione dell'«intellighenzia» russa, alla funzione degli intellettuali italiani nel Risorgimento, degli intellettuali tedeschi sotto il dominio francese e agli enciclopedisti del '700. Ma in Ispagna la funzione degli intellettuali nella politica ha un suo carattere inconfondibile e può valere la pena di essere studiata.


Alla Università di Madrid, Eugenio D'Ors sta (1931) svolgendo un largo corso di conferenze su La scienza e la storia della Cultura che, da alcuni cenni pubblicati nelle «Nouvelles Littéraires» del 31 ottobre 1931 pare debba essere una enorme sociologia del fatto culturale o della civiltà. Il corso sarà pubblicato in volumi, certamente.



Intellettuali tedeschi. 1) Hans Frank, Il diritto è l'ingiustizia. Nove racconti che sono nove esempi per dimostrare che summum jus, summa injuria. Il Frank non è un giovane che voglia fare dei paradossi: ha cinquant'anni ed è stata pubblicata una antologia di suoi racconti di storia tedesca per le scuole. Uomo di forti convinzioni. Combatte il diritto romano, la dura lex, e non già questa o quest'altra legge inumana e antiquata, ma la stessa nozione di norma giuridica, quella di una giustizia astratta che generalizza e codifica, definisce il delitto e pronunzia la sanzione.

Questo di Hans Frank non è un caso individuale: è il sintomo di uno stato d'animo. Un difensore dell'Occidente potrebbe vedere in ciò la rivolta del «disordine tedesco» contro l'ordine latino, dell'anarchia sentimentale contro la regola dell'intelligenza. Ma gli autori tedeschi l'intendono piuttosto come la restaurazione di un ordine naturale sulle rovine d'un ordine artificioso. Di nuovo l'esame personale si oppone al principio d'autorità, che viene attaccato in tutte le sue forme: dogma religioso, potere monarchico, insegnamento ufficiale, stato militare, legame coniugale, prestigio paterno, e soprattutto, la giustizia che protegge queste istituzioni caduche, che non è che coercizione, compressione, deformazione arbitraria della vita pubblica e della natura umana. L'uomo è infelice e cattivo finché è incatenato dalla legge, dal costume, dalle idee ricevute. Bisogna liberarlo per salvarlo. La virtú creatrice della distruzione è diventata un articolo di fede.

Stefan Zweig, H. Mann, Remarque, Glaeser, Leonhard Frank...

2) Leonhard Frank, La ragione: l'eroe assassina il suo ex-professore, perché questi gli aveva sfigurato l'anima: l'autore sostiene l'innocenza dell'uccisore.

3) Franz Werfel: in un romanzo sostiene che non l'assassino è colpevole, ma la vittima: non c'è in lui niente del Quincey: c'è un atto morale. Un padre, generale imperioso e brutale, spezza la vita del figlio facendone un soldato senza vocazione: non commette un delitto di lesa umanità? Deve essere immolato come due volte usurpatore; come capo e come padre.

Nasce cosí il motivo del parricidio e la sua apologia, l'assoluzione di Oreste, non in nome della pietà per la colpa tragica, in ragione di un imperativo categorico, di un mostruoso postulato morale.

La teoria di Freud, il complesso di Edípo, l'odio per il padre – padrone, modello, rivale, espressione prima del principio d'autorità – posto nell'ordine delle cose naturali. L'influenza del Freud sulla letteratura tedesca è incalcolabile: essa è alla base di una nuova etica rivoluzionaria (!). Freud ha dato un aspetto nuovo all'eterno conflitto tra padri e figli. L'emancipazione dei figli dalla tutela paterna è la tesi in voga presso i romanzieri attuali. I padri abdicano al loro «patriarcato» e fanno ammenda onorevole dinanzi ai figli il cui senso morale ingenuo è solo capace di spezzare il contratto sociale tirannico e perverso, di abolire le costrizioni di un dovere menzognero (cfr. Hauptmann, Michael Kramer; la novella di Jacob Wassermann, Un padre).

4) Wassermann, Der Fall Mauritius: tipico contro la giustizia.



Noterelle sulla cultura inglese. Guido Ferrando, in un articolo del «Marzocco» (17 aprile 1932, Libri nuovi e nuove tendenze nella cultura inglese), analizza i mutamenti organici che si stanno verificando nella cultura moderna inglese, e che hanno le loro manifestazioni piú vistose nel campo editoriale e nell'organizzazione complessiva degli istituti universitari del Regno Unito. «... in Inghilterra si va sempre piú accentuando un orientamento verso una forma di cultura tecnica e scientifica, a scapito della cultura umanistica».

«In Inghilterra, fino a tutto il secolo scorso, si potrebbe quasi dire fino alla guerra mondiale, il fine educativo piú alto che si proponevano le migliori scuole era quello di formare il gentleman. La parola gentleman, come tutti sanno, non corrisponde a "gentiluomo" italiano; e non può esser resa con precisione nella nostra lingua; indica una persona che abbia non solo buone maniere, ma che possegga un senso di equilibrio, una padronanza sicura di se stesso, una disciplina morale che gli permetta di subordinare volontariamente il proprio interesse egoistico a quelli piú vasti della società in cui vive».

«Il gentleman è dunque la persona colta, nel significato piú nobile del termine, se per cultura intendiamo non semplicemente ricchezza di cognizioni intellettuali, ma capacità di compiere il proprio dovere e di comprendere i propri simili, rispettando ogni principio, ogni opinione, ogni fede che sia sinceramente professata. È chiaro quindi che l'educazione inglese mirava non tanto a coltivare la mente, ad arricchirla di vaste cognizioni, quanto a sviluppare il carattere, a preparare una classe aristocratica la cui superiorità morale veniva istintivamente riconosciuta ed accettata dalle classi piú umili. L'educazione superiore o universitaria, anche perché costosissima, era riservata ai pochi, ai figli di famiglie grandi per nobiltà o per censo, senza per questo esser preclusa ai piú poveri, purché riuscissero, per virtú d'ingegno, a vincere una borsa di studio. Gli altri, la grande maggioranza, dovevano accontentarsi di un'istruzione, buona senza dubbio, ma prevalentemente tecnica e professionale, che li preparava per quegli uffici non direttivi, che sarebbero stati piú tardi chiamati a coprire nelle industrie, nel commercio, nelle pubbliche amministrazioni».

Fino a qualche decennio fa esistevano in Inghilterra solo tre grandi università complete, Oxford, Cambridge e Londra, e una minore a Durham. Per entrare a Oxford e a Cambridge bisogna venire dalle cosí dette public schools che sono tutto, tranne che pubbliche. La piú celebre di queste scuole, quella di Eton, fu fondata nel 1440 da Enrico VI per accogliere «settanta scolari poveri e indigenti», è diventata oggi la piú aristocratica scuola dell'Inghilterra, con piú di mille allievi; ci sono ancora i settanta posti interni che dànno diritto all'istruzione e al mantenimento gratuito e vengono assegnati per concorso ai ragazzi piú studiosi; gli altri sono esterni e pagano somme enormi. «I settanta collegiali... son quelli che poi all'università si specializzeranno e diventeranno i futuri professori e scienziati; gli altri mille, che in genere studiano meno, ricevono un'educazione soprattutto morale e diventeranno, attraverso il crisma universitario, la classe dirigente, destinata ad occupare i piú alti posti nell'esercito, nella marina, nella vita politica, nell'amministrazione pubblica».

«Questa concezione dell'educazione che è prevalsa finora in Inghilterra, è a base umanistica». Nella maggior parte delle public schools e nelle università di Oxford e Cambridge che hanno mantenuto la tradizione del Medioevo e del Rinascimento, «la conoscenza dei grandi autori greci e latini, viene ritenuta non solo utile, ma indispensabile per la formazione del gentleman, dell'uomo politico: serve a dargli quel senso di equilibrio, di armonia, quella raffinatezza di gusto che sono elemento integrante della vera cultura». L'educazione scientifica sta prendendo il sopravvento. «La cultura si va democratizzando e fatalmente livellando». Negli ultimi trenta o quaranta anni sono sorte nuove università nei grandi centri industriali: Manchester, Liverpool, Birmingham, Sheffield, Leeds, Bristol; il Galles volle la sua università e la fondò a Bangor, con ramificazioni a Cardiff, Swansea e Aberystwyth. Dopo la guerra e in questi ultimi anni le università si sono ancora moltiplicate; a Hull, a Newcastle, a Southampton, a Exeter, a Reading e se ne annunziano altre due, a Nottingham e a Leicester. In tutti questi centri la tendenza è di dare alla cultura un carattere prevalentemente tecnico per soddisfare le richieste del gran pubblico degli studiosi. Le materie che piú interessano sono, oltre le scienze applicate, fisica, chimica ecc., quelle professionali, medicina, ingegneria, economia politica, sociologia ecc. «Anche Oxford e Cambridge hanno dovuto far concessioni, e sviluppare sempre piú la parte scientifica»; inoltre esse hanno istituito gli Extension Courses.

Il movimento verso la nuova cultura è generale: sorgono scuole e istituzioni private, serali, per adulti, con un insegnamento ibrido ma essenzialmente tecnico e pratico. Sorge intanto tutta una letteratura scientifica popolare. Infine l'ammirazione [per] la scienza è tanta che anche i giovani delle classi colte ed aristocratiche considerano gli studi classici come un inutile perditempo. Il fenomeno è mondiale. Ma l'Inghilterra aveva resistito piú a lungo di altri e ora si orienta verso una forma di cultura prevalentemente tecnica. «Il tipo del gentleman non ha piú ragione di essere; rappresentava l'ideale dell'educazione inglese quando la Gran Bretagna, dominatrice dei mari e padrona dei grandi mercati del mondo, poteva permettersi il lusso di una politica di splendido isolamento, e di una cultura che aveva in sé, indubbiamente, una nota aristocratica. Oggi le cose sono mutate». Perdita della supremazia navale e commerciale; [l'Inghilterra] dall'America è minacciata anche nella propria cultura. Il libro americano è stato commercializzato con la cultura e diventa un competitore sempre piú minaccioso del libro inglese. Gli editori britannici, specialmente quelli che hanno succursali in America, hanno dovuto adottare i metodi di propaganda e di diffusione americani. «In Inghilterra il libro, appunto perché piú letto e diffuso che da noi, esercita un'efficacia formativa ed educativa notevole, e rispecchia piú fedelmente che da noi la vita intellettuale della nazione». In questa vita intellettuale sta avvenendo un mutamento.

Dei volumi pubblicati nel primo trimestre del 1932 (che numericamente sono cresciuti in confronto al 1° trimestre del '31), il romanzo mantiene il primo posto; il secondo posto non è piú dei libri per bambini, ma dei libri pedagogici ed educativi in genere, e c'è un sensibile aumento nelle opere storiche e biografiche e nei volumi di carattere tecnico e scientifico, soprattutto popolare.

Dai volumi inviati alla Fiera Internazionale del Libro a Firenze «noi vediamo che i recenti libri di carattere culturale, sono piú tecnici che educativi, tendono a discutere quistioni scientifiche e aspetti della vita sociale, o a fornire cognizioni pratiche, piú che a formare il carattere».



Gli inglesi e la religione. Da un articolo della «Civiltà Cattolica» del 4 gennaio 1930, L'opera della grazia in una recente conversione dall'anglicanismo, tolgo questa citazione dal libro di Vernon Johnson One Lord, one Faith (Un signore una fede, Londra, Sheed and Ward, 1929; il Johnson è appunto il convertito): «L'inglese medio non pensa quasi mai alla quistione dell'autorità nella sua religione. Egli accetta quella forma d'insegnamento della Chiesa anglicana, in cui è stato allevato, sia anglo-cattolica, sia latitudinarista, sia evangelica, e la segue sino al punto in cui comincia a non soddisfare ai suoi bisogni o viene in conflitto con la sua personale opinione. Perciò, essendo sostanzialmente onesto e sincero, non volendo professare piú di quello che egli realmente crede, scarta tutto quello che non può accettare e si forma una religione personale sua propria». Lo scrittore della «Civiltà Cattolica», continua, forse parafrasando: «Egli (l'inglese medio) considera la religione come un affare esclusivamente privato tra Dio e l'anima; ed in tale atteggiamento, è estremamente cauto, diffidente e restío ad ammettere l'intervento di qualsiasi autorità. Onde va crescendo il numero di coloro che nella loro mente accolgono sempre piú il dubbio: se veramente i Vangeli siano degni di fede, se la religione cristiana sia obbligatoria per tutto il mondo e se si possa conoscere con certezza quale fosse realmente la dottrina di Cristo. Quindi esita ad ammettere che Gesú Cristo fosse veramente Dio». E ancora: «... La maggiore di tutte (le difficoltà al ritorno degli inglesi alla Chiesa romana): l'amore per l'indipendenza in ogni inglese. Egli non ammette nessuna ingerenza, molto meno in religione e meno ancora da parte di uno straniero. Innato e profondamente radicato nel suo animo è l'istinto che l'indipendenza nazionale e l'indipendenza religiosa siano inseparabili. Egli sostiene che l'Inghilterra non accetterà mai una Chiesa governata da italiani».



Sulla civiltà inglese. Le pubblicazioni sulla letteratura inglese di J. J. Jusserand (Storia letteraria del popolo inglese, Histoire littéraire, ecc.). L'opera di Jusserand è fondamentale anche per gli studiosi inglesi. Jusserand fu diplomatico francese a Londra; era stato allievo di Gaston Paris e di Ippolito Taine. Al momento della sua morte (verso il settembre 1932), dell'opera principale dello Jusserand, Histoire littéraire du peuple anglais, erano usciti due volumi; un terzo e conclusivo doveva seguire. Altri lavori sulla letteratura inglese e sulla storia della cultura inglese dello stesso autore.



[Educazione e lingua nell'Impero inglese.] Guido Ferrando nel «Marzocco» del 4 ottobre 1931 pubblica un articolo, Educazione e colonie, da cui traggo alcuni spunti. Il Ferrando ha assistito a un grande convegno «The British Commonwealth Education Conference», a cui parteciparono centinaia d'insegnanti di ogni grado, dai maestri elementari a professori universitari, provenienti da tutte le parti dell'Impero, dal Canadà e dall'India, dal Sud Africa e dall'Australia, dal Kenja e dalla Nuova Zelanda, e che ebbe luogo a Londra alla fine di luglio. Il Congresso si propose di discutere i vari aspetti del problema educativo «in a changing Empire», in un impero in trasformazione; erano presenti vari ben noti educatori degli Stati Uniti. Uno dei temi fondamentali del Congresso era quello dell'interracial understanding, del come promuovere e sviluppare una migliore intesa tra le diverse razze, specialmente tra gli europei colonizzatori e gli africani e asiatici colonizzati. «Era interessante vedere con quanta franchezza e quanto acume dialettico, i rappresentanti dell'India rimproverassero agli inglesi la loro incomprensione dell'anima indiana, che si rivela, per esempio, in quel senso quasi di disgusto, in quell'attitudine di sprezzante superiorità che la maggioranza del popolo britannico ha ancor oggi verso gli indiani, e che perfino durante la guerra spingeva gli ufficiali inglesi ad allontanarsi da tavola e a lasciar la stanza quando entrava un ufficiale indiano».

Tra i tanti temi discussi fu quello della lingua. Si trattava cioè di decidere se fosse opportuno insegnare anche alle popolazioni semiselvagge dell'Africa a leggere prendendo per base l'inglese anziché il loro idioma nativo, se fosse meglio mantenere il bilinguismo o tendere, per mezzo dell'istruzione, a far scomparire la lingua indigena. Ormsby Gore, ex sottosegretario alle colonie, sostenne che era un errore il tentare di snaturalizzare le tribú africane e si dichiarò favorevole ad una educazione tendente a dare agli africani il senso della propria dignità di popolo e la capacità di governarsi da sé. Nel dibattito che seguí la comunicazione dell'Ormsby «mi colpirono le brevi dichiarazioni di un africano, credo che fosse uno zulú, il quale tenne ad affermare che i suoi, diciamo cosí, connazionali, non avevano alcuna voglia di diventar europei; si sentiva nelle sue parole una punta di nazionalismo, un leggero senso di orgoglio di razza».

«Non vogliamo esser inglesi»: a questo grido che prorompeva spontaneo dal petto dei rappresentanti degli indigeni delle colonie britanniche dell'Africa e dell'Asia, faceva eco l'altro grido dei rappresentanti dei Dominions: «Non ci sentiamo inglesi». Australiani e canadesi, cittadini della Nuova Zelanda e dell'Africa del Sud, erano tutti concordi nell'affermare questa loro indipendenza non solo politica, ma anche spirituale. Il prof. Cillie, preside della facoltà di lettere in una università sudafricana, aveva argutamente osservato che l'Inghilterra, tradizionalista e conservatrice, viveva nello ieri, mentre essi, i sudafricani, vivevano nel domani.



Noterelle di cultura americana. G. A. Borgese in Strano interludio («Corriere della Sera», 15 marzo 1932), divide la popolazione degli Stati Uniti in quattro strati: la classe finanziaria, la classe politica, l'Intelligenza, l'Uomo comune. L'Intelligenza è minuscola all'estremo, in confronto alle prime due: alcune decine di migliaia, accentrate specialmente nell'East, fra cui qualche migliaio di scrittori. «Non si giudichi soltanto dal numero. Essa è spiritualmente fra le meglio attrezzate del mondo. Uno che ne fa parte la compara a ciò che fu l'Enciclopedia nella Francia del Settecento. Per ora, a chi non ami esorbitare dai fatti, essa appare un cervello senza membra, un'anima priva di forza operante, la sua influenza sulla cosa pubblica è presso che nulla». Osserva che dopo la crisi, la classe finanziaria che prima padroneggiava la classe politica, in questi ultimi mesi ne ha «subíto» il soccorso, virtualmente un controllo. «Il Congresso sorregge la banca e la borsa; il Campidoglio di Washington puntella Wall Street. Ciò mina l'antico equilibrio dello Stato americano; senza che un nuovo ordine sorga». Poiché in realtà classe finanziaria e classe politica sono in America la stessa cosa, o due aspetti della stessa cosa, il fatto significherebbe solo che è avvenuta una vera e propria differenziazione, cioè che la fase economico-corporativa della storia americana è in crisi e si sta per entrare in una nuova fase: ciò apparirà chiaramente solo se si verifica una crisi dei partiti storici (repubblicano e democratico) e la creazione di qualche potente nuovo partito che organizzi permanentemente la massa dell'Uomo Comune. I germi di tale sviluppo esistevano già (partito progressista), ma la struttura economico-corporativa ha finora sempre reagito efficacemente contro di essi.

L'osservazione che l'Intelligenza americana ha una posizione storica come quella dell'Enciclopedia francese nel '700 è molto acuta e può essere sviluppata.



[Cattolici e protestanti nel Sud-America.] Confrontare l'articolo Il protestantesimo degli Stati Uniti e l'evangelizzazione protestante nell'America latina nella «Civiltà Cattolica» del 18 ottobre 1930. L'articolo è interessante e istruttivo per apprendere come lottano tra loro cattolici e protestanti: naturalmente i cattolici presentano le missioni protestanti come l'avanguardia della penetrazione economica e politica degli Stati Uniti e lottano contro sollevando il sentimento nazionale. Lo stesso rimprovero fanno i protestanti ai cattolici, presentando la Chiesa e il papa come potenze terrene che si ammantano di religione, ecc.



Noterelle di cultura islamitica. Assenza di un clero regolare che serva di trait-d'union tra l'Islàm teorico e le credenze popolari. Bisognerebbe studiare bene il tipo di organizzazione ecclesiastica dell'Islàm e l'importanza culturale delle Università teologiche (come quella del Cairo) e dei dottori. Il distacco tra intellettuali e popolo deve essere molto grande, specialmente in certe zone del mondo musulmano: cosí è spiegabile che le tendenze politeiste del folklore rinascano e cerchino di adattarsi al quadro generale del monoteismo maomettano. Cfr. l'articolo I santi nell'Islàm di Bruno Ducati, nella «Nuova Antologia» del 1° agosto 1929. Il fenomeno dei santi è specifico dell'Africa settentrionale, ma ha una certa diffusione anche in altre zone. Esso ha la sua ragione di essere nel bisogno (esistente anche nel Cristianesimo) popolare di trovare intermediari tra sé e la divinità. Maometto, come Cristo, fu proclamato, – si proclamò – l'ultimo dei profeti, cioè l'ultimo legame vivente tra la divinità e gli uomini; gli intellettuali (sacerdoti o dottori) avrebbero dovuto mantenere questo legame attraverso i libri sacri; ma una tal forma di organizzazione religiosa tende a diventare razionalistica e intellettualistica (cfr. il protestantesimo che ha avuto questa linea di sviluppo), mentre il popolo primitivo tende a un misticismo proprio, rappresentato dall'unione con la divinità con la mediazione dei santi (il protestantesimo non ha e non può avere santi e miracoli); il legame tra gli intellettuali dell'Islàm e il popolo divenne solo il «fanatismo», che non può essere che momentaneo, limitato, ma che accumula masse psichiche di emozioni e di impulsi che si prolungano in tempi anche normali. (Il cattolicesimo agonizza per questa ragione: che non può creare, periodicamente, come nel passato, ondate di fanatismo; negli ultimi anni, dopo la guerra, ha trovato dei sostituti, le cerimonie collettive eucaristiche che si svolgono con splendore fiabesco e suscitano relativamente un certo fanatismo: anche prima della guerra qualcosa di simile suscitavano, ma in piccolo, su scala localissima, le cosí dette missioni, la cui attività culminava nell'erezione di un'immensa croce con scene violente di penitenza ecc.). Questo movimento nuovo dell'Islàm è il sufismo. I santi musulmani sono uomini privilegiati che possono, per speciale favore, entrare in contatto con Dio, acquistando una perenne virtú miracolosa e la capacità di risolvere i problemi e i dubbi teologici della ragione e della coscienza. Il sufismo, organizzatosi a sistema ed esternatosi nelle scuole sufiche e nelle confraternite religiose, sviluppò una vera teoria della santità e fissò una vera gerarchia di santi. L'agiografia popolare è piú semplice di quella sufica. Sono santi per il popolo i piú celebri fondatori o capi di confraternite religiose; ma anche uno sconosciuto, un viandante che si fermi in una località a compiere opere di ascetismo e beneficî portentosi a favore delle popolazioni circostanti, può essere proclamato santo dalla pubblica opinione. Molti santi ricordano i vecchi iddii delle religioni vinte dall'Islàm.

Il Marabutismo dipende da una fonte della santità musulmana, diversa dal sufismo: Murâbit (marabutto) vuol dire che è nel ribât, cioè nel luogo fortificato della frontiera dal quale irrompere, nella guerra santa, contro gli infedeli. Nel ribât il culto doveva essere piú austero, per la funzione di quei soldati presidiari, piú fanatici e costituiti spesso di volontari (arditi dell'Islàm): quando lo scopo militare perdé d'importanza, rimase un particolare abito religioso e i «santi» piú popolari ancora che quelli sufici. Il centro del Marabutismo è il Marocco; verso Est, le tombe di Marabutti vanno sempre piú diradandosi.

Il Ducati analizza minutamente questo fenomeno africano, insistendo sull'importanza politica che hanno i Marabutti, che si trovano a capo delle insurrezioni contro gli europei, che esercitano una funzione di giudici di pace, e che talvolta furono il veicolo di una civiltà superiore. Conclude: «Questo culto (dei santi) per le conseguenze sociali, civilizzatrici e politiche, le quali ne derivano, merita di esser sempre meglio studiato e sempre piú attentamente sorvegliato, poiché i Santi costituiscono una potenza, una forza straordinaria, la quale può essere l'ostacolo maggiore alla diffusione della civiltà occidentale, come pure, se abilmente sfruttata, può divenire un'ausiliaria preziosa dell'espansione europea».



La nuova evoluzione dell'Islàm. 1) Michelangelo Guidi, 2) Sirdar Ikbal Ali Shah, «Nuova Antologia», 1° ottobre 1928. Si tratta di un articolo mediocre del diplomatico afgano anglofilo Ikbal Ali Shah e di una breve nota introduttiva del prof. Michelangelo Guidi. La nota del Guidi pone, senza risolverlo, il problema se l'Islàm sia come religione conciliabile con il progresso moderno e se esso sia suscettibile d'evoluzione. Si riferisce a un recente libretto del prof. R. Hartmann, «profondo e diligente studioso tedesco di lingue e civiltà orientali», Die Krisis des Islams, pubblicato dopo un soggiorno ad Angora e che risponde affermativamente alla quistione; e riporta il giudizio espresso dal prof. Kampffmeyer in una recensione pubblicata del libretto dello Hartmann nell'«Oriente Moderno» (agosto 1928) che un breve soggiorno in Anatolia non può essere sufficiente per giudicare su quistioni cosí vive, ecc., e che troppe delle fonti dell'Hartmann sono di origine letteraria e le apparenze ingannano, in Oriente piú che altrove, ecc. Il Guidi (almeno in questa nota) non conclude, ricordando solo che può soccorrerci l'opinione degli orientali stessi (ma non sono essi «apparenza» che inganna, presi uno per uno ecc.?), sebbene all'inizio abbia scritto che sarebbe utopistico pensare che l'Islàm possa mantenersi nel suo splendido isolamento e che nell'attesa maturino in esso nuovi formidabili agenti religiosi e la forza insita nella concezione orientale della vita abbia ragione del materialismo occidentale e riconquisti il mondo. Mi pare che il problema sia molto piú semplice di quanto lo si voglia fare apparire, per il fatto che implicitamente si considera il «Cristianesimo» come inerente alla civiltà moderna, o almeno non si ha il coraggio di porre la quistione dei rapporti tra Cristianesimo e civiltà moderna. Perché l'Islàm non potrebbe fare ciò che ha fatto il Cristianesimo? Mi pare anzi che l'assenza di una massiccia organizzazione ecclesiastica del tipo cristiano-cattolico dovrebbe rendere piú facile l'adattamento. Se si ammette che la civiltà moderna nella sua manifestazione industriale-economico-politica finirà col trionfare in Oriente (e tutto prova che ciò avviene e che anzi queste discussioni sull'Islàm avvengono perché c'è una crisi determinata appunto da questa diffusione di elementi moderni) perché non bisogna concludere che necessariamente l'Islàm si evolverà? Potrà rimanere tal quale? No: già non è piú quello di prima della guerra. Potrà cadere d'un colpo? Assurdo. Potrà essere sostituito da una religione cristiana? Assurdo pensarlo per le grandi masse. Il Vaticano stesso si accorge come sia contraddittorio voler introdurre il Cristianesimo nei paesi orientali in cui viene introdotto il capitalismo: gli orientali ne vedono l'antagonismo che nei nostri paesi non si vede perché il Cristianesimo si è adattato molecolarmente ed è diventato gesuitismo, cioè una grande ipocrisia sociale: da ciò le difficoltà dell'opera delle missioni e lo scarso valore delle conversioni, d'altra parte molto limitate.

In realtà la difficoltà piú tragica per l'Islàm è data dal fatto che una società intorpidita da secoli di isolamento e da un regime feudale imputridito (naturalmente i signori feudali non sono materialisti!!) è troppo bruscamente messa a contatto con una civiltà frenetica che è già nella sua fase di dissoluzione. Il Cristianesimo ha impiegato nove secoli a evolversi e ad adattarsi, lo ha fatto a piccole tappe, ecc. L'Islàm è costretto a correre vertiginosamente. Ma in realtà esso reagisce proprio come il Cristianesimo: la grande eresia su cui si fonderanno le eresie propriamente dette è il «sentimento nazionale» contro il cosmopolitismo teocratico. Appare poi il motivo del ritorno alle «origini» tale e quale come nel Cristianesimo: alla purezza dei primi testi religiosi contrapposta alla corruzione della gerarchia ufficiale: i Wahabiti rappresentano proprio questo e il Sirdar Ikbal Ali Shah spiega con questo principio le riforme di Kemal Pascià in Turchia: non si tratta di «novità» ma di un ritorno all'antico, al puro, ecc. Questo Sirdar Ikbal Ali Shah mi pare dimostri proprio come tra i mussulmani esista un gesuitismo e una casistica altrettanto sviluppati che nel cattolicismo.



L'influsso della cultura araba nella civiltà occidentale. Ezio Levi ha pubblicato nel volume Castelli di Spagna (Treves, Milano) una serie di articoli pubblicati sparsamente nelle riviste e riguardanti i rapporti di cultura tra la civiltà europea e gli arabi, verificatisi specialmente attraverso la Spagna, dove gli studi in proposito sono numerosi e contano molti specialisti: i saggi del Levi prendevano quasi sempre lo spunto dalle opere di arabisti spagnoli. Nel «Marzocco» del 29 maggio 1932 il Levi recensisce la introduzione al libro L'eredità dell'Islàm di Angel Gonzales Palencia (l'introduzione è uscita in opuscolo indipendente col titolo: El Islam y Occidente, Madrid, 1931) ed enumera tutta una serie di prestiti fatti all'Europa dal mondo orientale nella cucina, nella medicina, nella chimica, ecc. Il libro completo del Gonzales Palencia sarà molto interessante per lo studio del contributo dato dagli arabi alla civiltà europea, per un giudizio della funzione avuta dalla Spagna nel Medioevo e per una caratterizzazione del Medioevo stesso piú esatta di quella corrente.



Noterelle di cultura indiana. Dall'intervista di F. Lefèvre con Aldous Huxley (nelle «Nouvelles Littéraires» del 1° novembre 1930): «Qu'est-ce que vous pensez des révoltes et de tout ce qui se passe aux Indes? – Je pense qu'on y a commencé la civilisation du mauvais côté. On a créé des hautes universités, on n'a pas fondé d'écoles primaires. On a cru qu'il suffisait de donner des lumières à une caste et qu'elle pourrait ensuite élever les masses, mais je ne vois pas que les résultats obtenus aient été très heureux. Ces gens qui ont bénéficié de la civilisation occidentale sont tous chattryas ou brahmanes. Une fois instruits, ils demeurent sans travail et deviennent dangereux. Ce sont eux qui veulent prendre le gouvernement. C'est en visitant les Indes que j'ai le mieux compris la différence qu'il pouvait y avoir au moyen âge entre un vilain et un cardinal. L'Inde est un pays oú la supériorité de droit divin est encore acceptée par les intouchables qui reconnaissent eux-mêmes leur indignité».

C'è qualcosa di vero, ma quanto poco. Come creare le scuole elementari per le masse indiane senza aver creato il personale adeguato: e per creare questo non bisognerà rivolgersi inizialmente alle classi intellettuali già esistenti? E poi, il solo fatto che dei gruppi intellettuali sono disoccupati, può creare una situazione come quella indiana? (Ricordare la famigerata teoria di Loria sugli intellettuali disoccupati). Questi intellettuali sono «isolati» o non sono piuttosto divenuti l'espressione delle classi medie e industriali che lo sviluppo economico ha prodotto nell'India?


Confrontiamo la serie di articoli pubblicati nella «Civiltà Cattolica» del luglio 1930 e mesi seguenti: Sistemi filosofici e sètte dell'Induismo. I gesuiti si pongono questo problema: il cattolicismo in India riesce a far proseliti solo, e anche in questo caso in misura limitata, fra le caste inferiori. Gli intellettuali indiani sono refrattari alla propaganda, e il papa ha detto che occorre operare anche fra loro tanto piú in quanto le masse popolari si convertirebbero se si convertissero dei nuclei intellettuali importanti (il papa conosce il meccanismo di riforma culturale delle masse popolari-contadine piú di molti elementi del laicismo di sinistra: egli sa che una grande massa non si può convertire molecolarmente; occorre, per affrettare il processo, conquistare i dirigenti naturali delle grandi masse, cioè gli intellettuali o formare gruppi di intellettuali di nuovo tipo, onde la creazione di vescovi indigeni); quindi la necessità di conoscere esattamente i modi di pensare e le ideologie di questi intellettuali, per meglio intenderne l'organizzazione di egemonia culturale e morale per distruggerla o assimilarla. Questi studi di parte gesuitica hanno perciò una particolare importanza oggettiva, in quanto non sono «astratti» e accademici, ma sono rivolti a scopi pratici concreti. Essi sono molto utili per conoscere le organizzazioni di egemonia culturale e morale nei grandi paesi asiatici come la Cina e l'India.



Noterelle sulla cultura cinese. 1) La posizione dei gruppi intellettuali in Cina è «determinata» dalle forme pratiche che l'organizzazione materiale della cultura vi ha assunto storicamente. Il primo elemento di questa specie è il sistema di scrittura, quella ideografica. Il sistema di scrittura è ancor piú difficile di quanto volgarmente si supponga, perché la difficoltà non è solo data dal- l'enorme quantità di segni materiali, ma questa quantità è ancora complicata dalle «funzioni» dei singoli segni a seconda del posto che occupano. Inoltre l'ideogramma non è organicamente legato a una determinata lingua, ma serve a tutta quella serie di lingue che sono parlate dai cinesi colti, cioè l'ideogramma ha un valore «esperantistico»: è un sistema di scrittura «universale» (entro un certo mondo culturale) e tenuto conto che le lingue cinesi hanno un'origine comune. Questo fenomeno deve essere studiato accuratamente, perché può servire contro le infatuazioni «esperantistiche»: cioè serve a dimostrare come le cosí dette lingue universali convenzionali, in quanto non sono l'espressione storica di condizioni adeguate e necessarie, diventano elemento di stratificazione sociale e di fossilizzazione di alcuni strati. In queste condizioni non può esistere in Cina una cultura popolare di larga diffusione: l'oratoria, la conversazione rimangono la forma piú popolare di diffusione della cultura. Bisognerà, ad un certo punto, introdurre l'alfabeto sillabico: questo fatto presenta una serie di difficoltà: 1) la scelta dell'alfabeto stesso: quello russo o quello inglese (intendo per «alfabeto inglese» non solo la pura notazione dei segni fondamentali, uguale per l'inglese e le altre lingue ad alfabeto latino, ma il nesso diacritico di consonanti e vocali che dànno la notazione dei suoni effettivi, come sh per ś, j per g italiano, ecc.): certo che l'alfabeto inglese avrà il sopravvento in caso di scelta e ciò sarà legato a conseguenze di carattere internazionale: una certa cultura avrà il sopravvento, cioè.

2) L'introduzione dell'alfabeto sillabico avrà conseguenze di grande portata sulla struttura culturale cinese: sparita la scrittura «universale», affioreranno le lingue popolari e quindi nuovi gruppi di intellettuali su questa nuova base. Cioè si romperebbe l'unità attuale di tipo «cosmopolitico» e ci sarebbe un pullulare di forze «nazionali» in senso stretto. Per alcuni aspetti la situazione cinese può essere paragonata a quella dell'Europa occidentale e centrale nel Medioevo, al «cosmopolitismo cattolico», cioè, quando il «mediolatino» era la lingua delle classi dominanti e dei loro intellettuali: in Cina la funzione del «mediolatino» è svolta dal «sistema di scrittura», proprio delle classi dominanti e dei loro intellettuali. La differenza fondamentale è data da ciò: che il pericolo che teneva unita l'Europa medioevale, pericolo mussulmano in generale – arabi, a Sud, tartari e poi turchi a Oriente e Sud-Est – non può essere neanche lontanamente paragonato ai pericoli che minacciano l'autonomia cinese nel periodo contemporaneo. Arabi, tartari, turchi erano relativamente «meno» organizzati e sviluppati dell'Europa di quel tempo e il pericolo era «meramente» o quasi tecnico-militare. Invece l'Inghilterra, l'America, il Giappone sono superiori alla Cina non solo «militarmente» ma economicamente, culturalmente, su tutta l'area sociale, insomma. Solo l'unità «cosmopolitica» attuale, di centinaia di milioni di uomini, col suo particolare nazionalismo di «razza» – xenofobia – permette al governo centrale cinese di avere la disponibilità finanziaria e militare minima per resistere alla pressione dei rapporti internazionali, e per tenere disuniti i suoi avversari.

La politica dei successori di destra di Sun Yat-sen deve essere esaminata da questo punto di vista. Il tratto caratteristico di questa politica è rappresentato dalla «non volontà» di preparare, organizzare e convocare una Convenzione pancinese a mezzo del suffragio popolare (secondo i principi di Sun), ma nel voler conservare la struttura burocratico-militare dello Stato: la paura cioè di abbandonare le forme tradizionali di unità cinese e di scatenare le masse popolari. Non bisogna dimenticare che il movimento storico cinese è localizzato lungo le coste del Pacifico e dei grandi fiumi che vi sboccano: la grande massa popolare dell'hinterland è piú o meno passiva. La convocazione di una Convenzione pancinese darebbe il terreno per un grande movimento anche di queste masse e per l'affiorare, attraverso i deputati eletti, delle configurazioni nazionali in senso stretto esistenti nella cosmopoli cinese, renderebbe difficile l'egemonia degli attuali gruppi dirigenti senza la realizzazione di un programma di riforme popolari e costringerebbe a cercare l'unità in una unione federale e non nell'apparato burocratico-militare. Ma questa è la linea di sviluppo. La guerra incessante dei generali è una forma primitiva di manifestarsi del nazionalismo contro il cosmopolitismo: essa non sarà superata, cioè non avrà termine il caos militare-burocratico senza l'intervento organizzato del popolo nella forma storica di una Convenzione pancinese.

(Sulla quistione degli intellettuali cinesi occorre raccogliere e organizzare molto materiale per elaborare un paragrafo sistematico della rubrica sugli intellettuali: il processo di formazione e il modo di funzionare sociale degli intellettuali cinesi ha caratteri propri e originali, degni di molta attenzione).

Rapporti della cultura cinese con l'Europa. Prime notizie sulla cultura cinese sono date dai missionari, specialmente gesuiti, nei secoli XVII-XVIII. Intorcetta, Herdrich, Rougemont, Couplet, rivelano all'Occidente l'universalismo confuciano; du Halde (1736) scrive la Description de l'Empire de la Chine; Fourmont (1742), da Glemona, Prémare.

Nel 1815, con la formazione nel Collège de France della prima cattedra di lingua e letteratura cinese, la cultura cinese viene studiata dai laici (per fini e con metodi scientifici e non di apostolato cattolico com'era il caso dei gesuiti); questa cattedra è tenuta da Abel Rémusat, considerato oggi come il fondatore della sinologia europea. Discepolo del Rémusat fu Stanislas Julien, che è considerato come il primo sinologo del suo tempo; tradusse un'enorme massa di testi cinesi, romanzi, commedie, libri di viaggi e opere di filosofia e infine riassunse la sua esperienza filologica nella Syntaxe nouvelle de la langue chinoise. L'importanza scientifica del Julien è data dal fatto che egli riuscí a penetrare il carattere della lingua cinese e le ragioni della sua difficoltà per gli europei, abituati alle lingue flessive. Anche per un cinese lo studio della sua lingua è piú difficile di ciò che non sia per un europeo lo studio della propria: occorre un doppio sforzo, di memoria e d'intelligenza, di memoria per ricordare i molteplici significati di un ideogramma, di intelligenza per collegare questi in modo da trovare in ognuno di essi la parte, per cosí dire, connettiva che permette di trarre dal nesso delle frasi un senso logico ed accettabile. Piú il testo è denso ed elevato (nel senso dell'astrazione) e piú difficile è tradurlo: anche il piú esperto letterato cinese deve sempre far precedere un lavoro d'analisi, piú o meno rapido, all'interpretazione del testo che legge. L'esperienza ha nel cinese un valore piú grande che in altre lingue, dove base prima all'intelligenza è la morfologia che in cinese non esiste. (Mi pare difficile accettare che in cinese non esista assolutamente la morfologia: nelle descrizioni della lingua cinese fatte da europei bisogna tener conto del fatto che il «sistema di scrittura» prende necessariamente il primo posto nell'importanza: ma il «sistema di scrittura» coincide perfettamente con la lingua parlata che è la «lingua reale»? è possibile che la funzione morfologica in cinese sia piú legata alla fonetica e alla sintassi, cioè al tono dei singoli suoni e al ritmo musicale del periodo, cosa che non potrebbe apparire nella scrittura se non sotto forma di notazione musicale, ma anche in questo caso mi pare difficile escludere una qualche funzione morfologica autonoma: bisognerebbe vedere il libretto del Finck sui tipi principali di lingue. Ricordare ancora che la funzione morfologica anche nelle lingue flessive ha come origine parole indipendenti divenute suffissi, eccetera: questa traccia forse può servire per identificare la morfologia del cinese, che rappresenta una fase linguistica forse piú antica delle piú antiche lingue di cui si è conservata la documentazione storica. Le notizie che qui riassumo sono prese da un articolo di Alberto Castellani, Prima sinologia, nel «Marzocco» del 24 febbraio 1929).

Nel cinese «chi piú legge piú sa»: infatti, tutto riducendosi a sintassi, solo una lunga pratica con i modi, le clausole della lingua può essere di certo indirizzo alla intelligenza del testo. Tra il vago valore degli ideogrammi e la comprensione integrale del testo ci deve essere un esercizio dell'intelligenza che, nella necessità di adattamento logico, non ha quasi limite in paragone alle lingue flessive.

Un libro sulla cultura cinese. Eduard Erkes, Chinesische Literatur, Ferdinand Hirt, Breslau, 1926. È un volumetto di meno che cento pagine in cui, secondo Alberto Castellani, mirabilmente si condensa tutto il ciclo culturale cinese, dalla piú antica età fino ai giorni nostri. Non si può comprendere il presente cinese senza conoscerne il passato, senza una informazione demopsicologica: questo è giusto, ma è esagerata, o almeno nella forma data, questa affermazione: «La conoscenza del passato dimostra che la gente cinese è già da diverse diecine di secoli, confucianamente comunista: tanto che certi recenti tentativi d'innesto eurasiatico ci ricordano il portar nottole ad Atene». Questa affermazione si può fare per ogni popolo arretrato di fronte all'industrialismo moderno e poiché si può fare per molti popoli, ha un valore primitivo: tuttavia la conoscenza della reale psicologia delle masse popolari, da questo punto di vista o come si può ricostruire attraverso la letteratura, ha grande importanza. La letteratura cinese è d'impronta genuinamente religioso-statale. L'Erkes tenta una ricostruzione critico-sintetica dei diversi momenti della letteratura cinese, attraverso le epoche piú significative, per dare a questi momenti maggior rilievo di necessità storica. (Non è cioè una storia della letteratura in senso erudito e descrittivo, ma una storia della cultura). Tratteggia la figura e l'opera di Chu Hsi (1130-1200), che pochi occidentali sanno essere stata la personalità piú significativa della Cina, dopo Confucio, grazie ai meditati silenzi dei missionari che hanno visto in questo riplasmatore della moderna coscienza cinese l'ostacolo piú grande ai loro sforzi di propaganda.

Libro del Wieger, La Chine à travers les âges. L'Erkes arriva fino alla fase recente della Cina europeizzante e informa anche sullo svolgimento che si sta compiendo anche a proposito della lingua e dell'educazione.

Nel «Marzocco» del 23 ottobre 1927 Alberto Castellani dà notizia del libro di Alfredo Forke: Die Gedankenwelt des chinesischen Kulturkreiser, München-Berlin, 1927 (Filosofia cinese in veste europea e... giapponese). Il Forke è professore di lingua e di civiltà della Cina all'Università di Amburgo ed è noto come specialista dello studio della filosofia cinese. Lo studio del pensiero cinese è difficile per un occidentale per varie ragioni: 1) i filosofi cinesi non hanno scritto trattati sistematici del loro pensiero: furono i discepoli a raccogliere le parole dei maestri, non i maestri a scriverle per gli eventuali discepoli; 2) la filosofia vera e propria era intrecciata e come soffocata nelle tre grandi correnti religiose, Confucianismo, Taoismo, Buddismo; cosí i cinesi passarono spesso agli occhi dell'europeo non specialista o come privi di filosofia vera e propria o come aventi tre religioni filosofiche (questo fatto però, che la filosofia sia stata intrecciata alla religione ha un significato dal punto di vista della cultura e caratterizza la posizione storica degli intellettuali cinesi). Il Forke appunto ha cercato di presentare il pensiero cinese secondo le forme europee, ha cioè liberato la filosofia vera e propria dai miscugli e dalle promiscuità eterogenee; quindi ha reso possibile qualche parallelo tra il pensiero europeo e quello cinese. L'Etica è la parte piú rigogliosa di questa ricostruzione: la Logica è meno importante «perché anche i cinesi stessi ne hanno avuto sempre, piú un senso istintivo, come intuizione, che non un concetto esatto, come scienza». (Questo punto è molto importante, come momento culturale). Solo alcuni anni fa, uno scrittore cinese, il prof. Hu Shi, nella sua Storia della Filosofia Cinese (Scianghai, 1919) assegna alla Logica un posto eminente, ridisseppellendola dagli antichi testi classici, di cui, non senza qualche sforzo, tenta di rivelare il magistero. Forse il rapido invadere del Confucianismo, del Taoismo e del Buddismo, che non hanno interesse per i problemi della Logica, può avere intralciato il suo divenire come scienza. «Sta di fatto che i cinesi non hanno mai avuto un'opera come il Nyàya di Gautama e come l'Organon di Aristotile». Cosí manca in Cina una disciplina filosofica sulla «conoscenza» (Erkenntnistheorie). Il Forke non vi trova che tendenze.

Il Forke esamina inoltre le diramazioni della filosofia cinese fuori della Cina, specialmente nel Giappone. Il Giappone ha preso dalla Cina insieme alle altre forme di cultura anche la filosofia, pur dandole un certo carattere proprio. Il giapponese non ha tendenze metafisiche e speculative come il cinese (è «pragmatista» ed empirista). I filosofi cinesi tradotti in giapponese, acquistano però una maggiore perspicuità. (Ciò significa che i giapponesi hanno preso dal pensiero cinese ciò che era utile per la loro cultura, un po' come i romani hanno fatto coi greci).

Il Castellani ha recentemente pubblicato: La dottrina del Tao ricostruita sui testi ed esposta integralmente, Bologna, Zanichelli, e La regola celeste di Lao-Tse, Firenze, Sansoni, 1927. Il Castellani fa un paragone tra Lao-Tse e Confucio (non so in quale di questi due libri): «Confucio è il cinese del Settentrione, nobile, colto, speculativo: Lao-tse, 50 anni piú vecchio di lui, è il cinese del mezzogiorno, popolare, audace, fantasioso. Confucio è uomo di Stato; Lao-Tse sconsiglia l'attività pubblica: quegli non può vivere se non a contatto col governo, questi fugge il consorzio civile e non partecipa alle sue vicende. Confucio si contenta di richiamare i regnanti e il popolo agli esempi del buon tempo antico; Lao-Tse sogna senz'altro l'èra dell'innocenza universale e lo stato virgineo di natura; quegli è l'uomo di corte e dell'etichetta, questi l'uomo della solitudine e della parola brusca. Per Confucio, riboccante di forme, di regole di rituali, la volontà dell'uomo entra in maniera essenziale nella produzione e determinazione del fatto politico; Lao-Tse invece crede che i fatti tutti, senza eccezione, si facciano da sé, oltre e senza la nostra volontà; ch'essi abbiano tutti in se stessi un ritmo inalterato e inalterabile da qualunque nostro intervento. Nulla per lui di piú ridicolo dell'ometto confuciano, faccendiero e ficcanaso, che crede all'importanza e quasi al peso specifico di ogni suo gesto; nulla di piú meschino di quest'animula miope e presuntuosa, lontana dal Tao, che crede di dirigere ed è diretta, crede di tenere ed è tenuta». (Questo brano è tolto da un articolo di A. Faggi nel «Marzocco» del 12 giugno 1927, Sapere cinese). Il «non fare» è il principio del Taoismo, è appunto il «Tao», la «strada».

La forma statale cinese. La monarchia assoluta è fondata in Cina nell'anno 221 avanti Cristo e dura fino al 1912, nonostante il mutare di dinastie, le invasioni straniere ecc. Questo è il punto interessante: ogni nuovo padrone trova l'organismo bello e fatto, di cui si impadronisce impadronendosi del potere centrale. La continuità è cosí un fenomeno di morte e di passività del popolo cinese. Evidentemente anche dopo il 1912 la situazione è rimasta ancora relativamente stazionaria, nel senso che l'apparato generale è rimasto quasi intatto: i militari tuciun si sono sostituiti ai mandarini e uno di essi, volta a volta, tenta di rifare l'unità formale, impadronendosi del centro. L'importanza del Kuomintang, sarebbe stata ben piú grande se avesse posto realmente la quistione della Convenzione pancinese. Ma ora che il movimento è scatenato, mi pare difficile che senza una profonda rivoluzione nazionale di massa, si possa ricostituire un ordine duraturo.



[I cattolici e il nazionalismo cinese.] Dall'articolo Il riformatore cinese Suen Uen e le sue teorie politiche e sociali, nella «Civiltà Cattolica» del 4 maggio e del 18 maggio 1929. «Il partito nazionalista ha promulgato decreti su decreti per onorare Suen Uen. Il piú importante è quello che prescrive la "cerimonia del lunedí". In tutte le scuole, uffici, posti militari, in qualsiasi istituzione appartenente in qualche modo al partito nazionalista, ogni lunedí, tutti si aduneranno innanzi al ritratto del "padre della patria" e gli faranno, tutti insieme, il triplice inchino della testa. Indi si leggerà il suo "Testamento politico", che contiene la quintessenza delle sue dottrine, e seguiranno tre minuti di silenzio per meditarne i grandi principii. Questa cerimonia sarà fatta in ogni adunanza importante». A tutte le scuole è fatto obbligo di studiare il Sen-Min-ciu-i (triplice demismo), anche alle scuole dei cattolici e di qualsiasi confessione religiosa, come conditio sine qua non per la loro esistenza legale. Il delegato apostolico della Cina, mons. Celso Costantini, in una lettera al padre Pasquale d'Elia S. J., missionario italiano e membro dell'Ufficio Sinologico di Zi-Ka-Wei, ha preso posizione su questi obblighi legali. La lettera è pubblicata al principio dell'opera: Le triple demisme de Sun Wen, traduit, annoté et apprécié par Pascal M. D'Elia S. J. Bureau Sinologique de Zi-Ka-Wei, imprimerie de T'ou-Sé-Wé, Chang-Hai, 1929, in 8°, pp. CLVIII-530, 4 dollari cinesi.

Il Costantini non crede che Sun sia stato «divinizzato»: «Quanto agli inchini del capo innanzi al ritratto di Sun Yat-sen, gli scolari cristiani non sono da inquietarsi. Per sé e di sua natura l'inchino del capo non ha senso superstizioso. Secondo l'intenzione del governo questa cerimonia non è altro che un ossequio meramente civile ad un uomo considerato quale Padre della Patria. Potrà essere eccessivo, ma non è in nessun modo idolatrico (il governo per sé è ateo) e non vi è legato nessun sacrifizio. Se in qualche luogo per abuso si facessero dei sacrifizi, ciò dovrà ritenersi superstizioso e i cristiani non vi potrebbero assistere in niun modo. Non è nostro ufficio creare una coscienza erronea, ma illuminare gli alunni dove fosse qualche dubbio sul significato di tali cerimonie civili». Quanto all'insegnamento obbligatorio del triplice demismo, il Costantini scrive: «Secondo il mio giudizio personale, è lecito, se non insegnare, almeno spiegare nelle scuole pubbliche i principî del triplice demismo del dott. Sun Yat-sen. Trattasi di materia non libera, ma imposta dal governo, come condizione sine qua non. Parecchie cose, nel triplice demismo, sono buone, o almeno non cattive, e corrispondono piú o meno o possono accomodarsi con la sociologia cattolica (Rerum novarum, Immortale Dei, Codice Sociale). Si deve procurare, nelle nostre scuole, di deputare alla spiegazione di questa materia, dei maestri cattolici ben formati nella dottrina e nella sociologia cristiana. Alcune cose devono essere spiegate e corrette...».

L'articolo della «Civiltà Cattolica» riassume la posizione dei cattolici verso le dottrine del nazionalismo cinese, posizione attiva, come si vede, perché tende a creare una tendenza «nazionalistica cattolica» con una interpretazione particolare delle dottrine stesse. Dal punto di vista storico politico sarebbe bene vedere come i gesuiti sono giunti a questo risultato, rivedendo tutte le pubblicazioni della «Civiltà Cattolica», sugli avvenimenti cinesi dal '25 in poi. Nel suo libro il Padre D'Elia, prevedendo l'obiezione che potrebbe venirgli da parte di alcuni dei suoi lettori i quali avrebbero consigliato piuttosto il silenzio che la pubblicità di queste idee nuove «con ragione [...] risponde: "Non parlare di queste quistioni, non vuol dire risolverle. Si voglia o non si voglia, i nostri cattolici cinesi le conosceranno per mezzo di commentari tendenziosi e ostili. Sembra che vi sia meno pericolo d'istruirli noi stessi, proponendo loro direttamente la dottrina di Suen Uen. Sforziamoci di far vedere come i cinesi possono essere buoni cattolici, non solo restando cinesi, ma anche tenendo conto di alcune teorie di Suen Uen"».



Noterelle sulla cultura giapponese. Nella «Nuova Antologia» del 1° giugno 1929 è pubblicata l'introduzione («La religione nazionale del Giappone e la politica religiosa dello Stato giapponese») al volume su La Mitologia Giapponese, che Raffaele Pettazzoni ha pubblicato nella collana di «Testi e Documenti per la Storia della Religione», editi dalla Zanichelli di Bologna. Perché il Pettazzoni ha intitolato il suo libro Mitologia? C'è una certa differenza tra «Religione» e «Mitologia», e sarebbe bene tenere ben distinte le due parole. La religione è diventata nel Giappone una semplice «mitologia» cioè un elemento puramente «artistico» o di «folklore» oppure ha ancora il valore di una concezione del mondo ancora viva e operante? Poiché pare, dall'introduzione, che sia quest'ultimo il valore che il Pettazzoni dà alla religione giapponese, il titolo è equivoco. Da questa introduzione noto alcuni elementi che potranno essere utili per studiare un paragrafo «giapponese» alla rubrica degli «intellettuali»:

Introduzione del buddismo nel Giappone, avvenuta nel 552 d. C. Fino allora il Giappone aveva conosciuto una sola religione, la sua religione nazionale. Dal 552 ad oggi la storia religiosa del Giappone è stata determinata dai rapporti e dalle interferenze fra questa religione nazionale e il Buddismo (tipo di religione extranazionale e supernazionale come il Cristianesimo e l'Islamismo); il Cristianesimo, introdotto nel Giappone nel 1549 dai Gesuiti (Francesco Saverio), fu sradicato con la violenza nei primi decenni del secolo XVII; reintrodotto dai missionari protestanti e cattolici nella seconda metà del secolo XIX, non ha avuto grande importanza complessivamente. Dopo l'introduzione del Buddismo, la religione nazionale fu chiamata con parola sino-giapponese Shinto cioè «via (cinese: tao) degli dei (cinese: Shen)» mentre butsu-do indicò il buddismo («do», via, «butsu», Budda). In giapponese Shinto si dice Kami-no-michi (Kami, divinità). Kami non significa «dio» nel senso occidentale, ma piú genericamente «esseri divini» compresi anche gli antenati divinizzati. (Dalla Cina fu introdotto nel Giappone non solo il Buddismo, ma anche il culto degli antenati, che, a quanto pare, si incorporò piú intimamente nella religione nazionale). Lo Scintoismo è però fondamentalmente una religione naturistica, un culto di divinità (Kami) della natura, tra cui primeggiano la dea del sole Amatérasu, il dio degli uragani Susanowo, la coppia Cielo e Terra, Izanagi e Izanami, ecc. È interessante il fatto che lo Scintoismo rappresenta un tipo di religione che è scomparsa del tutto nel mondo moderno occidentale, ma che era frequente presso i popoli civili dell'antichità (religioni nazionali e politeistiche degli egiziani, dei babilonesi, degli indiani, dei greci, dei romani, ecc.). Amatérasu è una divinità come Osiride, o Apollo o Artemide; è interessante che un popolo civile moderno come il giapponese, creda e adori una tale divinità. (Forse però le cose non sono cosí semplici come può apparire). Tuttavia, accanto a questa religione nazionale sussiste il Buddismo, tipo di religione supernazionale, per cui si può dire che anche in Giappone si è avuto fondamentalmente lo stesso sviluppo religioso che nell'Occidente (col Cristianesimo). Anzi Cristianesimo e Buddismo si diffondono nelle rispettive zone sincronicamente e ancora: il Cristianesimo che si diffonde in Europa non è quello della Palestina, ma quello di Roma o di Bisanzio (con la lingua latina o greca per la liturgia) cosí come il Buddismo che si diffonde nel Giappone non è quello dell'India, ma quello cinese, con la lingua cinese per la liturgia. Ma, a differenza del Cristianesimo, il Buddismo lasciò sussistere le religioni nazionali preesistenti (in Europa le tendenze nazionali si manifestarono in seno al Cristianesimo).

All'inizio il Buddismo fu accolto nel Giappone dalle classi colte, insieme alla civiltà cinese (ma la civiltà cinese portò solo il Buddismo?). Successe un sincretismo religioso: Buddismo-Scintoismo. Elementi di confucianismo. Nel secolo XVIII ci fu una reazione al sincretismo in nome della religione nazionale che culminò nel 1868 con l'avvento del Giappone moderno. [Lo Scintoismo] dichiarato religione di Stato. Persecuzione del Buddismo. Ma per breve tempo. Nel 1872 il Buddismo fu riconosciuto ufficialmente e parificato allo Scintoismo tanto nelle funzioni, tra cui principalmente quella pedagogica di educare il popolo ai sentimenti e ai principî del patriottismo del civismo, e del lealismo, quanto nei diritti con la soppressione dell'«Ufficio dello Shinto» e la istituzione di un Ministero della religione, avente giurisdizione tanto sullo Scintoismo che sul Buddismo. Ma nel 1875 il governo mutò ancora la politica: le due religioni furono separate e [lo Scintoismo] andò assumendo una posizione speciale e unica. Provvedimenti burocratici vari andarono succedendosi che culminarono nella elevazione dello Scintoismo a istituzione patriottica e nazionale, con la rinunzia ufficiale al suo carattere religioso (divenne una istituzione – mi pare – del tipo di quella romana del culto dell'Imperatore, ma senza carattere religioso in senso stretto, per cui anche un Cristiano può esercitarlo). I giapponesi possono appartenere a qualsiasi religione, ma devono inchinarsi dinanzi all'immagine dell'Imperatore. Cosí lo Shinto di Stato si è separato dallo Shinto delle sètte religiose. Anche burocraticamente si ebbe una sanzione: esiste oggi un «Ufficio delle religioni» presso il Ministero dell'Educazione, per le varie Chiese dello Scintoismo popolare, per le varie Chiese buddistiche e cristiane e un «Ufficio dei santuari» per lo Scintoismo di Stato presso il Ministero dell'Interno. Secondo il Pettazzoni questa riforma fu dovuta all'applicazione meccanica delle Costituzioni occidentali al Giappone: per affermare cioè il principio della libertà religiosa e della uguaglianza di tutte le religioni dinanzi allo Stato e per togliere il Giappone dallo stato di inferiorità e arretratezza che lo Scintoismo, come religione, gli conferiva in confronto col tipo di religione vigente in Occidente.

Mi pare artificiale la critica del Pettazzoni (vedere anche in Cina quel che avviene a proposito di Sun Yat-sen e dei tre principi: si sta formando un tipo di culto di Stato, areligioso: mi pare che l'immagine di Sun abbia un culto come quello dell'Imperatore vivente in Giappone). Nel popolo e anche nelle persone colte rimane però viva la coscienza e il sentimento dello Shinto come religione (ciò è naturale, ma mi pare innegabile l'importanza della Riforma, che tende, coscientemente o no, alla formazione di una coscienza laica, in forme paradossali quanto si vuole). (Questa discussione, se lo Shinto di Stato sia una religione o no mi pare la parte piú importante del problema culturale giapponese: ma tale discussione non si può fare per il Cristianesimo, certamente).


Cfr. altra nota sulle religioni nel Giappone di fronte allo Stato, sulla riforma apportata allo Shintoismo, che mentre da una parte è stato ridotto a religione (o superstizione) popolare, dall'altra è stato privato dell'elemento costituito dal «culto dell'Imperatore», divenuto elemento a se stante e costituito in dovere civico, in coefficiente morale dell'unità dello Stato. Studiare come è nata questa riforma, che ha una grande portata e che è legata alla nascita e allo sviluppo del parlamentarismo e della democrazia nel Giappone. Dopo il suffragio allargato (quando e in che forma?) ogni elezione, con gli spostamenti nelle forze politiche dei partiti e con i cambiamenti che i risultati possono portare nel governo, opera attivamente a dissolvere la forma mentale «teocratica» e assolutista delle grandi masse popolari giapponesi. La convinzione che l'autorità e la sovranità non è posta nella persona dell'Imperatore, ma nel popolo, conduce a una vera e propria riforma intellettuale e morale, corrispondente a quella avvenuta in Europa per opera dell'illuminismo e della filosofia classica tedesca, portando il popolo giapponese al livello della sua moderna struttura economica e sottraendolo all'influsso politico e ideologico dei baroni e della burocrazia feudale.

II. L'organizzazione della cultura

L'organizzazione della scuola e

della cultura



Aspetti diversi della quistione degli intellettuali, oltre quelli sopra accennati. Occorre farne un prospetto organico, sistematico e ragionato. Registro delle attività di carattere prevalentemente intellettuale. Istituzioni legate all'attività culturale. Metodo e problemi di metodo del lavoro intellettuale e culturale, sia creativo che divulgativo. Scuola, accademia, circoli di diverso tipo come istituzioni di elaborazione collegiale della vita culturale. Riviste e giornali come mezzi per organizzare e diffondere determinati tipi di cultura.

Si può osservare in generale che nella civiltà moderna tutte le attività pratiche sono diventate cosí complesse e le scienze si sono talmente intrecciate alla vita che ogni attività pratica tende a creare una scuola per i propri dirigenti e specialisti e quindi a creare un gruppo di intellettuali specialisti di grado piú elevato, che insegnino in queste scuole. Cosí, accanto al tipo di scuola che si potrebbe chiamare «umanistica», ed è quello tradizionale piú antico, e che era rivolta a sviluppare in ogni individuo umano la cultura generale ancora indifferenziata, la potenza fondamentale di pensare e di sapersi dirigere nella vita, si è andato creando tutto un sistema di scuole particolari di vario grado, per intere branche professionali o per professioni già specializzate e indicate con precisa individuazione. Si può anzi dire che la crisi scolastica che oggi imperversa è appunto legata al fatto che questo processo di differenziazione e particolarizzazione avviene caoticamente, senza principî chiari e precisi, senza un piano bene studiato e consapevolmente fissato: la crisi del programma e dell'organizzazione scolastica, cioè dell'indirizzo generale di una politica di formazione dei moderni quadri intellettuali, è in gran parte un aspetto e una complicazione della crisi organica piú comprensiva e generale. La divisione fondamentale della scuola in classica e professionale era uno schema razionale: la scuola professionale per le classi strumentali, quella classica per le classi dominanti e per gli intellettuali. Lo sviluppo della base industriale sia in città che in campagna aveva un crescente bisogno del nuovo tipo di intellettuale urbano: si sviluppò accanto alla scuola classica quella tecnica (professionale ma non manuale), ciò che mise in discussione il principio stesso dell'indirizzo concreto di cultura generale, dell'indirizzo umanistico della cultura generale fondata sulla tradizione greco-romana. Questo indirizzo, una volta messo in discussione, può dirsi spacciato, perché la sua capacità formativa era in gran parte basata sul prestigio generale e tradizionalmente indiscusso, di una determinata forma di civiltà.

Oggi la tendenza è di abolire ogni tipo di scuola «disinteressata» (non immediatamente interessata) e «formativa» o di lasciarne solo un esemplare ridotto per una piccola élite di signori e di donne che non devono pensare a prepararsi un avvenire professionale e di diffondere sempre piú le scuole professionali specializzate in cui il destino dell'allievo e la sua futura attività sono predeterminate. La crisi avrà una soluzione che razionalmente dovrebbe seguire questa linea: scuola unica iniziale di cultura generale, umanistica, formativa, che contemperi giustamente lo sviluppo della capacità di lavorare manualmente (tecnicamente, industrialmente) e lo sviluppo delle capacità del lavoro intellettuale. Da questo tipo di scuola unica, attraverso esperienze ripetute di orientamento professionale, si passerà a una delle scuole specializzate o al lavoro produttivo.

È da tener presente la tendenza in isviluppo per cui ogni attività pratica tende a crearsi una sua scuola specializzata, cosí come ogni attività intellettuale tende a crearsi propri circoli di cultura, che assumono la funzione di istituzioni postscolastiche specializzate nell'organizzare le condizioni in cui sia possibile tenersi al corrente dei progressi che si verificano nel proprio ramo scientifico. Si può anche osservare che sempre piú gli organi deliberanti tendono a distinguere la loro attività in due aspetti «organici», quella deliberativa che è loro essenziale e quella tecnico-culturale per cui le quistioni su cui occorre prendere risoluzioni sono prima esaminate da esperti ed analizzate scientificamente. Questa attività ha creato già tutto un corpo burocratico di una nuova struttura, poiché oltre agli uffici specializzati di competenti che preparano il materiale tecnico per i corpi deliberanti, si crea un secondo corpo di funzionari, piú o meno «volontari» e disinteressati, scelti volta a volta nell'industria, nella banca, nella finanza. È questo uno dei meccanismi attraverso cui la burocrazia di carriera aveva finito col controllare i regimi democratici e i parlamenti; ora il meccanismo si va estendendo organicamente ed assorbe nel suo circolo i grandi specialisti dell'attività pratica privata, che cosí controlla e regimi e burocrazia. Poiché si tratta di uno sviluppo organico necessario che tende a integrare il personale specializzato nella tecnica politica con personale specializzato nelle quistioni concrete di amministrazione delle attività pratiche essenziali delle grandi e complesse società nazionali moderne, ogni tentativo di esorcizzare queste tendenze dall'esterno, non produce altro risultato che prediche moralistiche e gemiti retorici. Si pone la quistione di modificare la preparazione del personale tecnico politico, integrando la sua cultura secondo le nuove necessità e di elaborare nuovi tipi di funzionari specializzati che collegialmente integrino l'attività deliberante. Il tipo tradizionale del «dirigente» politico, preparato solo per le attività giuridico-formali, diventa anacronistico e rappresenta un pericolo per la vita statale: il dirigente deve avere quel minimo di coltura generale tecnica che gli permetta, se non di «creare» autonomamente la soluzione giusta, di saper giudicare tra le soluzioni prospettate dagli esperti e scegliere quindi quella giusta dal punto di vista «sintetico» della tecnica politica. Un tipo di collegio deliberante che cerca di incorporarsi la competenza tecnica necessaria per operare realisticamente è stato descritto in altro luogo, dove si parla di ciò che avviene in certe redazioni di riviste, che funzionano nello stesso tempo come redazioni e come circoli di coltura. Il circolo critica collegialmente e contribuisce cosí ad elaborare i lavori dei singoli redattori, la cui operosità è organizzata secondo un piano e una divisione del lavoro razionalmente predisposta. Attraverso la discussione e la critica collegiale (fatta di suggerimenti, consigli, indicazioni metodiche, critica costruttiva e rivolta alla educazione reciproca) per cui ognuno funziona da specialista nella sua materia per integrare la competenza collettiva, in realtà si riesce ad elevare il livello medio dei singoli redattori, a raggiungere l'altezza o la capacità del piú preparato, assicurando alla rivista una collaborazione sempre piú scelta ed organica, non solo, ma creando le condizioni per il sorgere di un gruppo omogeneo di intellettuali preparato a produrre una regolare e metodica attività «libraria» (non solo di pubblicazioni d'occasione e di saggi parziali, ma di lavori organici di insieme). Indubbiamente, in questa specie di attività collettive, ogni lavoro produce nuove capacità e possibilità di lavoro, poiché crea sempre piú organiche condizioni di lavoro: schedari, spogli bibliografici, raccolta di opere fondamentali specializzate ecc. Si domanda una lotta rigorosa contro le abitudini al dilettantismo, all'improvvisazione, alle soluzioni «oratorie» e declamatorie. Il lavoro deve essere fatto specialmente per iscritto, cosí come per iscritto devono essere le critiche, in note stringate e succinte, ciò che si può ottenere distribuendo a tempo il materiale ecc.; lo scrivere le note e le critiche è principio didattico reso necessario dal bisogno di combattere le abitudini alla prolissità, alla declamazione e al paralogismo create dall'oratoria. Questo tipo di lavoro intellettuale è necessario per fare acquistare agli autodidatti la disciplina degli studi che procura una carriera scolastica regolare, per taylorizzare il lavoro intellettuale. Cosí è utile il principio degli «anziani di Santa Zita» di cui parla il De Sanctis nei suoi ricordi sulla scuola napoletana di Basilio Puoti: cioè è utile una certa «stratificazione» delle capacità ed attitudini e la formazione di gruppi di lavoro sotto la guida dei piú esperti e sviluppati, che accelerino la preparazione dei piú arretrati e grezzi.

Un punto importante nello studio dell'organizzazione pratica della scuola unitaria è quello riguardante la carriera scolastica nei suoi vari gradi conformi all'età e allo sviluppo intellettuale-morale degli allievi e ai fini che la scuola stessa vuole raggiungere. La scuola unitaria o di formazione umanistica (inteso questo termine di umanismo in senso largo e non solo nel senso tradizionale) o di cultura generale, dovrebbe proporsi di immettere nell'attività sociale i giovani dopo averli portati a un certo grado di maturità e capacità, alla creazione intellettuale e pratica e di autonomia nell'orientamento e nell'iniziativa. La fissazione dell'età scolastica obbligatoria dipende dalle condizioni economiche generali, poiché queste possono costringere a domandare ai giovani e ai ragazzi un certo apporto produttivo immediato. La scuola unitaria domanda che lo Stato possa assumersi le spese che oggi sono a carico della famiglia per il mantenimento degli scolari, cioè trasforma il bilancio del dicastero dell'educazione nazionale da cima a fondo, estendendolo in modo inaudito e complicandolo: la intera funzione dell'educazione e formazione delle nuove generazioni diventa da privata, pubblica, poiché solo cosí essa può coinvolgere tutte le generazioni senza divisioni di gruppi o caste. Ma questa trasformazione dell'attività scolastica domanda un allargamento inaudito dell'organizzazione pratica della scuola, cioè degli edifizi, del materiale scientifico, del corpo insegnante, ecc. Il corpo insegnante specialmente dovrebbe essere aumentato, perché la efficenza della scuola è tanto maggiore e intensa quanto piú piccolo è il rapporto tra maestro e allievi, ciò che prospetta altri problemi non di facile e rapida soluzione. Anche la quistione degli edifizi non è semplice, perché questo tipo di scuola dovrebbe essere una scuola-collegio, con dormitori, refettori, biblioteche specializzate, sale adatte per il lavoro di seminario, ecc. Perciò inizialmente il nuovo tipo di scuola dovrà e non potrà non essere che propria di gruppi ristretti, di giovani scelti per concorso o indicati sotto la loro responsabilità da istituzioni idonee. La scuola unitaria dovrebbe corrispondere al periodo rappresentato oggi dalle elementari e dalle medie, riorganizzate non solo per il contenuto e il metodo di insegnamento, ma anche per la disposizione dei vari gradi della carriera scolastica. Il primo grado elementare non dovrebbe essere di piú che tre - quattro anni e accanto all'insegnamento delle prime nozioni «strumentali» dell'istruzione – leggere, scrivere, far di conto, geografia, storia – dovrebbe specialmente svolgere la parte che oggi è trascurata dei «diritti e doveri», cioè le prime nozioni dello Stato e della società, come elementi primordiali di una nuova concezione del mondo che entra in lotta contro le concezioni date dai diversi ambienti sociali tradizionali, cioè le concezioni che si possono chiamare folcloristiche. Il problema didattico da risolvere è quello di temperare e fecondare l'indirizzo dogmatico che non può non essere proprio di questi primi anni. Il resto del corso non dovrebbe durare piú di sei anni, in modo che a quindici-sedici anni si dovrebbe poter compiere tutti i gradi della scuola unitaria. Si può obiettare che un tale corso è troppo faticoso per la sua rapidità, se si vogliono raggiungere effettivamente i risultati che l'attuale organizzazione della scuola classica si propone ma non raggiunge. Si può dire però che il complesso della nuova organizzazione dovrà contenere in se stessa gli elementi generali per cui oggi, per una parte degli allievi almeno, il corso è invece troppo lento. Quali sono questi elementi? In una serie di famiglie, specialmente dei ceti intellettuali, i ragazzi trovano nella vita famigliare una preparazione, un prolungamento e un'integrazione della vita scolastica, assorbono, come si dice, dall'«aria» tutta una quantità di nozioni e di attitudini che facilitano la carriera scolastica propriamente detta: essi conoscono già e sviluppano la conoscenza della lingua letteraria, cioè il mezzo di espressione e di conoscenza tecnicamente superiore ai mezzi posseduti dalla media della popolazione scolastica dai sei ai dodici anni. Cosí gli allievi della città, per il solo fatto di vivere in città, hanno assorbito già prima dei sei anni una quantità di nozioni e di attitudini che rendono piú facile, piú proficua e piú rapida la carriera scolastica. Nell'organizzazione intima della scuola unitaria devono essere create almeno le principali di queste condizioni, oltre al fatto, che è da supporre, che parallelamente alla scuola unitaria si sviluppi una rete di asili d'infanzia e altre istituzioni in cui, anche prima dell'età scolastica, i bambini siano abituati a una certa disciplina collettiva ed acquistino nozioni e attitudini prescolastiche. Infatti, la scuola unitaria dovrebbe essere organizzata come collegio, con vita collettiva diurna e notturna, liberata dalle attuali forme di disciplina ipocrita e meccanica e lo studio dovrebbe essere fatto collettivamente, con l'assistenza dei maestri e dei migliori allievi, anche nelle ore di applicazione cosí detta individuale, ecc.

Il problema fondamentale si pone per quella fase dell'attuale carriera scolastica che oggi è rappresentata dal liceo e che oggi non si differenzia per nulla, come tipo d'insegnamento, dalle classi precedenti, altro che per la supposizione astratta di una maggiore maturità intellettuale e morale dell'allievo conforme all'età maggiore e all'esperienza precedentemente accumulata. Di fatto tra liceo e università, e cioè tra la scuola vera e propria e la vita c'è un salto, una vera soluzione di continuità, non un passaggio razionale dalla quantità (età) alla qualità (maturità intellettuale e morale). Dall'insegnamento quasi puramente dogmatico, in cui la memoria ha una grande parte, si passa alla fase creativa o di lavoro autonomo e indipendente; dalla scuola con disciplina dello studio imposta e controllata autoritativamente si passa a una fase di studio o di lavoro professionale in cui l'autodisciplina intellettuale e l'autonomia morale è teoricamente illimitata. E ciò avviene subito dopo la crisi della pubertà, quando la foga delle passioni istintive ed elementari non ha ancora finito di lottare coi freni del carattere e della coscienza morale in formazione. In Italia poi, dove nelle Università non è diffuso il principio del lavoro di «seminario», il passaggio è ancora piú brusco e meccanico.

Ecco dunque che nella scuola unitaria la fase ultima deve essere concepita e organata come la fase decisiva in cui si tende a creare i valori fondamentali dell'«umanesimo», l'autodisciplina intellettuale e l'autonomia morale necessarie per l'ulteriore specializzazione sia essa di carattere scientifico (studi universitari) sia di carattere immediatamente pratico-produttivo (industria, burocrazia, organizzazione degli scambi, ecc.). Lo studio e l'apprendimento dei metodi creativi nella scienza e nella vita deve cominciare in questa ultima fase della scuola e non essere piú un monopolio dell'università o essere lasciato al caso della vita pratica: questa fase scolastica deve già contribuire a sviluppare l'elemento della responsabilità autonoma negli individui, essere una scuola creativa (occorre distinguere tra scuola creativa e scuola attiva, anche nella forma data dal metodo Dalton. Tutta la scuola unitaria è scuola attiva, sebbene occorra porre dei limiti alle ideologie libertarie in questo campo e rivendicare con una certa energia il dovere delle generazioni adulte, cioè dello Stato, di «conformare» le nuove generazioni. Si è ancora nella fase romantica della scuola attiva, in cui gli elementi della lotta contro la scuola meccanica e gesuitica si sono dilatati morbosamente per ragioni di contrasto e di polemica: occorre entrare nella fase «classica», razionale, trovare nei fini da raggiungere la sorgente naturale per elaborare i metodi e le forme. La scuola creativa è il coronamento della scuola attiva: nella prima fase si tende a disciplinare, quindi anche a livellare, a ottenere una certa specie di «conformismo» che si può chiamare «dinamico»; nella fase creativa, sul fondamento raggiunto di «collettivizzazione» del tipo sociale, si tende a espandere la personalità, divenuta autonoma e responsabile, ma con una coscienza morale e sociale solida e omogenea. Cosí scuola creativa non significa scuola di «inventori e scopritori»; si indica una fase e un metodo di ricerca e di conoscenza, e non un «programma» predeterminato con l'obbligo dell'originalità e dell'innovazione a tutti i costi. Indica che l'apprendimento avviene specialmente per uno sforzo spontaneo e autonomo del discente, e in cui il maestro esercita solo una funzione di guida amichevole come avviene o dovrebbe avvenire nell'Università. Scoprire da se stessi, senza suggerimenti e aiuti esterni, una verità è creazione, anche se la verità è vecchia, e dimostra il possesso del metodo; indica che in ogni modo si è entrati nella fase di maturità intellettuale in cui si possono scoprire verità nuove. Perciò in questa fase l'attività scolastica fondamentale si svolgerà nei seminari, nelle biblioteche, nei laboratori sperimentali; in essa si raccoglieranno le indicazioni organiche per l'orientamento professionale). L'avvento della scuola unitaria significa l'inizio di nuovi rapporti tra lavoro intellettuale e lavoro industriale non solo nella scuola, ma in tutta la vita sociale. Il principio unitario si rifletterà perciò in tutti gli organismi di cultura, trasformandoli e dando loro un nuovo contenuto. Problema della nuova funzione che potranno assumere le Università e le Accademie. Oggi queste due istituzioni sono indipendenti l'una dall'altra e le Accademie sono il simbolo, spesso a ragione deriso, del distacco esistente tra l'alta cultura e la vita, tra gli intellettuali e il popolo (perciò quella certa fortuna che ebbero i futuristi nel loro primo periodo di Sturm und Drang antiaccademico, antitradizionalista ecc.). In una nuova situazione di rapporti tra vita e cultura, tra lavoro intellettuale e lavoro industriale, le Accademie dovrebbero diventare l'organizzazione culturale (di sistemazione, espansione e creazione intellettuale) di quegli elementi che dopo la scuola unitaria passeranno al lavoro professionale, e un terreno d'incontro tra essi e gli universitari. Gli elementi sociali impiegati nel lavoro professionale non devono cadere nella passività intellettuale, ma devono avere a loro disposizione (per iniziativa collettiva e non di singoli, come funzione sociale organica riconosciuta di pubblica necessità ed utilità) istituti specializzati in tutte le branche di ricerca e di lavoro scientifico, ai quali potranno collaborare e in cui troveranno tutti i sussidi necessari per ogni forma di attività culturale che intendano intraprendere. L'organizzazione accademica [dovrà essere] riorganizzata e vivificata da cima a fondo. Territorialmente avrà una centralizzazione di competenze e di specializzazione: centri nazionali che si aggregheranno le grandi istituzioni esistenti, sezioni regionali e provinciali e circoli locali urbani e rurali. Si sezionerà per competenze scientifico-culturali, che saranno tutte rappresentate nei centri superiori ma solo parzialmente nei circoli locali. Unificare i vari tipi di organizzazione culturale esistenti: Accademie, Istituti di cultura, circoli filologici, ecc., integrando il lavoro accademico tradizionale, che si esplica prevalentemente nella sistemazione del sapere passato o nel cercare di fissare una media del pensiero nazionale come guida dell'attività intellettuale, con attività collegate alla vita collettiva, al mondo della produzione e del lavoro. Si controllerà le conferenze industriali, l'attività dell'organizzazione scientifica del lavoro, i gabinetti sperimentali di fabbrica, ecc. Si costruirà un meccanismo per selezionare e fare avanzare le capacità individuali della massa popolare, che oggi sono sacrificate e si smarriscono in errori e tentativi senza uscita. Ogni circolo locale dovrebbe avere necessariamente la sezione di scienze morali e politiche, e mano a mano organizzerà le altre sezioni speciali per discutere gli aspetti tecnici dei problemi industriali, agrari, di organizzazione e razionalizzazione del lavoro, di fabbrica, agricolo, burocratico, ecc. Congressi periodici di diverso grado faranno conoscere i piú capaci.

Sarebbe utile avere l'elenco completo delle Accademie e delle altre organizzazioni culturali oggi esistenti e degli argomenti che sono prevalentemente trattati nei loro lavori e pubblicati nei loro Atti: in gran parte si tratta di cimiteri della cultura, pure esse hanno una funzione nella psicologia della classe dirigente.

La collaborazione tra questi organismi e le università dovrebbe essere stretta, cosí come con tutte le scuole superiori specializzate di ogni genere (militari, navali, ecc.). Lo scopo è di ottenere una centralizzazione e un impulso della cultura nazionale che sarebbero superiori a quelli della Chiesa Cattolica.

(Questo schema di organizzazione del lavoro culturale secondo i principî generali della scuola unitaria, dovrebbe essere sviluppato in tutte le sue parti accuratamente e servire di guida nella costituzione anche del piú elementare e primitivo centro di cultura, che dovrebbe essere concepito come un embrione e una molecola di tutta la piú massiccia struttura. Anche le iniziative che si sanno transitorie e di esperimento dovrebbero essere concepite come capaci di essere assorbite nello schema generale e nello stesso tempo come elementi vitali che tendono a creare tutto lo schema. Studiare con attenzione l'organizzazione e lo sviluppo del Rotary Club).

Per la ricerca del principio

educativo



La frattura determinata dalla riforma Gentile tra la scuola elementare e media da una parte e quella superiore dall'altra. Prima della riforma una frattura simile esisteva solo in modo molto marcato tra la scuola professionale da una parte e le scuole medie e superiori dall'altra: la scuola elementare era posta in una specie di limbo, per alcuni suoi caratteri particolari.

Nelle scuole elementari due elementi si prestavano all'educazione e alla formazione dei bambini: le prime nozioni di scienze naturali e le nozioni di diritti e doveri del cittadino. Le nozioni scientifiche dovevano servire a introdurre il bambino nella societas rerum, i diritti e doveri nella vita statale e nella società civile. Le nozioni scientifiche entravano in lotta con la concezione magica del mondo e della natura che il bambino assorbe dall'ambiente impregnato di folclore, come le nozioni di diritti e doveri entrano in lotta con le tendenze alla barbarie individualistica e localistica, che è anch'essa un aspetto del folclore. La scuola col suo insegnamento lotta contro il folclore, con tutte le sedimentazioni tradizionali di concezioni del mondo per diffondere una concezione piú moderna, i cui elementi primitivi e fondamentali sono dati dall'apprendimento dell'esistenza delle leggi della natura come qualcosa di oggettivo e di ribelle a cui occorre adattarsi per dominarle, e delle leggi civili e statali che sono un prodotto di una attività umana, che sono stabilite dall'uomo e possono essere dall'uomo mutate per i fini del suo sviluppo collettivo; la legge civile e statale ordina gli uomini nel modo storicamente piú conforme a dominare le leggi della natura, cioè a facilitare il loro lavoro, che è il modo proprio dell'uomo di partecipare attivamente alla vita della natura per trasformarla e socializzarla sempre piú profondamente ed estesamente. Si può dire perciò che il principio educativo che fondava le scuole elementari era il concetto di lavoro, che non può realizzarsi in tutta la sua potenza di espansione e di produttività senza una conoscenza esatta e realistica delle leggi naturali e senza un ordine legale che regoli organicamente la vita degli uomini tra di loro, ordine che deve essere rispettato per convinzione spontanea e non solo per imposizione esterna, per necessità riconosciuta e proposta a se stessi come libertà e non per mera coercizione. Il concetto e il fatto del lavoro (dell'attività teorico-pratica) è il principio educativo immanente nella scuola elementare, poiché l'ordine sociale e statale (diritti e doveri) è dal lavoro introdotto e identificato nell'ordine naturale. Il concetto dell'equilibrio tra ordine sociale e ordine naturale sul fondamento del lavoro, dell'attività teorico-pratica dell'uomo, crea i primi elementi di una intuizione del mondo, liberata da ogni magia e stregoneria, e dà l'appiglio allo sviluppo ulteriore di una concezione storica, dialettica, del mondo, a comprendere il movimento e il divenire, a valutare la somma di sforzi e di sacrifizi che è costato il presente al passato e che l'avvenire costa al presente, a concepire l'attualità come sintesi del passato, di tutte le generazioni passate, che si proietta nel futuro. Questo è il fondamento della scuola elementare; che esso abbia dato tutti i suoi frutti, che nel corpo dei maestri ci sia stata la consapevolezza del loro compito e del contenuto filosofico del loro compito, è altra quistione, connessa alla critica del grado di coscienza civile di tutta la nazione, di cui il corpo magistrale era solo un'espressione, immeschinita ancora, e non certo un'avanguardia.

Non è completamente esatto che l'istruzione non sia anche educazione: l'aver insistito troppo in questa distinzione è stato grave errore della pedagogia idealistica e se ne vedono già gli effetti nella scuola riorganizzata da questa pedagogia. Perché l'istruzione non fosse anche educazione bisognerebbe che il discente fosse una mera passività, un «meccanico recipiente» di nozioni astratte, ciò che è assurdo e del resto viene «astrattamente» negato dai sostenitori della pura educatività appunto contro la mera istruzione meccanicistica. Il «certo» diventa «vero» nella coscienza del fanciullo. Ma la coscienza del fanciullo non è alcunché di «individuale» (e tanto meno di individuato), è il riflesso della frazione di società civile cui il fanciullo partecipa, dei rapporti sociali quali si annodano nella famiglia, nel vicinato, nel villaggio, ecc. La coscienza individuale della stragrande maggioranza dei fanciulli riflette rapporti civili e culturali diversi e antagonistici con quelli che sono rappresentati dai programmi scolastici: il «certo» di una cultura progredita, diventa «vero» nei quadri di una cultura fossilizzata e anacronistica, non c'è unità tra scuola e vita, e perciò non c'è unità tra istruzione e educazione. Perciò si può dire che nella scuola il nesso istruzione-educazione può solo essere rappresentato dal lavoro vivente del maestro, in quanto il maestro è consapevole dei contrasti tra il tipo di società e di cultura che egli rappresenta e il tipo di società e di cultura rappresentato dagli allievi ed è consapevole del suo compito che consiste nell'accelerare e nel disciplinare la formazione del fanciullo conforme al tipo superiore in lotta col tipo inferiore. Se il corpo magistrale è deficiente e il nesso istruzione-educazione viene sciolto per risolvere la quistione dell'insegnamento secondo schemi cartacei in cui l'educatività è esaltata, l'opera del maestro risulterà ancor piú deficiente: si avrà una scuola retorica, senza serietà, perché mancherà la corposità materiale del certo, e il vero sarà vero di parole, appunto retorica. La degenerazione si vede ancor meglio nella scuola media, per i corsi di letteratura e filosofia. Prima gli allievi, per lo meno, si formavano un certo «bagaglio» o «corredo» (secondo i gusti) di nozioni concrete: ora che il maestro deve essere specialmente un filosofo e un esteta, l'allievo trascura le nozioni concrete e si «riempie la testa» di formule e parole che per lui non hanno senso, il piú delle volte, e che vengono subito dimenticate. La lotta contro la vecchia scuola era giusta, ma la riforma non era cosa cosí semplice come pareva, non si trattava di schemi programmatici, ma di uomini, e non degli uomini che immediatamente sono maestri, ma di tutto il complesso sociale di cui gli uomini sono espressione. In realtà un mediocre insegnante può riuscire a ottenere che gli allievi diventino piú istruiti, non riuscirà ad ottenere che siano piú colti; egli svolgerà con scrupolo e coscienza burocratica la parte meccanica della scuola e l'allievo, se è un cervello attivo, ordinerà per conto suo, e con l'aiuto del suo ambiente sociale, il «bagaglio» accumulato. Coi nuovi programmi, che coincidono con un abbassamento generale del livello del corpo insegnante, non vi sarà «bagaglio» del tutto da ordinare. I nuovi programmi avrebbero dovuto abolire completamente gli esami; dare un esame, ora, dev'essere terribilmente piú «giuoco d'azzardo» d'una volta. Una data è sempre una data, qualsiasi professore esamini, e una «definizione» è sempre una definizione; ma un giudizio, un'analisi estetica o filosofica?

L'efficacia educativa della vecchia scuola media italiana, quale l'aveva organizzata la vecchia legge Casati, non era da ricercare (o da negare) nella volontà espressa di essere o no scuola educativa, ma nel fatto che il suo organamento e i suoi programmi erano l'espressione di un modo tradizionale di vita intellettuale e morale, di un clima culturale diffuso in tutta la società italiana per antichissima tradizione. Che un tale clima e un tal modo di vivere siano entrati in agonia e che la scuola si sia staccata dalla vita, ha determinato la crisi della scuola. Criticare i programmi e l'organamento disciplinare della scuola, vuol dire meno che niente, se non si tiene conto di tali condizioni. Cosí si ritorna alla partecipazione realmente attiva dell'allievo alla scuola, che può esistere solo se la scuola è legata alla vita. I nuovi programmi, quanto piú affermano e teorizzano l'attività del discente, e la sua collaborazione operosa col lavoro del docente, e tanto piú sono disposti come se il discente fosse una mera passività. Nella vecchia scuola lo studio grammaticale delle lingue latina e greca, unito allo studio delle letterature e storie politiche rispettive, era un principio educativo in quanto l'ideale umanistico, che si impersona in Atene e Roma, era diffuso in tutta la società, era un elemento essenziale della vita e della cultura nazionale. Anche la meccanicità dello studio grammaticale era avviata dalla prospettiva culturale. Le singole nozioni non venivano apprese per uno scopo immediato pratico-professionale: esso appariva disinteressato, perché l'interesse era lo sviluppo interiore della personalità, la formazione del carattere attraverso l'assorbimento e l'assimilazione di tutto il passato culturale della moderna civiltà europea. Non si imparava il latino e il greco per parlarli, per fare i camerieri, gli interpreti, i corrispondenti commerciali. Si imparava per conoscere direttamente la civiltà dei due popoli, presupposto necessario della civiltà moderna, cioè per essere se stessi e conoscere se stessi consapevolmente. La lingua latina e greca si imparava secondo grammatica, meccanicamente; ma c'è molta ingiustizia e improprietà nell'accusa di meccanicità e di aridità. Si ha che fare con ragazzetti, ai quali occorre far contrarre certe abitudini di diligenza, di esattezza, di compostezza anche fisica, di concentrazione psichica su determinati soggetti che non si possono acquistare senza una ripetizione meccanica di atti disciplinati e metodici. Uno studioso di quarant'anni sarebbe capace di stare a tavolino sedici ore di seguito, se da bambino non avesse coattivamente, per coercizione meccanica, assunto le abitudini psicofisiche appropriate? Se si vuole selezionare dei grandi scienziati, occorre ancora incominciare da quel punto e occorre premere su tutta l'area scolastica per riuscire a far emergere quelle migliaia o centinaia o anche solo dozzine di studiosi di gran nerbo, di cui ogni civiltà ha bisogno (se pure si può molto migliorare in questo campo, con l'aiuto dei sussidi scientifici adeguati, senza tornare ai metodi scolastici dei gesuiti).

Si impara il latino (o meglio, si studia il latino), lo si analizza fin nei suoi membretti piú elementari, si analizza come una cosa morta, è vero, ma ogni analisi fatta da un fanciullo non può essere che su cose morte; d'altronde non bisogna dimenticare che dove questo studio avviene in queste forme, la vita dei romani è un mito che in una certa misura ha già interessato il fanciullo e lo interessa, sicché nel morto è sempre presente un piú grande vivente. Eppoi: la lingua è morta, è analizzata come una cosa inerte, come un cadavere sul tavolo anatomico, ma rivive continuamente negli esempi, nelle narrazioni. Si potrebbe fare lo stesso studio con l'italiano? Impossibile: nessuna lingua viva potrebbe essere studiata come il latino: sarebbe e sembrerebbe assurdo. Nessuno dei fanciulli conosce il latino quando ne inizia lo studio con quel tal metodo analitico. Una lingua viva potrebbe esser conosciuta e basterebbe che un solo fanciullo la conoscesse, per rompere l'incanto: tutti andrebbero alla scuola Berlitz, immediatamente. Il latino si presenta (cosí come il greco) alla fantasia come un mito, anche per l'insegnante. Il latino non si studia per imparare il latino; il latino, da molto tempo, per una tradizione culturale-scolastica di cui si potrebbe ricercare l'origine e lo sviluppo, si studia come elemento di un ideale programma scolastico, elemento che riassume e soddisfa tutta una serie di esigenze pedagogiche e psicologiche; si studia per abituare i fanciulli a studiare in un determinato modo, ad analizzare un corpo storico che si può trattare come un cadavere che continuamente si ricompone in vita, per abituarli a ragionare, ad astrarre schematicamente pur essendo capaci dall'astrazione a ricalarsi nella vita reale immediata, per vedere in ogni fatto o dato ciò che ha di generale e ciò che di particolare, il concetto e l'individuo. E cosa non significa educativamente il continuo paragone tra il latino e la lingua che si parla? La distinzione e l'identificazione delle parole e dei concetti, tutta la logica formale, con le contraddizioni degli opposti e l'analisi dei distinti, col movimento storico dell'insieme linguistico, che si modifica nel tempo, che ha un divenire e non è solo una staticità. Negli otto anni di ginnasio-liceo si studia tutta la lingua storicamente reale, dopo averla vista fotografata in un istante astratto, in forma di grammatica: si studia da Ennio (e anzi dalle parole dei frammenti delle dodici tavole) a Fedro e ai cristiano-latini: un processo storico è analizzato dal suo sorgere alla sua morte nel tempo, morte apparente, perché si sa che l'italiano, con cui il latino è continuamente confrontato, è latino moderno. Si studia la grammatica di una certa epoca, un'astrazione, il vocabolario di un periodo determinato, ma si studia (per comparazione) la grammatica e il vocabolario di ogni autore determinato, e il significato di ogni termine in ogni «periodo» (stilistico) determinato: si scopre cosí che la grammatica e il vocabolario di Fedro non sono quelli di Cicerone, né quelli di Plauto, o di Lattanzio e Tertulliano, che uno stesso nesso di suoni non ha lo stesso significato nei diversi tempi, nei diversi scrittori. Si paragona continuamente il latino e l'italiano: ma ogni parola è un concetto, una immagine, che assume sfumature diverse nei tempi, nelle persone, in ognuna delle due lingue comparate. Si studia la storia letteraria dei libri scritti in quella lingua, la storia politica, le gesta degli uomini che hanno parlato quella lingua. Da tutto questo complesso organico è determinata l'educazione del giovinetto, dal fatto che anche solo materialmente ha percorso tutto quell'itinerario, con quelle tappe, ecc. Si è tuffato nella storia, ha acquistato una intuizione storicistica del mondo e della vita, che diventa una seconda natura, quasi una spontaneità, perché non pedantescamente inculcata per «volontà» estrinsecamente educativa. Questo studio educava senza averne la volontà espressamente dichiarata, col minimo intervento «educativo» dell'insegnante: educava perché istruiva. Esperienze logiche, artistiche, psicologiche erano fatte senza «rifletterci su», senza guardarsi continuamente allo specchio, ed era fatta specialmente una grande esperienza «sintetica», filosofica, di sviluppo storico-reale.

Ciò non vuol dire (e sarebbe inetto pensarlo) che il latino e il greco, come tali, abbiano qualità intrinsecamente taumaturgiche nel campo educativo. È tutta la tradizione culturale, che vive anche e specialmente fuori della scuola, che in un dato ambiente, produce tali conseguenze. Si vede, d'altronde, come, mutata la tradizionale intuizione della cultura, la scuola sia entrata in crisi e sia entrato in crisi lo studio del latino e del greco.

Bisognerà sostituire il latino e il greco come fulcro della scuola formativa e lo si sostituirà, ma non sarà agevole disporre la nuova materia o la nuova serie di materie in un ordine didattico che dia risultati equivalenti di educazione e formazione generale della personalità, partendo dal fanciullo fino alla soglia della scelta professionale. In questo periodo infatti lo studio o la parte maggiore dello studio deve essere (o apparire ai discenti) disinteressato, non avere cioè scopi pratici immediati o troppo immediati, deve essere formativo, anche se «istruttivo», cioè ricco di nozioni concrete.

Nella scuola attuale, per la crisi profonda della tradizione culturale e della concezione della vita e dell'uomo, si verifica un processo di progressiva degenerazione: le scuole di tipo professionale, cioè preoccupate di soddisfare interessi pratici immediati, prendono il sopravvento sulla scuola formativa, immediatamente disinteressata. L'aspetto piú paradossale è che questo nuovo tipo di scuola appare e viene predicata come democratica, mentre invece essa non solo è destinata a perpetuare le differenze sociali, ma a cristallizzarle in forme cinesi.

La scuola tradizionale è stata oligarchica perché destinata alla nuova generazione dei gruppi dirigenti, destinata a sua volta a diventare dirigente: ma non era oligarchica per il modo del suo insegnamento. Non è l'acquisto di capacità direttive, non è la tendenza a formare uomini superiori che dà l'impronta sociale a un tipo di scuola. L'impronta sociale è data dal fatto che ogni gruppo sociale ha un proprio tipo di scuola, destinato a perpetuare in questi strati una determinata funzione tradizionale, direttiva o strumentale. Se si vuole spezzare questa trama, occorre dunque non moltiplicare e graduare i tipi di scuola professionale, ma creare un tipo unico di scuola preparatoria (elementare-media) che conduca il giovinetto fino alla soglia della scelta professionale, formandolo nel frattempo come persona capace di pensare, di studiare, di dirigere o di controllare chi dirige.

Il moltiplicarsi di tipi di scuola professionale, tende dunque a eternare le differenze tradizionali, ma siccome, in queste differenze, tende a suscitare stratificazioni interne, ecco che fa nascere l'impressione di una sua tendenza democratica. Manovale e operaio qualificato, per esempio; contadino e geometra o piccolo agronomo ecc. Ma la tendenza democratica, intrinsecamente, non può solo significare che un operaio manovale diventa qualificato, ma che ogni «cittadino» può diventare «governante» e che la società lo pone, sia pure «astrattamente», nelle condizioni generali di poterlo diventare; la democrazia politica tende a far coincidere governanti e governati (nel senso del governo col consenso dei governati), assicurando a ogni governato l'apprendimento gratuito della capacità e della preparazione tecnica generale necessarie al fine. Ma il tipo di scuola che si sviluppa come scuola per il popolo non tende neanche piú a mantenere l'illusione, poiché essa si organizza sempre piú in modo da restringere la base del ceto governante tecnicamente preparato, in un ambiente sociale politico che restringe ancor piú l'«iniziativa privata» nel senso di dare questa capacità e preparazione tecnico-politica, in modo che si ritorna in realtà alle divisioni di «ordini» giuridicamente fissati e cristallizzati piú che al superamento delle divisioni in gruppi: il moltiplicarsi delle scuole professionali sempre piú specializzate fin dall'inizio della carriera degli studi è una delle manifestazioni piú vistose di questa tendenza.

A proposito del dogmatismo e del criticismo-storicismo nella scuola elementare e media, è da osservare che la nuova pedagogia ha voluto battere in breccia il dogmatismo proprio nel campo dell'istruzione, dell'apprendimento delle nozioni concrete, cioè proprio nel campo in cui un certo dogmatismo è praticamente imprescindibile e può venire riassorbito e disciolto solo nel ciclo intero del corso scolastico (non si può insegnare la grammatica storica nelle elementari e nel ginnasio), ma è costretta poi a veder introdotto il dogmatismo per eccellenza nel campo del pensiero religioso e implicitamente a veder descritta tutta la storia della filosofia come un succedersi di follie e di deliri.

Nell'insegnamento della filosofia il nuovo corso pedagogico (almeno per quegli alunni, e sono la stragrande maggioranza, che non ricevono aiuti intellettuali fuori della scuola, in famiglia o nell'ambiente familiare, e devono formarsi solo con le indicazioni che ricevono in classe) impoverisce l'insegnamento, e ne abbassa il livello, praticamente, nonostante che razionalmente sembri bellissimo, di un bellissimo utopistico. La filosofia descrittiva tradizionale, rafforzata da un corso di storia della filosofia e dalla lettura di un certo numero di filosofi, praticamente sembra la miglior cosa. La filosofia descrittiva e definitrice sarà un'astrazione dogmatica, come la grammatica e la matematica, ma è una necessità pedagogica e didattica. 1 = 1 è un'astrazione, ma nessuno è perciò condotto a pensare che 1 mosca è uguale a 1 elefante. Anche le regole della logica formale sono astrazioni dello stesso genere, sono come la grammatica del pensare normale eppure occorre studiarle, perché non sono qualcosa di innato, ma devono essere acquisite col lavoro e con la riflessione. Il nuovo corso presuppone che la logica formale sia qualcosa che già si possiede quando si pensa, ma non spiega come la si debba acquisire, sí che praticamente è come se la supponesse innata. La logica formale è come la grammatica: viene assimilata in modo «vivente» anche se l'apprendimento necessariamente sia stato schematico e astratto, poiché il discente non è un disco di grammofono, non è un recipiente passivamente meccanico, anche se la convenzionalità liturgica degli esami cosí lo fa apparire talvolta. Il rapporto di questi schemi educativi collo spirito infantile è sempre attivo e creativo, come attivo e creativo è il rapporto tra l'operaio e i suoi utensili di lavoro: un calibro è un insieme di astrazioni, anch'esso, eppure non si producono oggetti reali senza la calibratura, oggetti reali che sono rapporti sociali e contengono implicite delle idee. Il fanciullo che si arrabbatta coi barbara, baralipton, si affatica, certo, e bisogna cercare che egli debba fare la fatica indispensabile e non piú, ma è anche certo che dovrà sempre faticare per imparare a costringere se stesso a privazioni e limitazioni di movimento fisico, cioè sottostare a un tirocinio psico-fisico. Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza. La partecipazione di piú larghe masse alla scuola media porta con sé la tendenza a rallentare la disciplina dello studio, a domandare «facilitazioni». Molti pensano addirittura che le difficoltà siano artificiose, perché sono abituati a considerare lavoro e fatica solo il lavoro manuale. La quistione è complessa. Certo il fanciullo di una famiglia tradizionale di intellettuali supera piú facilmente il processo di adattamento psico-fisico; entrando già la prima volta in classe ha parecchi punti di vantaggio sui suoi compagni, ha un'orientazione già acquisita per le abitudini famigliari: si concentra nell'attenzione con piú facilità, perché ha l'abito del contegno fisico ecc. Allo stesso modo il figlio di un operaio di città soffre meno entrando in fabbrica di un ragazzo di contadini o di un giovane contadino già sviluppato per la vita rurale. Anche il regime alimentare ha un'importanza, ecc. ecc. Ecco perché molti del popolo pensano che nella difficoltà dello studio ci sia un «trucco» a loro danno (quando non pensano di essere stupidi per natura): vedono il signore (e per molti, nelle campagne specialmente, signore vuol dire intellettuale) compiere con scioltezza e apparente facilità il lavoro che ai loro figli costa lacrime e sangue, e pensano ci sia un «trucco». In una nuova situazione, queste quistioni possono diventare asprissime e occorrerà resistere alla tendenza di render facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato. Se si vorrà creare un nuovo strato di intellettuali, fino alle piú grandi specializzazioni, da un gruppo sociale che tradizionalmente non ha sviluppato le attitudini conformi, si avranno da superare difficoltà inaudite.

Note sparse



Problemi scolastici e organizzazione della cultura


[Alcuni princípi della pedagogia moderna.] Cercare l'origine storica esatta di alcuni princípi della pedagogia moderna: la scuola attiva ossia la collaborazione amichevole tra maestro e alunno; la scuola all'aperto; la necessità di lasciar libero, sotto il vigile ma non appariscente controllo del maestro, lo sviluppo delle facoltà spontanee dello scolaro.

La Svizzera ha dato un grande contributo alla pedagogia moderna (Pestalozzi, ecc.), per la tradizione ginevrina di Rousseau; in realtà questa pedagogia è una forma confusa di filosofia connessa [a] una serie di regole empiriche. Non si è tenuto conto che le idee di Rousseau sono una reazione violenta alla scuola e ai metodi pedagogici dei gesuiti e in quanto tali rappresentano un progresso: ma si è poi formata una specie di chiesa che ha paralizzato gli studi pedagogici e ha dato luogo a delle curiose involuzioni (nelle dottrine di Gentile e del Lombardo-Radice). La «spontaneità» è una di queste involuzioni: si immagina quasi che nel bambino il cervello sia come un gomitolo che il maestro aiuta a sgomitolare. In realtà ogni generazione educa la nuova generazione, cioè la forma e l'educazione è una lotta contro gli istinti legati alle funzioni biologiche elementari, una lotta contro la natura, per dominarla e creare l'uomo «attuale» alla sua epoca. Non si tiene conto che il bambino da quando incomincia a «vedere e a toccare», forse da pochi giorni dopo la nascita, accumula sensazioni e immagini, che si moltiplicano e diventano complesse con l'apprendimento del linguaggio. La «spontaneità», se analizzata, diventa sempre piú problematica. Inoltre la «scuola», cioè l'attività educativa diretta, è solo una frazione della vita dell'alunno, che entra in contatto sia con la società umana sia con la societas rerum e si forma criteri da queste fonti «extrascolastiche» molto piú importanti di quanto comunemente si creda. La scuola unica, intellettuale e manuale, ha anche questo vantaggio che pone contemporaneamente il bambino a contatto con la storia umana e con la storia delle «cose» sotto il controllo del maestro.



[Pedagogia meccanicistica e idealistica.] Antonio Labriola. Per costruire un compiuto saggio su Antonio Labriola occorre tener presenti, oltre gli scritti suoi, che sono scarsi e spesso soltanto allusivi o estremamente sintetici, anche gli elementi e i frammenti di conversazione riferiti dai suoi amici ed allievi (il Labriola ha lasciato memoria di eccezionale «conversatore»). Nei libri di B. Croce, sparsamente, si possono raccogliere parecchi di tali elementi e frammenti. Cosí nelle Conversazioni Critiche (Serie Seconda), pp. 60-61: «Come fareste ad educare moralmente un papuano?» domandò uno di noi scolari, tanti anni fa al prof. Labriola, in una delle sue lezioni di pedagogia, obiettando contro l'efficacia della pedagogia. «Provvisoriamente (rispose con vichiana ed hegeliana asprezza l'herbartiano professore), provvisoriamente lo farei schiavo; e questa sarebbe la pedagogia del caso, salvo a vedere se pei suoi nipoti e pronipoti si potrà cominciare ad adoperare qualcosa della pedagogia nostra». Questa risposta del Labriola è da avvicinare alla intervista da lui data sulla quistione coloniale (Libia) verso il 1903 e riportata nel volume degli Scritti vari di filosofia e politica. È da avvicinare anche al modo di pensare del Gentile per ciò che riguarda l'insegnamento religioso nelle scuole primarie. Pare si tratti di uno pseudo-storicismo, di un meccanicismo abbastanza empirico e molto vicino al piú volgare evoluzionismo. Si potrebbe ricordare ciò che dice Bertrando Spaventa a proposito di quelli che vorrebbero tenere sempre gli uomini in culla (cioè nel momento dell'autorità, che pure educa alla libertà i popoli immaturi) e pensano tutta la vita (degli altri) come una culla. Mi pare che storicamente il problema sia da porre in altro modo: se, cioè, una nazione o un gruppo sociale che è giunto a un grado superiore di civiltà non possa (e quindi debba) «accelerare» il processo di educazione dei popoli e dei gruppi sociali piú arretrati, universalizzando e traducendo in modo adeguato la sua nuova esperienza. Cosí quando gli inglesi arruolano reclute tra popoli primitivi, che non hanno mai visto un fucile moderno, non istruiscono queste reclute all'impiego dell'arco, del boomerang, della cerbottana, ma proprio le istruiscono al maneggio del fucile, sebbene le norme di istruzione siano necessariamente adattate alla «mentalità» di quel determinato popolo primitivo. Il modo di pensare implicito nella risposta del Labriola non pare pertanto dialettico e progressivo, ma piuttosto meccanico e retrivo, come quello «pedagogico-religioso» del Gentile che non è altro che una derivazione del concetto che la «religione è buona per il popolo» (popolo = fanciullo = fase primitiva del pensiero cui corrisponde la religione ecc.), cioè la rinunzia (tendenziosa) a educare il popolo. Nella intervista sulla quistione coloniale il meccanicismo implicito nel pensiero del Labriola appare anche piú evidente. Infatti: può darsi benissimo che sia «necessario ridurre i papuani alla schiavitú» per educarli, ma non è necessario meno che qualcuno affermi che ciò non è necessario che contingentemente, perché esistono determinate condizioni, che cioè questa è una necessità «storica» e non assoluta: è necessario anzi che ci sia una lotta in proposito, e questa lotta è proprio la condizione per cui i nipoti o pronipoti del papuano saranno liberati dalla schiavitú e saranno educati con la pedagogia moderna. Che ci sia chi affermi recisamente che la schiavitú dei papuani non è che una necessità del momento e si ribelli contro tale necessità è anch'esso un fatto filosofico-storico: 1) perché contribuirà a ridurre al tempo necessario il periodo di schiavitú; 2) perché indurrà gli stessi papuani a riflettere su se stessi, ad autoeducarsi, in quanto sentiranno di essere appoggiati da uomini di civiltà superiore; 3) perché solo questa resistenza mostra che si è realmente in un periodo superiore di civiltà e di pensiero, ecc. Lo storicismo del Labriola e del Gentile è di un genere molto scadente: è lo storicismo dei giuristi per i quali il knut non è un knut quando è un knut «storico». Si tratta d'altronde di un modo di pensare molto nebuloso e confuso. Che nelle scuole elementari sia necessaria una esposizione «dogmatica» delle nozioni scientifiche o sia necessaria una «mitologia» non significa che il dogma debba essere quello religioso e la mitologia quella determinata mitologia. Che un popolo o un gruppo sociale arretrato abbia bisogno di una disciplina esteriore coercitiva, per essere educato civilmente, non significa che debba essere ridotto in schiavitú, a meno che non si pensi che ogni coercizione statale è schiavitú. C'è una coercizione di tipo militare anche per il lavoro, che si può applicare anche alla classe dominante, e che non è «schiavitú», ma l'espressione adeguata della pedagogia moderna rivolta ad educare un elemento immaturo (che è bensí immaturo, ma è tale vicino ad elementi già maturi, mentre la schiavitú organicamente è l'espressione di condizioni universalmente immature). Lo Spaventa, che si metteva dal punto di vista della borghesia liberale contro i «sofismi» storicistici delle classi retrive, esprimeva, in forma sarcastica, una concezione ben piú progressiva e dialettica che non il Labriola e il Gentile.


Hegel aveva affermato che la servitú è la culla della libertà. Per Hegel, come per il Machiavelli, il «principato nuovo» (cioè il periodo dittatoriale che caratterizza gli inizi di ogni nuovo tipo di Stato) e la connessa servitú sono giustificati solo come educazione e disciplina dell'uomo non ancora libero. Però B. Spaventa (Principî di etica, Appendice, Napoli, 1904) commenta opportunamente: «Ma la culla non è la vita. Alcuni ci vorrebbero sempre in culla».

(Un esempio tipico della culla che diventa tutta la vita è offerto dal protezionismo doganale, che è sempre propugnato e giustificato come «culla» ma tende a diventare una culla eterna).



L'Umanesimo. Studiare la riforma pedagogica introdotta dall'Umanesimo: la sostituzione della «composizione scritta» alla «disputa orale», per esempio, che ne è uno degli elementi «pratici» piú significativi. (Ricordare alcune note sul modo di diffusione della cultura per via orale, per discussione dialogica, attraverso l'oratoria, che determina un'argomentazione poco rigorosa, e produce la convinzione immediata piú che altro per via emotiva).



Ordine intellettuale e morale. Brani del libro Lectures and Essays on University Subjects del cardinale Newman. Anzitutto e in linea generalissima, la università ha il compito umano di educare i cervelli a pensare in modo chiaro, sicuro e personale, districandoli dalle nebbie e dal caos in cui minacciava di sommergerli una cultura inorganica, pretenziosa e confusionaria, ad opera di letture male assortite, conferenze piú brillanti che solide, conversazioni e discussioni senza costrutto: «Un giovane d'intelletto acuto e vivace, sfornito di una solida preparazione, non ha di meglio da presentare che un acervo di idee, quando vere quando false, che per lui hanno lo stesso valore. Possiede un certo numero di dottrine e di fatti, ma scuciti e dispersi, non avendo principî attorno ai quali raccoglierli e situarli. Dice, disdice e si contraddice, e quando lo si costringe a esprimere chiaramente il suo pensiero, non si raccapezza piú. Scorge le obiezioni, meglio che le verità, propone mille quesiti ai quali nessuno saprebbe rispondere, ma intanto egli nutre la piú alta opinione di sé e si adira con quelli che dissentono da lui».

Il metodo che la disciplina universitaria prescrive per ogni forma di ricerca è ben altro e ben altro è il risultato: è «la formazione dell'intelletto, cioè un abito di ordine e di sistema, l'abito di riportare ogni conoscenza nuova a quelle che possediamo, e di aggiustarle insieme, e, quel che piú importa, l'accettazione e l'uso di certi principî, come centro di pensiero... Là dove esiste una tale facoltà critica, la storia non è piú un libro di novelle, né la biografia un romanzo; gli oratori e le pubblicazioni della giornata perdono la infallibilità; la eloquenza non vale piú il pensiero, né le affermazioni audaci o le descrizioni colorite tengono il posto di argomenti». La disciplina universitaria deve essere considerata come un tipo di disciplina per la formazione intellettuale attuabile anche in istituzioni non «universitarie» in senso ufficiale.



Delle università italiane. Perché non esercitano nel paese quell'influsso di regolatrici della vita culturale che esercitano in altri paesi? Uno dei motivi deve ricercarsi in ciò che nelle università il contatto tra insegnanti e studenti non è organizzato. Il professore insegna dalla cattedra alla massa degli ascoltatori, cioè svolge la sua lezione, e se ne va. Solo nel periodo della laurea avviene che lo studente si avvicini al professore, gli chieda un tema e consigli specifici sul metodo della ricerca scientifica. Per la massa degli studenti i corsi non sono altro che una serie di conferenze, ascoltate con maggiore o minore attenzione, tutte o solo una parte: lo studente si affida alle dispense, all'opera che il docente stesso ha scritto sull'argomento o alla bibliografia che ha indicato. Un maggiore contatto esiste tra i singoli insegnanti e singoli studenti che vogliono specializzarsi su una determinata disciplina: questo contatto si forma, per lo piú, casualmente ed ha una importanza enorme per la continuità accademica e per la fortuna delle varie discipline. Si forma, per esempio, per cause religiose, politiche, di amicizia familiare. Uno studente diventa assiduo di un professore, che lo incontra in biblioteca, lo invita a casa, gli consiglia libri da leggere e ricerche da tentare. Ogni insegnante tende a formare una sua «scuola», ha suoi determinati punti di vista (chiamati «teorie») su determinate parti della sua scienza che vorrebbe veder sostenuti da «suoi seguaci o discepoli». Ogni professore vuole che dalla sua università, in concorrenza con le altre, escano giovani «distinti» che portino contributi «seri» alla sua scienza. Perciò nella stessa facoltà c'è concorrenza tra professori di materie affini per contendersi certi giovani che si siano già distinti con una recensione o un articoletto o in discussioni scolastiche (dove se ne fanno). Il professore allora guida veramente il suo allievo; gli indica un tema, lo consiglia nello svolgimento, gli facilita le ricerche, con le sue conversazioni assidue accelera la sua formazione scientifica, gli fa pubblicare i primi saggi nelle riviste specializzate, lo mette in rapporto con altri specialisti e lo accaparra definitivamente.

Questo costume, salvo casi sporadici di camorra, è benefico, perché integra la funzione delle università. Dovrebbe, da fatto personale, di iniziativa personale, diventare funzione organica: non so fino a che punto, ma mi pare che i seminari di tipo tedesco, rappresentino questa funzione o cerchino di svolgerla. Intorno a certi professori c'è ressa di procaccianti che sperano raggiungere piú facilmente una cattedra universitaria. Molti giovani invece, che vengono dai licei di provincia specialmente, sono spaesati e nell'ambiente sociale universitario e nell'ambiente di studio. I primi sei mesi del corso servono per orientarsi sul carattere specifico degli studi universitari e la timidezza nei rapporti personali è immancabile tra docente e discepolo. Nei seminari ciò non si verificherebbe o almeno non nella stessa misura.

In ogni modo, questa struttura generale della vita universitaria non crea, già all'università, alcuna gerarchia intellettuale permanente tra professori e massa di studenti; dopo l'università anche quei pochi legami si sciolgono e nel paese manca ogni struttura culturale che si impernii sull'università. Ciò ha costituito uno degli elementi della fortuna della diade Croce-Gentile, prima della guerra, nel costituire un gran centro di vita intellettuale nazionale; tra l'altro essi lottavano anche contro l'insufficienza della vita universitaria e la mediocrità scientifica e pedagogica (talvolta anche morale) degli insegnanti ufficiali.



Quistioni scolastiche. Confrontare l'articolo Il facile e il difficile di Metron nel «Corriere della Sera» del gennaio 1932. Metron fa due osservazioni interessanti (riferendosi ai corsi d'ingegneria e agli esami di Stato per gli ingegneri): 1) che durante il corso l'insegnante parla per cento e lo studente assorbe per uno o due. 2) che negli esami di Stato i candidati sanno rispondere alle quistioni «difficili» e falliscono nelle quistioni «facili». Metron non analizza però esattamente le ragioni di questi due problemi e non indica nessun rimedio «tendenziale». Mi pare che le due deficienze siano legate al sistema scolastico delle lezioni-conferenze senza «seminario» e al carattere tradizionale degli esami che ha creato una psicologia tradizionale degli esami. Appunti e dispense. Gli appunti e le dispense si fermano specialmente sulle quistioni «difficili»: nell'insegnamento stesso si insiste sul «difficile», nell'ipotesi di un'attività indipendente dello studente per le «cose facili». Quanto piú si avvicinano gli esami tanto piú si riassume la materia del corso, fino alla vigilia quando si «ripassano» solo appunto le quistioni piú difficili: lo studente è come ipnotizzato dal difficile, tutte le sue facoltà mnemoniche e la sua sensibilità intellettuale si concentrano sulle quistioni difficili ecc. Per l'assorbimento minimo: il sistema delle lezioni-conferenze porta l'insegnante a non ripetersi o a ripetersi il meno possibile: le quistioni sono cosí presentate solo entro un quadro determinato, ciò che le rende unilaterali per lo studente. Lo studente assorbe uno o due del cento detto dall'insegnante ma se il cento è formato di cento unilateralità diverse, l'assorbimento non può essere che molto basso. Un corso universitario è concepito come un libro sull'argomento: ma si può diventare colti con la lettura di un solo libro? Si tratta quindi della quistione del metodo nell'insegnamento universitario: all'Università si deve studiare o studiare per saper studiare? Si devono studiare «fatti» o il metodo per studiare i «fatti»? La pratica del «seminario» dovrebbe appunto integrare e vivificare l'insegnamento orale.



[Scuole progressive.] Nel «Marzocco» del 13 settembre 1931, G. Ferrando esamina un lavoro di Carleton Washburne, pedagogista americano, che è venuto appositamente in Europa per vedere come funzionano le nuove scuole progressiste, ispirate al principio dell'autonomia dell'alunno e della necessità di soddisfare per quanto è possibile i suoi bisogni intellettuali (New Schools in The old World by Carleton Washburne, New York, The John Day Company, 1930). Il Washburne descrive dodici scuole, tutte diverse fra loro, ma tutte animate da uno spirito riformatore, in alcune temperato e [che] si innesta sul vecchio tronco della scuola tradizionale, mentre in altre assume un carattere addirittura rivoluzionario. Cinque di queste scuole sono in Inghilterra, una nel Belgio, una in Olanda, una in Francia, una in Svizzera, una in Germania e due in Cecoslovacchia e ognuna ci presenta un aspetto del complesso problema educativo.

La Public School di Oundle, una delle piú antiche scuole inglesi, si differenzia dalle scuole dello stesso tipo solo perché accanto ai corsi teorici di materie classiche ha istituito dei corsi manuali e pratici. Tutti gli studenti sono obbligati a frequentare a loro scelta un'officina meccanica o un laboratorio scientifico: il lavoro manuale si accompagna col lavoro intellettuale e sebbene non ci sia nessuna relazione diretta tra i due, pure l'alunno impara ad applicare le sue cognizioni e sviluppa le sue capacità pratiche. (Questo esempio mostra come sia necessario definire esattamente il concetto di scuola unitaria in cui il lavoro e la teoria sono strettamente riuniti: l'accostamento meccanico delle due attività può essere uno snobismo. Si sente dire di grandi intellettuali che si divagano facendo i tornitori, i falegnami, i legatori di libri, ecc.; non si dirà per questo che siano un esempio di unità del lavoro manuale e intellettuale. Molte di tali scuole moderne sono appunto di stile snobistico che non ha niente che vedere – altro che superficialmente – colla quistione di creare un tipo di scuola che educhi le classi strumentali e subordinate a un ruolo dirigente nella società, come complesso e non come singoli individui).

La scuola media femminile di Streatham Hill applica il sistema Dalton (che il Ferrando chiama «uno sviluppo del metodo Montessori»), le ragazze sono libere di seguire le lezioni, pratiche e teoriche, che desiderano, purché alla fine di ogni mese abbiano svolto il programma loro assegnato; la disciplina delle varie classi è affidata alle alunne. Il sistema ha un grande difetto: le allieve in genere rimandano agli ultimi giorni del mese lo svolgimento del loro compito, ciò che nuoce alla serietà della scuola e costituisce un inconveniente serio per le insegnanti che debbono aiutarle e sono sopraffatte dal lavoro, mentre nelle prime settimane hanno poco o nulla da fare. (Il sistema Dalton non è che l'estensione alle scuole medie del metodo di studio seguito nelle università italiane, che all'alunno lasciano tutta la libertà per lo studio: in certe facoltà si dànno venti esami al quarto anno di università e poi la laurea, e il professore non conosce neanche l'alunno).

Nel piccolo villaggio di Kearsley, E. F. O'Neill ha fondato una scuola elementare in cui è abolito «ogni programma e ogni metodo didattico». Il maestro cerca di rendersi conto di quello che i bambini hanno bisogno di apprendere e comincia poi a parlare su quel dato argomento, mirando a risvegliare la loro curiosità e il loro interesse; appena vi è riuscito, lascia che essi continuino per conto proprio, limitandosi a rispondere alle loro domande e a guidarli nella loro ricerca. Questa scuola, che rappresenta una reazione contro tutte le formule, contro l'insegnamento dommatico, contro la tendenza a rendere l'istruzione meccanica, «ha dato risultati sorprendenti»; i bambini si appassionano talmente alle lezioni che talvolta rimangono a scuola fino a sera tardi, si affezionano ai loro maestri che sono per loro dei compagni e non degli autocratici pedagoghi e ne subiscono l'influenza morale; anche intellettualmente il loro progresso è assai superiore a quello degli alunni delle scuole comuni (è molto interessante come tentativo, ma potrebbe essere universalizzato? si troverebbero i maestri sufficienti numericamente allo scopo? e non ci saranno inconvenienti che non sono riferiti, come per esempio quello dei bambini che devono abbandonare la scuola ecc.? Potrebbe essere una scuola di élites o un sistema di «doposcuola», in sostituzione della vita famigliare).

Un gruppo di scuole elementari ad Amburgo: libertà assoluta ai bambini; nessuna distinzione di classi, non materie di studio, non insegnamento nel senso preciso della parola. L'istruzione dei bambini deriva solo dalle domande che essi rivolgono ai maestri e dall'interesse che dimostrano per un dato fatto. Il direttore di queste scuole, signor Gläser, sostiene che l'insegnante non ha diritto neppure di stabilire quello che i ragazzi debbono imparare; egli non può sapere quello che essi diverranno nella vita, come ignora per quale tipo di società essi debbono essere preparati; l'unica cosa che egli sa è che essi «posseggono un'anima che deve esser sviluppata e quindi egli deve cercare di offrir loro tutte le possibilità di manifestarsi». Per Gläser l'educazione consiste «nel liberare l'individualità di ogni alunno, nel permettere alla sua anima di aprirsi e di espandersi». In otto anni gli allievi di queste scuole hanno ottenuto risultati buoni.

Le altre scuole di cui il Washburne parla sono interessanti perché sviluppano certi aspetti del problema educativo; cosí per esempio la scuola «progressista» del Belgio si fonda sul principio che i bambini imparano venendo in contatto con il mondo e insegnando agli altri. La scuola Cousinet in Francia sviluppa l'abitudine allo sforzo collettivo, alla collaborazione. Quella di Glarisegg in Svizzera insiste in special modo nello sviluppare il senso della libertà e responsabilità morale di ciascun alunno, ecc. (È utile seguire tutti questi tentativi che non sono altro che «eccezionali» forse piú per vedere ciò che non occorre fare, che per altro).



L'orientazione professionale. Confrontare lo studio del Padre Brucculeri nella «Civiltà Cattolica» del 6 ottobre, 3 novembre, 17 novembre 1928: vi si può trovare il primo materiale per una prima impostazione delle ricerche in proposito. Lo studio della quistione è complesso: 1) perché nella situazione attuale di divisione sociale delle funzioni, certi gruppi sono limitati nella loro scelta professionale (intesa in senso largo) da diverse condizioni economiche (non poter attendere) e tecniche (ogni anno di piú di scuola modifica le disposizioni generali in chi deve scegliere la professione); 2) perché deve sempre esser tenuto presente il pericolo che gli istituti chiamati a giudicare sulle disposizioni del soggetto, lo indichino come capace di fare un certo lavoro anche quando egli non voglia accettare (questo caso è da tener presente dopo l'introduzione della razionalizzazione ecc.; la quistione non è puramente tecnica, è anche salariale. L'industria americana si è servita degli alti salari per «selezionare» gli operai dell'industria razionalizzata, almeno entro una certa misura: altre industrie invece, ponendo avanti questi schemi scientifici o pseudo-scientifici, possono tendere a «costringere» tutte le maestranze tradizionali a lasciarsi razionalizzare senza avere ottenuto le possibilità salariali per un sistema di vita appropriato, che permetta di reintegrare le maggiori energie nervose consumate. Ci si può trovare dinanzi a un vero pericolo sociale: il regime salariale attuale è basato specialmente sulla reintegrazione di forze muscolari. L'introduzione della razionalizzazione senza un cambiamento di sistema di vita, può portare a un rapido logoramento nervoso e determinare una crisi di morbosità inaudita). Lo studio della quistione deve poi esser fatto dal punto di vista della scuola unica del lavoro.



[Servizi pubblici.] Servizi pubblici intellettuali: oltre alla scuola, nei suoi vari gradi, quali altri servizi non possono essere lasciati all'iniziativa privata, ma, in una società moderna, devono essere assicurati dallo Stato e dagli enti locali (comuni e province)? Il teatro, le biblioteche, i musei di vario genere, le pinacoteche, i giardini zoologici, gli orti botanici, ecc. È da fare una lista di istituzioni che devono essere considerate di utilità per l'istruzione e la cultura pubblica e che tali sono infatti considerate in una serie di Stati, le quali non potrebbero essere accessibili al grande pubblico (e si ritiene, per ragioni nazionali, devono essere accessibili) senza un intervento statale. È da osservare che proprio questi servizi sono da noi trascurati quasi del tutto; tipico esempio le biblioteche e i teatri. I teatri esistono in quanto sono un affare commerciale: non sono considerati servizio pubblico. Data la scarsezza del pubblico teatrale e la mediocrità delle città, in decadenza.

In Italia invece abbondanti le opere pie e i lasciti di beneficenza: forse piú che in ogni altro paese. E dovuti all'iniziativa privata. È vero che male amministrati e mal distribuiti. (Questi elementi [sono] da studiare come nessi nazionali tra governanti e governati, come fattori di egemonia. Beneficenza elemento di «paternalismo»; servizi intellettuali elementi di egemonia, ossia di democrazia in senso moderno).



[Le biblioteche popolari.] Ettore Fabietti, Il primo venticinquennio delle Biblioteche popolari milanesi, «Nuova Antologia», 1° ottobre 1928. Articolo molto utile per le informazioni che dà sull'origine e lo sviluppo di questa istituzione che è stata la piú cospicua iniziativa per la cultura popolare del tempo moderno. L'articolo è abbastanza serio, sebbene il Fabietti abbia dimostrato di non essere lui molto serio: bisognerà riconoscergli tuttavia molte benemerenze e una indiscutibile capacità organizzativa nel campo della cultura operaia in senso democratico. Il Fabietti mette in luce come gli operai fossero i migliori «clienti» delle biblioteche popolari: curavano i libri, non li smarrivano (a differenza delle altre categorie di lettori: studenti, impiegati, professionisti, donne di casa, benestanti (?), ecc.): le letture di «belletristica» rappresentavano una percentuale relativamente bassa, inferiore a quella di altri paesi: operai che proponevano di pagare la metà di libri costosi pur di poterli leggere: operai che davano oblazioni fino di cento lire alle biblioteche popolari; un operaio tintore che [è] divenuto «scrittore» e traduttore dal francese con le letture e gli studi fatti nelle biblioteche popolari ma che continua a rimanere operaio.

La letteratura delle biblioteche popolari milanesi dovrà essere studiata per avere spunti «reali» sulla cultura popolare: quali libri piú letti come categoria e come autori, ecc.; pubblicazioni delle biblioteche popolari, loro carattere, tendenze ecc. Come mai una tale iniziativa solo a Milano in grande stile? Perché non a Torino o in altre grandi città? Carattere e storia del «riformismo» milanese; Università popolare, Umanitaria, ecc. Argomento molto interessante ed essenziale.


Confrontare l'interessante articolo di Ettore Fabietti, Per la sistemazione delle Biblioteche Pubbliche «nazionali» e «popolari», nella «Nuova Antologia» del 1° aprile 1930.



Le accademie. Funzione che esse hanno avuto nello sviluppo della cultura in Italia, nel cristallizzarla e nel farne una cosa da museo, lontana dalla vita nazionale-popolare (ma le accademie sono state causa o effetto? Non si sono moltiplicate forse per dare una soddisfazione parziale all'attività che non trovava sfogo nella vita pubblica ecc.?) l'Encyclopédie (ediz. del 1778) assicura che l'Italia contava allora 550 Accademie.



Cultura italiana e francese e accademie. Un confronto delle culture italiana e francese può essere fatto confrontando l'Accademia della Crusca e l'Accademia degli Immortali. Lo studio della lingua è alla base di ambedue: ma il punto di vista della Crusca è quello del «linguaiolo», dell'uomo che si guarda continuamente la lingua. Il punto di vista francese è quello della «lingua» come concezione del mondo, come base elementare – popolare-nazionale – dell'unità della civiltà francese. Perciò l'Accademia Francese ha una funzione nazionale di organizzazione dell'alta cultura, mentre la Crusca... (qual è l'attuale posizione della Crusca? Essa ha certamente cambiato carattere: pubblica testi critici, ecc., ma il Dizionario in che posizione si trova nei suoi lavori?)



[Bibliografia.] Nella rubrica «Intellettuali» in altro quaderno, ho accennato alle Accademie italiane e all'utilità di averne una lista ragionata. Nella «Nuova Antologia» del 1° settembre 1929 (p. 128) è annunziato un libro di E. Salaris, Attraverso gli Istituti culturali italiani, opera di prossima pubblicazione sulle Accademie d'Italia.



[La Federazione delle Unioni Intellettuali.] Il Principe Carlo di Rohan. Ha fondato nel 1924 la Federazione delle Unioni Intellettuali e dirige una rivista (Europäische Gespräche?). Gli italiani partecipano a questa federazione: il suo Congresso del '25 è stato tenuto a Milano. L'Unione italiana è presieduta da S. E. l'On. Vittorio Scialoja. Nel 1927 il di Rohan ha pubblicato un libro sulla Russia (Moskau. - Ein Skizzenbuch aus Sowietrussland, Verlag G. Braun in Karlsruhe), dove aveva fatto un viaggio. Il libro deve essere interessante data la personalità sociale dell'autore. Egli conclude che la Russia «seinen Weg gefunden hat».



Organizzazione della vita culturale. Studiare la storia della formazione e della attività della «Società Italiana per il progresso della Scienza». Sarà da studiare anche la storia della «Associazione britannica» che mi pare sia stato il prototipo di questo genere di organizzazioni private. La caratteristica piú feconda della «Società Italiana» è nel fatto che essa raggruppa tutti gli «amici della scienza», chierici e laici, per cosí dire, specialisti e «dilettanti». Essa dà il tipo embrionale di quell'organismo che ho abbozzato in altre note, nel quale dovrebbe confluire e rinsaldarsi il lavoro delle Accademie e delle università con le necessità di cultura scientifica delle masse nazionali-popolari, riunendo la teoria e la pratica, il lavoro intellettuale e quello industriale che potrebbe trovare la sua radice nella scuola unica.

Lo stesso potrebbe dirsi del Touring Club, che è essenzialmente una grande associazione di amici della geografia e dei viaggi, in quanto si incorporano in determinate attività sportive (turismo = geografia + sport), cioè la forma piú popolare e dilettantesca dell'amore per la geografia e per le scienze che vi si connettono (geologia, mineralogia, botanica, speleologia, cristallografia, ecc.). Perché dunque il Touring Club non dovrebbe organicamente connettersi con gli Istituti di geografia e con le Società geografiche? C'è il problema internazionale: il Touring ha un quadro essenzialmente nazionale, mentre le Società geografiche si occupano di tutto il mondo geografico. Connessione del turismo con le società sportive, con l'alpinismo, canottaggio ecc., escursionismo in genere: connessione con le arti figurative e con la storia dell'arte in generale. In realtà potrebbe connettersi con tutte le attività pratiche, se le escursioni nazionali e internazionali si collegassero con periodi di ferie (premio) per il lavoro industriale e agricolo.


[I libri.] Si insiste molto sul fatto che sia aumentato il numero dei libri pubblicati. L'Istituto italiano del Libro comunica che la media annuale del decennio 1908-1918 è stata esattamente di 7.300. I calcoli fatti per il 1929 (i piú recenti) dànno la cifra di 17.718 (libri ed opuscoli; esclusi quelli della Città del Vaticano, di San Marino, delle colonie e delle terre di lingua italiana non facenti parte del Regno). Pubblicazioni polemiche e quindi tendenziose. Bisognerebbe vedere: 1) se le cifre sono omogenee, cioè se si calcola oggi come nel passato, ossia se non è cambiato il tipo dell'unità editoriale base; 2) bisogna tener conto che nel passato la statistica libraria era molto approssimativa e incerta (ciò si osserva per tutte le statistiche, per es. quella della raccolta del grano; ma è specialmente vero per i libri: si può dire che oggi non solo è mutato il tipo di unità calcolata, ma niente sfugge all'accertamento statistico); 3) è da vedere se e come è mutata la composizione organica del complesso librario: è certo che si sono moltiplicate le case editrici cattoliche, per esempio, e quindi la pubblicazione di opericciuole senza nessuna importanza culturale (cosí si sono moltiplicate le edizioni scolastiche cattoliche ecc.). In questo calcolo occorrerebbe tener conto delle tirature, e ciò specialmente per i giornali e le riviste.

Si legge meno o piú? E chi legge meno o piú? Si sta formando una «classe media colta» piú numerosa che in passato, che legge di piú, mentre le classi popolari leggono molto meno; ciò appare dal rapporto tra libri, riviste e giornali. I giornali sono diminuiti di numero e stampano meno copie; si leggono piú riviste e libri (cioè ci sono piú lettori di libri e riviste). Cfr. tra Italia e altri paesi nei modi di fare la statistica libraria e nella classificazione per gruppi di ciò che si pubblica.

III. Il giornalismo

[Giornalismo integrale.] Il tipo di giornalismo che si considera in queste note è quello che si potrebbe chiamare «integrale» (nel senso che acquisterà significato sempre piú chiaro nel corso delle note stesse), cioè quello che non solo intende soddisfare tutti i bisogni (di una certa categoria) del suo pubblico, ma intende di creare e sviluppare questi bisogni e quindi di suscitare, in un certo senso, il suo pubblico e di estenderne progressivamente l'area. Se si esaminano tutte le forme di giornalismo e di attività pubblicistica-editoriale in genere esistenti, si vede che ognuna di esse presuppone altre forze da integrare o alle quali coordinarsi «meccanicamente». Per svolgere criticamente l'argomento e studiarne tutti i lati, pare piú opportuno (ai fini metodologici e didattici) presupporre un'altra situazione: che esista, come punto di partenza, un aggruppamento culturale (in senso lato) piú o meno omogeneo, di un certo tipo, di un certo livello e specialmente con un certo orientamento generale e che su tale aggruppamento si voglia far leva per costruire un edificio culturale completo, autarchico, cominciando addirittura dalla... lingua, cioè dal mezzo di espressione e di contatto reciproco. Tutto l'edifizio dovrebbe essere costruito secondo principî «razionali», cioè funzionali, in quanto si hanno determinate premesse e si vogliono raggiungere determinate conseguenze. Certo, durante l'elaborazione del «piano» le premesse necessariamente mutano, perché se è vero che un certo fine presuppone certe premesse è anche vero che, durante l'elaborazione reale dell'attività data, le premesse sono necessariamente mutate e trasformate e la coscienza del fine, allargandosi e concretandosi, reagisce sulle premesse «conformandole» sempre piú. L'esistenza oggettiva delle premesse permette di pensare a certi fini, cioè le premesse date sono tali solo in rapporto a certi fini pensabili come concreti. Ma se i fini cominciano progressivamente a realizzarsi, per il fatto di tale realizzazione, dell'effettualità raggiunta, mutano necessariamente le premesse iniziali, che intanto non sono piú... iniziali e quindi mutano anche i fini pensabili e cosí via. A questo nesso si pensa ben raramente, quantunque sia di evidenza immediata. La sua manifestazione la vediamo nelle imprese «secondo un piano» che non sono puri «meccanismi», appunto perché si basano secondo questo modo di pensare in cui la parte della libertà e dello spirito d'iniziativa (spirito di «combinazioni») è molto piú grande di quanto non vogliano ammettere, per il ruolo di maschere da commedia dell'arte che è loro proprio, i rappresentanti ufficiali della «libertà» e dell'«iniziativa» astrattamente concepite (o troppo «concretamente» concepite). Questo nesso è dunque vero, tuttavia è anche vero che le «premesse» iniziali si ripresentano continuamente, sia pure in altre condizioni. Che una «leva scolastica» impari l'alfabeto non significa che l'analfabetismo scompaia di colpo e per sempre; ogni anno ci sarà una nuova «leva» a cui insegnare l'alfabeto. Tuttavia è evidente che quanto piú l'analfabetismo diventa raro negli adulti, tanto meno difficoltà si presenteranno per popolare le scuole elementari fino al 100%: ci saranno sempre «analfabeti» ma essi tenderanno a scomparire fino al limite normale dei fanciulli di cinque-sei anni.



I lettori. I lettori devono essere considerati da due punti di vista principali: 1) come elementi ideologici, «trasformabili» filosoficamente, capaci, duttili, malleabili alla trasformazione; 2) come elementi «economici», capaci di acquistare le pubblicazioni e di farle acquistare ad altri. I due elementi, nella realtà, non sono sempre distaccabili, in quanto l'elemento ideologico è uno stimolo all'atto economico dell'acquisto e della diffusione. Tuttavia, occorre, nel costruire un piano editoriale, tenere distinti i due aspetti, perché i calcoli siano realisti e non secondo i propri desideri. D'altronde, nella sfera economica, le possibilità non corrispondono alla volontà e all'impulso ideologico e pertanto occorre predisporre perché sia data la possibilità dell'acquisto «indiretto», cioè compensato con servizi (diffusione). Un'impresa editoriale pubblica tipi diversi di riviste e libri, graduati secondo livelli diversi di cultura. È difficile stabilire quanti «clienti» possibili esistano di ogni livello. Occorre partire dal livello piú basso e su questo si può stabilire il piano commerciale «minimo», cioè il preventivo piú realistico, tenendo conto tuttavia che l'attività può modificare (e deve modificare) le condizioni di partenza non solo nel senso che la sfera della clientela può (deve) essere allargata, ma che può (deve) determinarsi una gerarchia di bisogni da soddisfare e quindi di attività da svolgere. È osservazione ovvia che le imprese finora esistite si sono burocratizzate, cioè non hanno stimolato i bisogni e organizzato il loro soddisfacimento, per cui è spesso avvenuto che l'iniziativa individuale caotica ha dato migliori frutti dell'iniziativa organizzata. La verità era che in questo secondo caso non esisteva «iniziativa» e non esisteva «organizzazione» ma solo burocrazia e andazzo fatalistico. Spesso la cosí detta organizzazione invece di essere un potenziamento di sforzi era un narcotico, un deprimente, addirittura un ostruzionismo o un sabotaggio. D'altronde non si può parlare di azienda giornalistica ed editoriale seria se manca questo elemento: l'organizzazione del cliente, della vendita, che essendo un cliente particolare (almeno nella sua massa) ha bisogno di una organizzazione particolare, strettamente legata all'indirizzo ideologico della «merce» venduta. È osservazione comune che in un giornale moderno il vero direttore è il direttore amministrativo e non quello redazionale.



Movimenti e centri intellettuali. È dovere dell'attività giornalistica (nelle sue varie manifestazioni) seguire e controllare tutti i movimenti e i centri intellettuali che esistono e si formano nel paese. Tutti. Cioè con l'esclusione appena di quelli che hanno un carattere arbitrario e pazzesco; sebbene anche questi, col tono che si meritano, devono essere per lo meno registrati. Distinzione tra centri e movimenti intellettuali e altre distinzioni e graduazioni. Per esempio il cattolicismo è un grande centro e un grande movimento: ma nel suo interno esistono movimenti e centri parziali che tendono a trasformare l'intero, o ad altri fini piú concreti e limitati e di cui occorre tener conto. Pare che prima di ogni altra cosa occorra «disegnare» la mappa intellettuale e morale del paese, cioè circoscrivere i grandi movimenti d'idee e i grandi centri (ma non sempre ai grandi movimenti corrispondono grandi centri, almeno coi caratteri di visibilità e di concretezza che di solito si attribuisce a questa parola e l'esempio tipico è il centro cattolico). Occorre poi tener conto delle spinte innovatrici che si verificano, che non sempre sono vitali, cioè hanno una conseguenza, ma non perciò devono essere meno seguite e controllate. Intanto all'inizio un movimento è sempre incerto, di avvenire dubbio, ecc.; bisognerà attendere che abbia acquistato tutta la sua forza e consistenza per occuparsene? Neanche è necessario che esso sia fornito delle doti di coerenza e di ricchezza intellettuale: non sempre sono i movimenti piú coerenti ed intellettualmente ricchi quelli che trionfano. Spesso anzi un movimento trionfa proprio per la sua mediocrità ed elasticità logica: tutto ci può stare, i compromessi piú vistosi sono possibili e questi appunto possono essere ragioni di trionfo. Leggere le riviste dei giovani oltre quelle che si sono già affermate e rappresentano interessi seri e ben certi. Nell'«Almanacco letterario» Bompiani del 1933 (pp. 360-361) sono indicati i programmi essenziali di sei riviste di giovani che dovrebbero rappresentare le spinte di movimento della nostra cultura: «Il Saggiatore», «Ottobre», «Il Ventuno», «L'Italia vivente», «L'Orto», «Espero» che non paiono molto perspicue, eccetto forse qualcuna. L'«Espero» per esempio, «per la filosofia» si propone «di ospitare i postidealisti, che eseguiscono con attenta critica dell'idealismo, e quei soli idealisti che sanno tener conto di tale critica». Il direttore di «Espero» è Aldo Capasso, ed essere postidealista è qualcosa come essere «contemporaneo», cioè proprio nulla. Piú chiaro, anzi forse il solo chiaro, è il programma di «Ottobre». Tuttavia tutti questi movimenti sarebbero da esaminare, snobismo a parte.

Distinzione tra movimenti militanti, che sono i piú interessanti, e movimenti di retroguardia o di idee acquisite e divenute classiche o commerciali. Tra questi dove mettere l'«Italia Letteraria»? Non certo militante e neppure classica! Sacco di patate mi pare proprio la definizione piú esatta e appropriata.



L'essere evolutivo finale. Aneddoto del corso di storia della filosofia del professor D'Ercole e dell'«essere evolutivo finale». Per quarant'anni non parlò che della filosofia cinese e di Lao-tse: ogni anno, «nuovi allievi» che non avevano sentito le lezioni dell'anno precedente e quindi occorreva ricominciare. Cosí tra le generazioni di allievi «l'essere evolutivo finale» diventò una leggenda.

In certi movimenti culturali, che arruolano i loro elementi tra chi inizia solo allora la propria vita culturale, per il rapido estendersi del movimento stesso che conquista sempre nuovi adepti e perché i già conquistati non hanno autoiniziativa culturale, non pare possibile uscire mai dall'abc. Questo fatto ha gravi ripercussioni nell'attività giornalistica in generale, quotidiani, settimanali, riviste, ecc.; pare che non si debba mai superare un certo livello. D'altronde, il non tener conto di questo ordine di esigenze, spiega il lavoro di Sisifo delle cosí dette «piccole riviste», che si rivolgono a tutti e a nessuno e a un certo punto diventano veramente del tutto inutili.

L'esempio piú tipico è stato quello della «Voce», che a un certo punto si scisse in «Lacerba», «La Voce» e l'«Unità» con la tendenza in ognuna a scindersi all'infinito. Le redazioni, se non sono legate a un movimento disciplinato di base, tendono, o a diventare conventicole di «profeti disarmati» o a scindersi secondo i movimenti incomposti e caotici che si determinano tra i diversi gruppi e strati di lettori.

Bisogna quindi riconoscere apertamente che le riviste di per sé sono sterili, se non diventano la forza motrice e formatrice di istituzioni culturali a tipo associativo di massa, cioè non a quadri chiusi. Ciò deve dirsi anche per le riviste di partito; non bisogna credere che il partito costituisca di per sé l'«istituzione» culturale di massa della rivista. Il partito è essenzialmente politico e anche la sua attività culturale è attività di politica culturale; le «istituzioni» culturali devono essere non solo di «politica culturale», ma di «tecnica culturale». Esempio: in un partito ci sono degli analfabeti e la politica culturale del partito è la lotta contro l'analfabetismo. Un gruppo per la lotta contro l'analfabetismo non è ancora precisamente una «scuola per analfabeti»; in una scuola per analfabeti si insegna a leggere e a scrivere; in un gruppo per la lotta contro l'analfabetismo si predispongono tutti i mezzi piú efficaci per estirpare l'analfabetismo dalle grandi masse della popolazione di un paese, ecc.



Dilettantismo e disciplina. Necessità di una critica interna severa e rigorosa, senza convenzionalismi e mezze misure. Esiste una tendenza del materialismo storico che sollecita e favorisce tutte le cattive tradizioni della media cultura italiana e sembra aderire ad alcuni tratti del carattere italiano: l'improvvisazione, il «talentismo», la pigrizia fatalistica, il dilettantismo scervellato, la mancanza di disciplina intellettuale, l'irresponsabilità e la slealtà morale ed intellettuale. Il materialismo storico distrugge tutta una serie di pregiudizi e di convenzionalità, di falsi doveri, di ipocrite obbligazioni: ma non per ciò giustifica che si cada nello scetticismo e nel cinismo snobistico. Lo stesso risultato aveva avuto il machiavellismo, per una arbitraria estensione o confusione tra la «morale» politica e la «morale» privata, cioè tra la politica e l'etica, confusione che non esisteva certo nel Machiavelli, tutt'altro, poiché anzi la grandezza del Machiavelli consiste nell'aver distinto la politica dall'etica. Non può esistere associazione permanente e con capacità di sviluppo che non sia sostenuta da determinati principî etici, che l'associazione stessa pone ai suoi singoli componenti in vista della compattezza interna e dell'omogeneità necessarie per raggiungere il fine. Non perciò questi principî sono sprovvisti di carattere universale. Cosí sarebbe se l'associazione avesse fine in se stessa, fosse cioè una sètta o un'associazione a delinquere (in questo solo caso mi pare si possa dire che politica ed etica si confondono, appunto perché il «particolare» è elevato a «universale»). Ma un'associazione normale concepisce se stessa come aristocrazia, una élite, un'avanguardia, cioè concepisce se stessa come legata da milioni di fili a un dato raggruppamento sociale e per il suo tramite a tutta l'umanità. Pertanto questa associazione non si pone come un qualche cosa di definitivo e di irrigidito, ma come tendente ad allargarsi a tutto un raggruppamento sociale, che anch'esso è concepito come tendente a unificare tutta l'umanità. Tutti questi rapporti danno carattere tendenzialmente universale all'etica di gruppo che deve essere concepita come capace di diventare norma di condotta di tutta l'umanità. La politica è concepita come un processo che sboccherà nella morale, cioè come tendente a sboccare in una forma di convivenza in cui politica e quindi morale saranno superate entrambe. (Da questo punto di vista storicistico può solo spiegarsi l'angoscia di molti sul contrasto tra morale privata e morale pubblica-politica: essa è un riflesso inconsapevole e sentimentalmente acritico delle contraddizioni della attuale società, cioè dell'assenza di uguaglianza dei soggetti morali).

Ma non può parlarsi di élite-aristocrazia, avanguardia come di una collettività indistinta e caotica; in cui, per grazia di un misterioso spirito santo, o di altra misteriosa e metafisica deità ignota, cali la grazia dell'intelligenza, della capacità, dell'educazione, della preparazione tecnica ecc.; eppure questo modo di concepire è comune. Si riflette in piccolo ciò che avveniva su scala nazionale, quando lo Stato era concepito come qualcosa di astratto dalla collettività dei cittadini, come un padre eterno che avrebbe pensato a tutto, provveduto a tutto ecc.; da ciò l'assenza di una democrazia reale, di una reale volontà collettiva nazionale e quindi, in questa passività dei singoli, la necessità di un dispotismo piú o meno larvato della burocrazia. La collettività deve essere intesa come prodotto di una elaborazione di volontà e pensiero collettivo raggiunto attraverso lo sforzo individuale concreto, e non per un processo fatale estraneo ai singoli: quindi obbligo della disciplina interiore e non solo di quella esterna e meccanica. Se ci devono essere polemiche e scissioni, non bisogna aver paura di affrontarle e superarle: esse sono inevitabili in questi processi di sviluppo ed evitarle significa solo rimandarle a quando saranno precisamente pericolose o addirittura catastrofiche, ecc.



[Riviste tipiche.] All'ingrosso si possono stabilire tre tipi fondamentali di riviste, caratterizzate dal modo con cui sono compilate, dal tipo di lettori cui intendono rivolgersi, dai fini educativi che vogliono raggiungere. Il primo tipo può essere offerto dalla combinazione degli elementi direttivi che si riscontrano in modo specializzato nella «Critica» di B. Croce, nella «Politica» di F. Coppola e nella «Nuova Rivista Storica» di C. Barbagallo. Il secondo tipo «critico-storico-bibliografico» dalla combinazione degli elementi che caratterizzavano i fascicoli meglio riusciti del «Leonardo» di L. Russo, l'«Unità» di Rerum Scriptor e la «Voce» di Prezzolini. Il terzo tipo dalla combinazione di alcuni elementi del secondo tipo e il tipo di settimanale inglese come il «Manchester Guardian Weekly», o il «Times Weekly».

Ognuno di questi tipi dovrebbe essere caratterizzato da un indirizzo intellettuale molto unitario e non antologico, cioè dovrebbe avere una redazione omogenea e disciplinata; quindi pochi collaboratori «principali» dovrebbero scrivere il corpo essenziale di ogni fascicolo. L'indirizzo redazionale dovrebbe essere fortemente organizzato in modo da produrre un lavoro omogeneo intellettualmente, pur nella necessaria varietà dello stile e delle personalità letterarie; la redazione dovrebbe avere uno statuto scritto che, per ciò che può servire, impedisca le scorribande, i conflitti, le contraddizioni (per esempio, il contenuto di ogni fascicolo dovrebbe essere approvato dalla maggioranza redazionale prima della pubblicazione).

Un organismo unitario di cultura che offrisse ai diversi strati del pubblico i tre tipi su accennati di riviste (e d'altronde tra i tre tipi dovrebbe circolare uno spirito comune) coadiuvate da collezioni librarie corrispondenti, darebbe soddisfazione alle esigenze di una certa massa di pubblico che è piú attiva intellettualmente, ma solo allo stato potenziale, che piú importa elaborare, far pensare concretamente, trasformare, omogeneizzare, secondo un processo di sviluppo organico che conduca dal semplice senso comune al pensiero coerente e sistematico.

Tipo critico-storico-bibliografico: esame analitico di opere, fatto dal punto di vista dei lettori della rivista che non possono, generalmente, leggere le opere stesse. Uno studioso che esamina un fenomeno storico determinato, per costruire un saggio sintetico, deve compiere tutta una serie di ricerche e operazioni intellettuali preliminari che solo in piccola parte risultano utilizzate. Questo lavorio può essere invece utilizzabile per questo tipo medio di rivista, dedicato a un lettore che ha bisogno per svilupparsi intellettualmente di aver dinanzi, oltre al saggio sintetico, tutta l'attività analitica nel suo complesso che ha condotto a quel tale risultato. Il lettore comune non ha e non può avere un abito «scientifico», che solo si acquista col lavoro specializzato: occorre perciò aiutarlo a procurarsene almeno il «senso» con una attività critica opportuna. Non basta dargli dei concetti già elaborati e fissati nell'espressione «definitiva»; la loro concretezza, che è nel processo che ha condotto a quella affermazione, gli sfugge, occorre perciò offrirgli tutta la serie dei ragionamenti e dei nessi intermedi, ben individualizzati e non solo per accenni. Per esempio: un movimento storico complesso si scompone nel tempo e nello spazio e inoltre può scomporsi in piani diversi: cosí l'Azione Cattolica, pur avendo sempre avuto una direttiva unica e centralizzata, mostra grandi differenze (e anche contrasti) di atteggiamenti regionali nei diversi tempi e a seconda dei problemi speciali (per esempio la quistione agraria, l'indirizzo sindacale, ecc.).

Nelle riviste di questo tipo sono indispensabili o utili alcune rubriche: 1) un dizionario enciclopedico politico-scientifico-filosofico, in questo senso: in ogni fascicolo sono da pubblicarsi una (o piú) piccola monografia di carattere enciclopedico su concetti politici, filosofici, scientifici che ricorrono spesso nei giornali e nelle riviste e che il lettore medio difficilmente comprende o addirittura travisa. In realtà ogni corrente culturale crea un suo linguaggio, cioè partecipa allo sviluppo generale di una determinata lingua nazionale, introducendo termini nuovi, arricchendo di contenuto nuovo termini già in uso, creando metafore, servendosi di nomi storici per facilitare la comprensione e il giudizio su determinate situazioni attuali, ecc. ecc. Le trattazioni dovrebbero essere «pratiche», cioè riallacciarsi a esigenze realmente sentite, ed essere, per la forma dell'esposizione, adeguate alla media dei lettori. I compilatori dovrebbero essere possibilmente informati degli errori piú diffusi e risalire alle fonti stesse degli errori, cioè alle pubblicazioni di paccotiglia scientifica, tipo «Biblioteca popolare Sonzogno» o dizionari enciclopedici (Melzi, Premoli, Bonacci, ecc.) o enciclopedie popolari piú diffuse (quella Sonzogno, ecc.). Queste trattazioni non dovrebbero presentarsi in forma organica (per esempio, in un ordine alfabetico o di raggruppamenti per materia), né secondo un'economia prefissata di spazio, come se già fosse in vista un'opera complessiva, ma invece dovrebbero essere messe in rapporto immediato con gli argomenti svolti dalla stessa rivista o da quelle collegate di tipo superiore o piú elementare: l'ampiezza della trattazione dovrebbe essere fissata volta a volta non dall'importanza intrinseca dell'argomento ma dall'interesse immediato giornalistico (tutto ciò sia detto in generale e col solito grano di sale): insomma la rubrica non deve presentarsi come un libro pubblicato a puntate, ma come, ogni volta, trattazione di argomenti interessanti per se stessi, da cui potrà scaturire un libro, ma non necessariamente.

2) Legata alla precedente è la rubrica delle biografie, da intendersi in due sensi: sia in quanto tutta la vita di un uomo può interessare la cultura generale di un certo strato sociale, sia in quanto un nome storico può entrare in un dizionario enciclopedico per un determinato concetto o evento suggestivo. Cosí, per esempio, può darsi che si debba parlare di lord Carson, per accennare al fatto che la crisi del regime parlamentare esisteva già prima della guerra mondiale e proprio in Inghilterra, nel paese, cioè, dove questo regime pareva piú efficiente e sostanziale; ciò non vorrà dire che si debba fare tutta la biografia di lord Carson. A una persona di media cultura interessano due soli dati biografici: a) lord Carson nel 1914, alla vigilia della guerra, arruolò nell'Ulster un corpo armato numerosissimo per opporsi con l'insurrezione a che fosse applicata la legge del Home Rule irlandese, approvata dal Parlamento che, secondo «il modo di dire» inglese, «può far tutto eccetto che un uomo diventi donna»; b) lord Carson non solo non fu punito per «alto tradimento», ma divenne ministro poco dopo, allo scoppio della guerra. (Può essere utile che le biografie complete siano presentate in rubrica separata).

3) Altra rubrica può essere quella delle autobiografie politico-intellettuali. Se ben costruite, con sincerità e semplicità, esse possono essere del massimo interesse giornalistico e di grande efficacia formativa. Come uno sia riuscito a districarsi da un certo ambiente provinciale o corporativo, attraverso quali impulsi esterni e quali lotte interiori, per raggiungere una personalità superiore storicamente, può suggerire, in forma vivente, un indirizzo intellettuale e morale, oltre che essere un documento dello sviluppo culturale in certe epoche.

4) Una rubrica fondamentale può essere costituita dall'esame critico-storico-bibliografico delle situazioni regionali (intendendo per regione un organismo geoeconomico differenziato). Molti vorrebbero conoscere e studiare le situazioni locali, che interessano sempre molto, ma non sanno come fare, da dove incominciare: non conoscono il materiale bibliografico, non sanno fare ricerche nelle biblioteche, ecc. Si tratterebbe dunque di dare l'ordito generale di un problema concreto (o di un tema scientifico), indicando i libri che l'hanno trattato, gli articoli delle riviste specializzate, oltre che il materiale ancora grezzo (statistiche, ecc.), in forma di rassegne bibliografiche, con speciale diffusione per le pubblicazioni poco comuni o in lingue straniere. Questo lavoro, oltre che per le regioni, può essere fatto, da diversi punti di vista, per problemi generali, di cultura ecc.

5) Uno spoglio sistematico di giornali e riviste per la parte che interessa le rubriche fondamentali: sola citazione degli autori, dei titoli, con brevi cenni sulle tendenze: questa rubrica bibliografica dovrebbe essere compilata per ogni fascicolo, e per alcuni argomenti dovrebbe essere anche retrospettiva.

6) Recensioni di libri. Due tipi di recensione. Un tipo critico-informativo: si suppone che il lettore medio non possa leggere il libro dato, ma che sia utile per lui conoscerne il contenuto e le conclusioni. Un tipo teorico-critico: si suppone che il lettore debba leggere il libro dato e quindi esso non viene semplicemente riassunto, ma si svolgono criticamente le obiezioni che si possono muovere, si pone l'accento sulle parti piú interessanti, si svolge qualche parte che vi è sacrificata, ecc. Questo secondo tipo di recensione è piú adatto per le riviste di grado superiore.

7) Uno spoglio critico bibliografico, ordinato per argomenti o gruppi di quistioni, della letteratura riguardante gli autori e le quistioni fondamentali per la concezione del mondo che è alla base delle riviste pubblicate: per gli autori italiani e per le traduzioni in italiano degli autori stranieri. Questo spoglio dovrebbe essere molto minuzioso e circostanziato, poiché occorre tener presente che attraverso questo lavoro e questa elaborazione critica sistematica si può solo raggiungere la fonte autentica di tutta una serie di concetti errati che circolano senza controllo e censura. Occorre tener presente che in ogni regione italiana, data la ricchissima varietà di tradizioni locali, esistono gruppi e gruppetti caratterizzati da motivi ideologici e psicologici particolari: «ogni paese ha o ha avuto il suo santo locale, quindi il suo culto e la sua cappella».

La elaborazione nazionale unitaria di una coscienza collettiva omogenea domanda condizioni e iniziative molteplici. La diffusione da un centro omogeneo di un modo di pensare e di operare omogeneo è la condizione principale, ma non deve e non può essere la sola. Un errore molto diffuso consiste nel pensare che ogni strato sociale elabori la sua coscienza e la sua cultura allo stesso modo, con gli stessi metodi, cioè i metodi degli intellettuali di professione. L'intellettuale è un «professionista» (skilled), che conosce il funzionamento di proprie «macchine» specializzate; ha un suo «tirocinio» e un suo «sistema Taylor». È puerile e illusorio attribuire a tutti gli uomini questa capacità acquisita e non innata, cosí come sarebbe puerile credere che ogni manovale può fare il macchinista ferroviario. È puerile pensare che un «concetto chiaro», opportunamente diffuso, si inserisca nelle diverse coscienze con gli stessi effetti «organizzatori» di chiarezza diffusa: è questo un errore «illuministico». La capacità dell'intellettuale di professione di combinare abilmente l'induzione e la deduzione, di generalizzare senza cadere nel vuoto formalismo, di trasportare da una sfera a un'altra di giudizio certi criteri di discriminazione, adattandoli alle nuove condizioni ecc., è una «specialità», una «qualifica», non è un dato del volgare senso comune. Ecco dunque che non basta la premessa della «diffusione organica da un centro omogeneo di un modo di pensare e operare omogeneo». Lo stesso raggio luminoso passando per prismi diversi dà rifrazioni di luce diversa: se si vuole la stessa rifrazione occorre tutta una serie di rettificazioni dei singoli prismi.

La «ripetizione» paziente e sistematica è un principio metodico fondamentale: ma la ripetizione non meccanica, «ossessionante», materiale; ma l'adattamento di ogni concetto alle diverse peculiarità e tradizioni culturali, il presentarlo e ripresentarlo in tutti i suoi aspetti positivi e nelle sue negazioni tradizionali, organando sempre ogni aspetto parziale nella totalità. Trovare la reale identità sotto l'apparente differenziazione e contraddizione, e trovare la sostanziale diversità sotto l'apparente identità, è la piú delicata, incompresa eppure essenziale dote del critico delle idee e dello storico dello sviluppo storico. Il lavoro educativo-formativo che un centro omogeneo di cultura svolge, l'elaborazione di una coscienza critica che esso promuove e favorisce su una determinata base storica che contenga le premesse concrete per tale elaborazione, non può limitarsi alla semplice enunciazione teorica di principî «chiari» di metodo: questa sarebbe pura azione da «filosofi» del Settecento. Il lavoro necessario è complesso e deve essere articolato e graduato: ci deve essere la deduzione e l'induzione combinate, la logica formale e la dialettica, l'identificazione e la distinzione, la dimostrazione positiva e la distruzione del vecchio. Ma non in astratto, ma in concreto, sulla base del reale e dell'esperienza effettiva. Ma come sapere quali siano gli errori piú diffusi e radicati? Evidentemente è impossibile una «statistica» dei modi di pensare e delle singole opinioni individuali, con tutte le combinazioni che ne risultano per gruppi e gruppetti, che dia un quadro organico e sistematico della situazione culturale effettiva: dei modi in cui si presenta realmente il «senso comune»; non rimane altro che la revisione sistematica della letteratura piú diffusa e piú accetta al popolo, combinata con lo studio e la critica delle correnti ideologiche del passato, ognuna delle quali «può» aver lasciato un sedimento, variamente combinandosi con quelle precedenti e susseguenti.

In questo stesso ordine di osservazioni si inserisce un criterio piú generale: i mutamenti nei modi di pensare, nelle credenze, nelle opinioni, non avvengono per «esplosioni» rapide, simultanee e generalizzate, avvengono invece quasi sempre per «combinazioni successive», secondo «formule» disparatissime e incontrollabili «d'autorità». La illusione «esplosiva» nasce da assenza di spirito critico. Come non si è passati, nei metodi di trazione, dalla diligenza a motore animale ai moderni espressi elettrici, ma si è passati attraverso una serie di combinazioni intermedie, che in parte sussistono ancora (come la trazione animale su rotaie, ecc. ecc.) e come avviene che il materiale ferroviario invecchiato negli Stati Uniti sia utilizzato ancora per molti anni in Cina e vi rappresenti un progresso tecnico, cosí nella sfera della cultura i diversi strati ideologici si combinano variamente e ciò che è diventato «ferravecchio» in città è ancora «utensile» in provincia. Nella sfera della cultura, anzi, le «esplosioni» sono ancora meno frequenti e meno intense che nella sfera della tecnica, in cui una innovazione si diffonde, almeno nel piano piú elevato, con relativa rapidità e simultaneità. Si confonde l'«esplosione» di passioni politiche accumulatesi in un periodo di trasformazioni tecniche, alle quali non corrispondono forme nuove di una adeguata organizzazione giuridica, ma immediatamente un certo grado di coercizioni dirette e indirette, con le trasformazioni culturali, che sono lente e graduali, perché se la passione è impulsiva, la cultura è prodotto di una elaborazione complessa. (L'accenno al fatto che talvolta ciò che è diventato «ferravecchio» in città è ancora «utensile» in provincia può essere utilmente svolto).


Per una esposizione generale dei tipi principali di riviste è da ricordare l'attività giornalistica di Carlo Cattaneo. L'«Archivio Triennale» e il «Politecnico» sono da studiare con molta attenzione (accanto al «Politecnico» la rivista «Scientia» fondata dal Rignano).



Annuari e almanacchi. Il tipo di rivista «Politica» - «Critica» esige immediatamente un corpo di redattori specializzati, in grado di fornire con una certa periodicità, un materiale scientificamente elaborato e selezionato; l'esistenza di questo corpo di redattori, che abbiano raggiunto tra loro un certo grado di omogeneità culturale, è cosa tutt'altro che facile, e rappresenta un punto d'arrivo nello svolgimento di un movimento culturale. Questo tipo di rivista può essere sostituito (o anticipato) con la pubblicazione di un «Annuario». Questi «Annuari» non dovrebbero avere niente di simile ad un comune «Almanacco» popolare (la cui compilazione è legata qualitativamente al quotidiano, cioè è predisposta tenendo di vista il lettore medio del quotidiano); non deve neanche essere una antologia occasionale di scritti troppo lunghi per essere accolti in altro tipo di rivista; dovrebbe invece essere preparato organicamente, secondo un piano generale, in modo da essere come il prospetto di un determinato programma di rivista. Potrebbe essere dedicato a un solo argomento oppure essere diviso in sezioni e trattare una serie organica di quistioni fondamentali (la costituzione dello Stato, la politica internazionale, la quistione agraria, ecc.). Ogni Annuario dovrebbe stare a sé (non dovrebbe avere scritti in continuazione) ed essere fornito di bibliografie, di indici analitici, ecc.

Studiare i diversi tipi di «Almanacchi» popolari (che sono, se ben fatti, delle piccole Enciclopedie dell'attualità).



[Riviste moraleggianti.] Una rivista tipica è stata l'«Osservatore» del Gozzi, cioè il tipo di rivista moraleggiante del Settecento (che raggiunse la perfezione in Inghilterra, dove era sorta, con lo «Spectator» dell'Addison) che ebbe un certo significato storico-culturale per diffondere la nuova concezione della vita, servendo di anello di passaggio, per il lettore medio, tra la religione e la civiltà moderna. Oggi il tipo, degenerato, si conserva specialmente nel campo cattolico, mentre nel campo della civiltà moderna, si è trasformato, incorporandosi nelle riviste umoristiche, che, a loro modo, vorrebbero essere una critica «costruttiva» del costume. Le pubblicazioni tipo «Fantasio», «Charivari», ecc., che non hanno corrispondenti in Italia (qualcosa del genere erano il primitivo «Asino» di Podrecca e il «Seme», scritto per i contadini). Per alcuni aspetti sono una derivazione della rivista moraleggiante settecentesca alcune rubriche della cronaca cittadina e della cronaca giudiziaria dei quotidiani e i cosí detti «piccoli elzeviri» o corsivi.

La «Frusta letteraria» del Baretti è una varietà del tipo: rivista di bibliografia universale ed enciclopedica, critica del contenuto con tendenze moralizzatrici (critica dei costumi, dei modi di vedere, dei punti di vista, prendendo lo spunto non dalla vita e dalla cronaca, ma dai libri). «Lacerba» di Papini, per la parte non artistica, rientrò in questo tipo in modo originale e avvincente per alcune qualità, ma la tendenza «satanistica» (Gesú peccatore, Viva il maiale, Contro la famiglia, ecc., di Papini; il Giornale di bordo di Soffici; gli articoli di Italo Tavolato: Elogio della prostituzione, ecc.) era sforzata e l'originalità troppo spesso era artificio.

Il tipo generale si può dire appartenga alla sfera del «senso comune» o «buon senso», perché il suo fine è di modificare l'opinione media di una certa società, criticando, suggerendo, sbeffeggiando, correggendo, svecchiando e, in definitiva, introducendo «nuovi luoghi comuni». Sebbene scritte con brio, con un certo senso di distacco (in modo da non assumere toni da predicatore), ma tuttavia con interesse cordiale per l'opinione media, le riviste di questo tipo possono avere grande diffusione ed esercitare un influsso profondo. Non devono avere nessuna «mutria», né scientifica né moralisteggiante, non devono essere «filistee» e accademiche, né apparire fanatiche o soverchiamente partigiane: debbono porsi nel campo stesso del «senso comune», distaccandosene quel tanto che permette il sorriso canzonatorio, ma non di disprezzo o di altezzosa superiorità.

«La Pietra» e la «Compagnia della Pietra». Motto dantesco dalle rime della Pietra: «Cosí nel mio parlar voglio esser aspro».

Ogni strato sociale ha il suo «senso comune» e il suo «buon senso», che sono in fondo la concezione della vita e dell'uomo piú diffusa. Ogni corrente filosofica lascia una sedimentazione di «senso comune»: è questo il documento della sua effettualità storica. Il senso comune non è qualcosa di irrigidito e di immobile, ma si trasforma continuamente, arricchendosi di nozioni scientifiche e di opinioni filosofiche entrate nel costume. Il «senso comune» è il folclore della filosofia e sta sempre di mezzo tra il folclore vero e proprio (cioè come è comunemente inteso) e la filosofia, la scienza, l'economia degli scienziati. Il senso comune crea il futuro folclore, cioè una fase relativamente irrigidita delle conoscenze popolari di un certo tempo e luogo.



[Educazione politica.] La rivista di Gentile «Educazione politica», il cui nome fu poi trasformato. Il titolo è vecchio: Arcangelo Ghisleri diresse una rivista di questo titolo e aveva piú congruenza col fine proposto. Ma il Ghisleri quante riviste diresse e, a parte l'onestà dell'uomo, con quanta inutilità? È vero che l'educazione può prospettarsi in piani diversi per ottenere livelli diversi. Tutto sta nel livello che crede di avere il «direttore» ed è naturale che i direttori credono sempre di essere al livello piú alto e pongono come ideale la loro posizione per il minuto gregge dei lettori.



[La veste esteriore.] Confronto tra il primo numero della rivista «Leonardo» edita dal Sansoni di Firenze, e i numeri editi da Casa Treves. La differenza è molto notevole e tuttavia Casa Treves è tipograficamente non delle ultime. Grande importanza che ha la veste esteriore di una rivista, sia commercialmente, sia «ideologicamente» per assicurare la fedeltà e l'affezione: in realtà in questo caso è difficile distinguere il fatto commerciale da quello ideologico. Fattori: pagina, composta dai margini, dagli intercolonni, dall'ampiezza delle colonne (lunghezza della linea), dalla compattezza della colonna, cioè dal numero delle lettere per linea e dall'occhio di ogni lettera, dalla carta e dall'inchiostro (bellezza dei titoli, nitidezza del carattere dovuto al maggiore o minore logorío delle matrici o delle lettere a mano, ecc.). Questi elementi non hanno importanza solo per le riviste, ma anche per i quotidiani. Il problema fondamentale di ogni periodico (quotidiano o no) è quello di assicurare una vendita stabile (possibilmente in continuo incremento), ciò che significa poi possibilità di costruire un piano commerciale (in isviluppo, ecc.). Certo l'elemento fondamentale di fortuna per un periodico è quello ideologico, cioè il fatto che soddisfa o no determinati bisogni intellettuali, politici. Ma sarebbe grosso errore il credere che questo sia l'unico elemento e specialmente che esso sia valido «isolatamente» preso. Solo in condizioni eccezionali, in determinati periodi di boom dell'opinione pubblica, avviene che un'opinione, qualunque sia la forma esteriore in cui è presentata, ha fortuna. Di solito, il modo di presentazione ha una grande importanza per la stabilità dell'azienda e l'importanza può essere positiva ma anche negativa. Dare gratis o sottocosto non sempre è una «buona speculazione», come non è buona speculazione far pagare troppo caro o dare «poco» per il «proprio denaro». Ciò almeno in politica.

Di una opinione la cui manifestazione stampata non costa nulla, il pubblico diffida, ci vede sotto il tranello. E viceversa: diffida «politicamente» di chi non sa amministrare bene i fondi che il pubblico stesso dà. Come potrebbe essere ritenuto capace di amministrare il potere di Stato un partito che non ha o non sa scegliere (il che è lo stesso) gli elementi per amministrare bene un giornale o una rivista? Viceversa: un gruppo che con mezzi scarsi sa ottenere giornalisticamente risultati apprezzabili, dimostra con ciò, o già con ciò, che saprà amministrare bene anche organismi piú ampi ecc.

Ecco perché «l'esteriore» di una pubblicazione deve essere curato con la stessa attenzione che il contenuto ideologico e intellettuale: in realtà le due cose sono inscindibili e giustamente. Un buon principio (ma non sempre) è quello di dare all'esterno di una pubblicazione una caratteristica che di per sé si faccia notare e ricordare: è una pubblicità gratuita, per cosí dire. Non sempre, perché dipende dalla psicologia del particolare pubblico che si vuole conquistare.



[Informazione critica.] Individualmente nessuno può seguire tutta la letteratura pubblicata su un gruppo di argomenti e neanche su un solo argomento. Il servizio di informazione critica, per un pubblico di mediocre cultura o che si inizia alla vita culturale, di tutte le pubblicazioni sul gruppo di argomenti che piú lo possono interessare, è un servizio d'obbligo. Come i governanti hanno una segreteria o un ufficio stampa che periodicamente o quotidianamente li tengono informati di tutto ciò che si pubblica per loro indispensabile da sapere, cosí una rivista fa per il suo pubblico. Fisserà il suo compito, lo limiterà, ma questo sarà il suo compito: ciò domanda però che si dia un corpo organico e completo di informazioni: limitato, ma organico e completo. Le recensioni non devono essere casuali e saltuarie, ma sistematiche, e non possono non essere accompagnate da «rassegne riassuntive» retrospettive sugli argomenti piú essenziali.

Una rivista, come un giornale, come un libro, come qualsiasi altro modo di espressione didattica che sia predisposto avendo di mira una determinata media di lettori, ascoltatori, ecc., di pubblico, non può accontentare tutti nella stessa misura, essere ugualmente utile a tutti, ecc.: l'importante è che sia uno stimolo per tutti, poiché nessuna pubblicazione può sostituire il cervello pensante o determinare ex novo interessi intellettuali e scientifici dove esiste solo interesse per le chiacchiere da caffè o si pensa che si vive per divertirsi e passarsela buona. Perciò non bisogna turbarsi della molteplicità delle critiche: anzi la molteplicità delle critiche è la prova che si è sulla buona strada; quando invece il motivo di critica è unico, occorre riflettere: 1) perché può trattarsi di una deficienza reale; 2) perché [ci] si può essere sbagliati sulla «media» dei lettori ai quali ci si riferisce, e lavora a vuoto, «per l'eternità».



Saggi originali e traduzioni. La quistione si pone specialmente per le riviste di tipo medio ed elementare, che dovrebbero anch'esse essere composte prevalentemente di scritti originali. Occorre reagire contro l'abitudine tradizionale di riempire le riviste con traduzioni, anche se di scritti dovuti a persone «autorevoli». Tuttavia la collaborazione di scrittori stranieri non può essere abolita: essa ha la sua importanza culturale, di reazione contro il provincialismo e la meschinità. Diverse soluzioni: 1) ottenere una collaborazione originale; 2) riassumere i principali scritti della stampa internazionale, compilando una rubrica come quella dei Marginalia del «Marzocco»; 3) compilare dei supplementi periodici di sole traduzioni, con titolo parzialmente indipendente, con numerazione di pagine propria, che contenga una scelta organica, critico-informativa, delle pubblicazioni teoriche straniere. (È da vedere il tipo «Minerva» popolare, e il tipo «Rassegna della stampa estera» pubblicata dal ministero degli Esteri).



Collaborazione straniera. Non si può fare a meno di collaboratori stranieri, ma anche la collaborazione straniera deve essere organica e non antologica e sporadica o casuale. Perché sia organica è necessario che i collaboratori stranieri oltre a conoscere le correnti culturali del loro paese siano capaci di «confrontarle» con quelle del paese in cui la rivista è pubblicata, cioè conoscano le correnti culturali anche di questo e ne comprendano il «linguaggio» nazionale. La rivista pertanto (ossia il direttore della rivista) deve formare anche i suoi collaboratori stranieri per raggiungere l'organicità.

Nel Risorgimento ciò avvenne molto di rado e perciò la cultura italiana continuò a rimanere alquanto provinciale. Del resto una organicità di collaborazione internazionale si ebbe forse solo in Francia, perché la cultura francese, già prima dell'epoca liberale, aveva esercitato un'egemonia europea; erano quindi relativamente [numerosi] gli intellettuali tedeschi, inglesi, ecc. che sapevano informare sulla cultura dei loro paesi impiegando un «linguaggio» francese. Infatti non bastava che l'«Antologia» del Vieusseux pubblicasse articoli di «liberali» francesi o tedeschi o inglesi perché tali articoli potessero informare utilmente i liberali italiani, perché tali informazioni cioè potessero suscitare o rafforzare correnti ideologiche italiane: il pensiero rimaneva generico, astratto, cosmopolita. Sarebbe stato necessario suscitare collaboratori specializzati nella conoscenza dell'Italia, delle sue correnti intellettuali, dei suoi problemi, cioè collaboratori capaci di informare nello stesso tempo la Francia sull'Italia.

Tale tipo di collaboratore non esiste «spontaneamente», deve essere suscitato e coltivato. A questo modo razionale di intendere la collaborazione si oppone la superstizione di avere tra i propri collaboratori esteri i capiscuola, i grandi teorici, ecc. Non si nega l'utilità (specialmente commerciale) di avere grandi firme. Ma dal punto di vista pratico di promuovere la cultura, è piú importante il tipo di collaboratore affiatato con la rivista, che sa tradurre un mondo culturale nel linguaggio di un altro mondo culturale, perché sa trovare le somiglianze anche dove esse pare non esistano e sa trovare le differenze anche dove pare ci siano solo somiglianze, ecc.



Le recensioni. Ho accennato a diversi tipi di recensione, ponendomi dal punto di vista delle esigenze culturali di un pubblico ben determinato e di un movimento culturale, anch'esso ben determinato, che si vorrebbe suscitare: quindi recensioni «riassuntive», per i libri che si pensa non potranno esser letti e recensioni-critiche per i libri che si ritiene necessario indicare alla lettura, ma non cosí, senz'altro, ma dopo averne fissato i limiti e indicato le deficienze parziali, ecc. Questa seconda forma è la piú importante e scientificamente degna e deve essere concepita come una collaborazione del recensente al tema trattato dal libro recensito. Quindi necessità di recensori specializzati e lotta contro l'estemporaneità e la genericità dei giudizi critici.

Queste osservazioni e note sulle riviste-tipo e su altri motivi di tecnica giornalistica potranno essere raccolte e organate insieme col titolo: Manualetto di tecnica giornalistica.



Una rubrica grammaticale-linguistica. La rubrica Querelles de langage affidata nelle «Nouvelles Littéraires» ad Andre Thérive (che è il critico letterario del «Temps») mi ha colpito pensando alla utilità che una simile rubrica avrebbe nei giornali e nelle riviste italiane. Per l'Italia la rubrica sarebbe molto piú difficile da compilare, per la mancanza di grandi dizionari moderni e specialmente di grandi opere di insieme sulla storia della lingua (come i libri del Littré e del Brunot in Francia, e anche di altri) che potrebbero mettere in grado un qualsiasi medio letterato o giornalista di alimentare la rubrica stessa. L'unico esempio di tal genere di letteratura in Italia è stato l'Idioma Gentile del De Amicis; (oltre ai capitoli sul vocabolario nelle Pagine Sparse) che però aveva carattere troppo linguaiolo e retorico, oltre all'esasperante manzonismo. Carattere linguaiolo e per di piú leziosamente stucchevole aveva la rubrica iniziata da Alfredo Panzini nella prima «Fiera letteraria» di U. Fracchia, rapidamente smessa. Perché la rubrica sia interessante, il suo carattere dovrebbe essere molto spregiudicato e prevalentemente ideologico-storico, non linguaiolo e grammaticale: la lingua dovrebbe essere trattata come una concezione del mondo, come l'espressione di una concezione del mondo; il perfezionamento tecnico dell'espressione, sia quantitativo (acquisto di nuovi mezzi di espressione), sia qualitativo (acquisto delle sfumature di significato e di un ordine piú complesso sintattico e stilistico) significa ampliamento e approfondimento della concezione del mondo e della sua storia. Si potrebbe cominciare con notizie curiose: l'origine di «cretino», i significati di «villano», la stratificazione sedimentaria delle vecchie ideologie (per esempio: disastro dall'astrologia, sancire e sanzionare: rendere sacro, dalla concezione religiosa sacerdotale dello Stato, ecc.). Si dovrebbero cosí correggere gli errori piú comuni del popolo italiano, che in gran parte apprende la lingua dagli scritti (specialmente i giornali) e perciò non sa accentare giustamente le parole (per esempio «profúgo» durante la guerra: ho sentito persino, da un milanese, pronunciare «roséo» per roseo, ecc.). Errori molto gravi di significato (significato particolare esteso, o viceversa), errori e garbugli sintattici e morfologici molto curiosi (i congiuntivi dei siciliani: «si accomodasse, venisse», per «si accomodi, venga», ecc.).



Rassegne critiche bibliografiche. Una importantissima sui risultati della critica storica applicata alle origini del Cristianesimo, alla personalità storica di Gesú, agli Evangeli, alle loro differenze, agli evangeli sinottici e a quello di Giovanni, agli evangeli cosí detti apocrifi, all'importanza di san Paolo e degli apostoli, alle discussioni se Gesú possa essere l'espressione di un mito ecc. (Cfr. i libri dell'Omodeo, ecc., le collezioni del Couchoud presso l'editore Rieder, ecc.).

Lo spunto mi è stato suggerito dall'articolo di Alessandro Chiappelli Il culto di Maria e gli errori della recente critica storica nella «Nuova Antologia» del 1° dicembre 1929, contro A. Drews e il suo libro Die Marienmythe. Su questi argomenti bisognerebbe vedere gli articoli di Luigi Salvatorelli (per esempio il suo articolo nella «Rivista storica italiana», nuova serie, VII, 1928, sul nome e il culto di un divino Joshua). Nelle note di questo articolo del Chiappelli ci sono molte citazioni bibliografiche.



[Una rubrica scientifica.] Una rubrica permanente sulle correnti scientifiche. Ma non per divulgare nozioni scientifiche. Per esporre, criticare e inquadrare le «idee scientifiche» e le loro ripercussioni sulle ideologie e sulle concezioni del mondo e per promuovere il principio pedagogico-didattico della «storia della scienza e della tecnica come base dell'educazione formativa-storica nella nuova scuola».



Economia. Rassegna di studi economici italiani. 1) L'Italia nell'economia mondiale. Opere generali in cui l'economia italiana è confrontata e inserita nell'economia mondiale. Libri tipo: Mortara, Prospettive economiche; Annuario economico della Società delle Nazioni; pubblicazioni della Dresdner Bank sulle forze economiche mondiali, ecc. Libri sulla Bilancia commerciale, sull'esportazione ed importazione, sui prestiti internazionali, sulle rimesse degli emigranti (e quindi sull'emigrazione e suoi caratteri), sul turismo internazionale in Italia e suo significato economico, sui trattati commerciali, sulle crisi economiche mondiali e suoi riflessi in Italia, sulla flotta marittima e introito dei noli, sui porti franchi, sul protezionismo e liberismo, sul commercio di transito e i suoi risultati per l'economia italiana, quindi sui porti e loro hinterland non italiano (Genova e la Svizzera, Trieste e i Balcani, ecc.), pesca nei mari non italiani, cartelli e trusts internazionali e loro effetti per l'Italia, Banche e loro espansione all'estero (Banca Commerciale all'estero, Banco di Roma all'estero, ecc.), capitale straniero in Italia e capitale italiano all'estero.

2) Attrezzatura economica e produzione nazionale. Libri d'insieme sulla produzione italiana e sulla politica economica italiana, sul regime delle imposte, sulla distribuzione regionale tra industria e agricoltura e attività economiche minori; distribuzione delle grandi zone economiche nazionali e loro caratteristiche: Italia settentrionale, Italia centrale, Mezzogiorno, Sicilia, Sardegna.

3) Studi sulle economie regionali (Piemonte, Lombardia, ecc.).

4) Studi sulle economie provinciali o di zone provinciali. Pubblicazioni delle Camere di Commercio, dei Consorzi Agrari e dei Consigli provinciali di economia; pubblicazioni delle banche locali, bollettini municipali per i capoluoghi di provincia, studi di singoli studiosi, pubblicazioni di osservatori economici come quello di Palermo per la Sicilia o quello di Bari per le Puglie, ecc. La Rassegna deve avere carattere attuale, ma nelle singole parti deve avere anche carattere storico, cioè è bene accennare a studi ormai superati, ecc. A questa Rassegna può seguire o precedere un'altra rassegna sugli studi e le scuole di scienza economica e le pubblicazioni periodiche di economia e di politica economica, e sulle personalità di singoli scienziati morti e viventi.



Tradizione e sue sedimentazioni psicologiche. Che il libertarismo generico (cfr. concetto tutto italiano di «sovversivo») sia molto radicato nelle tradizioni popolari, si può studiare attraverso un esame della poesia e dei discorsi di P. Gori, che poeticamente (!) può essere paragonato (subordinatamente) al Cavallotti. C'è nel Gori tutto un modo di pensare e di esprimersi che sente di sagrestia e di eroismo di cartone. Tuttavia quei modi e quelle forme, lasciate diffondere senza contrasto e senza critica, sono penetrate molto profondamente nel popolo e hanno costituito un gusto (e forse lo costituiscono ancora).



[Argomenti di giurisprudenza.] Rassegne su argomenti di giurisprudenza che interessano determinati movimenti. Per esempio: il concetto di «impiegato» secondo la giurisprudenza italiana, il concetto di «mezzadro», di «capotecnico» ecc., ciò che significa: quale posizione hanno, nella giurisprudenza italiana, le figure economiche di «impiegato», di «mezzadro», di «capotecnico» ecc. e per quali ragioni teorico-pratiche?

Le collezioni di riviste come «Il Foro italiano», ecc., con le sentenze pubblicate e gli articoli scritti da specialisti che le commentano, dovrebbero essere attentamente compulsate, per vedere quando certe quistioni si pongono e per quali ragioni, come si sviluppano, a quale sistemazione giungono (se giungono), ecc. In fondo anche questo è un aspetto (e molto importante) della storia del lavoro, cioè il riflesso giuridico-legislativo del movimento storico reale: vedere come questo riflesso si atteggi, significa studiare un aspetto della reazione statale al movimento stesso ecc. Accanto alle sentenze e agli articoli di queste riviste tecniche, bisognerebbe vedere le altre pubblicazioni di diritto (libri, riviste, ecc.), che in questi ultimi anni si sono moltiplicate in modo impressionante, anche se la qualità è scadente.



[Guide e manualetti.] Serie di guide o manualetti per il lettore di giornali (e per il lettore in generale). Come si legge un listino di borsa, un bilancio di società industriale, ecc. (Non lunghi e solo i dati schematici fondamentali). Il riferimento dovrebbe essere il lettore medio italiano, che in generale è poco informato di queste nozioni, ecc.

L'insieme di questi manualetti potrebbe formare una collezione popolare di primo grado, che potrebbe svilupparsi in una seconda collezione di «secondo grado» di testi piú complessi e comprensivi ecc. – ambedue di tipo scolastico e compilati come sussidio a ipotetiche lezioni – e le due collezioni dovrebbero essere come introduttive alle collezioni dei testi scientifici di cultura generale e alle collezioni per specialisti. Cioè quattro collezioni: due scolastiche e due generali, graduate in piú e meno elementari ognuna nel suo genere.



[Appendici.] Per essere veramente accessibile alla cultura media del lettore medio, ogni fascicolo di rivista dovrebbe avere due appendici: 1) una rubrica in cui tutti i nomi e le parole straniere che possono essere state usate nei vari articoli dovrebbero essere rappresentate in una trascrizione fonetica, la piú esatta possibile, della lingua italiana. Quindi la necessità di costruire, con criteri pratici e unitari, quali la struttura dell'italiano scritto permette, una tabella di traducibilità dei fonemi stranieri in fonemi italiani; 2) una rubrica in cui sia dato il significato delle parole specializzate nei vari linguaggi (filosofico, politico, scientifico, religioso, ecc.) o specializzate nell'uso di un determinato scrittore.

L'importanza di questi sussidi tecnici non viene di solito valutata perché non si riflette alla remora che costituiscono nel ricordare e specialmente nell'esprimere le proprie opinioni, l'ignoranza del come si pronunziano certi nomi e del significato di certi termini. Quando il lettore si incontra in troppi «Carneade» di pronunzia o di significato, si arresta, si sfiducia delle proprie forze e attitudini e non si riesce a farlo uscire da uno stato di passività intellettuale in cui impaluda la sua intelligenza.



[Giornali d'informazione e giornali d'opinione.] Ecco come negli «Annali dell'Italia Cattolica» per il 1926 si descrivono i diversi tipi di giornale, con riferimento alla stampa cattolica: «In senso largo il giornale "cattolico" (o piuttosto "scritto da cattolici") è quello che non contiene nulla contro la dottrina e morale cattolica, e ne segue e difende le norme. Dentro tali linee il giornale può perseguire intenti politici, economico-sociali, o scientifici. Invece il giornale "cattolico" in senso stretto è quello che, d'intesa con l'Autorità Ecclesiastica, ha come scopo diretto un efficace apostolato sociale cristiano, a servizio della Chiesa e in aiuto dell'Azione Cattolica. Esso importa, almeno implicitamente, la responsabilità dell'Autorità Ecclesiastica, e però ne deve seguire le norme e direttive».

Si distingue, insomma, il giornale cosí detto d'informazione o «senza partito» esplicito, dal giornale d'opinione, dall'organo ufficiale di un determinato partito; il giornale per le masse popolari o giornale «popolare» da quello dedicato a un pubblico necessariamente ristretto.

Nella storia della tecnica giornalistica, per alcuni aspetti, può essere ritenuto «esemplare» il «Piccolo» di Trieste, come appare almeno dal libro dedicato alla storia di questo giornale da Silvio Benco (per rapporto alla legislazione austriaca sulla stampa, alla posizione dell'irredentismo italiano nell'Istria, al legalitarismo formale delle autorità imperiali e regie, alle lotte interne tra le diverse frazioni dell'irredentismo, al rapporto tra la massa popolare nazionale e la direzione politica del nazionalismo italiano, ecc.).

Per altri aspetti è stato molto interessante il «Corriere della Sera» nel periodo giolittiano o liberale in genere, se si tiene conto della situazione giornalistica e politico-culturale italiana, talmente diversa da quella francese e in generale da quella degli altri paesi europei. La divisione netta, esistente in Francia, tra giornali popolari e giornali d'opinione, non può esistere in Italia, dove manca un centro cosí popoloso e culturalmente predominante come Parigi (e dove esiste minore «indispensabilità» del giornale politico anche nelle classi superiori e cosí dette colte). È da notare inoltre come il «Corriere», pur essendo il giornale piú diffuso del paese, non sia mai stato ministeriale esplicitamente che per brevi periodi di tempo e anche a modo suo: per essere «statale» doveva anzi essere quasi sempre antiministeriale, esprimendo cosí una delle piú notevoli contraddizioni della vita nazionale.

Sarebbe utile ricercare nella storia del giornalismo italiano le ragioni tecniche e politico-culturali della fortuna che ebbe per un certo tempo il vecchio «Secolo» di Milano. Pare che nella storia del giornalismo italiano si possano distinguere due periodi: quello «primitivo» dell'indistinto generico politico culturale che rese possibile la grande diffusione del «Secolo» su un programma di un vago «laicismo» (contro l'influsso clericale) e di un vago «democraticismo» (contro l'influsso preponderante nella vita statale delle forze di destra): il «Secolo» inoltre fu il primo giornale italiano «moderno» con servizi dall'estero, con abbondanza di informazioni e di cronaca europea, ecc.; un periodo successivo in cui, attraverso il trasformismo, le forze di destra si «nazionalizzano» in senso popolare e il «Corriere» sostituisce il «Secolo» nella grande diffusione: il vago laicismo democratico del «Secolo» diventa nel «Corriere» unitarismo nazionale piú concreto, il laicismo è meno plebeo e sbracato e il nazionalismo meno popolaresco e democratizzante. È da notare come nessuno dei partiti distintisi dall'informe popolarismo «secolino» abbia tentato di ricreare l'unità democratica su un piano politico-culturale piú elevato e concreto di quello precedente e primitivo, ma questo compito sia stato abbandonato quasi senza lotta ai conservatori del «Corriere». Eppure questo dovrebbe essere il compito, dopo ogni processo di chiarificazione e distinzione: ricreare l'unità, rottasi nel movimento progressivo, su un piano superiore da parte della élite che dall'indistinto generico è riuscita a conquistare una piú concreta personalità, esercitando una funzione direttiva sul vecchio complesso da cui si è distinta e staccata. Lo stesso processo si è ripetuto nel mondo cattolico dopo la formazione del Partito Popolare, «distinzione» democratica che i destri sono riusciti a subordinare ai propri programmi. Nell'un caso e nell'altro i piccoli borghesi, pur essendo la maggioranza tra gli intellettuali dirigenti, sono stati soverchiati dagli elementi della classe fondamentale: nel campo laico gli industriali del «Corriere», nel campo cattolico la borghesia agraria unita ai grandi proprietari soverchiano i professionisti della politica del «Secolo» e del Partito Popolare, che pure rappresentano le grandi masse dei due campi, i semiproletari e piccoli borghesi della città e della campagna.



[Supplementi settimanali.] Quali giornali italiani hanno pubblicato supplementi del tipo dei giornali inglesi e di quelli tedeschi? L'esempio classico è il «Fanfulla della Domenica» del «Fanfulla», e dico classico perché il supplemento aveva una sua personalità e autorità propria. I tipi di supplemento come la «Domenica del Corriere» o la «Tribuna illustrata» sono un'altra cosa e a mala pena si possono chiamare supplementi. La «Gazzetta del Popolo» fece dei tentativi di «pagine» dedicate a un solo argomento ed ebbe la «Gazzetta letteraria» ed oggi l'«Illustrazione del Popolo». Il tentativo piú organico fu fatto dal «Tempo» di Roma nel 1919-20 con veri e propri supplementi come quello «economico» e quello «sindacale», per l'Italia assai bene riuscito. Cosí ha avuto fortuna il «Giornale d'Italia Agricolo». Un quotidiano ben fatto e che tenda a introdursi attraverso i supplementi anche dove difficilmente penetrerebbe come quotidiano dovrebbe avere una serie di supplementi mensili, di formato diverso da quello del quotidiano ma col titolo del quotidiano seguito dalla speciale materia che vuole trattare. I supplementi principali dovrebbero essere almeno: 1) letterario, 2) economico industriale sindacale, 3) agricolo. Nel letterario dovrebbe essere trattata anche la filosofia, l'arte, il teatro. Il piú difficile da farsi è quello agrario: tecnico-agrario o politico-agrario per i contadini piú intelligenti? Questo secondo tipo dovrebbe avvicinarsi a un settimanale politico, cioè riassumere tutta la politica della settimana e in piú avere una parte specificatamente agricola (non del tipo della «Domenica dell'Agricoltore»): sarebbe agricolo solo nel senso principale che è destinato ai contadini che non leggono i quotidiani, quindi tipo «Amico delle famiglie» piú parte tecnica agricola piú popolare. Supplemento sportivo, ecc.

Il supplemento letterario dovrebbe avere anche la parte scolastica, ecc. Tutto di diverso formato, secondo il contenuto, e mensili. (Il letterario come l'«Ordine Nuovo» settimanale ecc., agrario come «Amico delle famiglie», economico come «Times» letterario, ecc.).



[Giornali di Stato.] Ciò che Napoleone III disse del giornalismo durante la sua prigionia in Germania al giornalista inglese Mels Cohn (cfr. Paul Guériot, La captivité de Napoléon III en Allemagne, pp. 250, Paris, Perrin). Napoleone avrebbe voluto fare del giornale ufficiale un foglio modello, da mandare gratuitamente a ogni elettore, con la collaborazione delle penne piú illustri del tempo e con le informazioni piú sicure e piú controllate da ogni parte del mondo. La polemica, esclusa, sarebbe rimasta confinata nei giornali particolari, ecc.

La concezione del giornale di Stato è logicamente legata alle strutture governative illiberali (cioè a quelle in cui la società civile si confonde con la società politica), siano esse dispotiche o democratiche (ossia in quelle in cui la minoranza oligarchica pretende essere tutta la società, o in quelle in cui il popolo indistinto pretende e crede di essere veramente lo Stato). Se la scuola è di Stato, perché non sarà di Stato anche il giornalismo, che è la scuola degli adulti?

Napoleone argomentava partendo dal concetto che, se è vero l'assioma giuridico che l'ignoranza delle leggi non è scusa per l'imputabilità, lo Stato deve gratuitamente tenere informati i cittadini di tutta la sua attività, deve cioè educarli: argomento democratico che si trasforma in giustificazione dell'attività oligarchica. L'argomento però non è senza pregio: esso può essere «democratico» solo nelle società in cui la unità storica di società civile e società politica è intesa dialetticamente (nella dialettica reale e non solo concettuale) e lo Stato è concepito come superabile dalla «società regolata»: in questa società il partito dominante non si confonde organicamente col governo, ma è strumento per il passaggio dalla società civile-politica alla «società regolata» in quanto assorbe in sé ambedue per superarle (non per perpetuarne la contraddizione), ecc.

A proposito del regime giornalistico sotto Napoleone III, ricordare l'episodio del prefetto di polizia che ammonisce un giornale perché in un articolo sui concimi non era fissato risolutamente quale concime era il migliore: ciò, secondo il prefetto, contribuiva a lasciare nell'incertezza il pubblico ed era perciò biasimevole e degno di richiamo da parte della polizia.



Scuole di giornalismo. Nella «Nuova Antologia» del 1° luglio 1928 è pubblicato, con questo titolo, un articolo di Ermanno Amicucci, che forse in seguito è stato pubblicato in volume con altri. L'articolo è interessante per le informazioni e gli spunti che offre. È da rilevare tuttavia che in Italia la quistione è molto piú complessa da risolvere di quanto non paia leggendo questo articolo ed è da credere che i risultati delle iniziative scolastiche non possano essere molto grandi (almeno per ciò che riguarda il giornalismo tecnicamente inteso; le scuole di giornalismo saranno scuole di propaganda politica generale). Il principio, però, che il giornalismo debba essere insegnato e che non sia razionale lasciare che il giornalista si formi da sé, casualmente, attraverso la «praticaccia», è vitale e si andrà sempre piú imponendo, a mano a mano che il giornalismo, anche in Italia, diventerà un'industria piú complessa e un organismo civile piú responsabile. La quistione, in Italia, trova i suoi limiti nel fatto che non esistono grandi concentrazioni giornalistiche, per il decentramento della vita culturale nazionale, che i giornali sono molto pochi e la massa dei lettori è scarsa. Il personale giornalistico è molto limitato e quindi si alimenta attraverso le sue stesse gradazioni d'importanza: i giornali meno importanti (e i settimanali) servono da scuola per i giornali piú importanti e reciprocamente. Un redattore di secondo ordine del «Corriere» diventa direttore o redattore-capo di un giornale di provincia e un redattore rivelatosi di primo ordine in un giornale di provincia o in un settimanale, viene assorbito da un grande giornale, ecc. Non esistono in Italia centri come Parigi, Londra, Berlino, ecc., che contano migliaia di giornalisti, costituenti una vera categoria professionale diffusa, economicamente importante; inoltre le retribuzioni in Italia, come media, sono molto basse. In alcuni paesi, come quelli tedeschi, il numero dei giornali che si pubblicano in tutto il paese è imponente, e alla concentrazione di Berlino corrisponde una vasta stratificazione in provincia.

Quistione dei corrispondenti locali, che raramente (solo per le grandi città e in generale per quelle dove si pubblicano settimanali importanti) possono essere giornalisti di professione.

Per certi tipi di giornale il problema della scuola professionale deve essere risolto nell'ambito della stessa redazione, trasformando o integrando le riunioni periodiche redazionali in scuole organiche di giornalismo, ad assistere alle cui lezioni dovrebbero essere invitati anche elementi estranei alla redazione in senso stretto: giovani e studenti, fino ad assumere il carattere di vere scuole politico-giornalistiche, con lezioni di argomenti generali (di storia, di economia, di diritto costituzionale, ecc.) affidate anche a estranei competenti e che sappiano investirsi dei bisogni del giornale.

Si dovrebbe partire dal principio che ogni redattore o reporter dovrebbe essere messo in grado di compilare e dirigere tutte le parti del giornale, cosí come, subito, ogni redattore dovrebbe acquistare le qualità di reporter, cioè dare tutta la sua attività al giornale, ecc.

A proposito del numero dei giornalisti italiani, l'«Italia Letteraria» del 24 agosto 1930 riferisce i dati di un censimento eseguito dalla Segreteria del Sindacato Nazionale dei giornalisti: al 30 giugno erano inscritti 1.960 giornalisti dei quali 800 affiliati al Partito fascista, cosí ripartiti: sindacato di Bari 30 e 26, Bologna 108 e 40, Firenze 108 e 43, Genova 113 e 39, Milano 348 e 143, Napoli 106 e 45, Palermo 50 e 17, Roma 716 e 259, Torino 144 e 59, Trieste 90 e 62, Venezia 147 e 59.



I giornali delle grandi capitali. Una serie di saggi sul giornalismo delle piú importanti capitali degli Stati del mondo, seguendo questi criteri: 1) Esame dei giornali quotidiani che in un giorno determinato (non scelto a caso, ma in cui è registrato un qualche avvenimento importante per lo Stato in quistione) escono in una capitale – Londra, Parigi, Madrid, Berlino, Roma, ecc., – per avere un termine il piú omogeneo possibile di comparazione, cioè l'avvenimento principale e la relativa somiglianza degli altri, in modo da avere un quadro del modo diverso con cui i partiti e le tendenze riflettono le loro opinioni e formano la cosí detta opinione pubblica. Ma perché nessun giornale quotidiano, specialmente in certi paesi, non è quotidianamente lo stesso dal punto di vista tecnico, occorrerà procurarsi per ognuno gli esemplari di una intera settimana o del periodo in cui si ha il ciclo completo di certe rubriche specializzate e di certi supplementi, il cui complesso permette di comprendere la fortuna che hanno presso gli assidui.

2) Esame di tutta la stampa periodica di ogni specie (da quella sportiva, ai bollettini parrocchiali) che completa l'esame dei quotidiani, in quanto sono pubblicati dopo il quotidiano tipo.

3) Informazioni sulla tiratura, sul personale, sulla direzione, sui finanziatori, sulla pubblicità. Insomma, si dovrebbe ricostruire per ogni capitale l'assieme del meccanismo editoriale periodico che diffonde le tendenze ideologiche che operano continuamente e simultaneamente sulla popolazione.

4) Stabilire il rapporto della stampa della capitale con quella delle province; questo rapporto varia da paese a paese. In Italia la diffusione dei giornali romani è molto inferiore a quella dei giornali milanesi. L'organizzazione territoriale della stampa francese è diversissima che in Germania ecc. Il tipo del settimanale politico italiano è forse unico nel mondo e corrisponde a un tipo di lettore determinato.

5) Per certi paesi occorre tener conto dell'esistenza di altri centri dominanti oltre la capitale, come Milano per l'Italia, Barcellona per la Spagna, Monaco per la Germania, Manchester e Glasgow per l'Inghilterra, ecc.

6) Per l'Italia lo studio potrebbe essere esteso a tutto il paese e a tutta la stampa periodica, graduando l'esposizione per importanza dei centri: per es.: 1° Roma, Milano; 2° Torino, Genova; 3° Trieste, Bologna, Napoli, Palermo, Firenze, ecc.; 4° Stampa settimanale politica; 5° Riviste politiche, letteratura, scienza, religione, ecc.



[Settimanali provinciali.] Il tipo di settimanale provinciale che era diffuso tradizionalmente in Italia, coltivato specialmente dai cattolici e dai socialisti, rappresentava adeguatamente le condizioni culturali della provincia (villaggio e piccola città). Nessun interesse per la vita internazionale (altro che come curiosità e stranezza), poco interesse per la stessa vita nazionale, se non in quanto legata agli interessi locali, specialmente elettorali; tutto l'interesse per la vita locale, anche per i pettegolezzi e le minuzie. Grande importanza per la polemica personale (di carattere gaglioffesco e provinciale: far apparire stupido, ridicolo, disonesto l'avversario, ecc.). L'informazione ridotta solo alle corrispondenze dai vari villaggi. Commenti politici generici che presupponevano la informazione data dai quotidiani, che i lettori del settimanale non leggevano e si supponeva appunto non leggessero (per ciò si faceva per loro il settimanale).

Il redattore di questi settimanali era di solito un intellettuale mediocre, pretenzioso e ignorante, pieno di cavilli e di sofismi banali. Riassumere il quotidiano sarebbe stato per lui una «vergogna»: pretendeva fare un settimanale tutto di articoli di fondo e di pezzi «brillanti» e inventare teorie con tanto di barba in economia, in politica, in filosofia.

Proprio in Italia, data la infelice disposizione geografica e l'assenza di un centro politico e intellettuale nazionale, avrebbe invece dovuto aver fortuna il tipo di settimanale inglese («Observer», «Times Sunday», ecc.) che è redatto sul tipo del quotidiano: cioè ogni settimana informa i lettori che non leggono il giornale, o vogliono avere, ogni settimana, un quadro riassuntivo della vita di tutta la settimana. Questo tipo inglese è da studiare e adattare teoricamente alle condizioni italiane. Esso dovrebbe (settimanale, bisettimanale) sostituire il quotidiano in larghe zone dove il quotidiano non avrebbe le premesse sufficienti (Napoli, Firenze, Palermo, ecc.; in generale nei capoluoghi di regione e anche di provincia non industriali: ricordare esempi come Biella, Como, Tortona che volevano il settimanale benché industriali e consumatori di giornali. Cosí Alessandria, Cuneo, Fossano, ecc. In Italia il settimanale cosí redatto avrebbe lo stesso ufficio dei tanti piccoli quotidiani provinciali tedeschi e svizzeri).



I titoli. Tendenza a titoli magniloquenti e pedanteschi, con opposta reazione di titoli cosí detti «giornalistici» cioè anodini e insignificanti. Difficoltà dell'arte dei titoli che dovrebbero riassumere alcune esigenze: di indicare sinteticamente l'argomento centrale trattato, di destare interesse e curiosità spingendo a leggere. Anche i titoli sono determinati dal pubblico al quale il giornale si rivolge e dall'atteggiamento del giornale verso il suo pubblico: atteggiamento demagogico-commerciale quando si vuole sfruttare le tendenze piú basse; atteggiamento educativo-didattico, ma senza pedanteria, quando si vuole sfruttare il sentimento predominante nel pubblico, come base di partenza per un suo elevamento. Il titolo «Brevi cenni sull'universo», come caricatura del titolo pedantesco e pretenzioso.



Capocronista. Difficoltà di creare dei buoni capi cronisti, cioè dei giornalisti tecnicamente preparati a comprendere ed analizzare la vita organica di una grande città, impostando in questo quadro (senza pedanteria, ma anche non superficialmente e senza «brillanti» improvvisazioni) ogni singolo problema mano mano che diventa d'attualità. Ciò che si dice del capocronista può estendersi a tutta una serie d'attività pubbliche: un buon capocronista dovrebbe avere la preparazione tecnica sufficiente e necessaria per diventare podestà o anche prefetto, o presidente (effettivo) di un Consiglio provinciale d'economia tipo attuale; e dal punto di vista giornalistico dovrebbe corrispondere al corrispondente locale di una grande città (e via via, in ordine di competenza e di ampiezza decrescente dei problemi, delle medie, piccole città e dei villaggi).

In generale, le funzioni di un giornale dovrebbero essere equiparate a corrispondenti funzioni dirigenti della vita amministrativa e da questo punto di vista dovrebbero essere impostate le scuole di giornalismo, se si vuole che tale professione esca dallo stadio primitivo e dilettantesco in cui oggi si trova, diventi qualificata e abbia una compiuta indipendenza, cioè il giornale sia in grado di offrire al pubblico informazioni e giudizi non legati a interessi particolari. Se un capocronista informa il pubblico «giornalisticamente», come si dice, ciò significa che il capocronista accetta senza critica e senza giudizio indipendente informazioni e giudizi, attraverso interviste o tuyaux, di persone che intendono servirsi del giornale per promuovere determinati interessi particolari.

Dovrebbero esistere due tipi di capocronaca: 1) il tipo organico e 2) il tipo di piú spiccata attualità. Col tipo organico, per dare un punto di vista comprensivo, dovrebbe essere possibile compilare dei volumi sugli aspetti piú generali e costanti della vita di una città, dopo aver depurato gli articoli di quegli elementi d'attualità che devono esistere sempre in ogni pubblicazione giornalistica; ma per intendersi, in questi articoli «organici» l'elemento di attualità deve essere subordinato e non principale. Questi articoli organici perciò non devono essere molto frequenti. Il capocronista studia l'organismo urbano nel suo complesso e nella sua generalità, per avere la sua qualifica professionale (solo limitatamente un capocronista può cambiare di città: la sua superiore qualifica non può non essere legata a una determinata città): i risultati originali, o utili in generale, di questo studio organico, è giusto che non siano completamente disinteressati, che non siano solo premessa, ma si manifestino anche immediatamente, cogliendo uno spunto di attualità. La verità è che il lavoro di un capocronista è altrettanto vasto di quello di un redattore capo, o di un caposervizio in una organizzazione giornalistica con divisione del lavoro organica. In una scuola di giornalismo occorrerebbe avere una serie di monografie su grandi città e sulla loro vita complessa. Il solo problema dell'approvvigionamento di una grande città è tale da assorbire molto lavoro e molta attività (su altre branche d'attività di un capocronista ho scritto altre note). Cfr. il libro di W. P. Hedden, How great Cities are fed, Hearth, Boston, 1929, Doll. 2.80, recensito nel «Giornale degli Economisti» del gennaio del 1931. Lo Hedden prende in esame l'approvvigionamento di alcune città degli Stati Uniti, specialmente di New York.



Corrispondenti dall'estero. Confrontare altra nota in proposito nella rubrica Riviste-tipo. In essa si accennava ai collaboratori stranieri di riviste italiane. Il tipo del «corrispondente dall'estero» di un quotidiano è qualcosa di diverso, tuttavia alcune osservazioni dell'altra nota sono valide anche per questa attività. Intanto non bisogna concepire il corrispondente dall'estero come un puro reporter o trasmettitore di notizie del giorno per telegramma o per telefono, cioè una integrazione delle agenzie telegrafiche. Il tipo moderno piú compiuto di corrispondente dall'estero è il pubblicista di partito, il critico politico che osserva e commenta le correnti politiche piú vitali di un paese straniero e tende a diventare uno «specialista» sulle quistioni di quel dato paese (i grandi giornali perciò hanno «uffici di corrispondenza» nei diversi paesi, e il capo ufficio è lo «scrittore politico», il direttore dell'ufficio). Il corrispondente dovrebbe mettersi in grado di scrivere, entro un tempo determinato, un libro sul paese dove è mandato per risiedervi permanentemente, un'opera completa su tutti gli aspetti vitali della sua vita nazionale ed internazionale. (Altro è il corrispondente viaggiante che va in un paese per informare su grandi avvenimenti immediati che vi si svolgono).

Criteri per la preparazione e la formazione di un corrispondente: 1) Giudicare gli avvenimenti nel quadro storico del paese stesso e non solo con riferimento al suo paese d'origine. Ciò significa che la posizione di un paese deve essere misurata dai progressi o regressi verificatisi in quel paese stesso e non può essere meccanicamente paragonata alla posizione di altri paesi, nello stesso momento. Il paragone tra Stato e Stato ha importanza, perché misura la posizione relativa di ognuno di essi: infatti un paese può progredire, ma se in altri il progresso è stato maggiore o minore, la posizione relativa muta, e muta la influenza internazionale del paese dato. Se giudichiamo l'Inghilterra da ciò che essa era prima della guerra, e non da ciò che essa è oggi in confronto della Germania, il giudizio muta, sebbene anche il giudizio di paragone abbia grande importanza. 2) I partiti in ogni paese hanno un carattere nazionale, oltre che internazionale: il liberalismo inglese non è uguale a quello francese o a quello tedesco, sebbene ci sia molto di comune, ecc. 3) Le giovani generazioni sono in lotta con le vecchie nella misura normale in cui i giovani sono in lotta coi vecchi, oppure i vecchi hanno un monopolio culturale divenuto artificiale o dannoso? I partiti rispondono ai problemi nuovi o sono superati e c'è crisi? ecc.

Ma l'errore piú grande e piú comune è quello di non saper uscire dal proprio guscio culturale e misurare l'estero con un metro che non gli è proprio: non vedere la differenza sotto le apparenze uguali e non vedere l'identità sotto le diverse apparenze.



La rassegna della stampa. Nel giornalismo tradizionale italiano la rubrica della «rassegna della stampa» è sempre stata poco sviluppata, nonostante che in esso la parte polemica abbia sempre avuto una funzione spesso esorbitante: ma appunto si trattava di polemica spicciola, occasionale, legata piú al temperamento litigioso dell'individualismo italiano che a un disegno programmatico di rendere un servizio al pubblico dei lettori.

Occorre distinguere tra la rassegna della stampa dei giornali d'informazione e quella dei giornali d'opinione: la prima è anch'essa un servizio d'informazione, cioè il giornale dato offre quotidianamente ai suoi lettori, ordinati e rubricati, i giudizi sugli avvenimenti in corso pubblicati dagli altri giornali (cosí fanno molti giornali francesi: i giornali italiani dànno queste informazioni nei servizi da Roma per i giornali della capitale ecc., cioè nel corpo del giornale stesso e come notizie a sé stanti); nei giornali d'opinione la rubrica ha un'altra funzione: serve per ribadire i propri punti di vista, per sminuzzarli, per presentarne, in contraddittorio, tutte le faccette e tutta la casistica. Appare quanto sia utile «didatticamente» questo modo di «ripetere» non meccanicamente e senza pedanteria le proprie opinioni: la «ripetizione» acquista un carattere quasi «drammatico» e di attualità, come obbligo di replicare a un avversario. A mia conoscenza, la migliore «rassegna della stampa» è quella dell'«Action Française» tanto piú se si considera come rassegna della stampa (come è in realtà) anche il quotidiano articolo di Maurras. Si vede che tra lo scritto di Maurras e la «rassegna della stampa» propriamente detta dell'«Action Française» c'è una divisione di lavoro: Maurras si attribuisce i «pezzi» polemici di maggiore importanza teorica. È da osservare che la rassegna della stampa non può essere lasciata a uno scagnozzo qualsiasi di redazione, come fanno spesso alcuni giornali: essa domanda il massimo di responsabilità politica e intellettuale e il massimo di capacità letteraria e di inventività negli spunti, nei titoletti ecc. poiché le ripetizioni, necessarie, dovrebbero essere presentate col massimo di varietà formale ed esteriore. (Esempio degli Scampoli di G. M. Serrati che, a loro modo, erano una rassegna della stampa: molto letti, forse la prima cosa che il lettore cercava ogni giorno, sebbene non fossero sistematici e non sempre di un alto livello intellettuale; le Opinioni del Missiroli nel «Resto del Carlino» e nella «Stampa» – in volume – cosí la rubrica del Fromboliere del «Popolo d'Italia» la Dogana in «Critica Fascista», la Rassegna della Stampa nell'«Italia Letteraria»).



La cronaca giudiziaria. Si può osservare che la cronaca giudiziaria dei grandi giornali è redatta come un perpetuo «Mille e una notte» concepito secondo gli schemi del romanzo d'appendice. C'è la stessa varietà di schemi sentimentali e di motivi: la tragedia, il dramma frenetico, l'intrigo abile e intelligente, la farsa. Il «Corriere della Sera» non pubblica romanzi d'appendice: ma la sua pagina giudiziaria ne ha tutte le attrattive, con in piú la nozione, sempre presente, che si tratta di fatti veri.



Rubriche scientifiche. Il tipo italiano del giornale quotidiano è determinato dall'insieme delle condizioni organizzative della vita culturale nel paese: mancanza di una vasta letteratura di divulgazione, sia attraverso il libro che la rivista. Il lettore del giornale vuole perciò trovare nel suo foglio un riflesso di tutti gli aspetti della complessa vita sociale di una nazione moderna. È da rilevare il fatto che il giornale italiano, relativamente meglio fatto e piú serio che in altri paesi, abbia nel paese trascurato l'informazione scientifica, mentre esisteva un corpo notevole di giornalisti specializzati per la letteratura economica, letteraria ed artistica. Anche nelle riviste piú importanti (come la «Nuova Antologia» e la «Rivista d'Italia») la parte dedicata alle scienze era quasi nulla (oggi le condizioni sono mutate da questo punto di vista e il «Corriere della Sera» ha una serie di collaboratori, specializzati nelle quistioni scientifiche, molto notevole). Sono sempre esistite riviste scientifiche di specialisti, ma mancavano le riviste di divulgazione (è da vedere l'«Arduo» che usciva a Bologna diretto da Sebastiano Timpanaro; molto diffusa la «Scienza per Tutti» della Casa Sonzogno, ma per un giudizio di essa basta ricordare che fu diretta per molti anni da... Massimo Rocca).

L'informazione scientifica dovrebbe essere integrante di qualsiasi giornale italiano, sia come notiziario scientifico-tecnologico, sia come esposizione critica delle ipotesi e opinioni scientifiche piú importanti (la parte igienico-sanitaria dovrebbe costituire una rubrica a sé). Un giornale popolare, piú degli altri, dovrebbe avere questa sezione scientifica, per controllare e dirigere la cultura dei suoi lettori, che spesso è «stregonesca» o fantastica e per «sprovincializzare» le nozioni correnti.

Difficoltà di avere specialisti che sappiano scrivere popolarmente: si potrebbe fare lo spoglio sistematico delle riviste generali e speciali di cultura professionale, degli atti delle Accademie, delle pubblicazioni straniere e compilare estratti e riassunti in appendici speciali, scegliendo accuratamente e con intelligenza delle esigenze culturali del popolo, gli argomenti e il materiale.



Almanacchi. Poiché il giornalismo è stato considerato, nelle note ad esso dedicate, come esposizione di un gruppo che vuole, attraverso diverse attività pubblicistiche, diffondere una concezione integrale del mondo, si può prescindere dalla pubblicazione di un almanacco? L'almanacco è, in fondo, una pubblicazione periodica annuale, in cui, anno per anno, si esamina l'attività storica complessa di un anno da un certo punto di vista. L'almanacco è il «minimo» di «pubblicità» periodica che si può dare alle proprie idee e ai propri giudizi sul mondo e la sua varietà mostra quanto nel gruppo si sia venuto specializzando ogni singolo momento di tale storia, cosí come la organicità mostra la misura di omogeneità che il gruppo è venuto acquistando. Certo, per la diffusione, occorre che l'almanacco tenga conto di determinati bisogni del gruppo di compratori cui si rivolge, gruppo che non può, spesso, spendere due volte, per uno stesso bisogno. Occorrerà pertanto scegliere il contenuto: 1) quelle parti che rendono inutile l'acquisto di altro almanacco; 2) quella parte per cui si vuole influire sui lettori per indirizzarli secondo un senso prestabilito. La prima parte sarà ridotta al minimo: a quanto basta per soddisfare il bisogno dato. La seconda parte insisterà su quegli argomenti che si ritengono di maggior peso educativo e formativo.



[Giornalismo.] Mark Twain, quando era direttore di un giornale in California, pubblicò una vignetta che rappresentava un asino morto in fondo a un pozzo, con la dicitura: «Questo asino è morto per non aver ragliato». Il Twain voleva porre in evidenza l'utilità della réclame giornalistica, ma la vignetta può avere anche altri significati.



I giornali tedeschi. Tre grandi concentrazioni giornalistiche: Ullstein, Mosse, Scherl, le due prime democratiche, la terza di destra (stampa di Hugenberg).

La Casa Ullstein stampa: la «Vossische Zeitung», per il pubblico colto, di scarsa tiratura (40.000 copie?) ma di importanza europea, diretta da Giorgio Bernhard (passa per essere troppo francofila); la «Morgenpost», il piú diffuso giornale di Berlino e forse della Germania (forse 500.000 copie), per la piccola borghesia e gli operai; la «Berliner Allgemeine Zeitung», che si occupa di quistioni cittadine; la «Berliner Illustrierte» (come «La Domenica del Corriere»), diffusissima: la «Berliner Zeitung am Mittag», sensazionale e che trova ogni giorno 100.000 lettori; l'«Uhu», il «Querschnitt» («La trasversale») e «Die Koralle», tipo «Lettura»; e altre pubblicazioni di mode, di commercio, di tecnica, ecc. La Ullstein è legata col «Telegraaf» di Amsterdam, l'«Az Est» di Budapest, la «Neue Freie Presse» (a Ullstein si appoggia per le informazioni da Berlino il «Corriere della Sera»).

La casa editrice Rudolph Mosse pubblica il grande quotidiano democratico «Berliner Tageblatt» (300.000 copie), diretto da Teodoro Wolf con 17 supplementi (Beilagen) e con edizioni speciali per l'estero in tedesco, in francese, in inglese, di importanza europea, costoso e difficile per la piccola gente; «Berliner Morgenzeitung», «Berliner Volkszeitung», in istile popolare, ma delle stesse direttive politiche. Alla casa Mosse si appoggia la «Stampa» di Torino.

Casa editrice Scherl: «Lokal Anzeiger», lettura prediletta dei bottegai e della piccola borghesia fedele alla vecchia Germania imperiale; il «Tag», per un pubblico piú scelto; la «Woche», la «Gartenlaube» (il «Pergolato»).

Giornali da destra a sinistra: «Deutsche Zeitung», ultra nazionalista, ma poco diffusa; «Völkischer Beobachter» di Hitler, poco diffuso (20.000). Poco diffusa è anche la «Neue Preussische Zeitung» (10.000) che continua ad esser chiamata «Kreuzzeitung»: è l'organo classico degli Junker (latifondisti prussiani), ex-ufficiali nobili, monarchici e assolutisti, rimasti ricchi e solidi perché poggianti sulla proprietà terriera; ma invece tira 100.000 copie la «Deutsche Tageszeitung», organo del Bund der Landwirte (Federazione degli agrari), che va in mano dei minori proprietari e dei fattori e contribuisce a mantenere fedele all'antico regime l'opinione pubblica delle campagne.

Tedesco nazionali: il «Tag» (100.000); «Lokal Anzeiger» (180.000); «Schlesische Zeitung»; «Berliner Börsen Zeitung» (giornale finanziario di destra); «Tägliche Rundschau» (30.000), ma importante perché era ufficioso di Streseman; «Deutsche Allgemeine Zeitung», organo dell'industria pesante, anch'esso tedesco-popolare. Altri giornali tedesco-popolari, cioè di destra moderata con adesione condizionata all'attuale regime e diffusi tra gli industriali, sono: la «Magdeburgische Zeitung», la «Kölnische Zeitung» (52.000), di fama europea per la sua autorità in politica estera, l'«Hannoverschej Kurier», le «Münchner Neueste Nachrichten» (135.000) e le «Leipziger Neueste Nachrichten» (170.000).

Giornali del centro: la «Germania» (10.000), ma diffusissimi sono i giornali cattolici di provincia come la «Kölnische Volkszeitung».

I giornali democratici sono i meglio fatti: «Vossische Zeitung», «Berliner Tageblatt», «Berliner Börsen Courier», «Frankfurter Zeitung». I socialdemocratici hanno un giornale umoristico: «Lachen links» (risa a sinistra).



[Un manuale di giornalismo.] Albert Rival, Le journalisme appris en 18 leçons, Albin Michel, 1931, L. 3,50. In quattro parti: 1) Storia del giornalismo: Origini del giornalismo. I grandi giornalisti. 2) Come si fa un giornale: Redazione. Impressione: composizione, correzione, impaginazione, clichérie, tiratura. 3) Qualità richieste a un giornalista: Cos'è un giornalista? Attitudini richieste. Qualità richieste. La donna può aspirare al giornalismo? 4) Lo stile del giornalista: Stile in generale. Generi di stile. Della composizione. La descrizione. Come non bisogna scrivere. L'articolo d'informazione. Il grande reportage: come vien fatto. L'articolo di fondo. L'articolo polemico. Organizzazione d'un giornale. (Schema elementare e difettoso. Manca l'accenno ai diversi tipi di giornali, ecc.).


Giornalismo. Confrontare Luigi Villari, Giornalismo britannico di ieri e di oggi, «Nuova Antologia», 1° maggio 1931.

IV. Appendice

Lorianismo



Di alcuni aspetti deteriori e bizzarri della mentalità di un gruppo di intellettuali italiani e quindi della cultura nazionale (disorganicità, assenza di spirito critico sistematico, trascuratezza nello svolgimento dell'attività scientifica, assenza di centralizzazione culturale, mollezza e indulgenza etica nel campo dell'attività scientifico-culturale ecc., non adeguatamente combattute e rigidamente colpite: quindi irresponsabilità verso la formazione della cultura nazionale), che possono essere descritti sotto il titolo comprensivo di «lorianismo».

Registro dei principali «documenti», in cui si trovano le principali «bizzarrie» di Achille Loria. (Ricordati a memoria: esiste ora la Bibliografia di Achille Loria, compilata da Luigi Einaudi, supplemento al n. 5, settembre-ottobre 1932, della «Riforma Sociale»; la lista non è completa, evidentemente, e forse mancano «bizzarrie» ben piú significative di quelle ricordate. La fatica dell'Einaudi è anch'essa significativa, poiché avvalora la «dignità» scientifica del Loria, e mette necessariamente, dinanzi al lettore-giovane contemporaneo, tutti gli scritti del Loria su uno stesso «piano», colpendo la fantasia con la massa del «lavoro» fatto dal Loria: 884 numeri in questi tempi di civiltà «quantitativa». L'Einaudi merita per questa sua «fatica» di essere iscritto ad honorem nella lista dei Loriani; d'altronde è da notare che l'Einaudi, come organizzatore di movimenti culturali, è responsabile delle «bizzarrie» del Loria e su questo punto particolare sarebbe da scrivere una nota).

1) Le influenze sociali dell'aviazione (Verità e fantasia) in «Rassegna Contemporanea» (diretta da Colonna di Cesarò e da V. Picardi), Roma, III fascicolo, 1° gennaio 1910, pp. 20-28, ripubblicato nel II vol. di Verso la giustizia sociale (Idee, battaglie ed apostoli), che ha come titolo proprio Nell'alba di un secolo (1904-1915), Milano, Società Editrice Libraria, 1915, in 8°, pp. 522. (Non mi pare che nella pubblicazione nella «Rassegna Contemporanea», esistesse il sottotitolo Verità e fantasia: occorrerebbe vedere se la ristampa in volume presenta dei cambiamenti nel testo). Questo articolo è tutto un capolavoro di «bizzarrie»: vi si trova la teoria dell'emancipazione operaia dalla coercizione del salario di fabbrica non piú ottenuta per mezzo della «terra libera» ma per mezzo degli aeroplani che opportunamente unti di vischio, permetteranno l'evasione dalla presente società con il nutrimento assicurato dagli uccelli impaniati; una teoria della caduta del credito fiduciario, dello sfrenarsi delle birbonate sessuali (adulteri impuniti, seduzioni, ecc.); sull'ammazzamento sistematico dei portinai per le cadute di cannocchiali; un compendio della teoria, altrove svolta, sul grado di moralità secondo l'altezza dal livello del mare, con la proposta pratica di rigenerare i delinquenti portandoli nelle alte sfere dell'aria su immensi aeroplani, correzione di una precedente proposta di edificare le carceri in alta montagna, ecc. ecc. (Questo articolo, data l'amenità del contenuto, si presta a diventare «libro di testo negativo» per una scuola di logica formale e di buon senso scientifico).

2) Una conferenza tenuta a Torino durante la guerra e pubblicata subito dopo nella «Nuova Antologia» (nella Bibliografia di Einaudi, al n. 222 è citata una conferenza – La pietà della scienza – conferenza tenuta il 13 dicembre 1915 a beneficio degli ospedali territoriali di Torino della Croce Rossa e pubblicata in «Conferenze e Prolusioni», IX, n. 1, e che potrebbe essere quella in quistione). Il Loria parlò del «dolore universale» in modo molto «bizzarro», come appare da ciò, che unico documento concreto da lui esibito per dimostrare una legge universale del dolore fu la lista di ciò che costa la claque agli attori di teatro, secondo una statistica fissata dal Reina (quindi mostruoso dolore degli attori). È vero che, secondo il suo metodo solito, il Loria fece intravedere la parte positiva del problema, affermando seriamente che la natura provvidenziale crea una difesa e un antidoto contro l'avvelenamento universale del dolore come si vede dal fatto che i poverelli costretti a pernottare all'aria aperta e sul nudo sasso hanno la pelle piú spessa degli uomini che dormono sulle soffici piume.

3) Articolo Perché i veneti non addoppiano ed i valtellinesi triplano; l'Einaudi lo cita al n. 697 e dopo il titolo aggiunge «in Miscellanea di studi in onore di Attilio Hortis» annotando: «È l'estratto in un foglietto di 1 col., ma nella Miscellanea c. s. edita in Trieste, maggio 1909, 2 voll., p. 1050, con ritr. non si rileva questo articolo». L'articolo era stato inviato dal Loria al Comitato triestino per le onoranze ad Attilio Hortis nel cinquantenario della sua attività letteraria; il Comitato non poteva inserire l'articolo nella Miscellanea per la sua ridicola insulsaggine, ma non volle neppure mancare di riguardi al Loria che a Trieste era un esponente «illustre» della scienza italiana. Cosí fu comunicato al Loria che il suo «contributo» non poteva essere pubblicato nella Miscellanea già stampata in tipografia e che l'avrebbe pubblicato il (settimanale) letterario «Il Palvese». L'estratto catalogato dall'Einaudi è del «Palvese», dove occorrerebbe rintracciarlo per curiosità. L'articolo espone un aspetto (quello linguistico) della dottrina loriana sull'influenza dell'«altimetria» sullo sviluppo della civiltà (ciò che dimostra, tra l'altro, che in Loria non manca lo spirito di sistema e una certa coerenza e quindi che le sue «bizzarrie» non sono casuali e dovute ad impulsi di dilettantismo improvvisatore, ma corrispondono a un sustrato «culturale» che affiora continuamente): i montanari, moralmente piú puri, fisicamente piú robusti, «triplicano» le consonanti; la gente di pianura, invece (e guai se si tratta di popolazioni che stanno al livello del mare, come i veneziani), oltre che moralmente depravata, è anche fisicamente degenerata e non riesce neppure ad «addoppiare». Il Loria ricorre alla «testimonianza della propria coscienza» e afferma che da malato egli non riesce a domandare alla cameriera che una scempia taza di brodo.

4) La prefazione alla 1a edizione di una delle prime opere «scientifiche» del Loria, in cui il Loria parla della sua prolusione all'Università di Siena, e della impressione suscitata nel pubblico accademico dall'esposizione delle sue «originali» dottrine materialistiche: vi si trova accennata la sua teoria della connessione tra «misticismo» e «sifilide» (per «misticismo» il Loria intende tutti gli atteggiamenti che non siano «positivistici» o materialistici in senso volgare). Su tale argomento, nella Bibliografia è citato un articolo: Sensualità e misticismo in «Rivista Popolare», XV, 15 novembre 1909, pp. 577-578.

5) «Documenti ulteriori a suffragio dell'economismo storico» nella «Riforma Sociale» del settembre-ottobre 1929.

Questi cinque «documenti» sono i piú vistosi che si ricordino in questo momento: ma è da ricordare che nel caso del Loria non si tratta di qualche caso di «dormicchiamento» intellettuale, sia pure con ricadute negli stessi delirii: si tratta di un filone «profondo», di una continuità abbastanza sistematica che accompagna tutta la sua carriera letteraria. Né si può negare che il Loria sia uomo di ingegno e che abbia del giudizio. In tutta una serie di articoli le «bizzarrie e stranezze» appaiono qua e là, estemporaneamente, ma ci sono quelle di un certo tipo, legate cioè a determinati «nessi di pensiero». Per esempio, si vede la teoria «altimetrica» apparire nella quistione «penitenziaria» e in quella «linguistica». Cosí in un articoletto pubblicato nella «Prora» che usciva a Torino durante la guerra (diretto da un certo Cipri-Romanò, giornalettucolo un po' losco, certamente di bassissima speculazione ai margini della guerra e dell'antidisfattismo) si dividevano i protagonisti della guerra mondiale in mistici (Guglielmo e Francesco Giuseppe o Carlo) e positivisti (Clémenceau e Lloyd George) e si parlava della fine dello zarismo come di un destino antimistico (nello stesso numero della «Prora» apparve Il vipistrello disfattista di Esuperanzo Ballerini).

Ricca di elementi comici è la poesia Al mio bastone. Nel XXXV anno di possesso, in «Nuova Antologia» del 16 novembre 1909.

La «leziosità letteraria» notata dal Croce è un elemento secondario dello squilibrio loriano, ma ha una certa importanza: 1) perché si manifesta continuamente; 2) perché l'immagine e l'enfasi letteraria trascinano meccanicamente il Loria al grottesco come nei secentisti e sono origine immediata di alcune «bizzarrie». Altro elemento del genere è la pretesa infantile e scriteriata all'«originalità» intellettuale ad ogni costo. Non manca nel Loria, oltre al «grande opportunismo», anche una notevole dose di «piccolo opportunismo» della piú bassa estrazione: si ricordano in proposito due articoli, quasi simili e pubblicati a breve distanza di tempo nella «Gazzetta del Popolo» (ultrareazionaria) e nel «Tempo» di Pippo Naldi (nittiano allora) nei quali un'immagine del Macaulay era svolta nell'uno in un senso e nell'altro nel senso opposto (si trattava della Russia e forse gli articoli sono del 1918: sulla Russia il Loria scrisse nel «Tempo» del 10 marzo 1918 e nella «Gazzetta» del 1° giugno successivo).

A proposito delle osservazioni del Croce sulla dottrina loriana dei «servi a spasso» e della sua importanza nella sociologia loriana è da ricordare un capocronaca della «Gazzetta del Popolo» del '18 o anni successivi (prima del '21), in cui il Loria parla degli intellettuali come di quelli che tengono dritta la «scala d'oro» sulla quale sale il popolo, con avvertimenti al popolo di tenersi buoni questi intellettuali, ecc. ecc.

Loria non è un caso teratologico individuale: è invece l'esemplare piú compiuto e finito di una serie di rappresentanti di un certo strato intellettuale di un determinato periodo storico; in generale di quello strato di intellettuali positivisti che si occuparono della quistione operaia e che erano piú o meno convinti di approfondire e rivedere e superare la filosofia della prassi. Ma è da notare che ogni periodo ha il suo lorianismo piú o meno compiuto e perfetto e ogni paese ha il suo: l'hitlerismo ha mostrato che in Germania covava, sotto l'apparente dominio di un gruppo intellettuale serio, un lorianismo mostruoso che ha rotto la crosta ufficiale e si è diffuso come concezione e metodo scientifico di una nuova «ufficialità». Che Loria potesse esistere, scrivere, elucubrare, stampare a sue spese libri e libroni, niente di strano: esistono sempre gli scopritori del moto perpetuo e i parroci che stampano continuazioni della Gerusalemme Liberata. Ma che egli sia diventato un pilastro della cultura, un «maestro», e che abbia trovato «spontaneamente» un grandissimo pubblico, ecco ciò che fa riflettere sulla debolezza, anche in tempi normali, degli argini critici che pur esistevano: è da pensare come, in tempi anormali, di passioni scatenate, sia facile a dei Loria, appoggiati da forze interessate, di traboccare da ogni argine e di impaludare per decenni un ambiente di civiltà intellettuale ancora debole e gracile.

Solo oggi (1935), dopo le manifestazioni di brutalità e d'ignominia inaudita della «cultura» tedesca dominata dall'hitlerismo, qualche intellettuale si è accorto di quanto fosse fragile la civiltà moderna – in tutte le sue espressioni contraddittorie, ma necessarie nella loro contraddizione – che aveva preso le mosse dal Primo Rinascimento (dopo il Mille) e si era imposta come dominante attraverso la Rivoluzione francese e il movimento d'idee conosciuto come «filosofia classica tedesca» e come «economia classica inglese». Perciò la critica appassionata di intellettuali come Giorgio Sorel, come Spengler, ecc., che riempiono la vita culturale di gas asfissianti e sterilizzanti.



Il signor Nettuno. All'inizio di questa serie di note sul lorianismo potrà essere citata la novella raccontata dal barbiere nei primi capitoli della seconda parte del Don Chisciotte. Il pazzo che ricorre al vescovo per essere liberato dal manicomio, sostenendo, in una lettera assennatissima, di essere savio e quindi tenuto arbitrariamente segregato dal mondo. L'arcivescovo che invia un suo fiduciario che si convince di aver da fare realmente con un sano di mente, finché, nel congedarsi del presunto savio dai suoi amici del manicomio, non avviene la catastrofe. Un pazzo, che dice di essere Giove, minaccia che se l'amico se ne andrà, egli non farà piú piovere sulla terra, e l'amico, temendo che l'inviato del vescovo non si spaurisca, dice: Non si spaventi, perché se il signor Giove non farà piú piovere, io che sono Nettuno, troverò ben modo di rimediare. Ebbene, queste note appunto riguardano scrittori che in uno o in molti istanti della loro attività scientifica, hanno dimostrato di essere il «signor Nettuno».



L'altimetria, i buoni costumi e l'intelligenza. Nell'«utopia» di Ludovico Zuccolo: Il Belluzzi o la Città felice, ristampato da Amy Bernardy nelle «Curiosità letterarie» dell'ed. Zanichelli (che non è precisamente un'utopia, perché si parla della repubblica di San Marino) si accenna alla teoria loriana dei rapporti tra l'altimetria e i costumi umani. L. Zuccolo sostiene che «gli uomini di animo dimesso o di cervello ottuso si uniscono piú facilmente a consultare degli affari comuni»: questa sarebbe la ragione della saldezza degli ordinamenti di Venezia, degli svizzeri e di Ragusa, mentre gli uomini di natura vivace ed acuta, come i fiorentini, sono portati alla sopraffazione o «a occuparsi dei privati interessi senza punto occuparsi dei pubblici». Come allora spiegarsi che i sanmarinesi, di natura vivace ed acuta, abbiano tuttavia conservato per tanti secoli un governo popolare? Perché a San Marino la sottigliezza d'aria che rende ben composti e vigorosi i corpi, produce anche gli «spiriti puri e sinceri». È vero che lo Zuccolo parla anche delle ragioni economiche, cioè la mediocrità delle ricchezze individuali, per cui il piú ricco ha «poco davantaggio» e al piú povero non manca nulla. Questa eguaglianza è assicurata da buone leggi: proibizione dell'usura, inalienabilità della terra ecc.

Lo Zuccolo ha scritto un'«utopia» vera e propria, La Repubblica di Evandria, posta in una penisola agli antipodi dell'Italia, che, secondo il Gargàno (Un utopista di senso pratico, in «Marzocco» del 2 febbraio 1930) avrebbe un legame con l'Utopia di T. Moro e avrebbe quindi originato il Belluzzi.


A proposito delle teorie «altimetriche» del Loria si potrebbe ricordare, per ridere, che Aristotele trovava che «le acropoli sono opportune per i governi oligarchici e tirannici, le pianure ai governi democratici».



[Attività improduttive.] Il 12 dicembre 1931, nel culmine della crisi mondiale, Achille Loria discute al Senato una sua interrogazione: se il ministero dell'interno «non ritenga opportuno evitare gli spettacoli di equilibrismo che non adempiono a nessuna funzione educativa, mentre sono troppo frequentemente occasione di sciagure mortali». Dalla risposta dell'on. Arpinati pare che «gli spettacoli di equilibrismo appartengano a quelle attività improduttive che il sen. Loria ha analizzato nel Trattato di Economia», e quindi la quistione, secondo il Loria, potrebbe essere un contributo alla soluzione della crisi economica. Si potrebbe fare dello spirito a buon mercato sugli spettacoli di equilibrismo del Loria stesso, che non gli hanno procurato finora nessuna sciagura mortale.



[Loriani.] Col Loria occorre esaminare Enrico Ferri e Lumbroso. Arturo Labriola. Lo stesso Turati potrebbe dare una certa messe di osservazioni e aneddoti. Luzzatti, in altro campo, è da vedere. Guglielmo Ferrero. Corrado Barbagallo (nel Barbagallo le manifestazioni «loriane» sono forse piú occasionali ed episodiche: pure il suo scritto sul capitalismo antico pubblicato nella «Nuova Rivista Storica» del 1929 è estremamente sintomatico; con la postilla un po' comica che segue all'articolo del prof. G. Sanna). Molti documenti del «lorianesimo» in senso largo si possono trovare nella «Critica», nella «Voce» e nell'«Unità» fiorentina.



Enrico Ferri. Il modo di giudicare la musica e il Verdi di Enrico Ferri è raccontato originariamente dal Croce nelle Conversazioni Critiche (serie II, p. 314) in un capitoletto sui Ricordi ed affetti di Alessandro D'Ancona, pubblicati dai Treves nel 1902 e che sarà apparso nella «Critica» dei primi anni (1903 o 1904): «Noto in quello ("ricordo") sul centenario del Leopardi una felicissima invettiva contro i critici letterari della così detta scuola lombrosiana: invettiva che per altro a me pare ormai superflua, avendo io udito, or è qualche settimana, uno di codesti solenni critici, Enrico Ferri, in una sua commemorazione dello Zola tenuta a Napoli, dichiarare circa la quistione se Verdi sia o no un genio: che egli, Ferri, non intendendosi punto di musica, ossia non essendo esposto alle seduzioni della malia di quell'arte, poteva perciò dare in proposito "un giudizio sulla sua obiettività sincero" e affermare con pacata coscienza, che il Verdi è un "ingegno" e non un "genio" tanto vero che suol tenere in perfetto ordine i conti dell'azienda domestica!» L'aneddoto è stato raccontato anche in altra forma: che cioè il Ferri si ritenesse il piú adatto a giudicare obiettivamente e spassionatamente chi fosse piú grande genio, Wagner o Verdi, appunto perché non si intendeva affatto di musica.


Può darsi che la conferenza di Ferri su Zola in cui è contenuta l'affermazione dell'«obiettività» basata sull'ignoranza, sia lo scritto Emilio Zola, artista e cittadino, contenuto nel volume I delinquenti nell'arte ed altre conferenze, pubblicato dall'Unione Tipogr. Ed. Torinese nel 1926 (seconda ediz. interamente rifatta in 8°, pp. XX-350, L. 35). Nel volume si potrà forse trovare qualche altro spunto «loriano» non meno caratteristico di quello «musicale». Nel volume d'altronde sono contenuti scritti che avranno significato per altre rubriche, come i Ricordi di giornalismo e La scienza e la vita nel secolo XIX.



Guglielmo Ferrero. Ricordare gli spropositi contenuti nelle prime edizioni di alcuni suoi libri di storia: per es. una misura itineraria persiana creduta una regina, di cui si scrive la biografia romanzata, ecc. (Come sarebbe se tra mille anni, in un'epoca di puritanesimo, si scoprisse un'insegna da villaggio con su «Regia Gabella» e l'immagine di ragazza con la pipa in bocca diventasse una «Regina Gabella» ricettacolo di tutti i vizi). Del resto, il Ferrero non ha cambiato: nella sua Fine delle avventure, che è del 1930, mi pare, si crede possibile tornare alla «guerra dei merletti» e si esalta l'arte militare dei cicisbei.



Credaro-Luzzatti. Ricordare l'episodio parlamentare Credaro-Luzzatti. Era stata proposta una cattedra speciale all'Università di Roma di «filosofia della storia» per Guglielmo Ferrero (nel 1911 o nel '12). Il ministro Credaro, fra l'altro, giustificò la «filosofia della storia» (contro B. Croce che aveva parlato in Senato contro la cattedra) con l'importanza che i filosofi hanno avuto nello svolgimento della storia, citando come esempio... Cicerone. Il Luzzatti assentí gravemente: «È vero! È vero!».



Turati. Il discorso parlamentare sulle «salariate dell'amore». Discorso disonorevole e abbietto. I tratti di «cattivo gusto» del Turati sono numerosi nelle sue «poesie».



Alberto Lumbroso. A. Lumbroso è da collocare nella serie loriana, ma in altro campo e da altro punto di vista.

Si potrebbe fare un'introduzione generale alla rassegna, per dimostrare come Loria non sia una eccezione, nel suo campo, ma si tratti di un fenomeno generale di deterioramento culturale, che forse ha avuto la tumefazione piú vistosa nel campo «sociologico». Cosí sono da ricordare Tommaso Sillani e la sua «casa dei parti», la «gomma di Vallombrosa» di Filippo Carli, del quale è notevole anche un grande articolo della «Perseveranza» (del 1918-1919) sul prossimo trionfo della navigazione a vela su quella a vapore; la letteratura economica dei protezionisti vecchia covata è piena di tali preziosità, che hanno avuto molti continuatori anche in tempi piú vicini, come si può vedere negli scritti del Belluzzo sulle possibili ricchezze nascoste nelle montagne italiane e sullo scatenamento di scempiaggini che ha provocato la prima campagna per il ruralismo e l'artigianato.

Questi elementi generici e vagabondi del «lorianismo» potrebbero servire per rendere piacevole l'argomento. Si potrebbe ricordare come caso limite e assurdo, perché già appartenente alla tecnica clinica-patologica, la candidatura del Lenzi al IV collegio di Torino nel 1914, con l'«aerocigno», il «filopresentaneismo» e la proposta di radere le montagne italiane, ingombranti, per trasportarne il materiale in Libia e fertilizzare cosí il deserto (mi pare però che anche il Kropotkin, nella Lotta per il pane, proponga di macinare i sassi per rendere piú ampia l'area coltivabile).

Il caso del Lumbroso è molto interessante, perché suo padre (Giacomo) era un erudito di gran marca; ma la metodologia dell'erudizione (e la serietà scientifica), a quanto pare non si trasmette per generazione e neppure per il contatto intellettuale il piú assiduo. C'è da domandarsi, nel caso Lumbroso, come i suoi due ponderosi volumi sulle Origini diplomatiche e politiche della guerra abbiano potuto essere accolti nella Collezione Gatti: la responsabilità del sistema è qui evidente. Cosí per Loria e la «Riforma Sociale», per L. Luzzatti e il «Corriere della Sera» (a proposito del Luzzatti è da ricordare il caso del «fioretto» di san Francesco, pubblicato come inedito dal «Corriere» – del 1913 mi pare, o prima – con un commento economico spassosissimo proprio del Luzzatti che aveva poco prima pubblicato un'edizione dei Fioretti nella Collezione Notari; il cosí detto inedito era una variante inviata al Luzzatti dal Sabatier). Del Luzzatti frasi famose, come «Lo sa il tonno» in un articolo del «Corriere», che è stata l'origine casuale del libro del Bacchelli.

In una nota dedicata ad Alberto Lumbroso ho scritto che questi non ha ereditato dal padre le qualità di studioso sobrio, preciso, disciplinato. Giacomo Lumbroso morto nel 1927 (mi pare) fu uno storico dell’età ellenistica, papirologo, lessicografo della grecità alessandrina. (Cfr. l’articolo Giacomo Lumbroso di V. Scialoja, nella «Nuova Antologia» del 16 settembre 1927). È stato anche professore di storia moderna prima di Fedele?



Loria. Le sue memorie pubblicate nel 1927 da N. Zanichelli, Bologna, sono intitolate: Ricordi di uno studente settuagenario, L. 10.



Roberto Ardigò e la filosofia della praxis. (Cfr. il volume Scritti vari raccolti e ordinati da Giovanni Marchesini, Firenze, Le Monnier, 1922). Raccoglie una parte di scritti d'occasione, tanto del periodo in cui l'Ardigò era sacerdote (per esempio una interessante polemica con Luigi De Sanctis, prete cattolico spretato e divenuto quindi uno dei propagandisti piú verbosi e scriteriati dell'Evangelismo), quanto del periodo successivo allo spretamento dello stesso Ardigò e del suo pontificato positivistico, che l'Ardigò stesso aveva ordinato e disposto per la pubblicazione. Questi scritti possono essere interessanti per un biografo dell'Ardigò e per stabilire con esattezza le sue tendenze politiche, ma in massima parte sono paccotiglia senza nessun valore e scritti in modo scelleratissimo.

Il libro è diviso in varie sezioni. Tra le polemiche (1a sezione) è notevole quella contro la massoneria del 1903; l'Ardigò era antimassone e in forma vivace ed aggressiva.

Tra le lettere (4a sezione) quella indirizzata alla «Gazzetta di Mantova» a proposito del pellegrinaggio alla tomba di Vittorio Emanuele II (nella «Gazzetta di Mantova» del 29 novembre 1883). L'Ardigò aveva accettato di far parte di un comitato promotore del pellegrinaggio. «Il pellegrinaggio però non andava ai versi a molti scalmanati rivoluzionari, che si erano immaginati che io la pensassi come loro e quindi sconfessassi la mia fede politico-sociale colla suddetta adesione. E cosí si espressero privatamente e pubblicamente colle piú fiere invettive al mio indirizzo». Le lettere dell'Ardigò sono enfatiche ed altisonanti: «Ieri, perché tornava loro conto di farmi passare per uno dei loro, che non sono mai stato (e lo sanno o devono saperlo), mi proclamarono, con lodi che mi facevano schifo, il loro maestro; e ciò senza intendermi o intendendomi a rovescio. Oggi, perché non mi trovano pronto a prostituirmi alle loro mire parricide, vogliono pigliarmi per un orecchio perché ascolti e impari la lezione che (molto ingenuamente) si arrogano di recitarmi. Oh! quanto ho ragione di dire con Orazio: Odi profanum vulgus et arceo!».

In una successiva lettera del 4 dicembre 1883 al «Bacchiglione», giornale democratico di Padova, scrive: «Come sapete fui amico di Alberto Mario; ne venero la memoria e caldeggio con tutta l'anima quelle idee e quei sentimenti che ebbi comuni con lui. E conseguentemente avverso senza esitazione le basse fazioni anarchiche antisociali... Tale mia avversione l'ho sempre espressa recisissimamente. Alcuni anni fa in un'adunanza della Società dell'Eguaglianza sociale di Mantova ho parlato cosí: "La sintesi delle vostre tendenze è l'odio, la sintesi della mia è l'amore; perciò io non sono con voi". Ma si continuava a voler far credere alla mia solidarietà col socialismo antisociale di Mantova. Sicché sentii il dovere di protestare, ecc.». La lettera fu ristampata nella «Gazzetta di Mantova» (del 10 dicembre 1883; la «Gazzetta» era un giornale conservatore di estrema destra, allora diretto da A. Luzio) con un'altra coda violentissima perché gli avversari gli avevano ricordato il canonicato, ecc.

Nel luglio 1884 scrive al Luzio che «nulla mi impedirebbe di assentire» alla proposta fattagli di entrare nella lista moderata per le elezioni comunali di Mantova. Scrive anche di credere il Luzio «piú radicale di molti sedicenti democratici... Molti si chiamano democratici e non sono che arruffoni sciocchi...». Nel giugno-agosto 1883 si serviva però del giornale socialista di Imola «Il Moto» per rispondere a una serie di articoli anonimi della liberale (sarà stato conservatore) «Gazzetta dell'Emilia» di Bologna, in cui si diceva che l'Ardigò era un liberale di fresca data e lo si sfotteva brillantemente, se pure con molta evidente malafede polemica. Il «Moto» di Imola «naturalmente» difende l'Ardigò a spada tratta e lo esalta, senza che l'Ardigò cerchi di distinguersi.

Tra i pensieri, tutti triti e banali, spicca quello sul Materialismo storico (p. 271) che senz'altro è da mettere insieme all'articolo sull'Influenza sociale dell'aeroplano di A. Loria. Ecco il pensiero completo: «Colla Concezione materialistica della Storia si vuole spiegare una formazione naturale (!), che ne (sic) dipende solo in parte e solo indirettamente, trascurando altri essenziali coefficienti. E mi spiego. L'animale non vive, se non ha il suo nutrimento. E può procurarselo, perché in lui nasce il sentimento della fame, che lo porta a cercare il cibo. Ma in un animale, oltre il sentimento della fame, si producono molti altri sentimenti, relativi ad altre operazioni, i quali, pur essi, agiscono a muoverlo. Egli è che, col nutrimento si mantiene un dato organismo, che ha attitudini speciali, quali in una specie, quali in un'altra. Una caduta d'acqua fa muovere un mulino a produrre la farina e un telaio a produrre un drappo. Sicché, pel mulino, oltre la caduta dell'acqua, occorre il grano da macinare e pel telaio occorrono i fili da comporre insieme. Mantenendosi col movimento un organismo, l'ambiente, colle sue importazioni d'altro genere (!?), determina, come dicemmo, molti funzionamenti, che non dipendono direttamente dal nutrimento, ma dalla struttura speciale dell'apparecchio funzionante, da una parte, e dall'azione, ossia importazione nuova dell'ambiente dall'altra. Un uomo quindi, per esempio, è incitato in piú sensi. E in tutti irresistibilmente. È incitato dal sentimento della fame, è incitato da altri sentimenti, prodotti in ragione della struttura sua speciale e delle sensazioni e delle idee fatte nascere in lui per l'azione esterna, e per l'ammaestramento ricevuto ecc. ecc. (sic). Deve obbedire al primo, ma deve ubbidire anche agli altri, voglia o non voglia. E gli equilibri che si formano tra l'impulso del primo e di questi altri, per la risultante dell'azione, riescono diversissimi, seconda una infinità di circostanze, che fanno giocare piú l'uno che l'altro dei sentimenti incitanti. In una mandria di porci il sopravvento rimane al sentimento della fame, in una popolazione di uomini, ben diversamente, poiché hanno anche altre cure all'infuori di quella d'ingrassare. Nell'uomo stesso l'equilibrio si diversifica secondo le disposizioni che poterono farsi in lui, e quindi, col sentimento della fame, il ladro ruba e il galantuomo invece lavora: avendo quanto gli occorre per soddisfare alla fame, l'avaro cerca anche il non necessario, e il filosofo se ne contenta e dedica la sua opera alla scienza. L'antagonismo poi può esser tale, che riescono in prevalenza i sentimenti che sono diversi da quelli della fame, fino a farli tacere affatto, fino a sopportare di morire, ecc. ecc. (sic). La forza, onde è ed agisce l'animale, è quella della natura, che lo investe e lo sforza ad agire in sensi multiformi, trasformandosi variamente nel suo organismo. Poniamo che sia la luce del sole, alla quale si dovrebbe ridurre la concezione materialistica della storia, anziché alla ragione economica. Alla luce del sole, intesa in modo, che anche ad essa si possa riferire il fatto della idealità impulsiva dell'uomo». (Fine).

Il brano è stato pubblicato la prima volta in un numero unico (forse stampato dal «Giornale d'Italia») a beneficio della Croce Rossa, nel gennaio 1915. È interessante non solo per dimostrare che l'Ardigò non si era preoccupato mai di informarsi direttamente sull'argomento trattato e non aveva letto che qualche articolo strafalcionesco di qualche periodichetto, ma perché serve a documentare le strane opinioni diffuse in Italia sulla «quistione di ventre». Perché poi solamente in Italia era diffusa questa strana interpretazione «ventraiolesca»? Essa non può non essere connessa ai movimenti per la fame, ma cosí l'accusa di «ventraiolismo» è piú umiliante per i dirigenti che la facevano che per i governati che soffrivano realmente la fame. E nonostante tutto, Ardigò non era il primo venuto.



Graziadei e il paese di Cuccagna. Confrontare nel libretto di Graziadei, Sindacati e Salari, la alquanto comica risposta alla nota del Croce sul graziadeiano paese di Cuccagna, dopo quasi trent'anni. La risposta, comica, ma non sprovvista di una buona dose di gesuitismo politico (crocianesimo tardivo di un certo gruppetto di personaggi laschiani: il Lasca diceva che l'uomo è un pezzo di sterco su due fuscelli) è stata indubbiamente determinata dal saggio pubblicato nel 1926 dall'«Unter dem Banner» su Prezzo e sovraprezzo, che si iniziava appunto con la citazione della nota crociana. (Sarebbe interessante ricercare nella produzione letteraria del Graziadei i possibili accenni al Croce: non ha mai risposto, neppure indirettamente? Eppure la pizzicata era stata forte! In ogni modo, l'ossequio all'autorità scientifica del Croce espresso con tanta unzione dopo trent'anni, è veramente comico). Il motivo del paese di Cuccagna rilevato dal Croce in Graziadei, è di un certo interesse generale, perché serve a rintracciare una corrente sotterranea di romanticismo e di fantasticherie popolari, alimentata dal «culto della scienza», dalla «religione del progresso» e dall'ottimismo del secolo XIX, che è stato anch'esso una forma di oppio. In questo senso è da vedere se non sia stata legittima e di larga portata la reazione del Marx, che colla legge tendenziale della caduta del saggio del profitto e col cosí detto catastrofismo gettava molta acqua nel fuoco; è da vedere anche in che misura l'«oppiomania» abbia impedito una analisi piú accurata delle proposizioni del Marx.

Queste osservazioni riconducono alla quistione della «utilità» o meno di una esposizione del lorianismo. A parte il fatto di un giudizio «spassionato» dell'opera complessiva del Loria e dell'apparente «ingiustizia» di mettere in rilievo solo le manifestazioni strampalate del suo ingegno, rimane, per giustificare queste notazioni, una serie di ragioni. Gli «autodidatti» specialmente sono inclini, per l'assenza di una disciplina critica e scientifica, a fantasticare di paesi di Cuccagna e di facili soluzioni di ogni problema. Come reagire? La soluzione migliore sarebbe la scuola, ma è soluzione di lunga attesa, specialmente per le grandi agglomerazioni di uomini che si lasciano portare all'oppiomania. Occorre perciò colpire intanto la «fantasia» con dei tipi «grandiosi» di ilotismo intellettuale, creare l'avversione «istintiva» per il disordine intellettuale, accompagnandolo col senso del ridicolo; ciò, come si è visto sperimentalmente in altri campi, si può ottenere, anche con una certa facilità, perché il buon senso, svegliato da un opportuno colpo di spillo, quasi fulmineamente annienta gli effetti dell'oppio intellettuale. Questa avversione è ancora poco, ma è già la premessa necessaria per instaurare un ordine intellettuale indispensabile: perciò il mezzo pedagogico indicato ha la sua importanza.

Ricordare alcuni episodi tipici: l'Interplanetaria del 1916-17 di Rabezzana; l'episodio del «moto perpetuo» nel 1925, mi pare; figure come Pozzoni di Como e altri, che risolvevano tutto partendo dall'affitto della casa ecc. (Del resto, un episodio clamoroso è stato quello della «Baronata» che ha offerto uno spunto al Diavolo al Pontelungo del Bacchelli). La mancanza di sobrietà e di ordine intellettuale si accompagna molto spesso al disordine morale. La quistione sessuale porta, con le sue fantasticherie, molto disordine: poca partecipazione delle donne alla vita collettiva, attrazione di farfalloni postribolari verso iniziative serie ecc. (ricordare l'episodio narrato da Cecilia De Tormay che è verosimile, anche se inventato); in molte città, specialmente meridionali, alle riunioni femminili, faticosamente organizzate, si precipitavano subito i liberoamoristi coi loro opuscoli neomaltusiani, ecc., e tutto era da rifare. Tutti i piú ridicoli fantasticatori che nei loro nascondigli di geni incompresi fanno scoperte strabilianti e definitive, si precipitano su ogni movimento nuovo persuasi di poter spacciare le loro fanfaluche. D'altronde ogni collasso porta con sé disordine intellettuale e morale. Bisogna creare uomini sobri, pazienti, che non disperino dinanzi ai peggiori orrori e non si esaltino a ogni sciocchezza. Pessimismo dell'intelligenza, ottimismo della volontà.



Oltre alle teorie del Loria, cercare se le quistioni sollevate dal Graziadei non hanno origine nelle teorie del Rodbertus. Nella «Histoire des doctrines économiques» di Gide e Rist (V ediz., ristampa del 1929) a p. 504 si legge: «Remarquons aussitôt la différence d'attitude entre Rodbertus et Marx. Le second, tout imprégné de l'économie politique et du socialisme anglais, part de la théorie de l'échange et fait du travail la source de toute valeur. Rodbertus, inspiré par les Saint-Simoniens, part de la production et fait du travail l'unique source de tout produit, proposition plus simple et plus vraie que la précédente, quoique encore incomplète. Non seulement Rodbertus ne dit pas que le travail seul crée la valeur, mais il le nie expressément à diverses reprises, en donnant les raisons de son opinion». In nota il Rist dà riferimenti bibliografici in proposito e cita una lettera di Rodbertus a R. Meyer del 7 gennaio 1872 dove è un accenno al fatto che la «demonstration pourrait, le cas échéant, (s') utiliser contre Marx».



Alfredo Trombetti. Per molti aspetti può esser fatto rientrare nel lorianismo, sempre con l'avvertenza che ciò non significa un giudizio complessivo su tutta la sua opera ma un semplice giudizio di squilibrio tra la «logicità» e il contenuto concreto dei suoi studi. Il Trombetti era un formidabile poliglotta, ma non è un glottologo, o almeno il suo glottologismo non si identificava con il suo poliglottismo: la conoscenza materiale di innumerevoli lingue gli prende la mano sul metodo scientifico. Inoltre egli era un illuminato: la teoria della monogenesi del linguaggio era la prova della monogenesi dell'umanità, con Adamo ed Eva a capostipiti. Perciò i cattolici lo applaudirono ed egli diventò popolare, cioè fu «legato» alla sua teoria da un punto d'onore non scientifico ma ideologico. Negli ultimi tempi ebbe riconoscimenti ufficiali e fu esaltato dai giornali quotidiani come una gloria nazionale, specialmente per l'annunzio dato a un Congresso Internazionale di Linguistica (dell'Aja, ai primi del 1928) della decifrazione dell'etrusco. Mi pare però che l'etrusco continui a essere indecifrato come prima e che tutto si riduca a un ennesimo tentativo fallito.

Nella «Nuova Antologia» del 16 luglio 1928, è pubblicato un articolo di Pericle Ducati, Il Primo Congresso Internazionale Etrusco (27 aprile - 3 maggio 1928), in cui si parla in modo molto strano, ma up to date, della «scoperta» del Trombetti. A p. 199 si parla di «conseguita decifrazione» dell'etrusco, «mercé soprattutto gli sforzi di un italiano, di Alfredo Trombetti». A p. 204 la «conseguita decifrazione» è invece ridotta a «un passo gigantesco nella interpretazione dell'etrusco». La tesi del Trombetti è questa, già fissata da lui nel Convegno Nazionale Etrusco del 1926: l'etrusco è una lingua intermedia, insieme ad altri idiomi dell'Asia Minore e pre-ellenici, tra il gruppo caucasico e il gruppo ario-europeo con maggiori affinità con quest'ultimo; perciò il lemnio, quale appare dalle due iscrizioni della stele famosa, e l'etrusco quasi s'identificano. Questa tesi rientra nel sistema generale del Trombetti che presuppone provata la monogenesi e quindi ha una base molto fragile. E ancora, presuppone certa l'origine transmarina degli Etruschi, mentre questa opinione, se è la piú diffusa, non è universale: Gaetano De Sanctis e Luigi Pareti sostengono invece l'origine transalpina e non sono due studiosi da disprezzare. Al Congresso Internazionale Etrusco il Trombetti è passato alla piú precisa determinazione della grammatica ed alla ermeneutica dei testi, saggio del suo libro La lingua etrusca uscito poco dopo. Ebbe grande successo. Contraddittori, non tra gli stranieri, nota il Ducati, ma tra i nazionali, pur «garbatamente e facendo onore alla eccezionale valentia del Trombetti». «Un giovane ed ormai valoroso glottologo, Giacomo Devoto, si è preoccupato del metodo, ché il rigore del metodo gli è sembrato intaccato dalle investigazioni e dai risultati del Trombetti». Qui il Ducati fa una serie di considerazioni veramente strabilianti sul metodo della glottologia contro il Devoto, concludendo: «Guardiamo pertanto ai risultati del Trombetti e non sottilizziamo». Si è visto poi cosa voleva dire non sottilizzare. Nelle scienze in generale il metodo è la cosa piú importante: in certe scienze poi, che necessariamente devono basarsi su un corredo ristretto di dati positivi, ristretto e non omogeneo, le quistioni del metodo sono ancor piú importanti, se non sono addirittura tutto. Non è difficile con un po' di fantasia costruire ipotesi su ipotesi e dare un'apparenza brillante di logicità a una dottrina: ma la critica di queste ipotesi rovescia tutto il castello di carta e trova il vuoto sotto il brillante. Ha il Trombetti trovato un nuovo metodo? Questa è la quistione. Questo nuovo metodo fa progredire la scienza piú del vecchio, interpreta meglio, ecc.? Niente di tutto ciò. Anche qui appare come il nazionalismo introduca deviazioni dannose nella valutazione scientifica e quindi nelle condizioni pratiche del lavoro scientifico. Il Bartoli ha trovato un nuovo metodo, ma esso non può far chiasso interpretando l'etrusco: il Trombetti invece afferma di aver decifrato l'etrusco, quindi risolto uno dei piú grandi e appassionanti enigmi della storia: applausi, popolarità, aiuti economici ecc. Il Ducati ripete, approvando, ciò che gli disse al Congresso un glottologo «assai egregio»: «il Trombetti è una eccezione: si eleva egli assai al di sopra di noi e ciò che a noi non sembra lecito di tentare, a lui è possibile di compiere», e aggiunge le opinioni molto profonde del paleontologo Ugo Antonielli. Per l'Antonielli il Trombetti è un «gigante buono che addita una diritta e sicura via». E se, come argutamente (!) aggiunge lo stesso Antonielli, il nostro italianissimo Trombetti, «per la supina sensibilità di taluni, si fosse chiamato Von Trombetting ovvero Trombetty...» Poiché la quistione si poneva cosí, bisogna convenire che il Devoto e gli altri oppositori, furono degli eroi e che c'è qualcosa di sano nella scienza italiana. Il Ducati appoggia questa tendenza nazionalistica nella scienza, senza accorgersi delle contraddizioni in cui cade: se il Trombetti additasse una via diritta e sicura, avrebbe appunto rinnovato o sviluppato e perfezionato il metodo e allora sarebbe lecito tentare a tutti gli studiosi ciò che egli ha fatto. O l'uno o l'altro: o il Trombetti è al di sopra della scienza per sue particolari doti di intuizione o addita una via per tutti. «Caso curioso! Tra i glottologi raccolti a Firenze il Trombetti ha raccolto il plauso piú incondizionato tra gli stranieri». E allora perché il Ducati riporta il Von Trombetting? O non indica ciò piuttosto che la glottologia italiana è piú seria e progredita di quella straniera? Può capitare proprio questo bel caso al nazionalismo scientifico: di non accorgersi delle vere «glorie» nazionali e di essere proprio esso, lo schiavo, il supino servo degli stranieri!



Trombetti e la monogenesi del linguaggio. La «Nuova Antologia», che in un articolo di Pericle Ducati (già da me notato precedentemente) aveva esaltato l'opera del Trombetti per l'interpretazione dell'etrusco, nel numero del 1° marzo 1929 pubblica una nota di V. Pisani, Divagazioni etrusche, completamente stroncatoria. Il Pisani ricorda contro il Trombetti alcuni canoni elementari per lo studio critico della scienza delle lingue:

1) Il metodo puramente etimologico è privo di consistenza scientifica: la lingua non è il puro lessico, errore volgare e diffusissimo: le singole parole astrattamente prese, anche somigliantissime in una determinata fase storica, possono: a) essere nate indipendentemente l'una dall'altra; esempio classico mysterion greco ed ebraico, con lo stesso significato: ma in greco il significato è dato da myst- ed -erion è suffisso per gli astratti, mentre in ebraico è il contrario: -erion (o terion) è la radicale fondamentale e myst- (o mys-) è il prefisso generico; cosí haben tedesco non ha la stessa origine di habēre latino, né to call inglese di καλέω greco o di calāre latino (chiamare), né ähnlich tedesco può unirsi ad ἀνάλογος, greco, ecc. Il Littmann pubblicò, nella «Zeitschrift der Deutschen Morgenl. Gesellschaft», LXXVI, pp. 270 sgg., una lista di queste apparenti concordanze per dimostrare l'assurdità dell'etimologia antiscientifica; b) possono essere state importate da una lingua all'altra, in epoche relativamente preistoriche: per esempio: l'America è stata «scoperta» da Cristoforo Colombo «solo» dal punto di vista della civiltà europea nel complesso, cioè Cristoforo Colombo ha fatto entrare l'America nella zona d'interesse della civiltà europea, della storia europea; ma ciò non esclude, tutt'altro, che elementi europei, o di altri continenti, possano essere andati in America anche in gruppi relativamente considerevoli e avervi lasciato delle «parole», delle forme lessicali piú o meno considerevoli; ciò può ripetersi per l'Australia e per ogni altra parte del mondo; come si può allora affermare, come fa il Trombetti, su numeri relativamente scarsi di forme lessicali (30-40), che tali forme siano documento della monogenesi?

2) Le forme lessicali e i loro significati devono essere confrontate per fasi storiche omogenee delle lingue rispettive, per ogni forma occorre perciò «fare» oltre la storia fonologica anche la storia semantica e confrontare i significati piú antichi. Il Trombetti non rispetta nessuno di questi canoni elementari: a) si accontenta, nei confronti, di significati generici affini, anche non troppo affini (qualche volta stiracchiati in modo ridicolo: ricordo un caso curiosissimo di un verbo di moto arioeuropeo confrontato con una parola di un dialetto asiatico che significa «ombelico» o giú di lí, che dovrebbero corrispondere, secondo il Trombetti, per il fatto che l'ombelico si «muove» continuamente per la respirazione!); b) basta per lui che nelle parole messe a confronto si verifichi la successione di due suoni consonantici rassomigliantisi come, per esempio, t, th, d, dh, s, ecc., oppure p, ph, f, b, bh, v, w, ecc.; si sbarazza delle altre consonanti eventuali considerandole come prefissi, suffissi o infissi.

3) La parentela di due lingue non può essere dimostrata dalla comparazione, anche fondata, di un numero anche grandissimo di parole, se mancano gli argomenti grammaticali di indole fonetica e morfologica (e anche sintattica, sebbene in minor grado). Esempio: l'inglese che è lingua germanica anche se il lessico [è] molto neolatino; il rumeno che è neolatino anche se [ha] molte parole slave; l'albanese che è illirico anche se il lessico [è] greco, latino, slavo, turco, italiano; l'armeno che contiene molto iranico: persiano arabizzato ma sempre arioeuropeo ecc.

Perché il Trombetti ha avuto tanta fama? 1) Naturalmente ha dei meriti, primo fra tutti di essere un grande poliglotta. 2) Perché la tesi della monogenesi è sostenuta dai cattolici, che vedono nel Trombetti «un grande scienziato d'accordo colla Bibbia» e quindi lo portano sugli scudi. 3) La boria delle nazioni. Però il Trombetti è piú apprezzato dai profani che dai suoi colleghi nella sua scienza. Certo la monogenesi non può essere esclusa a priori, ma non può neanche essere provata, o almeno il Trombetti non l'ha provata. Ricordare gli epigrammi del Voltaire contro l'etimologista famigerato Ménage Gilles (1613-1692) sull'etimologia di alfana > equa per esempio. Il metodo acritico del Trombetti applicato all'etrusco non poteva dare risultati certi, evidentemente. La sua interpretazione può essere messa in serie con le tante che ne sono state date: «per caso» potrebbe essere vera, ma di questa verità non può essere data la dimostrazione. (Vedere in che consiste il metodo che il Trombetti chiama «combinatorio»: non ho materiale: pare che significhi questo: il raccostamento di un termine etrusco ignoto con un termine noto di altra lingua riputata affine deve essere controllato coi termini noti di altre lingue affini che somigliano come suono ma non coincidono tra loro nei significati ecc.: ma forse non è questo).



[Gli studi etruschi.] Confrontare Luigi Pareti, Alla vigilia del 1° Congresso Internazionale etrusco, «Marzocco» del 29 aprile 1928, e Pareti, Dopo il Congresso etrusco, «Marzocco», 13 maggio 1928, e Consensi e dissensi storici archeologici al Congresso Etrusco, «Marzocco», 20 maggio 1928.

A proposito delle ricerche linguistiche il Pareti scrive nel 1° articolo: «Assicurati della precisione dei testi trascritti e della completezza delle nostre raccolte, si potrà rielaborarli, in maniera non comune, per quanto concerne la linguistica. Poiché è ormai indispensabile non solo condurre avanti i tentativi di interpretazione, ma procedere storicamente, considerando cioè i termini lessicali ed i fenomeni fonetici nello spazio e nel tempo: distinguendo quel ch'è antico dal recente, e individuando le differenze dialettali di ogni regione. Fissata questa base storico-linguistica, sarà piú facile e sicuro sia risalire dai termini e fenomeni piú antichi, ai confronti con altre lingue che interessino per il problema delle parentele originarie; sia, all'opposto, discendere da alcune peculiarità dei dialetti etruschi nella loro ultima fase, avvicinando termini e fenomeni dialettali attuali. Altrettanto meticolosa ha da essere, naturalmente, l'indagine per sceverare i vari strati, utilizzabili storicamente, della toponomastica. Poiché, in teoria, per ogni nome, occorre rintracciare l'età e lo strato etnico a cui risale, è indispensabile che per ognuno di essi siano raccolte le piú antiche testimonianze, e registrata la forma precisa iniziale, accanto alle posteriori deformazioni. E ciò per evitare la rischiosa comparazione di termini che si possono dimostrare imparagonabili, o per reale deformità fonetica, o per impossibilità cronologica. Di tutto il materiale vagliato sarà poi opportuno redigere lessici e carte topografiche, di comoda e perspicua consultazione». Questi articoli del Pareti sono molto ben fatti e dànno un'idea perspicua delle attuali condizioni degli studi Etruschi.



Il capitalismo antico e una disputa tra moderni. Si può esporre, in forma di rassegna critico-bibliografica, la cosí detta quistione del capitalismo antico. 1) Un confronto tra le due edizioni, la prima in francese, che fu poi tradotta in alcune altre lingue europee, e la seconda, recente, in italiano, del volumetto del Salvioli sul Capitalismo antico con prefazione di G. Brindisi (ed. Laterza). 2) Articoli e libri di Corrado Barbagallo (per es. L'Oro e il Fuoco, i volumi riguardanti l'età classica della Storia Universale che è in via di pubblicazione presso l'Utet di Torino, ecc.) e la polemica svoltasi qualche tempo fa sull'argomento nella «Nuova Rivista Storica» tra il Barbagallo, Giovanni Sanna e Rodolfo Mondolfo. Nel Barbagallo è specialmente da notare, in questa polemica, il tono disincantato di chi la sa lunga sulle cose di questo mondo. La sua concezione del mondo è che niente è nuovo sotto il sole, che «tutto il mondo è paese», che «piú le cose cambiano e piú sono le stesse». La polemica pare un seguito farsesco della famosa «Disputa tra gli antichi e i moderni». Ma questa disputa ebbe una grande importanza culturale e un significato progressivo; è stata l'espressione di una coscienza diffusa che esiste uno svolgimento storico, che si era ormai entrati in pieno in una nuova fase storica mondiale, completamente rinnovatrice di tutti i modi di esistenza, ed aveva una punta avvelenata contro la religione cattolica che deve sostenere che quanto piú retrocediamo nella storia tanto piú dobbiamo trovare gli uomini perfetti, perché piú vicini alle comunicazioni dell'uomo con Dio, ecc.

(A questo proposito è da vedere ciò che ha scritto Antonio Labriola, nel frammento postumo del libro non scritto Da un secolo all'altro, sul significato del nuovo calendario instaurato dalla Rivoluzione francese; tra il mondo antico e il mondo moderno non c'era stata mai una cosí profonda coscienza di distacco, neanche per l'avvento del cristianesimo).

Invece la polemica del Barbagallo era proprio il contrario di progressiva, tendeva a diffondere scetticismo, a togliere ai fatti economici ogni valore di sviluppo e di progresso. Questa posizione del Barbagallo può essere interessante da analizzare perché il Barbagallo si dichiara ancora seguace della filosofia della praxis (cfr. la sua polemichetta col Croce nella «Nuova Rivista Storica» di alcuni anni fa), ha scritto un volumetto su questo argomento nella Biblioteca della Federazione delle Biblioteche popolari di Milano. Ma il Barbagallo è legato da forti vincoli intellettuali a Guglielmo Ferrero (ed è un po' loriano). È curioso che sia professore di storia dell'economia e si affatichi a scrivere una Storia Universale chi ha della storia una concezione cosí puerile e superficialmente acritica; ma non sarebbe maraviglioso che questo suo modo di pensare il Barbagallo lo attribuisse alla filosofia della praxis.



Giuseppe Brindisi, Giuseppe Salvioli, Napoli, Casella, 1928, pp. 142, L. 5 (collezione «Contemporanei»).

Il Brindisi è l'editore e il prefatore della edizione postuma del Capitalismo antico del Salvioli: vedere se in questo volumetto tratta la quistione dei rapporti tra il Salvioli e il materialismo storico nella forma crociana, ecc. (La prefazione al Capitalismo antico è però mediocre e balzellante). Da una recensione del Tilgher in «Italia che scrive» (settembre 1928) vedo che questo argomento è trattato ampiamente, insieme ad un altro, anch'esso interessante: le concezioni sociali del Salvioli, che lo portavano a una specie di socialismo giuridico di Stato (!?) non senza somiglianza con la legislazione sociale fascista.



G. A. Fanelli. Un volume che può essere considerato come l'espressione-limite teratologica della reazione degli intellettuali di provincia alle tendenze «americaniste» di razionalizzazione dell'economia, è quello di G. A. Fanelli (il cui settimanale rappresenta l'estrema destra retriva nell'attuale situazione italiana): L'Artigianato. Sintesi di un'economia corporativa, ed. Spes, Roma, 1929, in 8°, pp. XIX-505, L. 30, di cui la «Civiltà Cattolica» del 17 agosto 1929 pubblica una recensione nella rubrica Problemi sociali (del P. Brucculeri). È da notare che il padre gesuita difende la civiltà moderna (almeno in alcune sue manifestazioni) contro il Fanelli. Brani caratteristici del Fanelli citati dalla «Civiltà Cattolica»: «Il sistema (dell'industrialismo meccanico) presenta l'inconveniente di riassorbire per indiretta via, neutralizzandola, la massima parte dei materiali vantaggi che esso può offrire. Dei cavalli-vapore installati, i tre quarti sono adibiti nei trasporti celeri, resi indispensabili dalla necessità di ovviare ai facili deperimenti che cagionano i forti concentramenti di merci. Della quarte parte, adibita alla concentrazione delle merci, circa la metà è impiegata nella produzione delle macchine, sicché, a somme fatte, di tutto l'enorme sviluppo meccanico che opprime il mondo col peso del suo acciaio, non altro che un ottavo dei cavalli installati viene impiegato nella produzione dei manufatti e delle sostanze alimentari» (p. 205, del libro).

«L'italiano, temperamento asistematico, geniale, creatore, avverso alle razionalizzazioni, non può adattarsi a quella metodicità della fabbrica, in cui solo è riposto il rendimento del lavoro in serie. Che anzi, l'orario di lavoro diviene per lui puramente nominale per lo scarso rendimento ch'egli dà in un lavoro sistematico. Spirito eminentemente musicale, l'italiano può accompagnarsi col solfeggio nel lavoro libero, attingendo da tale ricreazione nuove forze ed ispirazioni. Mente aperta, carattere vivace, cuore generoso, portato nella bottega... l'italiano può esplicare le proprie virtú creative, a cui, del resto, si appoggia tutta l'economia della bottega. Sobrio come nessun altro popolo, l'italiano sa attingere, nella indipendenza della vita di bottega, qualunque sacrifizio o privazione per far fronte alle necessità dell'arte, mentre mortificato nel suo spirito creatore dal lavoro squalificato della fabbrica, egli sperpera la paga nell'acquisto di un oblío e di una gioia che gli abbrevia l'esistenza» (p. 171 del libro).

Nel piano intellettuale e culturale il libro del Fanelli corrisponde all'attività letteraria di certi poeti di provincia che ancora continuano a scrivere continuazioni, in ottava rima, della Gerusalemme Liberata e Vittoriosa (Conquistata), a parte certa mutria altezzosa e buffa. È da notare che le «idee» esposte dal Fanelli hanno avuto, in certi anni, una grande diffusione, ciò che era in curioso contrasto col programma «demografico» da una parte, e col concetto di «nazione militare» dall'altra, poiché non si può pensare a cannoni e corazzate costruite da artigiani o alla motorizzazione coi carri a buoi, né al programma di un'Italia «artigiana» e militarmente impotente in mezzo a Stati altamente industrializzati con le relative conseguenze militari: tutto ciò dimostra che i gruppi intellettuali che esprimevano queste lorianate in realtà s'infischiavano, non solo della logica, ma della vita nazionale, della politica e di tutto quanto. Non è molto difficile rispondere al Fanelli: il Brucculeri stesso nota giustamente che ormai l'artigianato è legato alla grande industria e ne dipende: esso ne riceve materie prime semilavorate e utensili perfezionati.

Che l'operaio italiano (come media) dia una produzione relativamente scarsa può essere vero: ma ciò dipende da ciò che in Italia l'industrialismo, abusando della massa crescente di disoccupati (che l'emigrazione solo in parte riusciva ad assorbire) è stato sempre un industrialismo di rapina, che ha speculato sui bassi salari e ha trascurato lo sviluppo tecnico; la proverbiale «sobrietà» degli italiani è solo una metafora per significare che non esiste un tenore di vita adeguato al consumo di energia domandato dal lavoro di fabbrica (quindi anche bassi rendimenti).

L'«italiano» tipo, presentato dal Fanelli è coreografico e falso per ogni rispetto: nell'ordine intellettuale sono gli italiani che hanno creato l'«erudizione» e il paziente lavoro d'archivio: il Muratori, il Tiraboschi, il Baronio, ecc., erano italiani e non tedeschi; la «fabbrica» come grande manifattura ebbe certo in Italia le sue prime manifestazioni organiche e razionali. Del resto, tutto questo parlare di artigianato e di artigiani è fondato su un equivoco grossolano: perché nell'artigianato esiste un lavoro in serie e standardizzato dello stesso tipo «intellettuale» di quello della grande industria razionalizzata: l'artigiano produce mobili, aratri, roncole, coltelli, case di contadini, stoffe, ecc., sempre di uno stesso tipo, che è conforme al gusto secolare di un villaggio, di un mandamento, di un distretto, di una provincia, al massimo di una regione. La grande industria cerca di standardizzare il gusto di un continente o del mondo intero per una stagione o per qualche anno; l'artigianato subisce una standardizzazione già esistente e mummificata di una valle o di un angolo del mondo. Un artigianato a «creazione individuale» arbitraria incessante è cosí ristretto che comprende solo gli artisti nel senso stretto della parola (e ancora: solo i «grandi» artisti che diventano «prototipi» dei loro scolari).

Il libro del Fanelli eccelle per il lorianismo: ma può essere esaminato in altre rubriche: «Americanismo» e «Passato e Presente».



Paolo Orano. Due «stranezze» di P. Orano (a memoria): il «saggio» Ad metalla nel volume Altorilievi (ed. Puccini, Milano), in cui propone agli operai minatori (dopo una catastrofe mineraria) di abbandonare definitivamente lo sfruttamento delle miniere, di tutte le miniere: lo propone da «sindacalista», da rappresentante di una nuova morale dei produttori moderni ecc., cioè propone, come niente, di interrompere e distruggere tutta l'industria metallurgica e meccanica; il volumetto sulla Sardegna (che pare sia il primo scritto pubblicato dall'Orano) dove si parla di un comico «liquido ambiente» ecc. Nei «medaglioni» (I Moderni) e nelle altre pubblicazioni dell'Orano c'è molto da spulciare, fino alla sua piú recente produzione (ricordare il discorso di risposta alla Corona dopo il Concordato, dove c'è una teoria dell'«arbitrario», connesso col bergsonismo, veramente spassosa).


Un articolo di P. Orano su Ibsen sulla «Nuova Antologia» del 1° aprile 1928. Un aforisma pregnante di vacuità: «L'autentico (cioè il corrispettivo rinforzato del tanto screditato "vero") sforzo moderno dell'arte drammatica è consistito nel risolvere scenicamente (!) gli assurdi (!) della vita consapevole (!). Fuori di ciò il teatro può essere un bellissimo gioco consolatore (!), un amabile passatempo, non altro». Altro aforisma come sopra: «Con lui e per lui (Ibsen) abbiamo incominciato a credere all'eternità dell'attimo, perché l'attimo è pensiero, e dal valore assoluto della personalità individuale, che è agente e giudice fuor del tempo e dello spazio, oltre i rimorsi temporali e il nulla spaziale, momento e durata inattingibili al criterio della scienza e della religione».


A proposito dei rapporti tra gli intellettuali sindacalisti italiani e Sorel occorre fare un confronto tra i giudizi che su di essi il Sorel ha pubblicato recensendone i libri (nel «Mouvement socialiste» e altrove) e quelli espressi nelle sue lettere al Croce. Questi ultimi illuminano i primi di una luce spesso ironica o reticente: cfr. il giudizio su Cristo e Quirino di P. Orano pubblicato nel «Mouvement socialiste» dell'aprile 1908 e quello nella lettera al Croce in data 29 dicembre 1907: evidentemente il giudizio pubblico era ironico e reticente, ma l'Orano lo riporta nella edizione Campitelli, Foligno, 1928, come se fosse di lode.


Nelle lettere di G. Sorel a B. Croce si può spigolare piú di un elemento di lorianesimo nella produzione letteraria dei sindacalisti italiani. Il Sorel afferma, per esempio, che nella tesi di laurea di Arturo Labriola si scrive come se il Labriola credesse che il Capitale di Marx è stato elaborato sull'esperienza economica francese e non su quella inglese.



[Benito Mussolini.] Nell'introduzione all'articolo sul «Fascismo» pubblicato dall'Enciclopedia Italiana, introduzione scritta dal capo del governo, si legge: «Una siffatta concezione della vita porta il fascismo ad essere la negazione recisa di quella dottrina che costituí la base del socialismo cosí detto scientifico o marxiano: la dottrina del materialismo storico, secondo il quale la storia delle civiltà umane si spiegherebbe soltanto con la lotta di interessi tra i diversi gruppi sociali e col cambiamento dei mezzi e strumenti di produzione. Che le vicende dell'economia – scoperte di materie prime, nuovi metodi di lavoro, invenzioni scientifiche – abbiano una loro importanza, nessuno nega; ma che esse bastino a spiegare la storia umana escludendone tutti gli altri fattori, è assurdo; il fascismo crede ancora e sempre nella santità e nell'eroismo, cioè in atti nei quali nessun motivo economico – lontano o vicino – agisce».

L'influsso delle teorie di Loria è evidente.



G. A. Borgese. «Quasi tutte le guerre e le rivolte in ultima analisi si possono ridurre a secchie rapite; l'importante è vedere che cosa nella secchia vedessero rapitori e difensori». «Corriere della Sera» 8 marzo 1932 (Psicologia della proibizione). L'aureo aforisma del Borgese potrebbe essere citato come commento autentico al libriccino in cui G. A. Borgese parla delle nuove correnti di opinione scientifica (Eddington) e annuncia che esse hanno dato il colpo mortale al materialismo storico. Si può scegliere: tra l'«ultima analisi» economica e l'«ultima analisi» secchia rapita.



[I libri perduti di Tito Livio.] A questa corrente [loriana] occorre collegare la famosa controversia sui libri perduti di Tito Livio che sarebbero stati ritrovati a Napoli qualche anno fa da un professore che acquistò cosí qualche istante di celebrità forse non desiderata. Secondo me le cause di questo scandaloso episodio sono da ricercare negli intrighi del prof. Francesco Ribezzo e nella abulía del professore in parola di cui non ricordo il nome. Questo professore pubblicava una rivista, il prof. Ribezzo un'altra rivista concorrente, ambedue inutili o quasi (ho visto la rivista del Ribezzo per molti anni e ho conosciuto il Ribezzo per quello che vale): i due si contendevano una cattedra all'Università di Napoli. Fu il Ribezzo a pubblicare nella sua rivista l'annunzio della scoperta fatta (!) dal collega, che cosí si trovò fatto centro della curiosità dei giornali e del pubblico e fu liquidato scientificamente e moralmente. Il Ribezzo non ha nessuna capacità scientifica: quando lo conobbi io, nel 1910-11 aveva dimenticato il greco e il latino quasi completamente ed era uno «specialista» di linguistica comparata arioeuropea. Questa sua ignoranza risaltava cosí manifesta che il Ribezzo ebbe frequenti conflitti violenti con gli allievi. Al Liceo di Palermo fu implicato nello scandalo dell'uccisione di un professore da parte di uno studente (mi pare nel '908 o nel '909). Mandato a Cagliari in punizione entrò in conflitto con gli studenti, conflitto che nel 1912 diventò acuto, con polemiche nei giornali, minacce di morte al Ribezzo ecc. che fu dovuto trasferire a Napoli. Il Ribezzo doveva essere fortemente sostenuto dalla camorra universitaria napoletana (Cocchia e C.). Partecipò al concorso per la cattedra di glottologia dell'Università di Torino: poiché fu nominato il Bartoli, fece una pubblicazione ridevole. ecc.



Le noccioline americane e il petrolio. In una nota sul lorianesimo ho accennato alla proposta di un colonnello di coltivare ad arachidi 50.000 Kmq. per avere il fabbisogno italiano in olii combustibili. Si tratta del colonnello del Genio navale ingegnere Barberis, che ne parlò in una comunicazione, «Il combustibile liquido e il suo avvenire», al Congresso delle Scienze tenuto in Perugia nell'ottobre 1927. (Cfr. Manfredi Gravina, Olii, petroli e benzina, nella «Nuova Antologia» del 1° gennaio 1928, nota a p. 71).



[Luigi Valli.] Sulle interpretazioni settarie della Commedia di Dante e del dolce stil nuovo da parte di Luigi Valli, cfr. per un'informazione rapida Una nuova interpretazione delle rime di Dante e del dolce stil novo di Benedetto Migliore, nella «Nuova Antologia» del 16 febbraio 1928.


Luigi Valli e la sua interpretazione «cospiratoria» e massonica del dolce stil nuovo (con i precedenti di D. G. Rossetti e del Pascoli) è da porre in una determinata serie del lorianismo. Invece Giulio Salvadori che nei Promessi Sposi scopre il dramma di Enrichetta Blondel (Lucia) oppressa dal Condorcet, donna Giulia e il Manzoni stesso (Don Rodrigo, l'Innominato, ecc.) è forse piuttosto da considerare come un «seguace» inconscio delle teorie di Freud, fenomeno curioso a sua volta per tanti aspetti. (Di Giulio Salvadori e della sua interpretazione cfr. un articolo in «Arte e vita» del giugno 1920 e il libro postumo Enrichetta Manzoni-Blondel e il Natale del '33, Treves, 1929).



L'ossicino di Cuvier. Esposizione del principio di Cuvier. Ma non tutti sono Cuvier e specialmente la «sociologia» non può essere paragonata alle scienze naturali. Le generalizzazioni arbitrarie e «bizzarre» vi sono estremamente piú possibili (e piú dannose per la vita pratica).



Lorianismo nella scienza geografica. Ricordare il libro del professore Alberto Magnaghi (fuori commercio) sui geografi spropositanti. Mi pare che il libro sia un modello del genere.



[A. O. Olivetti.] In questa rubrica mi pare di non aver registrato promemoria di A. O. Olivetti, che di diritto ci appartiene per ogni rispetto: come inventore di pensamenti genialissimi e come sconnesso e pretensioso erudito da bazar.



Giuseppe De Lorenzo. Anche alcuni aspetti dell'attività intellettuale del De Lorenzo rientrano nella categoria del lorianismo. Tuttavia occorre con lui essere discreti.



Domenico Giuliotti. Alla «dottrina» loriana del nesso necessario tra misticismo e sifilide fa riscontro (fino a un certo punto) Domenico Giuliotti che, nella prefazione a Profili di Santi edito dalla Casa Ed. Rinascimento del Libro, scrive: «Eppure, o edifichiamo unicamente in Cristo o, in altri modi, edifichiamo nella morte. Nietzsche, per esempio, l'ultimo anticristiano di grido, è bene non dimenticare che finí luetico e pazzo». A quanto pare, secondo il Giuliotti, Nietzsche è solo uno di una serie, si tratta di una legge, cioè, ed «è bene non dimenticare» il nesso. Giuliotti dice: state attenti, ragazzi, a non essere anticristiani, perché altrimenti morrete luetici e pazzi; e ancora: «state attente, ragazze, agli anticristiani: essi sono luetici e pazzi». (La prefazione del Giuliotti è riportata dall'«Italia Letteraria» del 15 dicembre 1929: pare che il libro sia una raccolta di vite di santi tradotte dal Giuliotti).



Corso Bovio. Corso Bovio deve essere collocato nel quadro del lorianismo, ma occorre nello stesso tempo, ricordare di mantenere le distanze per la prospettiva. Nel quadro, Loria è un «elefante», cos'è Corso Bovio? Certi fiamminghi mettono sempre un cagnolino nei loro quadri, ma forse il cagnolino è già un animale troppo grosso e stimabile: una blatta è forse piú adeguata a rappresentare Corso Bovio.



Emilio Bodrero. Ramo aristocratico o nazionalistico del lorianismo. Il Bodrero è professore di università, credo di materia filosofica, sebbene non sia per nulla filosofo e neppure filologo o erudito della filosofia. Apparteneva al gruppo ardigoiano. Sottosegretario all'istruzione pubblica con Fedele, cioè in una gestione della Minerva che è stata molto criticata dagli stessi elementi piú spregiudicati del partito al potere. Il Bodrero è, specificamente, autore di una circolare in cui si afferma che l'educazione religiosa è il coronamento dell'istruzione pubblica, che ha servito ai clericali per muovere all'assedio sistematico dell'organismo scolastico e che è diventata per i loro pubblicisti, l'argomentazione polemica decisiva (esposizione nell'opuscolo di Ignotus, il quale però deve ipocritamente tacere che la stessa affermazione è nel concordato). Articolo del Bodrero Itaca Italia nella «Gerarchia» del giugno 1930: stupefacente. Per il Bodrero l'Odissea è «il poema della controrivoluzione», un parallelo tra il dopo guerra troiano-greco e il dopoguerra '19-20 degno di un nuovo Bertoldo. I Proci sono... gli imboscati. Penelope è... la democrazia liberale. Il fatto che i Proci saccheggiano la dispensa di Ulisse, ne stuprano le ancelle e cercano di prendergli la moglie è una... rivoluzione. Ulisse è il... combattentismo. I Feaci sono l'Olanda o la Spagna neutrali che si arricchiscono sui sacrifizi altrui ecc. Ci sono poi delle proposizioni di metodo filologico: chi ha fatto la guerra e ha conosciuto il dopoguerra non può sostenere con sicurezza che l'Iliade e l'Odissea sono di un solo autore e sono unitarie in tutta la loro struttura (anche questa è una variazione della teoria della voce del sangue come origine e mezzo della conoscenza). Si potrebbe osservare, comicamente, che proprio Ulisse è il tipo del renitente alla leva e del simulatore di pazzia!

Indice dei nomi

Addison Joseph

Agapito I

Agnelli Giovanni

Alberti Leon Battista

Alfieri Vittorio

Algarotti Francesco

Alighieri Dante

Amatucci Aurelio Giuseppe

Amicucci Ermanno

Antici, cardinale

Antonielli Ugo

Anzilotti Antonio

Ardigò Roberto

Arezio Luigi

Aristotele

Arpinati Leandro

Augusto III di Sassonia


Bacchelli Riccardo

Balbo Cesare

Ballerini Esuperanzo

Balzani Ugo

Barbadoro Bruno

Barbagallo Corrado

Barbarich Eugenio

Barberis, colonnello

Barbi Michele

Barbusse Henri

Baretti Giuseppe

Bargagli-Petrucci Gino

Baroncelli Piero

Baronio Cesare

Barrès Maurice

Bartoli Matteo

Basta Giorgio

Beccaria Manzoni Giulia

Bellini Vincenzo

Belluzzo Giuseppe

Benco Silvio

Benda Julien

Benedetto da Norcia

Benni Antonio Stefano

Benvenuti Leo

Berge André

Bergson Henri

Berl Emmanuel

Bernardy Amy

Bernhard Georg

Bertoni Giulio

Bibboni Francesco

Blondel Manzoni Enrichetta

Boccaccio Giovanni

Bodrero Emilio

Bollo Andrea

Bonzi Iro

Borgese Giuseppe Antonio

Botero Giovanni

Bourgain L.

Bournac Olivier

Bovio Corso

Brandileone Francesco

Brindisi Giuseppe

Brucculeri Angelo

Bruno Giordano

Brunot Ferdinand

Bülow Bernhard von

Buonaccorsi Filippo

Buonarroti Michelangelo

Burckhardt Jakob


Calcaterra Carlo

Calles Plutarco Elias

Cambon Victor

Campanella Tommaso

Campi Bartolomeo

Campi Scipione

Capasso Aldo

Capuana Luigi

Caramella Santino

Carducci Giosuè

Carli Filippo

Carlo I d'Austria

Carlo III il Grosso

Carlo Magno

Carlyle Thomas

Carson Edward Henry

Cartesio René Descartes

Casati Gabrio

Casimiro III di Polonia

Cassiodoro Flavio Magno Aurelio

Castellani Alberto

Castiglione Baldassarre

Castiglioni Arturo

Cattaneo Carlo

Cavalcanti Guido

Cavallotti Felice

Cellini Benvenuto

Cesare Gaio Giulio

Chiappelli Alessandro

Chu Hsi

Cicerone Marco Tullio

Cillie

Cipri-Romanò

Clemenceau Georges

Cocchia Enrico

Cohn Mels

Colombo Cristoforo

Colombo Yoseph

Colonna di Cesarò Giovanni

Confucio

Coppola Francesco

Costantini Celso

Costantino Flavio Valerio Aurelio

Couchoud Paul-Louis

Couplet Philippe

Cousinet Roger

Credaro Luigi

Croce Benedetto

Cuvier Georges


Dall'Oglio

D'Ancona Alessandro

Dazzi Manlio Torquato

De Amicis Edmondo

De Bartholomaeis Vincenzo

De Felice Giuffrida Giuseppe

Degli Angeli Pietro

D'Elia Pasquale

Della Casa Giovanni

Del Monte Giambattista

Del Monte Luigi

De Lorenzo Giuseppe

D'Ercole Pasquale

De Roberto Federico

De Sanctis Francesco

De Sanctis Gaetano

De Sanctis Luigi

Devoto Giacomo

Di Francia Letterio

Di Giura Giovanni

Drews Arthur

Dreyfus Alfred

Du Halde Jean-Baptiste

Ducati Bruno

Ducati Pericle

Duchesne Louis


Eddington Arthur

Einaudi Luigi

Ennio Quinto

Enrico VI d'Inghilterra

Erasmo da Rotterdam

Erkes Eduard

Ermini Filippo


Fabietti Ettore

Faggi Adolfo

Fanelli Giuseppe Attilio

Farnese Alessandro

Farnese Elisabetta di Spagna

Farnese Ranuccio

Fauriel Claude-Charles

Fedele Pietro

Federico I Barbarossa

Federico II

Fedro

Ferrando Guido

Ferrero Guglielmo

Ferri Enrico

Finck Franz Nikolaus

Foà Arturo

Ford Henry

Forke Alfred

Formiggini Angelo Fortunato

Foscolo Ugo

Fourmont Étienne

Fracchia Umberto

Francesco d'Assisi

Francesco Giuseppe d'Austria

Francesco Saverio

Franelli Carlo

Frank Hans

Frank Leonhard

Freud Sigmund

Fueter Eduard


Galilei Galileo

Gargàno Giuseppe

Garibaldi Giuseppe

Gatti Angelo

Gautama Buddha

Gemelli Agostino

Gentile Giovanni

Gerolamo di Stridone

Ghisleri Arcangelo

Giannone Pietro

Giansenio Cornelio

Gide André

Giglioli Giulio Quirino

Gioberti Vincenzo

Gioda Mario

Giovanni Evangelista

Giuliotti Domenico

Giusti Giuseppe

Giustiniano I

Giustiniano Pompeo

Glaeser Ernst

Glarisegg

Gobetti Piero

Goethe Wolfgang

Gonzaga Luisa Maria

Gonzales Palencia Angel

Gori Piero

Gozzi Gaspare

Gran Turco (Solimano I)

Gravina Manfredi

Graziadei Antonio

Groethuysen Bernard

Guéhenno Jean

Guériot Paul

Guglielmo II di Prussia

Guicciardini Francesco

Guidi Michelangelo

Guinigi Paolo

Guisa Enrico I, duca di


Haller Karl Ludwig von

Hamp Pierre

Harnack Adolf von

Hartmann Richard

Hauptmann Gerhard

Hedden W. P.

Hegel Georg Friedrich Wilhelm

Hella Alzir

Herdrich

Hirt Ferdinand

Hitler Adolf

Holik-Barabàs Ladislao

Hortis Attilio

Hugenberg Alfred von

Hugo Victor

Hu-Shi

Huxley Aldous


Ibsen Henrik

Ikbal Alí Shah Sirdar

Ignotus

Innocenzo VIII

Intorcetta Prospero

Irnerio


Jaurès Jean

Jebb Richard

Johnson Vernon

Julien Stanislas

Jullian Camille

Jusserand Jean-Andrien-Antoine-Jules


Kampffmeyer George

Kemal Pascià

Kropotkin Pëtr Alekseevič


Labriola Antonio

Labriola Arturo

Ladislao II Jagellone di Polonia

Ladislao IV Vasa di Polonia

Lagnasco, conte di

La Marche Lecoy de

Langlois Charles-Victor

Lanson Gustave

Lanzoni Francesco

Lao-Tse

Lasca (Anton Francesco Grazzini)

Lattanzio Firmiano

Lazzareschi Eugenio

Lefèvre Frédéric

Lensi Alfredo

Lenzi Arturo

Leonardo da Vinci

Leopardi Giacomo

Lesczynsky Stanislao

Lessing Gotthold Ephraim

Levi Ezio

Lisio Giuseppe

Littmann Enno

Littré Émile

Livio Tito

Lloyd George David

Lo Gatto Ettore

Lojacono Vincenzo

Lombardo-Radice Giuseppe

Lorenzoni Giovanni

Loria Achille

Lorizio F. E.

Loyson Paul-Hyacinthe

Lucchesini, marchese

Luigi XV di Francia

Lumbroso Alberto

Lumbroso Giacomo

Lutero Martin

Luzio Alessandro

Luzzatti Luigi


Macaulay Thomas Babington

Machiavelli Niccolò


Madariaga Salvador de

Magnaghi Alberto

Magni fratelli

Mann Heinrich

Manzoni Alessandro

Maometto

Marchesi Concetto

Marchesini Giovanni

Margueritte Victor

Mario Alberto

Mark Twain

Marx Karl

Masaryk Thomas

Maurice Jules

Maurras Charles

Mazzarino Giulio Raimondo

Mazzini Giuseppe

Medici Caterina e Maria de'

Ménage Gilles

Meozzi Antero

Metastasio Pietro

Metron

Meyer Robert

Michel Paul-Henri

Migliore Benedetto

Mille Pierre

Missiroli Mario

Molé Enrico

Mondolfo Rodolfo

Mondragone Cristoforo

Montecuccoli Raimondo

Montessori Maria

Monti, marchese de

More Thomas

Mortara Giorgio

Mosca Gaetano

Muratori Ludovico Antonio

Mussato Albertino

Mussolini Benito


Naldi Filippo

Napoleone I

Napoleone III

Newman John Henry

Nietzsche Friedrich

Nolhac Pierre de

Nordau Max

Nunziante Ferdinando


Ojetti Ugo

Olivetti Angelo Oliviero

Ollivier Emil

Olschki Leonardo

Omodeo Adolfo

O'Neill E. F.

Orano Paolo

Orazio Flacco Quinto

Ormsby-Gore William George Arthur


Paciotto da Urbino

Panini, famiglia

Panizzi Antonio

Panzacchi Enrico

Panzini Alfredo

Paolo di Tarso

Papini Giovanni

Paravesino Giacomo de

Pareti Luigi

Pareto Vilfredo

Paris Gaston

Pascoli Giovanni

Pastor Ludwig von

Pelaez Mario

Pestalozzi Enrico

Petracco ser

Petrarca Francesco

Petrini Domenico

Pettazzoni Raffaele

Piacentino

Picardi Vincenzo

Pietro I il Grande di Russia

Pio IX

Pirenne Henri

Pisani Vittore

Platone

Plauto Tito Maccio

Podrecca Guido

Pompeati Arturo

Pozzoni Carlo

Prémare Joseph-Henri

Prestinenza Antonio

Prezzolini Giuseppe

Proudhon Pierre-Joseph

Provenzal Dino

Przezdziecki Renaud

Puoti Basilio


Quincey Thomas de


Rabezzana Pietro

Rapisardi Mario

Reina

Remarque Erich Maria

Rémusat Abel de

Renan Ernest

Reynaud Louis

Ribezzo Francesco

Ricci Corrado

Rignano Eugenio

Rist Charles

Rival Albert

Rizzi Fortunato

Rocca Massimo

Rocchi Enrico

Rodbertus Johann Karl

Rohan Charles de

Roncalli Domenico

Rossetti Dante Gabriele

Rossi Enrico

Rostagni Augusto

Rothschild Mayer Amschel R.

Rougemont François

Rousseau Jean-Jacques

Russo Luigi


Sabatier Auguste-Louis

Sacchetti Franco

Salaris E.

Sallustio Gaio Crispo

Salvadori Giulio

Salvatorelli Luigi

Salvioli Giuseppe

Sand George

Sanna Giovanni

Savorgnan di Brazzà Francesco

Scarpellini Angelo

Schiavi Alessandro

Schipa Michelangelo

Scialoja Vittorio

Segré Carlo

Serbelloni Gabrio

Serrati Giacinto Menotti

Sigismondo di Lussemburgo, re di Ungheria

Sillani Tommaso

Silvestro II

Sisto IV

Soffici Ardengo

Sorel Georges

Spano Pippo (Scolari Filippo)

Spaventa Bertrando

Spengler Otto

Spinola Ambrogio

Stanislao I Lesczynski di Polonia

Stendhal (Henri Beyle)

Stresemann Gustav

Suckert Kurt (Curzio Malaparte)

Sue Eugène

Suen Uen

Sun Yat-sen

Svetonio Tranquillo Gaio

Symonds John Addington


Tacito Publio Cornelio

Taine Hippolyte

Tarchiani Nello

Tavolato Italo

Taylor Frederick Winslow

Tempio Domenico

Tertulliano Quinto Settimio

Thérive André

Tilgher Adriano

Timpanaro Sebastiano

Tiraboschi Gerolamo

Toffanin Giuseppe

Tormay Cecilia de

Trenta Galvano

Trombetti Alfredo

Tucci Giuseppe

Turati Filippo


Valli Luigi

Veo Ettore

Verdi Giuseppe

Verga Giovanni

Veroneo Jeronimo

Vettori Piero

Vieusseux Giampietro

Villari Luigi

Virgilii Filippo

Virgilio Marone Publio

Vitelli Gerolamo

Vittorio Emanuele II

Voigt Georg

Volpe Gioacchino

Voltaire (François-Marie Arouet)


Wagner Richard

Washburne Carleton

Wasserman Jakob

Weber Max

Wechsseler Eduard

Wells Herbert George

Werfel Franz

Wieger Leon

Wolf Theodor


Zanette Emilio

Zola Emile

Zuccolo Ludovico

Zweig Stephen