Wikipedia
      
      
      Biografia
      
      Figlio di un liberale, Paolo Emilio Imbriani, e nipote del poeta
      risorgimentale Alessandro Poerio, di cui la madre Carlotta Poerio
      era sorella, seguì fin da bambino (1849) il padre in
      esilio, dove trascorse la sua giovinezza, dapprima a Nizza e poi a
      Torino, dove la famiglia si stabilì nel 1856. Nel 1858
      seguì a Zurigo i corsi su Petrarca e la letteratura
      cavalleresca tenuti da Francesco de Sanctis, che il giovane
      venerò come un maestro fino alla rottura intervenuta per
      insanabili divergenze politiche e di carattere personale (Imbriani
      « ritenne De Sanctis - a torto - colpevole di un proprio
      insuccesso amoroso »).[1] Nel 1859 partì volontario
      per la seconda guerra di indipendenza, in cui non poté
      combattere per l’improvvisa pace separata tra Francia e Austria.
      Nel 1860 proseguì gli studi a Berlino dove studiò
      letteratura e filosofia e approfondì il pensiero di Hegel
      convertendosi a un assolutismo monarchico reggente uno Stato
      etico. Era una posizione politica splendidamente reazionaria, che
      ne fece però un isolato anche nella parte politica, la
      destra storica, in cui pure militò tutta la vita:
      «L’individuo, secondo me, non esiste, non debbe esistere che
      per e nello stato; a questo Moloch deve sacrificare tutto,
      libertà, affetto, opinioni».
      
      Nel 1861 tornò a Napoli, anche per evitare gli strascichi
      giudiziari d’uno dei suoi tanti duelli, e due anni dopo vi ottenne
      la libera docenza di estetica pubblicando la prolusione Del valore
      dell’arte forestiera per gli Italiani. Ebbe inizio in questo
      periodo con il suo grande amico Alfonso Ridola avvocato e
      letterato un’intensa attività giornalistica in varie
      riviste del tempo a cui dedicò tutta la sua vita. Nel 1866
      tenne un corso di estetica alla stessa università che
      pubblicò in opuscolo col titolo Dell’organismo poetico e
      della poesia popolare italiana; nello stesso anno partì
      volontario garibaldino per la terza guerra di indipendenza e
      partecipò alla battaglia di Bezzecca dove fu catturato e
      inviato in prigionia in Croazia. Mentre era di stanza con la sua
      brigata a Gallarate, conobbe Eleonora Bertini, moglie del nobile
      Luigi Rosnati, con la quale ebbe una lunga e intensa relazione
      amorosa e di cui fu precettore delle due figlie.
      
      Tornato dopo pochi mesi a Napoli dalla prigionia, dove s’era
      diffusa la falsa notizia della sua morte, tranne soggiorni
      più o meno lunghi a Firenze (1867- 1870) e Roma (1871), non
      vi si mosse più e da allora proseguì una frenetica
      attività culturale in tutti i campi del sapere letterario,
      politico e critico-saggistico, di cui sono testimonianza varie
      pubblicazioni e l’intensa collaborazione a molte riviste della
      destra risorgimentale o storica. Nel 1872 fondò con
      Bertrando Spaventa e Francesco Fiorentino il «Giornale
      napoletano di filosofia e lettere», d’indirizzo hegeliano.
      Nel 1876 visse come tragedia nazionale l’ascesa al potere della
      sinistra risorgimentale tanto da mettere il lutto per l’occasione:
      «Io non so rassegnarmi alla vergogna ed all’obbrobrio. Io
      non so rassegnarmi a vivere disprezzando la mia patria,
      disprezzando il governo che la regge. Questo stato è mille
      volte peggiore della morte. Io non mi ci posso fare assolutamente
      in alcun modo. Stupisco, che altri possa serbare intatta la
      serenità dell’anima, mentre gli viene disonorata e
      sfasciata la patria: ma non vorrei essere anch’io di
      quelli»; e intensificò l’attività politica
      fino a essere eletto consigliere provinciale nel mandamento di
      Pomigliano d'Arco. Nel 1877 partecipò al concorso per la
      cattedra di letteratura italiana dell’Università di Napoli,
      ma venne respinto; subodorò motivi politici nella
      bocciatura e fece ricorso al re per cambiare il giudizio della
      commissione, a capo della quale v’era quel Carducci che Imbriani
      aveva attaccato veementemente per i trascorsi repubblicani e il
      recente voltafaccia filomonarchico.
      
      Nel 1878 sposò a Milano Gigia Rosnati, figlia minore
      dell’ex amante, molto più giovane di lui e a differenza di
      lui molto religiosa. Nel 1879 nacque il primogenito Paolo Emilio
      II, che morì due anni dopo nel 1881, anno della nascita
      della secondogenita Carlotta, destinata anch’essa a una morte
      precocissima. Ma i guai privati ebbero una brusca svolta con la
      malattia contratta nel 1880, la tabe dorsale, che lo ridusse
      progressivamente a una paralisi completa. Ciò non
      gl’impedì di pubblicare e collaborare a riviste anche negli
      ultimi anni di vita. Nel 1884 gli venne resa giustizia e assegnata
      la cattedra di letteratura italiana dell’Università di
      Napoli, ma essendo la malattia in stadio troppo avanzato non
      poté tenere alcuna lezione. Il primo gennaio del 1886
      Vittorio Imbriani, ridotto a un tronco umano, morì nella
      città natale.
      
      Traccia viva e immediata di quest’esistenza piuttosto breve ma
      fitta d’uomini donne e di cose restano i suoi Carteggi, pubblicati
      in due volumi: Vittorio Imbriani intimo, lettere familiari e diari
      inediti e Gli Hegeliani di Napoli e altri corrispondenti letterati
      ed artisti, a cura di N. Coppola, Roma, Istituto di Storia del
      Risorgimento, 1963-64.
      
      Saggi e studi
      
      Della vasta opera di Vittorio Imbriani come studioso del grande
      passato d'Italia su cui costruire e migliorare il deludente
      presente, a cui nulla sapeva perdonare il suo temperamento
      inflessibile, si fa cenno di alcune delle cose più
      importanti.
      
      Attento studioso della letteratura popolare, che andava integrata
      nella sua visione organica nell'alveo letterario della nuova
      nazione unita, raccolse e pubblicò a più riprese
      fiabe, canti e novelle di tradizione orale. Spiccano La
        novellaja fiorentina (Napoli 1871), ripubblicata con
      l'integrazione de La novellaja milanese a Livorno nel
      1877, i Canti popolari delle provincie meridionali
      pubblicati per i tipi di Loescher (1871- 72) e i XII conti
      pomiglianesi pubblicati a Napoli nel 1877.
      
      Simile esigenza di integrazione nazionale ha il suo interessamento
      e studio della lingua, di cui fu, con Tommaseo, per unanime
      riconoscimento critico, il massimo esperto del suo secolo, che
      voleva preservata in tutta la sua ricchezza, apporto di tutti i
      dialetti d’Italia, contro la pruderie toscaneggiante: «Io
      non vorrei però che toscaneggiassimo, perché aborro
      le mascherate, soprattutto nello stile; il Giusti dice così
      bene che la lue di voci pellegrine fa l'anime false; ma si
      falserebbe anche l'animo del Lombardo e del Siciliano, quando gli
      volessero fare esprimere i propri affetti ed i propri pensieri in
      un linguaggio, che non è prodotto dalla sua mente, che non
      risponde alla conformazione del suo cerebro, a' suoi bisogni
      morali ed intellettuali. La lingua Italiana, essa sì, vi
      risponde; perché vi abbiamo tutti collaborato: quindi
      possiamo e dobbiamo servircene, per esprimere tutto il nostro
      retaggio comune. Quantunque è poi speciale, municipale, non
      può bene esprimersi da ciascuno, se non nel suo rispettivo
      dialetto »; e che voleva adatta ai nuovi tempi, con libero
      uso di forestierismi, anzitutto i gallicismi, contro le fisime dei
      puristi: «Io, sappilo, sono un lassista senza paura e senza
      rimorsi. Lassista deliberatamente, non apro i Vocabolari de'
      gallicismi, se non per fare tesoro delle parole, che vi sono poste
      alla berlina, appunto come il governo Italiano ha preso i galeotti
      politici de' Borboni per popolare il Senato, le cattedre, i
      tribunali, le amministrazioni». Era una posizione teorica
      della lingua come fatto sociale che si riverberava poi in un ben
      preciso e inconfondibile stile di scrittura, contrario ai gusti e
      le mode letterarie correnti. Importanti sono per la questione
      della lingua nel nuovo Stato unitario gli Appunti critici, editi a
      Napoli nel 1878.
      
      In ambito di riscoperta del grande passato letterario contrapposto
      polemicamente al presente, v’è l’indagine e lo studio degli
      amati autori del cinque e seicento meridionale. Pietra miliare
      resta il suo studio su Giovan Battista Basile che segna la
      riscoperta di questo artista prima d’allora poco considerato: Il
        gran Basile: studio biografico e bibliografico (Napoli
      1875). Ma va citata almeno la pubblicazione a sua cura della
      Posilecheata di Pompeo Sarnelli (Napoli 1885) pochi mesi prima di
      morire, quando la salute era ormai devastata dalla malattia.
      
      Una menzione a parte meritano gli studi su Dante, fonti anch’essi
      di memorabili scontri coi dantisti fautori di tesi opposte, che
      furono raccolti e pubblicati postumi a cura di Felice Tocco (Studi
        danteschi, Firenze 1891).
      
      Da citare dei suoi studi estetici l’interessante “teoria della
      macchia” in pittura, che mostra un Imbriani acuto osservatore, pur
      dal suo “splendido isolamento” di reazionario, della realtà
      artistica contemporanea: «la macchia è un accordo di
      toni, cioè di ombra e di luce, atto a suscitare nell'animo
      un qualsivoglia sentimento esaltando la fantasia fino alla
      produttività... La macchia è la parte subjettiva del
      quadro; mentre invece l’esecuzione è la parte obiettiva,
      è il soggetto che si fa valere e s’impone». Brillante
      e spesso polemica con artisti e soprattutto critici d’arte
      è la raccolta delle sue cronache sull'omonima mostra
      napoletana La quinta Promotrice (1868).
      
      E di questa spesso risentita osservazione del presente vanno
      almeno ricordate le giustamente definite “terribili” Fame
        usurpate date in stampa a Napoli nel 1877, raccolta di
      quattro saggi critici che sono altrettante stroncature dei poeti
      Aleardo Aleardi e Giacomo Zanella, del Faust di Goethe e delle
      traduzioni di Andrea Maffei. E nondimeno, anche per i risvolti
      biografici, i due scritti contro Giosuè Carducci: Uno
        sguaiato Giosuè, uscito sulla rivista “La Patria” nel
      1868, e l’ode Alla regina un monarchico, che replicava
      polemicamente all’ode carducciana Alla regina d'Italia.
      
      Scritti politici
      
      Altrettanto ampia l'attività di scrittore di cose
      politiche, per la più parte disseminata nelle numerose
      riviste alle quali nel corso di tutta una vita diede
      collaborazione. Il tratto principale d'essi è un'esigenza
      anzitutto morale d'intransigente opposizione a un andazzo della
      cosa pubblica ritenuto debole, corrotto e indegno della passata
      grandezza del paese e della forza e saldezza necessaria alla
      nazione di recente unificata; intransigenza che s'incrudì
      con l'ascesa della sinistra e che seppe giungere a una simile
      paradossale affermazione, dove Cesare Borgia e Maramaldo assurgono
      a simboli di buongoverno: «Che bella Italia sarebbe stata
      quella, che avesse avuto a capo un Cesare Borgia, per ministri de'
      Machiavelli, de' Guicciardini, de' Pontano, per generali de'
      Bartolomeo d'Alviano, de' Piero Strozzi, de' Renzo da Ceri, de'
      Fabrizio Maramaldo, per capo dell'istruzion pubblica un Bembo, per
      poeti aulici Ariosto, Trissino, Tasso...Ahimè invece... ma
      che cosa mi ha fatto questo povero foglio di carta per
      contaminarlo co' nomi de' nostri contemporanei». Da notare
      anche che quel Pietro Bembo a capo dell'istruzione è ben
      probabile una sarcastica allusione a Francesco de Sanctis, l'ex
      venerato maestro, che detestava il Bembo e che per allora era
      l'effettivo ministro dell'istruzione del governo di sinistra.
      
      In questo senso va valutato anche il leitmotiv imbrianesco
      dell'applicazione inflessibile della pena capitale, che ricorre in
      alcune opere letterarie (infra) e che fu trattato esplicitamente
      in alcuni scritti di grande forza polemica: Per la pena
        capitale, Napoli, 1865; Pena capitale e duello,
      Bologna, 1869. Fino a giungere all'esaltazione poetica del tema
      nell'ode Inno al cànape d'un monarchico (1881).
      
      Ma per avere un'idea degli argomenti e della vis polemica dei suoi
      scritti politici si può utilmente consultare le raccolte
      degli interventi giornalistici: Passeggiate romane, a cura
      di M. Praz, Bologna, Boni, 1980; e Ghiribizzi politici, a
      cura di N. Coppola in osservatorio politico-letterario, Roma,
      1956; riediti a cura di B. Iezzi, Massa Lubrense, 1983.
      
      Il titolo di quest'ultima raccolta col termine "ghiribizzi"
      rimanda efficacemente al punto di vista e lo stile tutti propri e
      particolari con cui Vittorio Imbriani interveniva sulle questioni
      politiche del suo tempo.
      
      Opere letterarie
      
      Nelle opere letterarie di Vittorio Imbriani confluiscono tutti i
      suoi studi, le sue inclinazioni e le sue avversioni. Ciò
      che dà spesso una ventata d'estro ai suoi testi letterari.
      Ma il bizzoso, il ghiribizzoso, la bizzarria non sono tanto lo
      sfogo umorale d’un capo ameno seppur brillante e acutissimo
      d’ingegno, quanto una vera e propria macchina da guerra contro i
      gusti e le convenzioni letterarie del tempo.
      
      I due romanzi, Merope IV (1867) e Dio ne scampi dagli
        Orsenigo (1876) sono la parodizzazione e il ribaltamento
      ironico dei romanzi sentimentali torbidamente psicologici in cui
      il secondo ottocento romantico si compiaceva di rappresentare i
      suoi amori proibiti, da una parte ammantando di
      eccezionalità i personaggi e le storie raccontate,
      dall’altra ammiccando al gusto patetico e sentimentale dei
      lettori, che s'identificassero e compatissero con loro.
      L’operazione “perfida” d’Imbriani non è solo d’illustrare
      nei suoi romanzi la tesi dissacrante che il rapporto adulterino
      è giogo più pesante e noioso del matrimonio stesso:
      «Non presumo sputar fuori ned un paradosso, ned una
      novità; credo, anzi, ripeter cosa, ormai, consentita, da
      chiunque s’intenda, alcun po’, della partita; dicendo che una
      relazione è, quasi sempre, più pesante del
      matrimonio»; ma per giunta di smontare l’impalcatura
      narrativa, la struttura formale su cui i romanzi si reggevano e
      assecondavano le aspettative del lettore-tipo di quel prodotto
      letterario. E quest’opera di “guerrigliero”, di guastatore del
      gusto letterario corrente, insomma di distruzione letteraria che
      così a fondo fu condotta solo decine d’anni dopo dalle
      avanguardie primonovecentesche, Imbriani poté anticiparla
      paradossalmente proprio per la sua posizione di retroguardia in
      letteratura e reazionaria in politica. Posto importante in
      quest’opera di caustica distruzione ha la sua sterminata
      conoscenza linguistica e culturale, che egli usa
      indiscriminatamente in un miscuglio di registri differenti di
      lingua e di citazioni erudite fatte per interrompere e sviare il
      flusso del racconto. L'effetto di straniamento che si ottiene
      impedisce scontrosamente qualunque facile abbandono alla lettura e
      all'immedesimazione e può essere considerato il
      corrispettivo, nello stile, dell’indignazione e del risentimento
      morale imbrianesco. Ma erano romanzi forse troppo spiazzanti nel
      pastiche linguistico e nella demolizione della macchina narrativa
      per essere apprezzati appieno allora, e aspettavano probabilmente
      lettori più scafati per essere apprezzati in tutti i pregi
      che indubbiamente hanno.
      
      Dei racconti d'Imbriani mette conto accennare almeno ai testi che
      più hanno destato interesse editoriale e contribuito alla
      recente reviviscenza di questo autore.
      
      La bella bionda. È un racconto lungo ambientato
      nella Napoli del tempo, e che più correva il rischio di
      cadere nel bozzettismo d'ambiente o nel realismo patetico di certe
      descrizioni delle classi umili. L'autore mette invece in primo
      piano l'ignavia e la corruzione della classe politica d'allora
      nella figura di Mimì Squillacciotti, che, brigato
      perché la bella Ersilia, orfana e povera, ottenesse un
      posto di maestra dopo averne fatto la sua amante, e attaccato per
      questo dai propri avversari politici non meno corrotti di lui,
      crolla politicamente portandosi dietro di sé, incapace di
      difenderla, la sua amante, che perde il posto e la sicurezza
      economica conquistata. Ma la scelta cinicamente consapevole della
      bella bionda di usare le sue grazie per procacciarsi da vivere
      autonomamente riscatta questa figura femminile — e il racconto —
      dalla fine strappalacrime che sembrava profilarsi. Tale
      consapevolezza, anche se con un po' di forzatura anacronistica, ha
      fatto definire questo racconto dalla casa editrice che di recente
      l'ha riedito: «il primo romanzo femminista italiano».
Mastr'Impicca. Anche qui, però in controluce, è satireggiata l'imbelle classe politica del tempo e le sue istituzioni. Ma il modello letterario in cui l'autore trasfonde la satira, il racconto fantastico popolaresco o fiaba, libera maggiormente l'estro e il divertimento nel trattare il tema.
La novella del vivicomburio. È il racconto dove più esplodono i fuochi d'artificio linguistici d'Imbriani. La scelta del modello letterario e del tema scabroso contribuiscono in buona misura a questo risultato. La veste boccaccesca del racconto, l'esplicitezza del linguaggio e delle metafore sessuali mutuata dai pornografi del cinquecento come l'Aretino, l'uso della lingua furbesca, il gergo furfantesco del cinquecento, fanno di questo racconto in cui l'Imbriani ritorna sul tema prediletto della pena capitale un esercizio di bravura stilistica che teme pochi confronti. Ma anche qui, con quell'intuizione del mondo cinica e beffarda propria di questo magnifico reazionario, il personaggio più straordinario è il capitano genovese dell'equipaggio di sodomiti, tale Parodi, che fin sopra il rogo che lo brucerà vivo ― di qui il termine vivicomburio ― proclamerà coram populo la supremazia della sua scelta sessuale sull'altra banalmente normale: sodomita impenitente fino all'ultimo. Alcune citazioni di passi della novella possono dar conto dello straordinario gioco linguistico
 « Chi v'immaginate, ch'io mi sia? O fottermi come si
      conviene o menarvi la rilla. Ite ne' bronti di via Calabraghe:
      lì forse troverete brocchiere pronte a darvi il messere per
      qualche lampante di civetta o per poco di albume. Io no, io.
      »
      «Marinaracci, buscanti, soliti ad andare in zoccoli per lo
      asciutto, rimanevan frigidi e scorgendo e palpando il più
      bel paio di mammellette, il più morvido pettignone e
      peloso; ma subito, ma ratto, vincendoli non so qual furia o fuoco
      o foia, gli s'inalberava lo scatapocchio allo aspetto od al tatto
      d'un paio di chiappe, di pacche, di mele.»
      
      L’impietratrice. La sterminata erudizione
      dell’Imbriani, che nei romanzi è usata per sviare
      sardonicamente la narrazione, in questa “panzana”, tale è
      definita dall’autore, è usata per avviare invece la
      possibilità d’un diverso svolgimento storico, d’un’ucronia.
      Che il duca Valentino dopo la sconfitta in Italia sia morto in
      Spagna, è storia solo per chi conosce appena le fonti
      più note. Per chi come Imbriani è a conoscenza di
      tante rarità librarie, l’ultima parte di vita di Cesare
      Borgia ha ben altro esito. Che poi questo scorcio di biblioteca
      imbrianesca che sorregge la tesi storica, “preborgesianamente”,
      come è stato detto, mescoli edizioni false ma plausibili a
      edizioni vere ma improbabili, come può il povero lettore,
      impotente di fronte a tanto sfoggio di cultura, accorgersene? E
      così citazione dopo citazione libresca Cesare Borgia
      raggiunge il nuovo mondo e convince per amore la medusa atzeca, la
      bellissima principessa che pietrifica chiunque la fissi negli
      occhi, Ciaciunena l’impietratrice, a essere strumento della sua
      vendetta e cambiare il corso storico delle cose italiane. Ma
      innamoratosi anche lui, l’audacia e la confidenza che anche come
      amante dimostra lo perde, e viene inavvertitamente pietrificato
      dalla fanciulla. Che disperata, vuole almeno portare a termine la
      vendetta dell’uomo che amava, e giunge in Vaticano alla presenza
      di Giulio II per pietrificare il papa e tutta la sua corte. Ma,
      com’è come non è, i suoi poteri lapidificatori
      decadono in questo emisfero e Giulio II scampa alla
      pietrificazione quanto al corpo; «quanto al cuore
      dell’augusto vegliardo, già da prima e da un pezzo era di
      sasso, di macigno, di scoglio», come lapidariamente –
      è il caso di dire – soggiunge l’explicit di questa
      serissima panzana. Neppure nel gioco letterario l’acre pessimismo
      d’Imbriani che colora di tragico il cinico e il beffardo della sua
      intuizione del mondo si placa. Né la storia d’Italia sa
      mutarsi in meglio e far pendere le sorti in favore della santa
      ambizione di Cesare Borgia d’unificarla. Sicché questa
      panzana che così bizzarramente illustra il suo pessimismo
      scava ben a fondo nelle scelte politiche d’Imbriani mettendo in
      luce e mostrando una delle convinzioni e degli atteggiamenti che
      infondono il suo spirito reazionario.
      
      La controversa fortuna
      
      Che alla turbinosa vita di questo scrittore così singolare
      sia succeduta un’altrettanto accidentata fortuna e fama postuma, a
      questo punto non è da stupire. Mette dunque conto in
      chiusura di questa voce illustrarla brevemente.
      
      L'atteggiamento costantemente polemico d'Imbriani verso i
      contemporanei in ogni campo: politico, culturale, letterario
      spiega l'eclissi dello scrittore intervenuta con la morte
      dell'uomo. Sarà Croce a recuperare agli inizi del Novecento
      quell'autore particolare che però era appartenuto
      all'entourage dello zio e maestro Bertrando Spaventa. Ma pure in
      quest'opera meritoria restava confermato in Croce il giudizio
      scisso d'un Imbriani studioso serio e capace ma scrittore umorale
      e bizzarro, come il titolo dell'antologia di scritti imbrianeschi
      da lui curata subito rivela: Studi letterari e bizzarrie
        satiriche (1907).
      
      Toccherà a Gianfranco Contini oltre la metà del
      secolo scorso (1968) a dare indicazione d'una lettura unitaria
      della vicenda d'Imbriani, accostando il suo caso e il suo stile a
      quello di Carlo Emilio Gadda, la cui grandezza veniva pienamente
      riconosciuta in quel torno di tempo. Da allora gli studi e le
      pubblicazioni d'Imbriani secondo il suggerimento di
      quell'autorità indiscussa in letteratura che fu Contini si
      sono susseguiti abbastanza regolarmente, e se pure il "misantropo
      napolitano", come Imbriani stesso ebbe a definirsi, resta ancora
      uno scrittore piuttosto "di nicchia", la sua presenza e importanza
      anche in letteratura è oggi pacifica e riconosciuta dalla
      critica più avvertita.
      
      Quanto all'unità dell'uomo e dello scrittore, dello
      studioso e del letterato sintetizzata in quello stile così
      bizzarro e scorbutico, altra acquisizione ormai tutta compiuta
      dalla critica moderna, anche per Vittorio Imbriani possono valere
      alcune dichiarazioni che il gran lombardo fece della sua
      concezione di letteratura e di stile: «Nella mia vita di
      “umiliato e offeso” la narrazione mi è apparsa, talvolta,
      lo strumento che mi avrebbe consentito di ristabilire la “mia”
      verità, il “mio” modo di vedere, cioè: lo strumento
      della rivendicazione contro gli oltraggi del destino e de’ suoi
      umani proietti: lo strumento, in assoluto, del riscatto e della
      vendetta». Era un'idea dell'esercizio letterario che non
      poteva certo avvalersi come strumento stilistico della
      «lingua dell'uso piccolo-borghese, puntuale, miseramente
      apodittica, stenta, scolorata, tetra, eguale, come piccoletto
      grembiule casalingo da rigovernare le stoviglie». In questo
      senso la trasgressione e l'eccesso nello stile possono
      considerarsi anzitutto e principalmente come insofferenza e
      dirompente superamento di quell'angusto orizzonte linguistico.