Rudolf Hilferding
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Rudolf Hilferding (Vienna, 10 agosto 1877 – Parigi, 11 febbraio
1941) è stato un economista, politico e medico tedesco di
origine austriaca.
Di idee marxiste, dettò la politica economica del Partito
socialdemocratico tedesco e fu deputato e ministro delle finanze
della Repubblica di Weimar. Con l'avvento di Hitler si
rifugiò in Francia, ma dopo l'occupazione nazista venne
arrestato e morì in carcere in circostanze mai chiarite.
Il Capitale finanziario di Rudolf Hilferding è stato la base
sulla quale Lenin ha scritto L'imperialismo: le teorie che Lenin vi
ha sviluppato sulle crisi del capitalismo, sulla concentrazione del
capitale e sul prevalere del capitale finanziario su quello
industriale sono prese di peso dall'opera di Hilferding,
socialdemocratico che non passò mai al comunismo.
*
Rudolf Hilferding
Il capitale finanziario
(estratti dal capitolo XXII)
(1910)
www.panarchy.org
Nota
In questo scritto di Rudolf
Hilferding, esponente di punta del marxismo austriaco, si
mescolano affermazioni convenzionali (ad esempio quelle contro
l’anarchia di un libero mercato che, in realtà, libero non
è mai stato) e affermazioni estremamente originali e
stimolanti sul nazionalismo come sorgente ideologica
dell’imperialismo. Hilferding mette in luce il fatto che il
capitalismo industriale è stato rimpiazzato dal capitalismo
finanziario. E mentre la borghesia industriale liberale era
fautrice, almeno nella sua fase rivoluzionaria, del libero mercato
e dell’abolizione dei vincoli statali (mercantilistici), la
borghesia dell’alta finanza è organicamente inserita nella
struttura statale e opera in sintonia con lo stato. Stato e
finanza diventano (e sono tuttora) un’unica cosa.
Questo testo conserva
dunque tutta la sua attualità, soprattutto ai nostri giorni
in cui l’intreccio politica e finanza è più profondo
e invadente che mai.
[...]
Ostile allo statalismo, la borghesia fu - un tempo - in lotta contro
il mercantilismo economico e l’assolutismo politico. Il liberalismo
era allora realmente distruttivo, implicava di fatto il
sovvertimento del potere statale e la rottura di antichi vincoli.
Tutto il sistema dei rapporti gerarchici dello Stato - faticosamente
costruito - ed i legami corporativi cittadini con la loro complicata
sovrastruttura di privilegi e monopoli, vennero spazzati via. La
vittoria del liberalismo provocò un immediato e considerevole
indebolimento dell’autorità dello Stato. La vita economica
avrebbe dovuto essere - almeno in teoria - definitivamente sottratta
al controllo dello Stato, che doveva limitarsi a garantire la
sicurezza e l’uguaglianza borghesi.
Il liberalismo diveniva così la negazione pura e semplice
dello Stato del primo periodo mercantilistico del capitalismo, il
quale, in principio, voleva regolare tutto, ed era anche in netto
contrasto con tutti i sistemi socialistici, i quali, non in senso
distruttivo, ma costruttivo, vogliono porre al posto dell'anarchia e
della libertà della concorrenza un sistema consapevolmente
regolato, creando una società che organizzi la propria vita
economica e quindi anche se stessa. È perciò appena
naturale che i princìpi liberali si siano realizzati
più precocemente in Inghilterra, dove erano sostenuti da una
borghesia tutta per il libero scambio, una borghesia che, anche
durante i periodi di più acuto contrasto con il proletariato,
si lasciò spingere ben raramente a chiedere l'intervento
dello Stato e, comunque, lo fece solo per brevi periodi. Anche in
Inghilterra, però, la realizzazione del liberalismo
urtò non solo contro la resistenza della vecchia aristocrazia
che appoggiava una politica protezionistica ed era, quindi,
recisamente contraria ai princìpi liberali, ma anche, in
parte, contro quella del capitale commerciale, e del capitale
bancario che aspiravano ad investimenti all'estero e pretendevano
soprattutto il mantenimento dell'egemonia sui mari, pretesa, questa,
che veniva avanzata e con estrema energia anche dagli ambienti
interessati alle colonie. Sul continente la concezione liberale
dello Stato riuscì ad imporsi solo parzialmente e con grandi
compromessi. Abbiamo qui un tipico esempio di contraddizione tra
ideologia e realtà: mentre infatti i continentali, in ogni
campo della vita politica e spirituale, con acume e rigida
consequenzialità, riuscirono a trarre tutte le possibili
conseguenze teoriche dai princìpi liberali a cui i Francesi
avevano impresso la classica configurazione (giacché lo
sviluppo più tardo li aveva forniti di strumenti di indagine
scientifica più perfezionati di quelli inglesi) elaborando
perciò sulla base della filosofia razionalistica una
formulazione del liberalismo ben più vasta ed esauriente di
quella inglese, che rimase chiusa entro l'ambito ristretto della
scienza economica, sul piano pratico invece le realizzazioni
politiche furono sul continente molto meno radicali di quelle
inglesi.
Del resto, non è neppure pensabile che proprio la borghesia
continentale - che aveva bisogno dello Stato come della più
potente leva della propria ascesa, e che non intendeva, quindi,
eliminare lo Stato ma trasformarlo da ostacolo a veicolo del proprio
sviluppo - fosse in grado di procedere all'esautoramento del potere
statale richiesto dal liberalismo. Ciò di cui la borghesia
continentale aveva soprattutto bisogno era la eliminazione delle
più piccole formazioni statali, la sostituzione del piccolo
Stato impotente con lo strapotente Stato unitario. L'esigenza della
creazione dello Stato nazionale spingeva la borghesia su posizioni
favorevoli alla conservazione dello Stato. Nel continente, poi, non
era in gioco solo il dominio sul mare, ma anche il dominio sulla
terraferma. L'esercito moderno ha, peraltro, un'importanza ben
maggiore della flotta, nel determinare i rapporti tra la
società civile e il potere dello Stato.
Quest'ultimo, una volta caduto in mane a coloro che possono disporre
dell'esercito, - e ciò avviene inevitabilmente ove esista un
forte esercito di terra - assume una completa autonomia. Il servizio
militare obbligatorio, che ha armato le masse, doveva d'altronde
convincere ben presto la borghesia della necessità di imporre
all'esercito (che altrimenti sarebbe potuto divenire una minaccia al
suo potere) un'organizzazione rigidamente gerarchica creando una
casta di ufficiali capace di funzionare da docile strumento in mano
allo Stato. Mentre da un lato quindi in paesi come la Germania,
l'Austria e l'Italia, il liberalismo non riusciva a realizzare le
proprie premesse teoriche riguardanti lo Stato, esso vedeva
dall'altro bloccarsi il proprio sviluppo in tal senso persino in
Francia, giacché la borghesia francese, per ragioni di
politica commerciale, non poteva rinunciare allo Stato. Ciò
anche perché era inevitabile che la vittoria della
rivoluzione finisse col complicarsi in una guerra su due fronti: e
infatti, da un lato le conquiste rivoluzionarie dovevano essere
difese contro il feudalesimo del continente, mentre, dall'altro, la
creazione di un nuovo Stato capitalistico moderno minacciava
l'antica posizione egemonica dell'Inghilterra sul mercato mondiale.
La Francia dovette così ingaggiare simultaneamente una lotta
contro il continente ed una contro l'Inghilterra, per l'egemonia sul
mercato mondiale. La sconfitta della Francia rafforzò in
Inghilterra la posizione della proprietà fondiaria, del
capitale commerciale, bancario e coloniale, e con ciò il
potere statale, a scapito del capitale industriale, ritardando
così l'inizio della definitiva egemonia del capitale
industriale inglese, e la vittoria del libero scambio. La vittoria
inglese, inoltre, spinse il capitale industriale europeo su
posizioni favorevoli al protezionismo, frustrando completamente gli
sforzi dei sostenitori del libero scambio, e creando, al tempo
stesso, quelle condizioni che erano destinate a favorire, sul
continente, il più rapido sviluppo del capitale finanziario.
L'adeguazione dell'ideologia e della concezione dello Stato borghese
alle esigenze del capitale finanziario trovò perciò in
Europa ostacoli tutt'altro che inamovibili. Il fatto poi, che
l'unificazione della Germania fosse avvenuta in senso
controrivoluzionario, non poté non rafforzare
straordinariamente, nella coscienza del popolo tedesco il rispetto
per lo Stato, mentre in Francia la disfatta militare fece sì
che tutte le energie si concentrassero sul problema della
ricostituzione del potere statale. Le esigenze del capitale
finanziario favorirono in tal modo la nascita e la diffusione di
elementi ideologici che il capitale finanziario poté poi
facilmente utilizzare per elaborare una nuova ideologia adeguata ai
propri interessi. Quest'ultima è però in netto
contrasto con quella del liberalismo. Il capitale finanziario non
chiede libertà, ma dominio: non tiene in alcun conto
l’autonomia del singolo capitalista, anzi ne pretende
l'assoggettamento; aborrisce l'anarchia della concorrenza e promuove
l'organizzazione solo per poter condurre la concorrenza in ambiti
sempre più vasti. Per riuscire in ciò, per poter
conservare ed aumentare il proprio prepotere, esso ha però
bisogno dello Stato il quale, con la sua politica doganale, deve
garantirgli il mercato interno e facilitargli la conquista di quelli
esteri. Il capitale finanziario ha bisogno di uno Stato
politicamente forte che, nei suoi atti di politica commerciale, non
sia costretto ad usare alcun riguardo agli opposti interessi di
altri Stati.
È quindi necessario uno Stato forte, capace di far valere i
suoi interessi finanziari all'estero e di servirsi della propria
potenza per estorcere agli Stati meno potenti vantaggiosi trattati
di fornitura e favorevoli transazioni commerciali; uno Stato che
possa spingersi in ogni parte del globo per fare del mondo intero
zona di investimento del proprio capitale finanziario; uno Stato,
infine, sufficientemente forte per condurre una politica
espansionistica e per potersi incorporare nuove colonie. Mentre il
liberalismo era contrario ad una politica di forza dello Stato e
voleva garantirsi il controllo sugli strumenti del potere
dell’aristocrazia e della burocrazia, cercando di sottrarre a queste
ultime gli organi dello Stato, ora la politica di forza diviene una
precisa ed incondizionata richiesta del capitalismo finanziario;
ciò avviene comunque anche senza tener conto del fatto che le
esigenze dell’esercito e della flotta assicurano proprio ai
più forti settori capitalistici uno smercio imponente con
utili per lo più monopolistici.
L’aspirazione ad una politica espansionistica rivoluziona
però anche tutta la “Weltanschauung” della borghesia, che
allontana definitivamente gli ideali pacifisti ed umanitari. I
vecchi liberoscambisti credevano nel libero scambio non solo come la
politica economica più giusta, ma anche come il presupposto
della nascita di un’era di pace. Il capitale finanziario ha perduto
da tempo questa speranza. Esso non si illude più che gli
interessi capitalistici possano venire armonizzati, ma sa che la
lotta concorrenziale si trasformerà sempre più in una
lotta per la potenza politica. L'ideale della libertà di
scambio dilegua; al posto dell'umanitarismo subentra l’esaltazione
della grandezza e della potenza dello Stato. Lo Stato moderno
è sorto come realizzazione dello sforzo unitario della
nazione. Il pensiero nazionale che ha toccato i suoi limiti naturali
nel costituirsi della nazione a fondamento dello Stato
(giacché in questo modo esso ha riconosciuto a tutte le
nazioni il diritto di creare proprie formazioni statali facendo
coincidere i confini dello Stato con i confini naturali della
nazione) viene ora soppiantato dall'ideale dell'esaltazione della
propria nazione al di sopra delle altre. [Si veda: Otto BAUER.
"Marx-Studien” II, par. 30, pp. 491 e sgg. Der Imperialismus un das
Nationalitätsprinzip (L'imperialismo e il principio di
nazionalità)]
La massima aspirazione è ora quella di assicurare alla
propria nazione il dominio sul mondo, un'aspirazione non meno
illimitata di quella del capitale al profitto, da cui anzi
scaturisce. Il capitale parte alla conquista del mondo e ad ogni
nuova conquista esso non fa che toccare nuovi confini che
sarà spinto a valicare. Questa espansione incessante è
ora una inderogabile necessità economica, perché
rimanere indietro significa caduta del profitto del capitale
finanziario, diminuzione della sua capacità concorrenziale e,
come ultimo effetto, subordinazione del territorio economico rimasto
più piccolo rispetto a quello divenuto più esteso.
Questa aspirazione espansionistica causata da esigenze economiche,
viene giustificata ideologicamente mediante uno strabiliante
capovolgimento dell’idealità nazionale, la quale ora non
riconosce più ad ogni nazione il diritto
all'autodeterminazione e all'indipendenza politica e non esprime
più il dogma democratico dell'uguaglianza sul piano
internazionale di tutto ciò che è umano. Al contrario,
le aspirazioni economiche del monopolio si rispecchiano nella
posizione di privilegio che esso pretende per la propria nazione. I
privilegi appaiono più di ogni altra cosa come frutto di
predestinazione. Poiché l'assoggettamento di nazioni
straniere avviene con la violenza e, quindi, in un modo molto
naturalistico, sembra che la nazione dominante debba questa sua
egemonia alle sue specifiche caratteristiche naturali, e cioè
alle sue qualità razziali. L'ideologia della razza, quindi,
non è altro che il tentativo di fondare scientificamente, con
un camuffamento biologico, la volontà di potenza del capitale
finanziario che intende in tal modo presentare i suoi movimenti come
ineluttabili e condizionati da leggi naturali. Al posto dell'ideale
egualitario democratico subentra ora un ideale egemonico
oligarchico. Laddove sul terreno della politica estera, questo
ideale ha come oggetto, nell'apparenza, l'intera nazione, su quello
della politica interna esso diviene accettazione ed accentuazione
del punto di vista padronale che tenta di subordinare al proprio
quello della classe operaia.
La forza crescente dei lavoratori stimola al contempo il capitale a
rafforzare ulteriormente il potere statale per garantirsi contro le
richieste dei proletari. L'ideologia dell'imperialismo sorge quindi
come superamento della vecchia ideologia liberale. Essa si fa beffe
dell'ingenuità di quest'ultima. È pura illusione
credere ad un'armonia di interessi nel mondo della lotta
capitalistica, dove a decidere è solo la superiorità
delle armi; illusione attendere il regno della pace perenne e
predicare un diritto dei popoli, quando è solo la potenza a
decidere della loro sorte; follia voler trasportare al di là
dei confini dello Stato il sistema dei rapporti giuridici che
regolano la vita al suo interno. Stupida e irresponsabile seccatrice
davvero, questa infatuazione umanitaria che viene a disturbare gli
affari e che, dopo aver fatto dei lavoratori un problema, ha
scoperto, all'interno dello Stato, le riforme sociali e nelle
colonie vuole eliminare la schiavitù contrattuale, unica
possibilità di un razionale sfruttamento! Quello di una
giustizia immutabile è un bel regno, ma con l'etica non si
costruiscono certo ferrovie. Come fare a conquistare il mondo, se si
vuole prima aspettare che la concorrenza si converta ai nuovi
ideali?
L'imperialismo dissolve tutte queste illusioni solo per sostituire
all'ormai sbiadito ideale della borghesia una nuova, grande
illusione. Freddo e positivo finché si tratta di considerare
il reale conflitto di interessi dei gruppi capitalistici e di
concepire tutta la politica come affare privato di monopoli che
reciprocamente si combattono, ma che possono anche unificarsi, esso
diviene però improvvisamente passionale ed estatico quando si
mette a parlare del proprio ideale. L'imperialista non vuole nulla
per sé: non è però un illusionista o un
sognatore per risolvere in uno scialbo concetto di umanità la
variopinta realtà di un inestricabile groviglio di razze nei
più vari gradi e con le più diverse possibilità
di sviluppo. Egli osserva il guazzabuglio dei popoli con occhio duro
e acuto e al di sopra di tutti fissa la propria nazione. La nazione
è reale: essa si invera nello Stato che diviene sempre
più potente e più grande: per farla assurgere ai
più alti fasti nessuno sforzo è troppo gravoso.
L'abbandono dell'interesse particolaristico per un più alto
interesse comune che ogni ideologia sociale deve includere per
essere vitale è con ciò consumato; lo Stato, un tempo
estraneo al popolo, e la nazione stessa, formano ora una salda
unità di cui l'idea nazionale posta al servizio della
politica è la forza propulsiva. I contrasti tra le classi
sono svaniti e superati a favore di un ideale della
collettività. Al posto della lotta delle classi, pericolosa e
senza via d'uscita per i padroni, subentra l'azione comune della
nazione tutta, tesa alla conquista della grandezza nazionale.
Tale ideale, che sembra costituire un nuovo legame capace di tenere
insieme la dilacerata società borghese, è destinato a
riscuotere consensi entusiastici, perché nel frattempo il
processo di disgregazione della società borghese è
andato ulteriormente aggravandosi.