Vincenzo De Robertis
A. Gramsci e l’Unità d’Italia
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Indice:
Introduzione e bibliografia
Capitolo I
Capitolo II
Capitolo III
Capitolo IV
Capitolo V
Capitolo VI
Capitolo VII
Capitolo VIII
Capitolo IX
Un ringraziamento particolare a chi mi ha aiutato in questo mio
lavoro: al Prof. Marcello Montanari, che ha tollerato la mia
impostazione, senza opporre contestazioni, ed all’amico e compagno
Prof. Andrea Catone, che mi ha aiutato per le citazioni di Gramsci.
Introduzione
Questo libro nasce dall’opportunità di approfondire il
pensiero di A.Gramsci sul tema della formazione dello Stato Unitario
italiano e del processo che la generò, il Risorgimento, in
occasione della ricorrenza del 150° anniversario
dell’Unità d’Italia.
L’attualità del pensiero gramsciano sul tema è data,
non solo dalle contestazioni che oggi da più parti vengono
sollevate, “ a posteriori”, sul modo attraverso cui si svolse il
processo storico risorgimentale (si pensi, ad esempio, al giudizio
negativo della Lega Nord su Garibaldi, oppure all’attuale rinascita
di un “partito” filo-borbonico), ma anche dalla necessità di
recuperare, sul piano dell’analisi storica, il filo rosso che lega
le ragioni di un distacco marcato fra le grandi masse popolari
italiane e lo Stato italiano, da sempre percepito come Ente
estraneo.
Il materiale esposto è il frutto della ricerca messa in atto
in occasione della elaborazione della mia tesi di laurea, nella
quale analizzavo alcuni aspetti del pensiero politico di A.Gramsci,
che mi è sembrato opportuno riproporre in questo libro.
In particolare, vengono messi a fuoco i concetti di Rivoluzione
passiva, di Blocco storico-sociale e di Egemonia, così come
A.Gramsci li ha espressi nella sua riflessione sul periodo che
abbraccia tutto il Risorgimento, i primi decenni di vita dello Stato
Unitario italiano, fino alla Grande Guerra ed alla nascita del
fascismo; un periodo storico di quasi settant’anni che comprende la
fase della presa del potere politico e del suo consolidamento da
parte della borghesia italiana.
L’analisi del rapporto “struttura-sovrastruttura”
….è l’origine dell’attenzione che Gramsci dà alla
storia del Risorgimento e a tutta la storia italiana. Egli ricerca
nella storia del Risorgimento, ricerca nelle analisi sui differenti
momenti della storia italiana, ricerca nell’analisi della funzione
che hanno avuto gli intellettuali nella storia del nostro Paese….
una definizione dei rapporti di classe della società italiana
più esatta di quelle che abitualmente si sogliono dare.
Continuamente attento all’azione reciproca tra la struttura dei
rapporti produttivi e le sovrastrutture (politiche, militari,
organizzative, ideologiche, ecc.), giunge ad individuare quello che
egli chiama il “blocco storico, le forze che lo dirigono ed i
contrasti interiori che ne determinano il movimento.[1]
Seguendo, quindi, l’evoluzione degli avvenimenti storici, si
esporrà l’analisi gramsciana delle condizioni internazionali
e nazionali che consentirono (solo nella seconda metà del XIX
secolo e non prima) di realizzare e portare a termine il processo
unitario: i nuovi equilibri europei, la crisi egemonica del Papato
in Europa ed in Italia, l’influsso sugli avvenimenti italiani della
Rivoluzione francese e degli eserciti napoleonici.
Si prenderà, quindi, in considerazione il blocco
storico-sociale che si rese protagonista del processo unitario:
l’aristocrazia agraria e gli industriali del Nord unitamente agli
agrari del Sud; l’esclusione dei contadini, sia al Nord, ma
soprattutto al Sud, dalla partecipazione al Risorgimento; la
caratteristica di “rivoluzione passiva” assunta dal processo,
cioè un cambiamento radicale, operato dall’alto, senza il
coinvolgimento delle masse popolari.
L’analisi gramsciana dei partiti protagonisti del processo
risorgimentale: moderati e democratici; egemonia dei moderati sui
democratici; debolezza del giacobinismo storico in Italia; mancanza
di un programma agrario da parte del Partito d’Azione; mancanza di
una rappresentanza politica autonoma da parte dei contadini.
Le “tare originarie” del processo unitario: questione meridionale,
debolezza strutturale di rappresentanza del neonato Stato unitario,
unitamente a debolezza economica della borghesia industriale
italiana (“capitalismo straccione”), condizionano le vicende
politiche dei primi decenni dello Stato liberale; la Destra storica
e la Sinistra storica al Governo; il trasformismo fino a Giolitti,
la nascita del Partito Socialista e lo scoppio della Grande Guerra,
offrono ampia testimonianza delle difficoltà incontrate dal
blocco storico dominante nell’esercizio del rapporto di dominio
sulla restante parte della popolazione, rapporto sempre in bilico
fra autoritarismo e democrazia a causa della mancanza di un consenso
diffuso.
Infine, la grande guerra del ’15-’18, l’esperienza maturata dalle
masse operaie e contadine in quella grande carneficina, i partiti
politici nel dopo-guerra, le elezioni a “suffragio universale” del
1919, il nuovo protagonismo che si manifesta nelle occupazioni delle
fabbriche e delle terre, la Rivoluzione bolscevica in Russia e la
paura del comunismo, la conseguente crisi di egemonia delle classi
dominanti, la “situazione di equilibrio delle forze ad evoluzione
catastrofica”, i fenomeni di cesarismo; tutto ciò completa il
quadro storico di riferimento.
Le fonti utilizzate sono i Quaderni del carcere ed, in particolare,
il quaderno XIX. Ma anche gli scritti politici dal 1919 al 1926,
dove maggiormente vengono evidenziate le caratteristiche assunte
dalla rivoluzione borghese nel nostro Paese ed i problemi politici e
sociali, che essa ha portato con sé.
La necessità di approfondire il pensiero gramsciano, sia
attraverso la riflessione forzatamente “pacata” e formalmente
a-sistematica, da lui effettuata in carcere, che attraverso gli
scritti più marcatamente politici, pubblicati sui periodici
di partito negli anni precedenti il suo arresto, poggia sulla
convinzione che un nesso profondamente ed organicamente unitario
leghi i due periodi di attività del dirigente comunista, il
cui impegno politico resta la chiave di volta per interpretarne
correttamente il pensiero.
Come considerare, a tale proposito, la ricerca fatta in carcere, se
non come la naturale prosecuzione di quella battaglia, quasi subito
avviata da Gramsci nel PCd’I – partito internazionalista per nascita
e “vocazione” (sezione della III internazionale) - per la sua
“nazionalizzazione”, battaglia mirata, cioè, ad ancorare
l’azione del Partito alle condizioni concrete italiane, così
come storicamente determinatesi, e finalizzata al suo radicamento
nel Paese, come premessa di qualsiasi processo di trasformazione
rivoluzionaria; battaglia che vide nel III Congresso di quel
Partito, svoltosi a Lione, una tappa fondamentale ?
Rileggendo le “Tesi di Lione”, soprattutto le tesi dalla n. 4 alla
n.18bis, dove viene dipinto il quadro della situazione
economico-sociale dell’Italia di quel periodo e tratteggiato a
grandi linee il percorso storico attraverso cui si pervenne a quella
situazione, oppure lo scritto “Alcuni aspetti della questione
meridionale”, come non rintracciare i temi poi approfonditi in tante
riflessioni contenute nei Quaderni del carcere?
A questa impostazione metodologica e a questo approccio unitario al
pensiero gramsciano mi sono attenuto in questo lavoro, condividendo
ciò che a riguardo è stato espresso, in maniera molto
più chiara e brillante, da P. Togliatti nei suoi “Appunti” in
previsione del convegno di studi gramsciani, svoltosi nel ’58, su
iniziativa dell’Istituto Gramsci:
[...] Gramsci fu un teorico della politica, ma soprattutto un
politico pratico, cioè un combattente. La sua concezione
della politica rifugge sia dalla strumentalità, sia
dall’astratto moralismo o dalla elaborazione dottrinale astratta.
Fare della politica significa agire per trasformare il mondo. Nella
politica, quindi, è contenuta tutta la filosofia reale di
ognuno, nella politica sta la sostanza della storia e, per il
singolo che è giunto alla coscienza critica della
realtà e del compito che gli spetta per trasformarla, sta
anche la sostanza della sua vita morale. Nella politica è da
ricercarsi l’unità della vita di A. Gramsci: il punto di
partenza e di arrivo. La ricerca, il lavoro, la lotta, il sacrificio
sono momenti di questa unità. [...] [F]are oggetto di
indagine non soltanto le posizioni da G. elaborate e sostenute nel
dibattito filosofico e di dottrina, ma la sua attività
pratica, come uomo politico, fondatore e dirigente del partito di
avanguardia della classe operaia italiana […] questo [è] il
solo modo giusto di avvicinarsi all’opera di Gramsci e penetrarne il
significato.[2]
Bibliografia
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Milano 1971.
[1]P.Togliatti, Gramsci ed il leninismo, Ed. a cura
dell’Associazione Culturale Marxista, Roma, 1987, pp. 32-33
[2] P. Togliatti, op. cit., p. 5
Capitolo 1
Il dibattito sul Risorgimento si è sviluppato durante tutto
il periodo di formazione dello Stato Unitario ed è continuato
durante il fascismo e dopo. Fino ad un certo periodo e per certi
aspetti esso può essere considerato una sorta di processo di
“autocoscienza” della borghesia italiana circa le ragioni e le
condizioni che le hanno consentito la presa del potere e la
creazione dello Stato Unitario.
All’epoca in cui Gramsci si trova in carcere, il dibattito fra gli
storici, ravvivato dalla pubblicazione di una serie di opere, fra
cui La Storia d’Italia di B.Croce, pubblicata nel ’28, L’Età
del Risorgimento di A. Omodeo del 1925, L’Italia in cammino di G.
Volpe, pubblicata nel 1927, e varie altre di M. Missiroli,
pubblicate pure nello stesso periodo, pone al centro principalmente
la questione del fascismo, come continuazione o rottura rispetto
allo Stato liberale, nato dal Risorgimento [1].
Nel carcere Gramsci, che pur non si sottrae alla riflessione sul
tema, fa, però, a mio avviso, dell’analisi del Risorgimento
un capitolo a se stante del più ampio libro sull’analisi
della società italiana, che già aveva iniziato a
“scrivere”, da libero, come dirigente comunista.
Per cui la riflessione sul processo rivoluzionario borghese, sui
limiti di direzione politica mostrati dalle forze politiche
democratiche in campo, segnatamente il Partito d’Azione, sulla base
sociale limitata dello Stato unitario e la conseguente crisi
permanente di consensi, sullo stesso fascismo, inteso e valutato,
sia come reazione “cesaristica” ad una situazione critica di
equilibrio di forze contrapposte, che, dopo il suo consolidamento,
come sistema di potere incapace di attuare quelle riforme economiche
necessarie all’Italia per superare la sfida alla modernizzazione
economica, tutto ciò, e molto altro, diventa un patrimonio di
spunti ed idee nella prospettiva di una attività politica
futura, che potrà utilizzare lui stesso e l’intero Partito
Comunista.
In altri termini, alla base di questo immane lavoro condotto in
carcere vi era, a mio avviso, la convinzione che la storia, e
soprattutto la storia del proprio paese, fosse un ammaestramento
ineludibile per chiunque si accingesse a “fare come in Russia”.
Una delle questioni affrontata in varie note da Gramsci è
quella della datazione del Risorgimento: da quale data, da quale
periodo storico, cioè, deve prendere le mosse un’analisi del
Risorgimento?
Strettamente legata a questa domanda ve ne è, poi, un’altra:
è il Risorgimento un fenomeno prettamente italiano o si
inserisce in un più ampio processo europeo?
Naturalmente la questione della datazione del Risorgimento non
è problema di mera cronologia, quanto di valutazione
storico-politica dell’epoca in cui si iscrivono determinati
avvenimenti.
“ […] le origini del moto del Risorgimento, cioè del processo
di formazione delle condizioni e dei rapporti internazionali che
permetteranno all’Italia di riunirsi in nazione e alle forze interne
nazionali di svilupparsi ed espandersi, non sono da ricercare in
questo o quell’evento concreto registrato sotto una o un’altra data,
ma appunto nello stesso processo storico per cui l’insieme del
sistema europeo si trasforma. Questo processo intanto non è
indipendente dagli eventi interni della penisola e dalle forze che
in essa hanno la sede.”[2]
Analogamente il problema dell’ottica di osservazione e valutazione
del fenomeno, se prettamente nazionale oppure inserito in un
contesto internazionale, altro non è che il problema del
rapporto fra avvenimenti internazionali e nazionali e dell’influenza
degli uni sugli altri.
“ […] Dal punto di vista europeo l’età è quella della
Rivoluzione francese e non del Risorgimento italiano, del
liberalismo come concezione generale della vita e come nuova forma
di civiltà statale e di cultura, e non solo dell’aspetto
“nazionale” del liberalismo. E’ certo possibile parlare di
un’età del Risorgimento, ma allora occorre restringere la
prospettiva e mettere a fuoco l’Italia e non l’Europa, svolgendo
della storia europea e mondiale quei nessi che modificano la
struttura generale dei rapporti di forza internazionali che si
opponevano alla formazione di un grande Stato unitario nella
penisola, mortificando ogni iniziativa in questo senso e
soffocandola in sul nascere e svolgendo la trattazione di quelle
correnti che invece dal mondo internazionale influivano in Italia,
incoraggiandone le forze autonome e locali della stessa natura e
rendendole più valide. Esiste cioè un’Età del
Risorgimento nella storia svoltasi nella penisola italiana, non
esiste nella storia d’Europa come tale: in questa corrisponde
l’Età della Rivoluzione francese e del liberalismo.”[3]
E’ chiaro che per Gramsci la Rivoluzione francese segna uno
spartiacque fondamentale per classificare tutta l’epoca in cui si
iscrivono gli avvenimenti che si svolgono nella penisola italiana
durante il XIX secolo.
A differenza di quanto aveva tendenziosamente sostenuto B. Croce
nell’opera Storia d’Europa, che, prendendo avvio nella narrazione
dal 1815, aveva di fatto contrapposto le trasformazioni avviate dopo
quella data (il riformismo liberale moderato), alle trasformazioni
violente e cruente del periodo giacobino e napoleonico, Gramsci
considera in maniera unitaria tutto il periodo delle trasformazioni
che prendono il via dagli avvenimenti francesi del 1789.
Rivoluzione attiva e rivoluzione passiva, guerra manovrata e guerra
di posizione sono momenti diversi di un unico processo storico che
porta la borghesia al potere prima in Francia e poi nei vari Stati
che si formano in Europa.
“[…] Si può dire pertanto che il libro sulla Storia d’Europa
[di B.Croce] non è altro che un frammento di storia,
l’aspetto “passivo” della grande Rivoluzione che iniziò in
Francia nel 1789, traboccò nel resto d’Europa con le armate
repubblicane e napoleoniche, dando una potente spallata ai vecchi
regimi, e determinandone non il crollo immediato come in Francia, ma
la corrosione “riformistica” che durò fino al 1870. [...]
Nell’Europa dal 1789 al 1870 si è avuta una guerra di
movimento (politica) nella rivoluzione francese ed una lunga guerra
di posizione dal 1815 al 1870” [4]
E non pare proprio che questa visione unitaria dei processi
rivoluzionari, dove si alternano periodi rapidi di attacchi frontali
a periodi lunghi di assedio, si fermi al limite delle rivoluzioni
borghesi. Una visione altrettanto unitaria ed internazionale
dell’epoca storica apertasi con la Rivoluzione di Ottobre in Russia
è alla base dei giudizi gramsciani, ricavabili dagli scritti
politici degli ultimi anni prima dell’arresto e più
velatamente dagli scritti nel carcere, riguardanti le questioni di
strategia del movimento operaio, le differenze Oriente-Occidente, i
problemi di costruzione del socialismo.
Ritornando ai temi di questo libro, tutto il dibattito sul
Risorgimento, sul ruolo dei fattori internazionali, sul carattere
autoctono del fenomeno, sulle idee unitarie già nel periodo
dei Comuni o del Rinascimento nasconde al fondo la debolezza del
capitalismo italiano:
“…Tutte le questioni sulle origini [del Risorgimento] hanno le loro
ragioni per il fatto che l’economia italiana era molto debole, e il
capitalismo incipiente: non esisteva una forte e diffusa classe di
borghesia economica, ma invece molti intellettuali e piccolo
borghesi, ecc. Il problema non era tanto di liberare forze
economiche già sviluppate da pastoie giuridiche e politiche
antiquate, quanto di creare le condizioni generali perché
queste forze economiche potessero nascere e svilupparsi sul modello
di altri paesi.”[5]
Per quanto riguarda l’Italia è a partire dal ‘700 che, con
l’indebolimento delle due grandi potenze Francia-Austria, la
comparsa della Prussia, si rende più instabile l’equilibrio
politico sul continente e questo favorisce la possibilità di
creazione di uno Stato unitario in Italia.
“[…] nel ‘700 l’equilibrio europeo, Austria-Francia entra in una
fase nuova rispetto all’Italia: c’è un indebolimento
reciproco delle due grandi potenze e sorge una terza grande potenza,
la Prussia.“[6]
“…[L’]esistenza di un certo equilibrio delle forze internazionali
che fosse la premessa dell’unità italiana…si verificò
dopo il 1748, dopo cioè la caduta dell’egemonia francese e
l’esclusione assoluta dell’egemonia spagnola ed austriaca, ma
sparì nuovamente dopo il 1815: tuttavia il periodo dal 1748
al 1815 ebbe una grande importanza nella preparazione
dell’unità, o meglio per lo sviluppo degli elementi che
dovevano condurre all’unità.”[7]
Inoltre, l’indebolimento del papato, principale potenza politica
italiana e culturale europea, la sua perdita di consensi fra le
masse popolari a seguito della politica della Controriforma, la
politica regalistica delle monarchie occidentali, avevano tolto al
Vaticano tutte le possibilità di proporsi come soggetto
unificatore della realtà politica peninsulare e gli avevano
parimenti ridotto enormemente presso le corti europee il credito
necessario ad ostacolare il processo di formazione di una nuova
entità politica unitaria nella penisola.
“…Nel corso del ‘700 l’indebolimento della posizione del Papato come
potenza europea è addirittura catastrofico. Con la
Controriforma il Papato aveva modificato essenzialmente la struttura
della sua potenza: si era alienato le masse popolari, si era fatto
fautore di guerre sterminatrici, si era confuso con le classi
dominanti in modo irrimediabile. Aveva così perduto la
capacità di influire sia direttamente sia indirettamente sui
governi attraverso la pressione delle masse popolari fanatiche e
fanatizzate… La politica regalistica delle monarchie illuminate
è la manifestazione di questo esautoramento della Chiesa come
potenza europea e quindi italiana, e inizia anch’essa il
Risorgimento, se è vero, come è vero, che il
Risorgimento era possibile solo in funzione di un indebolimento del
Papato sia come potenza europea che come potenza italiana,
cioè come possibile forza che riorganizzasse gli stati della
penisola sotto la sua egemonia…”[8]
Inoltre, sotto il profilo ideologico-culturale,
“…muta anche l’importanza ed il significato della tradizione
letterario retorica esaltante il passato romano, la gloria dei
Comuni e del Rinascimento, la funzione universale del Papato
italiano”[9]
Il cosmopolitismo culturale mutuato dall’impero romano, perpetuatosi
nel medio evo e nel Rinascimento, era stato il carburante con cui il
Vaticano aveva fatto camminare la macchina politico-amministrativa
del suo Stato e la struttura ecclesiastica con cui esercitava
l’influenza politico-culturale in Europa.
“…Nel ‘700 si inizia un processo di distinzione di questa corrente
tradizionale: una parte … si connette con l’istituto del Papato come
espressione di una funzione intellettuale (etico-politica di
egemonia intellettuale e civile) dell’Italia nel mondo e
finirà con esprimere il Primato giobertiano…e si sviluppa una
parte “laica”, anzi in opposizione al Papato, che cerca di
rivendicare una funzione di primato italiano e di missione italiana
nel mondo indipendentemente dal Papato.”[10]
“…Ciò che è importante storicamente è che nel
‘700 questa tradizione cominci a disgregarsi, per meglio
concretarsi, ed a muoversi con un intima dialettica: significa che
tale tradizione letterario-retorica sta diventando un fenomeno
politico, il suscitatore e l’organizzatore del terreno ideologico in
cui le forze politiche effettive riusciranno a determinare lo
schieramento, sia pure tumultuario, delle più grandi masse
popolari necessarie per raggiungere determinati fini, riusciranno a
mettere in iscacco e lo stesso Vaticano e le altre forze di reazione
esistenti nella penisola accanto al Papato.”[11]
In questo contesto la Rivoluzione francese e gli eserciti
napoleonici dettero un contributo notevole alla creazione di una
coscienza patriottica:
…Se nel corso del Settecento cominciano ad apparire ed a
consolidarsi le condizioni obbiettive, internazionali e nazionali,
che fanno dell’unificazione nazionale un compito storicamente
concreto (cioè non solo possibile, ma necessario), è
certo che solo dopo l’89 questo compito diventa consapevole in
gruppi di cittadini disposti alla lotta ed al sacrificio. La
Rivoluzione francese, cioè, è uno degli eventi che
maggiormente operano per approfondire un movimento già
iniziato nelle “cose”, rafforzando le condizioni positive (oggettive
e soggettive) del movimento stesso e funzionando come elemento di
aggregazione e centralizzazione delle forze umane disperse in tutta
la penisola e che altrimenti avrebbero tardato di più ad
“incentrarsi” e comprendersi fra loro” [12].
“… Le forze tendenti all’unità erano scarsissime, disperse,
senza nesso tra loro e senza capacità di suscitare legami
reciproci e ciò non solo nel secolo XVIII, ma si può
dire fino al 1848. Le forze contrastanti a quelle unitarie (o meglio
tendenzialmente unitarie) erano invece potentissime, coalizzate, e,
specialmente come Chiesa, assorbivano la maggior parte delle
capacità ed energie individuali che avrebbero potuto
costituire un nuovo personale dirigente nazionale, dando loro invece
un indirizzo e un’educazione cosmopolitico-clericale. I fattori
internazionali e specialmente la Rivoluzione francese, stremando
queste forze reazionarie e logorandole, potenziano per contraccolpo
le forze nazionali in se stesse scarse e insufficienti. E’ questo il
contributo più importante della Rivoluzione francese, molto
difficile da valutare e definire, ma si intuisce di peso decisivo
nel dare l’avviata al moto del Risorgimento”[13]
Così il contributo storicamente contingente della Rivoluzione
francese alla distruzione del vecchio mondo ed alla formazione dei
nuovi Stati Nazionali, secondo Gramsci va individuato sicuramente
nel fatto di aver distrutto l’equilibrio politico europeo, su cui si
basava l’Ancièn Regime, e nell’aver risvegliato per tale via
la coscienza patriottica in vari Paesi.
Tuttavia, il contributo più notevole e duraturo della
Rivoluzione è forse quello di aver offerto alla Storia
l’esempio ineguagliabile di risoluzione della contraddizione
città-campagna, di guisa che la partecipazione popolare, e
segnatamente contadina, agli avvenimenti che si svolsero dal 1789 al
1815, non solo impedì alla Repubblica di essere soffocata sul
nascere dalla reazione combinata di potenze straniere e
controrivoluzione interna, ma, soprattutto, garantì allo
Stato francese, nato dall’abbattimento della monarchia, il consenso
attivo di una base sociale estesa.
Questi temi ci mettono di fronte ad alcuni concetti basilari della
visione politica gramsciana: i concetti, cioè, di blocco
storico-sociale e di egemonia. Questi concetti non sono solo
categorie, attraverso cui andare ad interpretare la storia passata.
L’analisi comparata del modo in cui la borghesia francese ed
italiana hanno affrontato e risolto la contraddizione
città-campagna, la politica con cui hanno costruito
l’alleanza con ceti e strati sociali del mondo agricolo, l’esito in
termini statuali di questa alleanza, sono tutti elementi che
forniscono ancora una volta materiale alla riflessione sul modo in
cui il proletariato industriale dovrà costruire la sua
alleanza con i contadini e dovrà concretizzare l’egemonia sul
blocco storico-sociale per la transizione al socialismo.
[1] Vedi De Bernardi-Guarracino, L’operazione storica, Ed. Bruno
Mondadori, vol.3, p. .487
[2] A.Gramsci, Quaderni del carcere. Edizione critica a cura di V.
Gerratana. Ed.Einaudi 1975 Q.19 pag.1963
[3] A.Gramsci , op.cit., pagg.1961-2
[4] A.Gramsci , op.cit., Q10 pagg.1227 e 1229
[5] A.Gramsci “Il Risorgimento” Antologia di scritti nel carcere
Editori Riuniti 1975 pag.65
[6] A.Gramsci , op.cit., pag.1963
[7] A.Gramsci “Il Risorgimento”op. cit. pagg.63-4
[8] A.Gramsci , op.cit., pag.1963
[9] A.Gramsci , op.cit., pag.1966
[10] A.Gramsci , op.cit., pag.1966
[11] A.Gramsci , op.cit., pag.1967
[12] A.Gramsci , op.cit., pagg.1968-9
[13] A.Gramsci , op.cit., pag.1972
Capitolo II
La contraddizione città-campagna è la chiave
interpretativa privilegiata degli avvenimenti che si svolgono a
partire dalla fine del XVIII e nel corso del XIX secolo.
Questa contraddizione significa: sotto il profilo economico,
rapporto fra industria manifatturiera ed agricoltura in un’epoca in
cui l’industria si va affermando e l’agricoltura comincia a cedere
il primato, fino a quel momento posseduto, fra le attività
produttive; sotto il profilo sociale, declino dell’aristocrazia
nobiliare ed affermazione della borghesia; sotto il profilo
politico-istituzionale, crisi dell’assolutismo monarchico e
progressiva affermazione dello Stato liberale-repubblicano e
dell’idea di Patria-Nazione.
Per una serie di ragioni storiche, sociali e culturali è
nella Francia di fine ‘700 che questa contraddizione trova la sua
risoluzione più classica, con la Rivoluzione dell’89, che
influenzerà in maniera determinante tutti gli avvenimenti del
secolo XIX. Nella Francia di quell’epoca la città è
principalmente, se non esclusivamente, Parigi, e tutto il resto
è la campagna.
“[…] Nella letteratura politica francese la necessità di
collegare la città (Parigi) con la campagna era sempre stata
vivamente sentita ed espressa; basta ricordare la collana di romanzi
di Eugenio Sue, diffusissimi anche in Italia[…] e che insistono con
particolare costanza sulla necessità di occuparsi dei
contadini e di legarli a Parigi.”[1]
Il giacobinismo, complessivamente inteso, è per Gramsci la
corrente politica che nella tempesta rivoluzionaria seppe meglio
risolvere questa contraddizione, elaborando le soluzioni più
avanzate e più appropriate al momento storico.
“[…]I giacobini lottarono strenuamente per assicurare un legame tra
città e campagna e ci riuscirono vittoriosamente.”[2]
Una chiarificazione preliminare si impone per evitare confusione fra
il significato del termine “giacobino”, così come è
passato nel linguaggio politico comune, ed il suo significato
storico:
“[…]Il termine di «giacobino» ha finito per assumere due
significati: uno è quello proprio, storicamente
caratterizzato, di un determinato partito della rivoluzione
francese, che concepiva lo svolgimento della vita francese in un
modo determinato, con un programma determinato, sulla base di forze
sociali determinate e che esplicò la sua azione di partito e
di governo con un metodo determinato che era caratterizzato da una
estrema energia, decisione e risolutezza, dipendente dalla credenza
fanatica della bontà e di quel programma e di quel metodo.
Nel linguaggio politico i due aspetti del giacobinismo furono scissi
e si chiamò giacobino l’uomo politico energico, risoluto e
fanatico, perché fanaticamente persuaso delle virtù
taumaturgiche delle sue idee, qualunque esse fossero: in questa
definizione prevalsero gli elementi distruttivi derivati dall’odio
contro gli avversari e i nemici, più che quelli costruttivi,
derivati dall’aver fatto proprie le rivendicazioni delle masse
popolari, l’elemento settario, di conventicola, di piccolo gruppo,
di sfrenato individualismo, più che l’elemento politico
nazionale.” [3]
La differenziazione fra i due significati sarà essenziale in
seguito per capire quanto del significato politico comune è
possibile rintracciare in tanti uomini del Risorgimento italiano,
descritti, come ad esempio Crispi, per la loro immagine e per il
loro carattere come “giacobini”, e quanto poco di giacobinismo
storico vi fosse nei programmi e nell’attività del Partito
d’Azione di Mazzini e Garibaldi e dei loro epigoni post-unitari.
I giacobini furono gli uomini della borghesia francese.
“[…]I giacobini conquistarono con la lotta senza quartiere la loro
funzione di partito dirigente; essi in realtà si
«imposero» alla borghesia francese, conducendola in una
posizione molto più avanzata di quella che i nuclei borghesi
primitivamente più forti avrebbero voluto
«spontaneamente» occupare e anche molto più
avanzata di quella che le premesse storiche dovevano consentire, e
per ciò i colpi di ritorno e la funzione di Napoleone I.
Questo tratto, caratteristico del giacobinismo (ma prima anche di
Cromwell e delle «teste rotonde») e quindi di tutta la
grande rivoluzione, del forzare la situazione (apparentemente) e del
creare fatti compiuti irreparabili, cacciando avanti i borghesi a
calci nel sedere, da parte di un gruppo di uomini estremamente
energici e risoluti, può essere così
«schematizzata»: il terzo stato era il meno omogeneo
degli stati; aveva una élite intellettuale molto disparata e
un gruppo economicamente molto avanzato ma politicamente moderato. …
… A mano a mano si viene selezionando una nuova élite che non
si interessa unicamente di riforme «corporative» ma
tende concepire la borghesia come il gruppo egemone di tutte le
forze popolari e questa selezione avviene per l’azione di due
fattori: la resistenza delle vecchie forze sociali e la minaccia
internazionale. …
…I giacobini pertanto furono il solo partito della rivoluzione in
atto, in quanto non solo essi rappresentavano i bisogni e le
aspirazioni immediate delle persone fisiche attuali che costituivano
la borghesia francese, ma rappresentavano il movimento
rivoluzionario nel suo insieme, come sviluppo storico integrale,
perché rappresentavano i bisogni anche futuri e, di nuovo,
non solo di quelle determinate persone fisiche, ma di tutti i gruppi
nazionali che dovevano essere assimilati al gruppo fondamentale
esistente.”[4]
Ed i giacobini non furono solo capaci per la loro risolutezza e
determinazione di porsi a capo della classe che rappresentavano e di
condurla al successo in un momento particolarmente delicato e
difficile, salvando le conquiste della Rivoluzione.
Essi ottennero questi risultati storicamente importanti, soprattutto
perché continuarono, con una determinazione maggiore di
quella messa in campo dagli altri partiti, la politica di alleanze
di classe, già avviata dalla Rivoluzione sin dai suoi primi
passi e che seppe tenere unita la campagna alla città,
attraverso provvedimenti legislativi che divisero fra i contadini il
latifondo dei nobili controrivoluzionari ed antipatriottici e della
Chiesa.
“[…]La prima esigenza era quella di annientare le forze avversarie o
almeno ridurle all’impotenza per rendere impossibile una
controrivoluzione; la seconda esigenza era quella di allargare i
quadri della borghesia come tale e di porla a capo di tutte le forze
nazionali, identificando gli interessi e le esigenze comuni a tutte
le forze nazionali e mettere in moto queste forze e condurle alla
lotta ottenendo due risultati: a) di opporre un bersaglio più
largo ai colpi degli avversari, cioè di creare un rapporto
politico-militare favorevole alla rivoluzione; b) di togliere agli
avversari ogni zona di passività in cui fosse possibile
arruolare eserciti vandeani. Senza la politica agraria dei giacobini
Parigi avrebbe avuto la Vandea già alle sue porte.”[5]
E nonostante l’azione politica dei girondini, che cercavano di far
leva sul federalismo per sottrarre la campagna all’influenza
politica della città, Parigi, e dei giacobini,
“[…]eccetto alcune zone periferiche, dove la distinzione nazionale
(e linguistica) era grandissima, la quistione agraria ebbe il
sopravvento su le aspirazioni all’autonomia locale: la Francia
rurale accettò l’egemonia di Parigi, cioè comprese che
per distruggere definitivamente il vecchio regime doveva far blocco
con gli elementi più avanzati del terzo stato, e non con i
moderati girondini.”[6]
Infine, parte integrante della soluzione della contraddizione
città-campagna, che il giacobinismo storico seppe dare,
è da considerare la forma statale della repubblica
parlamentare, attuata in Francia unitamente ad un riordino
amministrativo dello Stato, che ripartì il territorio in
Dipartimenti, e supportata dall’esistenza dei clubs, embrione dei
moderni partiti.
“[…]Lo sviluppo del giacobinismo (di contenuto) e della formula
della rivoluzione permanente attuata nella fase attiva della
Rivoluzione francese ha trovato il suo «perfezionamento»
giuridico-costituzionale nel regime parlamentare, che realizza, nel
periodo più ricco di energie «private» nella
società, l’egemonia permanente della classe urbana su tutta
la popolazione, nella forma hegeliana del governo col consenso
permanentemente organizzato (ma l’organizzazione del consenso
è lasciata all’iniziativa privata, è quindi di
carattere morale o etico, perché consenso
«volontariamente» dato in un modo o nell’altro).”[7]
L’organizzazione del consenso, poi, non può prescindere
dall’azione delle associazioni di cittadini, i clubs, che la
Rivoluzione francese tenne a battesimo come forma di partecipazione
alla cosa pubblica, rivoluzionaria per l’epoca, ancorchè
primitiva, che avrà poi, nei grandi partiti di massa della
fine dell’800 e del ‘900, la propria espressione più
compiuta.
“[…]I clubs, […] sono organizzazioni non rigide, tipo «comizio
popolare», centralizzate da singole individualità
politiche, ognuna delle quali ha il suo giornale, con cui tiene
desta l’attenzione e l’interesse di una determinata clientela
sfumata ai margini, che poi sostiene le tesi del giornale nelle
riunioni del club. È certo che in mezzo agli assidui dei
clubs dovevano esistere aggruppamenti ristretti e selezionati di
gente che si conosceva reciprocamente, che si riuniva a parte e
preparava l’atmosfera delle riunioni per sostenere l’una o l’altra
corrente secondo i momenti e anche secondo gli interessi concreti in
gioco.…[8]
“[…]Già al momento della Festa della Federazione [14 luglio
1790] il Club giacobino poteva contare su milleduecento membri a
Parigi e centocinquanta società affiliate nelle province.
Nell’aprile 1790 si apriva a Parigi un altro club…, ben presto noto
come Club dei cordiglieri…[9]
…Un accurato censimento delle “società” politiche esistenti
nell’anno II della Rivoluzione (1793-4), l’anno cioè della
maggiore diffusione di queste forme di organizzazione, rivela la
presenza di cinquemilacinquecento “società”, raggruppate nel
16 % dei comuni francesi (ma sono attive nei due terzi di capoluoghi
di regione)…[10]
…E’ questo un elemento che sembra caratterizzare questa prima fase,
tra il 1789 e 1790, di forte accelerazione della “scoperta” della
politica nella Francia rivoluzionaria: punto di riferimento non fu
solo Parigi, ma funzionarono “circuiti lenti” di diffusione e
costruzione di una nuova identità politica, come quelli
testimoniati dal movimento della Federazione e delle vicende della
diffusione di quel simbolo rivoluzionario che fu “l’albero della
libertà”. Quest’ultimo movimento nacque nelle campagne,
nell’inverno del 1790, nel corso della lotta per l’abolizione senza
alcun riscatto dei diritti feudali, e si impose poi in tutta la
Francia, come simbolo festoso di libertà e dei valori della
rivoluzione: da celebrazione e ripresa degli antichi rituali del
maggio, che celebravano la fecondità della terra, ad emblema
politico nazionale.” [11]
In sintesi: un’azione politica risoluta condotta negli interessi
della classe borghese, presa nel suo complesso; una saggia politica
di alleanze verso i contadini; una nuova forma di Stato e nuovi
strumenti di partecipazione alla vita pubblica di larghi strati
popolari; queste le ragioni del successo dei giacobini ed il succo
della loro politica nella fase attiva della Rivoluzione.
“[…]Se è vero che i giacobini «forzarono» la
mano, è anche vero che ciò avvenne sempre nel senso
dello sviluppo storico reale, perché non solo essi
organizzarono un governo borghese, cioè fecero della
borghesia la classe dominante, ma fecero di più, crearono lo
Stato borghese, fecero della borghesia la classe nazionale
dirigente, egemone, cioè dettero allo Stato nuovo una base
permanente, crearono la compatta nazione moderna francese.”[12]
La contraddizione città-campagna trovò, quindi, in
Francia una sua soluzione con la nascita dalla rivoluzione della
Repubblica francese, basata sull’alleanza fra borghesi e contadini,
sotto l’egemonia della borghesia cittadina parigina, egemonia che si
realizzò proprio per il tramite del giacobinismo storico e
che nella fase della Rivoluzione attiva si presenta nelle forme
della partecipazione e del consenso, mentre l’esercizio della forza
e della costrizione viene riservato solo ai nemici della
Rivoluzione.
A questo punto è necessario mettere a fuoco alcuni punti, a
mio avviso importanti, per meglio comprendere il concetto di
egemonia in Gramsci.
Dominio e direzione, conquista del consenso ed esercizio della
forza, democrazia e dittatura sono termini antitetici, che
concorrono, però, insieme a sostanziare il concetto di
egemonia con combinazioni diverse fra loro, a seconda che detto
concetto debba essere applicato nell’ambito di un blocco sociale
alleato o contro gli avversari di questo blocco, prima o dopo la
conquista del potere.
“[…]Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che
tende a «liquidare» o a sottomettere anche con la forza
armata ed è dirigente dei gruppi affini e alleati. Un gruppo
sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di
conquistare il potere governativo (è questa una delle
condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo,
quando esercita il potere e anche se lo tiene fortemente in pugno,
diventa dominante ma deve continuare ad essere anche
«dirigente».”[13]
L’egemonia trova, innanzitutto, il suo fondamento in fattori
oggettivi, nella sfera, cioè, dell’economia e della
produzione: il carattere progressivo della borghesia e
dell’industria capitalistica si manifesta nel fatto che, man a mano
che si afferma il modo di produzione capitalistico, esse fagocitano
al proprio interno sfere sempre più ampie di attività
economica, trasformando in borghesia strati sempre più ampi
della antica società feudale.
“[…]Questo fatto si verifica «spontaneamente» nei
periodi storici in cui il gruppo sociale dato è realmente
progressivo, cioè fa avanzare realmente l’intera
società, soddisfacendo non solo alle sue esigenze
esistenziali, ma ampliando continuamente i propri quadri per la
continua presa di possesso di nuove sfere di attività
economico-produttiva. Appena il gruppo sociale dominante ha esaurito
la sua funzione, il blocco ideologico tende a sgretolarsi e allora
alla «spontaneità» può sostituirsi la
«costrizione» in forme sempre meno larvate e indirette,
fino alle misure vere e proprie di polizia e ai colpi di Stato.”[14]
Tuttavia, non l’economia, ma la politica è il luogo principe
in cui si confrontano le istanze più o meno coscienti di
varie classi e strati sociali; sono i partiti i luoghi in cui si
forma e si organizza il consenso e la partecipazione; è lo
Stato il luogo in cui si esprime l’egemonia di una classe sulle
altre:
“[…]L’esercizio «normale» dell’egemonia nel terreno
divenuto classico del regime parlamentare, è caratterizzato
da una combinazione della forza e del consenso che si equilibrano,
senza che la forza soverchi di troppo il consenso, anzi appaia
appoggiata dal consenso della maggioranza espresso dai così
detti organi dell’opinione pubblica (i quali perciò, in certe
situazioni, vengono moltiplicati artificiosamente). Tra il consenso
e la forza sta la corruzione-frode (che è caratteristica di
certe situazioni di difficile esercizio della funzione egemonica
presentando l’impiego della forza troppi pericoli), cioè lo
snervamento e la paralisi procurati all’antagonista o agli
antagonisti con l’accaparrarne i dirigenti, copertamente in via
normale, apertamente in caso di pericolo prospettato per gettare lo
scompiglio e il disordine nelle file antagoniste….”[15]
In conclusione, se il regime parlamentare rappresenta la forma
“classica” di esercizio dell’egemonia, osservati dallo stesso punto
di vista, cioè dal punto di vista dell’egemonia, la forma
statale di ogni nazione ed ogni singolo aspetto di questa forma,
appaiono come l’espressione di un punto di equilibrio fra forza e
consenso ed un periodo storico determinato di una nazione non
è altro che il processo di combinazione ed alternanza di
questi due aspetti:
“[…]In questo processo si alternano tentativi di insurrezione e
repressioni spietate, allargamento e restrizioni del suffragio
politico, libertà di associazione e restrizioni o
annullamenti di questa libertà, libertà nel campo
sindacale ma non in quello politico, forme diverse di suffragio,
scrutinio di lista o circoscrizioni uninominali, sistema
proporzionale o individuale, con le varie combinazioni che ne
risultano – sistema delle due camere o di una sola camera elettiva,
con vari modi di elezione per ognuna (camera vitalizia ed
ereditaria, Senato a termine, ma con elezione dei Senatori diversa
da quella dei deputati ecc.) –, vario equilibrio dei poteri, per cui
la magistratura può essere un potere indipendente o solo un
ordine, controllato e diretto dalle circolari ministeriali, diverse
attribuzioni del capo del governo e dello Stato, diverso equilibrio
interno degli organismi territoriali (centralismo o decentramento,
maggiori o minori poteri dei prefetti, dei Consigli provinciali, dei
Comuni, ecc.), diverso equilibrio tra le forze armate di leva e
quelle professionali (polizia, gendarmeria), con la dipendenza di
questi corpi professionali dall’uno o dall’altro organo statale
(dalla magistratura, dal ministero dell’interno o dallo Stato
maggiore); la maggiore o minore parte lasciata alla consuetudine o
alla legge scritta, per cui si sviluppano forme consuetudinarie che
possono ad un certo punto essere abolite in virtù delle leggi
scritte (in alcuni paesi «pareva» si fossero costituiti
regimi democratici, ma essi si erano costituiti solo formalmente,
senza lotta, senza sanzione costituzionale e fu facile disgregarli
senza lotta, o quasi, perché privi di sussidi
giuridico-morali e militari, ripristinando la legge scritta o dando
della legge scritta interpretazioni reazionarie); il distacco
più o meno grande tra le leggi fondamentali e i regolamenti
d’esecuzione che annullano le prime o ne danno un’interpretazione
restrittiva; l’impiego più o meno esteso dei decreti-legge
che tendono a sostituire la legislazione ordinaria e la modificano
in certe occasioni, «forzando la pazienza» del
parlamento fino a giungere a un vero e proprio «ricatto della
guerra civile».” [16]
[1] A.Gramsci, Quaderni del carcere. Edizione critica a cura di V.
Gerratana. Ed.Einaudi 1975 pag.2014
[2] A.Gramsci, op.cit.. pag.2014
[3] A.Gramsci, op.cit.. pag.2017
[4] A.Gramsci, op.cit.. pagg.2027-8
[5] A.Gramsci, op.cit.. pag.2029
[6] A.Gramsci, op.cit.. pag.2029
[7] A.Gramsci, op.cit.. pag.1636
[8] A.Gramsci, op.cit.. pag.57
[9] M.Rosa, M.Verga, Storia dell’Età Moderna 1450-1815.
B.Mondatori ,1998, pagg.452-3
[10] M.Rosa, M.Verga, Op. cit., pag.456
[11] M.Rosa, M.Verga, Op. cit., pag.459
[12] A.Gramsci, op.cit.. pag.2029
[13]A.Gramsci, op.cit., pagg.2010-1
[14] A.Gramsci, op.cit., pag.2012
[15] A.Gramsci, op.cit., pag.59
[16] A.Gramsci, op.cit., pagg.1637-8
Capitolo III
Nell’Europa della prima metà del secolo XIX crescita
demografica ed industrializzazione sono le due forze-motrici di un
processo di trasformazione economico-sociale, che si muove in linea
contraria al processo politico della Restaurazione.
La rivoluzione industriale, avviata in Inghilterra, si estende a
poco a poco sul Continente conquistando e trasformando
l’attività produttiva di sempre più numerosi Paesi,
mentre si verifica un incremento della produzione agricola in quei
paesi in cui più radicale è stato il superamento degli
ordinamenti feudali.
Grandi città nascono e si sviluppano in Europa, effetto dello
spostamento di consistenti fette di popolazione dai centri rurali a
quelli urbani (urbanizzazione), e, mentre si assiste al progressivo
tramonto dei ceti legati alla rendita agraria, nei centri urbani
emergono nuove classi sociali legate alle nuove forme di produzione:
la borghesia ed il proletariato.
Nell’Italia della prima metà del secolo XIX in che termini si
pone il rapporto città-campagna ?
Occorre, innanzitutto, specificare, con le parole di Gramsci, cosa
si debba intendere in Italia per città e che cosa per
campagna, dato che la storia della penisola ha scandito in maniera
diversa, che in altri paesi europei, lo sviluppo della borghesia.
[…]I rapporti tra popolazione urbana e popolazione rurale non sono
di un solo tipo schematico, specialmente in Italia. Occorre pertanto
stabilire cosa si intende per «urbano» e per
«rurale» nella civiltà moderna e quali
combinazioni possono risultare dalla permanenza di forme antiquate e
retrive nella composizione generale della popolazione, studiata dal
punto di vista del suo maggiore o minore agglomerarsi. Talvolta si
verifica il paradosso che un tipo rurale sia più progressivo
di un tipo sedicente urbano.
Una città «industriale» è sempre
più progressiva della campagna che ne dipende organicamente.
Ma in Italia non tutte le città sono
«industriali» e ancor più poche sono le
città tipicamente industriali. Le «cento»
città italiane sono città industriali,
l’agglomeramento della popolazione in centri non rurali, che
è quasi doppio di quello francese, dimostra che esiste in
Italia una industrializzazione doppia che in Francia? In Italia
l’urbanesimo non è solo, e neppure
«specialmente», un fenomeno di sviluppo capitalistico e
della grande industria.[1]
Rispetto a molti altri Paesi europei, che con le monarchie
assolutistiche avevano già realizzato l’unificazione del
mercato interno, l’Italia manifestava ora, agli inizi del XIX
secolo, tutta la sua debolezza, per l’arretratezza economica che la
caratterizzava.
L’attività industriale, che nel settore tessile (lana,
cotone, lino e seta) aveva il suo punto di forza, si presentava in
tutti gli Stati della penisola ancora in una posizione
complessivamente subordinata rispetto all’agricoltura, che per
numero di addetti e per importanza economica restava la principale
risorsa delle collettività.
La stessa attività manifatturiera, peraltro ancora poco
meccanizzata, non conosceva quella concentrazione in grossi centri
urbani che, invece, già si era realizzata in Inghilterra e si
andava affermando in Europa.
Essa, agli inizi del secolo XIX, veniva ancora svolta,
prevalentemente, con un decentramento nelle campagne ed il
commerciante-imprenditore, antesignano del futuro capitalista, si
faceva carico, dopo averlo commissionato, di raccogliere il prodotto
finito per venderlo poi sul mercato.
La borghesia, che aveva mostrato sin dal tempo dei Comuni la propria
incapacità a legare le masse contadine ad un proprio progetto
di sviluppo e progresso economico, soccombeva ancora agli inizi del
XIX secolo di fronte alla forte presenza della rendita parassitaria.
E quello della presenza nefasta della rendita parassitaria
nell’economia del Continente, ed in particolare in Italia, è
uno dei temi della forte denuncia che Gramsci fa, anche nelle pagine
dei Quaderni dedicate ad Americanismo e fordismo, evidenziando come
la superiorità economica degli U.S.A. rispetto all’Europa
derivi dal fatto:
[…]che non esistano classi numerose senza una funzione essenziale
nel mondo produttivo, cioè classi assolutamente parassitarie.
La «tradizione», la «civiltà» europea
è invece proprio caratterizzata dall’esistenza di classi
simili, create dalla «ricchezza» e
«complessità» della storia passata che ha
lasciato un mucchio di sedimentazioni passive attraverso i fenomeni
di saturazione e fossilizzazione del personale statale e degli
intellettuali, del clero e della proprietà terriera, del
commercio di rapina e dell’esercito prima professionale poi di leva,
ma professionale per l’ufficialità. Si può anzi dire
che quanto più vetusta è la storia di un paese, e
tanto più numerose e gravose sono queste sedimentazioni di
masse fannullone e inutili, che vivono del «patrimonio»
degli «avi», di questi pensionati della storia
economica. Una statistica di questi elementi economicamente passivi
(in senso sociale) è difficilissima, perché è
impossibile trovare la «voce» che li possa definire ai
fini di una ricerca diretta; indicazioni illuminanti si possono
ricavare indirettamente, per esempio dall’esistenza di determinate
forme di vita nazionale.
Il numero rilevante di grandi e medi (e anche piccoli) agglomerati
di tipo urbano senza industria (senza fabbriche) è uno di
questi indizi e dei più rilevanti.[2]
Nel contesto italiano non è, quindi, la dimensione ed il
numero di abitanti l’indicatore sicuro della modernità in
senso capitalistico di una città e delle sue caratteristiche
produttive. Ne fa testo Napoli.
[…]Quella che fu per molto tempo la più grande città
italiana e continua ad essere delle più grandi, Napoli, non
è una città industriale: neppure Roma, l’attuale
maggiore città italiana, è industriale. Tuttavia anche
in queste città, di un tipo medioevale, esistono forti nuclei
di popolazione del tipo urbano moderno; ma qual è la loro
posizione relativa? Essi sono sommersi, premuti, schiacciati
dall’altra parte, che non è di tipo moderno ed è la
grandissima maggioranza.[3]
[…]Napoli è la città dove la maggior parte dei
proprietari terrieri del Mezzogiorno (nobili e no) spendono la
rendita agraria. Intorno a qualche decina di migliaia di queste
famiglie di proprietari, di maggiore o minore importanza economica,
con le loro corti di servi e di lacché immediati, si
organizza la vita pratica di una parte imponente della città,
con le sue industrie artigianesche, coi suoi mestieri ambulanti, con
lo sminuzzamento inaudito dell’offerta immediata di merci e servizi
agli sfaccendati che circolano nelle strade. Un’altra parte
importante della città si organizza intorno al transito e al
commercio all’ingrosso. L’industria «produttiva» nel
senso che crea e accumula nuovi beni è relativamente piccola,
nonostante che nelle statistiche ufficiali Napoli sia annoverata
come la quarta città industriale dell’Italia, dopo Milano,
Torino e Genova…
…Il fatto di Napoli si ripete in grande per Palermo e Roma e per
tutta una serie numerosa (le famose «cento
città») di città non solo dell’Italia
meridionale e delle Isole, ma dell’Italia centrale e anche di quella
settentrionale (Bologna, in buona parte, Parma, Ferrara ecc.). Si
può ripetere per molta popolazione di tal genere di
città il proverbio popolare: quando un cavallo caca, cento
passeri fanno il loro desinare. [4]
Napoli rappresenta, quindi, l’espressione più ampia ed
evidente di questo rapporto parassitario ed oppressivo della
città sulla campagna, che secondo Gramsci condiziona anche i
piccoli centri della provincia.
[…] Il fatto che non è stato ancora convenientemente studiato
è questo: che la media e la piccola proprietà terriera
non è in mano a contadini coltivatori, ma a borghesi della
cittaduzza o del borgo, e che questa terra viene data a mezzadria
primitiva (cioè in affitto con corrisponsione in natura e
servizi) o in enfiteusi; esiste così un volume enorme (in
rapporto al reddito lordo) di piccola e media borghesia di
«pensionati» e «redditieri», che ha creato
in certa letteratura economica degna di Candide la figura mostruosa
del così detto «produttore di risparmio»,
cioè di uno strato di popolazione passiva economicamente che
dal lavoro primitivo di un numero determinato di contadini trae non
solo il proprio sostentamento, ma ancora riesce a risparmiare: modo
di accumulazione di capitale dei più mostruosi e malsani,
perché fondato sull’iniquo sfruttamento usurario dei
contadini tenuti al margine della denutrizione e perché costa
enormemente; poiché al poco capitale risparmiato corrisponde
una spesa inaudita quale è quella necessaria per sostenere
spesso un livello di vita elevato di tanta massa di parassiti
assoluti. (Il fenomeno storico per cui si è formato nella
penisola italiana, a ondate, dopo la caduta dei Comuni medioevali e
la decadenza dello spirito d’iniziativa capitalistica della
borghesia urbana, una tale situazione anormale, determinatrice di
stagnazione storica, è chiamato dallo storico Niccolò
Rodolico «ritorno alla terra» ed è stato assunto
addirittura come indice di benefico progresso nazionale, tanto le
frasi fatte possono ottundere il senso critico).[5]
Questo rapporto parassitario della città sulla campagna si
accompagna ad un disprezzo ed odio contro il “villano”,
contraccambiato da pari sentimenti della campagna verso la
città.
[…]In questo tipo di città esiste, tra tutti i gruppi
sociali, una unità ideologica urbana contro la campagna,
unità alla quale non sfuggono neppure i nuclei più
moderni per funzione civile, che pur vi esistono: c’è l’odio
e il disprezzo contro il «villano», un fronte unico
implicito contro le rivendicazioni della campagna, che, se
realizzate, renderebbero impossibile l’esistenza di questo tipo di
città. Reciprocamente esiste una avversione
«generica» ma non perciò meno tenace e
appassionata della campagna contro la città, contro tutta la
città, tutti i gruppi che la costituiscono.
Questo rapporto generale, che in realtà è molto
complesso e si manifesta in forme che apparentemente sembrano
contraddittorie, ha avuto una importanza primordiale nello svolgersi
delle lotte per il Risorgimento, quando esso era ancor più
assoluto e operante che non sia oggi.[6]
Alla luce di quanto detto sopra, si possono cominciare a raccogliere
i primi elementi per giungere ad una spiegazione del mancato
sviluppo in Italia del cosiddetto giacobinismo storico e di quanto
poco studiata fosse nella penisola l’esperienza della Rivoluzione
francese, sin dai primi emulatori, quali furono i giacobini
meridionali, ma soprattutto da quei soggetti politici, che saranno
poi i protagonisti del Risorgimento.
[…] Il primo esempio clamoroso di queste apparenti contraddizioni
è da studiare nell’episodio della Repubblica Partenopea del
1799: la città fu schiacciata dalla campagna organizzata
nelle orde del cardinale Ruffo, perché la Repubblica, sia
nella sua prima fase aristocratica, che nella seconda borghese,
trascurò completamente la campagna da una parte, ma
dall’altra, prospettando la possibilità di un rivolgimento
giacobino per il quale la proprietà terriera, che spendeva la
rendita agraria a Napoli, poteva essere spossessata, privando la
grande massa popolare dei suoi cespiti di entrata e di vita,
lasciò freddi se non avversi i popolani napoletani.[7]
(Non è per caso che i decreti contro i privilegi della
feudalità furono emanati a Napoli, non durante la
Rivoluzione, ma qualche anno più tardi da un francese,
Giuseppe Buonaparte, anche se il loro scopo non fu quello di
spezzettare il latifondo a vantaggio dei contadini “senza terra” ed
il loro risultato fu solo quello di rafforzare la borghesia delle
campagne).[8]
E’ in questo contesto, caratterizzato, sotto il profilo economico
dall’arretratezza e dalla forte presenza di ampi settori di economia
parassitaria, sotto il profilo politico dallo spezzettamento in
tanti staterelli del territorio peninsulare, con la presenza a nord
dell’Austria in funzione di gendarme armato contro ogni
rivendicazione di libertà, unità ed indipendenza, che
va inquadrata l’analisi delle forze motrici del processo
risorgimentale, fatta da Gramsci.
[…]Dal rapporto città-campagna deve muovere l’esame delle
forze motrici fondamentali della storia italiana e dei punti
programmatici da cui occorre studiare e giudicare l’indirizzo del
Partito d’Azione nel Risorgimento. Schematicamente si può
avere questo quadro: 1) la forza urbana settentrionale; 2) la forza
rurale meridionale; 3) la forza rurale settentrionale-centrale; 4-5)
la forza rurale della Sicilia e della Sardegna.
Restando ferma la funzione di «locomotiva» della prima
forza, occorre esaminare le diverse combinazioni «più
utili» atte a costruire un «treno» che avanzi il
più speditamente nella storia.[9]
Il problema che Gramsci affronta in queste pagine dei Quaderni
è quello, detto in altri termini, del blocco storico-sociale
che la borghesia del Nord doveva porre in essere attraverso una
politica di alleanze per realizzare l’obbiettivo della costituzione
dello Stato unitario, premessa politico-istituzionale al suo
ulteriore sviluppo.
Il rapporto è sempre quello generale di
città-campagna, che l’analisi gramsciana scompone fra la
borghesia industriale (la città), da un lato, e, dall’altro,
quattro sezioni delle forze rurali (la campagna) divise fra loro per
problemi specifici, come quelli legati alla presenza di correnti
indipendentiste in Sicilia e Sardegna
La prima forza, la borghesia industriale del Nord, ha due grosse
sezioni al suo interno: quella piemontese e quella lombarda, a cui
corrispondono anche, come si vedrà più avanti,
espressioni politiche differenti, per un certo periodo in contesa
fra loro per l’egemonia sull’intero processo;
[…]ma rimane fissato che, già «meccanicamente»,
se tale forza ha raggiunto un certo grado di unità e di
combattività, essa esercita una funzione direttiva
«indiretta» sulle altre. Nei diversi periodi del
Risorgimento appare che il porsi di questa forza in una posizione di
intransigenza e di lotta contro il dominio straniero, determina
un’esaltazione delle forze progressive meridionali: da ciò il
sincronismo relativo, ma non la simultaneità, nei movimenti
del 20-21, del 31, del 48. Nel 59-60 questo «meccanismo»
storico-politico agisce con tutto il rendimento possibile,
poiché il Nord inizia la lotta, il Centro aderisce
pacificamente o quasi e nel Sud lo Stato borbonico crolla sotto la
spinta dei garibaldini, spinta relativamente debole.[10]
Se un certo grado di unità interna di questa classe consente
“meccanicamente” di esercitare un ruolo di direzione (egemonia)
sulle altre classi, nella prospettiva della costituzione dello Stato
unitario, non sono altrettanto pacificamente risolti i problemi
legati all’esercizio dell’egemonia sulle altre classi, una volta
preso il potere.
Una delle prime questioni è la realizzazione
dell’unità interna di classe della borghesia industriale, sia
al Nord che al Sud.
[…]La prima forza doveva quindi porsi il problema di organizzare
intorno a sé le forze urbane delle altre sezioni nazionali e
specialmente del Sud. Questo problema era il più difficile,
irto di contraddizioni e di motivi che scatenavano ondate di
passioni… Ma la sua soluzione, appunto per questo, era uno dei punti
cruciali dello sviluppo nazionale.[11]
E’ vero che identica, sia al Nord che al Sud, è la posizione
della borghesia industriale nel processo produttivo e comune a tutte
le sue sezioni territoriali è l’interesse per la costituzione
di uno Stato unitario.
Tuttavia, diverso è il peso specifico che questa classe
esercita nella società civile settentrionale o meridionale:
[…]Le forze urbane sono socialmente omogenee, quindi devono trovarsi
in una posizione di perfetta uguaglianza. Ciò era vero
teoricamente, ma storicamente la quistione si poneva diversamente:
le forze urbane del Nord erano nettamente alla testa della loro
sezione nazionale, mentre per le forze urbane del Sud ciò non
si verificava, per lo meno in egual misura.[12]
La questione, perciò, poteva avere diverse soluzioni:
Una era quella che la borghesia industriale meridionale rinunciasse
a qualsiasi velleità di uguaglianza con quella settentrionale
e si limitasse a riconoscerne la funzione egemone.
[…]Le forze urbane del Nord dovevano quindi ottenere da quelle del
Sud che la loro funzione direttiva si limitasse ad assicurare la
direzione del Nord verso il Sud nel rapporto generale di
città-campagna, cioè la funzione direttiva delle forze
urbane del Sud non poteva essere altro che un momento subordinato
della più vasta funzione direttiva del Nord.[13]
L’altra ipotesi, partendo dalla perfetta uguaglianza fra le due
sezioni, avrebbe potuto estendere quell’uguaglianza fino ai confini
dell’indipendenza reciproca.
[…]La contraddizione più stridente nasceva da questo ordine
di fatti: la forza urbana del Sud non poteva essere considerata come
qualcosa a sé, indipendente da quella del Nord; porre la
quistione così avrebbe significato affermare
pregiudizialmente un insanabile dissidio «nazionale»,
dissidio tanto grave che neanche la soluzione federalistica avrebbe
potuto comporre; si sarebbe affermata l’esistenza di nazioni
diverse, tra le quali avrebbe potuto realizzarsi solo un’alleanza
diplomatico-militare contro il comune nemico, l’Austria (l’unico
elemento di comunità e solidarietà, insomma, sarebbe
consistito solo nell’avere un «comune» nemico).[14]
Questa seconda ipotesi, però, non ebbe mai modo di
affermarsi, anche se forti furono le opposizioni nel Sud al progetto
dello Stato unitario, perché
[…]era la debole posizione delle forze urbane meridionali in
rapporto alle forze rurali, rapporto sfavorevole che si manifestava
talvolta in una vera e propria soggezione della città alla
campagna. [15]
In queste condizioni di inferiorità,
…[i]l collegamento stretto tra forze urbane del Nord e del Sud,
dando alle seconde la forza rappresentativa del prestigio delle
prime, doveva aiutare quelle a rendersi autonome, ad acquistare
coscienza della loro funzione storica dirigente in modo
«concreto» e non puramente teorico e astratto,
suggerendo le soluzioni da dare ai vasti problemi regionali. …
…[I]l compito più grave per risolvere la situazione spettava
in ogni modo alle forze urbane del Nord che non solo dovevano
convincere i loro «fratelli» del Sud, ma dovevano
incominciare col convincere se stesse di questa complessità
di sistema politico: praticamente quindi la quistione si poneva
nell’esistenza di un forte centro di direzione politica, al quale
necessariamente avrebbero dovuto collaborare forti e popolari
individualità meridionali e delle isole. Il problema di
creare una unità Nord-Sud era strettamente legato e in gran
parte assorbito nel problema di creare una coesione e una
solidarietà tra tutte le forze urbane nazionali.[16]
Se queste erano le problematiche connesse al rapporto di alleanza
fra la forza urbana settentrionale e le forze produttive del
meridione, altri problemi si ponevano nel rapporto con le forze
rurali centro-settentrionali, contrassegnate, a differenza di quelle
delle tre sezioni meridionali, da una più forte presenza
della piccola proprietà contadina.
[…]In queste forze rurali occorreva distinguere due correnti: quella
laica e quella clericale-austriacante. La forza clericale aveva il
suo peso massimo nel Lombardo-Veneto, oltre che in Toscana e in una
parte dello Stato pontificio; quella laica nel Piemonte, con
interferenze più o meno vaste nel resto d’Italia, oltre che
nelle legazioni, specialmente in Romagna, anche nelle altre sezioni,
fino al Mezzogiorno e alle isole. Risolvendo bene questi rapporti
immediati, le forze urbane settentrionali avrebbero dato un ritmo a
tutte le quistioni simili su scala nazionale.[17]
Le forza politica che avrebbe dovuto rappresentare gli interessi
della borghesia industriale settentrionale, il Partito d’Azione, non
fu mai capace di farsi carico di tutte queste problematiche, per
dare ad esse una soluzione in senso progressista.
[…]Su tutta questa serie di problemi complessi il Partito d’Azione
fallì completamente: esso si limitò infatti a fare
quistione di principio e di programma essenziale quella che era
semplicemente quistione del terreno politico su cui tali problemi
avrebbero potuto accentrarsi e trovare una soluzione legale: la
questione della Costituente. Non si può dire che abbia
fallito il partito moderato, che si proponeva l’espansione organica
del Piemonte, voleva soldati per l’esercito piemontese e non
insurrezioni o armate garibaldine troppo vaste. [18]
Ne derivò una caratteristica del processo unitario, che
Gramsci più volte definì “rivoluzione passiva”,
perchè spogliò le masse popolari, che all’epoca erano
prevalentemente contadine, del diritto di partecipare alla sua
realizzazione, tenendole, anzi, accuratamente lontane e pervenendo,
così, alla realizzazione dello Stato unitario, obiettivo di
per sé progressista e rivoluzionario (giudicato dai
contemporanei come “miracolo”), senza intaccare i rapporti sociali
delle campagne, che nel meridione significavano subordinazione della
città alla campagna, dell’attività produttiva alla
rendita parassitaria.
[1] A.Gramsci, Quaderni del carcere. Edizione critica a cura di V.
Gerratana. Ed.Einaudi 1975 pagg.2035-6
[2] A.Gramsci, Op.cit.. pagg.2141-2
[3] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2036
[4] A.Gramsci, Op.cit.. pagg.2142-3
[5] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2143
[6] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2036
[7] A.Gramsci, Op.cit.. pagg.2036-7
[8] Vedi P.Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale.
Donzelli Editore. Roma 1996 pagg.3-9
[9] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2042
[10] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2042
[11] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2043
[12] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2043
[13] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2043
[14] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2043
[15] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2043
[16] A.Gramsci, Op.cit.. pagg.2043-4
[17] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2044
[18] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2044
Capitolo IV
I primi decenni del secolo XIX presentano la realtà italiana
come caratterizzata, sotto il profilo economico, da una prevalenza
delle attività agricole su quelle manifatturiere e da una
forte presenza della rendita parassitaria nelle attività
produttive.
Sotto un profilo politico oggettivo la questione centrale è
quella dell’unificazione territoriale delle varie realtà
della penisola in un unico e nuovo Stato che consenta lo sviluppo
economico della borghesia e, collegato ad essa, la questione
dell’assetto istituzionale di questa nuova realtà statuale.
Soggettivamente, però, il tema centrale di battaglie e moti,
che in questo periodo agitano i vari Stati e staterelli della
penisola, è solo quello della limitazione del potere
assolutistico dei vari sovrani e governanti attraverso
l’introduzione di Costituzioni e Statuti che sanciscano quei diritti
fondamentali dell’uomo, sempre più riconosciuto come
cittadino e sempre meno visto come suddito, di cui la Rivoluzione
francese e Napoleone si erano fatti vessillo su tutto il Continente.
I moti del 1820-31 partono dal Sud, dal Regno delle due Sicilie,
dove il 1° luglio del 1820 un moto “preparato da pochi, voluto
da tutti” (come si scrisse all’epoca) ottenuta l’adesione massiccia
dell’esercito, impone al Re Ferdinando I la Costituzione spagnola
del 1812, non senza qualche resistenza ed opposizione delle
componenti separatiste ed indipendentiste siciliane. Qualche mese
più tardi un analogo moto viene preparato nel
lombardo-veneto, ma i congiurati vengono arrestati prima di passare
all’azione (fra essi S. Pellico e P. Maroncelli).
Subito dopo in Piemonte, dove la monarchia sabauda (Vittorio
Emanuele I), re-insediatasi sul trono con la Restaurazione, aveva
cancellato quasi tutte le riforme del periodo napoleonico, nella
notte fra il 9 e 10 marzo del 1821 con l’ammutinamento della
guarnigione di Alessandria si avvia il moto cospirativo che, oltre
alla rivendicazione costituzionale (lo Statuto), fa appello alla
monarchia perchè muova guerra all’Austria, facendo leva sulle
mire espansionistiche della Casa Reale, per giungere, così,
alla costituzione di un Regno costituzionale nel Nord Italia.
Gli insorti saranno sconfitti l’8 aprile del ’21 a Novara dal
generale lealista De la Tour, che, appoggiato dagli austriaci, due
giorni più tardi entrerà a Torino, dopo che il
reggente Carlo Alberto prima aveva promesso la promulgazione di una
Carta Costituzionale e poi si era rimangiato la parola.
Questo atteggiamento oscillante verso le riforme liberali da parte
della casa regnante sabauda, a cui si accompagna l’ostilità
aperta al liberalismo di buona parte dell’aristocrazia di corte che,
invece, in più di un’occasione simpatizza apertamente per
l’Austria, sarà una caratteristica costante nella politica
piemontese fino a Cavour.
L’ultimo sussulto insurrezionale di questo periodo si ha con la
cosiddetta “congiura estense”, che a febbraio del 1831 vede la
creazione di governi provvisori, liberali, a Bologna, Modena e
Parma, dopo la fuga del duca di Modena, Francesco IV, che pure aveva
intrattenuto rapporti segreti con i carbonari, e di Maria Luisa di
Parma. La congiura si conclude con la repressione violenta degli
insorti ad opera dell’esercito austriaco, intervenuto a sostegno dei
regnanti fuggiti, e l’impiccagione del patriota Ciro Menotti,
organizzatore della sommossa, e del notaio Vincenzo Borelli,
colpevole di aver stilato l’atto che proclamava decaduto Francesco
IV.
Questi primi passi del processo risorgimentale sono caratterizzati,
schematicamente, dalla natura elitaria dei movimenti, composti
prevalentemente da aristocratici illuminati e che, il più
delle volte, vedono come protagonista l’esercito, a Napoli ben
strutturato dopo l’esperienza murattiana, in Piemonte interessato
all’espansione territoriale del regno.
Scopo principale di queste prime battaglie è quello, come si
è detto sopra, di temperare i regimi assolutistici con la
promulgazione di norme costituzionali, mentre scarsamente presente
è ancora l’obbiettivo dell’unificazione nazionale. L’esercito
austriaco resta il gendarme operativo nella Penisola per dare
sostegno ai traballanti regimi reazionari.
La struttura organizzativa cospirativa, elitaria e minoritaria (come
del resto tutto il movimento in questa fase), fa capo alla
Massoneria, già veicolo in Europa delle idee illuministiche e
liberaleggianti nel secolo XVIII.
In questo periodo la Massoneria, che in Italia si chiama Carboneria,
non riesce ancora a strutturare in maniera unitaria, a livello
nazionale, tutte le varie sette territoriali e tutto il movimento in
sviluppo. Di essa Gramsci dice:
[…] Si può osservare: 1°) che la molteplicità
delle sètte, dei programmi e dei metodi, oltre all’essere
dovuta al carattere clandestino del movimento settario, è
certamente dovuta anche alla primitività del movimento
stesso, cioè all’assenza di tradizioni forti e radicate, e
quindi all’assenza di un organismo «centrale» saldo e
con indirizzo fermo…[1]
Nonostante ciò, il movimento, già in questa prima
fase, possiede un suo sincronismo su tutto il territorio nazionale
ed il Sud fa da detonatore.
[…] Ciò che nel periodo del Risorgimento è
specialmente notevole è il fatto che nelle crisi politiche,
il Sud ha l’iniziativa dell’azione: 1799 Napoli, 20-21 Palermo, 47
Messina e la Sicilia, 47-48 Sicilia e Napoli. Altro fatto notevole
è l’aspetto particolare che ogni movimento assume nell’Italia
Centrale, come una via di mezzo tra Nord e Sud: il periodo delle
iniziative popolari (relative) va dal 1815 al 1849 e culmina in
Toscana e negli Stati del Papa (la Romagna e la Lunigiana occorre
sempre considerarle come appartenenti al Centro)….
Questo relativo sincronismo e simultaneità mostra l’esistenza
già dopo il 1815 di una struttura economico-politica
relativamente omogenea, da una parte, e dall’altra mostra come nei
periodi di crisi sia la parte più debole e periferica a
reagire per la prima….[2]
I ripetuti fallimenti dei moti carbonari degli anni 20-30, la loro
dimensione localistica e provinciale, la crescita economica della
borghesia italiana e la partecipazione di strati sempre più
ampi di “popolo” alle ribellioni ed alle rivolte, non potevano che
determinare la crisi della Carboneria e dei metodi cospirativi
elitari, che essa praticava.
La nascita della Giovine Italia ad opera di Giuseppe Mazzini fu uno
degli esiti di questa crisi. L’allargamento del target di
interlocuzione della nuova organizzazione rivoluzionaria, giovani
studenti e intellettuali, rispetto all’esercito ed a singoli
esponenti dell’aristocrazia illuminata; il carattere nazionale della
struttura organizzativa, rispetto ad un’impostazione localistica;
l’attività politica pubblica rivolta apertamente, attraverso
i giornali, al “popolo”, vero protagonista del cambiamento
attraverso l’insurrezione, invece di un’azione cospirativa segreta
condotta da singoli individui; questi, schematicamente, le
principali differenze organizzative con la Carboneria.
Tuttavia, è sul programma politico che si registrano le
principali novità: Unità del territorio nazionale,
Indipendenza dall’Austria e Repubblica come forma istituzionale del
nuovo Stato da conquistare; ecco i dogmi della fede mazziniana,
intrisa di misticismo, concepita in unità con un’azione
politica da vivere come “missione morale” e nutrita da una coerenza,
quasi ossessiva, fra “pensiero ed azione”.
Le repressioni antidemocratiche, a cui non si sottrae la monarchia
sabauda, e gli insuccessi dei primi moti mazziniani, fra cui va
ricordato il tentativo insurrezionale dei Fratelli Bandiera
conclusosi con la fucilazione a Cosenza dei patrioti, determinano la
crescita delle varie espressioni del cosiddetto liberalismo
moderato.
Queste correnti erano accomunate dal rifiuto di ricorrere ai metodi
violenti propugnati dal Mazzini per raggiungere, invece, quello
stesso obbiettivo della costituzione dello stato nazionale unitario,
garante dei diritti che il liberalismo propugnava, attraverso le
riforme di governi illuminati e di prìncipi solidali al
progetto dell’unificazione nazionale.
Il rappresentante più illustre di questa corrente moderata fu
l’abate V. Gioberti, autore dell’opera Del primato morale e civile
degli italiani, pubblicata nel ’43, accomunato al Mazzini dalla
missione storica che attribuiva popolo italiano, ma che a differenza
di quello, pensava potersi realizzare sotto la guida del Papato.
[…] Mazzini-Gioberti cercano di innestare il moto nazionale nella
tradizione cosmopolitica, di creare il mito di una missione
dell’Italia rinata in una nuova Cosmopoli europea e mondiale, ma si
tratta di un mito verbale e retorico, fondato sul passato e non
sulle condizioni del presente, già formate o in processo di
sviluppo… [3]
L’altra componente del moderatismo ante-’48, in lotta aperta con il
democraticismo mazziniano, è quella di Cesare Balbo,
aristocratico reazionario della Corte sabauda che propone, come
Gioberti, di pervenire all’unità attraverso la realizzazione
di una Confederazione fra gli stati italiani, ma a differenza di
quello che la immaginava guidata dal Papa, Balbo inizia a
realizzarla con una Lega doganale a guida piemontese.
[…] La lega doganale, promossa da Cesare Balbo e stretta a Torino il
3 novembre 1847 dai tre rappresentanti del Piemonte, della Toscana e
dello Stato pontificio, doveva preludere alla costituzione della
Confederazione politica che poi fu disdetta dallo stesso Balbo:
facendo abortire anche la lega doganale. La Confederazione era
desiderata dagli Stati minori italiani; i reazionari piemontesi (fra
cui il Balbo) credendo ormai assicurata l’espansione territoriale
del Piemonte, non volevano pregiudicarla con legami che l’avrebbero
ostacolata (il Balbo nelle Speranze d’Italia aveva sostenuto che la
Confederazione era impossibile finché una parte d’Italia
fosse stata in mano agli stranieri!?) e disdissero la Confederazione
dicendo che le leghe si stringono prima o dopo le guerre (!?): la
Confederazione fu respinta nel 48, nei primi mesi (confrontare).
Gioberti, con altri, vedevano nella Confederazione politica e
doganale, stretta anche durante la guerra, la necessaria premessa
per rendere possibile l’attuazione del motto «l’Italia
farà da sé».
Questa politica infida nei rapporti della Confederazione, con le
altre direttive altrettanto fallaci a proposito dei volontari e
della Costituente, mostra che il moto del 48 fallì per gli
intrighi furbescamente meschini dei destri, che furono i moderati
del periodo successivo. Essi non seppero dare un indirizzo,
né politico né militare, al moto nazionale.[4]
Ma la soluzione federalistica del problema dell’unità
nazionale non è un patrimonio solo dei moderati alla Gioberti
o dei reazionari “municipalisti” alla Balbo; essa è sostenuta
anche da correnti democratico-repubblicane, come quella di Carlo
Cattaneo e Giuseppe Ferrari a Milano, che esprimono gli interessi
della nascente borghesia industriale lombarda, più evoluta di
quella piemontese, che mal tollera l’egemonia del Regno sabaudo:
[…] Il federalismo di Ferrari-Cattaneo. Fu l’impostazione
politico-storica delle contraddizioni esistenti tra il Piemonte e la
Lombardia.
La Lombardia non voleva essere annessa, come una provincia, al
Piemonte: era più progredita, intellettualmente,
politicamente, economicamente, del Piemonte. Aveva fatto, con forze
e mezzi propri, la sua rivoluzione democratica con le cinque
giornate: era, forse, più italiana del Piemonte, nel senso
che rappresentava l’Italia meglio del Piemonte. Che il Cattaneo
presentasse il federalismo come immanente in tutta la storia
italiana non è altro che elemento ideologico, mitico, per
rafforzare il programma politico attuale. ...
E Risorgimento è uno svolgimento storico complesso e
contraddittorio che risulta integrale da tutti i suoi elementi
antitetici, dai suoi protagonisti e dai suoi antagonisti, dalle loro
lotte, dalle modificazioni reciproche che le lotte stesse
determinano e anche dalla funzione delle forze passive e latenti
come le grandi masse agricole, oltre, naturalmente, la funzione
eminente dei rapporti internazionali.[5]
Il 1848 è l’anno in cui in Europa scoppiano con più
fragore le contraddizioni covate negli anni precedenti e l’Ancien
regime vacilla pericolosamente, preannunciando il crollo definitivo
che si verificherà negli anni successivi con la nascita di
Stati nazionali costituzionali.
In Italia la scintilla dei moti insurrezionali del ’48 scoppia
ancora una volta nel Sud a Palermo e si estende subito nel
napoletano, costringendo Ferdinando II di Borbone a concedere il 29
gennaio del 1848 una costituzione sul modello di quella francese del
’30, nonostante che in un primo momento avesse invocato l’intervento
delle truppe austriache, senza successo, però, per il rifiuto
di Pio IX di farle passare sul proprio territorio. Leopoldo II,
Carlo Alberto e Pio IX seguono a breve il re Borbone.
A proposito di Pio IX, Gramsci scrive:
[…] Che il liberalismo sia riuscito a creare la forza
cattolico-liberale e a ottenere che lo stesso Pio IX si ponesse, sia
pure per poco, nel terreno del liberalismo (quanto fu sufficiente
per disgregare l’apparato politico cattolico e togliergli la fiducia
in se stesso) fu il capolavoro politico del Risorgimento e uno dei
punti più importanti di risoluzione dei vecchi nodi che
avevano impedito fino allora di pensare concretamente alla
possibilità di uno Stato unitario italiano.[6]
Ma è nel Lombardo-Veneto ed in particolare a Milano, dove lo
scontro diretto con l’Austria diventa inevitabile, che si realizza
il banco di prova per testare la validità delle teorie
politiche sulla realizzazione dell’unità nazionale e sui vari
“partiti” che le sostengono.
Il 17 marzo un’insurrezione a Venezia proclama la Repubblica con a
capo i patrioti Niccolò Tommaseo e Daniele Manin,
precedentemente liberati dal carcere. Il giorno dopo, il 18 marzo,
è la volta di Milano, che dopo cinque giornate di
combattimenti, caccia dalla città le truppe del generale
Radetsky. Come a Parigi, il contributo degli operai all’insurrezione
è notevole:
“La maggior parte degli uccisi, annota ancora il Cattaneo, doveva
ben essere tra gli operai; le barricate e gli operai vanno insieme
come cavallo e cavaliere”. [7]
Il Consiglio di guerra che guida la sommossa è diretto dai
democratici-federalisti di Carlo Cattaneo, nonostante che gli stessi
avessero frenato lo scoppio della rivolta, temendo di esporre la
città, poco armata e poco difesa, alla repressione di
generali austriaci feroci e temendo, anche, che un intervento
piemontese vincente avrebbe soffocato le ambizioni indipendentiste e
autonomiste dei milanesi.
L’aristocrazia milanese, che fino a qualche giorno prima aveva
ossequiato gli austriaci, attraverso il Governo provvisorio
sollecita ora l’intervento armato contro l’Austria da parte di Carlo
Alberto, che per suo conto già coltivava, insieme con i
reazionari del cosiddetto partito “municipalista”, il disegno di un
allargamento del regno nel Lombardo-Veneto, ma temeva che l’egemonia
dei federalisti-repubblicani sulla rivolta in atto ne pregiudicasse
il raggiungimento.
L’intervento piemontese caccia definitivamente gli austriaci,
che si rinchiudono nel cosiddetto “quadrilatero” (le fortezze di
Verona, Legnago, Peschiera e Mantova) e suscita entusiasmi in tutti
gli stati della penisola. Accorrono volontari da tutte le parti e
per effetto della Lega promossa da Balbo, lo Stato Pontificio, il
Gran Ducato toscano ed il Regno dei Borboni mandano truppe a
sostegno della guerra anti-austriaca.
La conduzione politico-militare della guerra da parte dei piemontesi
è fallimentare. La “piemontesizzazione” delle prime vittorie
ed il contestuale esautoramento della Lega, favoriscono il ritiro
dal conflitto degli Stati fino a quel momento alleati. Pio IX e
Ferdinando II revocano le Costituzioni poco prima concesse nei loro
Stati.
Anche sotto il profilo più propriamente tecnico-militare, il
rifiuto preconcetto dei generali piemontesi di coordinare
all’esercito regolare i volontari accorsi e la lentezza di movimento
delle truppe, che favorisce l’arrivo di rinforzi per l’esercito
austriaco, portano alla grave sconfitta di Custoza, dove vengono
sbaragliate le truppe sabaude il 23-25 luglio 1848. Dopo aver
promesso la sua difesa, Milano viene vergognosamente abbandonata
alla vendetta dei vincitori.
[…] Il fallimento della guerra regia ed il naufragio dell’ ipotesi
moderata e neo-guelfa aprono la strada ad un impetuoso ritorno
dell’iniziativa democratica mazziniana della “guerra di popolo”.
Alla Repubblica di Venezia guidata da Manin, si aggiungono il
Granducato di Toscana….e Roma dove…si era costituita la repubblica
retta da G.Mazzini, C.Armellini ed A.Saffi [8]
Di fronte alla possibile concretizzazione del disegno di uno Stato
unico democratico nell’Italia centrale, il Governo sabaudo, dopo un
iniziale tentativo di Gioberti di offrire aiuto a Pio IX e Leopoldo
II, si decide a dichiarare nuovamente guerra all’Austria (Governo
Chiodo-Rattazzi).
Questa volta Carlo Alberto subisce a Novara il 23 marzo 1849
un’altra pesante sconfitta, che lo costringe all’abdicazione in
favore di V.Emanuele II. La reazione austriaca riporta il Granduca
in Toscana, mentre un esercito francese, sceso in Italia in aiuto al
Papa, costringe alla resa la Repubblica Romana dopo una difesa
eroica condotta dai volontari sotto la guida di Garibaldi.
Il 1848 rappresenta un po’ la fase terminale dell’onda lunga che,
considerata in maniera unitaria, dalla Rivoluzione francese del 1789
si protrae fino al 1870, assumendo, dopo il 1815, più la
caratteristica di rivoluzione passiva-guerra di posizione, che
quella di rivoluzione attiva-guerra di movimento come era stato fino
ad allora.
[…] Il rapporto «rivoluzione passiva - guerra di
posizione» nel Risorgimento italiano può essere
studiato anche in altri aspetti. Importantissimo quello che si
può chiamare del «personale» e l’altro della
«radunata rivoluzionaria». Quello del
«personale» può essere appunto paragonato a
quanto si verificò nella guerra mondiale nel rapporto tra
ufficiali di carriera e ufficiali di complemento da una parte e tra
soldati di leva e volontari-arditi dall’altra. Gli ufficiali di
carriera corrisposero nel Risorgimento ai partiti politici regolari,
organici, tradizionali, ecc., che al momento dell’azione (1848) si
dimostrarono inetti o quasi e furono nel 1848-49 soverchiati
dall’ondata popolare-mazziniana-democratica, ondata caotica,
disordinata, «estemporanca» per così dire, ma che
tuttavia, al seguito di capi improvvisati o quasi (in ogni caso non
di formazioni precostituite come era il partito moderato) ottennero
successi indubbiamente maggiori di quelli ottenuti dai moderati: la
Repubblica romana e Venezia mostrarono una forza di resistenza molto
notevole. Nel periodo dopo il 48 il rapporto tra le due forze,
quella regolare e quella «carismatica» si
organizzò intorno a Cavour e Garibaldi e diede il massimo
risultato, sebbene questo risultato fosse poi incamerato dal Cavour.
Questo aspetto è connesso all’altro, della
«radunata». È da osservare che la
difficoltà tecnica contro cui andarono sempre a spezzarsi le
iniziative mazziniane fu quella appunto della «radunata
rivoluzionaria». Sarebbe interessante, da questo punto di
vista, studiare il tentativo di invadere la Savoia col Ramorino, poi
quello dei fratelli Bandiera, del Pisacane ecc., paragonato con la
situazione che si offrì a Mazzini nel 48 a Milano e nel 49
Roma e che egli non ebbe la capacità di organizzare. Questi
tentativi di pochi non potevano non essere schiacciati in germe,
perché sarebbe stato maraviglioso che le forze reazionarie,
che erano concentrate e potevano operare liberamente (cioè
non trovavano nessuna opposizione in larghi movimenti della
popolazione) non schiacciassero le iniziative tipo Ramorino,
Pisacane, Bandiera, anche se queste fossero state preparate meglio
di quanto furono in realtà. Nel secondo periodo (1859-60) la
radunata rivoluzionaria, come fu quella dei Mille di Garibaldi, fu
resa possibile dal fatto che Garibaldi si innestava nelle forze
statali piemontesi prima e poi che la flotta inglese protesse di
fatto lo sbarco di Marsala, la presa di Palermo, e sterilizzò
la flotta borbonica. A Milano dopo le cinque giornate, a Roma
repubblicana, Mazzini avrebbe avuto la possibilità di
costituire piazze d’armi per radunate organiche, ma non si propose
di farlo, onde il suo conflitto con Garibaldi a Roma e la sua
inutilizzazione a Milano di fronte a Cattaneo e al gruppo
democratico milanese. [9]
In Italia il biennio 1848-9 è il periodo in cui i moti
insurrezionali su tutto il territorio, se è vero che non
ottengono il risultato di costituire una nuova realtà,
scuotono, però, dalle fondamenta l’assetto istituzionale di
stati e staterelli, semplificano il quadro politico complessivo e
pongono al centro del dibattito e dell’agenda politica la questione
dell’unificazione territoriale.
[…] Mi pare che gli avvenimenti degli anni 1848-49, data la loro
spontaneità, possano essere considerati come tipici per lo
studio delle forze sociali e politiche della nazione italiana.
Troviamo in quegli anni alcune formazioni fondamentali: i reazionari
moderati, municipalisti –, i neoguelfi - democrazia cattolica –, e
il partito d’azione - democrazia liberale di sinistra borghese
nazionale –. Le tre forze sono in lotta fra loro e tutte e tre sono
successivamente sconfitte nel corso dei due anni. Dopo la sconfitta
avviene una riorganizzazione delle forze verso destra dopo un
processo interno in ognuno dei gruppi di chiarificazione e
scissione. La sconfitta più grave è quella dei
neoguelfi, che muoiono come democrazia cattolica e si riorganizzano
come elementi sociali borghesi della campagna e della città
insieme ai reazionari costituendo la nuova forza di destra liberale
conservatrice.[10]
Il biennio 1848-9 rappresenta uno di quei momenti, come se ne
presenteranno anche in seguito, in cui il popolo italiano si trova
unito a risolvere un problema comune. Dalla comune esperienza
maturano delle riflessioni:
[…] Dopo il 1848 una critica dei metodi precedenti al fallimento fu
fatta solo dai moderati e infatti tutto il movimento moderato si
rinnovò, il neoguelfismo fu liquidato, uomini nuovi
occuparono i primi posti di direzione. Nessuna autocritica invece da
parte del mazzinianismo oppure autocritica liquidatrice, nel senso
che molti elementi abbandonarono Mazzini e formarono l’ala sinistra
del partito piemontese; unico tentativo «ortodosso»,
cioè dall’interno, furono i saggi del Pisacane, che
però non divennero mai piattaforma di una nuova politica
organica e ciò nonostante che il Mazzini stesso riconoscesse
che il Pisacane aveva una «concezione strategica» della
Rivoluzione nazionale italiana.[11]
[1] A.Gramsci, Quaderni del carcere. Edizione critica a cura di V.
Gerratana. Ed.Einaudi 1975 pag.1997
[2] A.Gramsci, Op.cit. pag.2037
[3] A.Gramsci, Op.cit. pag.1988
[4] A.Gramsci, Op.cit. pagg.2061-2
[5] A.Gramsci, Op.cit. pag.961
[6] A.Gramsci, Op.cit. pag.1164
[7] P.Ortoleva e M.Revelli,Storia dell’Età Contemporanea.Ed
scolastiche Bruno Mondatori. Milano 1988. pag.118
[8] P.Ortoleva e M.Revelli,Op.cit. pag.119
[9] A.Gramsci, Op.cit. pag.1772
[10] A.Gramsci, Op.cit. pag.944
[11] A.Gramsci, Op.cit. pag.1769
Capitolo V
Le sconfitte del biennio 1848-49 spostano “naturalmente” a destra
tutto l’asse politico del Paese. Le parole d’ordine
dell’unificazione del territorio nazionale e dell’indipendenza
dall’Austria diventano oggettivamente prioritarie rispetto a quella
dell’assetto istituzionale del nuovo Stato (monarchia o repubblica).
[…] Ora è proprio sulla parola d’ordine di
«indipendenza e unità», senza tener conto del
concreto contenuto politico di tali formule generiche, che i
moderati dopo il 48 formarono il blocco nazionale sotto la loro
egemonia, influenzando i due capi supremi del Partito d’Azione,
Mazzini e Garibaldi, in diversa forma e misura. Come i moderati
fossero riusciti nel loro intento di deviare l’attenzione dal
nocciolo alla buccia dimostra, tra le tante altre, questa
espressione del Guerrazzi in una lettera a uno studente siciliano …
«Sia che vuolsi – o dispotismo, o repubblica o che altro – non
cerchiamo di dividerci; con questo cardine, caschi il mondo,
ritroveremo la via». Del resto tutta l’operosità di
Mazzini è stata concretamente riassunta nella continua e
permanente predicazione dell’unità.[1]
Tutto il decennio 1850-60, sotto un certo profilo, si può
considerare come il periodo della sconfitta politica definitiva del
partito dei democratici-repubblicani di Mazzini e della loro resa al
partito dei monarchici-costituzionalisti di Cavour.
Una sconfitta che culminerà con lo scioglimento del Partito
Repubblicano e la formazione del Partito d’Azione, così
chiamato in contrapposizione ad un più propagandato che reale
”partito d’ordine”. Si dimostra, in tal modo, che il discrimine fra
i due schieramenti non passa più, ormai, attraverso
contrapposti obbiettivi politici, ma, nell’ambito di un comune
obbiettivo, tra chi, a dire del Mazzini, si adopera per realizzarlo
e chi no.
L’egemonia politico-culturale dello schieramento moderato su quello
democratico, che nella propaganda politica “bi-partizan” dell’epoca
passa attraverso l’appello alla battaglia unitaria per
l’indipendenza nazionale, continuerà nei decenni successivi,
come Gramsci ebbe a dire a proposito del fenomeno del “trasformismo”
[…]Il così detto «trasformismo» non è che
l’espressione parlamentare dei fatto che il Partito d’Azione viene
incorporato molecolarmente dai moderati e le masse popolari vengono
decapitate, non assorbite nell’ambito del nuovo Stato.[2]
ed influenzerà, a mio parere, tutta la storiografia
post-unitaria e oltre.
Tutto il Risorgimento, infatti, viene visto da questa storiografia
come un susseguirsi di Guerre di Indipendenza, interpretando, dal
“punto di vita italiano” anche la I Guerra mondiale come la IV
Guerra di Indipendenza dall’Austria. Si finisce, così, per
mettere sullo stesso piano l’Italia ed un qualsiasi paese coloniale,
come potrebbe essere ad esempio l’India, in lotta per l’indipendenza
dall’Inghilterra, economicamente più evoluta.
Vengono, in tal modo, ad essere occultati del tutto la natura di
classe del processo unitario, il blocco storico-sociale che ne
è il protagonista, e lo scontro di classe che caratterizza,
fin dai primi decenni, la vita dello Stato post-unitario, fino ad
arrivare allo scontro fra nazioni capitalistiche, che nel primo
conflitto mondiale hanno ormai raggiunto lo stadio dell’imperialismo
e confliggono fra loro per la conquista di nuovi mercati,
l’accaparramento delle materie prime e l’esportazione di capitali.
Tuttavia, i primi anni del decennio ’50 - ‘60, nonostante le
sconfitte delle Repubbliche di Roma e Venezia, sembrano quasi
favorevoli al leader della Giovine Italia, che costituisce il
Comitato centrale democratico europeo ed il Comitato nazionale
italiano, come articolazione di quello.
Di fronte alla chiamata mazziniana il silenzio di alcuni (Manin), in
fase di ripensamento critico di tutta l’esperienza repubblicana, e,
per ragioni opposte, il rifiuto aperto di altri (Cattaneo e
Ferrari), motivato proprio dalla subordinazione della parola
d’ordine repubblicana a quella dell’unità nazionale, lasciano
trasparire la reale scarsa credibilità delle proposte
politico-organizzative di Mazzini, la disgregazione in atto del suo
schieramento politico ed il progressivo isolamento suo personale.
L’isolamento politico del Mazzini si manifesterà apertamente,
sia dopo il fallimento dell’insurrezione a Milano (1853), preceduta
dalla scoperta dell’organizzazione mazziniana in Lombardia e
dall’arresto e impiccagione dei suoi capi (martiri di Belfiore), sia
con il tragico epilogo a Sapri della spedizione di C. Pisacane, che
pur non essendo un mazziniano della prima ora, si era avvicinato al
neo-costituito Partito d’Azione.
Per la prima volta nell’opinione pubblica democratica, ad arte
sollecitata dalla propaganda moderata, allo sdegno ed alla
riprovazione per gli atti brutali compiuti da regimi reazionari,
quali l’Impero austriaco e il Regno borbonico, si affianca e prevale
la valutazione negativa del sacrificio umano imposto dai metodi di
lotta mazziniani.
Ma la perdita di egemonia del partito democratico sul movimento
patriottico nazionale, in questa fase decisiva per il processo di
unificazione, non può comprendersi, facendo riferimento solo
ai due avvenimenti sopra richiamati, senza una valutazione,
soprattutto, dei limiti soggettivi più complessivi,
manifestati dalla sua leadership nel corso di tutto il processo.
Abbiamo visto sopra (Cap.III) quanto arretrata fosse la situazione
economica italiana e quanto complessa fosse l’articolazione di un
programma per realizzare quella politica di alleanze necessaria a
far marciare il processo unitario in senso democratico e
repubblicano.
[…]Su tutta questa serie di problemi complessi il Partito d’Azione
fallì completamente: esso si limitò infatti a fare
quistione di principio e di programma essenziale quella che era
semplicemente quistione del terreno politico su cui tali problemi
avrebbero potuto accentrarsi e trovare una soluzione legale: la
questione della Costituente. Non si può dire che abbia
fallito il partito moderato, che si proponeva l’espansione organica
del Piemonte, voleva soldati per l’esercito piemontese e non
insurrezioni o armate garibaldine troppo vaste.[3]
[…]Perché il Partito d’Azione fosse diventato una forza
autonoma e, in ultima analisi, fosse riuscito per lo meno a
imprimere al moto del Risorgimento un carattere più
marcatamente popolare e democratico (più in là non
poteva forse giungere date le premesse fondamentali del moto
stesso), avrebbe dovuto contrapporre all’attività
«empirica» dei moderati (che era empirica solo per modo
di dire poiché corrispondeva perfettamente al fine) un
programma organico di governo che riflettesse le rivendicazioni
essenziali delle masse popolari, in primo luogo dei contadini:
all’«attrazione spontanea» esercitata dai moderati
avrebbe dovuto contrapporre una resistenza e una controffensiva
«organizzate» secondo un piano.[4]
[…] La quistione deve essere impostata nei termini della
«guerra di movimento – guerra d’assedio», cioè
per cacciare gli Austriaci e i loro ausiliari italiani era
necessario: 1) un forte partito italiano omogeneo e coerente: 2) che
questo partito avesse un programma concreto e specificato; 3) che
tale programma fosse condiviso dalle grandi masse popolari (che
allora non potevano essere che agricole) e le avesse educate a
insorgere «simultaneamente» su tutto il paese. Solo la
profondità popolare del movimento e la simultaneità
potevano rendere possibile la sconfitta dell’esercito austriaco e
dei suoi ausiliari.[5]
E’ indubbio che la definizione di questo programma doveva
contemplare al suo interno la proposta di risoluzione della
questione città-campagna e, unita ad essa, una proposta di
risoluzione della questione istituzionale, rivendicando il sistema
elettorale a suffragio universale. Questa era la vera
priorità per i democratici ed il Partito d’Azione.
[…] Invece il Partito d’Azione mancò addirittura di un
programma concreto di governo. Esso, in sostanza, fu sempre,
più che altro, un organismo di agitazione e propaganda al
servizio dei moderati. I dissidi e i conflitti interni del Partito
d’Azione, gli odii tremendi che Mazzini suscitò contro la sua
persona e la sua attività da parte dei più gagliardi
uomini d’azione (Garibaldi, Felice Orsini, ecc.) furono determinati
dalla mancanza di una ferma direzione politica. Le polemiche interne
furono in gran parte tanto astratte quanto lo era la predicazione
del Mazzini, ma da esse si possono trarre utili indicazioni storiche
…
Il Partito d’Azione era imbevuto della tradizione retorica della
letteratura italiana: confondeva l’unità culturale esistente
nella penisola – limitata però a uno strato molto sottile
della popolazione e inquinata dal cosmopolitismo vaticano – con
l’unità politica e territoriale delle grandi masse popolari
che erano estranee a quella tradizione culturale e se ne
infischiavano dato che ne conoscessero l’esistenza stessa.[6]
Sarebbe stato necessario fare tesoro dell’esperienza della
Rivoluzione francese e del giacobinismo storico, che i democratici
italiani avrebbero dovuto studiare a fondo.
Invece,
[…]…il Partito d’Azione fu sempre implicitamente antifrancese per
l’ideologia mazziniana[7]
e subì
…l’atmosfera di intimidazione (panico di un 93 terroristico
rinforzato dagli avvenimenti francesi del 48-49) che lo rendeva
esitante ad accogliere nel suo programma determinate rivendicazioni
popolari (per esempio la riforma agraria). [8]
[…] Si può osservare ancora che lo spauracchio che
dominò l’Italia prima del 1859 non fu quello del comunismo,
ma quello della Rivoluzione francese e del terrore, non fu
«panico» di borghesi, ma panico di «proprietari
terrieri», e del resto comunismo, nella propaganda di
Metternich, era semplicemente la quistione e la riforma agraria.[9]
[…] Se in Italia non si formò un partito giacobino ci sono le
sue ragioni da ricercare nel campo economico, cioè nella
relativa debolezza della borghesia italiana e nel clima storico
diverso dell’Europa dopo il 1815. Il limite trovato dai giacobini,
nella loro politica di forzato risveglio delle energie popolari
francesi da alleare alla borghesia, con la legge Chapelier e quella
sul «maximum», si presentava nel 48 come uno
«spettro» già minaccioso, sapientemente
utilizzato dall’Austria, dai vecchi governi e anche dal Cavour
(oltre che dal papa). La borghesia non poteva (forse) più
estendere la sua egemonia sui vasti strati popolari che invece
poté abbracciare in Francia (non poteva per ragioni
soggettive, non oggettive), ma l’azione sui contadini era certamente
sempre possibile.
Paradossalmente, proprio in questo periodo (dopo il 1848) si
dimostra più giacobino l’abate liberal-moderato V. Gioberti
che non Mazzini:
[…]Dopo il 48, nel Rinnovamento, non solo non c’è accenno al
panico che il 93 aveva diffuso nella prima metà del secolo,
ma anzi il Gioberti mostra chiaramente di avere simpatie per i
giacobini (egli giustifica lo sterminio dei girondini e la lotta su
due fronti dei giacobini: contro gli stranieri invasori e contro i
reazionari interni, anche se, molto temperatamente, accenna ai
metodi giacobini che potevano essere più dolci ecc.). Questo
atteggiamento del Gioberti verso il giacobinismo francese dopo il 48
è da notare come fatto culturale molto importante: si
giustifica con gli eccessi della reazione dopo il 48, che portavano
a comprendere meglio e a giustificare la selvaggia energia del
giacobinismo francese.
Ma oltre a questo tratto è da notare che nel Rinnovamento il
Gioberti si manifesta un vero e proprio giacobino, almeno
teoricamente, e nella situazione data italiana. Gli elementi di
questo giacobinismo possono a grandi tratti così riassumersi:
1) Nell’affermazione dell’egemonia politica e militare del Piemonte
che dovrebbe, come regione, essere quello che Parigi fu per la
Francia: questo punto è molto interessante ed è da
studiare nel Gioberti anche prima del 48. Il Gioberti sentì
l’assenza in Italia di un centro popolare di movimento nazionale
rivoluzionario come fu Parigi per la Francia e questa comprensione
mostra il realismo politico del Gioberti. Prima del 48,
Piemonte-Roma dovevano essere i centri propulsori, per la
politica-milizia il primo, per l’ideologia-religione la seconda.
Dopo il 48, Roma non ha la stessa importanza, anzi: il Gioberti dice
che il movimento deve essere contro il Papato. 2) Il Gioberti, sia
pure vagamente, ha il concetto del «popolare-nazionale»
giacobino, dell’egemonia politica, cioè dell’alleanza tra
borghesi-intellettuali [ingegno] e il popolo; ciò in economia
(e le idee del Gioberti in economia sono vaghe ma interessanti) e
nella letteratura (cultura), in cui le idee sono più distinte
e concrete perché in questo campo c’è meno da
compromettersi. ….
In ogni modo che l’assenza di un «giacobinismo italiano»
fosse sentita, appare dal Gioberti. [10]
Il più grande difetto del Partito d’Azione, che poi è
il punto di maggior distanza dal giacobinismo storico, è,
quindi, quello di non aver capito ed affrontato la questione
contadina.
[…]È evidente che per contrapporsi efficacemente ai moderati,
il Partito d’Azione doveva legarsi alle masse rurali, specialmente
meridionali, essere «giacobino» non solo per la
«forma» esterna, di temperamento, ma specialmente per il
contenuto economico-sociale: il collegamento delle diverse classi
rurali che si realizzava in un blocco reazionario attraverso i
diversi ceti intellettuali legittimisti-clericali poteva essere
dissolto per addivenire ad una nuova formazione liberale-nazionale
solo se si faceva forza in due direzioni: sui contadini di base,
accettandone le rivendicazioni elementari e facendo di esse parte
integrante del nuovo programma di governo, e sugli intellettuali
degli strati medi e inferiori, concentrandoli e insistendo sui
motivi che più li potevano interessare (e già la
prospettiva della formazione di un nuovo apparato di governo, con le
possibilità di impiego che offre, era un elemento formidabile
di attrazione su di essi, se la prospettiva si fosse presentata come
concreta perché poggiata sulle aspirazioni dei rurali).
Il rapporto tra queste due azioni era dialettico e reciproco:
l’esperienza di molti paesi, e prima di tutto della Francia nel
periodo della grande rivoluzione, ha dimostrato che se i contadini
si muovono per impulsi «spontanei», gli intellettuali
cominciano a oscillare e, reciprocamente, se un gruppo di
intellettuali si pone sulla nuova base di una politica filocontadina
concreta, esso finisce col trascinare con sé frazioni di
massa sempre più importanti.
Si può dire però che, data la dispersione e
l’isolamento della popolazione rurale e la difficoltà quindi
di concentrarla in solide organizzazioni, conviene iniziare il
movimento dai gruppi intellettuali; in generale però è
il rapporto dialettico tra le due azioni che occorre tener presente.
Si può anche dire che partiti contadini nel senso stretto
della parola è quasi impossibile crearne: il partito
contadino si realizza in generale solo come forte corrente di
opinioni, non già in forme schematiche d’inquadra mento
burocratico; tuttavia l’esistenza anche solo di uno scheletro
organizzativo è di utilità immensa, sia per una certa
selezione di uomini, sia per controllare i gruppi intellettuali e
impedire che gli interessi di casta li trasportino
impercettibilmente in altro terreno. [11]
[…]Perché il Partito d’Azione non pose in tutta la sua
estensione la quistione agraria? Che non la ponessero i moderati era
ovvio: l’impostazione data dai moderati al problema nazionale
domandava un blocco di tutte le forze di destra, comprese le classi
dei grandi proprietari terrieri, intorno al Piemonte come Stato e
come esercito. La minaccia fatta dall’Austria di risolvere la
questione agraria a favore dei contadini, ..non solo gettò lo
scompiglio tra gli interessati in Italia, determinando tutte le
oscillazioni dell’aristocrazia (fatti di Milano del febbraio 53 e
atto di omaggio delle più illustri famiglie milanesi a
Francesco Giuseppe proprio alla vigilia delle forche di Belfiore),
ma paralizzò lo stesso Partito d’Azione, che in questo
terreno pensava come i moderati e riteneva «nazionali»
l’aristocrazia e i proprietari e non i milioni di contadini.
Solo dopo il febbraio 53 Mazzini ebbe qualche accenno
sostanzialmente democratico (vedi Epistolario di quel periodo), ma
non fu capace di una radicalizzazione decisiva del suo programma
astratto. …
La non impostazione della quistione agraria portava alla quasi
impossibilità di risolvere la questione del clericalismo e
dell’atteggiamento antiunitario del Papa. Sotto questo riguardo i
moderati furono molto più arditi del Partito d’Azione:
è vero che essi non distribuirono i beni ecclesiastici fra i
contadini, ma se ne servirono per creare un nuovo ceto di grandi e
medi proprietari legati alla nuova situazione politica, e non
esitarono a manomettere la proprietà terriera, sia pure solo
quella delle Congregazioni.
Il Partito d’Azione, inoltre, era paralizzato, nella sua azione
verso i contadini, dalle velleità mazziniane di [una] riforma
religiosa, che non solo non interessava le grandi masse rurali, ma
al contrario le rendeva passibili di una sobillazione contro i nuovi
eretici. L’esempio della Rivoluzione francese era lì a
dimostrare che i giacobini, che erano riusciti a schiacciare tutti i
partiti di destra fino ai girondini sul terreno della quistione
agraria e non solo a impedire la coalizione rurale contro Parigi ma
a moltiplicare i loro aderenti nelle provincie, furono danneggiati
dai tentativi di Robespierre di instaurare una riforma religiosa,
che pure aveva, nel processo storico reale, un significato e una
concretezza immediati. (Bisognerebbe studiare attentamente la
politica agraria reale della Repubblica Romana e il vero carattere
della missione repressiva data da Mazzini a Felice Orsini nelle
Romagne e nelle Marche: in questo periodo e fino al 70 – anche dopo
– col nome di brigantaggio si intendeva quasi sempre il movimento
caotico, tumultuario e punteggiato di ferocia, dei contadini per
impadronirsi della terra).[12]
[…] È da studiare la condotta politica dei garibaldini in
Sicilia nel 1860, condotta politica che era dettata da Crispi: i
movimenti di insurrezione dei contadini contro i baroni furono
spietatamente schiacciati e fu creata la Guardia nazionale
anticontadina; è tipica la spedizione repressiva di Nino
Bixio nella regione catanese, dove le insurrezioni furono più
violente.[13]
L’impostazione mistico-idealistica dell’azione politica, unitamente
ai suoi pregiudizi antifrancesi, impediscono a Mazzini di porsi ed
affrontare la questione contadina e di utilizzare in questo campo il
contributo che può venire proprio da un democratico,
specialista in materia, Giuseppe Ferrari.
[…]… Ferrari … fu lo «specialista» inascoltato di
quistioni agrarie nel Partito d’Azione. Nel Ferrari occorre anche
studiare bene l’atteggiamento verso il bracciantato agricolo,
cioè i contadini senza terra e viventi alla giornata, sui
quali egli fonda una parte cospicua delle sue ideologie, per le
quali egli è ancora ricercato e letto da determinate correnti
…. Occorre riconoscere che il problema del bracciantato è
difficilissimo e anche oggi di ardua soluzione. In generale occorre
tener presenti questi criteri: i braccianti sono ancora oggi, nella
maggior parte, ed erano quindi tanto più nel periodo del
Risorgimento, dei semplici contadini senza terra, non degli operai
di una industria agricola sviluppata con capitale concentrato e con
la divisione del lavoro; nel periodo del Risorgimento era più
diffuso, in modo rilevante, il tipo dell’obbligato in confronto a
quello dell’avventizio. La loro psicologia perciò è,
con le dovute eccezioni, la stessa del colono e del piccolo
proprietario ….
La quistione si poneva in forma acuta non tanto nel Mezzogiorno dove
il carattere artigianesco del lavoro agricolo era troppo evidente,
ma nella valle padana dove esso è più velato…
Durante il Risorgimento il problema del bracciantato padano appariva
sotto la forma di un fenomeno pauroso di pauperismo.[14]
Un altro elemento che rimarca la distanza fra Partito d’Azione in
Italia e giacobini in Francia è quello della volontà
di diventare il partito dirigente della classe di riferimento, la
borghesia, che portò i francesi a condurre una lotta senza
quartiere contro i partiti rivali:
[…] Nel Partito d’Azione non si trova niente che rassomigli a questo
indirizzo giacobino, a questa inflessibile volontà di
diventare il partito dirigente. Certo occorre tener conto delle
differenze: in Italia la lotta si presentava come lotta contro i
vecchi trattati e l’ordine internazionale vigente e contro una
potenza straniera, l’Austria, che li rappresentava e li sosteneva in
Italia, occupando una parte della penisola e controllando il resto.
Anche in Francia questo problema si presentò, almeno in un
certo senso, perché ad un certo punto la lotta interna
divenne lotta nazionale combattuta alla frontiera, ma ciò
avvenne dopo che tutto il territorio era conquistato alla
rivoluzione e i giacobini seppero dalla minaccia esterna trarre
elementi per una maggiore energia all’interno: essi compresero bene
che per vincere il nemico esterno dovevano schiacciare all’interno i
suoi alleati e non esitarono a compiere i massacri di settembre. In
Italia questo legame che pur esisteva, esplicito ed implicito, tra
l’Austria e una parte almeno degli intellettuali, dei nobili e dei
proprietari terrieri, non fu denunziato dal Partito d’Azione o
almeno non fu denunziato con la dovuta energia e nel modo
praticamente più efficace, non divenne elemento politico
attivo. Si trasformò «curiosamente», in una
quistione di maggiore o minore dignità patriottica e dette
poi luogo a uno strascico di polemiche acrimoniose e sterili fin
dopo il 1898.[15]
Infine, un ultimo elemento, che rivela la vacuità del
programma politico dei democratici e la loro incapacità di
porsi come partito egemone nel processo unitario, è la
mancata definizione della questione politico-militare.
La questione politico-militare nasce dalla presenza in Italia di un
esercito, quello austriaco, vero gendarme posto a tutela dei regimi
più reazionari e dalla necessità di dare
continuità alle esperienze di volontariato che
episodicamente, ma spesso con grande successo, vengono messe in
campo man a mano che scoppiano moti insurrezionali (vedi il ’48, la
Repubblica romana, la stessa spedizione dei Mille).
Nonostante che fra i democratici militino capi militari geniali e
capacissimi, primo fra tutti G.Garibaldi, e teorici del calibro di
C.Pisacane, la questione militare non viene mai messa all’ordine del
giorno e dibattuta nel movimento democratico, che per questo
finisce, anche sotto il profilo militare, per fungere da stampella
dei moderati, in questo caso dell’esercito piemontese, i cui capi,
pur sfruttandone le capacità, non vorranno mai riconoscere il
valore e l’importanza del Corpo dei Volontari.
(Esempio emblematico sarà la richiesta di Garibaldi, avanzata
dopo l’impresa vittoriosa dei Mille nel Regno dei Borboni e respinta
dal re e dalle gerarchie militari, di integrare nell’esercito
regolare italiano, con il grado conseguito da ciascuno in battaglia,
gli ufficiali del Corpo dei Volontari) .
Così come per la questione agraria G.Ferrari rappresenta il
teorico, le cui conoscenze potrebbero essere messe a frutto dal
movimento democratico, nella questione politico-militare della
costruzione dell’Esercito di Liberazione Nazionale, embrione del
futuro Esercito Italiano, Carlo Pisacane, che pur possiede la
visione strategica e la capacità di affrontare il problema,
non viene minimamente coinvolto, rimanendo isolato.
[…] Si può osservare che il Pisacane, nei suoi Saggi,
….comprende, a differenza del Mazzini, tutta l’importanza che ha la
presenza in Italia di un agguerrito esercito austriaco, sempre
pronto a intervenire in ogni parte della penisola, e che inoltre ha
dietro di sé tutta la potenza militare dell’Impero asburgico,
cioè una matrice sempre pronta a formare nuovi eserciti di
rincalzo.[16]
Dal punto di vista politico-militare, Gramsci accosta Pisacane a
Machiavelli, nelle cui
[…]…scritture politico-militari … è vista abbastanza bene la
necessità di subordinare organicamente le masse popolari ai
ceti dirigenti per creare una milizia nazionale capace di eliminare
le compagnie di ventura.
A questa corrente del Machiavelli deve forse essere legato Carlo
Pisacane, per il quale il problema di soddisfare le rivendicazioni
popolari (dopo averle suscitate con la propaganda) è visto
prevalentemente dal punto di vista militare. A proposito del
Pisacane occorre analizzare alcune antinomie della sua concezione:
il Pisacane, nobile napoletano, era riuscito a impadronirsi di una
serie di concetti politico-militari posti in circolazione dalle
esperienze guerresche della rivoluzione francese e di Napoleone,
trapiantati a Napoli sotto i regni di Giuseppe Buonaparte e di
Gioacchino Murat, ma specialmente per l’esperienza viva degli
ufficiali napoletani che avevano militato con Napoleone….; Pisacane
comprese che senza una politica democratica non si possono avere
eserciti nazionali a coscrizione obbligatoria, ma è
inspiegabile la sua avversione contro la strategia di Garibaldi e la
sua diffidenza contro Garibaldi; egli ha verso Garibaldi lo stesso
atteggiamento sprezzante che avevano verso Napoleone gli Stati
Maggiori dell’antico regime.[17]
Tuttavia, i limiti che caratterizzano il movimento democratico si
riflettono anche nelle proposte politiche di Pisacane, che, per di
più, rimane anche isolato.
[…]La verità è che il programma del Pisacane era
altrettanto indeterminato di quello del Mazzini e anch’esso segnava
solo una tendenza generale, che come tendenza era un po’ più
precisa di quella del Mazzini.[18]
[…]….anche per il Pisacane è da dire che non rappresentava
nel Risorgimento una tendenza «realistica» perché
isolato, senza un partito, senza quadri predisposti per il futuro
Stato ecc.[19]
Riepilogando, mi pare che le differenze più grosse fra il
Partito dei democratici-repubblicani italiani ed il giacobinismo
storico francese che sono, anche, le critiche più importanti
che Gramsci muove al Partito d’Azione (come si chiamerà a
partire dalla metà degli anno ’50 il partito democratico) si
possano riassumere in :
1. mancanza di volontà nel diventare partito egemone dello
schieramento borghese, attraverso una battaglia politica condotta
contro gli schieramenti politici avversi e
2. mancanza di un programma politico articolato, comprendente al suo
interno la questione agraria e la questione militare.
Sul fronte opposto a quello dei democratici gli avvenimenti del
biennio 1848-9 operano una chiarificazione politica e favoriscono
l’isolamento della componente più oltranzista
dell’aristocrazia piemontese (Solaro della Margherita), antiliberale
ed antidemocratica più che anti-austriaca, a tutto vantaggio
della componente più moderata che per raggiungere
l’obbiettivo dell’unificazione nazionale non disdegna l’alleanza con
il movimento democratico, anche se nel rapporto di alleanza si
adopera a tenerlo in posizione subordinata, evitando di riconoscerne
pubblicamente la dignità, ed evitando, soprattutto, che siano
le masse popolari a rendersi protagoniste del processo.
Sconfitta dai fatti l’ipotesi politica neo-guelfa, sostenuta da
Gioberti, di pervenire all’unità attraverso una
Confederazione di Stati a guida papalina, sempre di più si fa
strada l’ipotesi che sia il Piemonte e la monarchia sabauda a dover
svolgere un ruolo di unificazione-allargamento del Regno, sfruttando
all’uopo quel gioco di alleanze internazionali che sempre più
si volge contro l’Impero austro-ungarico.
E’ Cavour il vero protagonista-regista del decennio 1850-60.
Secondogenito della famiglia dei Benso, nobili titolari della Contea
di Cavour, eredita dal padre la tenuta di Leri, che la famiglia ha
acquistato per denaro ai tempi del Regno napoleonico, e la trasforma
negli anni quaranta in una moderna azienda capitalistica,
specializzata nella produzione risicola, che Camillo commercializza
direttamente, girando per i principali Paesi europei.
Di formazione politica cattolico-liberale, entra in politica
stimolato dall’azione riformatrice di Pio IX, ma ben presto antepone
il liberalismo al cattolicesimo. Fonda e dirige con Balbo il
giornale Il Risorgimento, dalle cui pagine incita la monarchia
sabauda all’intervento
anti-austriaco
durante le cinque giornate di Milano. Nel ’49 diventa deputato ed
una delle sue prime leggi istituisce una imposta fondiaria,
giuridicamente modellata su quella vigente nei paesi più
progrediti (Francia e Inghilterra), che colpisce la rendita
fondiaria, ed in particolare quella degli Enti ecclesiastici
(imposta di manomorta), favorendo gli investimenti capitalistici in
agricoltura.
Resosi conto della mancanza di prospettive della proposta politica
neo-guelfa, si adopera con successo per la costruzione di un nuovo
schieramento centrista, che, isolate le componenti della destra
più oltranzista, unisce i liberali moderati con i democratici
più realistici (Rattazzi-Correnti-Dabòrmida) sulla
base di una piattaforma politica di compromesso che prevede
laicizzazione e modernizzazione del Regno piemontese, senza,
però, la pregiudiziale repubblicana e la rivendicazione del
suffragio universale o solo di un suo allargamento. E’ la politica
del cosiddetto connubio.
L’arte del compromesso e l’indubbia capacità politica di
saper sfruttare a proprio vantaggio gli avvenimenti consentono a
Cavour di spaccare ulteriormente il fronte democratico, già
in crisi di identità agli inizi degli anni cinquanta, e di
approfondirne lo smembramento, attirando sul partito
liberal-moderato le simpatie di tutti i democratici, con l’offerta
di asilo politico e di indennizzo economico per le proprietà
confiscate agli esuli milanesi dopo le cinque giornate e con il
ritiro dell’Ambasciatore piemontese da Vienna dopo le condanne a
morte di Belfiore.
L’operazione politica appena descritta, che marcia di pari passo con
la perdita di credibilità del Mazzini, di cui si è
detto sopra, culmina, dopo i fallimenti dell’insurrezione milanese
del ’53 e soprattutto della spedizione di Pisacane, con la
costituzione della Società Nazionale, fondata a Torino
nell’agosto del 1857 dagli esuli di tutta Italia sulla base della
proposta di pervenire all’unità sotto la bandiera sabauda, a
cui aderirà anche Garibaldi.
L’inserimento del Piemonte nel gioco internazionale di alleanze
anti-austriache che si svolge nello scacchiere europeo, prima con la
guerra di Crimea e poi con i contatti ed i trattati con la Francia e
l’Inghilterra, completa l’operazione politica che consente al Regno
piemontese di essere il vero protagonista del processo di
unificazione, sfruttando a proprio vantaggio anche l’impresa dei
Mille, guidata da Garibaldi.
Non va dimenticato, a riguardo, che le condizioni internazionali
favorevoli al processo di unificazione, in parte costruite dal
Cavour ed in parte determinatesi spontaneamente, vengono ad arte
esagerate per sminuire l’importanza del contributo popolare
“spontaneo” portato al processo stesso, che in tal modo appare nella
forma di progressive annessioni di territori al regno piemontese,
suggellate da plebisciti popolari.
[…] I rapporti internazionali hanno certo avuto una grande
importanza nel determinare la linea di sviluppo del Risorgimento
italiano, ma essi sono stati esagerati dal partito moderato e da
Cavour a scopo di partito. È notevole, a questo proposito, il
fatto di Cavour che teme come il fuoco l’iniziativa garibaldina
prima della spedizione di Quarto e del passaggio dello Stretto, per
le complicazioni internazionali che poteva creare e poi è
spinto egli stesso dall’entusiasmo creato dai Mille nell’opinione
europea fino a vedere come fattibile una immediata nuova guerra
contro l’Austria. Esisteva in Cavour una certa deformazione
professionale del diplomatico, che lo portava a vedere
«troppe» difficoltà e lo induceva a esagerazioni
«cospirative» e a prodigi, che sono in buona parte
funamboleschi, di sottigliezza e di intrigo. In ogni caso il Cavour
operò egregiamente come uomo di partito: che poi il suo
partito rappresentasse i più profondi e duraturi interessi
nazionali, anche solo nel senso della più vasta estensione da
dare alla comunità di esigenze della borghesia con la massa
popolare, è un’altra quistione.[20]
Ma al di là delle indubbie capacità politiche di
Cavour, occorre analizzare, con le parole di Gramsci, quali sono le
condizioni storico-politiche che consentono ai moderati di
esercitare un rapporto di egemonia (direzione) su tutto il movimento
democratico e quali i metodi adottati.
[…]…storicamente il Partito d’Azione fu guidato dai moderati:
l’affermazione attribuita a Vittorio Emanuele II di «avere in
tasca» il Partito d’Azione o qualcosa di simile è
praticamente esatta e non solo per i contatti personali del Re con
Garibaldi ma perché di fatto il Partito d’Azione fu diretto
«indirettamente» da Cavour e dal Re….
I moderati continuarono a dirigere il Partito d’Azione anche dopo il
1870 e il 1876 e il così detto «trasformismo» non
è stato che l’espressione parlamentare di questa azione
egemonica intellettuale, morale e politica. Si può anzi dire
che tutta la vita statale italiana dal 1848 in poi è
caratterizzata dal trasformismo, cioè dall’elaborazione di
una sempre più larga classe dirigente nei quadri fissati dai
moderati dopo il 1848 e la caduta delle utopie neoguelfe e
federalistiche, con l’assorbimento graduale, ma continuo e ottenuto
con metodi diversi nella loro efficacia, degli elementi attivi sorti
dai gruppi alleati e anche da quelli avversari e che parevano
irreconciliabilmente nemici.
In questo senso la direzione politica è diventata un aspetto
della funzione di dominio, in quanto l’assorbimento delle
élites dei gruppi nemici porta alla decapitazione di questi e
al loro annichilimento per un periodo spesso molto lungo. Dalla
politica dei moderati appare chiaro che ci può e ci deve
essere una attività egemonica anche prima dell’andata al
potere e che non bisogna contare solo sulla forza materiale che il
potere dà per esercitare una direzione efficace: appunto la
brillante soluzione di questi problemi ha reso possibile il
Risorgimento nelle forme e nei limiti in cui esso si è
effettuato, senza «Terrore», come «rivoluzione
senza rivoluzione» ossia come «rivoluzione
passiva» per impiegare un’espressione del Cuoco in un senso un
po’ diverso da quello che il Cuoco vuole dire.[21]
Occorre su questo tema indagare più in profondità di
quali classi sociali furono espressione i moderati e quali metodi
adottarono per esercitare l’egemonia sui democratici:
[…]Tutto il problema della connessione tra le varie correnti
politiche del Risorgimento, cioè dei loro rapporti reciproci
e dei loro rapporti con i gruppi sociali omogenei o subordinati
esistenti nelle varie sezioni (o settori) storiche del territorio
nazionale, si riduce a questo dato di fatto fondamentale: i moderati
rappresentavano un gruppo sociale relativamente omogeneo, per cui la
loro direzione subì oscillazioni relativamente limitate (e in
ogni caso secondo una linea di sviluppo organicamente progressivo),
mentre il così detto Partito d’Azione non si appoggiava
specificamente a nessuna classe storica e le oscillazioni subite dai
suoi organi dirigenti in ultima analisi si componevano secondo gli
interessi dei moderati…[22]
…. I moderati erano intellettuali «condensati»
già naturalmente dall’organicità dei loro rapporti con
i gruppi sociali di cui erano l’espressione (per tutta una serie di
essi si realizzava l’identità di rappresentato e
rappresentante, cioè i moderati erano un’avanguardia reale,
organica delle classi alte, perché essi stessi appartenevano
economicamente alle classi alte: erano intellettuali e organizzatori
politici e insieme capi d’azienda, grandi agricoltori o
amministratori di tenute, imprenditori commerciali e industriali,
ecc.). Data questa condensazione o concentrazione organica, i
moderati esercitavano una potente attrazione, in modo
«spontaneo», su tutta la massa d’intellettuali d’ogni
grado esistenti nella penisola allo stato «diffuso»,
«molecolare», per le necessità, sia pure
elementarmente soddisfatte, della istruzione e
dell’amministrazione.[23]
[…] In quali forme e con quali mezzi i moderati riuscirono a
stabilire l’apparato (il meccanismo) della loro egemonia
intellettuale, morale e politica? In forme e con mezzi che si
possono chiamare «liberali», cioè attraverso
l’iniziativa individuale, «molecolare»,
«privata» (cioè non per un programma di partito
elaborato e costituito secondo un piano precedentemente all’azione
pratica e organizzativa). D’altronde, cioè era
«normale», date la struttura e la funzione dei gruppi
sociali rappresentati dai moderati dei quali i moderati erano il
ceto dirigente, gli intellettuali in senso organico. Per il Partito
d’Azione il problema si poneva in modo diverso e diversi sistemi
organizzativi avrebbero dovuto essere impiegati.[24]
Con riferimento a quanto detto da Gramsci a proposito dei moderati,
si può meglio comprendere il ruolo essenziale da lui
attribuito, in generale, agli intellettuali nell’esercizio
dell’egemonia (direzione) della classe rivoluzionaria sulle altre
(soprattutto nella fase della presa del potere, quando la mancanza
di mezzi di coercizione e di ricatto affidano inequivocabilmente al
solo convincimento spontaneo la forza di attrazione e coesione del
blocco storico-sociale) ed il ruolo e la funzione degl’intellettuali
organici, cioè di quegl’intellettuali che, essendosi fusi con
la classe di appartenenza, meglio ne rappresentano le aspirazioni
immediate e future, e di come questi possano svolgere un ruolo
catalizzatore su tutto il restante ceto intellettuale .
[…] Data questa condensazione o concentrazione organica, i moderati
esercitavano una potente attrazione, in modo
«spontaneo», su tutta la massa d’intellettuali d’ogni
grado esistenti nella penisola allo stato «diffuso»,
«molecolare», per le necessità, sia pure
elementarmente soddisfatte, della istruzione e dell’amministrazione.
Si rileva qui la consistenza metodologica di un criterio di ricerca
storico-politica: non esiste una classe indipendente di
intellettuali, ma ogni gruppo sociale ha un proprio ceto di
intellettuali o tende a formarselo; però gli intellettuali
della classe storicamente (e realisticamente) progressiva, nelle
condizioni date, esercitano un tale potere d’attrazione che
finiscono, in ultima analisi, col subordinarsi gli intellettuali
degli altri gruppi sociali e quindi col creare un sistema di
solidarietà fra tutti gli intellettuali con legami di ordine
psicologico (vanità ecc.) e spesso di casta
(tecnico-giuridici, corporativi, ecc.).[25]
E, parlando della capacità di attrazione sugli intellettuali
da parte dei moderati, a cominciare da V.Gioberti, in misura diversa
e progressivamente maggiore di quella esercitata dai democratici e
da Mazzini in particolare, Gramsci dice:
Gioberti offriva agli intellettuali una filosofia che appariva come
originale e nel tempo stesso nazionale, tale da porre l’Italia
almeno allo stesso livello delle nazioni più progredite e
dare una nuova dignità al pensiero italiano. Mazzini invece
offriva solo delle affermazioni nebulose e degli accenni filosofici
che a molti intellettuali, specialmente napoletani, dovevano
apparire come vuote chiacchiere (l’abate Galiani aveva insegnato a
sfottere quel modo di pensare e di ragionare).[26]
Ma è soprattutto nella struttura scolastica laica, riformata
dallo Stato piemontese, con cui vengono a contatto gli intellettuali
esuli della penisola che si realizzerà la conquista degli
intellettuali alla causa dei moderati, condizione essenziale per la
gestione dell’apparato dell’istruzione pubblica del futuro stato
unitario.
Quistione della scuola: attività dei moderati per introdurre
il principio pedagogico dell’insegnamento reciproco (Confalonieri,
Capponi ecc.); movimento di Ferrante Aporti e degli asili, legato al
problema del pauperismo. Nei moderati si affermava il solo movimento
pedagogico concreto opposto alla scuola «gesuitica»;
ciò non poteva non avere efficacia sia tra i laici, ai quali
dava nella scuola una propria personalità, sia nel clero
liberaleggiante e antigesuitico (ostilità accanita contro
Ferrante Aporti, ecc.; il ricovero e l’educazione dell’infanzia
abbandonata era un monopolio clericale e queste iniziative
spezzavano il monopolio). Le attività scolastiche di
carattere liberale o liberaleggiante hanno un gran significato per
afferrare il meccanismo dell’egemonia dei moderati sugli
intellettuali. L’attività scolastica, in tutti i suoi gradi,
ha un’importanza enorme anche economica, per gli intellettuali di
tutti i gradi: l’aveva allora anche maggiore di oggi, data la
ristrettezza dei quadri sociali e le scarse strade aperte
all’iniziativa dei piccoli borghesi (oggi: giornalismo, movimento
dei partiti, industria, apparato statale estesissimo ecc. hanno
allargato in modo inaudito le possibilità di impiego).
L’egemonia di un centro direttivo sugli intellettuali si afferma
attraverso due linee principali: 1) una concezione generale della
vita, una filosofia (Gioberti), che offra agli aderenti una
«dignità» intellettuale che dia un principio di
distinzione e un elemento di lotta contro le vecchie ideologie
dominanti coercitivamente; 2) Un programma scolastico, un principio
educativo e pedagogico originale che interessi e dia
un’attività propria, nel loro campo tecnico, a quella
frazione degli intellettuali che è la più omogenea e
la più numerosa (gli insegnanti, dal maestro elementare ai
professori di Università).
I Congressi degli scienziati che furono organizzati ripetutamente
nel periodo del primo Risorgimento ebbero una doppia efficacia: 1)
riunire gli intellettuali del grado più elevato,
concentrandoli e moltiplicando il loro influsso; 2) ottenere una
più rapida concentrazione e un più deciso orientamento
negli intellettuali dei gradi inferiori, che sono portati
normalmente a seguire gli Universitari e i grandi scienziati per
spirito di casta.
Lo studio delle Riviste enciclopediche e specializzate dà un
altro aspetto dell’egemonia dei moderati. Un partito come quello dei
moderati offriva alla massa degli intellettuali tutte le
soddisfazioni per le esigenze generali che possono essere offerte da
un governo (da un partito al governo), attraverso i servizi statali.
(Per questa funzione di partito italiano di governo servì
ottimamente dopo il 48-49 lo Stato piemontese che accolse gli
intellettuali esuli e mostrò in modello ciò che
avrebbe fatto un futuro Stato unificato).[27]
[1] A.Gramsci, Quaderni del carcere. Edizione critica a cura di V.
Gerratana. Ed.Einaudi 1975 pagg.2026-7
[2] A.Gramsci, Op.cit. pag.2042
[3] A.Gramsci, Op.cit. pagg.2044-5
[4] A.Gramsci, Op.cit. pag.2013
[5] A.Gramsci, Op.cit. pag.1932
[6] A.Gramsci, Op.cit. pag.2014
[7] A.Gramsci, Op.cit. pag.2015
[8] A.Gramsci, Op.cit. pagg.2012-3
[9] A.Gramsci, Op.cit. pag.1834
[10] A.Gramsci, Op.cit. pagg.1914-5
[11] A.Gramsci, Op.cit. pagg.2025-6
[12] A.Gramsci, Op.cit. pagg.2045-6
[13] A.Gramsci, Op.cit. pag.2045
[14] A.Gramsci, Op.cit. pagg.2025-6
[15] A.Gramsci, Op.cit. pag.2030
[16] A.Gramsci, Op.cit. pagg. 1775-6
[17] A.Gramsci, Op.cit. pagg. 2015-6
[18] A.Gramsci, Op.cit. pag. 1931
[19] A.Gramsci, Op.cit. pag. 1930
[20] A.Gramsci, Op.cit. pagg. 2033-4
[21] A.Gramsci, Op.cit. pagg. 2010-11
[22] A.Gramsci, Op.cit. pag. 2010
[23] A.Gramsci, Op.cit. pag. 2012
[24] A.Gramsci, Op.cit. pagg. 2011-2
[25] A.Gramsci, Op.cit. pag. 2012
[26] A.Gramsci, Op.cit. pagg. 2046-7
[27] A.Gramsci, Op.cit. pagg. 2047-8
Capitolo VI
Con la spedizione dei Mille si perviene allo Stato Unitario, che con
la “breccia di Porta Pia” ingloba il territorio residuo dello Stato
Pontificio, spostando a Roma la capitale (1871).
I termini di “rivoluzione passiva”, “rivoluzione-restaurazione”, che
Gramsci usa per il Risorgimento italiano, prendendoli a prestito dal
Cuoco, servono a descrivere un percorso che, sebbene inserito nel
più complessivo processo avviato dalla Rivoluzione francese
del 1789 che porta le borghesie nazionali dei vari paesi europei a
conquistare il potere politico, spazzando via i regimi assolutistici
e sostituendoli con governi costituzionali più o meno
liberali, in Italia è, però, caratterizzato dalla
passività delle grandi masse popolari (prevalentemente
contadine), che nel corso del Risorgimento non vengono coinvolte.
[…] Ogni formazione di volontà collettiva nazionale-popolare
è impossibile se le grandi masse dei contadini coltivatori
non irrompono simultaneamente nella vita politica. Ciò
intendeva il Machiavelli attraverso la riforma della milizia,
ciò fecero i giacobini nella Rivoluzione francese, in questa
comprensione è da identificare un giacobinismo precoce del
Machiavelli, il germe (più o meno fecondo) della sua
concezione della rivoluzione nazionale. Tutta la storia dal 1815 in
poi mostra lo sforzo delle classi tradizionali per impedire la
formazione di una volontà collettiva di questo genere, per
mantenere il potere «economico-corporativo» in un
sistema internazionale di equilibrio passivo.[1]
In Francia l’affermazione dei diritti dell’individuo, cittadino di
uno stato di tipo nuovo, avviene in modo radicale, con la
Rivoluzione, distruggendo l’Ancien Regime e costituendo una nuova
entità, la Repubblica, che divide il potere sovrano del
popolo in tre aspetti tenuti volutamente distinti ed indipendenti
fra loro, a garanzia che non si riformi più un entità
che li possa riassumere su di sé: i poteri Legislativo,
Esecutivo e Giudiziario.
In Italia il processo di liquidazione delle varie monarchie
assolutistiche coincide, come abbiamo visto, con la prima fase del
Risorgimento, mentre la sua piena conclusione ed il suo sbocco
finale in una monarchia costituzionale si possono identificare con
la costituzione dello Stato unitario.
Se lo Stato unitario, quindi, rappresenta, da un lato la premessa
allo sviluppo capitalistico nel nostro Paese e la cornice entro cui
quello sviluppo può svolgersi, dall’altro il modo attraverso
cui si giunge a questo risultato e, condizionato dal modo, la prima
forma che assume lo Stato unitario dipendono, in maniera diretta,
dal blocco storico protagonista del processo e dal rapporto di
egemonia esercitato all’interno di questo blocco dall’aristocrazia
terriera e dalla borghesia imprenditoriale del nord, principalmente
piemontese.
E’ necessario, pertanto, descrivere sommariamente, con riferimento
ai tre poteri fondamentali ed al rapporto fra loro, come si connota
lo Stato piemontese dopo l’approvazione dello Statuto albertino
(1848) e come si modifica negli anni successivi, atteso che sotto il
profilo formale tutto il processo unitario si riduce alla conquista
di nuovi territori della penisola da parte della monarchia sabauda
e, quindi, all’esportazione-imposizione su tutto il territorio
nazionale del modello piemontese di stato.[2]
Con lo Statuto Carlo Alberto cede al “popolo” una parte del suo
potere, prima assoluto, cioè il potere Legislativo, anche se
il potere Legislativo ceduto “vale al 50 % “, nel senso che il
sistema previsto sulla Carta è bicamerale, con una Camera
eletta dal “popolo” ed un Senato di nomina regia.
Se per la Camera dei Deputati si può parlare di una qualche
“rappresentanza popolare” (con i necessari chiarimenti, sia per il
sostantivo, che per l’aggettivo, derivanti dall’esame del meccanismo
elettorale), per il Senato il problema non si pone, perché
questa Camera è formata direttamente dal Re, che con nomina
vitalizia ne sceglie i componenti selezionandoli fra ventuno
categorie di “ottimati” (art.33).
Il Senato, che con la prima Camera va a costituire il sistema
bicamerale, sul modello inglese. non ha mai, però, un vero
significato ed alcun peso politico, almeno nel sentire comune; ma
nessuno, nemmeno il fascismo, riuscirà a sbarazzarsi di
questo “cadavere eccellente”, tenuto in vita sol perché
rappresenta una garanzia del Re (potere Esecutivo) nei confronti del
potere Legislativo.
La mancata previsione nello Statuto di una Corte di
legittimità delle leggi, come è la Corte
costituzionale, e l’esclusione dal testo di materie come le leggi
elettorali o l’assetto amministrativo dello Stato, la cui
codificazione è, così, demandata alla legislazione
ordinaria delle Camere (come avverrà negli anni successivi)
hanno fatto parlare i tecnici di “Costituzione flessibile” e di
“Parlamento-Costituente perpetua”.
In realtà, a mio parere queste definizioni sono solo
potenzialità sulla carta, che nel Paese reale dovranno fare i
conti con i rapporti di forza fra monarchia e liberali, fra moderati
e democratici, fra città e campagna.
Il potere legislativo concesso non è, comunque, assoluto ed
indipendente dallo stesso re, non solo perché questi ha la
possibilità di formare a suo piacimento una delle due camere,
il Senato, ma soprattutto perché il re si riserva la
prerogativa di sciogliere le Camere ed indire nuove elezioni (art.9
dello Statuto).
Questa prerogativa verrà usata in maniera sistematica, a
partire dal 1849 (dopo il proclama di Moncalieri, quando per ben due
volte gli elettori vengono chiamati alle urne, finché non
emerge un’assise favorevole alla pace con l’Austria), fino alle
elezioni del 1919;
…“sicchè si può dire che nel periodo liberale nessuna
legislatura si concluse per scadenza naturale.”[3]
L’art.9 contempla anche la prerogativa del re di convocare la Camera
dei Deputati dopo la sua elezione. Col tempo si tenta, pure, di
estendere la tutela regia sulla Camera con la facoltà di
fissare gli ordini del giorno delle sedute, ma questa prerogativa
rimane alla Presidenza dell’assemblea, pur se la relativa sedia
potrà essere occupata solo da persona gradita al potere
Esecutivo.
Il discorso della Corona all’apertura della sessione della Camera
rappresenta l’ atto di indirizzo politico del Governo, a cui,
però, il Parlamento dovrà attenersi per tutta la vita
della sessione, senza che questo discorso-indirizzo possa essere mai
sottoposto a discussione.
La non autonomia piena ed, anzi, la quasi subordinazione del potere
Legislativo (Camera dei Deputati) al potere Esecutivo (Re-Governo),
la si ritrova, ancora nell’art.9, laddove si consente al Governo,
utilizzando lo strumento del decreto che proroga la sessione della
Camera, di by-passare il confronto con il Parlamento, quando questi
è maggioritariamente ostile alla politica dell’esecutivo.
Così avviene nel 1899 per la discussione delle leggi
liberticide del Governo Pelloux, poi approvate per decreto; avviene
il 1894 con la mancata discussione parlamentare sullo scandalo della
Banca Romana che coinvolge il Primo Ministero Crispi; ed avviene,
infine, nel 1896 con la dichiarazione di guerra all’Eritrea sempre
del Governo Crispi.
Per consuetudine a partire dal 1850 al decreto di proroga della
sessione segue il suo scioglimento, che comporta sia la decadenza
dei progetti di legge in discussione che la sospensione delle
guarentigie attribuite ai deputati dagli artt. 45 e 46 dello
Statuto. Questo meccanismo abbondantemente usato, mette in
discussione il corretto ed autonomo funzionamento del Parlamento.
“…Questo modo di intendere l’esercizio delle funzioni parlamentari
(che si accentuava nei periodi di guerra) non consentì al
parlamento di esercitare il proprio controllo fiduciario sui
governi, né ai governi di poter contare su maggioranze
stabili e convinte” [4]
Anzi, alcune volte lo scioglimento rappresenta il castigo da
infliggere ad un Parlamento colpevole di aver votato la sfiducia al
Governo. Così succede il 1867 quando viene censurato da una
mozione di sfiducia il comportamento illiberale assunto dal governo
della Destra Storica in materia di libertà di riunione. Di
fronte alle dimissioni presentate, il re, V. Emanuele II, le
respinge e scioglie anticipatamente le camere.
Se il potere Legislativo viene ceduto ad un Parlamento parzialmente
eletto, con lo Statuto il potere Esecutivo rimane, però,
saldamente nelle mani del re e questo fa del Governo un’emanazione
esclusivamente regale, senza una vera e propria legittimazione
parlamentare.
Il Parlamento bicamerale, secondo lo Statuto, ha la prerogativa
esclusiva del potere Legislativo e solo secondariamente una funzione
di controllo sull’attività del governo in materie determinate
(trattati internazionali, bilancio e imposte). In più di
un’occasione il Parlamento finisce per essere di fatto espropriato
anche del potere Legislativo, attraverso l’abuso della legislazione
delegata e dei decreti legge emanati dal Governo, mentre quella
funzione secondaria di controllo viene debolmente esercitata con
commissioni di inchiesta e di vigilanza sul Governo.
Per via consuetudinaria e non legislativa, attesa l’ostilità
della Casa reale sul punto, si cercherà il trasferimento di
poteri per giungere ad un vero e proprio governo parlamentare, ma
ogni volta per reazione si invocherà (1897) il “ritorno allo
Statuto” (Sonnino) per eliminare l’istituto “deprecabile” della
fiducia parlamentare.
Lo Statuto italiano, modellato con un riferimento vago alla
monarchia costituzionale inglese, lasciando il potere esecutivo al
re, che a sua volta lo delega a ministri da lui scelti, che davanti
a lui giurano ed a lui rispondono, fà del re il vero
“dominus” della vita politica, anche perché alla corona resta
sempre il diritto di sanzionare le leggi attraverso la loro
promulgazione .
“…Nomina dei ministri (art.65); “dissoluzione” della Camera [dei
Deputati] (art.9); sanzione regia delle leggi (artt.3 e 56) sono i
tre atti nei quali, nella forma di governo statutaria, non si
esprime nessun principio democratico…
Almeno fino alla quarta legislatura (Governo D’Azeglio) è del
tutto fuori luogo parlare per il Regno di Sardegna di governo
parlamentare”[5]
Il re non designa il Primo ministero con un decreto, procedura che
gli lascerebbe campo libero nella scelta dei ministri; in
realtà, gli dà solo l’incarico, con una lettera a sua
firma, riservandosi spesso lui il diritto di nominare direttamente
alcuni ministri (in genere Esteri, Difesa/Guerra e Marina ).
In tal modo tiene l’incaricato sotto un costante ricatto,
consistente nel fatto che la formazione del Gabinetto e la ricerca
personale della maggioranza parlamentare di sostegno sono
costantemente minacciate dalla possibilità di una revoca
dell’incarico, che, immotivata, può intervenire in qualsiasi
momento. Il decreto viene emanato solo al momento della
presentazione della lista dei ministri, che ovviamente a queste
condizioni devono essere tutti di gradimento del sovrano.
“…Questo sistema di formazione dei governi può essere
definito “a-parlamentare”. Esso consentì la facile
instaurazione di governi che, in momenti di crisi, furono governi
del re in senso proprio in quanto si considerarono validamente
costituiti in base alla sola nomina regia; anche se poi alcuni di
essi si adoperarono per guadagnarsi una maggioranza parlamentare.
Un procedimento di formazione del governo quale quello descritto,
che era in grado di prescindere, come di fatto spesso prescindeva,
dalla preventiva esistenza del consenso fra l’incaricato ed una
definitiva maggioranza parlamentare, fu determinante nel consentire,
nel 1922, la nomina di Mussolini.”[6]
Solo con Giolitti si tenterà di limitare questo potere regio
attraverso l’obbligo per il re, in caso di revoca dell’incarico al
primo ministero, di trovarne un altro.
Il punto nevralgico del rapporto Re-Governo è la figura del
Primo ministro.
Cavour è il primo a svolgere nei fatti un ruolo autonomo, che
sottrae al re il potere di nomina dei ministeri e rivendica al Primo
ministero la piena responsabilità dell’azione politica. Ma
egli non tenta mai di formalizzare legislativamente la
differenziazione dei ruoli (Governo-Corona), che avrebbe dato una
spinta nella direzione di un’istituzione-Governo più
condizionata dalla fiducia parlamentare, con una Monarchia solo in
funzione di garante del gioco politico e del rapporto fra Esecutivo
e Legislativo.
Questa mancata formalizzazione legislativa da parte di Cavour
può forse spiegarsi con l’ostilità manifestatagli
dalla Corona in più di un’occasione, per cui potrebbe aver
temuto che un prevedibile braccio di ferro con la monarchia sul
punto avrebbe finito per indebolirla in un momento in cui, invece,
il processo unitario richiedeva il massimo di convergenza politica
su di essa.
Chi per primo tenta di raggiungere con un percorso legislativo
l’autonomia del Governo dal re è B.Ricasoli, con un decreto
del 1867; ma non avendo il prestigio di Cavour e dovendo contrastare
l’ostilità della Casa Reale, che già aveva
“inghiottito veleno” con Cavour, deve dimettersi e il suo decreto
viene cancellato dal successivo governo.
Bisogna aspettare il governo Depretis, la Sinistra storica, per
vedere parzialmente attuati quei principi di democrazia parlamentare
che impongono una separazione fra Governo e Monarchia ed una qualche
responsabilità del Primo ministero di fronte al Parlamento.
Il decreto Depretis (1876), che nasce anche dal proposito di mettere
la briglia al cd. "ministerialismo”, esalta la responsabilità
collegiale del Governo, rispetto a quella individuale del singolo
ministro, dà poteri al Capo del governo di bloccare le
iniziative del singolo ministro, imponendone la discussione
collegiale, unitamente all’obbligo di informare il Capo del governo
di ogni iniziativa intrapresa, ove questa coinvolga il Governo nella
sua collegialità.
Non viene mai meno, da Cavour in poi, la pratica di attribuirsi ad
interim importanti ministeri, secondo le esigenze politiche del
momento. I più gettonati sono il Ministero dell’interno, per
il controllo che esercita sull’ordine pubblico tramite le
Prefetture, il Ministero degli Esteri e delle Finanze. Mussolini non
a caso raggiunge il record, assommando nelle sue mani sette
ministeri.
Il fenomeno del cosiddetto “ministerialismo” vive sulla
realtà di ministri scelti dal re, con l’approvazione del capo
del governo, perchè legati ad una “consorteria”, in quanto
deputati più influenti, o capi-gruppo, o parlamentari
più vecchi, e pertanto capaci di apportare maggiore
stabilità all’azione di governo, ma che, per tale ragione,
rendono impraticabile una preminenza del Primo ministro sull’intera
compagine, sentendosi essi più obbligati verso il re, che li
nomina, e verso la “consorteria”, che li appoggia e di cui
rappresentano gli interessi, che non verso il proprio capo.
Con i tre gabinetti Crispi, grazie anche ad una legge da lui fatta
approvare (1888), che prevede la possibilità per il capo del
Governo di dimissionare un suo ministro e di prendere decisioni in
sua vece, si ha una politica di marca più apertamente
bismarckiana.
L’azione politica di Crispi, il suo protagonismo, che più di
uno qualifica come dittatura personale, non sono riconducibili solo
al suo “carattere” personale (che in più di un’occasione
Gramsci definisce “giacobino” nel senso deteriore del termine); in
realtà essi si muovono in linea con l’evoluzione del sistema
politico inglese, a cui l’Italia si era sempre ispirata, che, a
dispetto di una concezione di equa ripartizione dei tre poteri,
indipendenti fra loro, vede crescere in Inghilterra il ruolo del
Primo ministero, anche per effetto delle forti personalità
(Disraeli e Gladston) in concorrenza.
La riforma Zanardelli (1901) rafforza il potere del Governo,
dandogli la facoltà di nominare le più alte cariche
dello Stato (dal Presidente del Senato, a quello della Banca
d’Italia, della Corte dei Conti, ecc., e lo rende interlocutore
privilegiato del Parlamento, attraverso la facoltà di
proporre decreti legge e disegni di legge governativi.
Con Giolitti - che abroga i decreti crispini (1904) - si ha un
consolidamento dei principi contenuti nel decreto Zanardelli e della
forma di governo parlamentare, che collegialmente dà conto
più al Parlamento che al Re del suo operato.
Ma anche questo avviene solo sul piano della pratica politica,
perchè le norme contenute nello Statuto, che fanno ancora del
Re il “dominus” del potere esecutivo, non si avrà mai la
forza di abrogarle, imboccando anche formalmente la strada del
governo parlamentare.
La riprova della mancata stabilizzazione del regime in senso
parlamentare sarà data dalla facilità con cui, durante
il governo Salandra, vengono ribaltati i principi del 1901.
“…La nomina di Salandra alla Presidenza del Consiglio, <contro la
maggioranza della Camera>…, la pesante ingerenza della Corona
nella politica estera e nella decisione della guerra, quando il re,
respingendo le dimissioni di Salandra, presentate come <una sfida
ed un atto di accusa contro il Parlamento[…] si era messo dalla sua
parte> in opposizione alle camere…, l’approvazione, il 22 maggio,
della legge che concedeva i pieni poteri al Governo secondo la
tradizione degli anni di Carlo Alberto e V.Emanuele II: tutto questo
dimostrava che la sostanza costituzionale della forma di Governo
italiana era rimasta immutata nei decenni.
“[7]
La mancata stabilizzazione del governo parlamentare apparirà
ancor più chiaramente sette anni più tardi, dopo la
Marcia su Roma (1922), con il conferimento dell’incarico da parte
del re a Mussolini, formalmente rappresentante della minoranza
parlamentare.
“[…] In realtà la formazione di un governo che emanava dal
Parlamento, si costituiva in Gabinetto con un proprio Presidente
ecc., è pratica che s’inizia fin dai primi tempi dell’era
costituzionale, è il modo «autentico» di
interpretare lo Statuto. Solo più tardi, per dare una
soddisfazione ai democratici, fu data a questa interpretazione una
tendenziosità di sinistra (forse le discussioni politiche al
tempo del proclama di Moncalieri possono servire per provare la
giustezza di questa analisi). Per iniziativa della destra si giunge
a una contrapposizione della lettera dello Statuto a quella che ne
era sempre stata la pratica normale e indiscussa (articolo di
Sonnino Torniamo allo Statuto nella «Nuova Antologia»
del 1° gennaio 1897, e la data è da ritenere
perché prelude al conato reazionario del 98) e questa
iniziativa segna una data perché rappresenta il manifesto
della formazione consortesca che si va organizzando, che per circa
20 anni non riesce mai a prendere e mantenere il potere stabilmente,
ma che ha una parte fondamentale nel governo «reale» del
paese. Si può dire che a mano a mano che illanguidisce la
tendenza per domandare una Costituente democratica, una revisione
dello Statuto in senso radicale, si rafforza la tendenza
«costituentesca» alla rovescia, che dando
un’interpretazione restrittiva dello Statuto minaccia un colpo di
Stato reazionario.”[8]
Il rapporto di subordinazione del governo al re, nell’ambito di
un’autonomia/supremazia del potere esecutivo sul legislativo, si
manifesta soprattutto nei periodi guerra, quali sono quelli, quasi
continuativi, dal 1848 al 1866 e, in maniera saltuaria, dal 1870 al
1915, prima del conflitto mondiale, quando si svolgono le guerre
coloniali.
Intanto il re è Comandante in capo dell’esercito e Capo di
Stato Maggiore, potendo separare le due cose con la delega della
seconda carica ad un alto ufficiale (Generale La Marmora).
Indirettamente viene ad essere, così, sgravato il governo
dalla responsabilità della condotta tecnico-militare delle
operazioni.
Inoltre, nel rapporto Parlamento-Governo(Re) quest’ultimo dichiara
la guerra (art.5 dello Statuto), mentre il primo la delibera,
intendendosi con questo verbo che ne approva le spese (legge di
bilancio).
Nella politica estera si verifica lo stesso rapporto di sostanziale
subordinazione del Legislativo all’Esecutivo, essendo quest’ultimo
in grado di decidere la politica estera in modo autonomo dal primo e
potendo il primo non ratificare i trattati internazionali firmati
dal secondo solo per quanto riguarda le questioni attinenti il
territorio e le finanze.
Questo porta, ad esempio, nel 1915 ad una battaglia, rivelatasi poi
inutile, quando la maggioranza parlamentare, convinta
dell’utilità per lo stato italiano di una posizione
neutralista nel conflitto mondiale, viene by-passata dalla
decisione, già assunta da Governo & Corona, di
sottoscrivere il trattato che impegna il nostro paese ad entrare nel
conflitto a fianco dell’Intesa contro gli Imperi Centrali.
“In una forma di governo di tipo parlamentare, il re non avrebbe
dovuto appoggiare nessuna delle possibili opzioni (guerra o
neutralità); ma avrebbe dovuto, anzi, garantire il libero
affermarsi della volontà della maggioranza parlamentare
tenendo un comportamento opposto a quello tenuto da V. Emanuetle III
durante le “radiose giornate” del maggio 1915”[9]
Per fornire un ulteriore elemento di comprensione sulla mancanza di
autonomia fra i tre poteri e sulla supremazia del potere Esecutivo
sugli altri due, occorre dire che i Magistrati requirenti
(Procuratori di ogni ordine e grado) erano di nomina regia, mentre
la Magistratura giudicante (Giudici di Tribunali e Corti) dipendeva
dalle decisioni del Ministero della Giustizia per questioni
riguardanti la carriera e la disciplina, non essendo previsto un
organo di autocontrollo, come è oggi il Consiglio Superiore
della Magistratura.
Infine, per completare la descrizione della fisionomia ed avere un
quadro meno vago delle “tare originarie” in materia di democrazia e
consenso, assunte dal nuovo Stato dopo l’unificazione, occorre dire
due parole sul sistema elettorale che porta all’elezione della
Camera dei Deputati e sull’evoluzione legislativa che si realizza
sul tema fino all’avvento del fascismo.
Lo Statuto albertino non contiene al suo interno, come si è
detto, una legge elettorale, ma solo il principio elettivo del
potere legislativo, come lo contengono, peraltro, le altre
costituzioni del ‘48 (Regno di Napoli, Granducato e Stato
Pontificio); mentre le repubbliche di quello stesso anno (Milano
maggio, Venezia giugno e Roma dicembre) già alzano il
vessillo dei sistemi elettorali a suffragio universale.
La legge elettorale viene varata poco dopo, il 18 marzo 1848, e
prevede il diritto di voto per “censo” e titolo di studio: possono
votare, infatti, gli ultra-25enni, forniti di titolo di studio
adeguato o che contribuiscano al fisco per un importo di £.40
annue. Esclusi gli analfabeti, che nel 1871 sono il 72.96 % della
popolazione.
“Di conseguenza non più di 530mila cittadini avevano diritto
di voto su una popolazione di 27milioni, e cioè l’1,98 %
“[10]
Il voto, inteso dai maggiori giuspubblicisti dell’epoca (V.Emanuele
Orlando) come funzione del cittadino e non come suo diritto, non
è praticato in maniera massiccia anche per le enormi
difficoltà che il suo esercizio comporta: dalle iscrizioni
nelle liste elettorali, spesso manipolate, alla collocazione dei
seggi in località distanti, senza collegamenti efficienti.
Più che una spiegazione della scarsa affluenza alle urne,
bisognerebbe indagare le reali ragioni di quelli, veramente pochi,
che almeno nei primi anni andarono a votare: 78mila circa
nell’aprile del 1848 e 89mila l’anno successivo, dopo il proclama di
Moncalieri.
Il sistema elettorale dello Stato piemontese viene esteso, con
leggere modifiche, alle altre province man a mano che i plebisciti,
praticati con il voto a suffragio universale, ratificano le
annessioni: esso prevede un sistema maggioritario a doppio turno a
cui partecipano i candidati che nel primo abbiano ottenuto i
maggiori consensi.
I collegi elettorali, formati con il criterio elastico di 50mila
elettori ciascuno, sono fissati in numero di 443 dopo il 1860.
“Nel 1880 gli elettori erano 620mila, cioè il 2,18 % della
popolazione. Tutti i braccianti agricoli, quasi tutti i piccoli
proprietari, quasi tutti gli artigiani e operai di città,
buona parte della stessa piccola borghesia cittadina erano esclusi
dal corpo elettorale”[11]
Nonostante la caratteristica oligarchica di tutto il sistema,
l’astensionismo è sempre elevato: la percentuale dei votanti
dal 1860 alla fine del secolo si mantenne fra il 50 ed il 60 % degli
aventi diritto, contribuendo a questo risultato anche
l’astensionismo propagandato non solo dalla Chiesa ( dal non expedit
= non conviene, al divieto esplicito di partecipare alla vita del
nuovo Stato), ma anche, se pure in misura molto meno influente, dai
repubblicani e dagli anarchici.
In realtà, in Italia l’agone politico non è
caratterizzato da un vero e proprio scontro politico fra correnti
radicalmente contrapposte, anche per effetto del trasformismo,
né si avverte l’esigenza di modificare il sistema elettivo
maggioritario in senso proporzionale, per dare maggior
rappresentanza ai diversi gruppi politici.
Anzi, paradossalmente la proposta di introdurre il sistema
proporzionale verrà avanzata dai gruppi più
conservatori, con la finalità di tutelare le minoranze
“più colte e possidenti” del Paese, allorquando, verso la
fine del secolo, comincia a prendere piede l’idea di estendere il
diritto di voto in direzione del suffragio universale.
La prima riforma, che allarga la platea elettorale, sostituendo il
criterio censuario con quello del livello di istruzione si comincia
a discutere nelle due camere il 1881, dopo che una riforma
scolastica patrocinata dal ministro Coppino, ha nel 1877 introdotto
l’istruzione obbligatoria elementare della durata di due anni (in
una prima stesura di tre).
La riforma elettorale che si attua nel 1882 agisce su due aspetti:
Da un lato essa modifica il sistema uninominale a doppio turno in
uno plurinominale a scrutinio di lista, che prevede la
possibilità per l’elettore di votare con una preferenza
multipla un numero di canditati inferiore di un’unità al
numero massimo eleggibile nel collegio (da 3 a 5) . Non si ricorre
al ballottaggio se i candidati più suffragati ottengono un
consenso pari almeno all’8 % degli elettori.
Dall’altro fa passare gli elettori da poco più di 600mila ad
oltre 2 milioni, non senza preoccupazioni (anche da parte dei
promotori della riforma) di incrinare quel meccanismo di
rappresentanza, che si basa, tutto sommato, sul ruolo dei notabili,
che fino a quel momento ha retto l’apparato politico più
complessivo, costituendo il sistema di consenso attraverso cui il
nuovo Stato ha tenuto legate a sé le masse popolari,
specialmente meridionali.
“In Italia la riforma elettorale del 1882 estese il diritto di voto
ai maschi ultraventenni, che sapessero leggere e scrivere, anche se
non pagassero le imposte dirette. Allora, il 62,80 % della
popolazione, cioè quasi tutti i contadini e la grande
maggioranza degli artigiani e degli operai, erano analfabeti. Solo
nelle più progredite città dell’Italia settentrionale
gli operai avevano cominciato a mandare i figli a scuola. Ne
conseguì che nel 1882 non più che 2 milioni di uomini
vennero iscritti nelle liste. Ad ogni modo l’elettorato salì
dal 2,18 al 6,97 % della popolazione. Le città avevano
più elettori delle campagne, perché coloro che
sapevano leggere e scrivere erano concentrati specialmente nelle
città. L’influenza politica delle classi industriali,
commerciali ed intellettuali soverchiò quella dei proprietari
di terra. Nelle città stesse la riforma diede un’influenza
prevalente alle classi piccolo borghesi.
Dal 1882 al 1894….il corpo elettorale divenne ancor più
cittadino e piccolo borghese”[12]
In realtà il temuto “salto nel buio” non si verifica e
l’astensionismo elettorale, rimasto nella media degli anni
precedenti, si mostra più accentuato a Nord (nel Veneto dove
sconta l’influenza politica del Vaticano) che al Sud, dove si
conferma la validità di un sistema di rappresentanza reale
basato sul “notabile”, che polarizza i voti e rappresenta a Roma i
problemi del posto.
“In realtà la contrapposizione di liste realmente alternative
si verificò in un numero limitato di collegi: spesso invece i
gruppi che controllavano il collegio si accordavano per la
ripartizione delle forze in liste solo formalmente contrapposte (e
che non di rado includevano addirittura tutte il nome dei notabili
locali più in vista).”
[13]
Questa visione della rappresentanza politica, basata sull’idea del
mandato ricevuto dagli elettori di una determinata zona, a
prescindere da un interesse politico più generale, mette
subito in evidenza due rischi: da un lato il localismo, e dall’altro
la possibilità di fare in Parlamento “cordata” con
personalità capaci, in base al posto occupato nella compagine
governativa, di garantire per gli elettori rappresentati (nel
migliore dei casi !) quei vantaggi che possano giustificare e
gratificare il voto ricevuto.
Ad essa si contrapporrà una concezione della rappresentanza
politica che si basa sul concetto più astratto ed ideologico,
non di per sé stesso più democratico, di “interesse
nazionale e/o generale”, spesso inteso come interesse super partes,
altre come espressione corporativa di una singola classe, concezione
che ha come retroterra e presupposto quello dell’esistenza di
partiti “di massa” come il Partito repubblicano in Romagna, il
Partito Socialista, costituito agli inizi del Novecento o il
successivo Partito Popolare.
Questi partiti, che danno rappresentanza politica complessiva e
nazionale a classi sociali e settori della società, secondo
un modello piramidale, si pongono anche come raccoglitori del
consenso ed organizzatori ed artefici del protagonismo che strati
sempre più ampi della popolazione manifestano già
prima del conflitto mondiale e che, dopo, diventerà
impetuoso.
Però, ancora negli ultimi due decenni dell’800 domina la
visione elitaria che ha caratterizzato tutto il secolo XIX e che
vede il partito come un’aggregazione politico-filosofica, dove
l’azione di collante viene svolta dalla singola personalità
di spicco e dalla sua influenza personale, esercitata, oltre che con
il rapporto personale diretto, anche con i mezzi “moderni” del
giornale.
Questa visione, più conciliante con il sistema di
rappresentanza del notabile, entra in crisi, non solo per la nascita
dei partiti massa, ma anche per la degenerazione del
parlamentarismo, sempre più caratterizzato da fenomeni di
corruzione sfrenata.
La parola “trasformismo”, per la prima volta usata da due liberali
moderati, Minghetti e Turiello, in due opuscoli di fine ‘800,
finisce per diventare il sinonimo della degenerazione del sistema
politico della rappresentanza e per fornire argomenti preziosi a
quei reazionari che, in nome dell’antiparlamentarismo, sostituiranno
più tardi la pallida immagine di una democrazia parlamentare
asfittica con la cupa realtà del fascismo.
Gramsci, invece, dà alla parola “trasformismo” un significato
più profondo e più ampio, perché la ricollega
alla debolezza ideologica e politica dei partiti protagonisti del
processo unitario e dei primi anni di vita dello stato che ne
scaturisce.
“[…] La debolezza dei partiti politici italiani in tutto il loro
periodo di attività, dal risorgimento in poi (eccettuato in
parte il partito nazionalista) è consistita in quello che si
potrebbe chiamare uno squilibrio tra l’agitazione e la propaganda, e
che in altri termini si chiama mancanza di principii, opportunismo,
mancanza di continuità organica, squilibrio tra tattica e
strategia ecc.
La causa principale di questo modo di essere dei partiti è da
ricercare nella deliquescenza delle classi economiche, nella
gelatinosa struttura economica e sociale del paese, ma questa
spiegazione è alquanto fatalistica: infatti se è vero
che i partiti non sono la nomenclatura delle classi, è anche
vero che i partiti non sono solo una espressione meccanica e passiva
delle classi stesse, ma reagiscono energicamente su di esse per
svilupparle, assodarle, universalizzarle. Questo appunto non
è avvenuto in Italia, e la manifestazione di questa
«omissione» è appunto questa agitazione e
propaganda o come altrimenti si voglia dire.
Lo Stato-Governo ha una certa responsabilità in questo stato
di cose (si può chiamare responsabilità in quanto ha
impedito il rafforzamento dello Stato stesso, cioè ha
dimostrato che lo Stato-governo non era un fattore nazionale): il
governo ha infatti operato come un «partito», si
è posto al disopra dei partiti non per armonizzarne gli
interessi e l’attività nei quadri permanenti della vita e
degli interessi statali nazionali, ma per disgregarli, per staccarli
dalle grandi masse e avere « una forza di senza partito legati
al governo con vincoli paternalistici di tipo bonapartistico-cesareo
»: così occorre analizzare le così dette
dittature di Depretis, Crispi, Giolitti e il fenomeno parlamentare
del trasformismo.
Le classi esprimono i partiti, i partiti elaborano gli uomini di
Stato e di governo, i dirigenti della società civile e della
società politica. Ci deve essere un certo rapporto utile e
fruttuoso in queste manifestazioni e in queste funzioni. Non
può esserci elaborazione di dirigenti dove manca
l’attività teorica, dottrinaria dei partiti, dove non sono
sistematicamente ricercate e studiate le ragioni di essere e di
sviluppo della classe rappresentata. Quindi scarsità di
uomini di Stato, di governo, miseria della vita parlamentare,
facilità di disgregare i partiti, corrompendone, assorbendone
i pochi uomini indispensabili. Quindi miseria della vita culturale e
angustia meschina dell’alta cultura: invece della storia politica,
la erudizione scarnita, invece della religione la superstizione,
invece dei libri e delle grandi riviste, il giornale quotidiano e il
libello. Il giorno per giorno, con le sue faziosità e i suoi
urti personalistici, invece della politica seria. Le
università, tutte le istituzioni che elaboravano le
capacità intellettuali e tecniche, non permeate dalla vita
dei partiti, dal realismo vivente della vita nazionale, formavano
quadri nazionali apolitici, con formazione mentale puramente
rettorica, non nazionale. La burocrazia così si estraniava
dal paese, e attraverso le posizioni amministrative, diventava un
vero partito politico, il peggiore di tutti, perché la
gerarchia burocratica sostituiva la gerarchia intellettuale e
politica: la burocrazia diventava appunto il partito
statale-bonapartistico.”[14]
“[…]Il trasformismo come una delle forme storiche di ciò che
è stato già notato sulla
«rivoluzione-restaurazione» o «rivoluzione
passiva» a proposito del processo di formazione dello Stato
moderno in Italia. Il trasformismo come «documento storico
reale» della reale natura dei partiti che si presentavano come
estremisti nel periodo dell’azione militante (Partito d’Azione). Due
periodi di trasformismo: 1) dal 60 al 900 trasformismo
«molecolare», cioè le singole personalità
politiche elaborate dai partiti democratici d’opposizione si
incorporano singolarmente nella «classe politica»
conservatrice-moderata (caratterizzata dall’avversione a ogni
intervento delle masse popolari nella vita statale, a ogni riforma
organica che sostituisse un’«egemonia» al crudo
«dominio» dittatoriale); 2) dal 900 in poi trasformismo
di interi gruppi di estrema che passano al campo moderato (il primo
avvenimento è la formazione del Partito nazionalista coi
gruppi ex-sindacalisti e anarchici, che culmina nella guerra libica
in un primo tempo e nell’interventismo in un secondo tempo). Tra i
due periodi è da porre il periodo intermedio – ‘90/900 – in
cui una massa di intellettuali passa nei partiti di sinistra,
così detti socialistici, ma in realtà puramente
democratici. …
Un Punto da vedere è la funzione che ha svolto il Senato in
Italia come terreno per il trasformismo «molecolare». Il
Ferrari, nonostante il suo repubblicanesimo federalista ecc., entra
nel Senato e così tanti altri fino al 1914 …”[15].
[1] A.Gramsci, Quaderni del carcere. Edizione critica a cura di V.
Gerratana. Ed.Einaudi 1975 pag.1560
[2] Le parti che seguono in questo capitolo sono tratte dal volume
Storia dello Stato italiano dall’Unità ad oggi a cura di
Raffaele Romanelli. Donzelli editore. Roma 1995
[3] R. Romanelli Op.cit.. pag.17
[4] R. Romanelli Op.cit.. pag.19
[5] R. Romanelli Op.cit.. pag.9
[6] R. Romanelli Op.cit.. pagg.10-11
[7] R. Romanelli Op.cit.. pag.30
[8] A.Gramsci, Op.cit. pagg.1000-1
[9] R. Romanelli Op.cit.. pag.16
[10] G. Salvemini, Introduzione a L’età giolittiana di
A.W.Salomone. La Nuova Italia Editrice. Scandicci (FI) 1988.Pag.X
[11] G. Salvemini, idem,pag.X
[12] G. Salvemini, idem,pag.XI
[13] R. Romanelli Op.cit.. pag.93
[14] A.Gramsci, Op.cit. pagg.386-388
[15] A.Gramsci, Op.cit. pagg.962-4
Capitolo VII
Sul mercato capitalistico internazionale l’Italia del 1861 si
presenta in forte ritardo rispetto a tutti gli altri grandi Paesi
dell’Europa: Francia, Inghilterra e Germania. Il reddito nazionale
è pari ad un terzo di quello francese ed un quarto di quello
inglese. La situazione a grandi linee è ancora connotata da
una prevalenza soverchiante dell’agricoltura sull’industria
manifatturiera. Su ventisei milioni di abitanti solo il 10 % vive
nelle città.
L’industria manifatturiera, il cui punto di forza è
rappresentato dal comparto tessile, produce solo il 20 % del P.I.L.,
assorbendo il 18 % della manodopera.
“Al momento dell’unificazione”, si legge in un rapporto
sull’economia italiana scritto dal Foreign Office inglese, “ le
industrie manifatturiere italiane erano piccine e d’importanza solo
locale. Gli stabilimenti industriali si annidavano nelle vallate,
dove trovavano la forza motrice pronta e non costosa nei torrenti e
nei fiumi che le attraversavano. La manodopera era composta
prevalentemente da contadini, che spesso possedevano qualcosa di
loro; i salari erano bassi, gli scioperi sconosciuti. Non v’era
agglomerazione di operai nelle grandi città; barriere
doganali dividevano i vari stati, e ragioni politiche trattenevano i
cittadini dal porsi deliberatamente in comunicazione gli uni con gli
altri” .[1]
Nella coltivazione delle campagne, che coinvolge i tre quinti dei
terreni coltivabili, essendo gli altri due quinti occupati da paludi
e pascolo, sono assenti quasi del tutto le tecniche moderne di
produzione.
I rapporti di produzione in agricoltura vedono una scarsissima
presenza di aziende capitalistiche, prevalentemente nel triangolo
Liguria, Piemonte e Lombardia, con una presenza di piccola
proprietà contadina distribuita su tutto il territorio
nazionale ed una forte presenza del latifondo nel meridione del
Paese, dove prevale la coltivazione cerealicola ed il pascolo.
Braccianti e mezzadri sono le figure sociali più presenti nel
panorama economico-sociale del Mezzogiorno.
Fatta eccezione per le poche aziende agricole organizzate con
criteri capitalistici, la cui produzione è commercializzata
quasi esclusivamente all’estero, e per la produzione cerealicola, la
gran parte dell’economia agricola è economia di sussistenza,
dove la ristrettezza del mercato e la produzione per l’auto-consumo
fanno la parte del leone.
“Non solo il piccolo proprietario o il piccolo affittuario della
Basilicata e della Calabria,” scrive lo storico economico E. Sereni,
“ma anche il mezzadro di regioni assai più progredite, come
la Toscana e la Lombardia, all’epoca dell’unificazione ha ancora un
legame assai debole col mercato, anche locale: produce e consuma
direttamente la maggior parte del prodotto che non deve consegnare
al proprietario terriero….[O]gni contadino deve produrre il suo
grano, i suoi ortaggi, la sua canapa la sua frutta”.[2]
La produzione per l’auto-consumo vede impegnata la famiglia tipica
contadina non solo nel settore alimentare, ma in quasi tutti gli
altri settori indispensabili alla sopravvivenza (vestiario,
suppellettili, attrezzi di cucina e lavoro, ecc.), rendendo in tal
modo il mercato nazionale asfittico e limitato.
D’altro canto un legame economico pregresso fra Nord e Sud, tale da
far pensare all’esistenza di un embrione di mercato unico non
esiste, attese le vicende politiche che hanno afflitto la penisola.
“Fra questi due mondi economici i contatti per tutto il corso
dell’Ottocento erano stati sporadici, perché entrambi
orientati all’esportazione di derrate agricole e di materie prime
industriali, come la seta, nei ricchi mercati di oltralpe. In nessun
caso Nord e Sud costituivano sbocchi di mercato reale per i propri
prodotti: il sud vendeva cereali e produzioni specializzate, come
olio, vino ed agrumi in Gran Bretagna e Francia o nei suoi
tradizionali mercati orientali; il Nord collocava le sue sete
gregge, le sue lane, le sue cotonate, nonché i prodotti di
un’agricoltura moderna, come il riso, i formaggi ed il frumento,
nelle grandi piazze commerciali europee.”[3]
Causa-effetto della mancata esistenza di un mercato unico nazionale
e la distribuzione scarsa e non omogenea su tutto il territorio
nazionale della rete dei trasporti: su 2.100 Km di ferrovie,
presenti in Italia nel 1861, 1600 circa sono al Nord, di cui 1000
nel solo Piemonte; la rete stradale vede poco più di 22.500
Km di strade statali e 63.500 comunali, mentre la Francia dello
stesso periodo ne conta oltre 400.000 km; la maggior parte dei porti
meridionali è attrezzata ad accogliere solo barche a vela,
mentre a Genova approdano già i piroscafi a vapore.
“Penuria di capitali (mancata accumulazione primitiva), scarsezza di
materie prime, assenza di un grande mercato (frazionamento politico
del paese): sono queste le circostanze fondamentali che rendono
tardivo e difficile in Italia lo sviluppo di una economia
capitalistica…
L’unità di per sé sola non crea il mercato, ma
soltanto una delle condizioni essenziali perché un grande
mercato sorga. Perché il paese offra possibilità di
investimento e di smercio, occorre attrezzarlo, gettare le basi
quindi di una solida finanza giacché – assenti forti nuclei
di privati capitalisti – è lo Stato che deve assumersi
l’onere della prima attrezzatura” [4]
Ma lo stato italiano nasce con un forte debito pubblico, frutto
delle prime scelte in politica economica, che adottano i
rappresentanti di quel blocco storico, che è stato artefice
del processo unitario, e che, dopo l’unificazione, continua a
determinare i primi passi del Governo.
“Il problema nasce non tanto dalle condizioni obbiettive
dell’arretratezza dell’economia italiana dell’epoca, quanto
piuttosto dal modo in cui l’oligarchia aristocratico-borghese
piemontese ha portato a compimento l’unità d’Italia, e
cioè con l’appoggio militare francese e con il sostegno
politico degli agrari semifeudali dell’Italia meridionale, al fine
di evitare ogni ricorso al popolo e di battere completamente le
tendenze democratiche e di sinistra borghese…..
[L]e spese sono enormemente accresciute dal fatto che il nuovo stato
unitario si è accollato i pesantissimi deficit degli Stati
preunitari, riconoscendo tutto il loro debito pubblico che, invece,
avrebbe potuto cancellare, avendo distrutto tali Stati. Ma i titoli
del debito pubblico dei territori ex-borbonici ed ex-pontifici,
annessi al nuovo regno, sono detenuti per la gran parte da quei
grandi proprietari terrieri semifeudali i cui diritti acquisiti i
liberali piemontesi si sono impegnati a rispettare, per avere il
loro sostegno politico tanto contro le forze reazionarie quanto, e
ancor più, contro le forze democratiche; e in parte minore
sono detenuti dalle banche francesi i cui interessi sono diventati
intangibili, in seguito all’alleanza piemontese con Napoleone
III”[5]
Ai 500 milioni lire, che lo stato piemontese si porta “in dote” per
le spese di guerra del ’59 e l’indennità da pagare
all’Austria, si aggiungono i 2.200 milioni di lire del debito
pubblico accumulato dagli altri stati pre-unitari.
Gli uomini della cosiddetta Destra storica, eredi della politica
cavouriana del “connubio”, come Rattazzi e La Marmora, imprenditori
piemontesi, come Sella e Lanza, liberali moderati toscani, come
Ricasoli, o emiliani, come Minghetti e Farini, perseguono per tutto
il quindicennio dal 1861 al 1876 una politica economica basata su
due pilastri: il risanamento economico del deficit e l’inserimento
dell’Italia nel mercato europeo attraverso una politica liberistica,
che ripudia misure protezionistiche.
Anche la politica di risanamento del deficit è impostata con
l’intento di tutelare gli interessi di classe del blocco di forze
aristocratico-borghesi: in generale, viene privilegiata la
tassazione indiretta che, gravando sui consumi, colpisce
principalmente gli strati popolari, rispetto alla tassazione diretta
sul reddito dei possidenti.
Così l’imposta fondiaria viene mantenuta decisamente bassa,
favorendo la grande proprietà terriera e la rendita, mentre
viene penalizzato in misura maggiore il reddito di commercianti ed
imprenditori. Sul fronte delle imposte indirette emblematica
è la reintroduzione della famigerata “imposta sul macinato”,
istituita già dai Borboni e cancellata da Garibaldi, che
colpisce il consumo di un bene di primissima ed imprescindibile
necessità, come il pane.
Parimenti, la scelta di applicare da subito (1860) la tariffa
doganale del Piemonte, di gran lunga più bassa di tutte le
altre esistenti nei vari stati pre-unitari, se da un lato apre
l’Italia ai flussi commerciali europei, dall’altro costringe le zone
agricole più dinamiche (pianura padana ed emiliana) ad una
più rapida modernizzazione, mentre espone le zone più
arretrate e meno competitive a contraccolpi disastrosi.
Inoltre, per quanto riguarda l’industria, questa politica doganale
sacrifica gli interessi delle già deboli industrie meccaniche
e metallurgiche, incapaci di reggere la concorrenza diretta delle
più sviluppate industrie europee, favorisce le industrie
manifatturiere del nord (tessili), mentre a sud viene portata alla
rovina quel poco di attività manifatturiera presente, dove
è ancora prevalente, peraltro, il lavoro a domicilio.
Al fine di favorire la costituzione di un vero e proprio
mercato nazionale si avvia durante il periodo di governo della
Destra una politica economica tesa al potenziamento delle
infrastrutture, segnatamente le ferrovie, che sarà continuata
anche dalla Sinistra e che vede un intervento diretto dello Stato in
economia.
Questi investimenti statali, sostenuti da prestiti del capitale
bancario internazionale (dal 1861 all’87 il ruolo preponderante –
sostiene Grifone nell’opera citata - viene esercitato dalla Banca
francese di Pereire, Rotschild, ecc), forniscono l’occasione di
grossi guadagni per la nascente “industria pesante” .
“L’economia capitalistica italiana si sviluppa, quindi, sin
dall’inizio in funzione prevalente dell’intervento dello Stato e del
capitale straniero. Il capitalismo italiano ha fin dal suo sorgere
un particolare, spiccato interesse al controllo diretto delle leve
governative, ed è nel tempo stesso costretto a subire una
condizione di semidipendenza rispetto al capitale straniero che ne
impaccerà fatalmente il cammino.”[6]
Le spese per investimenti nelle infrastrutture, unitamente alle
spese militari per il completamento dello stato unitario (alleanza
con la Prussia contro l’Austria - III guerra di indipendenza) e per
affrontare il brigantaggio (vera e propria guerra interna
anti-contadina, durata diversi anni), costringono il Governo della
Destra a privare, con una legge del 1866, gli enti ecclesiastici di
ogni riconoscimento giuridico. Per effetto della legge i loro
immensi patrimoni vengono espropriati senza indennizzo e venduti
all’asta a tutto beneficio del deficit di bilancio statale, che
viene, così, ad essere più che dimezzato.
La Destra storica fornisce un contributo determinante alla
costruzione dell’apparato amministrativo del nuovo Stato, unificando
le realtà disomogenee degli stati pre-unitari della penisola.
La fisionomia della nuova struttura si caratterizza per una forte
centralizzazione e uno scarso peso dato alle autonomie locali.
Figura centrale sarà il prefetto, emanazione diretta del
potere Esecutivo, controllore della vita politica locale, che una
riforma legislativa del 1865 istituisce sulla base del modello
francese. L’approvazione nello stesso anno del nuovo Codice Civile
completa l’operazione tesa ad uniformare legislazione e
comportamenti nel neonato stato.
L’assillo di tenere sotto stretto controllo la molteplice e
variegata realtà del nuovo stato, comporta l’esportazione del
modello sabaudo su tutto il territorio, cosa che si unisce alla
nomina di personale piemontese o di regioni viciniori, comunque di
provata fede governativa, nelle più alte cariche
burocratico-amministrative. Tutto ciò ha fatto parlare gli
storici di “processo di piemontesizzazione”, che viene percepito,
specialmente a Sud, come un’imposizione dall’alto, se non come vera
e propria colonizzazione.
La reazione a questa imposizione diventa guerra allo stato con il
fenomeno del cosiddetto “brigantaggio”, che tiene impegnate per un
quinquennio (1861-5) più della metà delle truppe
piemontesi (duecentomila unità) e che si concluderà
con l’imposizione dell’ordine nelle campagne meridionali, attraverso
una carneficina di morti, fucilati ed arrestati (13.853 “briganti”
messi fuori combattimento).
In realtà dietro il fenomeno del “brigantaggio” vi sono le
lotte che i contadini meridionali hanno da tempo avviato per poter
utilizzare le terre comuni del demanio, spesso da loro stessi
occupate, e per ripristinare gli usi civici; lotte che avevano
già indebolito lo Stato borbonico, favorendo l’impresa
garibaldina, su cui inutilmente erano state riposte molte speranze,
e che ora si acuiscono per effetto di una politica governativa che
immiserisce e costringe alla leva obbligatoria, sottraendo braccia
all’agricoltura.
Il bilancio dei primi quindici anni di vita dello Stato, che
è il bilancio della politica seguita dalla Destra storica,
mette in risalto, a mio avviso, alcune tare originarie della
realtà statuale del nostro Paese, che, nonostante le
successive trasformazioni, condizioneranno la vita politica dei
decenni successivi, sicuramente fino alla prima metà del
secolo XX, e, forse, permangono ancora oggi.
La situazione dei consensi intorno allo stato post-unitario è
disastrosa: il Risorgimento, realizzato come “rivoluzione passiva”,
senza cioè una partecipazione attiva delle masse contadine,
sulla base di un blocco sociale minoritario, comporta la mancanza di
un sostegno di massa alla nuova entità, che se, invece, ci
fosse, consentirebbe scelte più indipendenti ed avanzate.
A ciò si deve aggiungere l’opposizione o, quanto meno,
l’assenteismo delle masse cattoliche influenzate dal non expedit
papale, l’ostilità aperta di Austria, Borboni e Papato che
fomentano e sostengono ogni sommossa interna, nella speranza di
ritornare in possesso dei propri territori, ed, infine, la pesante
situazione debitoria, dovuta alle scelte di cui si è detto.
Tutto ciò spiega, senza ombra di dubbio, l’impostazione e la
fisionomia oligarchico-autoritaria che assumono le strutture
statuali nascenti.
Ma anche la scelta liberista ed antiprotezionista in campo
economico, che la Destra opera con grande vantaggio economico per le
industrie francesi ed inglesi e che tanti danni apporta, invece,
alla nascente economia capitalistica italiana, deve farsi risalire,
a mio avviso, a questa debolezza di consensi, che non può non
aver influenzato l’atteggiamento politico in campo internazionale
dei governati italiani, sempre sensibili alle richieste straniere,
piuttosto che spiegarsi come una scelta dettata da motivazioni solo
di natura politico-ideologica (che sicuramente pure influiscono).
Benché la Destra si impegni con successo alla creazione di
infrastrutture indispensabili per lo sviluppo industriale, alla fine
del quindicennio del suo governo l’apparato industriale ne esce
indebolito: il suo apporto al P.I.L. scende al sotto del 20%; tutti
gli operai dell’industria sono nel 1876 appena 380.000, cresciuti
nel quindicennio di poche migliaia di unità ed addetti quasi
esclusivamente all’industria tessile. All’Esposizione Internazionale
di Parigi del 1867 l’arretratezza industriale italiana emerge con
chiarezza, specialmente se confrontata con lo sviluppo raggiunto
dalle altre potenze europee, anche quelle che, come la Germania,
sono pervenute alla creazione del mercato unico nazionale
tardivamente.
Agli scontenti nel campo degli imprenditori manifatturieri, che sono
la quasi totalità della categoria, si aggiungono gli ambienti
della Corona e delle alte gerarchie militari a cui vengono tagliati
i fondi per esigenze di bilancio e gran parte di finanzieri e
banchieri, che non possono lucrare sul debito pubblico statale, che,
anzi, nella metà degli anno ’70 viene estinto, coronando con
successo un obbiettivo tanto tenacemente perseguito dalla Destra con
una politica, che oggi si qualificherebbe di “lacrime e sangue”
(allora, senza metafora !).
Inoltre, una latente crisi economica di sovrapproduzione relativa
nel campo agricolo precipita apertamente con l’apparizione sui
mercati europei di derrate alimentari a basso costo, provenienti da
paesi emergenti, come gli Stati Uniti per i cereali, facendo
scendere i prezzi e provocando una caduta dei redditi in
agricoltura; la qual cosa mette definitivamente alle corde la
politica liberistica e fiscale della Destra, facendole perdere gli
ultimi consensi nel “paese che conta”.
I tempi sono maturi per un cambio della guardia. Nel 1876 con
l’incarico di Governo conferito a Depretis, la Sinistra va la potere
e lo mantiene per un decennio, aprendo la strada ai successivi
Governi Crispi.
Tre le correnti che la compongono: una facente capo allo stesso
Depretis, che discende dalla “sinistra storica” di Rattazzi,
protagonista del cavouriano “connubio”; un’altra diretta erede del
Partito d’Azione, che fa capo a Cairoli e Zanardelli, che ha al suo
interno componenti più radicali (Bertani-Cavallotti), che
spingono verso il suffragio universale; infine la terza componente
dei cosiddetti “giovani” (De Sanctis-De Luca) e dei meridionalisti
(Nicotera), più legati alle istanze del capitalismo delle
campagne meridionali.
La politica economica cambia subito di segno ed una prima misura
protezionistica viene adottata nel 1878 a tutela delle produzioni
tessili e siderurgiche. Ad essa farà seguito una più
consistente nel 1887.
“La siderurgia, la chimica, la cantieristica seppero trarre indubbi
stimoli alla crescita e per la prima volta, dall’unità,
l’estensione della rete ferroviaria funzionò da
moltiplicatore della produzione industriale, utilizzando prodotti
nazionali e diminuendo le quote di importazione. L’industria
tessile, in particolare la cotoniera, quella più concentrata
e meccanizzata, segnò un balzo in avanti di notevoli
dimensioni, facendo passare il numero dei fusi da 745.000 del 1876
agli oltre 2 milioni di fine secolo e la produttività per
addetto da 940 a 2.250 lire .“[7]
Il risanamento del bilancio consente l’avvio di una politica di
riduzione fiscale: nel 1877 vengono ridotte l’imposta fondiaria e
quella sui fabbricati, viene abolita l’imposta sui traffici di
borsa; qualche anno più tardi (1880) verrà abolita la
tassa sul macinato.
Anche la spesa pubblica comincia a correre:
“La politica di “spese”, inaugurata dalla sinistra (caratterizzata
da quella spensierata imprevidenza che è tipica dei famelici)
ingenera, nel periodo 1876-87, un’ondata di ottimismo e di fittizio
rigoglio….L’intervento diretto dello Stato permette il sorgere
(grossi ordinativi a condizioni di favore) del primo nucleo di
industria pesante: la Terni (1884). Nel 1885 l’esercizio delle
ferrovie passa ai privati (Ferrovie Meridionali) a condizioni
vantaggiosissime e la marina mercantile attiene favori mai visti
(premi di costruzione ai cantieri e sussidi di navigazione agli
armatori) “[8]
Lo Stato, governato dalla sinistra, si candida a diventare il
partner prezioso ed insostituibile dei settori industriale e
bancario, perfezionando un meccanismo di raccolta di capitali,
già sperimentato con la Destra, ma che ora diventa
fondamentale per lo sviluppo di un paese, come l’Italia, dove la
penuria di capitali rappresenta uno degli handicap più
grossi.
“Lo Stato assorbe sotto forma di proventi fiscali, di prestiti
interni e di prestiti esteri, la massima parte dei capitali
disponibili e li convoglia, mediante una assai duttile politica
delle spese, verso gli impieghi più accetti ai gruppi
più influenti: costruzioni ferroviarie, opere pubbliche,
ordinativi militari. La Banca lucra due volte: Dapprima come
intermediaria tra contribuenti, sottoscrittori dei prestiti,
banchieri stranieri e Stato (appalto delle imposte, collocamento dei
titoli, ecc.), in secondo luogo come intermediaria fra Stato e
società finanziarie, nelle quali essa Banca possiede
naturalmente partecipazioni di maggioranza.”[9]
L’abolizione nel 1883 del corso forzoso, meccanismo che da
facoltà ad alcune banche, riconosciute dallo stato, di
emettere carta moneta in misura proporzionale alle riserve auree
possedute, crea una situazione di euforia generale che fa salire
alle stelle prezzi e dividendi.
Il denaro facile favorisce la speculazione edilizia e Roma capitale,
con i suoi ministeri centrali, i nuovi quartieri da costruire, ne
rappresenta il fulcro. Le banche si riempiono di titoli,
immobilizzano i loro capitali, investono in impieghi a lungo termine
i depositi a breve dei risparmiatori. “ Si crea negli anni 1883-6 -
come descrive P.Grifone - la situazione tipica che precede la
crisi”.
La comparsa di prodotti tedeschi, in un mercato internazionale
già saturo per la sovrapproduzione relativa nel triennio
1884-6, è la classica “goccia che fa traboccare il vaso”
della crisi ciclica capitalistica, la quale si somma alla crisi
agricola già in atto. L’Italia, per le sue debolezze
economiche, non smaltirà tanto facilmente gli effetti della
crisi, che si protrarranno fino alla fine del secolo; mentre negli
altri Paesi capitalistici europei la crisi economica avrà
l’effetto di accelerare il processo di concentrazione monopolistica
e di formazione del capitale finanziario (fusione industria-banca),
nonché la spartizione del mondo in zone di influenza, da cui
l’Italia, arrivata in ritardo, resterà fondamentalmente
esclusa.
Intanto, di fronte alle crescenti difficoltà di smercio dei
prodotti ed al conseguente rallentamento degli investimenti, quasi
unanime è la richiesta, che sale al Governo dal mondo
industriale ed agricolo, di introdurre nuove misure
protezionistiche, più consistenti di quelle approvate dieci
anni prima.
La tariffa del 1887 grava in modo assai pesante sulle
importazioni di ferro e acciaio, di tessuti, di grano e zucchero. A
beneficiarne è il blocco agrario-industriale, che al suo
interno vede i latifondisti semifeudali produttori di cereali, i
capitalisti agrari della Bassa Padana, produttori di barbabietole da
zucchero, il nascente capitalismo siderurgico, tessile e
zuccheriero, interessato a vendere i propri prodotti sul mercato
interno a prezzi più elevati, contando sulle commesse
pubbliche, che gli garantiscono i centri di potere
burocratico-militare e di Corte.
Le misure protezionistiche hanno, però, come conseguenza
immediata la rottura dei rapporti commerciali con la Francia,
già logorati dalla scelta italiana (1882) di entrare nella
Triplice Alleanza, con Austria e Germania, ribaltando le consolidate
alleanze internazionali dei decenni precedenti.
“La Banca internazionale, in specie quella francese, ritira i
capitali investiti a breve in Italia, restringe i fidi, svende la
rendita italiana copiosamente collocata all’estero nei decenni
precedenti. I titoli [del debito pubblico] rimpatriano, l’aggio
sale, la fiducia nella moneta italiana è scossa.”[10]
La crisi di liquidità, i forti immobilizzi di capitale,
mettono in difficoltà tutto il sistema bancario italiano che
nell’immediato deve provvedere con i propri mezzi a questa
situazione difficile. Solo dopo un intervallo disastroso (1887-94)
il ruolo di principale finanziatore del debito pubblico e, per
questa strada, di puntello di tutto il sistema bancario-creditizio
italiano, svolto dalla Banca francese fin dai primi anni di vita
dello Stato unitario, passa alla Banca tedesca, che lo
manterrà fino al 1914.
Le inevitabili restrizioni del credito mettono sul lastrico gli
speculatori edili, la cui rovina travolge, a sua volta, tutto il
sistema creditizio ed, in particolare, gli istituti più
esposti. Banca Tiberina viene salvata dallo Stato (Banca Nazionale)
con un esborso di cinquanta milioni di lire. Un grosso scandalo
coinvolge la Banca Romana, uno dei sei Istituti di emissione di
carta-moneta, rafforzatasi negli anni precedenti attraverso legami
clientelari con esponenti di Governo, Parlamento e Corona.
“La crisi generale, industriale ed agraria, non tarda ad abbattersi
anche sui più potenti Istituti di Credito. Le due più
grandi Banche italiane, il Credito Mobiliare e la Banca Generale,
sono costrette a chiudere gli sportelli alla fine del 1893.”[11]
All’ombra delle misure protezionistiche adottate, che le
garantiscono il mantenimento di prezzi alti sul mercato interno,
mentre crollano all’estero, e sostenuta dalle commesse statali che
spesso, sotto forma di anticipi, le garantiscono persino il capitale
di esercizio, si consolida l’industria capitalistica nel triangolo
Genova-Torino-Milano durante il periodo della crisi economica.
Un primo nucleo si forma in Lombardia ed è composto nel
milanese da industrie meccaniche che fabbricano caldaie e rotaie
(Tosi e la O.M.), macchine da cucire (Necchi), da industrie chimiche
(Montecatini), che fabbricano armi a Brescia o cemento a Bergamo; un
secondo nucleo a Genova e Torino, dove sono diffuse le aziende che
lavorano prevalentemente con le commesse statali, fra cui la
cantieristica ligure, ma anche l’industria di trasformazione dello
zucchero; un terzo nucleo in Piemonte dove consistenti sono (anche
per una presenza pregressa) gli insediamenti industriali tessili.
Nel ventennio che chiude il secolo, per effetto della crisi
economica e della politica di sostegno offertale dallo Stato, la
borghesia capitalistica italiana, industriale ed agraria, acquisisce
sempre più peso economico e, di riflesso, in politica si
candida sempre più a dirigere con propri uomini lo stesso
blocco storico-sociale risorgimentale, che ora gestisce lo Stato.
Le condizioni e gli obbiettivi della battaglia politica sono,
però, cambiati rispetto al Risorgimento.
Allora l’obbiettivo principale da raggiungere era quello di creare
uno Stato unitario, sconfiggendo l’Austria, principale ostacolo al
suo raggiungimento e dietro cui si raccoglievano i governi ostili e
reazionari di tutta la penisola. Ora l’obbiettivo è quello di
attrezzare un apparato industriale, agricolo e finanziario, che
possa superare la crisi economica in atto e competere alla pari con
le altre nazioni più evolute.
Lo Stato post-unitario, frutto di quella “rivoluzione-restaurazione”
che è stato il Risorgimento, se si è dimostrato, nei
primi anni di vita, strumento idoneo a mantenere l’ordine nelle
campagne, oggi si trova a dover fronteggiare altri soggetti sociali,
diversi dai contadini.
Gli operai crescono di numero in legame diretto con lo sviluppo
industriale del Paese. Nel 1901 diventeranno due milioni e mezzo.
Sempre più concentrati, a differenza del passato, nelle
città, dove una popolazione proveniente dalle campagne
è emigrata anche per effetto della crisi agraria, lavorano
per più di 13 ore al giorno ed i loro bassi salari, bassi
anche per la consistente presenza di donne e bambini, sono una delle
condizioni essenziali per l’accumulazione capitalistica e per
reggere alla concorrenza straniera.
A differenza dei contadini, che scontano la parcellizzazione delle
condizioni del loro lavoro, e delle prime forme di lavoro
manifatturiero, quasi sempre svolto dentro le quattro mura della
propria abitazione, il lavoro operaio nell’azienda capitalistica,
ancor più quando essa è di grandi dimensioni,
concentra in un sol luogo una massa enorme di manodopera e
già per questa sola ragione facilita negli operai la presa di
coscienza della propria forza collettiva.
Tenere gli operai in condizione di soggezione e
nell’impossibilità di organizzarsi per rivendicare migliori
condizioni di lavoro e di vita, diventa una necessità dettata
dalla contraddizione antagonista che regola il rapporto di
produzione col capitale di questa nuova classe sociale.
Il primo metodo che viene usato, in linea con tutto il sistema di
potere del nuovo stato, è il metodo della repressione,
già sperimentato nelle lotte contro la “tassa sul macinato”
ed il primo uomo che lo pratica è Crispi. Chi è Crispi
?
Gramsci ci consegna questo suo ritratto:
“[…]Dopo la morte di Depretis i settentrionali non volevano la
successione di Crispi siciliano. Già Presidente del
Consiglio, Crispi si sfoga col Martini, proclama il suo unitarismo
ecc., afferma che non esistono più regionalismi ecc. Sembra
questa una dote positiva di Crispi: mi pare invece giusto il
giudizio contrario. La debolezza di Crispi fu appunto di legarsi
strettamente al gruppo settentrionale, subendone il ricatto, e di
avere sistematicamente sacrificato il Meridione, cioè i
contadini, cioè di non avere osato, come i giacobini osarono,
di posporre agli interessi corporativi del piccolo gruppo dirigente
immediato, gli interessi storici della classe futura, risvegliandone
le energie latenti con una riforma agraria. Anche il Crispi è
un termidoriano preventivo, cioè un termidoriano che non
prende il potere quando le forze latenti sono state messe in
movimento, ma prende il potere per impedire che tali forze si
scatenino: un «fogliante» era nella Rivoluzione francese
un termidoriano in anticipo, ecc.”[12]
“[…] Per il suo programma Crispi fu un moderato puro e semplice. La
sua «ossessione» giacobina più nobile fu
l’unità politico-territoriale del paese. Questo principio fu
sempre la sua bussola d’orientamento, non solo nel periodo del
Risorgimento, in senso stretto, ma anche nel periodo successivo,
della sua partecipazione al governo. Uomo fortemente passionale,
egli odia i moderati come persone: vede nei moderati gli uomini
dell’ultima ora, gli eroi della sesta giornata, gente che avrebbe
fatto la pace coi vecchi regimi se essi fossero divenuti
costituzionali, gente, come i moderati toscani, che si erano
aggrappati alla giacca del granduca per non farlo scappare; egli si
fidava poco di una unità fatta da non-unitari. Perciò
si lega alla monarchia che egli capisce sarà risolutamente
unitaria per ragioni dinastiche e abbraccia il principio
dell’egemonia piemontese con una energia e una foga che non avevano
gli stessi politici piemontesi. Cavour aveva avvertito di non
trattare il Mezzogiorno con gli stati d’assedio: Crispi invece
subito stabilisce lo stato d’assedio e i tribunali marziali in
Sicilia per il movimento dei Fasci e accusa i dirigenti dei Fasci di
tramare con l’Inghilterra per il distacco della Sicilia
(pseudo-trattato di Bisacquino). Si lega strettamente ai
latifondisti siciliani, perché il ceto più unitario
per paura delle rivendicazioni contadine, nello stesso tempo in cui
la sua politica generale tende a rafforzare l’industrialismo
settentrionale con la guerra di tariffe contro la Francia e col
protezionismo doganale: egli non esita a gettare il Mezzogiorno e le
isole in una crisi commerciale paurosa, pur di rafforzare
l’industria che poteva dare al paese una indipendenza reale e
avrebbe allargato i quadri del gruppo sociale dominante; è la
politica di fabbricare il fabbricante. Il governo della destra dal
’61 al ’76 aveva solo e timidamente creato le condizioni generali
esterne per lo sviluppo economico: sistemazione dell’apparato
governativo, strade, ferrovie, telegrafi e aveva sanato le finanze
oberate dai debiti per le guerre del Risorgimento. La Sinistra aveva
cercato di rimediare all’odio suscitato nel popolo dal fiscalismo
unilaterale della Destra, ma non era riuscita che ad essere una
valvola di sicurezza: aveva continuato la politica della Destra con
uomini e frasi di sinistra. Crispi invece dette un reale colpo in
avanti alla nuova società italiana, fu il vero uomo della
nuova borghesia. La sua figura è caratterizzata tuttavia
dalla sproporzione tra i fatti e le parole, tra le repressioni e
l’oggetto da reprimere, tra lo strumento e il colpo vibrato;
maneggiava una colubrina arrugginita come fosse stato un moderno
pezzo d’artiglieria.”[13]
All’interno, la politica istituzionale di Crispi, attuata quasi
ininterrottamente con vari Gabinetti da lui presieduti fino al 1896,
rafforza l’apparato politico-amministrativo centralizzato, basato
sulla figura del Prefetto, a cui sono date maggiori competenze,
unifica l’ordinamento giuridico penale con l’approvazione del Codice
Penale Zanardelli (che abolisce la pena di morte e legalizza lo
sciopero), estende l’allargamento del suffragio del 1882 ai Comuni,
che nei capoluoghi di provincia potranno anche eleggere i Sindaci.
In politica estera rafforza l’alleanza con la Triplice, accentuando
i contrasti con la Francia. Sotto i suoi governi inizia la
penetrazione del capitale tedesco in Italia. L’avventura coloniale
italiana, nata con i Governi della Sinistra, si sviluppa con Crispi,
anche se quello di Crispi sarà un colonialismo tardivo
essendo già avvenuta la spartizione fra le grandi potenze, e
tipico di un “capitalismo straccione”, che non ha ancora sviluppato
al suo interno quella concentrazione di capitale finanziario in
grado di esportare capitali, oltre che merci.
“[…]Anche la politica coloniale di Crispi è legata alla sua
ossessione unitaria e in ciò seppe comprendere l’innocenza
politica del Mezzogiorno; il contadino meridionale voleva la terra e
Crispi che non gliela voleva (e poteva) dare in Italia stessa, che
non voleva fare del «giacobinismo economico»,
prospettò il miraggio delle terre coloniali da sfruttare.
L’imperialismo di Crispi fu un imperialismo passionale, oratorio,
senza alcuna base economico-finanziaria. L’Europa capitalistica,
ricca di mezzi e giunta al punto in cui il saggio del profitto
cominciava a mostrare la tendenza alla caduta, aveva la
necessità di ampliare l’area di espansione dei suoi
investimenti redditizi: così furono creati dopo il 1890 i
grandi imperi coloniali. Ma l’Italia ancora immatura, non solo non
aveva capitali da esportare, ma doveva ricorrere al capitale estero
per i suoi stessi strettissimi bisogni. Mancava dunque una spinta
reale all’imperialismo italiano e ad essa fu sostituita la
passionalità popolare dei rurali ciecamente tesi verso la
proprietà della terra: si trattò di una
necessità di politica interna da risolvere, deviandone la
soluzione all’infinito. Perciò la politica di Crispi fu
avversata dagli stessi capitalisti (settentrionali) che più
volentieri avrebbero visto impiegate in Italia le somme ingenti
spese in Africa; ma nel Mezzogiorno Crispi fu popolare per aver
creato il «mito» della terra facile. “[14]
Nel decennio in cui si alternano i suoi governi si creano le
premesse per lo sviluppo del capitale finanziario, espressione di
una concentrazione monopolistica nel settore della grande industria
e nel settore dell’alta finanza e di una compenetrazione fra i due
settori. Nel 1894 sorge la Banca d’Italia dalla fusione della Banca
Nazionale e le due Banche toscane di emissione. Restano ancora
fuori, anche se opportunamente rivitalizzanti con denaro pubblico, i
due Istituti di emissione meridionali (Banco di Sicilia e di
Napoli).
Dalla crisi del 1893, che ha visto chiudere gli sportelli dei due
più grossi colossi della finanza, Credito Mobiliare e Banca
Generale, uno dotato di un portafoglio ricco di significative
partecipazioni nei capitali delle principali aziende capitalistiche
italiane e l’altra gestore di 650 esattorie, nascono il 1894 due
colossi del sistema bancario italiano, protagonisti degli
avvenimenti economici degli anni a venire: il Credito Italiano e la
Banca Commerciale, quest’ultima con un capitale (20milioni) al 90 %
austro-tedesco.
La politica dell’ordine pubblico, posta in essere dai governi Crispi
prima e poi dai governi di Rudinì e Pelloux è la
risposta repressiva del blocco di potere dominante alle prime
manifestazioni del nascente soggetto sociale che è la classe
operaia.
La repressione che Crispi attua nei confronti dei Fasci siciliani,
organizzazione di impostazione socialista, che si sviluppa
progressivamente nell’isola raccogliendo operai agricoli e delle
zolfatare, braccianti, artigiani ed intellettuali cittadini, uniti
tutti sulla base di rivendicazioni come l’uso delle terre demaniali,
usurpate da una neo-borghesia delle campagne, o come il suffragio
universale, culmina con lo scioglimento dell’organizzazione
decretato agli inizi del 1894.
Faranno seguito le repressioni dei moti contro il caro-vita attuate
dal governo di Rudinì, che a Milano porteranno al massacro a
cannonate dei manifestanti perpetrato dalla truppe del generale Bava
Beccaris (1898) ed i tentativi di mettere fuori-legge il neonato
Partito Socialista, attuati dal governo Pelloux.
[1] P.Ortoleva e M.Revelli,Storia dell’Età Contemporanea.Ed
scolastiche Bruno Mondatori. Milano 1988. pag.171
[2] P.Ortoleva e M.Revelli,Op.cit. pag.171
[3] Vedi De Bernardi-Guarracino, L’operazione storica, Ed. Bruno
Mondadori, vol.3 pag.304
[4] Pietro Grifone, Il capitale finanziario in Italia. Ed. Einaudi
1971, pag.5
[5] M.Bontempelli, E.Bruni, Storia e coscienza storica. Trevisini
Editore. Milano 1983, pag.257
[6] Pietro Grifone, Op.cit., pagg.6-7
[7] P.Ortoleva e M.Revelli,Op.cit. pag.308
[8] Pietro Grifone, Op.cit., pag.7
[9] Pietro Grifone, Op.cit., pag.6
[10] Pietro Grifone, Op.cit., pag.9
[11] Pietro Grifone, Op.cit., pag.10
[12] A.Gramsci, Quaderni del carcere. Edizione critica a cura di V.
Gerratana. Ed.Einaudi 1975 pag.766
[13] A.Gramsci, Op.cit. pagg.2017-8
[14] A.Gramsci, Op.cit. pagg.2019-20
Capitolo VIII
L’Italia che si affaccia al balcone del XX secolo, con quarant’anni
di vita unitaria alle spalle, ha al suo interno alcuni problemi
strutturali che rappresentano le questioni cruciali della sua
esistenza e, in un certo senso, le tare più profonde del suo
sviluppo futuro.
Nel corso della seconda metà dell’800 si è sviluppato
un apparato industriale diffuso su tutto il territorio, ma
concentrato, soprattutto, nel triangolo Genova - Torino – Milano.
Questo sviluppo non riguarda più soltanto l’industria
tessile, ma esprime una presenza significativa della cosiddetta
“industria pesante” (siderurgia, metallurgia, cantieristica,
energia), premessa di uno sviluppo industriale futuro.
Nell’agricoltura, pur permanendo ampie zone di colture estensive
(cereali o, più in generale, seminativo) o dedicate al
pascolo, che, quasi sempre, nascondono rapporti di produzione
arretrati, con prevalenza di latifondo e rendita parassitaria, si
è incrementato il numero delle aziende agricole di piccole o
medie dimensioni dove si investono capitali per realizzare colture
intensive (ulivo, vite, barbabietola da zucchero, ecc.), la cui
produzione è destinata soprattutto ai mercati esteri.
La Banca ha manifestato nel corso della seconda parte del secolo XIX
tutta la sua indispensabile funzione di mediazione, consistente nel
mettere a disposizione degli imprenditori il denaro necessario per
la loro attività produttiva, raccolto dai risparmiatori. Per
effetto della crisi del 1887, il sistema bancario ha cominciato a
superare la frammentazione iniziale, si è maggiormente
concentrato in più grossi istituti di credito ed il capitale
bancario si è compenetrato sempre più con il capitale
industriale, dando vita a quel fenomeno, chiamato “capitale
finanziario”, che tanto condizionerà le scelte politiche ed
economiche del XX secolo.
In sintesi, l’Italia che si affaccia al XX secolo non è
più un paese agricolo-industriale, ma un paese
industriale-agricolo ed il blocco storico-sociale, protagonista del
processo di unificazione nazionale, composto da aristocrazia agraria
e capitalisti del nord con latifondisti del sud, viene ora
sostituito da un nuovo blocco sociale che guida ormai il paese:
“Tutta l’economia italiana apparirà, infatti, ben presto
dominata completamente dalla formidabile coalizione che si viene a
stabilire tra alta Banca, Industria pesante (sidero-metallurgia,
cantieri, armatori), i cotonieri e gli agro-latifondisti”[1]
Lo sviluppo industriale porta con sé l’apparizione nella vita
sociale di un nuovo soggetto, la classe operaia, che nel corso del
processo unitario è stata, per effetto dell’arretratezza
economica, quasi del tutto inesistente o presente solo nei centri
urbani più evoluti (C. Cattaneo cita il contributo notevole
dato dagli operai milanesi nelle “5 giornate”).
Lo sviluppo dell’industria manifatturiera concentra, infatti, nei
centri urbani masse di individui impegnati in un processo
produttivo, non più indirizzato all’auto-consumo, ma sempre
più rivolto al soddisfacimento dei bisogni di un mercato
sconosciuto ai produttori, che si allarga in proporzione allo
sviluppo delle forze produttive.
Il carattere collettivo della produzione è la matrice
fondamentale di un nuovo protagonismo delle masse lavoratrici,
anzitutto operaie, che in Europa si afferma nella seconda
metà del secolo XIX, che conoscerà un espressione
significativa in Francia, con la Comune di Parigi e che in Italia
comincia a percepirsi negli ultimi due decenni dell’800.
Di conseguenza entra in crisi il modello tradizionale di partito che
aveva caratterizzato le associazioni conservatrici, liberali, o
anche democratico-radicali, protagoniste della vita politica di
questo secolo.
“Questi “partiti” non avevano organizzazioni stabili,
territorialmente diffuse, né grandi apparati di funzionari
per organizzare gli iscritti e gli elettori; erano, piuttosto, una
rete di notabili locali, accomunati da alcune opzioni ideali e
programmatiche, che si attivava in occasione delle elezioni, il cui
corpo elettorale consisteva spesso in poche centinaia di aventi
diritto.”[2]
Espressione di questa nuova soggettività politica sono i
partiti socialisti che si costituiscono in Europa alla fine del XIX
secolo e si caratterizzano, da subito, come partiti di massa, a cui
aderiscono decine di migliaia di lavoratori. La loro costituzione
viene preceduta o seguita dalla formazione di sindacati,
organizzazioni ancora più ampie, preposte alla contrattazione
del salario e di migliori condizioni lavorative.
Alla caratteristica ampia del raggruppamento si unisce la struttura
piramidale dell’apparato, che abbraccia tutto il movimento,
mantenendolo coeso, utilizzando allo scopo la stampa, che, come
veicolo di trasmissione delle idee, sostituisce progressivamente il
contatto individuale, mano a mano che il livello di istruzione
cresce fra gli operai.
Infine, alla costituzione dei Partiti Socialisti, nazione dopo
nazione, seguendo il percorso di allargamento e rafforzamento della
borghesia industriale di ogni paese, si unisce, quasi subito, la
costituzione (1889) e lo sviluppo della II Internazionale, organismo
che, sul presupposto di interessi comuni agli operai di tutti i
paesi, svolge funzioni di coordinamento ed orientamento dei vari
Partiti Socialisti in un ambito territoriale più esteso di
quella di una singola nazione (ad es.battaglia per le 8 ore).
In Italia, alla costituzione del Partito Socialista si arriva alla
fine del XIX secolo, dopo varie esperienze vissute dai lavoratori:
dal paternalismo delle prime Casse di Mutuo Soccorso (quella di
Torino vede Cavour fra i fondatori), alle predicazioni
filantropiche, come quelle antisocialiste del Mazzini, passando
attraverso il Partito Operaio Italiano (1882), prima espressione
autonoma del mondo operaio e per questo affetta da corporativismo
esasperato e venata da manifestazioni di luddismo, ed il Partito
Socialista Rivoluzionario di Romagna (1881), costituito
dall’anarchico Andrea Costa. Nel 1892 a Genova viene finalmente
costituito il Partito dei Lavoratori, che al suo terzo congresso a
Parma assumerà la denominazione di Partito Socialista
Italiano.
Nel 1891 viene costituita la Camera del lavoro di Milano, seguita da
quelle di Piacenza, Torino, Bologna e Cremona. Fra i loro compiti
quelli di tutelare gli apprendisti, di promuovere leggi a favore di
donne e fanciulli lavoratori, di promuovere comitati per
l’applicazione delle tariffe di manodopera, di curare arbitrati tra
proprietari e lavoratori, di dare impulso alle cooperative.
Più tardi (1906), sotto la direzione dei riformisti,
verrà costituita la C.G.L., Confederazione Generale del
Lavoro, dall’unione di diversi sindacati di categoria.
Per le caratteristiche che assume la lotta del movimento operaio,
profondamente diverse da quelle delle rivolte dei contadini, per la
presenza di un soggetto politico autonomo della classe, quale
è il Partito Socialista, mentre nelle campagne la dispersione
e l’eterogeneità degli interessi condiziona l’assenza di un
partito indipendente dei contadini, si manifesta subito
l’impossibilità per il blocco sociale dominante di risolvere
questa nuova contraddizione, facendo riferimento solo ai metodi
repressivi ed autoritari, che fino a quel momento hanno prevalso
sulle opposizioni sociali.
Inoltre, la caratteristica del nuovo partito, del suo “modo di fare
politica”, non può non condizionare e modificare il sistema
di potere basato sul “notabilato”, attraverso cui quel blocco
dominante ha esercitato fino a quel momento l’egemonia politica ed
il dominio su classi e strati sociali, costringendolo a prendere in
considerazione l’ipotesi di dare una facciata più democratica
a tutto il sistema.
La struttura e la fisionomia che lo Stato unitario si è dato,
basandosi sullo Statuto albertino, e l’esclusione della gran massa
della popolazione dalla partecipazione attiva alla vita politica
nazionale, che viene mantenuta, non solo dalle caratteristiche dei
vecchi partiti e dal loro modo di rapportarsi ai cittadini, ma anche
dal sistema elettorale, richiedono ora una modifica sostanziale.
Nel clima politico segnato dalla nascita di grandi movimenti e
partiti di massa e caratterizzato dal dibattito sul sistema di
formazione delle liste degli elettori, incombenza di cui si fanno
carico i Comuni, che prevede una prova scritta, davanti al notaio,
dimostrativa della posseduta alfabetizzatone, dalle contestazioni
crescenti e ricorsi per esclusioni illegittime, nasce la proposta
del suffragio universale, cavallo storico di battaglia dei movimenti
radicali e democratici, di cui ora Giolitti, con un discorso alla
Camera del 1911, si fa promotore, intuendo il vantaggio politico che
detta sponsorizzazione gli avrebbe conferito.
La legge (o meglio le due leggi poi raccolte in un Testo Unico) del
1913 estende il diritto di voto ad otto milioni e mezzo di elettori
maschi, pari al 23 % di tutta la popolazione, iscritti nelle liste
elettorali sulla base del principio di saper leggere e scrivere o di
aver fatto il servizio militare, se ventunenni, oppure anche
analfabeti, se trentenni. L’aumento degli elettori è di
cinque milioni rispetto ai sistemi precedenti, venendo in tal modo
ad essere più rappresentate le regioni meridionali dove
l’analfabetismo è più massiccio.
“Il diritto di voto fu esteso a quelli che non sapevano leggere e
scrivere perché si pensò in Italia – e non a torto,
secondo me – che l’esperienza della vita è più
importante del saper leggere e scrivere. Un contadino poteva anche
non saper leggere e scrivere, ma se era stato in America ed era
ritornato a casa con un gruzzolo di denaro guadagnato col lavoro,
possedeva una maggiore conoscenza del mondo, che, per esempio, il
giovin signore, che leggiucchiava i romanzi francesi, ma non aveva
mai avuto nella vita da superare altra difficoltà che quella
di aggiustarsi la cravatta davanti allo specchio.”[3]
Con la legge del 1913 vengono anche adottate misure per scoraggiare
i brogli attraverso le schede ed attuare un maggior controllo
imparziale sulle operazioni di voto, prima gestite dagli stessi
candidati. Inoltre, è assicurata ai deputati eletti
un’indennità per garantire parità di situazione ed
evitare la consuetudine di farsi remunerare per le leggi approvate.
I Collegi elettorali uninominali sono costituiti con l’indicazione
di massima di settantamila abitanti ciascuno e composti da un numero
variabile di elettori, per cui si pone subito un problema di
perequazione della rappresentanza.
I risultati elettorali, benché segnino un ridimensionamento
dell’area liberale (da 370 a 307) non vedono il tanto temuto trionfo
del partito socialista, che passa a 52 deputati, mentre i
democratici repubblicani eleggono 71 deputati . Il merito della
“tenuta” del sistema lo si deve al cosiddetto Patto Gentiloni, con
cui Giolitti si assicura l’appoggio del voto cattolico, che in tal
modo supera, almeno in 330 collegi, lo steccato del non expedit.
Se la “questione operaia”, prodotto “naturale” dello sviluppo
economico, rappresenta un nodo essenziale per la sopravvivenza del
sistema di potere e del blocco di forze sociali che lo esercita, la
“questione Vaticana” segue a ruota la prima nell’ordine politico
delle problematiche, a cui dare soluzione, per garantire una
stabilità sociale e politica allo Stato unitario.
Come si è detto prima, lo Stato Pontificio aveva
rappresentato nei secoli precedenti l’ostacolo più
consistente alla formazione di uno stato italiano unito sul
territorio della penisola e, per questa via, alla creazione di un
mercato unico che favorisse, attraverso gli scambi, la nascita della
nuova classe sociale, la borghesia, che negli altri paesi europei
era, invece, cresciuta negli stati retti dalle monarchie
assolutistiche.
La breccia di Porta Pia (1870) simbolicamente mette la parola fine
ad undici secoli di storia del potere temporale dei papi e la
successiva legge sulle Guarentigie (1871) ricompone (dal punto di
vista dello Stato italiano) il conflitto, riconoscendo
personalità giuridica internazionale al nuovo Stato vaticano,
libertà di movimento ed indipendenza al Pontefice, a cui
vengono assegnati alcuni palazzi romani, oltre ad una dotazione
finanziaria annua.
Se questa politica ed i conflitti con il Vaticano determinano la
nascita di un nuovo stato italiano laico, in linea con il dettato
cavouriano di “libera Chiesta in libero Stato”, lo privano,
però, del consenso attivo dei cittadini cattolici, a cui il
Pontefice impone, con il non expedit (1874),il divieto di
partecipare alla vita politica attiva del nuovo Stato, costituendo,
così, un altro fattore di debolezza ed instabilità
della nuova realtà politico-istituzionale.
Dal punto di vista cattolico viene coniata una formula per indicare
la separazione dallo Stato unitario. “ Italia reale e Italia
legale”. E’ questa
“[…]la formula escogitata dai clericali dopo il 70 per indicare il
disagio politico nazionale risultante dalla contraddizione tra la
minoranza dei patriotti decisi e attivi e la maggioranza avversa
(clericali e legittimisti-passivi e indifferenti). …
La formula è felice dal punto di vista
«demagogico» perché esisteva di fatto ed era
fortemente sentito un netto distacco tra lo Stato (legalità
formale) e la società civile (realtà di fatto), ma la
società civile era tutta e solamente nel
«clericalismo»?
Intanto la società civile era qualcosa di informe e di
caotico e tale rimase per molti decenni; fu possibile pertanto allo
Stato di dominarla, superando volta a volta i conflitti che si
manifestavano in forma sporadica, localistica, senza nesso e
simultaneità nazionale. Il clericalismo non era quindi
neanche esso l’espressione della società civile,
perché non riuscì a darle un’organizzazione nazionale
ed efficiente, nonostante esso fosse un’organizzazione forte e
formalmente compatta: non era politicamente omogenea ed aveva paura
delle stesse masse che in un certo senso controllava.
La formula politica del «non expedit» fu appunto
l’espressione di tale paura ed incertezza: il boicottaggio
parlamentare, che pareva un atteggiamento aspramente intransigente,
in realtà era l’espressione dell’opportunismo più
piatto. L’esperienza politica francese aveva dimostrato che il
suffragio universale e il plebiscito a base larghissima, in date
circostanze, poteva essere un meccanismo favorevolissimo alle
tendenze reazionarie e clericali …; ma il clericalismo italiano
sapeva di non essere l’espressione reale della società civile
e che un possibile successo sarebbe stato effimero e avrebbe
determinato l’attacco frontale da parte delle energie nazionali
nuove, evitato felicemente nel 1870. …
Tuttavia l’atteggiamento clericale di mantenere
«statico» il dissidio tra Stato e società civile
era obbiettivamente sovversivo e ogni nuova organizzazione espressa
dalle forze che intanto maturavano nella società, poteva
servirsene come terreno di manovra per abbattere il regime
costituzionale monarchico: perciò la reazione del 98
abbatté insieme e socialismo e clericalismo, giudicandoli
giustamente ugualmente «sovversivi» e obbiettivamente
alleati.
Da questo momento comincia pertanto una nuova politica vaticanesca,
con l’abbandono di fatto del «non expedit» anche nel
campo parlamentare (il Comune era tradizionalmente considerato
società civile e non Stato) e ciò permette
l’introduzione del suffragio universale, il patto Gentiloni e
finalmente la fondazione nel 1919 del Partito Popolare.” [4]
Infine, il terzo nodo cruciale, che lo stato unitario non riesce
ancora a sciogliere, che, anzi, s’aggroviglia maggiormente nei suoi
primi cinquant’anni di vita, è quello del distacco esistente
fra le masse meridionali, prevalentemente contadine, ed il nuovo
Stato. Un distacco determinato fondamentalmente dal modo in cui si
è realizzato il processo unitario, dal blocco storico sociale
che ne ha costituito la spina dorsale e dalle forze politiche che lo
hanno diretto. Un distacco che continua ad essere alimentato dal
mancato sviluppo del Meridione d’Italia, in relazione, invece, al
progresso economico che il resto del Paese registra nello stesso
periodo.
E’ la “questione meridionale”, di cui il ceto politico nazionale
comincia a prendere coscienza attraverso inchieste socio-economiche,
come quella condotta da S. Sonnino e L. Franchetti poco dopo
l’unificazione, ma soprattutto dalla pubblicistica di intellettuali
come G. Fortunato, P. Villari ed altri, che denunciano
l’arretratezza del Meridione, chiamando la politica governativa ad
un maggiore impegno che corregga il divario.
Sarà, però, Gramsci, sin dal saggio su Alcuni temi
della questione meridionale, scritto prima del suo arresto e
pubblicato solo nel 1930, e poi negli scritti dal carcere, a dare
per primo alla questione meridionale un’impostazione che ne
ricollega la genesi alle modalità di realizzazione del
processo unitario, descrivendo il blocco sociale delle campagne che
tiene uniti i contadini agli interessi degli agrari ed il ruolo
svolto dagli intellettuali meridionali, come trade-union di questo
blocco.
Le già esigue basi di consenso al nuovo Stato da parte delle
masse meridionali vengono ulteriormente erose da scelte
politico-istituzionali che coinvolgono settori diversi di
popolazione. Tale è ad esempio la perdita del ruolo di
capitale che subisce, dopo la caduta del Regno dei Borboni, Napoli,
in precedenza sede della Corte, di Ministeri e delle alte gerarchie
dell’Esercito e dell’apparato burocratico-amministrativo.
Così come ugualmente vi contribuisce l’iniziale processo di
piemontesizzazione dell’apparato amministrativo, di cui si è
già parlato.
Non spezzando quei rapporti di dominio vigenti nelle campagne
meridionali e preesistenti all’unificazione, che si accompagnano
spesso a manifestazioni gratuite di arbitrio da parte dei notabili
locali, a cui spesso viene affidato anche l’onere della riscossione
delle tasse, lo Stato unitario rinuncia ad introdurre elementi di
discontinuità con lo Stato borbonico, necessari per
conquistare in proprio la fiducia delle masse, la quale finisce,
così, per restare riposta nel potere preesistente.
Inoltre, camorra e mafia, strutture criminali violente presenti a
Napoli e Sicilia, spesso colluse con i notabili di un paese, non
trovando opposizione da parte del nuovo Stato, vi si integrano,
cogliendo, con l’inserimento nell’apparato amministrativo pubblico,
un’opportunità per allargare il proprio potere-controllo sul
territorio, potere alternativo a quello dello Stato, anche se con
esso temporaneamente colluso.
La questione meridionale, che con le altre due questioni (operaia e
vaticana) contribuisce all’instabilità dello Stato, alimenta
la sua portata “destabilizzante” per effetto del divario
economico-produttivo fra Nord e Sud e per le responsabilità
politiche di chi perpetua questo divario e tiene le masse
meridionali in uno stato di costante miseria.
Ma a chi o a che cosa attribuire la responsabilità di questo
divario crescente fra due Italie ?
Criticando la tesi di chi (Nitti e Barbagallo) attribuisce la
responsabilità del divario prevalentemente, se non
esclusivamente, alla politica economica dei governi della Destra e
della Sinistra storica,[5] R. Morandi invita a non isolare ed
astrarre il processo di sviluppo economico differenziato fra le due
Italie dal diverso contesto economico-sociale, in cui questo
processo si realizza:
“Al momento dell’unificazione politica, che si compì nel ’60
– ‘61, il Sud si trovava a conferire un patrimonio industriale di
entità non irrilevante, considerato naturalmente in relazione
allo stato del Nord. L’attività industriale si addensava per
intero attorno a Napoli ed a Salerno. Si trattava di alcuni grossi
cotonifici, di impianti per la lavorazione meccanica del lino e
della canapa, di fonderie e di qualche importante stabilimento per
costruzioni di grossa meccanica, prevalentemente dediti a
lavorazioni di stato. Da aggiungere un industria cantieristica, che
aveva principiato a svilupparsi dopo il 1830.
Ma questo complesso produttivo…era paragonabile ad una pianta di
serra cresciuta in un clima di forte protezionismo, e costituiva
quasi un corpo solo con lo stato borbonico. Si trattava di
un’industria sprovveduta del tutto di legami con l’economia di
queste regioni, che era in arretrato di qualche secolo. …
La verità è che l’industria meridionale subì
colpi dal liberalismo prima e ne subì poi per effetto del
protezionismo, perché non possedeva in sé stessa
alcuna forza vitale e non aveva radici. E’ piuttosto la profonda
disparità di livello di due economie, a questa epoca in
assoluta preponderanza agricola che, determinando la caduta
verticale dell’industria meridionale e l’industrializzazione seppur
tardiva del Nord, sarà causa vera della divisione
irrimediabile di due Italie “[6]
Per il sentiero indicato da R. Morandi si ritorna alla strada
maestra del blocco storico-sociale protagonista del Risorgimento e
si ripercorre il processo unitario che, anche per i limiti
soggettivi del partito che avrebbe dovuto rappresentare gli
interessi della borghesia industriale settentrionale e meridionale,
poco aveva modificato dei rapporti sociali nel meridione.
L’industria meridionale, non avendo un ambiente circostante in grado
di assorbire i prodotti da essa stessa fabbricati (il mercato era
infatti quasi del tutto inesistente per la prevalenza di un’economia
agricola basata sull’auto-consumo, che l’arretratezza dei rapporti
produttivi rendeva oltremodo stabile), si pone come “cattedrale nel
deserto”, più facilmente influenzabile, perciò, dalle
politiche governative, ora liberiste, ora protezioniste, e dalle
crisi economiche cicliche del capitalismo.[7]
Peraltro, un vero e proprio mercato economico unico nazionale, a cui
l’industria meridionale si possa rivolgere, non esiste al momento
dell’unificazione, attesa la frammentazione politica vissuta dalla
penisola fino a quel momento e la situazione di arretratezza
economica complessiva. Di conseguenza, la politica economica dei
governi, tesa a creare infrastrutture (strade e ferrovie) necessarie
a realizzare l’obbiettivo, non riuscirà che a creare solo le
premesse per lo sviluppo di un mercato unico, il quale dovrà
attendere altri avvenimenti per cominciare a realizzarsi e,
comunque, anche quando si realizzerà, vedrà il Sud in
posizione di semi-colonia rispetto al Nord del paese.
A proposito della questione meridionale è opportuno riferire
delle idee espresse da R.Romeo in alcuni articoli apparsi sulla
rivista Nord-Sud, alla fine degli anni ’50, e poi riprese nel volume
Risorgimento e capitalismo, edito da Laterza nel 1970, in aperta
polemica con Gramsci .
Le tesi di Romeo, che pure contengono imprecisioni e travisamenti
della teoria marxista e delle opinioni di Gramsci, come
puntigliosamente documentato da Aurelio Macchioro [8], per il loro
contenuto si possono sintetizzare, grosso modo, così:
1. non era possibile dare uno sbocco al processo unitario diverso da
quello che realmente esso assunse (stato autoritario, compressione
al Sud delle esigenze del capitalismo industriale ed agrario e
salvaguardia della rendita parassitaria) per i rapporti di forza
internazionali, che avrebbero impedito una rivoluzione in Italia con
caratteristiche politico-economiche più avanzate;
2. l’accumulazione-utilizzo delle risorse finanziarie, necessarie
allo sviluppo industriale, che si ebbe nella seconda metà del
secolo XIX, doveva necessariamente essere pagata e sopportata dalle
masse popolari italiane, che per l’epoca voleva dire contadine,
perché non si poteva fare diversamente di come si fece.
Eppoi, da sempre ed in tutti i paesi, non è forse avvenuta la
stessa cosa ? (Vedi il processo di accumulazione
originaria-primitiva in Inghilterra, descritto da Marx nel I volume
del Capitale, ma anche il processo di industrializzazione nell’URSS
di Stalin);
3. i sacrifici affrontati ieri, saranno compensati dallo sviluppo
industriale meridionale del domani (!), reso possibile dallo
sviluppo industriale al Nord.
In premessa, vorrei dire che, sotto il profilo del metodo,
l’impostazione di Romeo mi sembra viziata da una sorta di
“determinismo storico”, che, guardando gli avvenimenti passati col
“senno di poi”, rende tutto il reale razionale, per il semplice
fatto di essere accaduto, sterilizzando, così, il contributo
che “l’elemento soggettivo” apporta sempre allo sviluppo degli
avvenimenti.
Si giunge così a sopravvalutare l’apporto dato dai fattori
internazionali (rapporti fra le potenze europee) nel processo che
portò al raggiungimento dell’obbiettivo di creare lo Stato
Unitario, ridimensionando, invece, il “fattore interno”, il ruolo,
cioè, esercitato dalle forze politiche e sociali italiane,
che furono unite nello scopo comune, anche se differenziate sul modo
come raggiungerlo, e dimenticando che gli avvenimenti storici del
passato e quelli politici del presente sono sempre il frutto di un
punto di equilibrio fra le potenzialità di una situazione
oggettiva e l’intervento umano che, con la sua soggettività,
quelle potenzialità trasforma in effetto.
La polemica di Romeo con Gramsci credo, poi, che risenta in qualche
modo del dibattito politico su industrializzazione e Mezzogiorno,
che si andava sviluppando negli anni ’50, quando Romeo scrisse i
primi saggi, e che vedeva il Partito Comunista impegnato a
rivendicare, forte dell’insegnamento gramsciano, uno sviluppo
economico per il Sud del Paese, che facesse finalmente giustizia dei
rapporti produttivi arretrati in agricoltura e lo attrezzasse con un
apparato industriale degno di questo nome.
Si potrebbero spiegare, forse, così i richiami
all’accumulazione primitiva descritta da Marx ed
all’industrializzazione in Urss, che nella logica del Romeo
avrebbero dovuto togliere, con la loro autorevolezza,
credibilità alle tesi avverse, spesso bollate di
“dottrinarismo ed astrattismo”. Queste tesi saranno definitivamente
sconfessate, secondo Romeo, dallo sviluppo economico in atto.
“L’inferiorità del mezzogiorno si presentò infatti per
un certo periodo, e sotto certi aspetti si presenta tuttora [1970],
come una condizione storica dello sviluppo del Nord, ma si tratta di
una condizione “temporanea” (anche se si è protratta per
molti decenni), e destinata ad essere rovesciata dallo stesso
sviluppo interno dell’industrialismo settentrionale”[!]
Peccato che queste opinioni, espresse da Romeo a conclusione del
volume citato, edito da Laterza nel 1970, si siano dimostrate, dopo
trentasette anni, completamente infondate, dato che il divario fra
le due realtà del nostro Paese, invece di ridursi, si
è ulteriormente allargato in questo periodo.
Infine, sulla tesi di Romeo circa una presunta ineluttabilità
del processo di accumulazione capitalistica in Italia, così
come si è realizzato dopo la formazione dello Stato unitario,
mi sembra chiarificante riportare quanto Gramsci stesso dice a
riguardo:
[…] “È giusto il criterio generale che occorra esaminare il
costo dell’introduzione di una certa industria nel paese, chi ne ha
fatto le spese, chi ne ha ricavato vantaggi e se i sacrifizi fatti
non potevano esserlo in altra direzione più utilmente, ma
tutto questo esame deve esser fatto con una prospettiva non
immediata, ma di larga portata. D’altronde il solo criterio
dell’utilità economica non è sufficiente per esaminare
il passaggio da una forma di organizzazione economica ad un’altra;
occorre tener conto anche del criterio politico, cioè se il
passaggio sia stato obbiettivamente necessario e corrispondente a un
interesse generale certo, anche se a scadenza lunga.
Che l’unificazione della penisola dovesse costare sacrifizi a una
parte della popolazione per le necessità inderogabili di un
grande Stato moderno è da ammettere; però occorre
esaminare se tali sacrifici sono stati distribuiti equamente e in
che misura potevano essere risparmiati e se sono stati applicati in
una direzione giusta. Che l’introduzione e lo sviluppo del
capitalismo in Italia non sia avvenuto da un punto di vista
nazionale, ma da angusti punti di vista regionali e di ristretti
gruppi e che abbia in gran parte fallito ai suoi compiti,
determinando un’emigrazione morbosa, mai riassorbita e di cui mai
è cessata la necessità, e rovinando economicamente
intere regioni, è certissimo. L’emigrazione infatti deve
essere considerata come un fenomeno di disoccupazione assoluta da
una parte, e dall’altra come manifestazione del fatto che il regime
economico interno non assicurava uno standard di vita che si
avvicinasse a quello internazionale tanto da non far preferire i
rischi e i sacrifizi connessi con l’abbandono del proprio paese a
lavoratori già occupati).”[9]
“Questione operaia”, “questione meridionale”, che è poi la
questione dei contadini, e “questione Vaticana”, sono le tre spine
nel fianco dello Stato Italiano, alle prese con una carenza di
consensi, che si porta dietro dalla nascita, che ne mina
costantemente la stabilità, spingendo le classi dominanti a
ricercare nel conflitto e nella repressione la via d’uscita ai
contrasti sociali.
I Governi di fine secolo XIX, Crispi, Rudinì e Pelloux, sono
la più chiara espressione di questa politica, che, nonostante
la violenza repressiva e le misure liberticide adottate (per il
Governo Pelloux si parlerà di fallito “colpo di Stato”), non
si dimostra in grado di venire a capo delle costanti agitazioni.
Chi tenterà di adottare un metodo diverso per risolvere le
contraddizioni sociali, sarà G. Giolitti, che
governerà l’Italia quasi ininterrottamente per il primo
quindicennio del nuovo secolo, tanto da far parlare gli storici di
“età giolittiana”, con riferimento alla diversità ed
al lungo periodo della sua gestione del potere.
Convinto di poter gestire con la trattativa i conflitti sociali,
avendo di fronte masse organizzate, come erano quelle operaie nei
sindacati, e di dover far ricorso alla forza pubblica di fronte a
“masse inorganiche”, come erano quelle contadine, Giolitti punta ad
un’alleanza fra industriali del nord ed operai, finalizzata alla
realizzazione di una legislazione che renda migliori le condizioni
lavorative operaie, chiedendo in cambio ai capi socialisti un
sostegno alla politica statale di tipo protezionistico verso la
grande industria.
[…] “…il programma di Giolitti e dei liberali democratici tendeva a
creare nel Nord un blocco «urbano» (di industriali e
operai) che fosse la base di un sistema protezionistico e
rafforzasse l’economia e l’egemonia settentrionale.
Il Mezzogiorno era ridotto a un mercato di vendita semicoloniale, a
una fonte di risparmio e di imposte ed era tenuto
«disciplinato» con due serie di misure: misure
poliziesche di repressione spietata di ogni movimento di massa con
gli eccidi periodici di contadini (nella commemorazione di Giolitti,
scritta da Spectator – Missiroli – nella «Nuova
Antologia» si fa le meraviglie perché Giolitti si sia
sempre strenuamente opposto a ogni diffusione del socialismo e del
sindacalismo nel Mezzogiorno, mentre la cosa è naturale e
ovvia, poiché un protezionismo operaio – riformismo,
cooperative, lavori pubblici – è solo possibile se parziale;
cioè ogni privilegio presuppone dei sacrificati e spogliati);
misure poliziesche-politiche: favori personali al ceto degli
«intellettuali» o paglietta, sotto forma di impieghi
nelle pubbliche amministrazioni, di permessi di saccheggio impunito
delle amministrazioni locali, di una legislazione ecclesiastica
applicata meno rigidamente che altrove, lasciando al clero la
disponibilità di patrimoni notevoli ecc., cioè
incorporamento a «titolo personale» degli elementi
più attivi meridionali nel personale dirigente statale, con
particolari privilegi «giudiziari», burocratici ecc.
Così lo strato sociale che avrebbe potuto organizzare
l’endemico malcontento meridionale, diventava invece uno strumento
della politica settentrionale, un suo accessorio di polizia privata.
Il malcontento non riusciva, per mancanza di direzione, ad assumere
una forma politica normale e le sue manifestazioni, esprimendosi
solo in modo caotico e tumultuario, venivano presentate come
«sfera di polizia» giudiziaria. In realtà a
questa forma di corruzione aderivano sia pure passivamente e
indirettamente uomini come il Croce e il Fortunato per la concezione
feticistica dell’«unità»….”[10]
La politica di Giolitti viene resa possibile dalla fase e di
sviluppo industriale vertiginoso, che l’Italia conosce a partire
dagli ultimi anni dell’800, dopo aver sofferto la crisi ciclica del
1887, e che durerà ininterrottamente fino al 1907, quando una
nuova crisi economica ciclica, che si manifesta nell’economia
capitalistica mondiale, ne rallenterà i ritmi di crescita.
“Si prevede un era di grandi affari e perciò ci si incammina,
senza tante esitazioni, verso crescenti investimenti, né ci
si preoccupa, come un tempo, di scioperi e richieste di
miglioramento, perché riesce piuttosto agevole soddisfare
queste ultime con i grossi margini dei grossi affari”[11]
A questa crescita industriale si aggiunge la stabilità e la
piena convertibilità con l’oro da parte della lira, garantita
anche dalle rimesse, che dall’estero cominciano ad inviare gli
emigrati, consentendo di avviare una politica statale di incremento
della spesa pubblica a sostegno della grande industria, ormai fusa
con l’alta finanza. L’età giolittiana corrisponderà al
periodo di maggior sviluppo del capitale finanziario.
Il Partito Socialista, diretto dai riformisti come Turati, sostiene
in Parlamento, insieme a democratici e radicali, la politica
giolittiana, fino a quando le condizioni economiche cambiano per
effetto della crisi economica internazionale, iniziata nel 1907,
fino a quando le spese militari dell’avventura coloniale in Libia
non cominciano ad incidere pesantemente sul bilancio statale e nel
Partito Socialista la componente riformista viene messa in minoranza
dai massimalisti di C. Lazzari e dal distacco dei cosiddetti
“riformisti di destra” (Bissolati, Bonomi, ecc.), che avevano
appoggiato la guerra coloniale.
“[…[ Il programma di Giolitti fu «turbato» da due
fattori: 1) l’affermarsi degli intransigenti nel partito socialista
sotto la direzione di Mussolini e il loro civettare coi
meridionalisti (libero scambio, elezioni di Molfetta ecc.), che
distruggeva il blocco urbano settentrionale; 2) l’introduzione del
suffragio universale che allargò in modo inaudito la base
parlamentare del Mezzogiorno e rese difficile la corruzione
individuale (troppi da corrompere alla liscia e quindi apparizione
dei mazzieri).
Giolitti mutò «partenaire», al blocco urbano
sostituì (o meglio contrappose per impedirne il completo
sfacelo) il «patto Gentiloni», cioè, in
definitiva, un blocco tra l’industria settentrionale e i rurali
della campagna «organica e normale» (le forze elettorali
cattoliche coincidevano con quelle socialiste geograficamente: erano
diffuse cioè nel Nord e nel Centro) con estensione degli
effetti anche nel Sud, almeno nella misura immediatamente
sufficiente per «rettificare» utilmente le conseguenze
dell’allargamento della massa elettorale.”[12]
Alla fine “l’età giolittiana” non modificò la
composizione del blocco di potere che aveva governato l’Italia fino
a quel momento, chè, anzi, rafforzando il capitale
finanziario, dette maggior peso all’interno di quel blocco alla
grande industria ed all’alta finanza, senza, peraltro,
ridimensionare la presenza degli agrari; né segnò un
cambiamento radicale dei metodi di gestione del potere perché
si guardò bene dal
“[…]…distruggere le vecchie consorterie e cricche particolaristiche,
che vivevano parassitariamente sulla polizia statale che difendeva i
loro privilegi e il loro parassitismo e determinare una più
larga partecipazione di «certe» masse alla vita statale
attraverso il Parlamento.
Bisognava, per Giolitti, che rappresentava il Nord e l’industria del
Nord, spezzare la forza retriva e asfissiante dei proprietari
terrieri, per dare alla nuova borghesia più largo spazio
nello Stato, e anzi metterla alla direzione dello Stato. Giolitti
ottenne questo con le leggi liberali sulla libertà di
associazione e di sciopero ed è da notare come nelle sue
Memorie egli insista specialmente sulla miseria dei contadini e
sulla grettezza dei proprietari. Ma Giolitti non creò nulla:
egli «capì» che occorreva concedere a tempo per
evitare guai peggiori e per controllare lo sviluppo politico del
paese e ci riuscì.
In realtà Giolitti fu un grande conservatore e un abile
reazionario, che impedì la formazione di un’Italia
democratica, consolidò la monarchia con tutte le sue
prerogative e legò la monarchia più strettamente alla
borghesia attraverso il rafforzato potere esecutivo che permetteva
di mettere al servizio degli industriali tutte le forze economiche
del paese. È Giolitti che ha creato così la struttura
contemporanea dello Stato Italiano e tutti i suoi successori non
hanno fatto altro che continuare l’opera sua, accentuando questo o
quell’elemento subordinato.
Che Giolitti abbia screditato il parlamentarismo è vero, ma
non proprio nel senso che sostengono molti critici: Giolitti fu
antiparlamentarista, e sistematicamente cercò di evitare che
il governo diventasse di fatto e di diritto un’espressione
dell’assemblea nazionale (che in Italia poi era imbelle per
l’esistenza del Senato così come è organizzato);
così si spiega che Giolitti fosse l’uomo delle «crisi
extraparlamentari».”[13]
[1] Pietro Grifone, Il capitale finanziario in Italia. Ed. Einaudi
1971, pag.14
[2] De Bernardi-Guarracino L’operazione storica. Ed.Bruno Mondadori
vol.3 pag.671
[3] G. Salvemini, Introduzione a L’età giolittiana di
A.W.Salomone. La Nuova Italia Firenze 1988.Pagg.XII-XIII
[4] A.Gramsci, Quaderni del carcere. Edizione critica a cura di V.
Gerratana. Ed.Einaudi 1975 pagg.2057-8
[5] Più recentemente ha sostenuto questa tesi N.Zitara in
L’unità d’Italia: nascita di una colonia, Milano, Jaca Book,
1971.
[6] Rodolfo Morandi: Storia della grande industria in Italia.
Einaudi. Torino 1966, pag.278
[7] La politica economica di costruire “cattedrali nel deserto”, fu
quella seguita dai governi di centro-sinistra negli anni 1950-60,
quando si impegnò capitale pubblico per realizzare
insediamenti industriali nel Sud, nell’illusione che questo avrebbe
innescato di per sé un meccanismo di sviluppo economico,
senza pensare ad una modifica dei rapporti produttivi
dell’agricoltura meridionale. In realtà queste industrie,
realizzando una produzione staccata dalle esigenze del territorio ed
indirizzata a mercati esteri, furono rese vulnerabili alle
contingenze economiche internazionali e con la crisi degli anni ’70
ad una ad una chiusero, senza lasciare un retroterra di indotto
economico, che modificasse in permanenza la realtà
economico-sociale meridionale.
[8] Vedi A.Macchioro, Risorgimento, capitalismo e metodo storico, in
Rivista Storica del socialismo, lug.- dic. 1959, ripubblicato nella
raccolta di suoi saggi Studi di storia del pensiero economico ed
altri saggi. Ed.Feltrinelli, Milano, 1970 pagg.699-741
[9] A.Gramsci, Op.cit.. pag.1992
[10] A.Gramsci, Op.cit.. pagg.2038-9
[11] Pietro Grifone, Op.cit. pag.14
[12] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2039
[13] A.Gramsci, Op.cit.. pagg.997-8
Capitolo IX
I primi cinquant’anni di vita dello Stato sono segnati, come si
è detto, da uno sviluppo economico del Paese, che modifica la
composizione organica del blocco storico-sociale al potere, ponendo
in primo piano la borghesia industriale, rispetto all’aristocrazia
agraria ed al latifondo.
I primi quindici anni del secolo XX mettono in luce un nuovo
fenomeno economico, il capitale finanziario, costituito dalla
concentrazione in poche mani del capitale industriale, da un lato, e
di quello bancario, dall’altro, e dalla compenetrazione reciproca di
questi due settori, un fenomeno che ben presto egemonizza la vita
politica, determinandone le scelte.
Le tre questioni fondamentali dello Stato italiano (questione
operaia, vaticana e meridionale), scaturite dal modo in cui il
processo risorgimentale è stato condotto, sono anche le
ragioni della debolezza strutturale dello Stato, dato lo scarso
consenso popolare di cui gode.
Il coinvolgimento dell’Italia nella I Guerra mondiale, voluto dal
capitale finanziario, renderà ancor più instabile
l’equilibro di forze su cui si era retto tutto il sistema di potere
fino a quel momento, aprendo così la strada ad avventure, che
Gramsci nei Quaderni del carcere definisce “cesaristiche”, le quali
tenteranno di ricomporre l’equilibrio su basi nuove.
L’Italia entra nel conflitto nel 1915, nove mesi dopo il suo
scoppio, non senza contraddizioni laceranti fra neutralisti ed
interventisti.
Nel primo schieramento, oltre ad operai e la gran parte dei
contadini, anche
“…[f]razioni notevoli di grande borghesia industriale (industria
leggera e di esportazione), quasi tutta la media, gli agrari specie
del Sud, sono per la neutralità perchè prevedono che
la guerra rafforzi il predominio del binomio Alta Banca-Industria
pesante.”[1]
Sul piano politico sono perché l’Italia resti neutrale nel
conflitto il grosso delle forze socialiste, che nel giugno del 1914
danno vita ad Ancona e nelle Marche alla cosiddetta “settimana
rossa”, grosse manifestazioni scaturite dalla brutale repressione di
un comizio anti-militarista; la Chiesa cattolica, ostile alla
guerra, non solo per ragioni ideali, ma anche per la preoccupazione
di una possibile rottura dell’unità religiosa in Europa;
infine, i liberali giolittiani, preoccupati per le ripercussioni
economico-sociali delle enormi spese militari.
Sul fronte opposto sono i magnati dell’industria “pesante” e
dell’alta Banca che nell’intervento statale per finanziare lo sforzo
bellico intravedono la possibilità di grandi profitti, in
misura più ridotta assaporati nei primi nove mesi di
“neutralità forzata”, attraverso le forniture di materiale
militare ai Paesi già in conflitto.
Sul piano politico il fronte interventista comprende: i
nazionalisti, costituitisi in partito nel 1910, con un programma
dichiaratamente antidemocratico ed antisocialista, che auspicano
l’intervento militare, perché l’Italia possa essere
considerata una delle grandi potenze; i liberali di Amendola ed i
socialisti di Bissolati, che vedono nell’intervento militare contro
l’Austria la IV Guerra d’Indipendenza, per l’acquisizione al
territorio patrio di Trieste e Trento; i liberali di Salandra e
Sonnino, che hanno sostituito Giolitti al governo; infine, lo
sparuto gruppo dei cosiddetti “rivoluzionari”, fra cui vi è
Mussolini, che, espulso dal Partito Socialista per il suo
interventismo, apre, con i soldi ricevuti dai capitalisti francesi
ed italiani, il giornale Popolo d’Italia, dalle cui colonne inizia a
novembre del 1914 una forsennata campagna per l’entrata in guerra
dell’Italia a fianco dell’Intesa.
Non è questa la sede per analizzare approfonditamente le
ragioni che consentono ad uno schieramento sociale e politico
“minoritario” di far prevalere sulla maggioranza del Paese la
decisione di entrare in guerra, decisione che il popolo italiano
pagherà con enormi costi umani ed economici.
Qui però è d’uopo evidenziare schematicamente solo
alcuni punti, in continuità con quanto scritto innanzi:
La scelta bellicista rende evidente il peso politico ormai raggiunto
dal capitale finanziario italiano nel blocco economico-sociale che
regge lo Stato e la guerra costituirà un’occasione d’oro per
il suo rafforzamento e per l’asservimento dello Stato e del suo
apparato alle sue necessità.
Nelle operazioni tese ad imporre scelte politiche importanti, ancor
più se antipopolari, come lo è la guerra, si rivelano
fondamentali strumenti nuovi, come partiti e giornali, a
dimostrazione dell’importanza che va assumendo nella società
moderna la ricerca del consenso, mentre in un periodo precedente,
come il Risorgimento, a questa questione non si prestava particolare
attenzione.
La struttura autoritaria ed elitaria delle massime istituzioni
statali italiane, che non gode del consenso popolare e non prevede,
come in una normale democrazia, il ruolo centrale del Parlamento, ma
anzi ne registra la subordinazione al potere Esecutivo
(Monarchia-Governo), si rivela strumento ottimale per imporre
“legalmente” alla nazione una volontà, che non è
quella della maggioranza del popolo italiano.
I primi anni del conflitto mettono in luce l’impreparazione dei
comandi militari e dell’apparato produttivo italiani di fronte
all’impegno bellico. Ma il 1917 sarà l’anno nero per tutte le
nazioni dell’Intesa ed in particolare per l’Italia. La caduta dello
Zar e la rivoluzione in Russia consentono agli imperi Centrali di
smobilitare dal fronte orientale gran parte delle proprie truppe,
per concentrarle su quello occidentale e meridionale.
Alla fine di ottobre del 1917 a Caporetto si verifica una vera e
propria disfatta per l’esercito italiano, che si sbanda
completamente, ripiegando disordinatamente, senza la guida dei
propri comandanti, che, intanto, si sono dati alla fuga, e con il
suo sbandamento consente all’esercito austro-tedesco di spingersi
fino al Piave, catturando moltissimi prigionieri e impossessandosi
di un enorme quantità di materiale bellico.
Oltre alle responsabilità gravissime del comando supremo
militare italiano, che al vertice ha il generale Cadorna, un
ufficiale senza scrupoli che ordina ai reparti scelti dei
Carabinieri di sparare sulle truppe italiane in ritirata (come,
peraltro, era costume fare durante tutta la guerra), e dei singoli
comandanti che, come Badoglio, non esitano a lasciare in balia di
sé stesse le truppe sotto il loro comando, anticipandone la
fuga, occorre ribadire le ragioni politico-sociali alla base della
disfatta, che rimandano allo scollamento storico fra masse popolari
e vertici statali, di cui i vertici militari sono una componente.
A questo distacco storico si aggiunge la situazione contingente di
due anni e mezzo di trincea, che, per l’abbrutimento che comporta,
se è vero che ha attutito (se non del tutto spento per
rassegnazione) ogni opposizione attiva ad una scelta bellicista,
prima imposta senza alcun consenso ed ora percepita come una
insopportabile sottrazione di braccia e vite umane al reddito della
propria famiglia, non ha, però, cancellato nell’operaio del
Nord o nel contadino del Sud il desiderio di tornare alla propria
casa, disertando.
Di Caporetto, delle ragioni politico-sociali e militari della
disfatta, delle conseguenze per l’Italia, anche con riferimento alla
sua ”affidabilità” militare in previsione di coalizioni
belliche future, Gramsci parla in queste pagine dei Quaderni:
“[…] Caporetto fu essenzialmente un «infortunio
militare»; che il Volpe abbia dato [nel libro Ottobre 1917.
Dall’Isonzo al Piave n.d.r.], con tutta la sua autorità di
storico e di uomo politico, a questa formula il valore di un luogo
comune soddisfa molta gente che sentiva tutta l’insufficienza
storica e morale (l’abbiezione morale) della polemica su Caporetto
come «crimine» dei disfattisti o come «sciopero
militare»….
La responsabilità storica deve essere cercata nei rapporti
generali di classe in cui soldati, ufficiali di complemento e stati
maggiori occupano una posizione determinata, quindi nella struttura
nazionale, di cui sola responsabile è la classe dirigente
appunto perché dirigente (vale anche qui l’«ubi maior,
minor cessat»). Ma questa critica, che sarebbe veramente
feconda, anche dal punto di vista nazionale, brucia le dita.”[2]
“[…]sul significato di Caporetto bisognerebbe fissare alcuni punti
chiari e precisi:
1) Caporetto fu un fatto puramente militare? Questa spiegazione pare
ormai acquisita agli storici della guerra, ma essa è basata
su un equivoco. Ogni fatto militare è anche un fatto politico
e sociale. Subito dopo la sconfitta si cercò di diffondere la
convinzione che le responsabilità politiche di Caporetto
fossero da ricercare nella massa militare, cioè nel popolo e
nei partiti che ne erano l’espressione politica.
Questa tesi è oggi universalmente respinta, anche
ufficialmente. Ma ciò non vuol dire che Caporetto
perciò solo diventi puramente militare, come si tende a far
credere, come se fattore politico fosse solo il popolo, cioè
i responsabili della gestione politico-militare. Anche se fosse
dimostrato (come invece si esclude universalmente) che Caporetto sia
stato uno «sciopero militare», ciò non vorrebbe
dire che la responsabilità politica debba essere accollata al
popolo ecc. (dal punto di vista giudiziario può spiegarsi, ma
il punto di vista giudiziario è un atto di volontà
unilaterale tendente a integrare col terrorismo l’insufficienza
governativa): storicamente, cioè dal punto di vista politico
più alto, la responsabilità sarebbe sempre dei
governanti, e della loro incapacità a prevedere che
determinati fatti avrebbero potuto portare allo sciopero militare e
quindi a provvedere a tempo, con misure adeguate (sacrifici di
classe) a impedire una tale possibile emergenza.
Che ai fini immediati di psicologia della resistenza, in caso di
forza maggiore, si affermi che «occorre rompere i reticolati
coi denti» è comprensibile, ma che si abbia la
convinzione che in ogni caso i soldati debbano rompere i reticolati
coi denti, perché così vuole l’astratto dovere
militare, e si trascuri di provvederli delle tenaglie, è
criminoso. Che si abbia la convinzione che la guerra non si fa senza
vittime umane è comprensibile, ma che non si tenga conto che
le vite umane non debbono essere sacrificate inutilmente, è
criminoso ecc.
Questo principio, dal rapporto militare si estende al rapporto
sociale. Che si abbia la convinzione, e la si sostenga senza
limitazioni, che la massa militare debba fare la guerra e
sopportarne tutti i sacrifizi, è comprensibile, ma che si
ritenga che ciò avverrà in ogni caso senza tener conto
del carattere sociale della massa militare e senza venire incontro
alle esigenze di questo carattere, è da semplicioni,
cioè da politici incapaci.
2) Così la responsabilità, se è esclusa quella
della massa militare, non può neanche essere del capo
supremo, cioè di Cadorna, oltre certi limiti, cioè
oltre i limiti segnati dalle possibilità di un capo supremo,
della tecnica militare, e delle attribuzioni politiche che un capo
supremo ha in ogni caso.
Cadorna ha avuto gravi responsabilità, certamente, sia
tecniche che politiche, ma queste ultime non possono essere state
decisive. Se Cadorna non ha capito la necessità di un
«governo politico determinato» delle masse comandate e
non le ha esposte al governo, è certo responsabile, ma non
quanto il governo e in generale quanto la classe dirigente, di cui,
in ultima analisi, ha espresso la mentalità e la comprensione
politica. Il fatto che non ci sia stata una analisi obbiettiva dei
fattori che hanno determinato Caporetto e un’azione concreta per
eliminarli, dimostra «storicamente» questa
responsabilità estesa.
3) L’importanza di Caporetto nel decorso dell’intera guerra. La
tendenza attuale tende a diminuire il significato di Caporetto e a
farne un semplice episodio del quadro generale. Questa tendenza ha
un significato politico e avrà delle ripercussioni politiche
nazionali e internazionali: dimostra che non si vogliono eliminare i
fattori generali che hanno determinato la sconfitta, ciò che
ha un peso nel regime delle alleanze e nelle condizioni che saranno
fatte al paese nel caso di una nuova combinazione bellica,
poiché le critiche di se stessi che [non] si vogliono fare
nel campo nazionale per evitare determinate conseguenze necessarie
all’indirizzo politico-sociale, saranno fatte indubbiamente dagli
organismi responsabili degli altri paesi in quanto l’Italia è
presunta poter far parte di alleanze belliche. Gli altri paesi, nei
calcoli in vista di alleanze, dovranno tener conto di nuovi
Caporetto e vorranno dei premi di assicurazione, cioè
vorranno l’egemonia anche oltre certi limiti.
4) L’importanza di Caporetto nel quadro della guerra mondiale.
È data anche dai mezzi forniti al nemico (tutti i magazzini
di viveri e di munizioni ecc.) che permisero una più lunga
resistenza, e la necessità imposta agli alleati di
ricostituire questi depositi con turbamento di tutti i servizi e
piani generali….
Dopo Caporetto l’Italia, materialmente (per gli armamenti, per gli
approvvigionamenti, ecc.) cadde in balia degli alleati, la cui
attrezzatura economica non era paragonabile per efficienza.
L’assenza di autocritica significa non volontà di eliminare
le cause del male ed è quindi un sintomo di grave debolezza
politica.”[3]
Alla conclusione del conflitto le contraddizioni sociali, che nel
triennio 1915-1918 erano rimaste forzatamente sopite, come in una
pentola a pressione scoppiano rendendo più instabile e
precario l’equilibrio su cui si fonda il dominio delle classi al
potere, inasprendo le tre questioni irrisolte, che già
rappresentavano le spine nel fianco del sistema di potere.
I contadini, che avevano maturato in guerra una coscienza comune dei
propri interessi ed a cui era stato promesso la ripartizione delle
terre, al fine di coinvolgerli nello scontro dopo le disfatte
militari, cominciano ad occupare le terre, a partire dal Meridione,
guidati dalla Federterra, organismo sindacale del partito
Socialista.
La preoccupazione di perdere il controllo delle masse contadine a
favore delle forze socialiste spinge la Chiesa ad abbandonare
l’atteggiamento precedente di ostilità/neutralità
verso lo Stato italiano, concretizzatosi nella formula del non
expedit, per passare ad una partecipazione alla vita politica
più diretta di quella attuata con il Patto Gentiloni,
attraverso la costituzione nel 1919 del Partito Popolare Italiano.
Infine, nelle fabbriche la classe operaia, cresciuta numericamente
per effetto della crescita dell’industria bellica, di fronte
all’occupazione delle terre e di fronte all’esempio che viene dalla
Russia, occupa le fabbriche, ponendo indirettamente il problema di
un nuovo blocco sociale per la conquista del potere politico.
“[…] Ma intanto i fatti «spontanei» avvenivano
(1919-1920), ledevano interessi, disturbavano posizioni acquisite,
suscitavano odi terribili anche in gente pacifica, facevano uscire
dalla passività strati sociali stagnanti nella putredine:
creavano, appunto per la loro spontaneità e per il fatto che
erano sconfessati, il «panico» generico, la
«grande paura» che non potevano non concentrare le forze
repressive spietate nel soffocarli.”[4]
Le elezioni che si svolgono nel 1919 sono la fotografia di questa
situazione esplosiva. Esse si differenziano per i risultati politici
che producono da quelle del 1913.
“[…] L’elezione del 1913 è la prima con caratteri popolari
spiccati per la larghissima partecipazione dei contadini; quella del
1919 è la più importante di tutte per il carattere
proporzionale e provinciale del voto che obbliga i partiti a
raggrupparsi e perché in tutto il territorio, per la prima
volta, si presentano gli stessi partiti con gli stessi
(all’ingrosso) programmi. In misura molto maggiore e più
organica che nel 1913 (quando il collegio uninominale restringeva le
possibilità e falsificava le posizioni politiche di massa per
l’artificiosa delimitazione dei collegi) nel 1919 in tutto il
territorio, in uno stesso giorno, tutta la parte più attiva
del popolo italiano si pone le stesse quistioni e cerca di
risolverle nella sua coscienza storico-politica.
Il significato delle elezioni del 1919 è dato dal complesso
di elementi «unificatori», positivi e negativi, che vi
confluiscono: la guerra era stata un elemento unificatore di primo
ordine in quanto aveva dato la coscienza alle grandi masse
dell’importanza che ha anche per il destino di ogni singolo
individuo la costruzione dell’apparato governativo, oltre all’aver
posto una serie di problemi concreti, generali e particolari, che
riflettevano l’unità popolare-nazionale.
Si può affermare che le elezioni del 1919 ebbero per il
popolo un carattere di Costituente (questo carattere lo ebbero anche
le elezioni del 1913, come può ricordare chiunque abbia
assistito alle elezioni nei centri regionali dove maggiore era stata
la trasformazione del corpo elettorale e come fu dimostrato
dall’alta percentuale di partecipazione al voto: era diffusa la
convinzione mistica che tutto sarebbe cambiato dopo il voto, di una
vera e propria palingenesi sociale: così almeno in Sardegna)
sebbene non l’abbiano avuto per «nessun» partito del
tempo: in questa contraddizione e distacco tra il popolo e i partiti
è consistito il dramma storico del 1919, che fu capito
immediatamente solo da alcuni gruppi dirigenti più accorti e
intelligenti (e che avevano più da temere per il loro
avvenire). ….
Il popolo, a suo modo, guardava all’avvenire (anche nella quistione
dell’intervento in guerra) e in ciò è il carattere
implicito di costituente che il popolo diede alle elezioni del 1919;
i partiti guardavano al passato (solo al passato) concretamente e
all’avvenire «astrattamente»,
«genericamente», come «abbiate fiducia nel vostro
partito» e non come concezione storico-politica
costruttiva.”[5]
Dopo le elezioni del ’19, dopo il “biennio rosso”(1919-20), si viene
a determinare una situazione di crisi, foriera di soluzioni
autoritarie e liberticide.
Gramsci così la descrive:
“[…] A un certo punto della loro vita storica i gruppi sociali si
staccano dai loro partiti tradizionali, cioè i partiti
tradizionali in quella data forma organizzativa, con quei
determinati uomini che li costituiscono, li rappresentano e li
dirigono non sono più riconosciuti come loro espressione
dalla loro classe o frazione di classe.
Quando queste crisi si verificano, la situazione immediata diventa
delicata e pericola, perché il campo è aperto alle
soluzioni di forza, all’attività di potenze oscure
rappresentate dagli uomini provvidenziali o carismatici. Come si
formano queste situazioni di contrasto tra rappresentanti e
rappresentati, che dal terreno dei partiti (organizzazioni di
partito in senso stretto, campo elettorale-parlamentare,
organizzazione giornalistica) si riflette in tutto l’organismo
statale, rafforzando la posizione relativa del potere della
burocrazia (civile e militare), dell’alta finanza, della Chiesa e in
generale di tutti gli organismi relativamente indipendenti dalle
fluttuazioni dell’opinione pubblica?
In ogni paese il processo è diverso, sebbene il contenuto sia
lo stesso. E il contenuto è la crisi di egemonia della classe
dirigente, che avviene o perché la classe dirigente ha
fallito in qualche sua grande impresa politica per cui ha domandato
o imposto con la forza il consenso delle grandi masse (come la
guerra) o perché vaste masse (specialmente di contadini e di
piccoli borghesi intellettuali) sono passati di colpo dalla
passività politica a una certa attività e pongono
rivendicazioni che nel loro complesso disorganico costituiscono una
rivoluzione.
Si parla di «crisi di autorità» e ciò
appunto è la crisi di egemonia, o crisi dello Stato nel suo
complesso.
La crisi crea situazioni immediate pericolose, perché i
diversi strati della popolazione non possiedono la stessa
capacità di orientarsi rapidamente e di riorganizzarsi con lo
stesso ritmo. La classe tradizionale dirigente, che ha un numeroso
personale addestrato, muta uomini e programmi e riassorbe il
controllo che le andava sfuggendo con una celerità maggiore
di quanto avvenga nelle classi subalterne; fa magari dei sacrifizi,
si espone a un avvenire oscuro con promesse demagogiche, ma mantiene
il potere, lo rafforza per il momento e se ne serve per schiacciare
l’avversario e disperderne il personale di direzione, che non
può essere molto numeroso e molto addestrato. Il passaggio
delle truppe di molti partiti sotto la bandiera di un partito unico
che meglio rappresenta e riassume i bisogni dell’intera classe
è un fenomeno organico e normale, anche se il suo ritmo sia
rapidissimo e quasi fulmineo in confronto di tempi tranquilli:
rappresenta la fusione di un intero gruppo sociale sotto un’unica
direzione ritenuta sola capace di risolvere un problema dominante
esistenziale e allontanare un pericolo mortale.
Quando la crisi non trova questa soluzione organica, ma quella del
capo carismatico, significa che esiste un equilibrio statico (i cui
fattori possono essere disparati, ma in cui prevale
l’immaturità delle forze progressive) che nessun gruppo,
né quello conservativo né quello progressivo, ha la
forza necessaria alla vittoria e che anche il gruppo conservativo ha
bisogno di un padrone (cfr Il 18 brumaio di Luigi Napoleone).”[6]
In un contesto storico-sociale, in cui due schieramenti, quello
progressista e quello regressivo, in lotta fra loro non riescono ad
aver ragione uno dell’altro, si apre la strada ad una soluzione
autoritaria, il fascismo, che si affermerà eliminando, senza
grosse difficoltà, quel poco di liberalismo costituzionale
che lo Stato post-unitario aveva mantenuto nelle proprie
istituzioni.
[1] Pietro Grifone, Il capitale finanziario in Italia. Ed. Einaudi
1971, pag.23
[2] A.Gramsci, Quaderni del carcere. Edizione critica a cura di V.
Gerratana. Ed.Einaudi 1975 pagg.736-7
[3] A.Gramsci, Op.cit.,pagg.740-2
[4] A.Gramsci, Op.cit.,pag.320
[5] A.Gramsci, Op.cit.,pagg.2005-6
[6] A.Gramsci, Op.cit.,pagg.1603-4