Vincenzo De Robertis

A. Gramsci e l’Unità d’Italia


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Indice:
Introduzione e bibliografia
Capitolo I
Capitolo II
Capitolo III
Capitolo IV
Capitolo V
Capitolo VI
Capitolo VII
Capitolo VIII
Capitolo IX
 
Un ringraziamento particolare a chi mi ha aiutato in questo mio lavoro: al Prof. Marcello Montanari, che ha tollerato la mia impostazione, senza opporre contestazioni, ed all’amico e compagno Prof. Andrea Catone, che mi ha aiutato per le citazioni di Gramsci.
 
Introduzione
 
Questo libro nasce dall’opportunità di approfondire il pensiero di A.Gramsci sul tema della formazione dello Stato Unitario italiano e del processo che la generò, il Risorgimento, in occasione della ricorrenza del 150° anniversario dell’Unità d’Italia.
 
L’attualità del pensiero gramsciano sul tema è data, non solo dalle contestazioni che oggi da più parti vengono sollevate, “ a posteriori”, sul modo attraverso cui si svolse il processo storico risorgimentale (si pensi, ad esempio, al giudizio negativo della Lega Nord su Garibaldi, oppure all’attuale rinascita di un “partito” filo-borbonico), ma anche dalla necessità di recuperare, sul piano dell’analisi storica, il filo rosso che lega le ragioni di un distacco marcato fra le grandi masse popolari italiane e lo Stato italiano, da sempre percepito come Ente estraneo.
 
Il materiale esposto è il frutto della ricerca messa in atto in occasione della elaborazione della mia tesi di laurea, nella quale analizzavo alcuni aspetti del pensiero politico di A.Gramsci, che mi è sembrato opportuno riproporre in questo libro.
 
In particolare, vengono messi a fuoco i concetti di Rivoluzione passiva, di Blocco storico-sociale e di Egemonia, così come A.Gramsci li ha espressi nella sua riflessione sul periodo che abbraccia tutto il Risorgimento, i primi decenni di vita dello Stato Unitario italiano, fino alla Grande Guerra ed alla nascita del fascismo; un periodo storico di quasi settant’anni che comprende la fase della presa del potere politico e del suo consolidamento da parte della borghesia italiana.
 
L’analisi del rapporto “struttura-sovrastruttura”
 
….è l’origine dell’attenzione che Gramsci dà alla storia del Risorgimento e a tutta la storia italiana. Egli ricerca nella storia del Risorgimento, ricerca nelle analisi sui differenti momenti della storia italiana, ricerca nell’analisi della funzione che hanno avuto gli intellettuali nella storia del nostro Paese…. una definizione dei rapporti di classe della società italiana più esatta di quelle che abitualmente si sogliono dare. Continuamente attento all’azione reciproca tra la struttura dei rapporti produttivi e le sovrastrutture (politiche, militari, organizzative, ideologiche, ecc.), giunge ad individuare quello che egli chiama il “blocco storico, le forze che lo dirigono ed i contrasti interiori che ne determinano il movimento.[1]
 
Seguendo, quindi, l’evoluzione degli avvenimenti storici, si esporrà l’analisi gramsciana delle condizioni internazionali e nazionali che consentirono (solo nella seconda metà del XIX secolo e non prima) di realizzare e portare a termine il processo unitario: i nuovi equilibri europei, la crisi egemonica del Papato in Europa ed in Italia, l’influsso sugli avvenimenti italiani della Rivoluzione francese e degli eserciti napoleonici.
 
Si prenderà, quindi, in considerazione il blocco storico-sociale che si rese protagonista del processo unitario: l’aristocrazia agraria e gli industriali del Nord unitamente agli agrari del Sud; l’esclusione dei contadini, sia al Nord, ma soprattutto al Sud, dalla partecipazione al Risorgimento; la caratteristica di “rivoluzione passiva” assunta dal processo, cioè un cambiamento radicale, operato dall’alto, senza il coinvolgimento delle masse popolari.
 
L’analisi gramsciana dei partiti protagonisti del processo risorgimentale: moderati e democratici; egemonia dei moderati sui democratici; debolezza del giacobinismo storico in Italia; mancanza di un programma agrario da parte del Partito d’Azione; mancanza di una rappresentanza politica autonoma da parte dei contadini.
 
Le “tare originarie” del processo unitario: questione meridionale, debolezza strutturale di rappresentanza del neonato Stato unitario, unitamente a debolezza economica della borghesia industriale italiana (“capitalismo straccione”), condizionano le vicende politiche dei primi decenni dello Stato liberale; la Destra storica e la Sinistra storica al Governo; il trasformismo fino a Giolitti, la nascita del Partito Socialista e lo scoppio della Grande Guerra, offrono ampia testimonianza delle difficoltà incontrate dal blocco storico dominante nell’esercizio del rapporto di dominio sulla restante parte della popolazione, rapporto sempre in bilico fra autoritarismo e democrazia a causa della mancanza di un consenso diffuso.
 
Infine, la grande guerra del ’15-’18, l’esperienza maturata dalle masse operaie e contadine in quella grande carneficina, i partiti politici nel dopo-guerra, le elezioni a “suffragio universale” del 1919, il nuovo protagonismo che si manifesta nelle occupazioni delle fabbriche e delle terre, la Rivoluzione bolscevica in Russia e la paura del comunismo, la conseguente crisi di egemonia delle classi dominanti, la “situazione di equilibrio delle forze ad evoluzione catastrofica”, i fenomeni di cesarismo; tutto ciò completa il quadro storico di riferimento.
 
Le fonti utilizzate sono i Quaderni del carcere ed, in particolare, il quaderno XIX. Ma anche gli scritti politici dal 1919 al 1926, dove maggiormente vengono evidenziate le caratteristiche assunte dalla rivoluzione borghese nel nostro Paese ed i problemi politici e sociali, che essa ha portato con sé.
 
La necessità di approfondire il pensiero gramsciano, sia attraverso la riflessione forzatamente “pacata” e formalmente a-sistematica, da lui effettuata in carcere, che attraverso gli scritti più marcatamente politici, pubblicati sui periodici di partito negli anni precedenti il suo arresto, poggia sulla convinzione che un nesso profondamente ed organicamente unitario leghi i due periodi di attività del dirigente comunista, il cui impegno politico resta la chiave di volta per interpretarne correttamente il pensiero.
 
Come considerare, a tale proposito, la ricerca fatta in carcere, se non come la naturale prosecuzione di quella battaglia, quasi subito avviata da Gramsci nel PCd’I – partito internazionalista per nascita e “vocazione” (sezione della III internazionale) - per la sua “nazionalizzazione”, battaglia mirata, cioè, ad ancorare l’azione del Partito alle condizioni concrete italiane, così come storicamente determinatesi, e finalizzata al suo radicamento nel Paese, come premessa di qualsiasi processo di trasformazione rivoluzionaria; battaglia che vide nel III Congresso di quel Partito, svoltosi a Lione, una tappa fondamentale ?
 
Rileggendo le “Tesi di Lione”, soprattutto le tesi dalla n. 4 alla n.18bis, dove viene dipinto il quadro della situazione economico-sociale dell’Italia di quel periodo e tratteggiato a grandi linee il percorso storico attraverso cui si pervenne a quella situazione, oppure lo scritto “Alcuni aspetti della questione meridionale”, come non rintracciare i temi poi approfonditi in tante riflessioni contenute nei Quaderni del carcere?
 
A questa impostazione metodologica e a questo approccio unitario al pensiero gramsciano mi sono attenuto in questo lavoro, condividendo ciò che a riguardo è stato espresso, in maniera molto più chiara e brillante, da P. Togliatti nei suoi “Appunti” in previsione del convegno di studi gramsciani, svoltosi nel ’58, su iniziativa dell’Istituto Gramsci:
 
[...] Gramsci fu un teorico della politica, ma soprattutto un politico pratico, cioè un combattente. La sua concezione della politica rifugge sia dalla strumentalità, sia dall’astratto moralismo o dalla elaborazione dottrinale astratta. Fare della politica significa agire per trasformare il mondo. Nella politica, quindi, è contenuta tutta la filosofia reale di ognuno, nella politica sta la sostanza della storia e, per il singolo che è giunto alla coscienza critica della realtà e del compito che gli spetta per trasformarla, sta anche la sostanza della sua vita morale. Nella politica è da ricercarsi l’unità della vita di A. Gramsci: il punto di partenza e di arrivo. La ricerca, il lavoro, la lotta, il sacrificio sono momenti di questa unità. [...] [F]are oggetto di indagine non soltanto le posizioni da G. elaborate e sostenute nel dibattito filosofico e di dottrina, ma la sua attività pratica, come uomo politico, fondatore e dirigente del partito di avanguardia della classe operaia italiana […] questo [è] il solo modo giusto di avvicinarsi all’opera di Gramsci e penetrarne il significato.[2]
 
Bibliografia
 
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P.Togliatti, Gramsci ed il leninismo.Associazione Culturale Marxista Roma 1987
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N.Zitara, L’unità d’Italia: nascita di una colonia. Jaca Book Milano 1971.   
 
 

[1]P.Togliatti, Gramsci ed il leninismo, Ed. a cura dell’Associazione Culturale Marxista, Roma, 1987, pp. 32-33
[2] P. Togliatti, op. cit., p. 5

Capitolo 1
 
Il dibattito sul Risorgimento si è sviluppato durante tutto il periodo di formazione dello Stato Unitario ed è continuato durante il fascismo e dopo. Fino ad un certo periodo e per certi aspetti esso può essere considerato una sorta di processo di “autocoscienza” della borghesia italiana circa le ragioni e le condizioni che le hanno consentito la presa del potere e la creazione dello Stato Unitario.
 
All’epoca in cui Gramsci si trova in carcere, il dibattito fra gli storici, ravvivato dalla pubblicazione di una serie di opere, fra cui La Storia d’Italia di B.Croce, pubblicata nel ’28, L’Età del Risorgimento di A. Omodeo del 1925, L’Italia in cammino di G. Volpe, pubblicata nel 1927, e varie altre di M. Missiroli, pubblicate pure nello stesso periodo, pone al centro principalmente la questione del fascismo, come continuazione o rottura rispetto allo Stato liberale, nato dal Risorgimento [1].
 
Nel carcere Gramsci, che pur non si sottrae alla riflessione sul tema, fa, però, a mio avviso, dell’analisi del Risorgimento un capitolo a se stante del più ampio libro sull’analisi della società italiana, che già aveva iniziato a “scrivere”, da libero, come dirigente comunista.
 
Per cui la riflessione sul processo rivoluzionario borghese, sui limiti di direzione politica mostrati dalle forze politiche democratiche in campo, segnatamente il Partito d’Azione, sulla base sociale limitata dello Stato unitario e la conseguente crisi permanente di consensi, sullo stesso fascismo, inteso e valutato, sia come reazione “cesaristica” ad una situazione critica di equilibrio di forze contrapposte, che, dopo il suo consolidamento, come sistema di potere incapace di attuare quelle riforme economiche necessarie all’Italia per superare la sfida alla modernizzazione economica, tutto ciò, e molto altro, diventa un patrimonio di spunti ed idee nella prospettiva di una attività politica futura, che potrà utilizzare lui stesso e l’intero Partito Comunista.
 
In altri termini, alla base di questo immane lavoro condotto in carcere vi era, a mio avviso, la convinzione che la storia, e soprattutto la storia del proprio paese, fosse un ammaestramento ineludibile per chiunque si accingesse a “fare come in Russia”.
 
Una delle questioni affrontata in varie note da Gramsci è quella della datazione del Risorgimento: da quale data, da quale periodo storico, cioè, deve prendere le mosse un’analisi del Risorgimento?
 
Strettamente legata a questa domanda ve ne è, poi, un’altra: è il Risorgimento un fenomeno prettamente italiano o si inserisce in un più ampio processo europeo?
 
Naturalmente la questione della datazione del Risorgimento non è problema di mera cronologia, quanto di valutazione storico-politica dell’epoca in cui si iscrivono determinati avvenimenti.
 
“ […] le origini del moto del Risorgimento, cioè del processo di formazione delle condizioni e dei rapporti internazionali che permetteranno all’Italia di riunirsi in nazione e alle forze interne nazionali di svilupparsi ed espandersi, non sono da ricercare in questo o quell’evento concreto registrato sotto una o un’altra data, ma appunto nello stesso processo storico per cui l’insieme del sistema europeo si trasforma. Questo processo intanto non è indipendente dagli eventi interni della penisola e dalle forze che in essa hanno la sede.”[2]
 
Analogamente il problema dell’ottica di osservazione e valutazione del fenomeno, se prettamente nazionale oppure inserito in un contesto internazionale, altro non è che il problema del rapporto fra avvenimenti internazionali e nazionali e dell’influenza degli uni sugli altri.
 
“ […] Dal punto di vista europeo l’età è quella della Rivoluzione francese e non del Risorgimento italiano, del liberalismo come concezione generale della vita e come nuova forma di civiltà statale e di cultura, e non solo dell’aspetto “nazionale” del liberalismo. E’ certo possibile parlare di un’età del Risorgimento, ma allora occorre restringere la prospettiva e mettere a fuoco l’Italia e non l’Europa, svolgendo della storia europea e mondiale quei nessi che modificano la struttura generale dei rapporti di forza internazionali che si opponevano alla formazione di un grande Stato unitario nella penisola, mortificando ogni iniziativa in questo senso e soffocandola in sul nascere e svolgendo la trattazione di quelle correnti che invece dal mondo internazionale influivano in Italia, incoraggiandone le forze autonome e locali della stessa natura e rendendole più valide. Esiste cioè un’Età del Risorgimento nella storia svoltasi nella penisola italiana, non esiste nella storia d’Europa come tale: in questa corrisponde l’Età della Rivoluzione francese e del liberalismo.”[3]
 
E’ chiaro che per Gramsci la Rivoluzione francese segna uno spartiacque fondamentale per classificare tutta l’epoca in cui si iscrivono gli avvenimenti che si svolgono nella penisola italiana durante il XIX secolo.
 
A differenza di quanto aveva tendenziosamente sostenuto B. Croce nell’opera Storia d’Europa, che, prendendo avvio nella narrazione dal 1815, aveva di fatto contrapposto le trasformazioni avviate dopo quella data (il riformismo liberale moderato), alle trasformazioni violente e cruente del periodo giacobino e napoleonico, Gramsci considera in maniera unitaria tutto il periodo delle trasformazioni che prendono il via dagli avvenimenti francesi del 1789.
 
Rivoluzione attiva e rivoluzione passiva, guerra manovrata e guerra di posizione sono momenti diversi di un unico processo storico che porta la borghesia al potere prima in Francia e poi nei vari Stati che si formano in Europa.
 
“[…] Si può dire pertanto che il libro sulla Storia d’Europa [di B.Croce] non è altro che un frammento di storia, l’aspetto “passivo” della grande Rivoluzione che iniziò in Francia nel 1789, traboccò nel resto d’Europa con le armate repubblicane e napoleoniche, dando una potente spallata ai vecchi regimi, e determinandone non il crollo immediato come in Francia, ma la corrosione “riformistica” che durò fino al 1870. [...] Nell’Europa dal 1789 al 1870 si è avuta una guerra di movimento (politica) nella rivoluzione francese ed una lunga guerra di posizione dal 1815 al 1870” [4]
 
E non pare proprio che questa visione unitaria dei processi rivoluzionari, dove si alternano periodi rapidi di attacchi frontali a periodi lunghi di assedio, si fermi al limite delle rivoluzioni borghesi. Una visione altrettanto unitaria ed internazionale dell’epoca storica apertasi con la Rivoluzione di Ottobre in Russia è alla base dei giudizi gramsciani, ricavabili dagli scritti politici degli ultimi anni prima dell’arresto e più velatamente dagli scritti nel carcere, riguardanti le questioni di strategia del movimento operaio, le differenze Oriente-Occidente, i problemi di costruzione del socialismo.
 
Ritornando ai temi di questo libro, tutto il dibattito sul Risorgimento, sul ruolo dei fattori internazionali, sul carattere autoctono del fenomeno, sulle idee unitarie già nel periodo dei Comuni o del Rinascimento nasconde al fondo la debolezza del capitalismo italiano:
 
“…Tutte le questioni sulle origini [del Risorgimento] hanno le loro ragioni per il fatto che l’economia italiana era molto debole, e il capitalismo incipiente: non esisteva una forte e diffusa classe di borghesia economica, ma invece molti intellettuali e piccolo borghesi, ecc. Il problema non era tanto di liberare forze economiche già sviluppate da pastoie giuridiche e politiche antiquate, quanto di creare le condizioni generali perché queste forze economiche potessero nascere e svilupparsi sul modello di altri paesi.”[5]
 
Per quanto riguarda l’Italia è a partire dal ‘700 che, con l’indebolimento delle due grandi potenze Francia-Austria, la comparsa della Prussia, si rende più instabile l’equilibrio politico sul continente e questo favorisce la possibilità di creazione di uno Stato unitario in Italia.
 
“[…] nel ‘700 l’equilibrio europeo, Austria-Francia entra in una fase nuova rispetto all’Italia: c’è un indebolimento reciproco delle due grandi potenze e sorge una terza grande potenza, la Prussia.“[6]
 
“…[L’]esistenza di un certo equilibrio delle forze internazionali che fosse la premessa dell’unità italiana…si verificò dopo il 1748, dopo cioè la caduta dell’egemonia francese e l’esclusione assoluta dell’egemonia spagnola ed austriaca, ma sparì nuovamente dopo il 1815: tuttavia il periodo dal 1748 al 1815 ebbe una grande importanza nella preparazione dell’unità, o meglio per lo sviluppo degli elementi che dovevano condurre all’unità.”[7]
 
Inoltre, l’indebolimento del papato, principale potenza politica italiana e culturale europea, la sua perdita di consensi fra le masse popolari a seguito della politica della Controriforma, la politica regalistica delle monarchie occidentali, avevano tolto al Vaticano tutte le possibilità di proporsi come soggetto unificatore della realtà politica peninsulare e gli avevano parimenti ridotto enormemente presso le corti europee il credito necessario ad ostacolare il processo di formazione di una nuova entità politica unitaria nella penisola.
 
“…Nel corso del ‘700 l’indebolimento della posizione del Papato come potenza europea è addirittura catastrofico. Con la Controriforma il Papato aveva modificato essenzialmente la struttura della sua potenza: si era alienato le masse popolari, si era fatto fautore di guerre sterminatrici, si era confuso con le classi dominanti in modo irrimediabile. Aveva così perduto la capacità di influire sia direttamente sia indirettamente sui governi attraverso la pressione delle masse popolari fanatiche e fanatizzate… La politica regalistica delle monarchie illuminate è la manifestazione di questo esautoramento della Chiesa come potenza europea e quindi italiana, e inizia anch’essa il Risorgimento, se è vero, come è vero, che il Risorgimento era possibile solo in funzione di un indebolimento del Papato sia come potenza europea che come potenza italiana, cioè come possibile forza che riorganizzasse gli stati della penisola sotto la sua egemonia…”[8]
 
Inoltre, sotto il profilo ideologico-culturale,
 
“…muta anche l’importanza ed il significato della tradizione letterario retorica esaltante il passato romano, la gloria dei Comuni e del Rinascimento, la funzione universale del Papato italiano”[9]
 
Il cosmopolitismo culturale mutuato dall’impero romano, perpetuatosi nel medio evo e nel Rinascimento, era stato il carburante con cui il Vaticano aveva fatto camminare la macchina politico-amministrativa del suo Stato e la struttura ecclesiastica con cui esercitava l’influenza politico-culturale in Europa.
 
“…Nel ‘700 si inizia un processo di distinzione di questa corrente tradizionale: una parte … si connette con l’istituto del Papato come espressione di una funzione intellettuale (etico-politica di egemonia intellettuale e civile) dell’Italia nel mondo e finirà con esprimere il Primato giobertiano…e si sviluppa una parte “laica”, anzi in opposizione al Papato, che cerca di rivendicare una funzione di primato italiano e di missione italiana nel mondo indipendentemente dal Papato.”[10]
 
“…Ciò che è importante storicamente è che nel ‘700 questa tradizione cominci a disgregarsi, per meglio concretarsi, ed a muoversi con un intima dialettica: significa che tale tradizione letterario-retorica sta diventando un fenomeno politico, il suscitatore e l’organizzatore del terreno ideologico in cui le forze politiche effettive riusciranno a determinare lo schieramento, sia pure tumultuario, delle più grandi masse popolari necessarie per raggiungere determinati fini, riusciranno a mettere in iscacco e lo stesso Vaticano e le altre forze di reazione esistenti nella penisola accanto al Papato.”[11]
 
In questo contesto la Rivoluzione francese e gli eserciti napoleonici dettero un contributo notevole alla creazione di una coscienza patriottica:
 
…Se nel corso del Settecento cominciano ad apparire ed a consolidarsi le condizioni obbiettive, internazionali e nazionali, che fanno dell’unificazione nazionale un compito storicamente concreto (cioè non solo possibile, ma necessario), è certo che solo dopo l’89 questo compito diventa consapevole in gruppi di cittadini disposti alla lotta ed al sacrificio. La Rivoluzione francese, cioè, è uno degli eventi che maggiormente operano per approfondire un movimento già iniziato nelle “cose”, rafforzando le condizioni positive (oggettive e soggettive) del movimento stesso e funzionando come elemento di aggregazione e centralizzazione delle forze umane disperse in tutta la penisola e che altrimenti avrebbero tardato di più ad “incentrarsi” e comprendersi fra loro” [12].
 
“… Le forze tendenti all’unità erano scarsissime, disperse, senza nesso tra loro e senza capacità di suscitare legami reciproci e ciò non solo nel secolo XVIII, ma si può dire fino al 1848. Le forze contrastanti a quelle unitarie (o meglio tendenzialmente unitarie) erano invece potentissime, coalizzate, e, specialmente come Chiesa, assorbivano la maggior parte delle capacità ed energie individuali che avrebbero potuto costituire un nuovo personale dirigente nazionale, dando loro invece un indirizzo e un’educazione cosmopolitico-clericale. I fattori internazionali e specialmente la Rivoluzione francese, stremando queste forze reazionarie e logorandole, potenziano per contraccolpo le forze nazionali in se stesse scarse e insufficienti. E’ questo il contributo più importante della Rivoluzione francese, molto difficile da valutare e definire, ma si intuisce di peso decisivo nel dare l’avviata al moto del Risorgimento”[13]
 
Così il contributo storicamente contingente della Rivoluzione francese alla distruzione del vecchio mondo ed alla formazione dei nuovi Stati Nazionali, secondo Gramsci va individuato sicuramente nel fatto di aver distrutto l’equilibrio politico europeo, su cui si basava l’Ancièn Regime, e nell’aver risvegliato per tale via la coscienza patriottica in vari Paesi.
 
Tuttavia, il contributo più notevole e duraturo della Rivoluzione è forse quello di aver offerto alla Storia l’esempio ineguagliabile di risoluzione della contraddizione città-campagna, di guisa che la partecipazione popolare, e segnatamente contadina, agli avvenimenti che si svolsero dal 1789 al 1815, non solo impedì alla Repubblica di essere soffocata sul nascere dalla reazione combinata di potenze straniere e controrivoluzione interna, ma, soprattutto, garantì allo Stato francese, nato dall’abbattimento della monarchia, il consenso attivo di una base sociale estesa.
 
Questi temi ci mettono di fronte ad alcuni concetti basilari della visione politica gramsciana: i concetti, cioè, di blocco storico-sociale e di egemonia. Questi concetti non sono solo categorie, attraverso cui andare ad interpretare la storia passata.
 
L’analisi comparata del modo in cui la borghesia francese ed italiana hanno affrontato e risolto la contraddizione città-campagna, la politica con cui hanno costruito l’alleanza con ceti e strati sociali del mondo agricolo, l’esito in termini statuali di questa alleanza, sono tutti elementi che forniscono ancora una volta materiale alla riflessione sul modo in cui il proletariato industriale dovrà costruire la sua alleanza con i contadini e dovrà concretizzare l’egemonia sul blocco storico-sociale per la transizione al socialismo.
 

[1] Vedi De Bernardi-Guarracino, L’operazione storica, Ed. Bruno Mondadori, vol.3, p. .487
[2] A.Gramsci, Quaderni del carcere. Edizione critica a cura di V. Gerratana. Ed.Einaudi 1975 Q.19 pag.1963
[3] A.Gramsci , op.cit., pagg.1961-2
[4] A.Gramsci , op.cit., Q10 pagg.1227 e 1229
[5] A.Gramsci “Il Risorgimento” Antologia di scritti nel carcere Editori Riuniti 1975 pag.65
[6] A.Gramsci , op.cit., pag.1963
[7] A.Gramsci “Il Risorgimento”op. cit. pagg.63-4
[8] A.Gramsci , op.cit., pag.1963
[9] A.Gramsci , op.cit., pag.1966
[10] A.Gramsci , op.cit., pag.1966
[11] A.Gramsci , op.cit., pag.1967
[12] A.Gramsci , op.cit., pagg.1968-9
[13] A.Gramsci , op.cit., pag.1972

Capitolo II
 
La contraddizione città-campagna è la chiave interpretativa privilegiata degli avvenimenti che si svolgono a partire dalla fine del XVIII e nel corso del XIX secolo.
 
Questa contraddizione significa: sotto il profilo economico, rapporto fra industria manifatturiera ed agricoltura in un’epoca in cui l’industria si va affermando e l’agricoltura comincia a cedere il primato, fino a quel momento posseduto, fra le attività produttive; sotto il profilo sociale, declino dell’aristocrazia nobiliare ed affermazione della borghesia; sotto il profilo politico-istituzionale, crisi dell’assolutismo monarchico e progressiva affermazione dello Stato liberale-repubblicano e dell’idea di Patria-Nazione.
 
Per una serie di ragioni storiche, sociali e culturali è nella Francia di fine ‘700 che questa contraddizione trova la sua risoluzione più classica, con la Rivoluzione dell’89, che influenzerà in maniera determinante tutti gli avvenimenti del secolo XIX. Nella Francia di quell’epoca la città è principalmente, se non esclusivamente, Parigi, e tutto il resto è la campagna.
 
“[…] Nella letteratura politica francese la necessità di collegare la città (Parigi) con la campagna era sempre stata vivamente sentita ed espressa; basta ricordare la collana di romanzi di Eugenio Sue, diffusissimi anche in Italia[…] e che insistono con particolare costanza sulla necessità di occuparsi dei contadini e di legarli a Parigi.”[1]
 
Il giacobinismo, complessivamente inteso, è per Gramsci la corrente politica che nella tempesta rivoluzionaria seppe meglio risolvere questa contraddizione, elaborando le soluzioni più avanzate e più appropriate al momento storico.
 
“[…]I giacobini lottarono strenuamente per assicurare un legame tra città e campagna e ci riuscirono vittoriosamente.”[2]
 
Una chiarificazione preliminare si impone per evitare confusione fra il significato del termine “giacobino”, così come è passato nel linguaggio politico comune, ed il suo significato storico:
 
“[…]Il termine di «giacobino» ha finito per assumere due significati: uno è quello proprio, storicamente caratterizzato, di un determinato partito della rivoluzione francese, che concepiva lo svolgimento della vita francese in un modo determinato, con un programma determinato, sulla base di forze sociali determinate e che esplicò la sua azione di partito e di governo con un metodo determinato che era caratterizzato da una estrema energia, decisione e risolutezza, dipendente dalla credenza fanatica della bontà e di quel programma e di quel metodo. Nel linguaggio politico i due aspetti del giacobinismo furono scissi e si chiamò giacobino l’uomo politico energico, risoluto e fanatico, perché fanaticamente persuaso delle virtù taumaturgiche delle sue idee, qualunque esse fossero: in questa definizione prevalsero gli elementi distruttivi derivati dall’odio contro gli avversari e i nemici, più che quelli costruttivi, derivati dall’aver fatto proprie le rivendicazioni delle masse popolari, l’elemento settario, di conventicola, di piccolo gruppo, di sfrenato individualismo, più che l’elemento politico nazionale.” [3]
 
La differenziazione fra i due significati sarà essenziale in seguito per capire quanto del significato politico comune è possibile rintracciare in tanti uomini del Risorgimento italiano, descritti, come ad esempio Crispi, per la loro immagine e per il loro carattere come “giacobini”, e quanto poco di giacobinismo storico vi fosse nei programmi e nell’attività del Partito d’Azione di Mazzini e Garibaldi e dei loro epigoni post-unitari.
 
I giacobini furono gli uomini della borghesia francese.
 
“[…]I giacobini conquistarono con la lotta senza quartiere la loro funzione di partito dirigente; essi in realtà si «imposero» alla borghesia francese, conducendola in una posizione molto più avanzata di quella che i nuclei borghesi primitivamente più forti avrebbero voluto «spontaneamente» occupare e anche molto più avanzata di quella che le premesse storiche dovevano consentire, e per ciò i colpi di ritorno e la funzione di Napoleone I. Questo tratto, caratteristico del giacobinismo (ma prima anche di Cromwell e delle «teste rotonde») e quindi di tutta la grande rivoluzione, del forzare la situazione (apparentemente) e del creare fatti compiuti irreparabili, cacciando avanti i borghesi a calci nel sedere, da parte di un gruppo di uomini estremamente energici e risoluti, può essere così «schematizzata»: il terzo stato era il meno omogeneo degli stati; aveva una élite intellettuale molto disparata e un gruppo economicamente molto avanzato ma politicamente moderato. …
 
… A mano a mano si viene selezionando una nuova élite che non si interessa unicamente di riforme «corporative» ma tende concepire la borghesia come il gruppo egemone di tutte le forze popolari e questa selezione avviene per l’azione di due fattori: la resistenza delle vecchie forze sociali e la minaccia internazionale. …
 
…I giacobini pertanto furono il solo partito della rivoluzione in atto, in quanto non solo essi rappresentavano i bisogni e le aspirazioni immediate delle persone fisiche attuali che costituivano la borghesia francese, ma rappresentavano il movimento rivoluzionario nel suo insieme, come sviluppo storico integrale, perché rappresentavano i bisogni anche futuri e, di nuovo, non solo di quelle determinate persone fisiche, ma di tutti i gruppi nazionali che dovevano essere assimilati al gruppo fondamentale esistente.”[4]
 
Ed i giacobini non furono solo capaci per la loro risolutezza e determinazione di porsi a capo della classe che rappresentavano e di condurla al successo in un momento particolarmente delicato e difficile, salvando le conquiste della Rivoluzione.
 
Essi ottennero questi risultati storicamente importanti, soprattutto perché continuarono, con una determinazione maggiore di quella messa in campo dagli altri partiti, la politica di alleanze di classe, già avviata dalla Rivoluzione sin dai suoi primi passi e che seppe tenere unita la campagna alla città, attraverso provvedimenti legislativi che divisero fra i contadini il latifondo dei nobili controrivoluzionari ed antipatriottici e della Chiesa.
 
“[…]La prima esigenza era quella di annientare le forze avversarie o almeno ridurle all’impotenza per rendere impossibile una controrivoluzione; la seconda esigenza era quella di allargare i quadri della borghesia come tale e di porla a capo di tutte le forze nazionali, identificando gli interessi e le esigenze comuni a tutte le forze nazionali e mettere in moto queste forze e condurle alla lotta ottenendo due risultati: a) di opporre un bersaglio più largo ai colpi degli avversari, cioè di creare un rapporto politico-militare favorevole alla rivoluzione; b) di togliere agli avversari ogni zona di passività in cui fosse possibile arruolare eserciti vandeani. Senza la politica agraria dei giacobini Parigi avrebbe avuto la Vandea già alle sue porte.”[5]
 
E nonostante l’azione politica dei girondini, che cercavano di far leva sul federalismo per sottrarre la campagna all’influenza politica della città, Parigi, e dei giacobini,
 
“[…]eccetto alcune zone periferiche, dove la distinzione nazionale (e linguistica) era grandissima, la quistione agraria ebbe il sopravvento su le aspirazioni all’autonomia locale: la Francia rurale accettò l’egemonia di Parigi, cioè comprese che per distruggere definitivamente il vecchio regime doveva far blocco con gli elementi più avanzati del terzo stato, e non con i moderati girondini.”[6]
 
Infine, parte integrante della soluzione della contraddizione città-campagna, che il giacobinismo storico seppe dare, è da considerare la forma statale della repubblica parlamentare, attuata in Francia unitamente ad un riordino amministrativo dello Stato, che ripartì il territorio in Dipartimenti, e supportata dall’esistenza dei clubs, embrione dei moderni partiti.
 
“[…]Lo sviluppo del giacobinismo (di contenuto) e della formula della rivoluzione permanente attuata nella fase attiva della Rivoluzione francese ha trovato il suo «perfezionamento» giuridico-costituzionale nel regime parlamentare, che realizza, nel periodo più ricco di energie «private» nella società, l’egemonia permanente della classe urbana su tutta la popolazione, nella forma hegeliana del governo col consenso permanentemente organizzato (ma l’organizzazione del consenso è lasciata all’iniziativa privata, è quindi di carattere morale o etico, perché consenso «volontariamente» dato in un modo o nell’altro).”[7]
 
L’organizzazione del consenso, poi, non può prescindere dall’azione delle associazioni di cittadini, i clubs, che la Rivoluzione francese tenne a battesimo come forma di partecipazione alla cosa pubblica, rivoluzionaria per l’epoca, ancorchè primitiva, che avrà poi, nei grandi partiti di massa della fine dell’800 e del ‘900, la propria espressione più compiuta.
 
“[…]I clubs, […] sono organizzazioni non rigide, tipo «comizio popolare», centralizzate da singole individualità politiche, ognuna delle quali ha il suo giornale, con cui tiene desta l’attenzione e l’interesse di una determinata clientela sfumata ai margini, che poi sostiene le tesi del giornale nelle riunioni del club. È certo che in mezzo agli assidui dei clubs dovevano esistere aggruppamenti ristretti e selezionati di gente che si conosceva reciprocamente, che si riuniva a parte e preparava l’atmosfera delle riunioni per sostenere l’una o l’altra corrente secondo i momenti e anche secondo gli interessi concreti in gioco.…[8]
 
“[…]Già al momento della Festa della Federazione [14 luglio 1790] il Club giacobino poteva contare su milleduecento membri a Parigi e centocinquanta società affiliate nelle province. Nell’aprile 1790 si apriva a Parigi un altro club…, ben presto noto come Club dei cordiglieri…[9]
 
…Un accurato censimento delle “società” politiche esistenti nell’anno II della Rivoluzione (1793-4), l’anno cioè della maggiore diffusione di queste forme di organizzazione, rivela la presenza di cinquemilacinquecento “società”, raggruppate nel 16 % dei comuni francesi (ma sono attive nei due terzi di capoluoghi di regione)…[10]
 
…E’ questo un elemento che sembra caratterizzare questa prima fase, tra il 1789 e 1790, di forte accelerazione della “scoperta” della politica nella Francia rivoluzionaria: punto di riferimento non fu solo Parigi, ma funzionarono “circuiti lenti” di diffusione e costruzione di una nuova identità politica, come quelli testimoniati dal movimento della Federazione e delle vicende della diffusione di quel simbolo rivoluzionario che fu “l’albero della libertà”. Quest’ultimo movimento nacque nelle campagne, nell’inverno del 1790, nel corso della lotta per l’abolizione senza alcun riscatto dei diritti feudali, e si impose poi in tutta la Francia, come simbolo festoso di libertà e dei valori della rivoluzione: da celebrazione e ripresa degli antichi rituali del maggio, che celebravano la fecondità della terra, ad emblema politico nazionale.” [11]
 
In sintesi: un’azione politica risoluta condotta negli interessi della classe borghese, presa nel suo complesso; una saggia politica di alleanze verso i contadini; una nuova forma di Stato e nuovi strumenti di partecipazione alla vita pubblica di larghi strati popolari; queste le ragioni del successo dei giacobini ed il succo della loro politica nella fase attiva della Rivoluzione.
 
“[…]Se è vero che i giacobini «forzarono» la mano, è anche vero che ciò avvenne sempre nel senso dello sviluppo storico reale, perché non solo essi organizzarono un governo borghese, cioè fecero della borghesia la classe dominante, ma fecero di più, crearono lo Stato borghese, fecero della borghesia la classe nazionale dirigente, egemone, cioè dettero allo Stato nuovo una base permanente, crearono la compatta nazione moderna francese.”[12]
 
La contraddizione città-campagna trovò, quindi, in Francia una sua soluzione con la nascita dalla rivoluzione della Repubblica francese, basata sull’alleanza fra borghesi e contadini, sotto l’egemonia della borghesia cittadina parigina, egemonia che si realizzò proprio per il tramite del giacobinismo storico e che nella fase della Rivoluzione attiva si presenta nelle forme della partecipazione e del consenso, mentre l’esercizio della forza e della costrizione viene riservato solo ai nemici della Rivoluzione.
 
A questo punto è necessario mettere a fuoco alcuni punti, a mio avviso importanti, per meglio comprendere il concetto di egemonia in Gramsci.
 
Dominio e direzione, conquista del consenso ed esercizio della forza, democrazia e dittatura sono termini antitetici, che concorrono, però, insieme a sostanziare il concetto di egemonia con combinazioni diverse fra loro, a seconda che detto concetto debba essere applicato nell’ambito di un blocco sociale alleato o contro gli avversari di questo blocco, prima o dopo la conquista del potere.
 
“[…]Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a «liquidare» o a sottomettere anche con la forza armata ed è dirigente dei gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere e anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere anche «dirigente».”[13]
 
L’egemonia trova, innanzitutto, il suo fondamento in fattori oggettivi, nella sfera, cioè, dell’economia e della produzione: il carattere progressivo della borghesia e dell’industria capitalistica si manifesta nel fatto che, man a mano che si afferma il modo di produzione capitalistico, esse fagocitano al proprio interno sfere sempre più ampie di attività economica, trasformando in borghesia strati sempre più ampi della antica società feudale.
 
“[…]Questo fatto si verifica «spontaneamente» nei periodi storici in cui il gruppo sociale dato è realmente progressivo, cioè fa avanzare realmente l’intera società, soddisfacendo non solo alle sue esigenze esistenziali, ma ampliando continuamente i propri quadri per la continua presa di possesso di nuove sfere di attività economico-produttiva. Appena il gruppo sociale dominante ha esaurito la sua funzione, il blocco ideologico tende a sgretolarsi e allora alla «spontaneità» può sostituirsi la «costrizione» in forme sempre meno larvate e indirette, fino alle misure vere e proprie di polizia e ai colpi di Stato.”[14]
 
Tuttavia, non l’economia, ma la politica è il luogo principe in cui si confrontano le istanze più o meno coscienti di varie classi e strati sociali; sono i partiti i luoghi in cui si forma e si organizza il consenso e la partecipazione; è lo Stato il luogo in cui si esprime l’egemonia di una classe sulle altre:
 
“[…]L’esercizio «normale» dell’egemonia nel terreno divenuto classico del regime parlamentare, è caratterizzato da una combinazione della forza e del consenso che si equilibrano, senza che la forza soverchi di troppo il consenso, anzi appaia appoggiata dal consenso della maggioranza espresso dai così detti organi dell’opinione pubblica (i quali perciò, in certe situazioni, vengono moltiplicati artificiosamente). Tra il consenso e la forza sta la corruzione-frode (che è caratteristica di certe situazioni di difficile esercizio della funzione egemonica presentando l’impiego della forza troppi pericoli), cioè lo snervamento e la paralisi procurati all’antagonista o agli antagonisti con l’accaparrarne i dirigenti, copertamente in via normale, apertamente in caso di pericolo prospettato per gettare lo scompiglio e il disordine nelle file antagoniste….”[15]
 
In conclusione, se il regime parlamentare rappresenta la forma “classica” di esercizio dell’egemonia, osservati dallo stesso punto di vista, cioè dal punto di vista dell’egemonia, la forma statale di ogni nazione ed ogni singolo aspetto di questa forma, appaiono come l’espressione di un punto di equilibrio fra forza e consenso ed un periodo storico determinato di una nazione non è altro che il processo di combinazione ed alternanza di questi due aspetti:
 
“[…]In questo processo si alternano tentativi di insurrezione e repressioni spietate, allargamento e restrizioni del suffragio politico, libertà di associazione e restrizioni o annullamenti di questa libertà, libertà nel campo sindacale ma non in quello politico, forme diverse di suffragio, scrutinio di lista o circoscrizioni uninominali, sistema proporzionale o individuale, con le varie combinazioni che ne risultano – sistema delle due camere o di una sola camera elettiva, con vari modi di elezione per ognuna (camera vitalizia ed ereditaria, Senato a termine, ma con elezione dei Senatori diversa da quella dei deputati ecc.) –, vario equilibrio dei poteri, per cui la magistratura può essere un potere indipendente o solo un ordine, controllato e diretto dalle circolari ministeriali, diverse attribuzioni del capo del governo e dello Stato, diverso equilibrio interno degli organismi territoriali (centralismo o decentramento, maggiori o minori poteri dei prefetti, dei Consigli provinciali, dei Comuni, ecc.), diverso equilibrio tra le forze armate di leva e quelle professionali (polizia, gendarmeria), con la dipendenza di questi corpi professionali dall’uno o dall’altro organo statale (dalla magistratura, dal ministero dell’interno o dallo Stato maggiore); la maggiore o minore parte lasciata alla consuetudine o alla legge scritta, per cui si sviluppano forme consuetudinarie che possono ad un certo punto essere abolite in virtù delle leggi scritte (in alcuni paesi «pareva» si fossero costituiti regimi democratici, ma essi si erano costituiti solo formalmente, senza lotta, senza sanzione costituzionale e fu facile disgregarli senza lotta, o quasi, perché privi di sussidi giuridico-morali e militari, ripristinando la legge scritta o dando della legge scritta interpretazioni reazionarie); il distacco più o meno grande tra le leggi fondamentali e i regolamenti d’esecuzione che annullano le prime o ne danno un’interpretazione restrittiva; l’impiego più o meno esteso dei decreti-legge che tendono a sostituire la legislazione ordinaria e la modificano in certe occasioni, «forzando la pazienza» del parlamento fino a giungere a un vero e proprio «ricatto della guerra civile».” [16]

[1] A.Gramsci, Quaderni del carcere. Edizione critica a cura di V. Gerratana. Ed.Einaudi 1975 pag.2014
[2] A.Gramsci, op.cit.. pag.2014
[3] A.Gramsci, op.cit.. pag.2017
[4] A.Gramsci, op.cit.. pagg.2027-8
[5] A.Gramsci, op.cit.. pag.2029
[6] A.Gramsci, op.cit.. pag.2029
[7] A.Gramsci, op.cit.. pag.1636
[8] A.Gramsci, op.cit.. pag.57
[9] M.Rosa, M.Verga, Storia dell’Età Moderna 1450-1815. B.Mondatori ,1998, pagg.452-3
[10] M.Rosa, M.Verga, Op. cit., pag.456
[11] M.Rosa, M.Verga, Op. cit., pag.459
[12] A.Gramsci, op.cit.. pag.2029
[13]A.Gramsci, op.cit., pagg.2010-1
[14] A.Gramsci, op.cit., pag.2012
[15] A.Gramsci, op.cit., pag.59
[16] A.Gramsci, op.cit., pagg.1637-8

Capitolo III
 
Nell’Europa della prima metà del secolo XIX crescita demografica ed industrializzazione sono le due forze-motrici di un processo di trasformazione economico-sociale, che si muove in linea contraria al processo politico della Restaurazione.
 
La rivoluzione industriale, avviata in Inghilterra, si estende a poco a poco sul Continente conquistando e trasformando l’attività produttiva di sempre più numerosi Paesi, mentre si verifica un incremento della produzione agricola in quei paesi in cui più radicale è stato il superamento degli ordinamenti feudali.
 
Grandi città nascono e si sviluppano in Europa, effetto dello spostamento di consistenti fette di popolazione dai centri rurali a quelli urbani (urbanizzazione), e, mentre si assiste al progressivo tramonto dei ceti legati alla rendita agraria, nei centri urbani emergono nuove classi sociali legate alle nuove forme di produzione: la borghesia ed il proletariato.
 
Nell’Italia della prima metà del secolo XIX in che termini si pone il rapporto città-campagna ?
 
Occorre, innanzitutto, specificare, con le parole di Gramsci, cosa si debba intendere in Italia per città e che cosa per campagna, dato che la storia della penisola ha scandito in maniera diversa, che in altri paesi europei, lo sviluppo della borghesia.
 
[…]I rapporti tra popolazione urbana e popolazione rurale non sono di un solo tipo schematico, specialmente in Italia. Occorre pertanto stabilire cosa si intende per «urbano» e per «rurale» nella civiltà moderna e quali combinazioni possono risultare dalla permanenza di forme antiquate e retrive nella composizione generale della popolazione, studiata dal punto di vista del suo maggiore o minore agglomerarsi. Talvolta si verifica il paradosso che un tipo rurale sia più progressivo di un tipo sedicente urbano.
 
Una città «industriale» è sempre più progressiva della campagna che ne dipende organicamente. Ma in Italia non tutte le città sono «industriali» e ancor più poche sono le città tipicamente industriali. Le «cento» città italiane sono città industriali, l’agglomeramento della popolazione in centri non rurali, che è quasi doppio di quello francese, dimostra che esiste in Italia una industrializzazione doppia che in Francia? In Italia l’urbanesimo non è solo, e neppure «specialmente», un fenomeno di sviluppo capitalistico e della grande industria.[1]
 
Rispetto a molti altri Paesi europei, che con le monarchie assolutistiche avevano già realizzato l’unificazione del mercato interno, l’Italia manifestava ora, agli inizi del XIX secolo, tutta la sua debolezza, per l’arretratezza economica che la caratterizzava.
 
L’attività industriale, che nel settore tessile (lana, cotone, lino e seta) aveva il suo punto di forza, si presentava in tutti gli Stati della penisola ancora in una posizione complessivamente subordinata rispetto all’agricoltura, che per numero di addetti e per importanza economica restava la principale risorsa delle collettività.
 
La stessa attività manifatturiera, peraltro ancora poco meccanizzata, non conosceva quella concentrazione in grossi centri urbani che, invece, già si era realizzata in Inghilterra e si andava affermando in Europa.
 
Essa, agli inizi del secolo XIX, veniva ancora svolta, prevalentemente, con un decentramento nelle campagne ed il commerciante-imprenditore, antesignano del futuro capitalista, si faceva carico, dopo averlo commissionato, di raccogliere il prodotto finito per venderlo poi sul mercato.
 
La borghesia, che aveva mostrato sin dal tempo dei Comuni la propria incapacità a legare le masse contadine ad un proprio progetto di sviluppo e progresso economico, soccombeva ancora agli inizi del XIX secolo di fronte alla forte presenza della rendita parassitaria.
 
E quello della presenza nefasta della rendita parassitaria nell’economia del Continente, ed in particolare in Italia, è uno dei temi della forte denuncia che Gramsci fa, anche nelle pagine dei Quaderni dedicate ad Americanismo e fordismo, evidenziando come la superiorità economica degli U.S.A. rispetto all’Europa derivi dal fatto:
 
[…]che non esistano classi numerose senza una funzione essenziale nel mondo produttivo, cioè classi assolutamente parassitarie. La «tradizione», la «civiltà» europea è invece proprio caratterizzata dall’esistenza di classi simili, create dalla «ricchezza» e «complessità» della storia passata che ha lasciato un mucchio di sedimentazioni passive attraverso i fenomeni di saturazione e fossilizzazione del personale statale e degli intellettuali, del clero e della proprietà terriera, del commercio di rapina e dell’esercito prima professionale poi di leva, ma professionale per l’ufficialità. Si può anzi dire che quanto più vetusta è la storia di un paese, e tanto più numerose e gravose sono queste sedimentazioni di masse fannullone e inutili, che vivono del «patrimonio» degli «avi», di questi pensionati della storia economica. Una statistica di questi elementi economicamente passivi (in senso sociale) è difficilissima, perché è impossibile trovare la «voce» che li possa definire ai fini di una ricerca diretta; indicazioni illuminanti si possono ricavare indirettamente, per esempio dall’esistenza di determinate forme di vita nazionale.
 
Il numero rilevante di grandi e medi (e anche piccoli) agglomerati di tipo urbano senza industria (senza fabbriche) è uno di questi indizi e dei più rilevanti.[2]
 
Nel contesto italiano non è, quindi, la dimensione ed il numero di abitanti l’indicatore sicuro della modernità in senso capitalistico di una città e delle sue caratteristiche produttive. Ne fa testo Napoli.
 
[…]Quella che fu per molto tempo la più grande città italiana e continua ad essere delle più grandi, Napoli, non è una città industriale: neppure Roma, l’attuale maggiore città italiana, è industriale. Tuttavia anche in queste città, di un tipo medioevale, esistono forti nuclei di popolazione del tipo urbano moderno; ma qual è la loro posizione relativa? Essi sono sommersi, premuti, schiacciati dall’altra parte, che non è di tipo moderno ed è la grandissima maggioranza.[3]
 
[…]Napoli è la città dove la maggior parte dei proprietari terrieri del Mezzogiorno (nobili e no) spendono la rendita agraria. Intorno a qualche decina di migliaia di queste famiglie di proprietari, di maggiore o minore importanza economica, con le loro corti di servi e di lacché immediati, si organizza la vita pratica di una parte imponente della città, con le sue industrie artigianesche, coi suoi mestieri ambulanti, con lo sminuzzamento inaudito dell’offerta immediata di merci e servizi agli sfaccendati che circolano nelle strade. Un’altra parte importante della città si organizza intorno al transito e al commercio all’ingrosso. L’industria «produttiva» nel senso che crea e accumula nuovi beni è relativamente piccola, nonostante che nelle statistiche ufficiali Napoli sia annoverata come la quarta città industriale dell’Italia, dopo Milano, Torino e Genova…
 
…Il fatto di Napoli si ripete in grande per Palermo e Roma e per tutta una serie numerosa (le famose «cento città») di città non solo dell’Italia meridionale e delle Isole, ma dell’Italia centrale e anche di quella settentrionale (Bologna, in buona parte, Parma, Ferrara ecc.). Si può ripetere per molta popolazione di tal genere di città il proverbio popolare: quando un cavallo caca, cento passeri fanno il loro desinare. [4]
 
Napoli rappresenta, quindi, l’espressione più ampia ed evidente di questo rapporto parassitario ed oppressivo della città sulla campagna, che secondo Gramsci condiziona anche i piccoli centri della provincia.
 
[…] Il fatto che non è stato ancora convenientemente studiato è questo: che la media e la piccola proprietà terriera non è in mano a contadini coltivatori, ma a borghesi della cittaduzza o del borgo, e che questa terra viene data a mezzadria primitiva (cioè in affitto con corrisponsione in natura e servizi) o in enfiteusi; esiste così un volume enorme (in rapporto al reddito lordo) di piccola e media borghesia di «pensionati» e «redditieri», che ha creato in certa letteratura economica degna di Candide la figura mostruosa del così detto «produttore di risparmio», cioè di uno strato di popolazione passiva economicamente che dal lavoro primitivo di un numero determinato di contadini trae non solo il proprio sostentamento, ma ancora riesce a risparmiare: modo di accumulazione di capitale dei più mostruosi e malsani, perché fondato sull’iniquo sfruttamento usurario dei contadini tenuti al margine della denutrizione e perché costa enormemente; poiché al poco capitale risparmiato corrisponde una spesa inaudita quale è quella necessaria per sostenere spesso un livello di vita elevato di tanta massa di parassiti assoluti. (Il fenomeno storico per cui si è formato nella penisola italiana, a ondate, dopo la caduta dei Comuni medioevali e la decadenza dello spirito d’iniziativa capitalistica della borghesia urbana, una tale situazione anormale, determinatrice di stagnazione storica, è chiamato dallo storico Niccolò Rodolico «ritorno alla terra» ed è stato assunto addirittura come indice di benefico progresso nazionale, tanto le frasi fatte possono ottundere il senso critico).[5]
 
Questo rapporto parassitario della città sulla campagna si accompagna ad un disprezzo ed odio contro il “villano”, contraccambiato da pari sentimenti della campagna verso la città.
 
[…]In questo tipo di città esiste, tra tutti i gruppi sociali, una unità ideologica urbana contro la campagna, unità alla quale non sfuggono neppure i nuclei più moderni per funzione civile, che pur vi esistono: c’è l’odio e il disprezzo contro il «villano», un fronte unico implicito contro le rivendicazioni della campagna, che, se realizzate, renderebbero impossibile l’esistenza di questo tipo di città. Reciprocamente esiste una avversione «generica» ma non perciò meno tenace e appassionata della campagna contro la città, contro tutta la città, tutti i gruppi che la costituiscono.
 
Questo rapporto generale, che in realtà è molto complesso e si manifesta in forme che apparentemente sembrano contraddittorie, ha avuto una importanza primordiale nello svolgersi delle lotte per il Risorgimento, quando esso era ancor più assoluto e operante che non sia oggi.[6]
 
Alla luce di quanto detto sopra, si possono cominciare a raccogliere i primi elementi per giungere ad una spiegazione del mancato sviluppo in Italia del cosiddetto giacobinismo storico e di quanto poco studiata fosse nella penisola l’esperienza della Rivoluzione francese, sin dai primi emulatori, quali furono i giacobini meridionali, ma soprattutto da quei soggetti politici, che saranno poi i protagonisti del Risorgimento.
 
[…] Il primo esempio clamoroso di queste apparenti contraddizioni è da studiare nell’episodio della Repubblica Partenopea del 1799: la città fu schiacciata dalla campagna organizzata nelle orde del cardinale Ruffo, perché la Repubblica, sia nella sua prima fase aristocratica, che nella seconda borghese, trascurò completamente la campagna da una parte, ma dall’altra, prospettando la possibilità di un rivolgimento giacobino per il quale la proprietà terriera, che spendeva la rendita agraria a Napoli, poteva essere spossessata, privando la grande massa popolare dei suoi cespiti di entrata e di vita, lasciò freddi se non avversi i popolani napoletani.[7]
 
(Non è per caso che i decreti contro i privilegi della feudalità furono emanati a Napoli, non durante la Rivoluzione, ma qualche anno più tardi da un francese, Giuseppe Buonaparte, anche se il loro scopo non fu quello di spezzettare il latifondo a vantaggio dei contadini “senza terra” ed il loro risultato fu solo quello di rafforzare la borghesia delle campagne).[8]
 
E’ in questo contesto, caratterizzato, sotto il profilo economico dall’arretratezza e dalla forte presenza di ampi settori di economia parassitaria, sotto il profilo politico dallo spezzettamento in tanti staterelli del territorio peninsulare, con la presenza a nord dell’Austria in funzione di gendarme armato contro ogni rivendicazione di libertà, unità ed indipendenza, che va inquadrata l’analisi delle forze motrici del processo risorgimentale, fatta da Gramsci.
 
[…]Dal rapporto città-campagna deve muovere l’esame delle forze motrici fondamentali della storia italiana e dei punti programmatici da cui occorre studiare e giudicare l’indirizzo del Partito d’Azione nel Risorgimento. Schematicamente si può avere questo quadro: 1) la forza urbana settentrionale; 2) la forza rurale meridionale; 3) la forza rurale settentrionale-centrale; 4-5) la forza rurale della Sicilia e della Sardegna.
 
Restando ferma la funzione di «locomotiva» della prima forza, occorre esaminare le diverse combinazioni «più utili» atte a costruire un «treno» che avanzi il più speditamente nella storia.[9]
 
Il problema che Gramsci affronta in queste pagine dei Quaderni è quello, detto in altri termini, del blocco storico-sociale che la borghesia del Nord doveva porre in essere attraverso una politica di alleanze per realizzare l’obbiettivo della costituzione dello Stato unitario, premessa politico-istituzionale al suo ulteriore sviluppo.
 
Il rapporto è sempre quello generale di città-campagna, che l’analisi gramsciana scompone fra la borghesia industriale (la città), da un lato, e, dall’altro, quattro sezioni delle forze rurali (la campagna) divise fra loro per problemi specifici, come quelli legati alla presenza di correnti indipendentiste in Sicilia e Sardegna
 
La prima forza, la borghesia industriale del Nord, ha due grosse sezioni al suo interno: quella piemontese e quella lombarda, a cui corrispondono anche, come si vedrà più avanti, espressioni politiche differenti, per un certo periodo in contesa fra loro per l’egemonia sull’intero processo;
 
[…]ma rimane fissato che, già «meccanicamente», se tale forza ha raggiunto un certo grado di unità e di combattività, essa esercita una funzione direttiva «indiretta» sulle altre. Nei diversi periodi del Risorgimento appare che il porsi di questa forza in una posizione di intransigenza e di lotta contro il dominio straniero, determina un’esaltazione delle forze progressive meridionali: da ciò il sincronismo relativo, ma non la simultaneità, nei movimenti del 20-21, del 31, del 48. Nel 59-60 questo «meccanismo» storico-politico agisce con tutto il rendimento possibile, poiché il Nord inizia la lotta, il Centro aderisce pacificamente o quasi e nel Sud lo Stato borbonico crolla sotto la spinta dei garibaldini, spinta relativamente debole.[10]
 
Se un certo grado di unità interna di questa classe consente “meccanicamente” di esercitare un ruolo di direzione (egemonia) sulle altre classi, nella prospettiva della costituzione dello Stato unitario, non sono altrettanto pacificamente risolti i problemi legati all’esercizio dell’egemonia sulle altre classi, una volta preso il potere.
 
Una delle prime questioni è la realizzazione dell’unità interna di classe della borghesia industriale, sia al Nord che al Sud.
 
[…]La prima forza doveva quindi porsi il problema di organizzare intorno a sé le forze urbane delle altre sezioni nazionali e specialmente del Sud. Questo problema era il più difficile, irto di contraddizioni e di motivi che scatenavano ondate di passioni… Ma la sua soluzione, appunto per questo, era uno dei punti cruciali dello sviluppo nazionale.[11]
 
E’ vero che identica, sia al Nord che al Sud, è la posizione della borghesia industriale nel processo produttivo e comune a tutte le sue sezioni territoriali è l’interesse per la costituzione di uno Stato unitario.
 
Tuttavia, diverso è il peso specifico che questa classe esercita nella società civile settentrionale o meridionale:
 
[…]Le forze urbane sono socialmente omogenee, quindi devono trovarsi in una posizione di perfetta uguaglianza. Ciò era vero teoricamente, ma storicamente la quistione si poneva diversamente: le forze urbane del Nord erano nettamente alla testa della loro sezione nazionale, mentre per le forze urbane del Sud ciò non si verificava, per lo meno in egual misura.[12]
 
La questione, perciò, poteva avere diverse soluzioni:
 
Una era quella che la borghesia industriale meridionale rinunciasse a qualsiasi velleità di uguaglianza con quella settentrionale e si limitasse a riconoscerne la funzione egemone.
 
[…]Le forze urbane del Nord dovevano quindi ottenere da quelle del Sud che la loro funzione direttiva si limitasse ad assicurare la direzione del Nord verso il Sud nel rapporto generale di città-campagna, cioè la funzione direttiva delle forze urbane del Sud non poteva essere altro che un momento subordinato della più vasta funzione direttiva del Nord.[13]
 
L’altra ipotesi, partendo dalla perfetta uguaglianza fra le due sezioni, avrebbe potuto estendere quell’uguaglianza fino ai confini dell’indipendenza reciproca.
 
[…]La contraddizione più stridente nasceva da questo ordine di fatti: la forza urbana del Sud non poteva essere considerata come qualcosa a sé, indipendente da quella del Nord; porre la quistione così avrebbe significato affermare pregiudizialmente un insanabile dissidio «nazionale», dissidio tanto grave che neanche la soluzione federalistica avrebbe potuto comporre; si sarebbe affermata l’esistenza di nazioni diverse, tra le quali avrebbe potuto realizzarsi solo un’alleanza diplomatico-militare contro il comune nemico, l’Austria (l’unico elemento di comunità e solidarietà, insomma, sarebbe consistito solo nell’avere un «comune» nemico).[14]
 
Questa seconda ipotesi, però, non ebbe mai modo di affermarsi, anche se forti furono le opposizioni nel Sud al progetto dello Stato unitario, perché
 
[…]era la debole posizione delle forze urbane meridionali in rapporto alle forze rurali, rapporto sfavorevole che si manifestava talvolta in una vera e propria soggezione della città alla campagna. [15]
 
In queste condizioni di inferiorità,
 
…[i]l collegamento stretto tra forze urbane del Nord e del Sud, dando alle seconde la forza rappresentativa del prestigio delle prime, doveva aiutare quelle a rendersi autonome, ad acquistare coscienza della loro funzione storica dirigente in modo «concreto» e non puramente teorico e astratto, suggerendo le soluzioni da dare ai vasti problemi regionali. …
 
…[I]l compito più grave per risolvere la situazione spettava in ogni modo alle forze urbane del Nord che non solo dovevano convincere i loro «fratelli» del Sud, ma dovevano incominciare col convincere se stesse di questa complessità di sistema politico: praticamente quindi la quistione si poneva nell’esistenza di un forte centro di direzione politica, al quale necessariamente avrebbero dovuto collaborare forti e popolari individualità meridionali e delle isole. Il problema di creare una unità Nord-Sud era strettamente legato e in gran parte assorbito nel problema di creare una coesione e una solidarietà tra tutte le forze urbane nazionali.[16]
 
Se queste erano le problematiche connesse al rapporto di alleanza fra la forza urbana settentrionale e le forze produttive del meridione, altri problemi si ponevano nel rapporto con le forze rurali centro-settentrionali, contrassegnate, a differenza di quelle delle tre sezioni meridionali, da una più forte presenza della piccola proprietà contadina.
 
[…]In queste forze rurali occorreva distinguere due correnti: quella laica e quella clericale-austriacante. La forza clericale aveva il suo peso massimo nel Lombardo-Veneto, oltre che in Toscana e in una parte dello Stato pontificio; quella laica nel Piemonte, con interferenze più o meno vaste nel resto d’Italia, oltre che nelle legazioni, specialmente in Romagna, anche nelle altre sezioni, fino al Mezzogiorno e alle isole. Risolvendo bene questi rapporti immediati, le forze urbane settentrionali avrebbero dato un ritmo a tutte le quistioni simili su scala nazionale.[17]
 
Le forza politica che avrebbe dovuto rappresentare gli interessi della borghesia industriale settentrionale, il Partito d’Azione, non fu mai capace di farsi carico di tutte queste problematiche, per dare ad esse una soluzione in senso progressista.
 
[…]Su tutta questa serie di problemi complessi il Partito d’Azione fallì completamente: esso si limitò infatti a fare quistione di principio e di programma essenziale quella che era semplicemente quistione del terreno politico su cui tali problemi avrebbero potuto accentrarsi e trovare una soluzione legale: la questione della Costituente. Non si può dire che abbia fallito il partito moderato, che si proponeva l’espansione organica del Piemonte, voleva soldati per l’esercito piemontese e non insurrezioni o armate garibaldine troppo vaste. [18]
 
Ne derivò una caratteristica del processo unitario, che Gramsci più volte definì “rivoluzione passiva”, perchè spogliò le masse popolari, che all’epoca erano prevalentemente contadine, del diritto di partecipare alla sua realizzazione, tenendole, anzi, accuratamente lontane e pervenendo, così, alla realizzazione dello Stato unitario, obiettivo di per sé progressista e rivoluzionario (giudicato dai contemporanei come “miracolo”), senza intaccare i rapporti sociali delle campagne, che nel meridione significavano subordinazione della città alla campagna, dell’attività produttiva alla rendita parassitaria.
 
[1] A.Gramsci, Quaderni del carcere. Edizione critica a cura di V. Gerratana. Ed.Einaudi 1975 pagg.2035-6
[2] A.Gramsci, Op.cit.. pagg.2141-2
[3] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2036
[4] A.Gramsci, Op.cit.. pagg.2142-3
[5] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2143
[6] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2036
[7] A.Gramsci, Op.cit.. pagg.2036-7
[8] Vedi P.Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale. Donzelli Editore. Roma 1996 pagg.3-9
[9] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2042
[10] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2042
[11] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2043
[12] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2043
[13] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2043
[14] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2043
[15] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2043
[16] A.Gramsci, Op.cit.. pagg.2043-4
[17] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2044
[18] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2044

Capitolo IV
 
I primi decenni del secolo XIX presentano la realtà italiana come caratterizzata, sotto il profilo economico, da una prevalenza delle attività agricole su quelle manifatturiere e da una forte presenza della rendita parassitaria nelle attività produttive.
 
Sotto un profilo politico oggettivo la questione centrale è quella dell’unificazione territoriale delle varie realtà della penisola in un unico e nuovo Stato che consenta lo sviluppo economico della borghesia e, collegato ad essa, la questione dell’assetto istituzionale di questa nuova realtà statuale.
 
Soggettivamente, però, il tema centrale di battaglie e moti, che in questo periodo agitano i vari Stati e staterelli della penisola, è solo quello della limitazione del potere assolutistico dei vari sovrani e governanti attraverso l’introduzione di Costituzioni e Statuti che sanciscano quei diritti fondamentali dell’uomo, sempre più riconosciuto come cittadino e sempre meno visto come suddito, di cui la Rivoluzione francese e Napoleone si erano fatti vessillo su tutto il Continente.
 
I moti del 1820-31 partono dal Sud, dal Regno delle due Sicilie, dove il 1° luglio del 1820 un moto “preparato da pochi, voluto da tutti” (come si scrisse all’epoca) ottenuta l’adesione massiccia dell’esercito, impone al Re Ferdinando I la Costituzione spagnola del 1812, non senza qualche resistenza ed opposizione delle componenti separatiste ed indipendentiste siciliane. Qualche mese più tardi un analogo moto viene preparato nel lombardo-veneto, ma i congiurati vengono arrestati prima di passare all’azione (fra essi S. Pellico e P. Maroncelli).
 
Subito dopo in Piemonte, dove la monarchia sabauda (Vittorio Emanuele I), re-insediatasi sul trono con la Restaurazione, aveva cancellato quasi tutte le riforme del periodo napoleonico, nella notte fra il 9 e 10 marzo del 1821 con l’ammutinamento della guarnigione di Alessandria si avvia il moto cospirativo che, oltre alla rivendicazione costituzionale (lo Statuto), fa appello alla monarchia perchè muova guerra all’Austria, facendo leva sulle mire espansionistiche della Casa Reale, per giungere, così, alla costituzione di un Regno costituzionale nel Nord Italia.
 
Gli insorti saranno sconfitti l’8 aprile del ’21 a Novara dal generale lealista De la Tour, che, appoggiato dagli austriaci, due giorni più tardi entrerà a Torino, dopo che il reggente Carlo Alberto prima aveva promesso la promulgazione di una Carta Costituzionale e poi si era rimangiato la parola.
 
Questo atteggiamento oscillante verso le riforme liberali da parte della casa regnante sabauda, a cui si accompagna l’ostilità aperta al liberalismo di buona parte dell’aristocrazia di corte che, invece, in più di un’occasione simpatizza apertamente per l’Austria, sarà una caratteristica costante nella politica piemontese fino a Cavour.
 
L’ultimo sussulto insurrezionale di questo periodo si ha con la cosiddetta “congiura estense”, che a febbraio del 1831 vede la creazione di governi provvisori, liberali, a Bologna, Modena e Parma, dopo la fuga del duca di Modena, Francesco IV, che pure aveva intrattenuto rapporti segreti con i carbonari, e di Maria Luisa di Parma. La congiura si conclude con la repressione violenta degli insorti ad opera dell’esercito austriaco, intervenuto a sostegno dei regnanti fuggiti, e l’impiccagione del patriota Ciro Menotti, organizzatore della sommossa, e del notaio Vincenzo Borelli, colpevole di aver stilato l’atto che proclamava decaduto Francesco IV.
 
Questi primi passi del processo risorgimentale sono caratterizzati, schematicamente, dalla natura elitaria dei movimenti, composti prevalentemente da aristocratici illuminati e che, il più delle volte, vedono come protagonista l’esercito, a Napoli ben strutturato dopo l’esperienza murattiana, in Piemonte interessato all’espansione territoriale del regno.
 
Scopo principale di queste prime battaglie è quello, come si è detto sopra, di temperare i regimi assolutistici con la promulgazione di norme costituzionali, mentre scarsamente presente è ancora l’obbiettivo dell’unificazione nazionale. L’esercito austriaco resta il gendarme operativo nella Penisola per dare sostegno ai traballanti regimi reazionari.
 
La struttura organizzativa cospirativa, elitaria e minoritaria (come del resto tutto il movimento in questa fase), fa capo alla Massoneria, già veicolo in Europa delle idee illuministiche e liberaleggianti nel secolo XVIII.
 
In questo periodo la Massoneria, che in Italia si chiama Carboneria, non riesce ancora a strutturare in maniera unitaria, a livello nazionale, tutte le varie sette territoriali e tutto il movimento in sviluppo. Di essa Gramsci dice:
 
[…] Si può osservare: 1°) che la molteplicità delle sètte, dei programmi e dei metodi, oltre all’essere dovuta al carattere clandestino del movimento settario, è certamente dovuta anche alla primitività del movimento stesso, cioè all’assenza di tradizioni forti e radicate, e quindi all’assenza di un organismo «centrale» saldo e con indirizzo fermo…[1]
 
Nonostante ciò, il movimento, già in questa prima fase, possiede un suo sincronismo su tutto il territorio nazionale ed il Sud fa da detonatore.
 
[…] Ciò che nel periodo del Risorgimento è specialmente notevole è il fatto che nelle crisi politiche, il Sud ha l’iniziativa dell’azione: 1799 Napoli, 20-21 Palermo, 47 Messina e la Sicilia, 47-48 Sicilia e Napoli. Altro fatto notevole è l’aspetto particolare che ogni movimento assume nell’Italia Centrale, come una via di mezzo tra Nord e Sud: il periodo delle iniziative popolari (relative) va dal 1815 al 1849 e culmina in Toscana e negli Stati del Papa (la Romagna e la Lunigiana occorre sempre considerarle come appartenenti al Centro)….
 
Questo relativo sincronismo e simultaneità mostra l’esistenza già dopo il 1815 di una struttura economico-politica relativamente omogenea, da una parte, e dall’altra mostra come nei periodi di crisi sia la parte più debole e periferica a reagire per la prima….[2]
 
I ripetuti fallimenti dei moti carbonari degli anni 20-30, la loro dimensione localistica e provinciale, la crescita economica della borghesia italiana e la partecipazione di strati sempre più ampi di “popolo” alle ribellioni ed alle rivolte, non potevano che determinare la crisi della Carboneria e dei metodi cospirativi elitari, che essa praticava.
 
La nascita della Giovine Italia ad opera di Giuseppe Mazzini fu uno degli esiti di questa crisi. L’allargamento del target di interlocuzione della nuova organizzazione rivoluzionaria, giovani studenti e intellettuali, rispetto all’esercito ed a singoli esponenti dell’aristocrazia illuminata; il carattere nazionale della struttura organizzativa, rispetto ad un’impostazione localistica; l’attività politica pubblica rivolta apertamente, attraverso i giornali, al “popolo”, vero protagonista del cambiamento attraverso l’insurrezione, invece di un’azione cospirativa segreta condotta da singoli individui; questi, schematicamente, le principali differenze organizzative con la Carboneria.
 
 Tuttavia, è sul programma politico che si registrano le principali novità: Unità del territorio nazionale, Indipendenza dall’Austria e Repubblica come forma istituzionale del nuovo Stato da conquistare; ecco i dogmi della fede mazziniana, intrisa di misticismo, concepita in unità con un’azione politica da vivere come “missione morale” e nutrita da una coerenza, quasi ossessiva, fra “pensiero ed azione”.
 
Le repressioni antidemocratiche, a cui non si sottrae la monarchia sabauda, e gli insuccessi dei primi moti mazziniani, fra cui va ricordato il tentativo insurrezionale dei Fratelli Bandiera conclusosi con la fucilazione a Cosenza dei patrioti, determinano la crescita delle varie espressioni del cosiddetto liberalismo moderato.
 
Queste correnti erano accomunate dal rifiuto di ricorrere ai metodi violenti propugnati dal Mazzini per raggiungere, invece, quello stesso obbiettivo della costituzione dello stato nazionale unitario, garante dei diritti che il liberalismo propugnava, attraverso le riforme di governi illuminati e di prìncipi solidali al progetto dell’unificazione nazionale.
 
Il rappresentante più illustre di questa corrente moderata fu l’abate V. Gioberti, autore dell’opera Del primato morale e civile degli italiani, pubblicata nel ’43, accomunato al Mazzini dalla missione storica che attribuiva popolo italiano, ma che a differenza di quello, pensava potersi realizzare sotto la guida del Papato.
 
[…] Mazzini-Gioberti cercano di innestare il moto nazionale nella tradizione cosmopolitica, di creare il mito di una missione dell’Italia rinata in una nuova Cosmopoli europea e mondiale, ma si tratta di un mito verbale e retorico, fondato sul passato e non sulle condizioni del presente, già formate o in processo di sviluppo… [3]
 
L’altra componente del moderatismo ante-’48, in lotta aperta con il democraticismo mazziniano, è quella di Cesare Balbo, aristocratico reazionario della Corte sabauda che propone, come Gioberti, di pervenire all’unità attraverso la realizzazione di una Confederazione fra gli stati italiani, ma a differenza di quello che la immaginava guidata dal Papa, Balbo inizia a realizzarla con una Lega doganale a guida piemontese.
 
[…] La lega doganale, promossa da Cesare Balbo e stretta a Torino il 3 novembre 1847 dai tre rappresentanti del Piemonte, della Toscana e dello Stato pontificio, doveva preludere alla costituzione della Confederazione politica che poi fu disdetta dallo stesso Balbo: facendo abortire anche la lega doganale. La Confederazione era desiderata dagli Stati minori italiani; i reazionari piemontesi (fra cui il Balbo) credendo ormai assicurata l’espansione territoriale del Piemonte, non volevano pregiudicarla con legami che l’avrebbero ostacolata (il Balbo nelle Speranze d’Italia aveva sostenuto che la Confederazione era impossibile finché una parte d’Italia fosse stata in mano agli stranieri!?) e disdissero la Confederazione dicendo che le leghe si stringono prima o dopo le guerre (!?): la Confederazione fu respinta nel 48, nei primi mesi (confrontare).
 
Gioberti, con altri, vedevano nella Confederazione politica e doganale, stretta anche durante la guerra, la necessaria premessa per rendere possibile l’attuazione del motto «l’Italia farà da sé».
 
Questa politica infida nei rapporti della Confederazione, con le altre direttive altrettanto fallaci a proposito dei volontari e della Costituente, mostra che il moto del 48 fallì per gli intrighi furbescamente meschini dei destri, che furono i moderati del periodo successivo. Essi non seppero dare un indirizzo, né politico né militare, al moto nazionale.[4]
 
Ma la soluzione federalistica del problema dell’unità nazionale non è un patrimonio solo dei moderati alla Gioberti o dei reazionari “municipalisti” alla Balbo; essa è sostenuta anche da correnti democratico-repubblicane, come quella di Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari a Milano, che esprimono gli interessi della nascente borghesia industriale lombarda, più evoluta di quella piemontese, che mal tollera l’egemonia del Regno sabaudo:
 
[…] Il federalismo di Ferrari-Cattaneo. Fu l’impostazione politico-storica delle contraddizioni esistenti tra il Piemonte e la Lombardia.
 
La Lombardia non voleva essere annessa, come una provincia, al Piemonte: era più progredita, intellettualmente, politicamente, economicamente, del Piemonte. Aveva fatto, con forze e mezzi propri, la sua rivoluzione democratica con le cinque giornate: era, forse, più italiana del Piemonte, nel senso che rappresentava l’Italia meglio del Piemonte. Che il Cattaneo presentasse il federalismo come immanente in tutta la storia italiana non è altro che elemento ideologico, mitico, per rafforzare il programma politico attuale. ...
 
E Risorgimento è uno svolgimento storico complesso e contraddittorio che risulta integrale da tutti i suoi elementi antitetici, dai suoi protagonisti e dai suoi antagonisti, dalle loro lotte, dalle modificazioni reciproche che le lotte stesse determinano e anche dalla funzione delle forze passive e latenti come le grandi masse agricole, oltre, naturalmente, la funzione eminente dei rapporti internazionali.[5]
 
Il 1848 è l’anno in cui in Europa scoppiano con più fragore le contraddizioni covate negli anni precedenti e l’Ancien regime vacilla pericolosamente, preannunciando il crollo definitivo che si verificherà negli anni successivi con la nascita di Stati nazionali costituzionali.
 
In Italia la scintilla dei moti insurrezionali del ’48 scoppia ancora una volta nel Sud a Palermo e si estende subito nel napoletano, costringendo Ferdinando II di Borbone a concedere il 29 gennaio del 1848 una costituzione sul modello di quella francese del ’30, nonostante che in un primo momento avesse invocato l’intervento delle truppe austriache, senza successo, però, per il rifiuto di Pio IX di farle passare sul proprio territorio. Leopoldo II, Carlo Alberto e Pio IX seguono a breve il re Borbone.
 
A proposito di Pio IX, Gramsci scrive:
 
[…] Che il liberalismo sia riuscito a creare la forza cattolico-liberale e a ottenere che lo stesso Pio IX si ponesse, sia pure per poco, nel terreno del liberalismo (quanto fu sufficiente per disgregare l’apparato politico cattolico e togliergli la fiducia in se stesso) fu il capolavoro politico del Risorgimento e uno dei punti più importanti di risoluzione dei vecchi nodi che avevano impedito fino allora di pensare concretamente alla possibilità di uno Stato unitario italiano.[6]
 
Ma è nel Lombardo-Veneto ed in particolare a Milano, dove lo scontro diretto con l’Austria diventa inevitabile, che si realizza il banco di prova per testare la validità delle teorie politiche sulla realizzazione dell’unità nazionale e sui vari “partiti” che le sostengono.
 
Il 17 marzo un’insurrezione a Venezia proclama la Repubblica con a capo i patrioti Niccolò Tommaseo e Daniele Manin, precedentemente liberati dal carcere. Il giorno dopo, il 18 marzo, è la volta di Milano, che dopo cinque giornate di combattimenti, caccia dalla città le truppe del generale Radetsky. Come a Parigi, il contributo degli operai all’insurrezione è notevole:
 
“La maggior parte degli uccisi, annota ancora il Cattaneo, doveva ben essere tra gli operai; le barricate e gli operai vanno insieme come cavallo e cavaliere”. [7]
 
Il Consiglio di guerra che guida la sommossa è diretto dai democratici-federalisti di Carlo Cattaneo, nonostante che gli stessi avessero frenato lo scoppio della rivolta, temendo di esporre la città, poco armata e poco difesa, alla repressione di generali austriaci feroci e temendo, anche, che un intervento piemontese vincente avrebbe soffocato le ambizioni indipendentiste e autonomiste dei milanesi.
 
L’aristocrazia milanese, che fino a qualche giorno prima aveva ossequiato gli austriaci, attraverso il Governo provvisorio sollecita ora l’intervento armato contro l’Austria da parte di Carlo Alberto, che per suo conto già coltivava, insieme con i reazionari del cosiddetto partito “municipalista”, il disegno di un allargamento del regno nel Lombardo-Veneto, ma temeva che l’egemonia dei federalisti-repubblicani sulla rivolta in atto ne pregiudicasse il raggiungimento.
 
 L’intervento piemontese caccia definitivamente gli austriaci, che si rinchiudono nel cosiddetto “quadrilatero” (le fortezze di Verona, Legnago, Peschiera e Mantova) e suscita entusiasmi in tutti gli stati della penisola. Accorrono volontari da tutte le parti e per effetto della Lega promossa da Balbo, lo Stato Pontificio, il Gran Ducato toscano ed il Regno dei Borboni mandano truppe a sostegno della guerra anti-austriaca.
 
La conduzione politico-militare della guerra da parte dei piemontesi è fallimentare. La “piemontesizzazione” delle prime vittorie ed il contestuale esautoramento della Lega, favoriscono il ritiro dal conflitto degli Stati fino a quel momento alleati. Pio IX e Ferdinando II revocano le Costituzioni poco prima concesse nei loro Stati.
 
Anche sotto il profilo più propriamente tecnico-militare, il rifiuto preconcetto dei generali piemontesi di coordinare all’esercito regolare i volontari accorsi e la lentezza di movimento delle truppe, che favorisce l’arrivo di rinforzi per l’esercito austriaco, portano alla grave sconfitta di Custoza, dove vengono sbaragliate le truppe sabaude il 23-25 luglio 1848. Dopo aver promesso la sua difesa, Milano viene vergognosamente abbandonata alla vendetta dei vincitori.
 
[…] Il fallimento della guerra regia ed il naufragio dell’ ipotesi moderata e neo-guelfa aprono la strada ad un impetuoso ritorno dell’iniziativa democratica mazziniana della “guerra di popolo”. Alla Repubblica di Venezia guidata da Manin, si aggiungono il Granducato di Toscana….e Roma dove…si era costituita la repubblica retta da G.Mazzini, C.Armellini ed A.Saffi [8]
 
Di fronte alla possibile concretizzazione del disegno di uno Stato unico democratico nell’Italia centrale, il Governo sabaudo, dopo un iniziale tentativo di Gioberti di offrire aiuto a Pio IX e Leopoldo II, si decide a dichiarare nuovamente guerra all’Austria (Governo Chiodo-Rattazzi).
 
Questa volta Carlo Alberto subisce a Novara il 23 marzo 1849 un’altra pesante sconfitta, che lo costringe all’abdicazione in favore di V.Emanuele II. La reazione austriaca riporta il Granduca in Toscana, mentre un esercito francese, sceso in Italia in aiuto al Papa, costringe alla resa la Repubblica Romana dopo una difesa eroica condotta dai volontari sotto la guida di Garibaldi.
 
Il 1848 rappresenta un po’ la fase terminale dell’onda lunga che, considerata in maniera unitaria, dalla Rivoluzione francese del 1789 si protrae fino al 1870, assumendo, dopo il 1815, più la caratteristica di rivoluzione passiva-guerra di posizione, che quella di rivoluzione attiva-guerra di movimento come era stato fino ad allora.
 
[…] Il rapporto «rivoluzione passiva - guerra di posizione» nel Risorgimento italiano può essere studiato anche in altri aspetti. Importantissimo quello che si può chiamare del «personale» e l’altro della «radunata rivoluzionaria». Quello del «personale» può essere appunto paragonato a quanto si verificò nella guerra mondiale nel rapporto tra ufficiali di carriera e ufficiali di complemento da una parte e tra soldati di leva e volontari-arditi dall’altra. Gli ufficiali di carriera corrisposero nel Risorgimento ai partiti politici regolari, organici, tradizionali, ecc., che al momento dell’azione (1848) si dimostrarono inetti o quasi e furono nel 1848-49 soverchiati dall’ondata popolare-mazziniana-democratica, ondata caotica, disordinata, «estemporanca» per così dire, ma che tuttavia, al seguito di capi improvvisati o quasi (in ogni caso non di formazioni precostituite come era il partito moderato) ottennero successi indubbiamente maggiori di quelli ottenuti dai moderati: la Repubblica romana e Venezia mostrarono una forza di resistenza molto notevole. Nel periodo dopo il 48 il rapporto tra le due forze, quella regolare e quella «carismatica» si organizzò intorno a Cavour e Garibaldi e diede il massimo risultato, sebbene questo risultato fosse poi incamerato dal Cavour.
 
Questo aspetto è connesso all’altro, della «radunata». È da osservare che la difficoltà tecnica contro cui andarono sempre a spezzarsi le iniziative mazziniane fu quella appunto della «radunata rivoluzionaria». Sarebbe interessante, da questo punto di vista, studiare il tentativo di invadere la Savoia col Ramorino, poi quello dei fratelli Bandiera, del Pisacane ecc., paragonato con la situazione che si offrì a Mazzini nel 48 a Milano e nel 49 Roma e che egli non ebbe la capacità di organizzare. Questi tentativi di pochi non potevano non essere schiacciati in germe, perché sarebbe stato maraviglioso che le forze reazionarie, che erano concentrate e potevano operare liberamente (cioè non trovavano nessuna opposizione in larghi movimenti della popolazione) non schiacciassero le iniziative tipo Ramorino, Pisacane, Bandiera, anche se queste fossero state preparate meglio di quanto furono in realtà. Nel secondo periodo (1859-60) la radunata rivoluzionaria, come fu quella dei Mille di Garibaldi, fu resa possibile dal fatto che Garibaldi si innestava nelle forze statali piemontesi prima e poi che la flotta inglese protesse di fatto lo sbarco di Marsala, la presa di Palermo, e sterilizzò la flotta borbonica. A Milano dopo le cinque giornate, a Roma repubblicana, Mazzini avrebbe avuto la possibilità di costituire piazze d’armi per radunate organiche, ma non si propose di farlo, onde il suo conflitto con Garibaldi a Roma e la sua inutilizzazione a Milano di fronte a Cattaneo e al gruppo democratico milanese. [9]     
 
In Italia il biennio 1848-9 è il periodo in cui i moti insurrezionali su tutto il territorio, se è vero che non ottengono il risultato di costituire una nuova realtà, scuotono, però, dalle fondamenta l’assetto istituzionale di stati e staterelli, semplificano il quadro politico complessivo e pongono al centro del dibattito e dell’agenda politica la questione dell’unificazione territoriale.
 
[…] Mi pare che gli avvenimenti degli anni 1848-49, data la loro spontaneità, possano essere considerati come tipici per lo studio delle forze sociali e politiche della nazione italiana. Troviamo in quegli anni alcune formazioni fondamentali: i reazionari moderati, municipalisti –, i neoguelfi - democrazia cattolica –, e il partito d’azione - democrazia liberale di sinistra borghese nazionale –. Le tre forze sono in lotta fra loro e tutte e tre sono successivamente sconfitte nel corso dei due anni. Dopo la sconfitta avviene una riorganizzazione delle forze verso destra dopo un processo interno in ognuno dei gruppi di chiarificazione e scissione. La sconfitta più grave è quella dei neoguelfi, che muoiono come democrazia cattolica e si riorganizzano come elementi sociali borghesi della campagna e della città insieme ai reazionari costituendo la nuova forza di destra liberale conservatrice.[10]
 
Il biennio 1848-9 rappresenta uno di quei momenti, come se ne presenteranno anche in seguito, in cui il popolo italiano si trova unito a risolvere un problema comune. Dalla comune esperienza maturano delle riflessioni:
 
[…] Dopo il 1848 una critica dei metodi precedenti al fallimento fu fatta solo dai moderati e infatti tutto il movimento moderato si rinnovò, il neoguelfismo fu liquidato, uomini nuovi occuparono i primi posti di direzione. Nessuna autocritica invece da parte del mazzinianismo oppure autocritica liquidatrice, nel senso che molti elementi abbandonarono Mazzini e formarono l’ala sinistra del partito piemontese; unico tentativo «ortodosso», cioè dall’interno, furono i saggi del Pisacane, che però non divennero mai piattaforma di una nuova politica organica e ciò nonostante che il Mazzini stesso riconoscesse che il Pisacane aveva una «concezione strategica» della Rivoluzione nazionale italiana.[11]

[1] A.Gramsci, Quaderni del carcere. Edizione critica a cura di V. Gerratana. Ed.Einaudi 1975 pag.1997
[2] A.Gramsci, Op.cit. pag.2037
[3] A.Gramsci, Op.cit. pag.1988
[4] A.Gramsci, Op.cit. pagg.2061-2
[5] A.Gramsci, Op.cit. pag.961
[6] A.Gramsci, Op.cit. pag.1164
[7] P.Ortoleva e M.Revelli,Storia dell’Età Contemporanea.Ed scolastiche Bruno Mondatori. Milano 1988. pag.118
[8] P.Ortoleva e M.Revelli,Op.cit. pag.119
[9] A.Gramsci, Op.cit. pag.1772
[10] A.Gramsci, Op.cit. pag.944
[11] A.Gramsci, Op.cit. pag.1769

Capitolo V
 
Le sconfitte del biennio 1848-49 spostano “naturalmente” a destra tutto l’asse politico del Paese. Le parole d’ordine dell’unificazione del territorio nazionale e dell’indipendenza dall’Austria diventano oggettivamente prioritarie rispetto a quella dell’assetto istituzionale del nuovo Stato (monarchia o repubblica).
 
[…] Ora è proprio sulla parola d’ordine di «indipendenza e unità», senza tener conto del concreto contenuto politico di tali formule generiche, che i moderati dopo il 48 formarono il blocco nazionale sotto la loro egemonia, influenzando i due capi supremi del Partito d’Azione, Mazzini e Garibaldi, in diversa forma e misura. Come i moderati fossero riusciti nel loro intento di deviare l’attenzione dal nocciolo alla buccia dimostra, tra le tante altre, questa espressione del Guerrazzi in una lettera a uno studente siciliano … «Sia che vuolsi – o dispotismo, o repubblica o che altro – non cerchiamo di dividerci; con questo cardine, caschi il mondo, ritroveremo la via». Del resto tutta l’operosità di Mazzini è stata concretamente riassunta nella continua e permanente predicazione dell’unità.[1]
 
Tutto il decennio 1850-60, sotto un certo profilo, si può considerare come il periodo della sconfitta politica definitiva del partito dei democratici-repubblicani di Mazzini e della loro resa al partito dei monarchici-costituzionalisti di Cavour.
 
Una sconfitta che culminerà con lo scioglimento del Partito Repubblicano e la formazione del Partito d’Azione, così chiamato in contrapposizione ad un più propagandato che reale ”partito d’ordine”. Si dimostra, in tal modo, che il discrimine fra i due schieramenti non passa più, ormai, attraverso contrapposti obbiettivi politici, ma, nell’ambito di un comune obbiettivo, tra chi, a dire del Mazzini, si adopera per realizzarlo e chi no.
 
L’egemonia politico-culturale dello schieramento moderato su quello democratico, che nella propaganda politica “bi-partizan” dell’epoca passa attraverso l’appello alla battaglia unitaria per l’indipendenza nazionale, continuerà nei decenni successivi, come Gramsci ebbe a dire a proposito del fenomeno del “trasformismo”
 
[…]Il così detto «trasformismo» non è che l’espressione parlamentare dei fatto che il Partito d’Azione viene incorporato molecolarmente dai moderati e le masse popolari vengono decapitate, non assorbite nell’ambito del nuovo Stato.[2]
 
ed influenzerà, a mio parere, tutta la storiografia post-unitaria e oltre.
 
Tutto il Risorgimento, infatti, viene visto da questa storiografia come un susseguirsi di Guerre di Indipendenza, interpretando, dal “punto di vita italiano” anche la I Guerra mondiale come la IV Guerra di Indipendenza dall’Austria. Si finisce, così, per mettere sullo stesso piano l’Italia ed un qualsiasi paese coloniale, come potrebbe essere ad esempio l’India, in lotta per l’indipendenza dall’Inghilterra, economicamente più evoluta.
 
Vengono, in tal modo, ad essere occultati del tutto la natura di classe del processo unitario, il blocco storico-sociale che ne è il protagonista, e lo scontro di classe che caratterizza, fin dai primi decenni, la vita dello Stato post-unitario, fino ad arrivare allo scontro fra nazioni capitalistiche, che nel primo conflitto mondiale hanno ormai raggiunto lo stadio dell’imperialismo e confliggono fra loro per la conquista di nuovi mercati, l’accaparramento delle materie prime e l’esportazione di capitali.
 
Tuttavia, i primi anni del decennio ’50 - ‘60, nonostante le sconfitte delle Repubbliche di Roma e Venezia, sembrano quasi favorevoli al leader della Giovine Italia, che costituisce il Comitato centrale democratico europeo ed il Comitato nazionale italiano, come articolazione di quello.
 
Di fronte alla chiamata mazziniana il silenzio di alcuni (Manin), in fase di ripensamento critico di tutta l’esperienza repubblicana, e, per ragioni opposte, il rifiuto aperto di altri (Cattaneo e Ferrari), motivato proprio dalla subordinazione della parola d’ordine repubblicana a quella dell’unità nazionale, lasciano trasparire la reale scarsa credibilità delle proposte politico-organizzative di Mazzini, la disgregazione in atto del suo schieramento politico ed il progressivo isolamento suo personale.
 
L’isolamento politico del Mazzini si manifesterà apertamente, sia dopo il fallimento dell’insurrezione a Milano (1853), preceduta dalla scoperta dell’organizzazione mazziniana in Lombardia e dall’arresto e impiccagione dei suoi capi (martiri di Belfiore), sia con il tragico epilogo a Sapri della spedizione di C. Pisacane, che pur non essendo un mazziniano della prima ora, si era avvicinato al neo-costituito Partito d’Azione.
 
Per la prima volta nell’opinione pubblica democratica, ad arte sollecitata dalla propaganda moderata, allo sdegno ed alla riprovazione per gli atti brutali compiuti da regimi reazionari, quali l’Impero austriaco e il Regno borbonico, si affianca e prevale la valutazione negativa del sacrificio umano imposto dai metodi di lotta mazziniani.
 
Ma la perdita di egemonia del partito democratico sul movimento patriottico nazionale, in questa fase decisiva per il processo di unificazione, non può comprendersi, facendo riferimento solo ai due avvenimenti sopra richiamati, senza una valutazione, soprattutto, dei limiti soggettivi più complessivi, manifestati dalla sua leadership nel corso di tutto il processo.
 
Abbiamo visto sopra (Cap.III) quanto arretrata fosse la situazione economica italiana e quanto complessa fosse l’articolazione di un programma per realizzare quella politica di alleanze necessaria a far marciare il processo unitario in senso democratico e repubblicano.
 
[…]Su tutta questa serie di problemi complessi il Partito d’Azione fallì completamente: esso si limitò infatti a fare quistione di principio e di programma essenziale quella che era semplicemente quistione del terreno politico su cui tali problemi avrebbero potuto accentrarsi e trovare una soluzione legale: la questione della Costituente. Non si può dire che abbia fallito il partito moderato, che si proponeva l’espansione organica del Piemonte, voleva soldati per l’esercito piemontese e non insurrezioni o armate garibaldine troppo vaste.[3]
 
[…]Perché il Partito d’Azione fosse diventato una forza autonoma e, in ultima analisi, fosse riuscito per lo meno a imprimere al moto del Risorgimento un carattere più marcatamente popolare e democratico (più in là non poteva forse giungere date le premesse fondamentali del moto stesso), avrebbe dovuto contrapporre all’attività «empirica» dei moderati (che era empirica solo per modo di dire poiché corrispondeva perfettamente al fine) un programma organico di governo che riflettesse le rivendicazioni essenziali delle masse popolari, in primo luogo dei contadini: all’«attrazione spontanea» esercitata dai moderati avrebbe dovuto contrapporre una resistenza e una controffensiva «organizzate» secondo un piano.[4]
 
[…] La quistione deve essere impostata nei termini della «guerra di movimento – guerra d’assedio», cioè per cacciare gli Austriaci e i loro ausiliari italiani era necessario: 1) un forte partito italiano omogeneo e coerente: 2) che questo partito avesse un programma concreto e specificato; 3) che tale programma fosse condiviso dalle grandi masse popolari (che allora non potevano essere che agricole) e le avesse educate a insorgere «simultaneamente» su tutto il paese. Solo la profondità popolare del movimento e la simultaneità potevano rendere possibile la sconfitta dell’esercito austriaco e dei suoi ausiliari.[5]
 
E’ indubbio che la definizione di questo programma doveva contemplare al suo interno la proposta di risoluzione della questione città-campagna e, unita ad essa, una proposta di risoluzione della questione istituzionale, rivendicando il sistema elettorale a suffragio universale. Questa era la vera priorità per i democratici ed il Partito d’Azione.
 
[…] Invece il Partito d’Azione mancò addirittura di un programma concreto di governo. Esso, in sostanza, fu sempre, più che altro, un organismo di agitazione e propaganda al servizio dei moderati. I dissidi e i conflitti interni del Partito d’Azione, gli odii tremendi che Mazzini suscitò contro la sua persona e la sua attività da parte dei più gagliardi uomini d’azione (Garibaldi, Felice Orsini, ecc.) furono determinati dalla mancanza di una ferma direzione politica. Le polemiche interne furono in gran parte tanto astratte quanto lo era la predicazione del Mazzini, ma da esse si possono trarre utili indicazioni storiche …
 
Il Partito d’Azione era imbevuto della tradizione retorica della letteratura italiana: confondeva l’unità culturale esistente nella penisola – limitata però a uno strato molto sottile della popolazione e inquinata dal cosmopolitismo vaticano – con l’unità politica e territoriale delle grandi masse popolari che erano estranee a quella tradizione culturale e se ne infischiavano dato che ne conoscessero l’esistenza stessa.[6]
 
Sarebbe stato necessario fare tesoro dell’esperienza della Rivoluzione francese e del giacobinismo storico, che i democratici italiani avrebbero dovuto studiare a fondo.
 
Invece,
 
[…]…il Partito d’Azione fu sempre implicitamente antifrancese per l’ideologia mazziniana[7]
 
e subì
 
…l’atmosfera di intimidazione (panico di un 93 terroristico rinforzato dagli avvenimenti francesi del 48-49) che lo rendeva esitante ad accogliere nel suo programma determinate rivendicazioni popolari (per esempio la riforma agraria). [8]
 
[…] Si può osservare ancora che lo spauracchio che dominò l’Italia prima del 1859 non fu quello del comunismo, ma quello della Rivoluzione francese e del terrore, non fu «panico» di borghesi, ma panico di «proprietari terrieri», e del resto comunismo, nella propaganda di Metternich, era semplicemente la quistione e la riforma agraria.[9]
 
[…] Se in Italia non si formò un partito giacobino ci sono le sue ragioni da ricercare nel campo economico, cioè nella relativa debolezza della borghesia italiana e nel clima storico diverso dell’Europa dopo il 1815. Il limite trovato dai giacobini, nella loro politica di forzato risveglio delle energie popolari francesi da alleare alla borghesia, con la legge Chapelier e quella sul «maximum», si presentava nel 48 come uno «spettro» già minaccioso, sapientemente utilizzato dall’Austria, dai vecchi governi e anche dal Cavour (oltre che dal papa). La borghesia non poteva (forse) più estendere la sua egemonia sui vasti strati popolari che invece poté abbracciare in Francia (non poteva per ragioni soggettive, non oggettive), ma l’azione sui contadini era certamente sempre possibile.
 
Paradossalmente, proprio in questo periodo (dopo il 1848) si dimostra più giacobino l’abate liberal-moderato V. Gioberti che non Mazzini:
 
[…]Dopo il 48, nel Rinnovamento, non solo non c’è accenno al panico che il 93 aveva diffuso nella prima metà del secolo, ma anzi il Gioberti mostra chiaramente di avere simpatie per i giacobini (egli giustifica lo sterminio dei girondini e la lotta su due fronti dei giacobini: contro gli stranieri invasori e contro i reazionari interni, anche se, molto temperatamente, accenna ai metodi giacobini che potevano essere più dolci ecc.). Questo atteggiamento del Gioberti verso il giacobinismo francese dopo il 48 è da notare come fatto culturale molto importante: si giustifica con gli eccessi della reazione dopo il 48, che portavano a comprendere meglio e a giustificare la selvaggia energia del giacobinismo francese.
 
Ma oltre a questo tratto è da notare che nel Rinnovamento il Gioberti si manifesta un vero e proprio giacobino, almeno teoricamente, e nella situazione data italiana. Gli elementi di questo giacobinismo possono a grandi tratti così riassumersi: 1) Nell’affermazione dell’egemonia politica e militare del Piemonte che dovrebbe, come regione, essere quello che Parigi fu per la Francia: questo punto è molto interessante ed è da studiare nel Gioberti anche prima del 48. Il Gioberti sentì l’assenza in Italia di un centro popolare di movimento nazionale rivoluzionario come fu Parigi per la Francia e questa comprensione mostra il realismo politico del Gioberti. Prima del 48, Piemonte-Roma dovevano essere i centri propulsori, per la politica-milizia il primo, per l’ideologia-religione la seconda. Dopo il 48, Roma non ha la stessa importanza, anzi: il Gioberti dice che il movimento deve essere contro il Papato. 2) Il Gioberti, sia pure vagamente, ha il concetto del «popolare-nazionale» giacobino, dell’egemonia politica, cioè dell’alleanza tra borghesi-intellettuali [ingegno] e il popolo; ciò in economia (e le idee del Gioberti in economia sono vaghe ma interessanti) e nella letteratura (cultura), in cui le idee sono più distinte e concrete perché in questo campo c’è meno da compromettersi. ….
 
In ogni modo che l’assenza di un «giacobinismo italiano» fosse sentita, appare dal Gioberti. [10]
 
Il più grande difetto del Partito d’Azione, che poi è il punto di maggior distanza dal giacobinismo storico, è, quindi, quello di non aver capito ed affrontato la questione contadina.
 
[…]È evidente che per contrapporsi efficacemente ai moderati, il Partito d’Azione doveva legarsi alle masse rurali, specialmente meridionali, essere «giacobino» non solo per la «forma» esterna, di temperamento, ma specialmente per il contenuto economico-sociale: il collegamento delle diverse classi rurali che si realizzava in un blocco reazionario attraverso i diversi ceti intellettuali legittimisti-clericali poteva essere dissolto per addivenire ad una nuova formazione liberale-nazionale solo se si faceva forza in due direzioni: sui contadini di base, accettandone le rivendicazioni elementari e facendo di esse parte integrante del nuovo programma di governo, e sugli intellettuali degli strati medi e inferiori, concentrandoli e insistendo sui motivi che più li potevano interessare (e già la prospettiva della formazione di un nuovo apparato di governo, con le possibilità di impiego che offre, era un elemento formidabile di attrazione su di essi, se la prospettiva si fosse presentata come concreta perché poggiata sulle aspirazioni dei rurali).
 
Il rapporto tra queste due azioni era dialettico e reciproco: l’esperienza di molti paesi, e prima di tutto della Francia nel periodo della grande rivoluzione, ha dimostrato che se i contadini si muovono per impulsi «spontanei», gli intellettuali cominciano a oscillare e, reciprocamente, se un gruppo di intellettuali si pone sulla nuova base di una politica filocontadina concreta, esso finisce col trascinare con sé frazioni di massa sempre più importanti.
 
Si può dire però che, data la dispersione e l’isolamento della popolazione rurale e la difficoltà quindi di concentrarla in solide organizzazioni, conviene iniziare il movimento dai gruppi intellettuali; in generale però è il rapporto dialettico tra le due azioni che occorre tener presente.
 
Si può anche dire che partiti contadini nel senso stretto della parola è quasi impossibile crearne: il partito contadino si realizza in generale solo come forte corrente di opinioni, non già in forme schematiche d’inquadra mento burocratico; tuttavia l’esistenza anche solo di uno scheletro organizzativo è di utilità immensa, sia per una certa selezione di uomini, sia per controllare i gruppi intellettuali e impedire che gli interessi di casta li trasportino impercettibilmente in altro terreno. [11]
 
[…]Perché il Partito d’Azione non pose in tutta la sua estensione la quistione agraria? Che non la ponessero i moderati era ovvio: l’impostazione data dai moderati al problema nazionale domandava un blocco di tutte le forze di destra, comprese le classi dei grandi proprietari terrieri, intorno al Piemonte come Stato e come esercito. La minaccia fatta dall’Austria di risolvere la questione agraria a favore dei contadini, ..non solo gettò lo scompiglio tra gli interessati in Italia, determinando tutte le oscillazioni dell’aristocrazia (fatti di Milano del febbraio 53 e atto di omaggio delle più illustri famiglie milanesi a Francesco Giuseppe proprio alla vigilia delle forche di Belfiore), ma paralizzò lo stesso Partito d’Azione, che in questo terreno pensava come i moderati e riteneva «nazionali» l’aristocrazia e i proprietari e non i milioni di contadini.
 
Solo dopo il febbraio 53 Mazzini ebbe qualche accenno sostanzialmente democratico (vedi Epistolario di quel periodo), ma non fu capace di una radicalizzazione decisiva del suo programma astratto. …
 
La non impostazione della quistione agraria portava alla quasi impossibilità di risolvere la questione del clericalismo e dell’atteggiamento antiunitario del Papa. Sotto questo riguardo i moderati furono molto più arditi del Partito d’Azione: è vero che essi non distribuirono i beni ecclesiastici fra i contadini, ma se ne servirono per creare un nuovo ceto di grandi e medi proprietari legati alla nuova situazione politica, e non esitarono a manomettere la proprietà terriera, sia pure solo quella delle Congregazioni.
 
Il Partito d’Azione, inoltre, era paralizzato, nella sua azione verso i contadini, dalle velleità mazziniane di [una] riforma religiosa, che non solo non interessava le grandi masse rurali, ma al contrario le rendeva passibili di una sobillazione contro i nuovi eretici. L’esempio della Rivoluzione francese era lì a dimostrare che i giacobini, che erano riusciti a schiacciare tutti i partiti di destra fino ai girondini sul terreno della quistione agraria e non solo a impedire la coalizione rurale contro Parigi ma a moltiplicare i loro aderenti nelle provincie, furono danneggiati dai tentativi di Robespierre di instaurare una riforma religiosa, che pure aveva, nel processo storico reale, un significato e una concretezza immediati. (Bisognerebbe studiare attentamente la politica agraria reale della Repubblica Romana e il vero carattere della missione repressiva data da Mazzini a Felice Orsini nelle Romagne e nelle Marche: in questo periodo e fino al 70 – anche dopo – col nome di brigantaggio si intendeva quasi sempre il movimento caotico, tumultuario e punteggiato di ferocia, dei contadini per impadronirsi della terra).[12]
 
[…] È da studiare la condotta politica dei garibaldini in Sicilia nel 1860, condotta politica che era dettata da Crispi: i movimenti di insurrezione dei contadini contro i baroni furono spietatamente schiacciati e fu creata la Guardia nazionale anticontadina; è tipica la spedizione repressiva di Nino Bixio nella regione catanese, dove le insurrezioni furono più violente.[13]
 
L’impostazione mistico-idealistica dell’azione politica, unitamente ai suoi pregiudizi antifrancesi, impediscono a Mazzini di porsi ed affrontare la questione contadina e di utilizzare in questo campo il contributo che può venire proprio da un democratico, specialista in materia, Giuseppe Ferrari.
 
[…]… Ferrari … fu lo «specialista» inascoltato di quistioni agrarie nel Partito d’Azione. Nel Ferrari occorre anche studiare bene l’atteggiamento verso il bracciantato agricolo, cioè i contadini senza terra e viventi alla giornata, sui quali egli fonda una parte cospicua delle sue ideologie, per le quali egli è ancora ricercato e letto da determinate correnti …. Occorre riconoscere che il problema del bracciantato è difficilissimo e anche oggi di ardua soluzione. In generale occorre tener presenti questi criteri: i braccianti sono ancora oggi, nella maggior parte, ed erano quindi tanto più nel periodo del Risorgimento, dei semplici contadini senza terra, non degli operai di una industria agricola sviluppata con capitale concentrato e con la divisione del lavoro; nel periodo del Risorgimento era più diffuso, in modo rilevante, il tipo dell’obbligato in confronto a quello dell’avventizio. La loro psicologia perciò è, con le dovute eccezioni, la stessa del colono e del piccolo proprietario ….
 
La quistione si poneva in forma acuta non tanto nel Mezzogiorno dove il carattere artigianesco del lavoro agricolo era troppo evidente, ma nella valle padana dove esso è più velato…
 
Durante il Risorgimento il problema del bracciantato padano appariva sotto la forma di un fenomeno pauroso di pauperismo.[14]
 
Un altro elemento che rimarca la distanza fra Partito d’Azione in Italia e giacobini in Francia è quello della volontà di diventare il partito dirigente della classe di riferimento, la borghesia, che portò i francesi a condurre una lotta senza quartiere contro i partiti rivali:
 
[…] Nel Partito d’Azione non si trova niente che rassomigli a questo indirizzo giacobino, a questa inflessibile volontà di diventare il partito dirigente. Certo occorre tener conto delle differenze: in Italia la lotta si presentava come lotta contro i vecchi trattati e l’ordine internazionale vigente e contro una potenza straniera, l’Austria, che li rappresentava e li sosteneva in Italia, occupando una parte della penisola e controllando il resto. Anche in Francia questo problema si presentò, almeno in un certo senso, perché ad un certo punto la lotta interna divenne lotta nazionale combattuta alla frontiera, ma ciò avvenne dopo che tutto il territorio era conquistato alla rivoluzione e i giacobini seppero dalla minaccia esterna trarre elementi per una maggiore energia all’interno: essi compresero bene che per vincere il nemico esterno dovevano schiacciare all’interno i suoi alleati e non esitarono a compiere i massacri di settembre. In Italia questo legame che pur esisteva, esplicito ed implicito, tra l’Austria e una parte almeno degli intellettuali, dei nobili e dei proprietari terrieri, non fu denunziato dal Partito d’Azione o almeno non fu denunziato con la dovuta energia e nel modo praticamente più efficace, non divenne elemento politico attivo. Si trasformò «curiosamente», in una quistione di maggiore o minore dignità patriottica e dette poi luogo a uno strascico di polemiche acrimoniose e sterili fin dopo il 1898.[15]
 
Infine, un ultimo elemento, che rivela la vacuità del programma politico dei democratici e la loro incapacità di porsi come partito egemone nel processo unitario, è la mancata definizione della questione politico-militare.
 
La questione politico-militare nasce dalla presenza in Italia di un esercito, quello austriaco, vero gendarme posto a tutela dei regimi più reazionari e dalla necessità di dare continuità alle esperienze di volontariato che episodicamente, ma spesso con grande successo, vengono messe in campo man a mano che scoppiano moti insurrezionali (vedi il ’48, la Repubblica romana, la stessa spedizione dei Mille).
 
Nonostante che fra i democratici militino capi militari geniali e capacissimi, primo fra tutti G.Garibaldi, e teorici del calibro di C.Pisacane, la questione militare non viene mai messa all’ordine del giorno e dibattuta nel movimento democratico, che per questo finisce, anche sotto il profilo militare, per fungere da stampella dei moderati, in questo caso dell’esercito piemontese, i cui capi, pur sfruttandone le capacità, non vorranno mai riconoscere il valore e l’importanza del Corpo dei Volontari.
 
(Esempio emblematico sarà la richiesta di Garibaldi, avanzata dopo l’impresa vittoriosa dei Mille nel Regno dei Borboni e respinta dal re e dalle gerarchie militari, di integrare nell’esercito regolare italiano, con il grado conseguito da ciascuno in battaglia, gli ufficiali del Corpo dei Volontari) .
 
Così come per la questione agraria G.Ferrari rappresenta il teorico, le cui conoscenze potrebbero essere messe a frutto dal movimento democratico, nella questione politico-militare della costruzione dell’Esercito di Liberazione Nazionale, embrione del futuro Esercito Italiano, Carlo Pisacane, che pur possiede la visione strategica e la capacità di affrontare il problema, non viene minimamente coinvolto, rimanendo isolato.
 
[…] Si può osservare che il Pisacane, nei suoi Saggi, ….comprende, a differenza del Mazzini, tutta l’importanza che ha la presenza in Italia di un agguerrito esercito austriaco, sempre pronto a intervenire in ogni parte della penisola, e che inoltre ha dietro di sé tutta la potenza militare dell’Impero asburgico, cioè una matrice sempre pronta a formare nuovi eserciti di rincalzo.[16]
 
Dal punto di vista politico-militare, Gramsci accosta Pisacane a Machiavelli, nelle cui
 
[…]…scritture politico-militari … è vista abbastanza bene la necessità di subordinare organicamente le masse popolari ai ceti dirigenti per creare una milizia nazionale capace di eliminare le compagnie di ventura.
 
A questa corrente del Machiavelli deve forse essere legato Carlo Pisacane, per il quale il problema di soddisfare le rivendicazioni popolari (dopo averle suscitate con la propaganda) è visto prevalentemente dal punto di vista militare. A proposito del Pisacane occorre analizzare alcune antinomie della sua concezione: il Pisacane, nobile napoletano, era riuscito a impadronirsi di una serie di concetti politico-militari posti in circolazione dalle esperienze guerresche della rivoluzione francese e di Napoleone, trapiantati a Napoli sotto i regni di Giuseppe Buonaparte e di Gioacchino Murat, ma specialmente per l’esperienza viva degli ufficiali napoletani che avevano militato con Napoleone….; Pisacane comprese che senza una politica democratica non si possono avere eserciti nazionali a coscrizione obbligatoria, ma è inspiegabile la sua avversione contro la strategia di Garibaldi e la sua diffidenza contro Garibaldi; egli ha verso Garibaldi lo stesso atteggiamento sprezzante che avevano verso Napoleone gli Stati Maggiori dell’antico regime.[17]
 
Tuttavia, i limiti che caratterizzano il movimento democratico si riflettono anche nelle proposte politiche di Pisacane, che, per di più, rimane anche isolato.
 
[…]La verità è che il programma del Pisacane era altrettanto indeterminato di quello del Mazzini e anch’esso segnava solo una tendenza generale, che come tendenza era un po’ più precisa di quella del Mazzini.[18]
 
[…]….anche per il Pisacane è da dire che non rappresentava nel Risorgimento una tendenza «realistica» perché isolato, senza un partito, senza quadri predisposti per il futuro Stato ecc.[19]
 
Riepilogando, mi pare che le differenze più grosse fra il Partito dei democratici-repubblicani italiani ed il giacobinismo storico francese che sono, anche, le critiche più importanti che Gramsci muove al Partito d’Azione (come si chiamerà a partire dalla metà degli anno ’50 il partito democratico) si possano riassumere in :
 
1. mancanza di volontà nel diventare partito egemone dello schieramento borghese, attraverso una battaglia politica condotta contro gli schieramenti politici avversi e
 
2. mancanza di un programma politico articolato, comprendente al suo interno la questione agraria e la questione militare.
 
Sul fronte opposto a quello dei democratici gli avvenimenti del biennio 1848-9 operano una chiarificazione politica e favoriscono l’isolamento della componente più oltranzista dell’aristocrazia piemontese (Solaro della Margherita), antiliberale ed antidemocratica più che anti-austriaca, a tutto vantaggio della componente più moderata che per raggiungere l’obbiettivo dell’unificazione nazionale non disdegna l’alleanza con il movimento democratico, anche se nel rapporto di alleanza si adopera a tenerlo in posizione subordinata, evitando di riconoscerne pubblicamente la dignità, ed evitando, soprattutto, che siano le masse popolari a rendersi protagoniste del processo.
 
Sconfitta dai fatti l’ipotesi politica neo-guelfa, sostenuta da Gioberti, di pervenire all’unità attraverso una Confederazione di Stati a guida papalina, sempre di più si fa strada l’ipotesi che sia il Piemonte e la monarchia sabauda a dover svolgere un ruolo di unificazione-allargamento del Regno, sfruttando all’uopo quel gioco di alleanze internazionali che sempre più si volge contro l’Impero austro-ungarico.
 
E’ Cavour il vero protagonista-regista del decennio 1850-60.
 
Secondogenito della famiglia dei Benso, nobili titolari della Contea di Cavour, eredita dal padre la tenuta di Leri, che la famiglia ha acquistato per denaro ai tempi del Regno napoleonico, e la trasforma negli anni quaranta in una moderna azienda capitalistica, specializzata nella produzione risicola, che Camillo commercializza direttamente, girando per i principali Paesi europei.
 
Di formazione politica cattolico-liberale, entra in politica stimolato dall’azione riformatrice di Pio IX, ma ben presto antepone il liberalismo al cattolicesimo. Fonda e dirige con Balbo il giornale Il Risorgimento, dalle cui pagine incita la monarchia sabauda all’intervento anti-austriaco             durante le cinque giornate di Milano. Nel ’49 diventa deputato ed una delle sue prime leggi istituisce una imposta fondiaria, giuridicamente modellata su quella vigente nei paesi più progrediti (Francia e Inghilterra), che colpisce la rendita fondiaria, ed in particolare quella degli Enti ecclesiastici (imposta di manomorta), favorendo gli investimenti capitalistici in agricoltura.
 
Resosi conto della mancanza di prospettive della proposta politica neo-guelfa, si adopera con successo per la costruzione di un nuovo schieramento centrista, che, isolate le componenti della destra più oltranzista, unisce i liberali moderati con i democratici più realistici (Rattazzi-Correnti-Dabòrmida) sulla base di una piattaforma politica di compromesso che prevede laicizzazione e modernizzazione del Regno piemontese, senza, però, la pregiudiziale repubblicana e la rivendicazione del suffragio universale o solo di un suo allargamento. E’ la politica del cosiddetto connubio.
 
L’arte del compromesso e l’indubbia capacità politica di saper sfruttare a proprio vantaggio gli avvenimenti consentono a Cavour di spaccare ulteriormente il fronte democratico, già in crisi di identità agli inizi degli anni cinquanta, e di approfondirne lo smembramento, attirando sul partito liberal-moderato le simpatie di tutti i democratici, con l’offerta di asilo politico e di indennizzo economico per le proprietà confiscate agli esuli milanesi dopo le cinque giornate e con il ritiro dell’Ambasciatore piemontese da Vienna dopo le condanne a morte di Belfiore.
 
L’operazione politica appena descritta, che marcia di pari passo con la perdita di credibilità del Mazzini, di cui si è detto sopra, culmina, dopo i fallimenti dell’insurrezione milanese del ’53 e soprattutto della spedizione di Pisacane, con la costituzione della Società Nazionale, fondata a Torino nell’agosto del 1857 dagli esuli di tutta Italia sulla base della proposta di pervenire all’unità sotto la bandiera sabauda, a cui aderirà anche Garibaldi.
 
L’inserimento del Piemonte nel gioco internazionale di alleanze anti-austriache che si svolge nello scacchiere europeo, prima con la guerra di Crimea e poi con i contatti ed i trattati con la Francia e l’Inghilterra, completa l’operazione politica che consente al Regno piemontese di essere il vero protagonista del processo di unificazione, sfruttando a proprio vantaggio anche l’impresa dei Mille, guidata da Garibaldi.
 
Non va dimenticato, a riguardo, che le condizioni internazionali favorevoli al processo di unificazione, in parte costruite dal Cavour ed in parte determinatesi spontaneamente, vengono ad arte esagerate per sminuire l’importanza del contributo popolare “spontaneo” portato al processo stesso, che in tal modo appare nella forma di progressive annessioni di territori al regno piemontese, suggellate da plebisciti popolari.
 
[…] I rapporti internazionali hanno certo avuto una grande importanza nel determinare la linea di sviluppo del Risorgimento italiano, ma essi sono stati esagerati dal partito moderato e da Cavour a scopo di partito. È notevole, a questo proposito, il fatto di Cavour che teme come il fuoco l’iniziativa garibaldina prima della spedizione di Quarto e del passaggio dello Stretto, per le complicazioni internazionali che poteva creare e poi è spinto egli stesso dall’entusiasmo creato dai Mille nell’opinione europea fino a vedere come fattibile una immediata nuova guerra contro l’Austria. Esisteva in Cavour una certa deformazione professionale del diplomatico, che lo portava a vedere «troppe» difficoltà e lo induceva a esagerazioni «cospirative» e a prodigi, che sono in buona parte funamboleschi, di sottigliezza e di intrigo. In ogni caso il Cavour operò egregiamente come uomo di partito: che poi il suo partito rappresentasse i più profondi e duraturi interessi nazionali, anche solo nel senso della più vasta estensione da dare alla comunità di esigenze della borghesia con la massa popolare, è un’altra quistione.[20]
 
Ma al di là delle indubbie capacità politiche di Cavour, occorre analizzare, con le parole di Gramsci, quali sono le condizioni storico-politiche che consentono ai moderati di esercitare un rapporto di egemonia (direzione) su tutto il movimento democratico e quali i metodi adottati.
 
[…]…storicamente il Partito d’Azione fu guidato dai moderati: l’affermazione attribuita a Vittorio Emanuele II di «avere in tasca» il Partito d’Azione o qualcosa di simile è praticamente esatta e non solo per i contatti personali del Re con Garibaldi ma perché di fatto il Partito d’Azione fu diretto «indirettamente» da Cavour e dal Re….
 
I moderati continuarono a dirigere il Partito d’Azione anche dopo il 1870 e il 1876 e il così detto «trasformismo» non è stato che l’espressione parlamentare di questa azione egemonica intellettuale, morale e politica. Si può anzi dire che tutta la vita statale italiana dal 1848 in poi è caratterizzata dal trasformismo, cioè dall’elaborazione di una sempre più larga classe dirigente nei quadri fissati dai moderati dopo il 1848 e la caduta delle utopie neoguelfe e federalistiche, con l’assorbimento graduale, ma continuo e ottenuto con metodi diversi nella loro efficacia, degli elementi attivi sorti dai gruppi alleati e anche da quelli avversari e che parevano irreconciliabilmente nemici.
 
In questo senso la direzione politica è diventata un aspetto della funzione di dominio, in quanto l’assorbimento delle élites dei gruppi nemici porta alla decapitazione di questi e al loro annichilimento per un periodo spesso molto lungo. Dalla politica dei moderati appare chiaro che ci può e ci deve essere una attività egemonica anche prima dell’andata al potere e che non bisogna contare solo sulla forza materiale che il potere dà per esercitare una direzione efficace: appunto la brillante soluzione di questi problemi ha reso possibile il Risorgimento nelle forme e nei limiti in cui esso si è effettuato, senza «Terrore», come «rivoluzione senza rivoluzione» ossia come «rivoluzione passiva» per impiegare un’espressione del Cuoco in un senso un po’ diverso da quello che il Cuoco vuole dire.[21]
 
Occorre su questo tema indagare più in profondità di quali classi sociali furono espressione i moderati e quali metodi adottarono per esercitare l’egemonia sui democratici:
 
[…]Tutto il problema della connessione tra le varie correnti politiche del Risorgimento, cioè dei loro rapporti reciproci e dei loro rapporti con i gruppi sociali omogenei o subordinati esistenti nelle varie sezioni (o settori) storiche del territorio nazionale, si riduce a questo dato di fatto fondamentale: i moderati rappresentavano un gruppo sociale relativamente omogeneo, per cui la loro direzione subì oscillazioni relativamente limitate (e in ogni caso secondo una linea di sviluppo organicamente progressivo), mentre il così detto Partito d’Azione non si appoggiava specificamente a nessuna classe storica e le oscillazioni subite dai suoi organi dirigenti in ultima analisi si componevano secondo gli interessi dei moderati…[22]
 
…. I moderati erano intellettuali «condensati» già naturalmente dall’organicità dei loro rapporti con i gruppi sociali di cui erano l’espressione (per tutta una serie di essi si realizzava l’identità di rappresentato e rappresentante, cioè i moderati erano un’avanguardia reale, organica delle classi alte, perché essi stessi appartenevano economicamente alle classi alte: erano intellettuali e organizzatori politici e insieme capi d’azienda, grandi agricoltori o amministratori di tenute, imprenditori commerciali e industriali, ecc.). Data questa condensazione o concentrazione organica, i moderati esercitavano una potente attrazione, in modo «spontaneo», su tutta la massa d’intellettuali d’ogni grado esistenti nella penisola allo stato «diffuso», «molecolare», per le necessità, sia pure elementarmente soddisfatte, della istruzione e dell’amministrazione.[23]
 
[…] In quali forme e con quali mezzi i moderati riuscirono a stabilire l’apparato (il meccanismo) della loro egemonia intellettuale, morale e politica? In forme e con mezzi che si possono chiamare «liberali», cioè attraverso l’iniziativa individuale, «molecolare», «privata» (cioè non per un programma di partito elaborato e costituito secondo un piano precedentemente all’azione pratica e organizzativa). D’altronde, cioè era «normale», date la struttura e la funzione dei gruppi sociali rappresentati dai moderati dei quali i moderati erano il ceto dirigente, gli intellettuali in senso organico. Per il Partito d’Azione il problema si poneva in modo diverso e diversi sistemi organizzativi avrebbero dovuto essere impiegati.[24]
 
Con riferimento a quanto detto da Gramsci a proposito dei moderati, si può meglio comprendere il ruolo essenziale da lui attribuito, in generale, agli intellettuali nell’esercizio dell’egemonia (direzione) della classe rivoluzionaria sulle altre (soprattutto nella fase della presa del potere, quando la mancanza di mezzi di coercizione e di ricatto affidano inequivocabilmente al solo convincimento spontaneo la forza di attrazione e coesione del blocco storico-sociale) ed il ruolo e la funzione degl’intellettuali organici, cioè di quegl’intellettuali che, essendosi fusi con la classe di appartenenza, meglio ne rappresentano le aspirazioni immediate e future, e di come questi possano svolgere un ruolo catalizzatore su tutto il restante ceto intellettuale .
 
[…] Data questa condensazione o concentrazione organica, i moderati esercitavano una potente attrazione, in modo «spontaneo», su tutta la massa d’intellettuali d’ogni grado esistenti nella penisola allo stato «diffuso», «molecolare», per le necessità, sia pure elementarmente soddisfatte, della istruzione e dell’amministrazione.
 
Si rileva qui la consistenza metodologica di un criterio di ricerca storico-politica: non esiste una classe indipendente di intellettuali, ma ogni gruppo sociale ha un proprio ceto di intellettuali o tende a formarselo; però gli intellettuali della classe storicamente (e realisticamente) progressiva, nelle condizioni date, esercitano un tale potere d’attrazione che finiscono, in ultima analisi, col subordinarsi gli intellettuali degli altri gruppi sociali e quindi col creare un sistema di solidarietà fra tutti gli intellettuali con legami di ordine psicologico (vanità ecc.) e spesso di casta (tecnico-giuridici, corporativi, ecc.).[25]
 
E, parlando della capacità di attrazione sugli intellettuali da parte dei moderati, a cominciare da V.Gioberti, in misura diversa e progressivamente maggiore di quella esercitata dai democratici e da Mazzini in particolare, Gramsci dice:
 
Gioberti offriva agli intellettuali una filosofia che appariva come originale e nel tempo stesso nazionale, tale da porre l’Italia almeno allo stesso livello delle nazioni più progredite e dare una nuova dignità al pensiero italiano. Mazzini invece offriva solo delle affermazioni nebulose e degli accenni filosofici che a molti intellettuali, specialmente napoletani, dovevano apparire come vuote chiacchiere (l’abate Galiani aveva insegnato a sfottere quel modo di pensare e di ragionare).[26]
 
Ma è soprattutto nella struttura scolastica laica, riformata dallo Stato piemontese, con cui vengono a contatto gli intellettuali esuli della penisola che si realizzerà la conquista degli intellettuali alla causa dei moderati, condizione essenziale per la gestione dell’apparato dell’istruzione pubblica del futuro stato unitario.
 
Quistione della scuola: attività dei moderati per introdurre il principio pedagogico dell’insegnamento reciproco (Confalonieri, Capponi ecc.); movimento di Ferrante Aporti e degli asili, legato al problema del pauperismo. Nei moderati si affermava il solo movimento pedagogico concreto opposto alla scuola «gesuitica»; ciò non poteva non avere efficacia sia tra i laici, ai quali dava nella scuola una propria personalità, sia nel clero liberaleggiante e antigesuitico (ostilità accanita contro Ferrante Aporti, ecc.; il ricovero e l’educazione dell’infanzia abbandonata era un monopolio clericale e queste iniziative spezzavano il monopolio). Le attività scolastiche di carattere liberale o liberaleggiante hanno un gran significato per afferrare il meccanismo dell’egemonia dei moderati sugli intellettuali. L’attività scolastica, in tutti i suoi gradi, ha un’importanza enorme anche economica, per gli intellettuali di tutti i gradi: l’aveva allora anche maggiore di oggi, data la ristrettezza dei quadri sociali e le scarse strade aperte all’iniziativa dei piccoli borghesi (oggi: giornalismo, movimento dei partiti, industria, apparato statale estesissimo ecc. hanno allargato in modo inaudito le possibilità di impiego).
 
L’egemonia di un centro direttivo sugli intellettuali si afferma attraverso due linee principali: 1) una concezione generale della vita, una filosofia (Gioberti), che offra agli aderenti una «dignità» intellettuale che dia un principio di distinzione e un elemento di lotta contro le vecchie ideologie dominanti coercitivamente; 2) Un programma scolastico, un principio educativo e pedagogico originale che interessi e dia un’attività propria, nel loro campo tecnico, a quella frazione degli intellettuali che è la più omogenea e la più numerosa (gli insegnanti, dal maestro elementare ai professori di Università).
 
I Congressi degli scienziati che furono organizzati ripetutamente nel periodo del primo Risorgimento ebbero una doppia efficacia: 1) riunire gli intellettuali del grado più elevato, concentrandoli e moltiplicando il loro influsso; 2) ottenere una più rapida concentrazione e un più deciso orientamento negli intellettuali dei gradi inferiori, che sono portati normalmente a seguire gli Universitari e i grandi scienziati per spirito di casta.
 
Lo studio delle Riviste enciclopediche e specializzate dà un altro aspetto dell’egemonia dei moderati. Un partito come quello dei moderati offriva alla massa degli intellettuali tutte le soddisfazioni per le esigenze generali che possono essere offerte da un governo (da un partito al governo), attraverso i servizi statali. (Per questa funzione di partito italiano di governo servì ottimamente dopo il 48-49 lo Stato piemontese che accolse gli intellettuali esuli e mostrò in modello ciò che avrebbe fatto un futuro Stato unificato).[27]

[1] A.Gramsci, Quaderni del carcere. Edizione critica a cura di V. Gerratana. Ed.Einaudi 1975 pagg.2026-7
[2] A.Gramsci, Op.cit. pag.2042
[3] A.Gramsci, Op.cit. pagg.2044-5
[4] A.Gramsci, Op.cit. pag.2013
[5] A.Gramsci, Op.cit. pag.1932
[6] A.Gramsci, Op.cit. pag.2014
[7] A.Gramsci, Op.cit. pag.2015
[8] A.Gramsci, Op.cit. pagg.2012-3
[9] A.Gramsci, Op.cit. pag.1834
[10] A.Gramsci, Op.cit. pagg.1914-5
[11] A.Gramsci, Op.cit. pagg.2025-6
[12] A.Gramsci, Op.cit. pagg.2045-6
[13] A.Gramsci, Op.cit. pag.2045
[14] A.Gramsci, Op.cit. pagg.2025-6
[15] A.Gramsci, Op.cit. pag.2030
[16] A.Gramsci, Op.cit. pagg. 1775-6
[17] A.Gramsci, Op.cit. pagg. 2015-6
[18] A.Gramsci, Op.cit. pag. 1931
[19] A.Gramsci, Op.cit. pag. 1930
[20] A.Gramsci, Op.cit. pagg. 2033-4
[21] A.Gramsci, Op.cit. pagg. 2010-11
[22] A.Gramsci, Op.cit. pag. 2010
[23] A.Gramsci, Op.cit. pag. 2012
[24] A.Gramsci, Op.cit. pagg. 2011-2
[25] A.Gramsci, Op.cit. pag. 2012
[26] A.Gramsci, Op.cit. pagg. 2046-7
[27] A.Gramsci, Op.cit. pagg. 2047-8

Capitolo VI
 
Con la spedizione dei Mille si perviene allo Stato Unitario, che con la “breccia di Porta Pia” ingloba il territorio residuo dello Stato Pontificio, spostando a Roma la capitale (1871).
 
I termini di “rivoluzione passiva”, “rivoluzione-restaurazione”, che Gramsci usa per il Risorgimento italiano, prendendoli a prestito dal Cuoco, servono a descrivere un percorso che, sebbene inserito nel più complessivo processo avviato dalla Rivoluzione francese del 1789 che porta le borghesie nazionali dei vari paesi europei a conquistare il potere politico, spazzando via i regimi assolutistici e sostituendoli con governi costituzionali più o meno liberali, in Italia è, però, caratterizzato dalla passività delle grandi masse popolari (prevalentemente contadine), che nel corso del Risorgimento non vengono coinvolte.
 
[…] Ogni formazione di volontà collettiva nazionale-popolare è impossibile se le grandi masse dei contadini coltivatori non irrompono simultaneamente nella vita politica. Ciò intendeva il Machiavelli attraverso la riforma della milizia, ciò fecero i giacobini nella Rivoluzione francese, in questa comprensione è da identificare un giacobinismo precoce del Machiavelli, il germe (più o meno fecondo) della sua concezione della rivoluzione nazionale. Tutta la storia dal 1815 in poi mostra lo sforzo delle classi tradizionali per impedire la formazione di una volontà collettiva di questo genere, per mantenere il potere «economico-corporativo» in un sistema internazionale di equilibrio passivo.[1]
 
In Francia l’affermazione dei diritti dell’individuo, cittadino di uno stato di tipo nuovo, avviene in modo radicale, con la Rivoluzione, distruggendo l’Ancien Regime e costituendo una nuova entità, la Repubblica, che divide il potere sovrano del popolo in tre aspetti tenuti volutamente distinti ed indipendenti fra loro, a garanzia che non si riformi più un entità che li possa riassumere su di sé: i poteri Legislativo, Esecutivo e Giudiziario.
 
In Italia il processo di liquidazione delle varie monarchie assolutistiche coincide, come abbiamo visto, con la prima fase del Risorgimento, mentre la sua piena conclusione ed il suo sbocco finale in una monarchia costituzionale si possono identificare con la costituzione dello Stato unitario.
 
Se lo Stato unitario, quindi, rappresenta, da un lato la premessa allo sviluppo capitalistico nel nostro Paese e la cornice entro cui quello sviluppo può svolgersi, dall’altro il modo attraverso cui si giunge a questo risultato e, condizionato dal modo, la prima forma che assume lo Stato unitario dipendono, in maniera diretta, dal blocco storico protagonista del processo e dal rapporto di egemonia esercitato all’interno di questo blocco dall’aristocrazia terriera e dalla borghesia imprenditoriale del nord, principalmente piemontese.
 
E’ necessario, pertanto, descrivere sommariamente, con riferimento ai tre poteri fondamentali ed al rapporto fra loro, come si connota lo Stato piemontese dopo l’approvazione dello Statuto albertino (1848) e come si modifica negli anni successivi, atteso che sotto il profilo formale tutto il processo unitario si riduce alla conquista di nuovi territori della penisola da parte della monarchia sabauda e, quindi, all’esportazione-imposizione su tutto il territorio nazionale del modello piemontese di stato.[2]
 
Con lo Statuto Carlo Alberto cede al “popolo” una parte del suo potere, prima assoluto, cioè il potere Legislativo, anche se il potere Legislativo ceduto “vale al 50 % “, nel senso che il sistema previsto sulla Carta è bicamerale, con una Camera eletta dal “popolo” ed un Senato di nomina regia.
 
Se per la Camera dei Deputati si può parlare di una qualche “rappresentanza popolare” (con i necessari chiarimenti, sia per il sostantivo, che per l’aggettivo, derivanti dall’esame del meccanismo elettorale), per il Senato il problema non si pone, perché questa Camera è formata direttamente dal Re, che con nomina vitalizia ne sceglie i componenti selezionandoli fra ventuno categorie di “ottimati” (art.33).
 
Il Senato, che con la prima Camera va a costituire il sistema bicamerale, sul modello inglese. non ha mai, però, un vero significato ed alcun peso politico, almeno nel sentire comune; ma nessuno, nemmeno il fascismo, riuscirà a sbarazzarsi di questo “cadavere eccellente”, tenuto in vita sol perché rappresenta una garanzia del Re (potere Esecutivo) nei confronti del potere Legislativo.
 
La mancata previsione nello Statuto di una Corte di legittimità delle leggi, come è la Corte costituzionale, e l’esclusione dal testo di materie come le leggi elettorali o l’assetto amministrativo dello Stato, la cui codificazione è, così, demandata alla legislazione ordinaria delle Camere (come avverrà negli anni successivi) hanno fatto parlare i tecnici di “Costituzione flessibile” e di “Parlamento-Costituente perpetua”.
 
In realtà, a mio parere queste definizioni sono solo potenzialità sulla carta, che nel Paese reale dovranno fare i conti con i rapporti di forza fra monarchia e liberali, fra moderati e democratici, fra città e campagna.
 
Il potere legislativo concesso non è, comunque, assoluto ed indipendente dallo stesso re, non solo perché questi ha la possibilità di formare a suo piacimento una delle due camere, il Senato, ma soprattutto perché il re si riserva la prerogativa di sciogliere le Camere ed indire nuove elezioni (art.9 dello Statuto).
 
Questa prerogativa verrà usata in maniera sistematica, a partire dal 1849 (dopo il proclama di Moncalieri, quando per ben due volte gli elettori vengono chiamati alle urne, finché non emerge un’assise favorevole alla pace con l’Austria), fino alle elezioni del 1919;
 
…“sicchè si può dire che nel periodo liberale nessuna legislatura si concluse per scadenza naturale.”[3]
 
L’art.9 contempla anche la prerogativa del re di convocare la Camera dei Deputati dopo la sua elezione. Col tempo si tenta, pure, di estendere la tutela regia sulla Camera con la facoltà di fissare gli ordini del giorno delle sedute, ma questa prerogativa rimane alla Presidenza dell’assemblea, pur se la relativa sedia potrà essere occupata solo da persona gradita al potere Esecutivo.
 
Il discorso della Corona all’apertura della sessione della Camera rappresenta l’ atto di indirizzo politico del Governo, a cui, però, il Parlamento dovrà attenersi per tutta la vita della sessione, senza che questo discorso-indirizzo possa essere mai sottoposto a discussione.
 
La non autonomia piena ed, anzi, la quasi subordinazione del potere Legislativo (Camera dei Deputati) al potere Esecutivo (Re-Governo), la si ritrova, ancora nell’art.9, laddove si consente al Governo, utilizzando lo strumento del decreto che proroga la sessione della Camera, di by-passare il confronto con il Parlamento, quando questi è maggioritariamente ostile alla politica dell’esecutivo.
 
Così avviene nel 1899 per la discussione delle leggi liberticide del Governo Pelloux, poi approvate per decreto; avviene il 1894 con la mancata discussione parlamentare sullo scandalo della Banca Romana che coinvolge il Primo Ministero Crispi; ed avviene, infine, nel 1896 con la dichiarazione di guerra all’Eritrea sempre del Governo Crispi.
 
Per consuetudine a partire dal 1850 al decreto di proroga della sessione segue il suo scioglimento, che comporta sia la decadenza dei progetti di legge in discussione che la sospensione delle guarentigie attribuite ai deputati dagli artt. 45 e 46 dello Statuto. Questo meccanismo abbondantemente usato, mette in discussione il corretto ed autonomo funzionamento del Parlamento.
 
“…Questo modo di intendere l’esercizio delle funzioni parlamentari (che si accentuava nei periodi di guerra) non consentì al parlamento di esercitare il proprio controllo fiduciario sui governi, né ai governi di poter contare su maggioranze stabili e convinte” [4]
 
Anzi, alcune volte lo scioglimento rappresenta il castigo da infliggere ad un Parlamento colpevole di aver votato la sfiducia al Governo. Così succede il 1867 quando viene censurato da una mozione di sfiducia il comportamento illiberale assunto dal governo della Destra Storica in materia di libertà di riunione. Di fronte alle dimissioni presentate, il re, V. Emanuele II, le respinge e scioglie anticipatamente le camere.
 
Se il potere Legislativo viene ceduto ad un Parlamento parzialmente eletto, con lo Statuto il potere Esecutivo rimane, però, saldamente nelle mani del re e questo fa del Governo un’emanazione esclusivamente regale, senza una vera e propria legittimazione parlamentare.
 
Il Parlamento bicamerale, secondo lo Statuto, ha la prerogativa esclusiva del potere Legislativo e solo secondariamente una funzione di controllo sull’attività del governo in materie determinate (trattati internazionali, bilancio e imposte). In più di un’occasione il Parlamento finisce per essere di fatto espropriato anche del potere Legislativo, attraverso l’abuso della legislazione delegata e dei decreti legge emanati dal Governo, mentre quella funzione secondaria di controllo viene debolmente esercitata con commissioni di inchiesta e di vigilanza sul Governo.
 
Per via consuetudinaria e non legislativa, attesa l’ostilità della Casa reale sul punto, si cercherà il trasferimento di poteri per giungere ad un vero e proprio governo parlamentare, ma ogni volta per reazione si invocherà (1897) il “ritorno allo Statuto” (Sonnino) per eliminare l’istituto “deprecabile” della fiducia parlamentare.
 
Lo Statuto italiano, modellato con un riferimento vago alla monarchia costituzionale inglese, lasciando il potere esecutivo al re, che a sua volta lo delega a ministri da lui scelti, che davanti a lui giurano ed a lui rispondono, fà del re il vero “dominus” della vita politica, anche perché alla corona resta sempre il diritto di sanzionare le leggi attraverso la loro promulgazione .
 
“…Nomina dei ministri (art.65); “dissoluzione” della Camera [dei Deputati] (art.9); sanzione regia delle leggi (artt.3 e 56) sono i tre atti nei quali, nella forma di governo statutaria, non si esprime nessun principio democratico…
 
Almeno fino alla quarta legislatura (Governo D’Azeglio) è del tutto fuori luogo parlare per il Regno di Sardegna di governo parlamentare”[5]
 
Il re non designa il Primo ministero con un decreto, procedura che gli lascerebbe campo libero nella scelta dei ministri; in realtà, gli dà solo l’incarico, con una lettera a sua firma, riservandosi spesso lui il diritto di nominare direttamente alcuni ministri (in genere Esteri, Difesa/Guerra e Marina ).
 
In tal modo tiene l’incaricato sotto un costante ricatto, consistente nel fatto che la formazione del Gabinetto e la ricerca personale della maggioranza parlamentare di sostegno sono costantemente minacciate dalla possibilità di una revoca dell’incarico, che, immotivata, può intervenire in qualsiasi momento. Il decreto viene emanato solo al momento della presentazione della lista dei ministri, che ovviamente a queste condizioni devono essere tutti di gradimento del sovrano.
 
“…Questo sistema di formazione dei governi può essere definito “a-parlamentare”. Esso consentì la facile instaurazione di governi che, in momenti di crisi, furono governi del re in senso proprio in quanto si considerarono validamente costituiti in base alla sola nomina regia; anche se poi alcuni di essi si adoperarono per guadagnarsi una maggioranza parlamentare.
 
Un procedimento di formazione del governo quale quello descritto, che era in grado di prescindere, come di fatto spesso prescindeva, dalla preventiva esistenza del consenso fra l’incaricato ed una definitiva maggioranza parlamentare, fu determinante nel consentire, nel 1922, la nomina di Mussolini.”[6]
 
Solo con Giolitti si tenterà di limitare questo potere regio attraverso l’obbligo per il re, in caso di revoca dell’incarico al primo ministero, di trovarne un altro.
 
Il punto nevralgico del rapporto Re-Governo è la figura del Primo ministro.
 
Cavour è il primo a svolgere nei fatti un ruolo autonomo, che sottrae al re il potere di nomina dei ministeri e rivendica al Primo ministero la piena responsabilità dell’azione politica. Ma egli non tenta mai di formalizzare legislativamente la differenziazione dei ruoli (Governo-Corona), che avrebbe dato una spinta nella direzione di un’istituzione-Governo più condizionata dalla fiducia parlamentare, con una Monarchia solo in funzione di garante del gioco politico e del rapporto fra Esecutivo e Legislativo.
 
Questa mancata formalizzazione legislativa da parte di Cavour può forse spiegarsi con l’ostilità manifestatagli dalla Corona in più di un’occasione, per cui potrebbe aver temuto che un prevedibile braccio di ferro con la monarchia sul punto avrebbe finito per indebolirla in un momento in cui, invece, il processo unitario richiedeva il massimo di convergenza politica su di essa.
 
Chi per primo tenta di raggiungere con un percorso legislativo l’autonomia del Governo dal re è B.Ricasoli, con un decreto del 1867; ma non avendo il prestigio di Cavour e dovendo contrastare l’ostilità della Casa Reale, che già aveva “inghiottito veleno” con Cavour, deve dimettersi e il suo decreto viene cancellato dal successivo governo.
 
Bisogna aspettare il governo Depretis, la Sinistra storica, per vedere parzialmente attuati quei principi di democrazia parlamentare che impongono una separazione fra Governo e Monarchia ed una qualche responsabilità del Primo ministero di fronte al Parlamento.
 
Il decreto Depretis (1876), che nasce anche dal proposito di mettere la briglia al cd. "ministerialismo”, esalta la responsabilità collegiale del Governo, rispetto a quella individuale del singolo ministro, dà poteri al Capo del governo di bloccare le iniziative del singolo ministro, imponendone la discussione collegiale, unitamente all’obbligo di informare il Capo del governo di ogni iniziativa intrapresa, ove questa coinvolga il Governo nella sua collegialità.
 
Non viene mai meno, da Cavour in poi, la pratica di attribuirsi ad interim importanti ministeri, secondo le esigenze politiche del momento. I più gettonati sono il Ministero dell’interno, per il controllo che esercita sull’ordine pubblico tramite le Prefetture, il Ministero degli Esteri e delle Finanze. Mussolini non a caso raggiunge il record, assommando nelle sue mani sette ministeri.
 
Il fenomeno del cosiddetto “ministerialismo” vive sulla realtà di ministri scelti dal re, con l’approvazione del capo del governo, perchè legati ad una “consorteria”, in quanto deputati più influenti, o capi-gruppo, o parlamentari più vecchi, e pertanto capaci di apportare maggiore stabilità all’azione di governo, ma che, per tale ragione, rendono impraticabile una preminenza del Primo ministro sull’intera compagine, sentendosi essi più obbligati verso il re, che li nomina, e verso la “consorteria”, che li appoggia e di cui rappresentano gli interessi, che non verso il proprio capo.
 
Con i tre gabinetti Crispi, grazie anche ad una legge da lui fatta approvare (1888), che prevede la possibilità per il capo del Governo di dimissionare un suo ministro e di prendere decisioni in sua vece, si ha una politica di marca più apertamente bismarckiana.
 
L’azione politica di Crispi, il suo protagonismo, che più di uno qualifica come dittatura personale, non sono riconducibili solo al suo “carattere” personale (che in più di un’occasione Gramsci definisce “giacobino” nel senso deteriore del termine); in realtà essi si muovono in linea con l’evoluzione del sistema politico inglese, a cui l’Italia si era sempre ispirata, che, a dispetto di una concezione di equa ripartizione dei tre poteri, indipendenti fra loro, vede crescere in Inghilterra il ruolo del Primo ministero, anche per effetto delle forti personalità (Disraeli e Gladston) in concorrenza.
 
La riforma Zanardelli (1901) rafforza il potere del Governo, dandogli la facoltà di nominare le più alte cariche dello Stato (dal Presidente del Senato, a quello della Banca d’Italia, della Corte dei Conti, ecc., e lo rende interlocutore privilegiato del Parlamento, attraverso la facoltà di proporre decreti legge e disegni di legge governativi.
 
Con Giolitti - che abroga i decreti crispini (1904) - si ha un consolidamento dei principi contenuti nel decreto Zanardelli e della forma di governo parlamentare, che collegialmente dà conto più al Parlamento che al Re del suo operato.
 
Ma anche questo avviene solo sul piano della pratica politica, perchè le norme contenute nello Statuto, che fanno ancora del Re il “dominus” del potere esecutivo, non si avrà mai la forza di abrogarle, imboccando anche formalmente la strada del governo parlamentare.
 
La riprova della mancata stabilizzazione del regime in senso parlamentare sarà data dalla facilità con cui, durante il governo Salandra, vengono ribaltati i principi del 1901.
 
“…La nomina di Salandra alla Presidenza del Consiglio, <contro la maggioranza della Camera>…, la pesante ingerenza della Corona nella politica estera e nella decisione della guerra, quando il re, respingendo le dimissioni di Salandra, presentate come <una sfida ed un atto di accusa contro il Parlamento[…] si era messo dalla sua parte> in opposizione alle camere…, l’approvazione, il 22 maggio, della legge che concedeva i pieni poteri al Governo secondo la tradizione degli anni di Carlo Alberto e V.Emanuele II: tutto questo dimostrava che la sostanza costituzionale della forma di Governo italiana era rimasta immutata nei decenni. “[7]     
 
La mancata stabilizzazione del governo parlamentare apparirà ancor più chiaramente sette anni più tardi, dopo la Marcia su Roma (1922), con il conferimento dell’incarico da parte del re a Mussolini, formalmente rappresentante della minoranza parlamentare.
 
“[…] In realtà la formazione di un governo che emanava dal Parlamento, si costituiva in Gabinetto con un proprio Presidente ecc., è pratica che s’inizia fin dai primi tempi dell’era costituzionale, è il modo «autentico» di interpretare lo Statuto. Solo più tardi, per dare una soddisfazione ai democratici, fu data a questa interpretazione una tendenziosità di sinistra (forse le discussioni politiche al tempo del proclama di Moncalieri possono servire per provare la giustezza di questa analisi). Per iniziativa della destra si giunge a una contrapposizione della lettera dello Statuto a quella che ne era sempre stata la pratica normale e indiscussa (articolo di Sonnino Torniamo allo Statuto nella «Nuova Antologia» del 1° gennaio 1897, e la data è da ritenere perché prelude al conato reazionario del 98) e questa iniziativa segna una data perché rappresenta il manifesto della formazione consortesca che si va organizzando, che per circa 20 anni non riesce mai a prendere e mantenere il potere stabilmente, ma che ha una parte fondamentale nel governo «reale» del paese. Si può dire che a mano a mano che illanguidisce la tendenza per domandare una Costituente democratica, una revisione dello Statuto in senso radicale, si rafforza la tendenza «costituentesca» alla rovescia, che dando un’interpretazione restrittiva dello Statuto minaccia un colpo di Stato reazionario.”[8]
 
Il rapporto di subordinazione del governo al re, nell’ambito di un’autonomia/supremazia del potere esecutivo sul legislativo, si manifesta soprattutto nei periodi guerra, quali sono quelli, quasi continuativi, dal 1848 al 1866 e, in maniera saltuaria, dal 1870 al 1915, prima del conflitto mondiale, quando si svolgono le guerre coloniali.
 
Intanto il re è Comandante in capo dell’esercito e Capo di Stato Maggiore, potendo separare le due cose con la delega della seconda carica ad un alto ufficiale (Generale La Marmora). Indirettamente viene ad essere, così, sgravato il governo dalla responsabilità della condotta tecnico-militare delle operazioni.
 
Inoltre, nel rapporto Parlamento-Governo(Re) quest’ultimo dichiara la guerra (art.5 dello Statuto), mentre il primo la delibera, intendendosi con questo verbo che ne approva le spese (legge di bilancio).
 
Nella politica estera si verifica lo stesso rapporto di sostanziale subordinazione del Legislativo all’Esecutivo, essendo quest’ultimo in grado di decidere la politica estera in modo autonomo dal primo e potendo il primo non ratificare i trattati internazionali firmati dal secondo solo per quanto riguarda le questioni attinenti il territorio e le finanze.
 
Questo porta, ad esempio, nel 1915 ad una battaglia, rivelatasi poi inutile, quando la maggioranza parlamentare, convinta dell’utilità per lo stato italiano di una posizione neutralista nel conflitto mondiale, viene by-passata dalla decisione, già assunta da Governo & Corona, di sottoscrivere il trattato che impegna il nostro paese ad entrare nel conflitto a fianco dell’Intesa contro gli Imperi Centrali.
 
“In una forma di governo di tipo parlamentare, il re non avrebbe dovuto appoggiare nessuna delle possibili opzioni (guerra o neutralità); ma avrebbe dovuto, anzi, garantire il libero affermarsi della volontà della maggioranza parlamentare tenendo un comportamento opposto a quello tenuto da V. Emanuetle III durante le “radiose giornate” del maggio 1915”[9]
 
Per fornire un ulteriore elemento di comprensione sulla mancanza di autonomia fra i tre poteri e sulla supremazia del potere Esecutivo sugli altri due, occorre dire che i Magistrati requirenti (Procuratori di ogni ordine e grado) erano di nomina regia, mentre la Magistratura giudicante (Giudici di Tribunali e Corti) dipendeva dalle decisioni del Ministero della Giustizia per questioni riguardanti la carriera e la disciplina, non essendo previsto un organo di autocontrollo, come è oggi il Consiglio Superiore della Magistratura.
 
Infine, per completare la descrizione della fisionomia ed avere un quadro meno vago delle “tare originarie” in materia di democrazia e consenso, assunte dal nuovo Stato dopo l’unificazione, occorre dire due parole sul sistema elettorale che porta all’elezione della Camera dei Deputati e sull’evoluzione legislativa che si realizza sul tema fino all’avvento del fascismo.
 
Lo Statuto albertino non contiene al suo interno, come si è detto, una legge elettorale, ma solo il principio elettivo del potere legislativo, come lo contengono, peraltro, le altre costituzioni del ‘48 (Regno di Napoli, Granducato e Stato Pontificio); mentre le repubbliche di quello stesso anno (Milano maggio, Venezia giugno e Roma dicembre) già alzano il vessillo dei sistemi elettorali a suffragio universale.
 
La legge elettorale viene varata poco dopo, il 18 marzo 1848, e prevede il diritto di voto per “censo” e titolo di studio: possono votare, infatti, gli ultra-25enni, forniti di titolo di studio adeguato o che contribuiscano al fisco per un importo di £.40 annue. Esclusi gli analfabeti, che nel 1871 sono il 72.96 % della popolazione.
 
“Di conseguenza non più di 530mila cittadini avevano diritto di voto su una popolazione di 27milioni, e cioè l’1,98 % “[10]
 
Il voto, inteso dai maggiori giuspubblicisti dell’epoca (V.Emanuele Orlando) come funzione del cittadino e non come suo diritto, non è praticato in maniera massiccia anche per le enormi difficoltà che il suo esercizio comporta: dalle iscrizioni nelle liste elettorali, spesso manipolate, alla collocazione dei seggi in località distanti, senza collegamenti efficienti. Più che una spiegazione della scarsa affluenza alle urne, bisognerebbe indagare le reali ragioni di quelli, veramente pochi, che almeno nei primi anni andarono a votare: 78mila circa nell’aprile del 1848 e 89mila l’anno successivo, dopo il proclama di Moncalieri.
 
Il sistema elettorale dello Stato piemontese viene esteso, con leggere modifiche, alle altre province man a mano che i plebisciti, praticati con il voto a suffragio universale, ratificano le annessioni: esso prevede un sistema maggioritario a doppio turno a cui partecipano i candidati che nel primo abbiano ottenuto i maggiori consensi.
 
I collegi elettorali, formati con il criterio elastico di 50mila elettori ciascuno, sono fissati in numero di 443 dopo il 1860.
 
“Nel 1880 gli elettori erano 620mila, cioè il 2,18 % della popolazione. Tutti i braccianti agricoli, quasi tutti i piccoli proprietari, quasi tutti gli artigiani e operai di città, buona parte della stessa piccola borghesia cittadina erano esclusi dal corpo elettorale”[11]
 
Nonostante la caratteristica oligarchica di tutto il sistema, l’astensionismo è sempre elevato: la percentuale dei votanti dal 1860 alla fine del secolo si mantenne fra il 50 ed il 60 % degli aventi diritto, contribuendo a questo risultato anche l’astensionismo propagandato non solo dalla Chiesa ( dal non expedit = non conviene, al divieto esplicito di partecipare alla vita del nuovo Stato), ma anche, se pure in misura molto meno influente, dai repubblicani e dagli anarchici.
 
In realtà, in Italia l’agone politico non è caratterizzato da un vero e proprio scontro politico fra correnti radicalmente contrapposte, anche per effetto del trasformismo, né si avverte l’esigenza di modificare il sistema elettivo maggioritario in senso proporzionale, per dare maggior rappresentanza ai diversi gruppi politici.
 
Anzi, paradossalmente la proposta di introdurre il sistema proporzionale verrà avanzata dai gruppi più conservatori, con la finalità di tutelare le minoranze “più colte e possidenti” del Paese, allorquando, verso la fine del secolo, comincia a prendere piede l’idea di estendere il diritto di voto in direzione del suffragio universale.
 
La prima riforma, che allarga la platea elettorale, sostituendo il criterio censuario con quello del livello di istruzione si comincia a discutere nelle due camere il 1881, dopo che una riforma scolastica patrocinata dal ministro Coppino, ha nel 1877 introdotto l’istruzione obbligatoria elementare della durata di due anni (in una prima stesura di tre).
 
La riforma elettorale che si attua nel 1882 agisce su due aspetti:
 
Da un lato essa modifica il sistema uninominale a doppio turno in uno plurinominale a scrutinio di lista, che prevede la possibilità per l’elettore di votare con una preferenza multipla un numero di canditati inferiore di un’unità al numero massimo eleggibile nel collegio (da 3 a 5) . Non si ricorre al ballottaggio se i candidati più suffragati ottengono un consenso pari almeno all’8 % degli elettori.
 
Dall’altro fa passare gli elettori da poco più di 600mila ad oltre 2 milioni, non senza preoccupazioni (anche da parte dei promotori della riforma) di incrinare quel meccanismo di rappresentanza, che si basa, tutto sommato, sul ruolo dei notabili, che fino a quel momento ha retto l’apparato politico più complessivo, costituendo il sistema di consenso attraverso cui il nuovo Stato ha tenuto legate a sé le masse popolari, specialmente meridionali.
 
“In Italia la riforma elettorale del 1882 estese il diritto di voto ai maschi ultraventenni, che sapessero leggere e scrivere, anche se non pagassero le imposte dirette. Allora, il 62,80 % della popolazione, cioè quasi tutti i contadini e la grande maggioranza degli artigiani e degli operai, erano analfabeti. Solo nelle più progredite città dell’Italia settentrionale gli operai avevano cominciato a mandare i figli a scuola. Ne conseguì che nel 1882 non più che 2 milioni di uomini vennero iscritti nelle liste. Ad ogni modo l’elettorato salì dal 2,18 al 6,97 % della popolazione. Le città avevano più elettori delle campagne, perché coloro che sapevano leggere e scrivere erano concentrati specialmente nelle città. L’influenza politica delle classi industriali, commerciali ed intellettuali soverchiò quella dei proprietari di terra. Nelle città stesse la riforma diede un’influenza prevalente alle classi piccolo borghesi.
 
Dal 1882 al 1894….il corpo elettorale divenne ancor più cittadino e piccolo borghese”[12]
 
In realtà il temuto “salto nel buio” non si verifica e l’astensionismo elettorale, rimasto nella media degli anni precedenti, si mostra più accentuato a Nord (nel Veneto dove sconta l’influenza politica del Vaticano) che al Sud, dove si conferma la validità di un sistema di rappresentanza reale basato sul “notabile”, che polarizza i voti e rappresenta a Roma i problemi del posto.
 
“In realtà la contrapposizione di liste realmente alternative si verificò in un numero limitato di collegi: spesso invece i gruppi che controllavano il collegio si accordavano per la ripartizione delle forze in liste solo formalmente contrapposte (e che non di rado includevano addirittura tutte il nome dei notabili locali più in vista).” [13]      
 
Questa visione della rappresentanza politica, basata sull’idea del mandato ricevuto dagli elettori di una determinata zona, a prescindere da un interesse politico più generale, mette subito in evidenza due rischi: da un lato il localismo, e dall’altro la possibilità di fare in Parlamento “cordata” con personalità capaci, in base al posto occupato nella compagine governativa, di garantire per gli elettori rappresentati (nel migliore dei casi !) quei vantaggi che possano giustificare e gratificare il voto ricevuto.
 
Ad essa si contrapporrà una concezione della rappresentanza politica che si basa sul concetto più astratto ed ideologico, non di per sé stesso più democratico, di “interesse nazionale e/o generale”, spesso inteso come interesse super partes, altre come espressione corporativa di una singola classe, concezione che ha come retroterra e presupposto quello dell’esistenza di partiti “di massa” come il Partito repubblicano in Romagna, il Partito Socialista, costituito agli inizi del Novecento o il successivo Partito Popolare.
 
Questi partiti, che danno rappresentanza politica complessiva e nazionale a classi sociali e settori della società, secondo un modello piramidale, si pongono anche come raccoglitori del consenso ed organizzatori ed artefici del protagonismo che strati sempre più ampi della popolazione manifestano già prima del conflitto mondiale e che, dopo, diventerà impetuoso.
 
Però, ancora negli ultimi due decenni dell’800 domina la visione elitaria che ha caratterizzato tutto il secolo XIX e che vede il partito come un’aggregazione politico-filosofica, dove l’azione di collante viene svolta dalla singola personalità di spicco e dalla sua influenza personale, esercitata, oltre che con il rapporto personale diretto, anche con i mezzi “moderni” del giornale.         
 
Questa visione, più conciliante con il sistema di rappresentanza del notabile, entra in crisi, non solo per la nascita dei partiti massa, ma anche per la degenerazione del parlamentarismo, sempre più caratterizzato da fenomeni di corruzione sfrenata.
 
La parola “trasformismo”, per la prima volta usata da due liberali moderati, Minghetti e Turiello, in due opuscoli di fine ‘800, finisce per diventare il sinonimo della degenerazione del sistema politico della rappresentanza e per fornire argomenti preziosi a quei reazionari che, in nome dell’antiparlamentarismo, sostituiranno più tardi la pallida immagine di una democrazia parlamentare asfittica con la cupa realtà del fascismo.
 
Gramsci, invece, dà alla parola “trasformismo” un significato più profondo e più ampio, perché la ricollega alla debolezza ideologica e politica dei partiti protagonisti del processo unitario e dei primi anni di vita dello stato che ne scaturisce.
 
“[…] La debolezza dei partiti politici italiani in tutto il loro periodo di attività, dal risorgimento in poi (eccettuato in parte il partito nazionalista) è consistita in quello che si potrebbe chiamare uno squilibrio tra l’agitazione e la propaganda, e che in altri termini si chiama mancanza di principii, opportunismo, mancanza di continuità organica, squilibrio tra tattica e strategia ecc.
 
La causa principale di questo modo di essere dei partiti è da ricercare nella deliquescenza delle classi economiche, nella gelatinosa struttura economica e sociale del paese, ma questa spiegazione è alquanto fatalistica: infatti se è vero che i partiti non sono la nomenclatura delle classi, è anche vero che i partiti non sono solo una espressione meccanica e passiva delle classi stesse, ma reagiscono energicamente su di esse per svilupparle, assodarle, universalizzarle. Questo appunto non è avvenuto in Italia, e la manifestazione di questa «omissione» è appunto questa agitazione e propaganda o come altrimenti si voglia dire.
 
Lo Stato-Governo ha una certa responsabilità in questo stato di cose (si può chiamare responsabilità in quanto ha impedito il rafforzamento dello Stato stesso, cioè ha dimostrato che lo Stato-governo non era un fattore nazionale): il governo ha infatti operato come un «partito», si è posto al disopra dei partiti non per armonizzarne gli interessi e l’attività nei quadri permanenti della vita e degli interessi statali nazionali, ma per disgregarli, per staccarli dalle grandi masse e avere « una forza di senza partito legati al governo con vincoli paternalistici di tipo bonapartistico-cesareo »: così occorre analizzare le così dette dittature di Depretis, Crispi, Giolitti e il fenomeno parlamentare del trasformismo.
 
Le classi esprimono i partiti, i partiti elaborano gli uomini di Stato e di governo, i dirigenti della società civile e della società politica. Ci deve essere un certo rapporto utile e fruttuoso in queste manifestazioni e in queste funzioni. Non può esserci elaborazione di dirigenti dove manca l’attività teorica, dottrinaria dei partiti, dove non sono sistematicamente ricercate e studiate le ragioni di essere e di sviluppo della classe rappresentata. Quindi scarsità di uomini di Stato, di governo, miseria della vita parlamentare, facilità di disgregare i partiti, corrompendone, assorbendone i pochi uomini indispensabili. Quindi miseria della vita culturale e angustia meschina dell’alta cultura: invece della storia politica, la erudizione scarnita, invece della religione la superstizione, invece dei libri e delle grandi riviste, il giornale quotidiano e il libello. Il giorno per giorno, con le sue faziosità e i suoi urti personalistici, invece della politica seria. Le università, tutte le istituzioni che elaboravano le capacità intellettuali e tecniche, non permeate dalla vita dei partiti, dal realismo vivente della vita nazionale, formavano quadri nazionali apolitici, con formazione mentale puramente rettorica, non nazionale. La burocrazia così si estraniava dal paese, e attraverso le posizioni amministrative, diventava un vero partito politico, il peggiore di tutti, perché la gerarchia burocratica sostituiva la gerarchia intellettuale e politica: la burocrazia diventava appunto il partito statale-bonapartistico.”[14]
 
“[…]Il trasformismo come una delle forme storiche di ciò che è stato già notato sulla «rivoluzione-restaurazione» o «rivoluzione passiva» a proposito del processo di formazione dello Stato moderno in Italia. Il trasformismo come «documento storico reale» della reale natura dei partiti che si presentavano come estremisti nel periodo dell’azione militante (Partito d’Azione). Due periodi di trasformismo: 1) dal 60 al 900 trasformismo «molecolare», cioè le singole personalità politiche elaborate dai partiti democratici d’opposizione si incorporano singolarmente nella «classe politica» conservatrice-moderata (caratterizzata dall’avversione a ogni intervento delle masse popolari nella vita statale, a ogni riforma organica che sostituisse un’«egemonia» al crudo «dominio» dittatoriale); 2) dal 900 in poi trasformismo di interi gruppi di estrema che passano al campo moderato (il primo avvenimento è la formazione del Partito nazionalista coi gruppi ex-sindacalisti e anarchici, che culmina nella guerra libica in un primo tempo e nell’interventismo in un secondo tempo). Tra i due periodi è da porre il periodo intermedio – ‘90/900 – in cui una massa di intellettuali passa nei partiti di sinistra, così detti socialistici, ma in realtà puramente democratici. …
 
Un Punto da vedere è la funzione che ha svolto il Senato in Italia come terreno per il trasformismo «molecolare». Il Ferrari, nonostante il suo repubblicanesimo federalista ecc., entra nel Senato e così tanti altri fino al 1914 …”[15].
 
[1] A.Gramsci, Quaderni del carcere. Edizione critica a cura di V. Gerratana. Ed.Einaudi 1975 pag.1560
[2] Le parti che seguono in questo capitolo sono tratte dal volume Storia dello Stato italiano dall’Unità ad oggi a cura di Raffaele Romanelli. Donzelli editore. Roma 1995
[3] R. Romanelli Op.cit.. pag.17
[4] R. Romanelli Op.cit.. pag.19
[5] R. Romanelli Op.cit.. pag.9
[6] R. Romanelli Op.cit.. pagg.10-11
[7] R. Romanelli Op.cit.. pag.30
[8] A.Gramsci, Op.cit. pagg.1000-1
[9] R. Romanelli Op.cit.. pag.16
[10] G. Salvemini, Introduzione a L’età giolittiana di A.W.Salomone. La Nuova Italia Editrice. Scandicci (FI) 1988.Pag.X
[11] G. Salvemini, idem,pag.X
[12] G. Salvemini, idem,pag.XI
[13] R. Romanelli Op.cit.. pag.93
[14] A.Gramsci, Op.cit. pagg.386-388
[15] A.Gramsci, Op.cit. pagg.962-4

Capitolo VII
 
Sul mercato capitalistico internazionale l’Italia del 1861 si presenta in forte ritardo rispetto a tutti gli altri grandi Paesi dell’Europa: Francia, Inghilterra e Germania. Il reddito nazionale è pari ad un terzo di quello francese ed un quarto di quello inglese. La situazione a grandi linee è ancora connotata da una prevalenza soverchiante dell’agricoltura sull’industria manifatturiera. Su ventisei milioni di abitanti solo il 10 % vive nelle città.
 
L’industria manifatturiera, il cui punto di forza è rappresentato dal comparto tessile, produce solo il 20 % del P.I.L., assorbendo il 18 % della manodopera.
 
“Al momento dell’unificazione”, si legge in un rapporto sull’economia italiana scritto dal Foreign Office inglese, “ le industrie manifatturiere italiane erano piccine e d’importanza solo locale. Gli stabilimenti industriali si annidavano nelle vallate, dove trovavano la forza motrice pronta e non costosa nei torrenti e nei fiumi che le attraversavano. La manodopera era composta prevalentemente da contadini, che spesso possedevano qualcosa di loro; i salari erano bassi, gli scioperi sconosciuti. Non v’era agglomerazione di operai nelle grandi città; barriere doganali dividevano i vari stati, e ragioni politiche trattenevano i cittadini dal porsi deliberatamente in comunicazione gli uni con gli altri” .[1]
 
Nella coltivazione delle campagne, che coinvolge i tre quinti dei terreni coltivabili, essendo gli altri due quinti occupati da paludi e pascolo, sono assenti quasi del tutto le tecniche moderne di produzione.
 
I rapporti di produzione in agricoltura vedono una scarsissima presenza di aziende capitalistiche, prevalentemente nel triangolo Liguria, Piemonte e Lombardia, con una presenza di piccola proprietà contadina distribuita su tutto il territorio nazionale ed una forte presenza del latifondo nel meridione del Paese, dove prevale la coltivazione cerealicola ed il pascolo. Braccianti e mezzadri sono le figure sociali più presenti nel panorama economico-sociale del Mezzogiorno.
 
Fatta eccezione per le poche aziende agricole organizzate con criteri capitalistici, la cui produzione è commercializzata quasi esclusivamente all’estero, e per la produzione cerealicola, la gran parte dell’economia agricola è economia di sussistenza, dove la ristrettezza del mercato e la produzione per l’auto-consumo fanno la parte del leone.
 
“Non solo il piccolo proprietario o il piccolo affittuario della Basilicata e della Calabria,” scrive lo storico economico E. Sereni, “ma anche il mezzadro di regioni assai più progredite, come la Toscana e la Lombardia, all’epoca dell’unificazione ha ancora un legame assai debole col mercato, anche locale: produce e consuma direttamente la maggior parte del prodotto che non deve consegnare al proprietario terriero….[O]gni contadino deve produrre il suo grano, i suoi ortaggi, la sua canapa la sua frutta”.[2]
 
La produzione per l’auto-consumo vede impegnata la famiglia tipica contadina non solo nel settore alimentare, ma in quasi tutti gli altri settori indispensabili alla sopravvivenza (vestiario, suppellettili, attrezzi di cucina e lavoro, ecc.), rendendo in tal modo il mercato nazionale asfittico e limitato.
 
D’altro canto un legame economico pregresso fra Nord e Sud, tale da far pensare all’esistenza di un embrione di mercato unico non esiste, attese le vicende politiche che hanno afflitto la penisola.
 
“Fra questi due mondi economici i contatti per tutto il corso dell’Ottocento erano stati sporadici, perché entrambi orientati all’esportazione di derrate agricole e di materie prime industriali, come la seta, nei ricchi mercati di oltralpe. In nessun caso Nord e Sud costituivano sbocchi di mercato reale per i propri prodotti: il sud vendeva cereali e produzioni specializzate, come olio, vino ed agrumi in Gran Bretagna e Francia o nei suoi tradizionali mercati orientali; il Nord collocava le sue sete gregge, le sue lane, le sue cotonate, nonché i prodotti di un’agricoltura moderna, come il riso, i formaggi ed il frumento, nelle grandi piazze commerciali europee.”[3]
 
Causa-effetto della mancata esistenza di un mercato unico nazionale e la distribuzione scarsa e non omogenea su tutto il territorio nazionale della rete dei trasporti: su 2.100 Km di ferrovie, presenti in Italia nel 1861, 1600 circa sono al Nord, di cui 1000 nel solo Piemonte; la rete stradale vede poco più di 22.500 Km di strade statali e 63.500 comunali, mentre la Francia dello stesso periodo ne conta oltre 400.000 km; la maggior parte dei porti meridionali è attrezzata ad accogliere solo barche a vela, mentre a Genova approdano già i piroscafi a vapore.
 
“Penuria di capitali (mancata accumulazione primitiva), scarsezza di materie prime, assenza di un grande mercato (frazionamento politico del paese): sono queste le circostanze fondamentali che rendono tardivo e difficile in Italia lo sviluppo di una economia capitalistica…
 
L’unità di per sé sola non crea il mercato, ma soltanto una delle condizioni essenziali perché un grande mercato sorga. Perché il paese offra possibilità di investimento e di smercio, occorre attrezzarlo, gettare le basi quindi di una solida finanza giacché – assenti forti nuclei di privati capitalisti – è lo Stato che deve assumersi l’onere della prima attrezzatura” [4]
 
Ma lo stato italiano nasce con un forte debito pubblico, frutto delle prime scelte in politica economica, che adottano i rappresentanti di quel blocco storico, che è stato artefice del processo unitario, e che, dopo l’unificazione, continua a determinare i primi passi del Governo.
 
“Il problema nasce non tanto dalle condizioni obbiettive dell’arretratezza dell’economia italiana dell’epoca, quanto piuttosto dal modo in cui l’oligarchia aristocratico-borghese piemontese ha portato a compimento l’unità d’Italia, e cioè con l’appoggio militare francese e con il sostegno politico degli agrari semifeudali dell’Italia meridionale, al fine di evitare ogni ricorso al popolo e di battere completamente le tendenze democratiche e di sinistra borghese…..
[L]e spese sono enormemente accresciute dal fatto che il nuovo stato unitario si è accollato i pesantissimi deficit degli Stati preunitari, riconoscendo tutto il loro debito pubblico che, invece, avrebbe potuto cancellare, avendo distrutto tali Stati. Ma i titoli del debito pubblico dei territori ex-borbonici ed ex-pontifici, annessi al nuovo regno, sono detenuti per la gran parte da quei grandi proprietari terrieri semifeudali i cui diritti acquisiti i liberali piemontesi si sono impegnati a rispettare, per avere il loro sostegno politico tanto contro le forze reazionarie quanto, e ancor più, contro le forze democratiche; e in parte minore sono detenuti dalle banche francesi i cui interessi sono diventati intangibili, in seguito all’alleanza piemontese con Napoleone III”[5]
 
Ai 500 milioni lire, che lo stato piemontese si porta “in dote” per le spese di guerra del ’59 e l’indennità da pagare all’Austria, si aggiungono i 2.200 milioni di lire del debito pubblico accumulato dagli altri stati pre-unitari.
 
Gli uomini della cosiddetta Destra storica, eredi della politica cavouriana del “connubio”, come Rattazzi e La Marmora, imprenditori piemontesi, come Sella e Lanza, liberali moderati toscani, come Ricasoli, o emiliani, come Minghetti e Farini, perseguono per tutto il quindicennio dal 1861 al 1876 una politica economica basata su due pilastri: il risanamento economico del deficit e l’inserimento dell’Italia nel mercato europeo attraverso una politica liberistica, che ripudia misure protezionistiche.
 
Anche la politica di risanamento del deficit è impostata con l’intento di tutelare gli interessi di classe del blocco di forze aristocratico-borghesi: in generale, viene privilegiata la tassazione indiretta che, gravando sui consumi, colpisce principalmente gli strati popolari, rispetto alla tassazione diretta sul reddito dei possidenti.
 
Così l’imposta fondiaria viene mantenuta decisamente bassa, favorendo la grande proprietà terriera e la rendita, mentre viene penalizzato in misura maggiore il reddito di commercianti ed imprenditori. Sul fronte delle imposte indirette emblematica è la reintroduzione della famigerata “imposta sul macinato”, istituita già dai Borboni e cancellata da Garibaldi, che colpisce il consumo di un bene di primissima ed imprescindibile necessità, come il pane.
 
Parimenti, la scelta di applicare da subito (1860) la tariffa doganale del Piemonte, di gran lunga più bassa di tutte le altre esistenti nei vari stati pre-unitari, se da un lato apre l’Italia ai flussi commerciali europei, dall’altro costringe le zone agricole più dinamiche (pianura padana ed emiliana) ad una più rapida modernizzazione, mentre espone le zone più arretrate e meno competitive a contraccolpi disastrosi.
 
Inoltre, per quanto riguarda l’industria, questa politica doganale sacrifica gli interessi delle già deboli industrie meccaniche e metallurgiche, incapaci di reggere la concorrenza diretta delle più sviluppate industrie europee, favorisce le industrie manifatturiere del nord (tessili), mentre a sud viene portata alla rovina quel poco di attività manifatturiera presente, dove è ancora prevalente, peraltro, il lavoro a domicilio.
 
 Al fine di favorire la costituzione di un vero e proprio mercato nazionale si avvia durante il periodo di governo della Destra una politica economica tesa al potenziamento delle infrastrutture, segnatamente le ferrovie, che sarà continuata anche dalla Sinistra e che vede un intervento diretto dello Stato in economia.
 
Questi investimenti statali, sostenuti da prestiti del capitale bancario internazionale (dal 1861 all’87 il ruolo preponderante – sostiene Grifone nell’opera citata - viene esercitato dalla Banca francese di Pereire, Rotschild, ecc), forniscono l’occasione di grossi guadagni per la nascente “industria pesante” .
 
“L’economia capitalistica italiana si sviluppa, quindi, sin dall’inizio in funzione prevalente dell’intervento dello Stato e del capitale straniero. Il capitalismo italiano ha fin dal suo sorgere un particolare, spiccato interesse al controllo diretto delle leve governative, ed è nel tempo stesso costretto a subire una condizione di semidipendenza rispetto al capitale straniero che ne impaccerà fatalmente il cammino.”[6]
 
Le spese per investimenti nelle infrastrutture, unitamente alle spese militari per il completamento dello stato unitario (alleanza con la Prussia contro l’Austria - III guerra di indipendenza) e per affrontare il brigantaggio (vera e propria guerra interna anti-contadina, durata diversi anni), costringono il Governo della Destra a privare, con una legge del 1866, gli enti ecclesiastici di ogni riconoscimento giuridico. Per effetto della legge i loro immensi patrimoni vengono espropriati senza indennizzo e venduti all’asta a tutto beneficio del deficit di bilancio statale, che viene, così, ad essere più che dimezzato.
 
La Destra storica fornisce un contributo determinante alla costruzione dell’apparato amministrativo del nuovo Stato, unificando le realtà disomogenee degli stati pre-unitari della penisola. La fisionomia della nuova struttura si caratterizza per una forte centralizzazione e uno scarso peso dato alle autonomie locali.
 
Figura centrale sarà il prefetto, emanazione diretta del potere Esecutivo, controllore della vita politica locale, che una riforma legislativa del 1865 istituisce sulla base del modello francese. L’approvazione nello stesso anno del nuovo Codice Civile completa l’operazione tesa ad uniformare legislazione e comportamenti nel neonato stato.
 
L’assillo di tenere sotto stretto controllo la molteplice e variegata realtà del nuovo stato, comporta l’esportazione del modello sabaudo su tutto il territorio, cosa che si unisce alla nomina di personale piemontese o di regioni viciniori, comunque di provata fede governativa, nelle più alte cariche burocratico-amministrative. Tutto ciò ha fatto parlare gli storici di “processo di piemontesizzazione”, che viene percepito, specialmente a Sud, come un’imposizione dall’alto, se non come vera e propria colonizzazione.
 
La reazione a questa imposizione diventa guerra allo stato con il fenomeno del cosiddetto “brigantaggio”, che tiene impegnate per un quinquennio (1861-5) più della metà delle truppe piemontesi (duecentomila unità) e che si concluderà con l’imposizione dell’ordine nelle campagne meridionali, attraverso una carneficina di morti, fucilati ed arrestati (13.853 “briganti” messi fuori combattimento).
 
In realtà dietro il fenomeno del “brigantaggio” vi sono le lotte che i contadini meridionali hanno da tempo avviato per poter utilizzare le terre comuni del demanio, spesso da loro stessi occupate, e per ripristinare gli usi civici; lotte che avevano già indebolito lo Stato borbonico, favorendo l’impresa garibaldina, su cui inutilmente erano state riposte molte speranze, e che ora si acuiscono per effetto di una politica governativa che immiserisce e costringe alla leva obbligatoria, sottraendo braccia all’agricoltura.
 
Il bilancio dei primi quindici anni di vita dello Stato, che è il bilancio della politica seguita dalla Destra storica, mette in risalto, a mio avviso, alcune tare originarie della realtà statuale del nostro Paese, che, nonostante le successive trasformazioni, condizioneranno la vita politica dei decenni successivi, sicuramente fino alla prima metà del secolo XX, e, forse, permangono ancora oggi.
 
La situazione dei consensi intorno allo stato post-unitario è disastrosa: il Risorgimento, realizzato come “rivoluzione passiva”, senza cioè una partecipazione attiva delle masse contadine, sulla base di un blocco sociale minoritario, comporta la mancanza di un sostegno di massa alla nuova entità, che se, invece, ci fosse, consentirebbe scelte più indipendenti ed avanzate.
 
 A ciò si deve aggiungere l’opposizione o, quanto meno, l’assenteismo delle masse cattoliche influenzate dal non expedit papale, l’ostilità aperta di Austria, Borboni e Papato che fomentano e sostengono ogni sommossa interna, nella speranza di ritornare in possesso dei propri territori, ed, infine, la pesante situazione debitoria, dovuta alle scelte di cui si è detto.
 
Tutto ciò spiega, senza ombra di dubbio, l’impostazione e la fisionomia oligarchico-autoritaria che assumono le strutture statuali nascenti.
 
Ma anche la scelta liberista ed antiprotezionista in campo economico, che la Destra opera con grande vantaggio economico per le industrie francesi ed inglesi e che tanti danni apporta, invece, alla nascente economia capitalistica italiana, deve farsi risalire, a mio avviso, a questa debolezza di consensi, che non può non aver influenzato l’atteggiamento politico in campo internazionale dei governati italiani, sempre sensibili alle richieste straniere, piuttosto che spiegarsi come una scelta dettata da motivazioni solo di natura politico-ideologica (che sicuramente pure influiscono).
 
Benché la Destra si impegni con successo alla creazione di infrastrutture indispensabili per lo sviluppo industriale, alla fine del quindicennio del suo governo l’apparato industriale ne esce indebolito: il suo apporto al P.I.L. scende al sotto del 20%; tutti gli operai dell’industria sono nel 1876 appena 380.000, cresciuti nel quindicennio di poche migliaia di unità ed addetti quasi esclusivamente all’industria tessile. All’Esposizione Internazionale di Parigi del 1867 l’arretratezza industriale italiana emerge con chiarezza, specialmente se confrontata con lo sviluppo raggiunto dalle altre potenze europee, anche quelle che, come la Germania, sono pervenute alla creazione del mercato unico nazionale tardivamente.
 
Agli scontenti nel campo degli imprenditori manifatturieri, che sono la quasi totalità della categoria, si aggiungono gli ambienti della Corona e delle alte gerarchie militari a cui vengono tagliati i fondi per esigenze di bilancio e gran parte di finanzieri e banchieri, che non possono lucrare sul debito pubblico statale, che, anzi, nella metà degli anno ’70 viene estinto, coronando con successo un obbiettivo tanto tenacemente perseguito dalla Destra con una politica, che oggi si qualificherebbe di “lacrime e sangue” (allora, senza metafora !).
 
Inoltre, una latente crisi economica di sovrapproduzione relativa nel campo agricolo precipita apertamente con l’apparizione sui mercati europei di derrate alimentari a basso costo, provenienti da paesi emergenti, come gli Stati Uniti per i cereali, facendo scendere i prezzi e provocando una caduta dei redditi in agricoltura; la qual cosa mette definitivamente alle corde la politica liberistica e fiscale della Destra, facendole perdere gli ultimi consensi nel “paese che conta”.
 
I tempi sono maturi per un cambio della guardia. Nel 1876 con l’incarico di Governo conferito a Depretis, la Sinistra va la potere e lo mantiene per un decennio, aprendo la strada ai successivi Governi Crispi.
 
Tre le correnti che la compongono: una facente capo allo stesso Depretis, che discende dalla “sinistra storica” di Rattazzi, protagonista del cavouriano “connubio”; un’altra diretta erede del Partito d’Azione, che fa capo a Cairoli e Zanardelli, che ha al suo interno componenti più radicali (Bertani-Cavallotti), che spingono verso il suffragio universale; infine la terza componente dei cosiddetti “giovani” (De Sanctis-De Luca) e dei meridionalisti (Nicotera), più legati alle istanze del capitalismo delle campagne meridionali.
 
La politica economica cambia subito di segno ed una prima misura protezionistica viene adottata nel 1878 a tutela delle produzioni tessili e siderurgiche. Ad essa farà seguito una più consistente nel 1887.
 
“La siderurgia, la chimica, la cantieristica seppero trarre indubbi stimoli alla crescita e per la prima volta, dall’unità, l’estensione della rete ferroviaria funzionò da moltiplicatore della produzione industriale, utilizzando prodotti nazionali e diminuendo le quote di importazione. L’industria tessile, in particolare la cotoniera, quella più concentrata e meccanizzata, segnò un balzo in avanti di notevoli dimensioni, facendo passare il numero dei fusi da 745.000 del 1876 agli oltre 2 milioni di fine secolo e la produttività per addetto da 940 a 2.250 lire .“[7]
 
Il risanamento del bilancio consente l’avvio di una politica di riduzione fiscale: nel 1877 vengono ridotte l’imposta fondiaria e quella sui fabbricati, viene abolita l’imposta sui traffici di borsa; qualche anno più tardi (1880) verrà abolita la tassa sul macinato.
 
Anche la spesa pubblica comincia a correre:
 
“La politica di “spese”, inaugurata dalla sinistra (caratterizzata da quella spensierata imprevidenza che è tipica dei famelici) ingenera, nel periodo 1876-87, un’ondata di ottimismo e di fittizio rigoglio….L’intervento diretto dello Stato permette il sorgere (grossi ordinativi a condizioni di favore) del primo nucleo di industria pesante: la Terni (1884). Nel 1885 l’esercizio delle ferrovie passa ai privati (Ferrovie Meridionali) a condizioni vantaggiosissime e la marina mercantile attiene favori mai visti (premi di costruzione ai cantieri e sussidi di navigazione agli armatori) “[8]
 
Lo Stato, governato dalla sinistra, si candida a diventare il partner prezioso ed insostituibile dei settori industriale e bancario, perfezionando un meccanismo di raccolta di capitali, già sperimentato con la Destra, ma che ora diventa fondamentale per lo sviluppo di un paese, come l’Italia, dove la penuria di capitali rappresenta uno degli handicap più grossi.
 
“Lo Stato assorbe sotto forma di proventi fiscali, di prestiti interni e di prestiti esteri, la massima parte dei capitali disponibili e li convoglia, mediante una assai duttile politica delle spese, verso gli impieghi più accetti ai gruppi più influenti: costruzioni ferroviarie, opere pubbliche, ordinativi militari. La Banca lucra due volte: Dapprima come intermediaria tra contribuenti, sottoscrittori dei prestiti, banchieri stranieri e Stato (appalto delle imposte, collocamento dei titoli, ecc.), in secondo luogo come intermediaria fra Stato e società finanziarie, nelle quali essa Banca possiede naturalmente partecipazioni di maggioranza.”[9]
 
L’abolizione nel 1883 del corso forzoso, meccanismo che da facoltà ad alcune banche, riconosciute dallo stato, di emettere carta moneta in misura proporzionale alle riserve auree possedute, crea una situazione di euforia generale che fa salire alle stelle prezzi e dividendi.
 
Il denaro facile favorisce la speculazione edilizia e Roma capitale, con i suoi ministeri centrali, i nuovi quartieri da costruire, ne rappresenta il fulcro. Le banche si riempiono di titoli, immobilizzano i loro capitali, investono in impieghi a lungo termine i depositi a breve dei risparmiatori. “ Si crea negli anni 1883-6 - come descrive P.Grifone - la situazione tipica che precede la crisi”.
 
La comparsa di prodotti tedeschi, in un mercato internazionale già saturo per la sovrapproduzione relativa nel triennio 1884-6, è la classica “goccia che fa traboccare il vaso” della crisi ciclica capitalistica, la quale si somma alla crisi agricola già in atto. L’Italia, per le sue debolezze economiche, non smaltirà tanto facilmente gli effetti della crisi, che si protrarranno fino alla fine del secolo; mentre negli altri Paesi capitalistici europei la crisi economica avrà l’effetto di accelerare il processo di concentrazione monopolistica e di formazione del capitale finanziario (fusione industria-banca), nonché la spartizione del mondo in zone di influenza, da cui l’Italia, arrivata in ritardo, resterà fondamentalmente esclusa.
 
Intanto, di fronte alle crescenti difficoltà di smercio dei prodotti ed al conseguente rallentamento degli investimenti, quasi unanime è la richiesta, che sale al Governo dal mondo industriale ed agricolo, di introdurre nuove misure protezionistiche, più consistenti di quelle approvate dieci anni prima.
 
 La tariffa del 1887 grava in modo assai pesante sulle importazioni di ferro e acciaio, di tessuti, di grano e zucchero. A beneficiarne è il blocco agrario-industriale, che al suo interno vede i latifondisti semifeudali produttori di cereali, i capitalisti agrari della Bassa Padana, produttori di barbabietole da zucchero, il nascente capitalismo siderurgico, tessile e zuccheriero, interessato a vendere i propri prodotti sul mercato interno a prezzi più elevati, contando sulle commesse pubbliche, che gli garantiscono i centri di potere burocratico-militare e di Corte.
 
Le misure protezionistiche hanno, però, come conseguenza immediata la rottura dei rapporti commerciali con la Francia, già logorati dalla scelta italiana (1882) di entrare nella Triplice Alleanza, con Austria e Germania, ribaltando le consolidate alleanze internazionali dei decenni precedenti.
 
“La Banca internazionale, in specie quella francese, ritira i capitali investiti a breve in Italia, restringe i fidi, svende la rendita italiana copiosamente collocata all’estero nei decenni precedenti. I titoli [del debito pubblico] rimpatriano, l’aggio sale, la fiducia nella moneta italiana è scossa.”[10]
 
La crisi di liquidità, i forti immobilizzi di capitale, mettono in difficoltà tutto il sistema bancario italiano che nell’immediato deve provvedere con i propri mezzi a questa situazione difficile. Solo dopo un intervallo disastroso (1887-94) il ruolo di principale finanziatore del debito pubblico e, per questa strada, di puntello di tutto il sistema bancario-creditizio italiano, svolto dalla Banca francese fin dai primi anni di vita dello Stato unitario, passa alla Banca tedesca, che lo manterrà fino al 1914.
 
Le inevitabili restrizioni del credito mettono sul lastrico gli speculatori edili, la cui rovina travolge, a sua volta, tutto il sistema creditizio ed, in particolare, gli istituti più esposti. Banca Tiberina viene salvata dallo Stato (Banca Nazionale) con un esborso di cinquanta milioni di lire. Un grosso scandalo coinvolge la Banca Romana, uno dei sei Istituti di emissione di carta-moneta, rafforzatasi negli anni precedenti attraverso legami clientelari con esponenti di Governo, Parlamento e Corona.
 
“La crisi generale, industriale ed agraria, non tarda ad abbattersi anche sui più potenti Istituti di Credito. Le due più grandi Banche italiane, il Credito Mobiliare e la Banca Generale, sono costrette a chiudere gli sportelli alla fine del 1893.”[11]
 
All’ombra delle misure protezionistiche adottate, che le garantiscono il mantenimento di prezzi alti sul mercato interno, mentre crollano all’estero, e sostenuta dalle commesse statali che spesso, sotto forma di anticipi, le garantiscono persino il capitale di esercizio, si consolida l’industria capitalistica nel triangolo Genova-Torino-Milano durante il periodo della crisi economica.
 
Un primo nucleo si forma in Lombardia ed è composto nel milanese da industrie meccaniche che fabbricano caldaie e rotaie (Tosi e la O.M.), macchine da cucire (Necchi), da industrie chimiche (Montecatini), che fabbricano armi a Brescia o cemento a Bergamo; un secondo nucleo a Genova e Torino, dove sono diffuse le aziende che lavorano prevalentemente con le commesse statali, fra cui la cantieristica ligure, ma anche l’industria di trasformazione dello zucchero; un terzo nucleo in Piemonte dove consistenti sono (anche per una presenza pregressa) gli insediamenti industriali tessili.
 
Nel ventennio che chiude il secolo, per effetto della crisi economica e della politica di sostegno offertale dallo Stato, la borghesia capitalistica italiana, industriale ed agraria, acquisisce sempre più peso economico e, di riflesso, in politica si candida sempre più a dirigere con propri uomini lo stesso blocco storico-sociale risorgimentale, che ora gestisce lo Stato.
 
Le condizioni e gli obbiettivi della battaglia politica sono, però, cambiati rispetto al Risorgimento.
 
Allora l’obbiettivo principale da raggiungere era quello di creare uno Stato unitario, sconfiggendo l’Austria, principale ostacolo al suo raggiungimento e dietro cui si raccoglievano i governi ostili e reazionari di tutta la penisola. Ora l’obbiettivo è quello di attrezzare un apparato industriale, agricolo e finanziario, che possa superare la crisi economica in atto e competere alla pari con le altre nazioni più evolute.
 
Lo Stato post-unitario, frutto di quella “rivoluzione-restaurazione” che è stato il Risorgimento, se si è dimostrato, nei primi anni di vita, strumento idoneo a mantenere l’ordine nelle campagne, oggi si trova a dover fronteggiare altri soggetti sociali, diversi dai contadini.
 
Gli operai crescono di numero in legame diretto con lo sviluppo industriale del Paese. Nel 1901 diventeranno due milioni e mezzo. Sempre più concentrati, a differenza del passato, nelle città, dove una popolazione proveniente dalle campagne è emigrata anche per effetto della crisi agraria, lavorano per più di 13 ore al giorno ed i loro bassi salari, bassi anche per la consistente presenza di donne e bambini, sono una delle condizioni essenziali per l’accumulazione capitalistica e per reggere alla concorrenza straniera.
 
A differenza dei contadini, che scontano la parcellizzazione delle condizioni del loro lavoro, e delle prime forme di lavoro manifatturiero, quasi sempre svolto dentro le quattro mura della propria abitazione, il lavoro operaio nell’azienda capitalistica, ancor più quando essa è di grandi dimensioni, concentra in un sol luogo una massa enorme di manodopera e già per questa sola ragione facilita negli operai la presa di coscienza della propria forza collettiva.
 
Tenere gli operai in condizione di soggezione e nell’impossibilità di organizzarsi per rivendicare migliori condizioni di lavoro e di vita, diventa una necessità dettata dalla contraddizione antagonista che regola il rapporto di produzione col capitale di questa nuova classe sociale.
 
Il primo metodo che viene usato, in linea con tutto il sistema di potere del nuovo stato, è il metodo della repressione, già sperimentato nelle lotte contro la “tassa sul macinato” ed il primo uomo che lo pratica è Crispi. Chi è Crispi ?
 
Gramsci ci consegna questo suo ritratto:
 
“[…]Dopo la morte di Depretis i settentrionali non volevano la successione di Crispi siciliano. Già Presidente del Consiglio, Crispi si sfoga col Martini, proclama il suo unitarismo ecc., afferma che non esistono più regionalismi ecc. Sembra questa una dote positiva di Crispi: mi pare invece giusto il giudizio contrario. La debolezza di Crispi fu appunto di legarsi strettamente al gruppo settentrionale, subendone il ricatto, e di avere sistematicamente sacrificato il Meridione, cioè i contadini, cioè di non avere osato, come i giacobini osarono, di posporre agli interessi corporativi del piccolo gruppo dirigente immediato, gli interessi storici della classe futura, risvegliandone le energie latenti con una riforma agraria. Anche il Crispi è un termidoriano preventivo, cioè un termidoriano che non prende il potere quando le forze latenti sono state messe in movimento, ma prende il potere per impedire che tali forze si scatenino: un «fogliante» era nella Rivoluzione francese un termidoriano in anticipo, ecc.”[12]
 
“[…] Per il suo programma Crispi fu un moderato puro e semplice. La sua «ossessione» giacobina più nobile fu l’unità politico-territoriale del paese. Questo principio fu sempre la sua bussola d’orientamento, non solo nel periodo del Risorgimento, in senso stretto, ma anche nel periodo successivo, della sua partecipazione al governo. Uomo fortemente passionale, egli odia i moderati come persone: vede nei moderati gli uomini dell’ultima ora, gli eroi della sesta giornata, gente che avrebbe fatto la pace coi vecchi regimi se essi fossero divenuti costituzionali, gente, come i moderati toscani, che si erano aggrappati alla giacca del granduca per non farlo scappare; egli si fidava poco di una unità fatta da non-unitari. Perciò si lega alla monarchia che egli capisce sarà risolutamente unitaria per ragioni dinastiche e abbraccia il principio dell’egemonia piemontese con una energia e una foga che non avevano gli stessi politici piemontesi. Cavour aveva avvertito di non trattare il Mezzogiorno con gli stati d’assedio: Crispi invece subito stabilisce lo stato d’assedio e i tribunali marziali in Sicilia per il movimento dei Fasci e accusa i dirigenti dei Fasci di tramare con l’Inghilterra per il distacco della Sicilia (pseudo-trattato di Bisacquino). Si lega strettamente ai latifondisti siciliani, perché il ceto più unitario per paura delle rivendicazioni contadine, nello stesso tempo in cui la sua politica generale tende a rafforzare l’industrialismo settentrionale con la guerra di tariffe contro la Francia e col protezionismo doganale: egli non esita a gettare il Mezzogiorno e le isole in una crisi commerciale paurosa, pur di rafforzare l’industria che poteva dare al paese una indipendenza reale e avrebbe allargato i quadri del gruppo sociale dominante; è la politica di fabbricare il fabbricante. Il governo della destra dal ’61 al ’76 aveva solo e timidamente creato le condizioni generali esterne per lo sviluppo economico: sistemazione dell’apparato governativo, strade, ferrovie, telegrafi e aveva sanato le finanze oberate dai debiti per le guerre del Risorgimento. La Sinistra aveva cercato di rimediare all’odio suscitato nel popolo dal fiscalismo unilaterale della Destra, ma non era riuscita che ad essere una valvola di sicurezza: aveva continuato la politica della Destra con uomini e frasi di sinistra. Crispi invece dette un reale colpo in avanti alla nuova società italiana, fu il vero uomo della nuova borghesia. La sua figura è caratterizzata tuttavia dalla sproporzione tra i fatti e le parole, tra le repressioni e l’oggetto da reprimere, tra lo strumento e il colpo vibrato; maneggiava una colubrina arrugginita come fosse stato un moderno pezzo d’artiglieria.”[13]
 
All’interno, la politica istituzionale di Crispi, attuata quasi ininterrottamente con vari Gabinetti da lui presieduti fino al 1896, rafforza l’apparato politico-amministrativo centralizzato, basato sulla figura del Prefetto, a cui sono date maggiori competenze, unifica l’ordinamento giuridico penale con l’approvazione del Codice Penale Zanardelli (che abolisce la pena di morte e legalizza lo sciopero), estende l’allargamento del suffragio del 1882 ai Comuni, che nei capoluoghi di provincia potranno anche eleggere i Sindaci.
 
In politica estera rafforza l’alleanza con la Triplice, accentuando i contrasti con la Francia. Sotto i suoi governi inizia la penetrazione del capitale tedesco in Italia. L’avventura coloniale italiana, nata con i Governi della Sinistra, si sviluppa con Crispi, anche se quello di Crispi sarà un colonialismo tardivo essendo già avvenuta la spartizione fra le grandi potenze, e tipico di un “capitalismo straccione”, che non ha ancora sviluppato al suo interno quella concentrazione di capitale finanziario in grado di esportare capitali, oltre che merci.
 
“[…]Anche la politica coloniale di Crispi è legata alla sua ossessione unitaria e in ciò seppe comprendere l’innocenza politica del Mezzogiorno; il contadino meridionale voleva la terra e Crispi che non gliela voleva (e poteva) dare in Italia stessa, che non voleva fare del «giacobinismo economico», prospettò il miraggio delle terre coloniali da sfruttare. L’imperialismo di Crispi fu un imperialismo passionale, oratorio, senza alcuna base economico-finanziaria. L’Europa capitalistica, ricca di mezzi e giunta al punto in cui il saggio del profitto cominciava a mostrare la tendenza alla caduta, aveva la necessità di ampliare l’area di espansione dei suoi investimenti redditizi: così furono creati dopo il 1890 i grandi imperi coloniali. Ma l’Italia ancora immatura, non solo non aveva capitali da esportare, ma doveva ricorrere al capitale estero per i suoi stessi strettissimi bisogni. Mancava dunque una spinta reale all’imperialismo italiano e ad essa fu sostituita la passionalità popolare dei rurali ciecamente tesi verso la proprietà della terra: si trattò di una necessità di politica interna da risolvere, deviandone la soluzione all’infinito. Perciò la politica di Crispi fu avversata dagli stessi capitalisti (settentrionali) che più volentieri avrebbero visto impiegate in Italia le somme ingenti spese in Africa; ma nel Mezzogiorno Crispi fu popolare per aver creato il «mito» della terra facile. “[14]
 
Nel decennio in cui si alternano i suoi governi si creano le premesse per lo sviluppo del capitale finanziario, espressione di una concentrazione monopolistica nel settore della grande industria e nel settore dell’alta finanza e di una compenetrazione fra i due settori. Nel 1894 sorge la Banca d’Italia dalla fusione della Banca Nazionale e le due Banche toscane di emissione. Restano ancora fuori, anche se opportunamente rivitalizzanti con denaro pubblico, i due Istituti di emissione meridionali (Banco di Sicilia e di Napoli).
 
Dalla crisi del 1893, che ha visto chiudere gli sportelli dei due più grossi colossi della finanza, Credito Mobiliare e Banca Generale, uno dotato di un portafoglio ricco di significative partecipazioni nei capitali delle principali aziende capitalistiche italiane e l’altra gestore di 650 esattorie, nascono il 1894 due colossi del sistema bancario italiano, protagonisti degli avvenimenti economici degli anni a venire: il Credito Italiano e la Banca Commerciale, quest’ultima con un capitale (20milioni) al 90 % austro-tedesco.
 
La politica dell’ordine pubblico, posta in essere dai governi Crispi prima e poi dai governi di Rudinì e Pelloux è la risposta repressiva del blocco di potere dominante alle prime manifestazioni del nascente soggetto sociale che è la classe operaia.
 
La repressione che Crispi attua nei confronti dei Fasci siciliani, organizzazione di impostazione socialista, che si sviluppa progressivamente nell’isola raccogliendo operai agricoli e delle zolfatare, braccianti, artigiani ed intellettuali cittadini, uniti tutti sulla base di rivendicazioni come l’uso delle terre demaniali, usurpate da una neo-borghesia delle campagne, o come il suffragio universale, culmina con lo scioglimento dell’organizzazione decretato agli inizi del 1894.
 
Faranno seguito le repressioni dei moti contro il caro-vita attuate dal governo di Rudinì, che a Milano porteranno al massacro a cannonate dei manifestanti perpetrato dalla truppe del generale Bava Beccaris (1898) ed i tentativi di mettere fuori-legge il neonato Partito Socialista, attuati dal governo Pelloux.

[1] P.Ortoleva e M.Revelli,Storia dell’Età Contemporanea.Ed scolastiche Bruno Mondatori. Milano 1988. pag.171
[2] P.Ortoleva e M.Revelli,Op.cit. pag.171
[3] Vedi De Bernardi-Guarracino, L’operazione storica, Ed. Bruno Mondadori, vol.3 pag.304
[4] Pietro Grifone, Il capitale finanziario in Italia. Ed. Einaudi 1971, pag.5
[5] M.Bontempelli, E.Bruni, Storia e coscienza storica. Trevisini Editore. Milano 1983, pag.257
[6] Pietro Grifone, Op.cit., pagg.6-7
[7] P.Ortoleva e M.Revelli,Op.cit. pag.308
[8] Pietro Grifone, Op.cit., pag.7
[9] Pietro Grifone, Op.cit., pag.6
[10] Pietro Grifone, Op.cit., pag.9
[11] Pietro Grifone, Op.cit., pag.10
[12] A.Gramsci, Quaderni del carcere. Edizione critica a cura di V. Gerratana. Ed.Einaudi 1975 pag.766
[13] A.Gramsci, Op.cit. pagg.2017-8
[14] A.Gramsci, Op.cit. pagg.2019-20

Capitolo VIII
 
L’Italia che si affaccia al balcone del XX secolo, con quarant’anni di vita unitaria alle spalle, ha al suo interno alcuni problemi strutturali che rappresentano le questioni cruciali della sua esistenza e, in un certo senso, le tare più profonde del suo sviluppo futuro.
 
Nel corso della seconda metà dell’800 si è sviluppato un apparato industriale diffuso su tutto il territorio, ma concentrato, soprattutto, nel triangolo Genova - Torino – Milano. Questo sviluppo non riguarda più soltanto l’industria tessile, ma esprime una presenza significativa della cosiddetta “industria pesante” (siderurgia, metallurgia, cantieristica, energia), premessa di uno sviluppo industriale futuro.
 
Nell’agricoltura, pur permanendo ampie zone di colture estensive (cereali o, più in generale, seminativo) o dedicate al pascolo, che, quasi sempre, nascondono rapporti di produzione arretrati, con prevalenza di latifondo e rendita parassitaria, si è incrementato il numero delle aziende agricole di piccole o medie dimensioni dove si investono capitali per realizzare colture intensive (ulivo, vite, barbabietola da zucchero, ecc.), la cui produzione è destinata soprattutto ai mercati esteri.
 
La Banca ha manifestato nel corso della seconda parte del secolo XIX tutta la sua indispensabile funzione di mediazione, consistente nel mettere a disposizione degli imprenditori il denaro necessario per la loro attività produttiva, raccolto dai risparmiatori. Per effetto della crisi del 1887, il sistema bancario ha cominciato a superare la frammentazione iniziale, si è maggiormente concentrato in più grossi istituti di credito ed il capitale bancario si è compenetrato sempre più con il capitale industriale, dando vita a quel fenomeno, chiamato “capitale finanziario”, che tanto condizionerà le scelte politiche ed economiche del XX secolo.
 
In sintesi, l’Italia che si affaccia al XX secolo non è più un paese agricolo-industriale, ma un paese industriale-agricolo ed il blocco storico-sociale, protagonista del processo di unificazione nazionale, composto da aristocrazia agraria e capitalisti del nord con latifondisti del sud, viene ora sostituito da un nuovo blocco sociale che guida ormai il paese:
 
“Tutta l’economia italiana apparirà, infatti, ben presto dominata completamente dalla formidabile coalizione che si viene a stabilire tra alta Banca, Industria pesante (sidero-metallurgia, cantieri, armatori), i cotonieri e gli agro-latifondisti”[1]
 
Lo sviluppo industriale porta con sé l’apparizione nella vita sociale di un nuovo soggetto, la classe operaia, che nel corso del processo unitario è stata, per effetto dell’arretratezza economica, quasi del tutto inesistente o presente solo nei centri urbani più evoluti (C. Cattaneo cita il contributo notevole dato dagli operai milanesi nelle “5 giornate”).
 
Lo sviluppo dell’industria manifatturiera concentra, infatti, nei centri urbani masse di individui impegnati in un processo produttivo, non più indirizzato all’auto-consumo, ma sempre più rivolto al soddisfacimento dei bisogni di un mercato sconosciuto ai produttori, che si allarga in proporzione allo sviluppo delle forze produttive.
 
Il carattere collettivo della produzione è la matrice fondamentale di un nuovo protagonismo delle masse lavoratrici, anzitutto operaie, che in Europa si afferma nella seconda metà del secolo XIX, che conoscerà un espressione significativa in Francia, con la Comune di Parigi e che in Italia comincia a percepirsi negli ultimi due decenni dell’800.
 
Di conseguenza entra in crisi il modello tradizionale di partito che aveva caratterizzato le associazioni conservatrici, liberali, o anche democratico-radicali, protagoniste della vita politica di questo secolo.
 
“Questi “partiti” non avevano organizzazioni stabili, territorialmente diffuse, né grandi apparati di funzionari per organizzare gli iscritti e gli elettori; erano, piuttosto, una rete di notabili locali, accomunati da alcune opzioni ideali e programmatiche, che si attivava in occasione delle elezioni, il cui corpo elettorale consisteva spesso in poche centinaia di aventi diritto.”[2]
 
Espressione di questa nuova soggettività politica sono i partiti socialisti che si costituiscono in Europa alla fine del XIX secolo e si caratterizzano, da subito, come partiti di massa, a cui aderiscono decine di migliaia di lavoratori. La loro costituzione viene preceduta o seguita dalla formazione di sindacati, organizzazioni ancora più ampie, preposte alla contrattazione del salario e di migliori condizioni lavorative.
 
Alla caratteristica ampia del raggruppamento si unisce la struttura piramidale dell’apparato, che abbraccia tutto il movimento, mantenendolo coeso, utilizzando allo scopo la stampa, che, come veicolo di trasmissione delle idee, sostituisce progressivamente il contatto individuale, mano a mano che il livello di istruzione cresce fra gli operai.
 
Infine, alla costituzione dei Partiti Socialisti, nazione dopo nazione, seguendo il percorso di allargamento e rafforzamento della borghesia industriale di ogni paese, si unisce, quasi subito, la costituzione (1889) e lo sviluppo della II Internazionale, organismo che, sul presupposto di interessi comuni agli operai di tutti i paesi, svolge funzioni di coordinamento ed orientamento dei vari Partiti Socialisti in un ambito territoriale più esteso di quella di una singola nazione (ad es.battaglia per le 8 ore).
 
In Italia, alla costituzione del Partito Socialista si arriva alla fine del XIX secolo, dopo varie esperienze vissute dai lavoratori: dal paternalismo delle prime Casse di Mutuo Soccorso (quella di Torino vede Cavour fra i fondatori), alle predicazioni filantropiche, come quelle antisocialiste del Mazzini, passando attraverso il Partito Operaio Italiano (1882), prima espressione autonoma del mondo operaio e per questo affetta da corporativismo esasperato e venata da manifestazioni di luddismo, ed il Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna (1881), costituito dall’anarchico Andrea Costa. Nel 1892 a Genova viene finalmente costituito il Partito dei Lavoratori, che al suo terzo congresso a Parma assumerà la denominazione di Partito Socialista Italiano.
 
Nel 1891 viene costituita la Camera del lavoro di Milano, seguita da quelle di Piacenza, Torino, Bologna e Cremona. Fra i loro compiti quelli di tutelare gli apprendisti, di promuovere leggi a favore di donne e fanciulli lavoratori, di promuovere comitati per l’applicazione delle tariffe di manodopera, di curare arbitrati tra proprietari e lavoratori, di dare impulso alle cooperative. Più tardi (1906), sotto la direzione dei riformisti, verrà costituita la C.G.L., Confederazione Generale del Lavoro, dall’unione di diversi sindacati di categoria.
 
Per le caratteristiche che assume la lotta del movimento operaio, profondamente diverse da quelle delle rivolte dei contadini, per la presenza di un soggetto politico autonomo della classe, quale è il Partito Socialista, mentre nelle campagne la dispersione e l’eterogeneità degli interessi condiziona l’assenza di un partito indipendente dei contadini, si manifesta subito l’impossibilità per il blocco sociale dominante di risolvere questa nuova contraddizione, facendo riferimento solo ai metodi repressivi ed autoritari, che fino a quel momento hanno prevalso sulle opposizioni sociali.
 
Inoltre, la caratteristica del nuovo partito, del suo “modo di fare politica”, non può non condizionare e modificare il sistema di potere basato sul “notabilato”, attraverso cui quel blocco dominante ha esercitato fino a quel momento l’egemonia politica ed il dominio su classi e strati sociali, costringendolo a prendere in considerazione l’ipotesi di dare una facciata più democratica a tutto il sistema.
 
La struttura e la fisionomia che lo Stato unitario si è dato, basandosi sullo Statuto albertino, e l’esclusione della gran massa della popolazione dalla partecipazione attiva alla vita politica nazionale, che viene mantenuta, non solo dalle caratteristiche dei vecchi partiti e dal loro modo di rapportarsi ai cittadini, ma anche dal sistema elettorale, richiedono ora una modifica sostanziale.
 
Nel clima politico segnato dalla nascita di grandi movimenti e partiti di massa e caratterizzato dal dibattito sul sistema di formazione delle liste degli elettori, incombenza di cui si fanno carico i Comuni, che prevede una prova scritta, davanti al notaio, dimostrativa della posseduta alfabetizzatone, dalle contestazioni crescenti e ricorsi per esclusioni illegittime, nasce la proposta del suffragio universale, cavallo storico di battaglia dei movimenti radicali e democratici, di cui ora Giolitti, con un discorso alla Camera del 1911, si fa promotore, intuendo il vantaggio politico che detta sponsorizzazione gli avrebbe conferito.
 
La legge (o meglio le due leggi poi raccolte in un Testo Unico) del 1913 estende il diritto di voto ad otto milioni e mezzo di elettori maschi, pari al 23 % di tutta la popolazione, iscritti nelle liste elettorali sulla base del principio di saper leggere e scrivere o di aver fatto il servizio militare, se ventunenni, oppure anche analfabeti, se trentenni. L’aumento degli elettori è di cinque milioni rispetto ai sistemi precedenti, venendo in tal modo ad essere più rappresentate le regioni meridionali dove l’analfabetismo è più massiccio.
 
“Il diritto di voto fu esteso a quelli che non sapevano leggere e scrivere perché si pensò in Italia – e non a torto, secondo me – che l’esperienza della vita è più importante del saper leggere e scrivere. Un contadino poteva anche non saper leggere e scrivere, ma se era stato in America ed era ritornato a casa con un gruzzolo di denaro guadagnato col lavoro, possedeva una maggiore conoscenza del mondo, che, per esempio, il giovin signore, che leggiucchiava i romanzi francesi, ma non aveva mai avuto nella vita da superare altra difficoltà che quella di aggiustarsi la cravatta davanti allo specchio.”[3]
 
Con la legge del 1913 vengono anche adottate misure per scoraggiare i brogli attraverso le schede ed attuare un maggior controllo imparziale sulle operazioni di voto, prima gestite dagli stessi candidati. Inoltre, è assicurata ai deputati eletti un’indennità per garantire parità di situazione ed evitare la consuetudine di farsi remunerare per le leggi approvate.
 
I Collegi elettorali uninominali sono costituiti con l’indicazione di massima di settantamila abitanti ciascuno e composti da un numero variabile di elettori, per cui si pone subito un problema di perequazione della rappresentanza.
 
I risultati elettorali, benché segnino un ridimensionamento dell’area liberale (da 370 a 307) non vedono il tanto temuto trionfo del partito socialista, che passa a 52 deputati, mentre i democratici repubblicani eleggono 71 deputati . Il merito della “tenuta” del sistema lo si deve al cosiddetto Patto Gentiloni, con cui Giolitti si assicura l’appoggio del voto cattolico, che in tal modo supera, almeno in 330 collegi, lo steccato del non expedit.
 
Se la “questione operaia”, prodotto “naturale” dello sviluppo economico, rappresenta un nodo essenziale per la sopravvivenza del sistema di potere e del blocco di forze sociali che lo esercita, la “questione Vaticana” segue a ruota la prima nell’ordine politico delle problematiche, a cui dare soluzione, per garantire una stabilità sociale e politica allo Stato unitario.
 
Come si è detto prima, lo Stato Pontificio aveva rappresentato nei secoli precedenti l’ostacolo più consistente alla formazione di uno stato italiano unito sul territorio della penisola e, per questa via, alla creazione di un mercato unico che favorisse, attraverso gli scambi, la nascita della nuova classe sociale, la borghesia, che negli altri paesi europei era, invece, cresciuta negli stati retti dalle monarchie assolutistiche.
 
La breccia di Porta Pia (1870) simbolicamente mette la parola fine ad undici secoli di storia del potere temporale dei papi e la successiva legge sulle Guarentigie (1871) ricompone (dal punto di vista dello Stato italiano) il conflitto, riconoscendo personalità giuridica internazionale al nuovo Stato vaticano, libertà di movimento ed indipendenza al Pontefice, a cui vengono assegnati alcuni palazzi romani, oltre ad una dotazione finanziaria annua.
 
Se questa politica ed i conflitti con il Vaticano determinano la nascita di un nuovo stato italiano laico, in linea con il dettato cavouriano di “libera Chiesta in libero Stato”, lo privano, però, del consenso attivo dei cittadini cattolici, a cui il Pontefice impone, con il non expedit (1874),il divieto di partecipare alla vita politica attiva del nuovo Stato, costituendo, così, un altro fattore di debolezza ed instabilità della nuova realtà politico-istituzionale.
 
Dal punto di vista cattolico viene coniata una formula per indicare la separazione dallo Stato unitario. “ Italia reale e Italia legale”. E’ questa
 
“[…]la formula escogitata dai clericali dopo il 70 per indicare il disagio politico nazionale risultante dalla contraddizione tra la minoranza dei patriotti decisi e attivi e la maggioranza avversa (clericali e legittimisti-passivi e indifferenti). …
 
La formula è felice dal punto di vista «demagogico» perché esisteva di fatto ed era fortemente sentito un netto distacco tra lo Stato (legalità formale) e la società civile (realtà di fatto), ma la società civile era tutta e solamente nel «clericalismo»?
 
Intanto la società civile era qualcosa di informe e di caotico e tale rimase per molti decenni; fu possibile pertanto allo Stato di dominarla, superando volta a volta i conflitti che si manifestavano in forma sporadica, localistica, senza nesso e simultaneità nazionale. Il clericalismo non era quindi neanche esso l’espressione della società civile, perché non riuscì a darle un’organizzazione nazionale ed efficiente, nonostante esso fosse un’organizzazione forte e formalmente compatta: non era politicamente omogenea ed aveva paura delle stesse masse che in un certo senso controllava.
 
La formula politica del «non expedit» fu appunto l’espressione di tale paura ed incertezza: il boicottaggio parlamentare, che pareva un atteggiamento aspramente intransigente, in realtà era l’espressione dell’opportunismo più piatto. L’esperienza politica francese aveva dimostrato che il suffragio universale e il plebiscito a base larghissima, in date circostanze, poteva essere un meccanismo favorevolissimo alle tendenze reazionarie e clericali …; ma il clericalismo italiano sapeva di non essere l’espressione reale della società civile e che un possibile successo sarebbe stato effimero e avrebbe determinato l’attacco frontale da parte delle energie nazionali nuove, evitato felicemente nel 1870. …
 
Tuttavia l’atteggiamento clericale di mantenere «statico» il dissidio tra Stato e società civile era obbiettivamente sovversivo e ogni nuova organizzazione espressa dalle forze che intanto maturavano nella società, poteva servirsene come terreno di manovra per abbattere il regime costituzionale monarchico: perciò la reazione del 98 abbatté insieme e socialismo e clericalismo, giudicandoli giustamente ugualmente «sovversivi» e obbiettivamente alleati.
 
Da questo momento comincia pertanto una nuova politica vaticanesca, con l’abbandono di fatto del «non expedit» anche nel campo parlamentare (il Comune era tradizionalmente considerato società civile e non Stato) e ciò permette l’introduzione del suffragio universale, il patto Gentiloni e finalmente la fondazione nel 1919 del Partito Popolare.” [4]
 
Infine, il terzo nodo cruciale, che lo stato unitario non riesce ancora a sciogliere, che, anzi, s’aggroviglia maggiormente nei suoi primi cinquant’anni di vita, è quello del distacco esistente fra le masse meridionali, prevalentemente contadine, ed il nuovo Stato. Un distacco determinato fondamentalmente dal modo in cui si è realizzato il processo unitario, dal blocco storico sociale che ne ha costituito la spina dorsale e dalle forze politiche che lo hanno diretto. Un distacco che continua ad essere alimentato dal mancato sviluppo del Meridione d’Italia, in relazione, invece, al progresso economico che il resto del Paese registra nello stesso periodo.
 
E’ la “questione meridionale”, di cui il ceto politico nazionale comincia a prendere coscienza attraverso inchieste socio-economiche, come quella condotta da S. Sonnino e L. Franchetti poco dopo l’unificazione, ma soprattutto dalla pubblicistica di intellettuali come G. Fortunato, P. Villari ed altri, che denunciano l’arretratezza del Meridione, chiamando la politica governativa ad un maggiore impegno che corregga il divario.
 
Sarà, però, Gramsci, sin dal saggio su Alcuni temi della questione meridionale, scritto prima del suo arresto e pubblicato solo nel 1930, e poi negli scritti dal carcere, a dare per primo alla questione meridionale un’impostazione che ne ricollega la genesi alle modalità di realizzazione del processo unitario, descrivendo il blocco sociale delle campagne che tiene uniti i contadini agli interessi degli agrari ed il ruolo svolto dagli intellettuali meridionali, come trade-union di questo blocco.
 
Le già esigue basi di consenso al nuovo Stato da parte delle masse meridionali vengono ulteriormente erose da scelte politico-istituzionali che coinvolgono settori diversi di popolazione. Tale è ad esempio la perdita del ruolo di capitale che subisce, dopo la caduta del Regno dei Borboni, Napoli, in precedenza sede della Corte, di Ministeri e delle alte gerarchie dell’Esercito e dell’apparato burocratico-amministrativo. Così come ugualmente vi contribuisce l’iniziale processo di piemontesizzazione dell’apparato amministrativo, di cui si è già parlato.
 
Non spezzando quei rapporti di dominio vigenti nelle campagne meridionali e preesistenti all’unificazione, che si accompagnano spesso a manifestazioni gratuite di arbitrio da parte dei notabili locali, a cui spesso viene affidato anche l’onere della riscossione delle tasse, lo Stato unitario rinuncia ad introdurre elementi di discontinuità con lo Stato borbonico, necessari per conquistare in proprio la fiducia delle masse, la quale finisce, così, per restare riposta nel potere preesistente.
 
Inoltre, camorra e mafia, strutture criminali violente presenti a Napoli e Sicilia, spesso colluse con i notabili di un paese, non trovando opposizione da parte del nuovo Stato, vi si integrano, cogliendo, con l’inserimento nell’apparato amministrativo pubblico, un’opportunità per allargare il proprio potere-controllo sul territorio, potere alternativo a quello dello Stato, anche se con esso temporaneamente colluso.
 
La questione meridionale, che con le altre due questioni (operaia e vaticana) contribuisce all’instabilità dello Stato, alimenta la sua portata “destabilizzante” per effetto del divario economico-produttivo fra Nord e Sud e per le responsabilità politiche di chi perpetua questo divario e tiene le masse meridionali in uno stato di costante miseria.
 
Ma a chi o a che cosa attribuire la responsabilità di questo divario crescente fra due Italie ?
 
Criticando la tesi di chi (Nitti e Barbagallo) attribuisce la responsabilità del divario prevalentemente, se non esclusivamente, alla politica economica dei governi della Destra e della Sinistra storica,[5] R. Morandi invita a non isolare ed astrarre il processo di sviluppo economico differenziato fra le due Italie dal diverso contesto economico-sociale, in cui questo processo si realizza:
 
“Al momento dell’unificazione politica, che si compì nel ’60 – ‘61, il Sud si trovava a conferire un patrimonio industriale di entità non irrilevante, considerato naturalmente in relazione allo stato del Nord. L’attività industriale si addensava per intero attorno a Napoli ed a Salerno. Si trattava di alcuni grossi cotonifici, di impianti per la lavorazione meccanica del lino e della canapa, di fonderie e di qualche importante stabilimento per costruzioni di grossa meccanica, prevalentemente dediti a lavorazioni di stato. Da aggiungere un industria cantieristica, che aveva principiato a svilupparsi dopo il 1830.
 
Ma questo complesso produttivo…era paragonabile ad una pianta di serra cresciuta in un clima di forte protezionismo, e costituiva quasi un corpo solo con lo stato borbonico. Si trattava di un’industria sprovveduta del tutto di legami con l’economia di queste regioni, che era in arretrato di qualche secolo. …
 
La verità è che l’industria meridionale subì colpi dal liberalismo prima e ne subì poi per effetto del protezionismo, perché non possedeva in sé stessa alcuna forza vitale e non aveva radici. E’ piuttosto la profonda disparità di livello di due economie, a questa epoca in assoluta preponderanza agricola che, determinando la caduta verticale dell’industria meridionale e l’industrializzazione seppur tardiva del Nord, sarà causa vera della divisione irrimediabile di due Italie “[6]
 
Per il sentiero indicato da R. Morandi si ritorna alla strada maestra del blocco storico-sociale protagonista del Risorgimento e si ripercorre il processo unitario che, anche per i limiti soggettivi del partito che avrebbe dovuto rappresentare gli interessi della borghesia industriale settentrionale e meridionale, poco aveva modificato dei rapporti sociali nel meridione.
 
L’industria meridionale, non avendo un ambiente circostante in grado di assorbire i prodotti da essa stessa fabbricati (il mercato era infatti quasi del tutto inesistente per la prevalenza di un’economia agricola basata sull’auto-consumo, che l’arretratezza dei rapporti produttivi rendeva oltremodo stabile), si pone come “cattedrale nel deserto”, più facilmente influenzabile, perciò, dalle politiche governative, ora liberiste, ora protezioniste, e dalle crisi economiche cicliche del capitalismo.[7]
 
Peraltro, un vero e proprio mercato economico unico nazionale, a cui l’industria meridionale si possa rivolgere, non esiste al momento dell’unificazione, attesa la frammentazione politica vissuta dalla penisola fino a quel momento e la situazione di arretratezza economica complessiva. Di conseguenza, la politica economica dei governi, tesa a creare infrastrutture (strade e ferrovie) necessarie a realizzare l’obbiettivo, non riuscirà che a creare solo le premesse per lo sviluppo di un mercato unico, il quale dovrà attendere altri avvenimenti per cominciare a realizzarsi e, comunque, anche quando si realizzerà, vedrà il Sud in posizione di semi-colonia rispetto al Nord del paese.
 
A proposito della questione meridionale è opportuno riferire delle idee espresse da R.Romeo in alcuni articoli apparsi sulla rivista Nord-Sud, alla fine degli anni ’50, e poi riprese nel volume Risorgimento e capitalismo, edito da Laterza nel 1970, in aperta polemica con Gramsci .
 
Le tesi di Romeo, che pure contengono imprecisioni e travisamenti della teoria marxista e delle opinioni di Gramsci, come puntigliosamente documentato da Aurelio Macchioro [8], per il loro contenuto si possono sintetizzare, grosso modo, così:
 
1. non era possibile dare uno sbocco al processo unitario diverso da quello che realmente esso assunse (stato autoritario, compressione al Sud delle esigenze del capitalismo industriale ed agrario e salvaguardia della rendita parassitaria) per i rapporti di forza internazionali, che avrebbero impedito una rivoluzione in Italia con caratteristiche politico-economiche più avanzate;
 
2. l’accumulazione-utilizzo delle risorse finanziarie, necessarie allo sviluppo industriale, che si ebbe nella seconda metà del secolo XIX, doveva necessariamente essere pagata e sopportata dalle masse popolari italiane, che per l’epoca voleva dire contadine, perché non si poteva fare diversamente di come si fece. Eppoi, da sempre ed in tutti i paesi, non è forse avvenuta la stessa cosa ? (Vedi il processo di accumulazione originaria-primitiva in Inghilterra, descritto da Marx nel I volume del Capitale, ma anche il processo di industrializzazione nell’URSS di Stalin);
 
3. i sacrifici affrontati ieri, saranno compensati dallo sviluppo industriale meridionale del domani (!), reso possibile dallo sviluppo industriale al Nord.
 
In premessa, vorrei dire che, sotto il profilo del metodo, l’impostazione di Romeo mi sembra viziata da una sorta di “determinismo storico”, che, guardando gli avvenimenti passati col “senno di poi”, rende tutto il reale razionale, per il semplice fatto di essere accaduto, sterilizzando, così, il contributo che “l’elemento soggettivo” apporta sempre allo sviluppo degli avvenimenti.
 
Si giunge così a sopravvalutare l’apporto dato dai fattori internazionali (rapporti fra le potenze europee) nel processo che portò al raggiungimento dell’obbiettivo di creare lo Stato Unitario, ridimensionando, invece, il “fattore interno”, il ruolo, cioè, esercitato dalle forze politiche e sociali italiane, che furono unite nello scopo comune, anche se differenziate sul modo come raggiungerlo, e dimenticando che gli avvenimenti storici del passato e quelli politici del presente sono sempre il frutto di un punto di equilibrio fra le potenzialità di una situazione oggettiva e l’intervento umano che, con la sua soggettività, quelle potenzialità trasforma in effetto.
 
La polemica di Romeo con Gramsci credo, poi, che risenta in qualche modo del dibattito politico su industrializzazione e Mezzogiorno, che si andava sviluppando negli anni ’50, quando Romeo scrisse i primi saggi, e che vedeva il Partito Comunista impegnato a rivendicare, forte dell’insegnamento gramsciano, uno sviluppo economico per il Sud del Paese, che facesse finalmente giustizia dei rapporti produttivi arretrati in agricoltura e lo attrezzasse con un apparato industriale degno di questo nome.
 
Si potrebbero spiegare, forse, così i richiami all’accumulazione primitiva descritta da Marx ed all’industrializzazione in Urss, che nella logica del Romeo avrebbero dovuto togliere, con la loro autorevolezza, credibilità alle tesi avverse, spesso bollate di “dottrinarismo ed astrattismo”. Queste tesi saranno definitivamente sconfessate, secondo Romeo, dallo sviluppo economico in atto. “L’inferiorità del mezzogiorno si presentò infatti per un certo periodo, e sotto certi aspetti si presenta tuttora [1970], come una condizione storica dello sviluppo del Nord, ma si tratta di una condizione “temporanea” (anche se si è protratta per molti decenni), e destinata ad essere rovesciata dallo stesso sviluppo interno dell’industrialismo settentrionale”[!]
 
Peccato che queste opinioni, espresse da Romeo a conclusione del volume citato, edito da Laterza nel 1970, si siano dimostrate, dopo trentasette anni, completamente infondate, dato che il divario fra le due realtà del nostro Paese, invece di ridursi, si è ulteriormente allargato in questo periodo.
 
Infine, sulla tesi di Romeo circa una presunta ineluttabilità del processo di accumulazione capitalistica in Italia, così come si è realizzato dopo la formazione dello Stato unitario, mi sembra chiarificante riportare quanto Gramsci stesso dice a riguardo:
 
[…] “È giusto il criterio generale che occorra esaminare il costo dell’introduzione di una certa industria nel paese, chi ne ha fatto le spese, chi ne ha ricavato vantaggi e se i sacrifizi fatti non potevano esserlo in altra direzione più utilmente, ma tutto questo esame deve esser fatto con una prospettiva non immediata, ma di larga portata. D’altronde il solo criterio dell’utilità economica non è sufficiente per esaminare il passaggio da una forma di organizzazione economica ad un’altra; occorre tener conto anche del criterio politico, cioè se il passaggio sia stato obbiettivamente necessario e corrispondente a un interesse generale certo, anche se a scadenza lunga.
 
Che l’unificazione della penisola dovesse costare sacrifizi a una parte della popolazione per le necessità inderogabili di un grande Stato moderno è da ammettere; però occorre esaminare se tali sacrifici sono stati distribuiti equamente e in che misura potevano essere risparmiati e se sono stati applicati in una direzione giusta. Che l’introduzione e lo sviluppo del capitalismo in Italia non sia avvenuto da un punto di vista nazionale, ma da angusti punti di vista regionali e di ristretti gruppi e che abbia in gran parte fallito ai suoi compiti, determinando un’emigrazione morbosa, mai riassorbita e di cui mai è cessata la necessità, e rovinando economicamente intere regioni, è certissimo. L’emigrazione infatti deve essere considerata come un fenomeno di disoccupazione assoluta da una parte, e dall’altra come manifestazione del fatto che il regime economico interno non assicurava uno standard di vita che si avvicinasse a quello internazionale tanto da non far preferire i rischi e i sacrifizi connessi con l’abbandono del proprio paese a lavoratori già occupati).”[9]
 
“Questione operaia”, “questione meridionale”, che è poi la questione dei contadini, e “questione Vaticana”, sono le tre spine nel fianco dello Stato Italiano, alle prese con una carenza di consensi, che si porta dietro dalla nascita, che ne mina costantemente la stabilità, spingendo le classi dominanti a ricercare nel conflitto e nella repressione la via d’uscita ai contrasti sociali.
 
I Governi di fine secolo XIX, Crispi, Rudinì e Pelloux, sono la più chiara espressione di questa politica, che, nonostante la violenza repressiva e le misure liberticide adottate (per il Governo Pelloux si parlerà di fallito “colpo di Stato”), non si dimostra in grado di venire a capo delle costanti agitazioni.
 
Chi tenterà di adottare un metodo diverso per risolvere le contraddizioni sociali, sarà G. Giolitti, che governerà l’Italia quasi ininterrottamente per il primo quindicennio del nuovo secolo, tanto da far parlare gli storici di “età giolittiana”, con riferimento alla diversità ed al lungo periodo della sua gestione del potere.
 
Convinto di poter gestire con la trattativa i conflitti sociali, avendo di fronte masse organizzate, come erano quelle operaie nei sindacati, e di dover far ricorso alla forza pubblica di fronte a “masse inorganiche”, come erano quelle contadine, Giolitti punta ad un’alleanza fra industriali del nord ed operai, finalizzata alla realizzazione di una legislazione che renda migliori le condizioni lavorative operaie, chiedendo in cambio ai capi socialisti un sostegno alla politica statale di tipo protezionistico verso la grande industria.
 
[…] “…il programma di Giolitti e dei liberali democratici tendeva a creare nel Nord un blocco «urbano» (di industriali e operai) che fosse la base di un sistema protezionistico e rafforzasse l’economia e l’egemonia settentrionale.
 
Il Mezzogiorno era ridotto a un mercato di vendita semicoloniale, a una fonte di risparmio e di imposte ed era tenuto «disciplinato» con due serie di misure: misure poliziesche di repressione spietata di ogni movimento di massa con gli eccidi periodici di contadini (nella commemorazione di Giolitti, scritta da Spectator – Missiroli – nella «Nuova Antologia» si fa le meraviglie perché Giolitti si sia sempre strenuamente opposto a ogni diffusione del socialismo e del sindacalismo nel Mezzogiorno, mentre la cosa è naturale e ovvia, poiché un protezionismo operaio – riformismo, cooperative, lavori pubblici – è solo possibile se parziale; cioè ogni privilegio presuppone dei sacrificati e spogliati); misure poliziesche-politiche: favori personali al ceto degli «intellettuali» o paglietta, sotto forma di impieghi nelle pubbliche amministrazioni, di permessi di saccheggio impunito delle amministrazioni locali, di una legislazione ecclesiastica applicata meno rigidamente che altrove, lasciando al clero la disponibilità di patrimoni notevoli ecc., cioè incorporamento a «titolo personale» degli elementi più attivi meridionali nel personale dirigente statale, con particolari privilegi «giudiziari», burocratici ecc.
 
Così lo strato sociale che avrebbe potuto organizzare l’endemico malcontento meridionale, diventava invece uno strumento della politica settentrionale, un suo accessorio di polizia privata. Il malcontento non riusciva, per mancanza di direzione, ad assumere una forma politica normale e le sue manifestazioni, esprimendosi solo in modo caotico e tumultuario, venivano presentate come «sfera di polizia» giudiziaria. In realtà a questa forma di corruzione aderivano sia pure passivamente e indirettamente uomini come il Croce e il Fortunato per la concezione feticistica dell’«unità»….”[10]
 
La politica di Giolitti viene resa possibile dalla fase e di sviluppo industriale vertiginoso, che l’Italia conosce a partire dagli ultimi anni dell’800, dopo aver sofferto la crisi ciclica del 1887, e che durerà ininterrottamente fino al 1907, quando una nuova crisi economica ciclica, che si manifesta nell’economia capitalistica mondiale, ne rallenterà i ritmi di crescita.
 
“Si prevede un era di grandi affari e perciò ci si incammina, senza tante esitazioni, verso crescenti investimenti, né ci si preoccupa, come un tempo, di scioperi e richieste di miglioramento, perché riesce piuttosto agevole soddisfare queste ultime con i grossi margini dei grossi affari”[11]
 
A questa crescita industriale si aggiunge la stabilità e la piena convertibilità con l’oro da parte della lira, garantita anche dalle rimesse, che dall’estero cominciano ad inviare gli emigrati, consentendo di avviare una politica statale di incremento della spesa pubblica a sostegno della grande industria, ormai fusa con l’alta finanza. L’età giolittiana corrisponderà al periodo di maggior sviluppo del capitale finanziario.
 
Il Partito Socialista, diretto dai riformisti come Turati, sostiene in Parlamento, insieme a democratici e radicali, la politica giolittiana, fino a quando le condizioni economiche cambiano per effetto della crisi economica internazionale, iniziata nel 1907, fino a quando le spese militari dell’avventura coloniale in Libia non cominciano ad incidere pesantemente sul bilancio statale e nel Partito Socialista la componente riformista viene messa in minoranza dai massimalisti di C. Lazzari e dal distacco dei cosiddetti “riformisti di destra” (Bissolati, Bonomi, ecc.), che avevano appoggiato la guerra coloniale.
 
“[…[ Il programma di Giolitti fu «turbato» da due fattori: 1) l’affermarsi degli intransigenti nel partito socialista sotto la direzione di Mussolini e il loro civettare coi meridionalisti (libero scambio, elezioni di Molfetta ecc.), che distruggeva il blocco urbano settentrionale; 2) l’introduzione del suffragio universale che allargò in modo inaudito la base parlamentare del Mezzogiorno e rese difficile la corruzione individuale (troppi da corrompere alla liscia e quindi apparizione dei mazzieri).
 
Giolitti mutò «partenaire», al blocco urbano sostituì (o meglio contrappose per impedirne il completo sfacelo) il «patto Gentiloni», cioè, in definitiva, un blocco tra l’industria settentrionale e i rurali della campagna «organica e normale» (le forze elettorali cattoliche coincidevano con quelle socialiste geograficamente: erano diffuse cioè nel Nord e nel Centro) con estensione degli effetti anche nel Sud, almeno nella misura immediatamente sufficiente per «rettificare» utilmente le conseguenze dell’allargamento della massa elettorale.”[12]
 
Alla fine “l’età giolittiana” non modificò la composizione del blocco di potere che aveva governato l’Italia fino a quel momento, chè, anzi, rafforzando il capitale finanziario, dette maggior peso all’interno di quel blocco alla grande industria ed all’alta finanza, senza, peraltro, ridimensionare la presenza degli agrari; né segnò un cambiamento radicale dei metodi di gestione del potere perché si guardò bene dal
 
“[…]…distruggere le vecchie consorterie e cricche particolaristiche, che vivevano parassitariamente sulla polizia statale che difendeva i loro privilegi e il loro parassitismo e determinare una più larga partecipazione di «certe» masse alla vita statale attraverso il Parlamento.
 
Bisognava, per Giolitti, che rappresentava il Nord e l’industria del Nord, spezzare la forza retriva e asfissiante dei proprietari terrieri, per dare alla nuova borghesia più largo spazio nello Stato, e anzi metterla alla direzione dello Stato. Giolitti ottenne questo con le leggi liberali sulla libertà di associazione e di sciopero ed è da notare come nelle sue Memorie egli insista specialmente sulla miseria dei contadini e sulla grettezza dei proprietari. Ma Giolitti non creò nulla: egli «capì» che occorreva concedere a tempo per evitare guai peggiori e per controllare lo sviluppo politico del paese e ci riuscì.
 
In realtà Giolitti fu un grande conservatore e un abile reazionario, che impedì la formazione di un’Italia democratica, consolidò la monarchia con tutte le sue prerogative e legò la monarchia più strettamente alla borghesia attraverso il rafforzato potere esecutivo che permetteva di mettere al servizio degli industriali tutte le forze economiche del paese. È Giolitti che ha creato così la struttura contemporanea dello Stato Italiano e tutti i suoi successori non hanno fatto altro che continuare l’opera sua, accentuando questo o quell’elemento subordinato.
 
Che Giolitti abbia screditato il parlamentarismo è vero, ma non proprio nel senso che sostengono molti critici: Giolitti fu antiparlamentarista, e sistematicamente cercò di evitare che il governo diventasse di fatto e di diritto un’espressione dell’assemblea nazionale (che in Italia poi era imbelle per l’esistenza del Senato così come è organizzato); così si spiega che Giolitti fosse l’uomo delle «crisi extraparlamentari».”[13]
 
[1] Pietro Grifone, Il capitale finanziario in Italia. Ed. Einaudi 1971, pag.14
[2] De Bernardi-Guarracino L’operazione storica. Ed.Bruno Mondadori vol.3 pag.671
[3] G. Salvemini, Introduzione a L’età giolittiana di A.W.Salomone. La Nuova Italia Firenze 1988.Pagg.XII-XIII
[4] A.Gramsci, Quaderni del carcere. Edizione critica a cura di V. Gerratana. Ed.Einaudi 1975 pagg.2057-8
[5] Più recentemente ha sostenuto questa tesi N.Zitara in L’unità d’Italia: nascita di una colonia, Milano, Jaca Book, 1971.
[6] Rodolfo Morandi: Storia della grande industria in Italia. Einaudi. Torino 1966, pag.278
[7] La politica economica di costruire “cattedrali nel deserto”, fu quella seguita dai governi di centro-sinistra negli anni 1950-60, quando si impegnò capitale pubblico per realizzare insediamenti industriali nel Sud, nell’illusione che questo avrebbe innescato di per sé un meccanismo di sviluppo economico, senza pensare ad una modifica dei rapporti produttivi dell’agricoltura meridionale. In realtà queste industrie, realizzando una produzione staccata dalle esigenze del territorio ed indirizzata a mercati esteri, furono rese vulnerabili alle contingenze economiche internazionali e con la crisi degli anni ’70 ad una ad una chiusero, senza lasciare un retroterra di indotto economico, che modificasse in permanenza la realtà economico-sociale meridionale.
[8] Vedi A.Macchioro, Risorgimento, capitalismo e metodo storico, in Rivista Storica del socialismo, lug.- dic. 1959, ripubblicato nella raccolta di suoi saggi Studi di storia del pensiero economico ed altri saggi. Ed.Feltrinelli, Milano, 1970 pagg.699-741
[9] A.Gramsci, Op.cit.. pag.1992
[10] A.Gramsci, Op.cit.. pagg.2038-9
[11] Pietro Grifone, Op.cit. pag.14
[12] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2039
[13] A.Gramsci, Op.cit.. pagg.997-8

Capitolo IX
 
I primi cinquant’anni di vita dello Stato sono segnati, come si è detto, da uno sviluppo economico del Paese, che modifica la composizione organica del blocco storico-sociale al potere, ponendo in primo piano la borghesia industriale, rispetto all’aristocrazia agraria ed al latifondo.
 
I primi quindici anni del secolo XX mettono in luce un nuovo fenomeno economico, il capitale finanziario, costituito dalla concentrazione in poche mani del capitale industriale, da un lato, e di quello bancario, dall’altro, e dalla compenetrazione reciproca di questi due settori, un fenomeno che ben presto egemonizza la vita politica, determinandone le scelte.
 
Le tre questioni fondamentali dello Stato italiano (questione operaia, vaticana e meridionale), scaturite dal modo in cui il processo risorgimentale è stato condotto, sono anche le ragioni della debolezza strutturale dello Stato, dato lo scarso consenso popolare di cui gode.
 
Il coinvolgimento dell’Italia nella I Guerra mondiale, voluto dal capitale finanziario, renderà ancor più instabile l’equilibro di forze su cui si era retto tutto il sistema di potere fino a quel momento, aprendo così la strada ad avventure, che Gramsci nei Quaderni del carcere definisce “cesaristiche”, le quali tenteranno di ricomporre l’equilibrio su basi nuove.
 
L’Italia entra nel conflitto nel 1915, nove mesi dopo il suo scoppio, non senza contraddizioni laceranti fra neutralisti ed interventisti.
 
Nel primo schieramento, oltre ad operai e la gran parte dei contadini, anche
 
“…[f]razioni notevoli di grande borghesia industriale (industria leggera e di esportazione), quasi tutta la media, gli agrari specie del Sud, sono per la neutralità perchè prevedono che la guerra rafforzi il predominio del binomio Alta Banca-Industria pesante.”[1]
 
Sul piano politico sono perché l’Italia resti neutrale nel conflitto il grosso delle forze socialiste, che nel giugno del 1914 danno vita ad Ancona e nelle Marche alla cosiddetta “settimana rossa”, grosse manifestazioni scaturite dalla brutale repressione di un comizio anti-militarista; la Chiesa cattolica, ostile alla guerra, non solo per ragioni ideali, ma anche per la preoccupazione di una possibile rottura dell’unità religiosa in Europa; infine, i liberali giolittiani, preoccupati per le ripercussioni economico-sociali delle enormi spese militari.
 
Sul fronte opposto sono i magnati dell’industria “pesante” e dell’alta Banca che nell’intervento statale per finanziare lo sforzo bellico intravedono la possibilità di grandi profitti, in misura più ridotta assaporati nei primi nove mesi di “neutralità forzata”, attraverso le forniture di materiale militare ai Paesi già in conflitto.
 
Sul piano politico il fronte interventista comprende: i nazionalisti, costituitisi in partito nel 1910, con un programma dichiaratamente antidemocratico ed antisocialista, che auspicano l’intervento militare, perché l’Italia possa essere considerata una delle grandi potenze; i liberali di Amendola ed i socialisti di Bissolati, che vedono nell’intervento militare contro l’Austria la IV Guerra d’Indipendenza, per l’acquisizione al territorio patrio di Trieste e Trento; i liberali di Salandra e Sonnino, che hanno sostituito Giolitti al governo; infine, lo sparuto gruppo dei cosiddetti “rivoluzionari”, fra cui vi è Mussolini, che, espulso dal Partito Socialista per il suo interventismo, apre, con i soldi ricevuti dai capitalisti francesi ed italiani, il giornale Popolo d’Italia, dalle cui colonne inizia a novembre del 1914 una forsennata campagna per l’entrata in guerra dell’Italia a fianco dell’Intesa.
 
Non è questa la sede per analizzare approfonditamente le ragioni che consentono ad uno schieramento sociale e politico “minoritario” di far prevalere sulla maggioranza del Paese la decisione di entrare in guerra, decisione che il popolo italiano pagherà con enormi costi umani ed economici.
 
Qui però è d’uopo evidenziare schematicamente solo alcuni punti, in continuità con quanto scritto innanzi:
 
La scelta bellicista rende evidente il peso politico ormai raggiunto dal capitale finanziario italiano nel blocco economico-sociale che regge lo Stato e la guerra costituirà un’occasione d’oro per il suo rafforzamento e per l’asservimento dello Stato e del suo apparato alle sue necessità.
 
Nelle operazioni tese ad imporre scelte politiche importanti, ancor più se antipopolari, come lo è la guerra, si rivelano fondamentali strumenti nuovi, come partiti e giornali, a dimostrazione dell’importanza che va assumendo nella società moderna la ricerca del consenso, mentre in un periodo precedente, come il Risorgimento, a questa questione non si prestava particolare attenzione.
 
La struttura autoritaria ed elitaria delle massime istituzioni statali italiane, che non gode del consenso popolare e non prevede, come in una normale democrazia, il ruolo centrale del Parlamento, ma anzi ne registra la subordinazione al potere Esecutivo (Monarchia-Governo), si rivela strumento ottimale per imporre “legalmente” alla nazione una volontà, che non è quella della maggioranza del popolo italiano.
 
I primi anni del conflitto mettono in luce l’impreparazione dei comandi militari e dell’apparato produttivo italiani di fronte all’impegno bellico. Ma il 1917 sarà l’anno nero per tutte le nazioni dell’Intesa ed in particolare per l’Italia. La caduta dello Zar e la rivoluzione in Russia consentono agli imperi Centrali di smobilitare dal fronte orientale gran parte delle proprie truppe, per concentrarle su quello occidentale e meridionale.
 
Alla fine di ottobre del 1917 a Caporetto si verifica una vera e propria disfatta per l’esercito italiano, che si sbanda completamente, ripiegando disordinatamente, senza la guida dei propri comandanti, che, intanto, si sono dati alla fuga, e con il suo sbandamento consente all’esercito austro-tedesco di spingersi fino al Piave, catturando moltissimi prigionieri e impossessandosi di un enorme quantità di materiale bellico.
 
Oltre alle responsabilità gravissime del comando supremo militare italiano, che al vertice ha il generale Cadorna, un ufficiale senza scrupoli che ordina ai reparti scelti dei Carabinieri di sparare sulle truppe italiane in ritirata (come, peraltro, era costume fare durante tutta la guerra), e dei singoli comandanti che, come Badoglio, non esitano a lasciare in balia di sé stesse le truppe sotto il loro comando, anticipandone la fuga, occorre ribadire le ragioni politico-sociali alla base della disfatta, che rimandano allo scollamento storico fra masse popolari e vertici statali, di cui i vertici militari sono una componente.
 
A questo distacco storico si aggiunge la situazione contingente di due anni e mezzo di trincea, che, per l’abbrutimento che comporta, se è vero che ha attutito (se non del tutto spento per rassegnazione) ogni opposizione attiva ad una scelta bellicista, prima imposta senza alcun consenso ed ora percepita come una insopportabile sottrazione di braccia e vite umane al reddito della propria famiglia, non ha, però, cancellato nell’operaio del Nord o nel contadino del Sud il desiderio di tornare alla propria casa, disertando.
 
Di Caporetto, delle ragioni politico-sociali e militari della disfatta, delle conseguenze per l’Italia, anche con riferimento alla sua ”affidabilità” militare in previsione di coalizioni belliche future, Gramsci parla in queste pagine dei Quaderni:
 
“[…] Caporetto fu essenzialmente un «infortunio militare»; che il Volpe abbia dato [nel libro Ottobre 1917. Dall’Isonzo al Piave n.d.r.], con tutta la sua autorità di storico e di uomo politico, a questa formula il valore di un luogo comune soddisfa molta gente che sentiva tutta l’insufficienza storica e morale (l’abbiezione morale) della polemica su Caporetto come «crimine» dei disfattisti o come «sciopero militare»….
 
La responsabilità storica deve essere cercata nei rapporti generali di classe in cui soldati, ufficiali di complemento e stati maggiori occupano una posizione determinata, quindi nella struttura nazionale, di cui sola responsabile è la classe dirigente appunto perché dirigente (vale anche qui l’«ubi maior, minor cessat»). Ma questa critica, che sarebbe veramente feconda, anche dal punto di vista nazionale, brucia le dita.”[2]
 
“[…]sul significato di Caporetto bisognerebbe fissare alcuni punti chiari e precisi:
 
1) Caporetto fu un fatto puramente militare? Questa spiegazione pare ormai acquisita agli storici della guerra, ma essa è basata su un equivoco. Ogni fatto militare è anche un fatto politico e sociale. Subito dopo la sconfitta si cercò di diffondere la convinzione che le responsabilità politiche di Caporetto fossero da ricercare nella massa militare, cioè nel popolo e nei partiti che ne erano l’espressione politica.
 
Questa tesi è oggi universalmente respinta, anche ufficialmente. Ma ciò non vuol dire che Caporetto perciò solo diventi puramente militare, come si tende a far credere, come se fattore politico fosse solo il popolo, cioè i responsabili della gestione politico-militare. Anche se fosse dimostrato (come invece si esclude universalmente) che Caporetto sia stato uno «sciopero militare», ciò non vorrebbe dire che la responsabilità politica debba essere accollata al popolo ecc. (dal punto di vista giudiziario può spiegarsi, ma il punto di vista giudiziario è un atto di volontà unilaterale tendente a integrare col terrorismo l’insufficienza governativa): storicamente, cioè dal punto di vista politico più alto, la responsabilità sarebbe sempre dei governanti, e della loro incapacità a prevedere che determinati fatti avrebbero potuto portare allo sciopero militare e quindi a provvedere a tempo, con misure adeguate (sacrifici di classe) a impedire una tale possibile emergenza.
 
Che ai fini immediati di psicologia della resistenza, in caso di forza maggiore, si affermi che «occorre rompere i reticolati coi denti» è comprensibile, ma che si abbia la convinzione che in ogni caso i soldati debbano rompere i reticolati coi denti, perché così vuole l’astratto dovere militare, e si trascuri di provvederli delle tenaglie, è criminoso. Che si abbia la convinzione che la guerra non si fa senza vittime umane è comprensibile, ma che non si tenga conto che le vite umane non debbono essere sacrificate inutilmente, è criminoso ecc.
 
Questo principio, dal rapporto militare si estende al rapporto sociale. Che si abbia la convinzione, e la si sostenga senza limitazioni, che la massa militare debba fare la guerra e sopportarne tutti i sacrifizi, è comprensibile, ma che si ritenga che ciò avverrà in ogni caso senza tener conto del carattere sociale della massa militare e senza venire incontro alle esigenze di questo carattere, è da semplicioni, cioè da politici incapaci.
 
2) Così la responsabilità, se è esclusa quella della massa militare, non può neanche essere del capo supremo, cioè di Cadorna, oltre certi limiti, cioè oltre i limiti segnati dalle possibilità di un capo supremo, della tecnica militare, e delle attribuzioni politiche che un capo supremo ha in ogni caso.
 
Cadorna ha avuto gravi responsabilità, certamente, sia tecniche che politiche, ma queste ultime non possono essere state decisive. Se Cadorna non ha capito la necessità di un «governo politico determinato» delle masse comandate e non le ha esposte al governo, è certo responsabile, ma non quanto il governo e in generale quanto la classe dirigente, di cui, in ultima analisi, ha espresso la mentalità e la comprensione politica. Il fatto che non ci sia stata una analisi obbiettiva dei fattori che hanno determinato Caporetto e un’azione concreta per eliminarli, dimostra «storicamente» questa responsabilità estesa.
 
3) L’importanza di Caporetto nel decorso dell’intera guerra. La tendenza attuale tende a diminuire il significato di Caporetto e a farne un semplice episodio del quadro generale. Questa tendenza ha un significato politico e avrà delle ripercussioni politiche nazionali e internazionali: dimostra che non si vogliono eliminare i fattori generali che hanno determinato la sconfitta, ciò che ha un peso nel regime delle alleanze e nelle condizioni che saranno fatte al paese nel caso di una nuova combinazione bellica, poiché le critiche di se stessi che [non] si vogliono fare nel campo nazionale per evitare determinate conseguenze necessarie all’indirizzo politico-sociale, saranno fatte indubbiamente dagli organismi responsabili degli altri paesi in quanto l’Italia è presunta poter far parte di alleanze belliche. Gli altri paesi, nei calcoli in vista di alleanze, dovranno tener conto di nuovi Caporetto e vorranno dei premi di assicurazione, cioè vorranno l’egemonia anche oltre certi limiti.
 
4) L’importanza di Caporetto nel quadro della guerra mondiale. È data anche dai mezzi forniti al nemico (tutti i magazzini di viveri e di munizioni ecc.) che permisero una più lunga resistenza, e la necessità imposta agli alleati di ricostituire questi depositi con turbamento di tutti i servizi e piani generali….
 
Dopo Caporetto l’Italia, materialmente (per gli armamenti, per gli approvvigionamenti, ecc.) cadde in balia degli alleati, la cui attrezzatura economica non era paragonabile per efficienza. L’assenza di autocritica significa non volontà di eliminare le cause del male ed è quindi un sintomo di grave debolezza politica.”[3]
 
Alla conclusione del conflitto le contraddizioni sociali, che nel triennio 1915-1918 erano rimaste forzatamente sopite, come in una pentola a pressione scoppiano rendendo più instabile e precario l’equilibrio su cui si fonda il dominio delle classi al potere, inasprendo le tre questioni irrisolte, che già rappresentavano le spine nel fianco del sistema di potere.
 
I contadini, che avevano maturato in guerra una coscienza comune dei propri interessi ed a cui era stato promesso la ripartizione delle terre, al fine di coinvolgerli nello scontro dopo le disfatte militari, cominciano ad occupare le terre, a partire dal Meridione, guidati dalla Federterra, organismo sindacale del partito Socialista.
 
La preoccupazione di perdere il controllo delle masse contadine a favore delle forze socialiste spinge la Chiesa ad abbandonare l’atteggiamento precedente di ostilità/neutralità verso lo Stato italiano, concretizzatosi nella formula del non expedit, per passare ad una partecipazione alla vita politica più diretta di quella attuata con il Patto Gentiloni, attraverso la costituzione nel 1919 del Partito Popolare Italiano.
 
Infine, nelle fabbriche la classe operaia, cresciuta numericamente per effetto della crescita dell’industria bellica, di fronte all’occupazione delle terre e di fronte all’esempio che viene dalla Russia, occupa le fabbriche, ponendo indirettamente il problema di un nuovo blocco sociale per la conquista del potere politico.
 
“[…] Ma intanto i fatti «spontanei» avvenivano (1919-1920), ledevano interessi, disturbavano posizioni acquisite, suscitavano odi terribili anche in gente pacifica, facevano uscire dalla passività strati sociali stagnanti nella putredine: creavano, appunto per la loro spontaneità e per il fatto che erano sconfessati, il «panico» generico, la «grande paura» che non potevano non concentrare le forze repressive spietate nel soffocarli.”[4]
 
Le elezioni che si svolgono nel 1919 sono la fotografia di questa situazione esplosiva. Esse si differenziano per i risultati politici che producono da quelle del 1913.
 
“[…] L’elezione del 1913 è la prima con caratteri popolari spiccati per la larghissima partecipazione dei contadini; quella del 1919 è la più importante di tutte per il carattere proporzionale e provinciale del voto che obbliga i partiti a raggrupparsi e perché in tutto il territorio, per la prima volta, si presentano gli stessi partiti con gli stessi (all’ingrosso) programmi. In misura molto maggiore e più organica che nel 1913 (quando il collegio uninominale restringeva le possibilità e falsificava le posizioni politiche di massa per l’artificiosa delimitazione dei collegi) nel 1919 in tutto il territorio, in uno stesso giorno, tutta la parte più attiva del popolo italiano si pone le stesse quistioni e cerca di risolverle nella sua coscienza storico-politica.
 
Il significato delle elezioni del 1919 è dato dal complesso di elementi «unificatori», positivi e negativi, che vi confluiscono: la guerra era stata un elemento unificatore di primo ordine in quanto aveva dato la coscienza alle grandi masse dell’importanza che ha anche per il destino di ogni singolo individuo la costruzione dell’apparato governativo, oltre all’aver posto una serie di problemi concreti, generali e particolari, che riflettevano l’unità popolare-nazionale.
 
Si può affermare che le elezioni del 1919 ebbero per il popolo un carattere di Costituente (questo carattere lo ebbero anche le elezioni del 1913, come può ricordare chiunque abbia assistito alle elezioni nei centri regionali dove maggiore era stata la trasformazione del corpo elettorale e come fu dimostrato dall’alta percentuale di partecipazione al voto: era diffusa la convinzione mistica che tutto sarebbe cambiato dopo il voto, di una vera e propria palingenesi sociale: così almeno in Sardegna) sebbene non l’abbiano avuto per «nessun» partito del tempo: in questa contraddizione e distacco tra il popolo e i partiti è consistito il dramma storico del 1919, che fu capito immediatamente solo da alcuni gruppi dirigenti più accorti e intelligenti (e che avevano più da temere per il loro avvenire). ….
 
Il popolo, a suo modo, guardava all’avvenire (anche nella quistione dell’intervento in guerra) e in ciò è il carattere implicito di costituente che il popolo diede alle elezioni del 1919; i partiti guardavano al passato (solo al passato) concretamente e all’avvenire «astrattamente», «genericamente», come «abbiate fiducia nel vostro partito» e non come concezione storico-politica costruttiva.”[5]
 
Dopo le elezioni del ’19, dopo il “biennio rosso”(1919-20), si viene a determinare una situazione di crisi, foriera di soluzioni autoritarie e liberticide.
 
Gramsci così la descrive:
 
“[…] A un certo punto della loro vita storica i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali, cioè i partiti tradizionali in quella data forma organizzativa, con quei determinati uomini che li costituiscono, li rappresentano e li dirigono non sono più riconosciuti come loro espressione dalla loro classe o frazione di classe.
 
Quando queste crisi si verificano, la situazione immediata diventa delicata e pericola, perché il campo è aperto alle soluzioni di forza, all’attività di potenze oscure rappresentate dagli uomini provvidenziali o carismatici. Come si formano queste situazioni di contrasto tra rappresentanti e rappresentati, che dal terreno dei partiti (organizzazioni di partito in senso stretto, campo elettorale-parlamentare, organizzazione giornalistica) si riflette in tutto l’organismo statale, rafforzando la posizione relativa del potere della burocrazia (civile e militare), dell’alta finanza, della Chiesa e in generale di tutti gli organismi relativamente indipendenti dalle fluttuazioni dell’opinione pubblica?
 
In ogni paese il processo è diverso, sebbene il contenuto sia lo stesso. E il contenuto è la crisi di egemonia della classe dirigente, che avviene o perché la classe dirigente ha fallito in qualche sua grande impresa politica per cui ha domandato o imposto con la forza il consenso delle grandi masse (come la guerra) o perché vaste masse (specialmente di contadini e di piccoli borghesi intellettuali) sono passati di colpo dalla passività politica a una certa attività e pongono rivendicazioni che nel loro complesso disorganico costituiscono una rivoluzione.
 
Si parla di «crisi di autorità» e ciò appunto è la crisi di egemonia, o crisi dello Stato nel suo complesso.
 
La crisi crea situazioni immediate pericolose, perché i diversi strati della popolazione non possiedono la stessa capacità di orientarsi rapidamente e di riorganizzarsi con lo stesso ritmo. La classe tradizionale dirigente, che ha un numeroso personale addestrato, muta uomini e programmi e riassorbe il controllo che le andava sfuggendo con una celerità maggiore di quanto avvenga nelle classi subalterne; fa magari dei sacrifizi, si espone a un avvenire oscuro con promesse demagogiche, ma mantiene il potere, lo rafforza per il momento e se ne serve per schiacciare l’avversario e disperderne il personale di direzione, che non può essere molto numeroso e molto addestrato. Il passaggio delle truppe di molti partiti sotto la bandiera di un partito unico che meglio rappresenta e riassume i bisogni dell’intera classe è un fenomeno organico e normale, anche se il suo ritmo sia rapidissimo e quasi fulmineo in confronto di tempi tranquilli: rappresenta la fusione di un intero gruppo sociale sotto un’unica direzione ritenuta sola capace di risolvere un problema dominante esistenziale e allontanare un pericolo mortale.
 
Quando la crisi non trova questa soluzione organica, ma quella del capo carismatico, significa che esiste un equilibrio statico (i cui fattori possono essere disparati, ma in cui prevale l’immaturità delle forze progressive) che nessun gruppo, né quello conservativo né quello progressivo, ha la forza necessaria alla vittoria e che anche il gruppo conservativo ha bisogno di un padrone (cfr Il 18 brumaio di Luigi Napoleone).”[6]
 
In un contesto storico-sociale, in cui due schieramenti, quello progressista e quello regressivo, in lotta fra loro non riescono ad aver ragione uno dell’altro, si apre la strada ad una soluzione autoritaria, il fascismo, che si affermerà eliminando, senza grosse difficoltà, quel poco di liberalismo costituzionale che lo Stato post-unitario aveva mantenuto nelle proprie istituzioni.
 
[1] Pietro Grifone, Il capitale finanziario in Italia. Ed. Einaudi 1971, pag.23
[2] A.Gramsci, Quaderni del carcere. Edizione critica a cura di V. Gerratana. Ed.Einaudi 1975 pagg.736-7
[3] A.Gramsci, Op.cit.,pagg.740-2
[4] A.Gramsci, Op.cit.,pag.320
[5] A.Gramsci, Op.cit.,pagg.2005-6
[6] A.Gramsci, Op.cit.,pagg.1603-4