Gramsci, Stalin e Trotzky

Adriano Guerra

www.sitocomunista.it

Gramsci non è certo stato troppo tiepido con Trotsky, considerato in sintesi come «il teorico politico dell'attacco frontale in un periodo in cui esso è solo causa di disfatte». E ancora «un cosmopolita superficialmente nazionale e superficialmente europeo», rispetto a Lenin considerato al contrario «profondamente nazionale e profondamente europeo». Qualche volta, quando nell'impossibilità di controllare una citazione era costretto a far ricorso alla memoria, con i rischi che ciò sempre comporta, le critiche di Gramsci a Trotsky possono apparire troppo dure e anche ingiustificate. Così ad esempio quando Trotsky viene rimproverato per aver accusato Labriola di «dilettantismo» (mentre in realtà altro era stato il discorso del leader sovietico).
Tuttavia Trotsky non è stato mai considerato da Gramsci un nemico da stroncare. Non nel 1926 quando chiese - invano, come si sa - a Togliatti di intervenire per impedire che la maggioranza del gruppo dirigente russo raccolta attorno a Stalin non si limitasse a vincere il confronto con la minoranza ma puntasse a stravincere. E non negli anni del carcere e del confino quando nei Quademi prese, e più volte, posizione contro le tesi di Trotsky, quelle - in primo luogo - della «rivoluzione permanente» o del rapporto fra "americanismo" e "modo di vivere" - ricordando però che alla base delle "azioni pratiche sbagliate", e sbagliate perché destinate a «sfociare in una forma di bonapartismo» - c'erano sempre però «preoccupazioni giuste».
Parlando della liquidazione politica di Trotsky, espulso dall'Urss nel 1929, Gramsci si è chiesto poi nel 1935 se non ci si trovasse di fronte al tentativo di eliminare quel «parlamento nero» che sussiste sempre dopo l'abolizione del «parlamento legale». Sullo sfondo - par di capire - c'era sempre la questione del prezzo che l'Unione Sovietica, e non solo essa, aveva pagato nel momento in cui con la cacciata della minoranza era stata posta fine nel partito russo alla dialettica destra-sinistra.
Nei Quaderni del carcere, dai quali abbiamo tratto le citazioni sopra riportate, il nome Trotsky non compare mai. Si parla di lui come di Bronstein e più spesso di Leo Davidovich, di Leone Davidoci e ancora di Davidovi. Allo stesso modo, e per la stessa ragione, il nome di Lenin (Vladimir lliç Uljanov) è stato italianizzato in Ilici e anche in Vilici e quello di Stalin (Josip Vissarionoviç Dzugashvili) in un insospettabile Giuseppe Bessarione: il tutto per rendere un poco più difficile il lavoro dei censori fascisti che imbattendosi sul nome di Trotsky avrebbero fatto un balzo sulla sedia, anche se un'opera importante, L'autobiografìa, di Leone Davidoviç, all'evidente scopo di far leva suIl'antistalinismo dell'autore presentato come antisovietismo, era stata pubblicata a Milano da Mondadori.
Quando però Grarnsci, inserendoli in una lista di libri da inoltrare per l'acquisto probabilmente a Piero Sraffa, tentò di entrare in possesso delle opere scritte da Trotsky dopo la cacciata di quest'ultimo dall'Urss (La revolution defìgurée e Vers le capitalisme ou vers le socialisme?, come si può leggere nella copertina del primo Quaderno) la censura fascista, al livello più alto perché sarà lo stesso Mussolini a cancellare i due titoli dall'elenco, compì l'opera avviata da quella di Stalin.
Non si può però dimenticare che quando Gramsci preparò l'elenco dei libri per Sraffa, Trotsky era un autore all'indice anche all'interno del PCI ("Le misure prese contro Trotsky e altri - si legge nella famosa e «famigerata» lettera inviata al prigioniero da Ruggero Grieco nel febbraio del 1928 - sono state, certo, dolorose, ma non era possibile fare diversamente"). La circostanza va segnalata perché fornisce la prova da una parte dell'indipendenza e dell'autonomia di giudizio di Gramsci e dall'altra della curiosità - curiosità politica, desiderio di sapere come stavano le cose rivolgendosi alle fonti dirette - con le quali il recluso guardava al conflitto che continuava fra gli eredi di Lenin, conflitto al quale Stalin avrebbe posto termine ordinando nel 1940 l'assassinio del rivale.
Nell'attenzione con la quale Gramsci guardava a Trotsky e alla sua battaglia c'era anche però un dato che forse è stato sin qui trascurato: il segno di un'antica ammirazione nei confronti non già e non tanto dell'uomo politico ma dell'intellettuale, quale era appunto Trotsky, cultore di storia, aperto ai problemi della vita culturale del suo paese, con interessi e curiosità che andavano al di là della politica in senso stretto e della Russia.
Se si esaminano gli scritti di Trotsky e di Gramsci si può constatare in non pochi punti l'esistenza di una reale affinità fra due comunisti pur tanto diversi per formazione e storia personale.
Si pensi al Trotsky di Letteratura e rivoluzione (tradotto da noi a suo tempo e presentato da Vittorio Strada per Einaudi), alle molte pagine dedicate da Trotsky alla polemica contro la cosiddetta «cultura proletaria», nonché a Belyi, Pilniak, Esenin, Blok. Si pensi alla polemica di Trotsky contro chi (F.T. Raskolnikov) scriveva che «La Divina commedia è preziosa perché permette di capire la psicologia di una classe determinata di un'epoca determinata». Naturalrnente - era la replica di Trotsky - anche Dante è il prodotto di un determinato ambiente sociale. «Ma Dante è un genio. E se noi consideriamo la Divina commedia come una fonte di percezione poetica ciò avviene non perché Dante è stato un piccolo-borghese fiorentino del XIII secolo, ma in notevole misura nonostante questa circostanza».

Questo era Trotsky. Un modo di guardare a Dante il suo - si dirà - di un altro secolo. Ma è anche perché queIla battaglia sulla questione dell'autonomia dell'arte, insieme a tante altre dei secoli precedenti e degli anni successivi, è stata combattuta, se oggi Sermonti e Benigni possono leggere Dante davanti a migliaia di persone che magari non credono all'esistenza del diavolo e dell'inferno ma guardano alla Commedia come ad una «fonte di percezione poetica».
In quanto a Gramsci, che fra l'altro aveva fondato a Torino nel 1921 un Istituto di cultura proletaria come sezione del Prolet' Kult sovietico, non è poi naturale che trovandosi a Mosca nel 1922 per la 2a Conferenza del Comintern, si incontrasse più di una volta con Trotsky? E non solo per parlare di problemi strettamente politici, come è dimostrato dal fatto che un certo giorno Trotsky gli chiese di scrivere una nota sul futurismo italiano da inserire in Letteratura e rivoluzione.
«Caro compagno - si legge nella lettera di Trotsky del 30 agosto 1922 - non potrebbe comunicarmi qual è il ruolo del Futurismo in Italia? Quale fu la posizione di Marinetti e della sua scuola durante la guerra? Quale è la loro posizione adesso? Si è conservato il gruppo di Marinetti? Qual è il suo (di Gramsci, n.d.r.) atteggiamento verso il futurismo? Quale l'atteggiamento di D'Annunzio...?» La risposta di Gramsci porta la data dell'8 settembre 1922. Essa venne pubblicata per la prima volta in italiano sul Mondo di Pannunzio nel marzo 1953 e poi sia nel volume già citato, curato da Strada, sia nell'undicesimo volume delle opere di Gramsci (Socialismo e fascismo. L'ordine nuovo 1921-1922, Eiriaudi, 1966).
Vorrei ancora dire a conclusione che soltanto pochi anni or sono rintracciare i testi qui ricordati sarebbe stata impresa non facile. Sarebbe occorsa la pazienza di uno studioso appassionato, e penso ad esempio a Nicola Siciliani de Cumis (si vedano le sue note su Trotsky, Gramsci e il futurismo nel Quaderno n. 1 di Slavia del gennaio 2001).
Oggi tutto è reso più semplice dallo straordinario lavoro compiuto dall'Istituto Gramsci che ha messo a disposizione degli
studiosi la Bibliografìa gramsciana on line, con una banca dati, ora di 16.000 titoli, costantemente aggiornata da John M. Cammet, Francesco Giasi e Maria Luisa Righi.

l'Unità, 12.04.07

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da http://www.trotsky.it/comunisti_italiani.html

Trotsky e i comunisti italiani

Serrati e Trotsky

    Il Partito Comunista d'Italia nacque a Livorno nel 1921 come sezione italiana dell'Internazionale Comunista.
    Il Pcd'I si formò attorno ai nomi di Bordiga e di Gramsci e attorno al programma politico della "dittatura del proletariato", con l'intento di congiungere le lotte dei lavoratori dell'epoca con una prospettiva di potere operaio e contadino. Questo partito sorse in contrapposizione alle due correnti maggioritarie del Partito socialista italiano: quella del riformismo, guidata da Turati, e quella del centrismo, guidata da Serrati.
    I rapporti tra PCd'I e l'Internazionale furono inizialmente segnati dai sospetti derivati dalla vecchia diatriba sull'astensionismo tra Lenin e Bordiga il quale, sebbene si fosse proclamato apertamente seguace del bolscevismo, aveva in passato mostrato esitazioni e diffidenze. Nel giugno del 1921 si svolse il Terzo Congresso dell'Internazionale Comunista in cui di fronte alla involuzione dei moti rivoluzionari europei si iniziò a rivalutare la questione dei tempi della rivolta in Occidente. Alla fine venne adottata la tattica del "fronte unico" con la socialdemocrazia, proposta da Trotsky.
    Terracini e i delegati italiani furono colti di sorpresa dalla relazione introduttiva di Radek e la delegazione convenne a dissentire sulla decisione, giudicando inaccettabile la proposta di alleanza che avrebbe vanificato i fondamenti politici e teorici che erano alla base del PCd'I. La svolta sarebbe apparsa un tacito rinnegamento della scissione di Livorno, che avrebbe giovato solo a Serrati e ai suoi seguaci. Lenin criticò duramente le posizioni espresse da Terracini. Durante Secondo Congresso del PCd'I del marzo 1922 Bordiga presentò con Terracini le tesi sulla tattica, dette "Tesi di Roma", con l'intento di dare una base teorica alla discussione stessa.
    Gramsci commentò la situazione: "A Roma abbiamo accettato le tesi di Amadeo perchè esse erano presentate come un'opinione per il Quarto Congresso e non come un indirizzo d'azione. Ritenevamo di mantenere così unito il partito attorno al suo nucleo fondamentale, pensavamo che si potesse fare ad Amadeo questa concessione, dato l'ufficio grandissimo che egli aveva avuto nell'organizzazione del partito: non ci pentiamo di ciò, politicamente sarebbe stato impossibile dirigere il partito senza l'attiva partecipazione al lavoro centrale di Amadeo e del suo gruppo. (...) Allora ci ritiravamo e si doveva fare in modo che la ritirata avvenisse ordinatamente, senza nuove crisi e nuove minacce di scissione nel seno del nostro movimento, senza aggiungere mai nuovi fermenti disgregatori a quelli che la disfatta determinava di per sè nel movimento rivoluzionario".
    Durante il Quarto Congresso del Comintern (novembre 1922) esplose la cosiddetta "questione italiana". Bordiga di fatto aveva accettato la politica del fronte unito imposta da Mosca, ma in pratica non era mai stata attuata. Il PCUS impose l'apertura di una trattativa con Serrati in vista di una risoluta fusione dei due partiti.
    Il partito italiano si schierò, con l'eccezione di Tasca, per una opposizione alla politica dell'Internazionale pochè era comune la convinzione che la Russia avesse una conoscenza distorta della situazione italiana. Terracini ricordò: "Anche noi di 'Ordine nuovo' stentavamo a credere che fosse possibile ricomporre l'unità della sinistra italiana con un'operazione di vertice, trascurando le differenze profonde, non solo tattiche, ma anche strategiche, che c'erano tra noi e i socialisti."
    Dopo una lunga trattativa i dirigenti sovietici riuscirono ad ottenere l'assenso dei delegati italiani. Bordiga si ritrovò in minoranza e chiese un congresso straordinario del partito. Il Pcus si convinse della necessità di un cambiamento nella direzione del PCd'I e spinse perchè Gramsci diventasse il nuovo capo del partito. Quest'ultimo, anche se convinto della inefficacia dell'intransigenza bordighiana, rifiutò l'incarico: "dissi che avrei fatto il possibile per aiutare l'Esecutivo dell'Internazionale a risolvere la questione italiana, ma non credevo che si potesse in nessun modo (tanto meno con la mia persona) sostituire Amadeo senza un preventivo lavoro di orientamento del Partito. Per sostituire Amadeo nella situazione italiana bisognava, inoltre, avere più di un elemento perchè Amadeo, effettivamente, come capacità generale di lavoro, vale almeno tre".
    Poco tempo dopo Bordiga venne arrestato dalla polizia fascista ed escluso dal nuovo Esecutivo. Per tutto il 1923 il PCd'I restò fedele alla linea bordighiana anche per le esitazioni di Gramsci ancora fiducioso nella possibilità di recuperare Bordiga alla politica dell'Internazionale. Alla fine del 1923 Bordiga riuscì a far uscire dal carcere un manifesto in cui imputò la crisi di direzione del partito non dovuta a contrasti interni, ma a divergenze tra il partito italiano e l'Internazionale Comunista.
    Queste incompatibilità erano state causate dall'abbandono delle linee tattiche, del programma e delle norme organizzative su cui l'Internazionale era nata. Le conclusioni perentorie di Bordiga furono che la sinistra italiana non poteva gestire una politica disapprovata e considerata potenzialmente pericolosa. Le scelte di Mosca sarebbero state accettate ma si rifiutava ogni funzione direttiva nella guida del partito. Terracini, Scoccimarro e lo stesso Togliatti si dissero disposti a firmare il manifesto ma Gramsci si dichiarò nettamente contrario sapendo che questa soluzione avrebbe causato l'estromissione dal Comintern.
    La necessità di adottare la linea politica dell'Internazionale costrinse Gramsci a rompere con le scelte di Bordiga e a porsi il problema della formazione di un nuovo gruppo dirigente: "Il suo stesso carattere inflessibile e tenace fino all'assurdo ci obbliga [...] a prospettarci il problema di costruire il partito e il centro di esso anche senza di lui e contro di lui. Penso che sulle questioni di principio non dobbiamo più fare compromessi come nel passato: vale meglio la polemica chiara, leale, fino in fondo, che giova al partito e lo prepara ad ogni evenienza". Gramsci scelse di non correre il rischio di vedere il Partito ridotto a una "minoranza internazionale" dalle prospettive incerte, con il pericolo di essere escluso dall'azione politica.
    L'aprirsi della crisi all'interno del partito comunista russo per la lotta di successione a Lenin nel 1924 segnò anche un momento de destabilizzazione nella direzione del partito italiano. Con Bordiga volontariamente ai margini, Gramsci andò schierandosi con il gruppo dirigente del Partito russo e dell'Internazionale rappresentato da Zinov'ev a Bucharin.
    Egli non seppe cogliere la portata storica della battaglia ingaggiata da Trotsky. Pur nutrendo rispetto per lui, Trotsky viene considerato ostile alla politica di apertura ai contadini, ed un potenziale oppositore delle riforme volute da Lenin giudicate da Gramsci l'unico metodo attuabile per il consolidamento del potere sovietico.
    Gramsci si convinse che gli attacchi di Trotsky costituissero una minaccia per la stabilità dell'Urss, di conseguenza anche il dissenso di Bordiga, accomunato a Trotsky, non potesse più essere tollerato. Egli dichiarò: "Quanto è accaduto recentemente in seno al PC russo deve avere per noi valore di esperienza. L'atteggiamento di Trotsky in un primo periodo può essere paragonato a quello attuale del compagno Bordiga. Trotsky, pur partecipando "disciplinatamente" ai lavori del Partito, aveva col suo atteggiamento di opposizione passiva - simile a quello di Bordiga - creato un senso di malessere in tutto il partito il quale non poteva non avere sentore di questa situazione. Ne è risultata una crisi che è durata parecchi mesi e che oggi soltanto può dirsi superata. Ciò dimostra che una opposizione - anche se mantenuta nei limiti di una disciplina formale - da parte di spiccate personalità del movimento operaio, può non solo impedire lo sviluppo della situazione rivoluzionaria ma può mettere in pericolo le stesse conquiste della Rivoluzione". Tuttavia Trotsky non venne mai considerato da Gramsci un nemico da stroncare.
    Gramsci definì Trotsky "il teorico politico dell'attacco frontale in un periodo in cui esso è solo causa di disfatte, e un cosmopolita superficialmente nazionale e superficialmente europeo», rispetto a Lenin considerato al contrario «profondamente nazionale e profondamente europeo.
    Il 6 febbraio 1925 il Comitato centrale approvò con molte difficoltà una mozione di condanna contro Trotsky e i bordighisti: "E' evidente che deve essere considerato come controrivoluzionario ogni atteggiamento che tenda a diffondere nel Partito una generica sfiducia negli organismi dirigenti della Internazionale e del Partito russo, sia travisando a questo scopo la questione Trotzky, sia ritornando sopra questioni definite dal V Congresso".
    Alcuni giorni dopo un rapporto di Togliatti mise al corrente la Segreteria del Comintern che all'interno del PCd'I persisteva una forte corrente filo-trotskista animata da Bordiga. Ad avvalorare questa accusa venne presentato un articolo dello stesso Bordiga su "La questione Trotsky", in cui era difeso fermamente il capo dell'Armata Rossa, e denunciati le ragioni e i metodi diffamatori della maggioranza del Pcus. Dal partito russo arrivò l'ordine di sollecitare l'allontanamento dell'opposizione di sinistra. Lo stesso Stalin, durante la quinta sessione dell'Esecutivo allargato dell'Internazionale Comunista, invitò il delegato italiano Scoccimarro a rompere gli indugi e ad schierarsi apertamente contro Trotsky.
    La lotta nel PCd'I contro Bordiga e la sinistra è ormai connessa con quella globale scatenata da Stalin per la liquidazione definitiva di Trotsky e della sinistra internazionale.
    Nel 1925-26 il partito venne lacerato dalle controversie fra Bordiga e Gramsci sia sulla organizzazione territoriale, sia sulla politica sindacale. Nel quinto Esecutivo allargato dell'Internazionale Comunista (marzo-aprile 1925) venne sostenuta senza esitazioni la piena identità tra bordighismo e trotskismo. Si era giunti ormai all'ingiuria: gli eretici trotskisti erano definiti piccolo borghesi, trasformisti, reazionari camuffati. Gli italiani furono invitati esplicitamente a scegliere "tra il leninismo e la tattica di Bordiga".
    Stalin aveva deciso di spegnere definitivamente ogni focolare di minoranza legata alla opposizione trotskista. Nel Congresso di Lione del PCd'I avvenne l'allontanamento politico di Bordiga, giudicato irrecuperabile alla causa del Comintern.
    La successiva alleanza di Zinov'ev e Kamenev con l'opposizione di Trotsky e il perdurare dei comportamenti violenti con cui Stalin condusse la sua battaglia, determinarono una assoluta incertezza all'interno del PCI.
    Nell'autunno del 1926 Gramsci inviò a nome dell'Ufficio Politico del partito italiano una lettera alla dirigenza sovietica in cui si chiedeva di "evitare le misure eccessive" contro l'opposizione e di considerare come in un partito comunista "l'unità e la disciplina... non possono essere meccaniche e coatte". Essendosi dichiarato dalla parte della maggioranza, Gramsci non esitò dal farsi portavoce delle apprensioni dei comunisti italiani per "l'acutezza della crisi... e le minacce di scissione aperta o latente che essa contiene".
    Il partito comunista italiano si mantenne nel segno dell'Internazionale comunista al punto che, quando nel 1926 iniziò la battaglia dello stalinismo contro l'opposizione di sinistra di Trotsky all'interno del Pcus, Gramsci ritenne giusto convocare d'urgenza l'ufficio politico del Pcd'I e fargli sottoscrivere una lettera aperta a Stalin e ai dirigenti sovietici che affermava: “Compagni, voi siete stati in questi nove anni di storia mondiale l’elemento organizzatore e propulsore delle forze rivoluzionarie di tutti i paesi; la funzione che voi avete svolto non ha precedenti in tutta la storia del genere umano che la uguagli in ampiezza e profondità. Ma voi oggi state distruggendo l’opera vostra, voi degradate e correte il rischio di annullare la funzione dirigente che il P.C. dell’U.R.S.S. aveva conquistato per l’impulso di Lenin; ci pare che la passione violenta delle questioni russe vi faccia perdere di vista gli aspetti internazionali delle quistioni russe stesse, vi faccia dimenticare che i vostri doveri di militanti russi possono e debbono essere adempiuti solo nel quadro degli interessi del proletariato internazionale.”
    Gramsci affidò questa lettera a Togliatti con il compito di recapitarla a Mosca: purtroppo questo pronunciamento formale cadde nelle mani della persona sbagliata e non giunse mai a destinazione. Con una comunicazione dai toni sprezzanti Togliatti intimò a Gramsci di "tenere i nervi a posto" e di non intromettersi nel'operato dei dirigenti sovietici: "Vi è senza dubbio un rigore nella vita interna del PC dell'Unione. Ma vi deve essere. Se i partiti occidentali volessero intervenire presso il gruppo dirigente per far scomparire questo rigore, essi commetterebbero un errore assai grave. Realmente in questo caso potrebbe essere compromessa la dittatura del proletariato".
    La politica di Stalin doveva essere appoggiata senza insicurezze: "Quando si è d'accordo con la linea del CC, il miglior modo di contribuire a superare la crisi è di esprimere la propria adesione a questa linea senza porre nessuna limitazione". Nei Quaderni dal carcere Gramsci sottolineò ancora che alla base delle "azioni pratiche sbagliate di Trotsky", sbagliate perché destinate a "sfociare in una forma di bonapartismo", c'erano sempre però "preoccupazioni giuste". Gramsci interruppe i suoi rapporti con Togliatti, mentre mantenne con Bordiga un sentimento di grande rispetto fino alla fine della sua vita.
    Il 5 novembre 1926 il partito comunista d'Italia venne sciolto, insieme a tutte le altre formazioni democratiche, dal regime fascista. Bordiga e Gramsci furono arrestati e inviati al confino a Ustica. Nel 1926 Bordiga partecipò al Congresso segreto di Lione, dove la fazione di sinistra fu messa in minoranza dai centristi allineati a Mosca (Gramsci, Togliatti, Terracini) con vari espedienti, nonostante disponesse ancora della stragrande maggioranza dei voti congressuali. Il partito venne ricostituito clandestinamente all'estero; la sua guida di fatto passò a Togliatti, che rafforzò ulteriormente i rapporti con l'Unione Sovietica. Questi rapporti si ruppero bruscamente nel 1929 a causa della presa di posizione di Tasca, che dopo aver sostituito Togliatti a Mosca, si era schierato in favore del leader della destra sovietica Nikolai Bucharin, in quel momento contrappostosi a Stalin.
    Il 20 marzo 1930 l'ala stalinista espulse formalmente Bordiga e il suo gruppo dal partito comunista con l'accusa di trotskismo.
    La mozione, votata all'unanimità dal comitato centrale, richiedeva l'espulsione per: "avere Bordiga preso posizioni politiche le quali non sono conciliabili con la permanenza nell'IC, per precisa decisione del IX Plenum dell'IC e del VI Congresso mondiale; b) aver condotto un lavoro di frazione e di disgregazione del Partito; c) aver tenuto alla fine del suo periodo di deportazione un atteggiamento non conciliabile con la permanenza nel Partito".

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da http://www.trotsky.it/lezioni_ottobre.html

Nel maggio 1924, a quattro mesi dalla morte di Lenin, in una riunione del Comitato centrale del Pcus si assistette alla lettura della ultime volontà del leader bolscevico contenute nella celebre Lettera al congresso (meglio nota come Testamento). Stalin ascoltò imperturbabile il documento che lo attaccava così duramente e personalmente.
Al termine della lettura Zinov'ev prese la parola e sostenne che, sebbene la parola di Lenin non dovesse essere messa in discussione, i timori per l'operato di Stalin erano destituiti di fondamento. Kamenev invitò i membri del comitato a riconfermare Stalin nella carica di segretario generale, confermando l'ottima collaborazione avuta dalla troika (Stalin, Zinov'ev, Kamenev) alla guida del partito. I due non si riprovereranno mai abbastanza quella scelta.
Trotsky, il principale antagonista del triumvirato, preferì tacere scegliendo di non prendere iniziative che potessero essere interpretate come una sua candidatura alla successione di Lenin. Stalin così uscì indenne dalla più grave crisi della sua carriera. Nei giorni seguenti Nadezda Krupskaia, la vedova di Lenin, protestò vivamente contro l'affronto fatto alla memoria del marito non avendo rispettato le sue ultime volontà. Da quel momento il testamento di Lenin scomparve, anche con la complicità di Trotsky, che solo molti anni dopo ammise il suo assenso all'occultamento.
Trotsky condusse la sua battaglia politica incentrandola sul problema della democrazia all'interno del partito, il quale doveva ammettere al suo interno varie correnti di pensiero compatibili col suo programma e sconfiggere i burocrati che lo soffocavano con un centralismo eccessivo. Stalin e il Politburo controbatterono che il partito monolitico era uno dei fondamenti del leninismo e se Trotsky lo disdegnava in quel modo era perchè, essendo stato menscevico, non aveva mai fatto propria quell'ideologia. La troika fece di tutto per dimostrare che egli non fosse un bolscevico esemplare, rievocando le antiche polemiche avute con Lenin.
L'accusa di "deviazionismo piccolo borghese dal leninismo", già scagliata il 16 gennaio 1924 nel corso di una conferenza, venne ratificata in maggio al 13° Congresso del partito. Trotsky si trovò di fronte a un bivio: se avesse accettato di fare l'autocritica richiesta dal triumvirato, incolpandosi pubblicamente dei suoi errori passati, avrebbe avallato l'ascesa al potere della troika stessa; se invece avesse respinto quel tentativo di codificazione del leninismo, si sarebbe ritrovato isolato all'opposizione. Al 13° congresso del partito Zinov'ev, ignorando i tentativi di conciliazione della Krupskaia e di Radek, puntò all'eliminazione di Trotsky pretendendo ufficialmente che egli sconfessasse il suo passato. Per la prima volta era stata lanciata l'accusa del "delitto di coscienza", un elemento che diventerà consueto negli anni dello stalinismo e di cui sarà vittima lo stesso Zinov'ev dodici anni dopo.
In un memorabile discorso Trotsky si difese non accettando di compiere alcuna autocritica. Egli affermò di non essere disposto a sacrificare le sue intime convinzioni: "Senza un partito, in mancanza di un partito, sopra la testa di un partito, o con un sostituto di un partito, la rivoluzione proletaria non può vincere[...] il partito in ultima analisi ha sempre ragione, poiché il partito è l'unico strumento storico connesso al prolertariato per la soluzione dei suoi problemi fondamentali. Ho già detto, di fronte al proprio partito nulla sarebbe più facile che poter dire: tutte le mie critiche, tutte le mie dichiarazioni, i miei avvertimenti, le mie proteste, tutto ciò è stato semplicemente un errore. Eppure, compagni, io non posso dirlo perchè non lo penso..."
Il triumvirato si era mostrato più che mai unito e consolidato dopo l’attacco sferrato contro le tesi politiche ed economiche dell’Opposizione, e si presentava ormai come il fedele continuatore del pensiero di Lenin.
Intrappolato nella mistica del partito, Trotsky diede alle stampe Le lezioni d'Ottobre, come prefazione al terzo volume delle sue opere in quel momento in corso di pubblicazione. Esse scatenarono l'inizio effettivo della prima campagna antitrotskista e, quindi, di fatto l'inizio dello stalinismo "teorico".
Questo scritto, all'apparenza un'analisi del modo in cui un partito potesse cogliere un'opportunità rivoluzionaria, era un evidente attacco ai presunti leninisti Zinov'ev e Kamenev, e come tale fu compreso. I due venivano accusati di aver fatto ostruzionismo all'azione dell'Ottobre 1917 e di essere stati definiti dallo stesso Lenin: crumiri della rivoluzione. Inoltre Zinov'ev veniva accusato, come presidente del Comintern, di essere responsabile del fallimento della rivoluzione in Germania. Con le Lezioni d'Ottobre la polemica tra Trotsky e i due rappresentanti della troika si complicò e degenerò a colpi di articoli e opuscoli.
Alla fine la polemica screditò tutti tranne Stalin che si avvantaggiò di questa diatriba divenendo popolare come colui che dedicava i suoi sforzi a grandi problemi del paese senza perdersi in chiacchiere. Quando Trotsky mise in discussione la legittimità della troika ad ambire alla successione del leader scomparso, vennero scatenate massicce controaccuse che diedero l'avvio ad un graduale processo di falsificazione della storia: il ruolo avuto da Trotsky nella rivoluzione fu ridimensionato e screditato con la pubblicazione sistematica sulla Pravda di articoli e citazioni false o fuori contesto, tese a dimostrare il suo ruolo fosse stato marginale e che alla testa dell'insurrezione vi fosse invece stato Stalin.
Nel gennaio 1925, Kamenev e Zinov'ev ottennero dal Politburo le dimissioni di Trotsky da Commissario alla guerra. Il fondatore e capo idolatrato dell'Armata rossa subì con quel affronto una sconfitta politica decisiva, che lo escluse per sempre dalla competizione per il potere. Trotsky accettò l'esclusione senza controbattere. E' probabile che se avesse opposto resistenza alla troika, avrebbe trovato il sostegno dei suoi soldati e dei quadri dirigenti miliari, ma egli scelse la fedeltà al motto "il partito ha sempre ragione" e, con il tipico atteggiamento di intellettuale, uscì di scena. Venne assegnato dallo stesso Stalin al Comitato delle concessioni per il commercio estero. Zinov'ev aveva chiesto anche la sua espulsione dal partito ma Stalin, che non aveva interesse che i suoi alleati stravincessero, si oppose.
Nel 1925, quando l’Opposizione di sinistra si accorse di aver perduto definitivamente la sua battaglia, non rinunciò, ai fini della lotta politica, a servirsi del Testamento di Lenin e il documento venne pubblicato sul New York Times per opera del giornalista comunista Max Eastman. Tornato negli Stati Uniti, costui scrisse un libro, Dopo la morte di Lenin, in cui accusava il Comitato centrale di aver celato il testamento. L’Ufficio politico chiese a Trotsky di prendere le distanze dalle insinuazioni di Eastman ed egli acconsentì.
Il 23 ottobre 1927, in un discorso a una seduta della sessione plenaria comune del Comitato centrale e della Commissione centrale di controllo del Partito bolscevico, Stalin raccontò la sua versione della storia: "Si dice che in questo "testamento" il compagno Lenin proponesse al Congresso che, data la "rudezza" di Stalin, si dovesse pensare a sostituirlo con un altro compagno nella carica di segretario generale. E’ assolutamente vero; sì, io sono rude, compagni, nei riguardi di coloro che in modo rude e perfido distruggono e scindono il partito... Alla prima seduta dell’assemblea plenaria del CC dopo il 13° Congresso ho chiesto all’assemblea plenaria del CC di esimermi dalla carica di segretario generale. Il congresso stesso ha discusso la questione. Ogni delegazione l’ha discussa, e tutte le delegazioni, all’unanimità, compresi Trotsky, Kamenev e Zinoviev, hanno imposto al compagno Stalin di restare al suo posto... Un anno dopo ho di nuovo chiesto all’assemblea plenaria di essere esonerato dalla carica, ma di nuovo mi è stato imposto di restare. Che cosa dunque potevo fare? Quanto alla pubblicazione del "testamento", il congresso ha deciso di non pubblicarlo, perché era indirizzato al congresso e non era destinato alla stampa".

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http://www.avantibarbari.it/news.php?sez_id=6&news_id=156

Paolo Casciola

ANCHE GRAMSCI SBAGLIAVA…

Una cosa delle cose che da sempre mi hanno profondamente colpito è la rivendicazione del pensiero gramsciano effettuata da varie correnti politiche “di sinistra”: dall’area liberalsociali­sta fino al maoismo più becero e agli epigoni di Trotsky passando, ovviamente, per le due scuole – quella socialdemocratica e quella stalinista/togliattiana – che hanno influenzato in modo decisivo la storia del movimento operaio e una parte considerevole della stessa storio­grafia sul movimento operaio. A ben vedere, però, l’opera di Gramsci, in questa o quella fase della sua elaborazione, ben si presta a tali operazioni di appropriazione che, comunque, sono tutt’altro che esenti da forzature più o meno evidenti.

La principale tra queste forzature è lo scollamento parziale o totale – ma sempre e comun­que selettivo, destinato cioè a servire, di volta in volta, questa o quella scuola di pensiero – che viene spesso messo in atto, dagli esponenti delle varie correnti cui ho accennato, tra l’elaborazione politica di Gramsci e il contesto storico-politico generale entro cui egli si muo­veva. Di questo contesto generale fanno parte, e hanno una valenza cruciale, i rapporti allora esistenti tra il movimento operaio italiano e quello russo dopo la vittoria della rivoluzione d’Ottobre e, soprattutto, in seguito alla creazione dell’Internazionale Comunista, il Komin­tern. A mio avviso, spesso e volentieri questi rapporti non vengono tenuti nella giusta consi­derazione.

Eppure il Komintern  e il Partito bolscevico, nella loro versione leninista, giocarono un ruolo decisivo sia nel periodo della gestazione che in quello della successiva creazione del Partito Comunista d’Italia al congresso di Livorno del gennaio 1921. E anche negli anni che seguirono, la reazione termidoriana nell’Unione Sovietica e il successivo consolidamento de­finitivo del regime staliniano nel 1928-29 ebbero un peso notevole sulla vita interna e sulle scelte politiche del PCd’I, tanto sotto la direzione del suo primo capo Amadeo Bordiga quanto nella lotta interna che, culminando al congresso di Lione del gennaio 1926, portò alla vittoria definitiva della frazione minoritaria gramsciana, alleatasi all’ala destra del partito guidata da Angelo Tasca e ai cosiddetti “terzini”, contro la sinistra bordighiana.

E proprio quella battaglia frazionistica interna, avviata da Gramsci nel corso del 1923, è sostanzialmente rimasta ai margini della ricerca storiografica, tanto che ancora oggi non di­sponiamo di una raccolta completa e organica degli scritti gramsciani relativi al periodo che va dal 1923-24 fino all’arresto del novembre 1926. Per portare a termine una ricostruzione storico-politica esaustiva della storia del PCd’I e della biografia politica di Gramsci relative a quegli anni occorrerebbe, tra l’altro, un lavoro di scavo profondo soprattutto negli archivi della ex Unione Sovietica: lavoro che è stato intentato soltanto in anni recenti, ma limitata­mente all’anno 1926. È comunque chiaro che Gramsci non operò in una sorta di atmosfera protetta ma condusse invece quella lotta, a livello politico e organizzativo, in stretta sintonia con le tendenze che, in seno al regime sovietico, detenevano una posizione dominante.

Del resto Gramsci non poteva ignorare i termini dello scontro che, dopo la morte di Lenin, aveva contrapposto il “centro” burocratico rappresentato dalla trojka formata da Stalin, Zi­nov’ev e Kamenev all’Opposizione di Sinistra guidata da Trotsky. E riesce francamente diffi­cile supporre che un dirigente politico del calibro di Gramsci non fosse consapevole della po­sta in gioco in quello scontro e dei veri e propri mutamenti genetici che una vittoria della bu­rocrazia montante avrebbe comportato a tutti i livelli del regime sovietico. Come non pensare, allora, che la sua posizione fosse frutto di una scelta deliberata di sostenere le tendenze vin­centi in seno al Partito bolscevico, cioè la trojka e successivamente, dopo la crisi e la rottura definitiva della trojka stessa nel dicembre 1925, il blocco del “centro” staliniano con l’ala de­stra capeggiata da Bucharin?

Sta di fatto che, fino alla “svolta” ultrasinistra del Komintern staliniano attuata nel 1928-29 (culminata, per quanto riguarda il PCd’I, nel 1930 con l’espulsione di Tresso, Leonetti e Ra­vazzoli), Gramsci cercò sempre di attenersi alla “linea generale” dettata dalla dirigenza sovie­tica, con buona pace dei sostenitori di una presunta affinità di vedute tra un Gramsci e un Trotsky fraudolentemente accomunati nella lotta contro lo stalinismo. In realtà Gramsci non capì affatto la natura con­trorivoluzionaria del fenomeno staliniano nascente e le conseguenze negative che esso com­portava per il movimento comunista mondiale. Anche nell’arcifamosa lettera al Comitato Centrale del partito russo dell’ottobre 1926, da molti addotta a prova di un suo presunto anti­stalinismo, egli dichiara invece di ritenere “fondamentalmente giusta la linea politica della maggioranza”, cioè del nuovo blocco costituito da Stalin con la destra buchari­niana. E persino nelle riflessioni più mature affidate ai suoi Quaderni del carcere, Gramsci non risparmiò gli attacchi contro Trotsky, che di Stalin era il principale antagonista politico.

Il problema non è di poco conto, dal momento che il processo di burocratizzazione del Partito bolscevico e degli altri partiti comunisti culminò qualche anno dopo con la vittoria de­finitiva dello stalinismo, e questa vittoria fu poi decisiva per le sorti ulteriori del movimento operaio e per le sconfitte della rivoluzione in paesi come la Cina, la Germania, la Francia e la Spagna. Mi permetto di ricordare, di passata, che Stalin non solo ruppe con il marxismo su tutta una serie di punti programmatici cruciali, in primo luogo avanzando (nel dicembre 1924!) la sua teoria nazionalista che postulava la possibilità di costruire il socialismo in un paese solo, ma introdusse anche in seno al movimento operaio la pratica della liquidazione fi­sica sistematica dei militanti di partito che esprimevano posizioni critiche rispetto all’operato della direzione.

Per questo motivo, a chi pone un accento buonista su presunte matrici democratiche e/o li­bertarie di Gramsci, mi permetto di ricordare che Gramsci agì invece da cinghia di trasmis­sione dei diktat imposti al PCd’I da Mosca a partire dalla sua approvazione della decisione del III Esecutivo Allargato del Komintern (giugno 1923) di sostituire d’autorità la direzione di si­nistra del PCd’I incarcerata in febbraio, nominando un nuovo Comitato Esecutivo composto essenzialmente da avversari politici di Bordiga. La liquidazione politica di quest’ultimo, che sarebbe culminata con la sua espulsione nel marzo 1930, si sviluppò di pari passo con la lotta orchestrata da Stalin e compagnia contro Trotsky in Unione Sovietica.

E dopo la battuta d’arresto segnata dalla conferenza di Como del maggio 1924 – allorché apparve chiaro che la tendenza “di centro” gramsciana era meno numerosa non soltanto della maggioranza bordighiana, ma anche della stessa ala destra del partito – Gramsci intensificò la sua lotta tendente alla formazione di un nuovo gruppo dirigente con l’appoggio del V Con­gresso Mondiale del Komintern (giugno-luglio 1924), che decise di escludere la sinistra ita­liana, le cui posizioni continuavano ad essere maggioritarie nel corpo del partito, da qualsiasi posizione dirigente.

Come ho già accennato, le vicende interne del PCd’I sono strettamente intrecciate a quelle del partito russo, e molte sono i parallelismi che li legano. Tanto per fare un esempio, analo­gamente a quanto avvenuto in Unione Sovietica con la “leva Lenin” proclamata dalla trojka dopo la morte di Lenin – che tra il febbraio e il maggio 1924 aprì le porte del Partito bolscevi­co a circa 240mila nuovi membri senza i normali procedimenti di selezione politica, e che ebbe l’effetto di diluire il nucleo proletario rivoluzionario del partito in una massa popolare indiscriminata e spesso non adeguatamente politicizzata (comprendente un gran numero di impiegati e di carrieristi), ma fedele all’apparato di cui Stalin rappresentava il vertice –, nei primi mesi del 1924 anche il PCd’I operò una manovra dello stesso tipo triplicando il numero dei suoi effettivi, con risultati del tutto simili.

Il V Congresso del Komintern si svolse all’insegna della parola d’ordine della “bolsceviz­zazione”. Varata sotto il segno della lotta contro il trotskismo, la “bolscevizzazione”, di cui Zinov’ev fu all’epoca il principale assertore, puntava innanzitutto a mettere i vari partiti co­munisti nazionali al passo rispetto al partito russo. Sul piano organizzativo, ad essi veniva ri­chiesta una maggiore aderenza al modello ultracentralista-burocratico  emerso in Unione So­vietica a partire dall’autunno 1923 con l’avvio della lotta contro Trotsky; e a livello politico si esigeva una maggiore rispondenza agli zig-zag della frazione dominante in seno all’apparato del Partito bolscevico e del Komintern. La tendenza gramsciana si fece promotrice della “bol­scevizzazione” del PCd’I, coniugando l’opportunismo sul piano della politica (partecipazione all’Aventino, teorizzazione di un antiparlamento che restaurasse la democrazia borghese, ecc.) alle manovre organizzative miranti ad emarginare e sconfiggere politicamente la sinistra del partito. Agli anni 1924-25 risalgono anche i tentativi gramsciani di “recuperare” Bordiga staccandolo dai compagni che gli erano più vicini e dall’ampia base d’appoggio di cui egli godeva in seno al PCd’I.

Quando poi, nell’aprile 1925, una serie di esponenti di primo piano della sinistra bordi­ghiana formò il Comitato d’Intesa per meglio prepararsi allo scontro politico in vista del con­gresso di Lione, l’essenza organizzativa della “bolscevizzazione” messa in campo dalla ten­denza gramsciana si manifestò con la stigmatizzazione del frazionismo e con le minacce, poi messe in pratica, di adottare provvedimenti disciplinari contro coloro che osavano mettere in questione il carattere monolitico del partito. Tutto ciò equivaleva di fatto alla proibizione della libera discussione in seno al partito (in una fase precongressuale, per giunta) e, più in genera­le, ad una sospensione a tempo indeterminato della sua democrazia interna.

Nel giugno 1925 Gramsci aprì personalmente il fuoco contro gli oppositori sulle pagine de l’Unità, in cui si possono leggere perle di questo tipo: “l’iniziativa del Comitato d’Intesa porta in sé il germe della scissione del partito”; “è un atto delittuoso che merita le più gravi sanzioni e il biasimo più severo”; “i germi di infezione frazionistica (…) saranno inesorabilmente schiacciati ed eliminati”. Così, mentre il modello leninista del partito rivoluzionario prevede­va il diritto di costituire al suo interno delle frazioni allo scopo di sostenere posizioni diverse da quelle della maggioranza, nel partito “bolscevizzato” patrocinato da Gramsci anche il solo “porre il problema della organizzazione di una frazione significa porre un problema di scis­sione”. E, come ha evidenziato Paolo Spriano, per meglio combattere i presunti scissionisti, la tendenza gramsciana ordinò ai segretari interregionali di svolgere un’opera di vera e propria “polizia di partito”: gli oppositori dovevano essere “accuratamente perquisiti sulla persona e nell’abitazione” alla ricerca di “materiale frazionistico”.

La “bolscevizzazione” del PCd’I avviata da Gramsci fu – analogamente a quanto accadde nei partiti comunisti degli altri paesi – la prima tappa di un processo che avrebbe portato alla sua definitiva stalinizzazione. Il fatto che, per quanto riguarda il partito italiano, tale processo si sia concluso nel 1929-30, sotto la leadership di Togliatti e con Gramsci in carcere, nulla to­glie alla parte di responsabilità politica di quest’ultimo.

Vorrei anche accennare al fatto che negli anni della prigionia Gramsci si dissociò dalla “svolta” del 1929-30 e dai suoi risvolti organizzativi. Ma lo fece da posizioni di destra, conte­stando la sterzata ultrasinistra e avventurista intrapresa dal Komintern stalinizzato a partire dal IX Plenum del febbraio 1928. Tant’è vero che nei mesi seguenti, diversamente dalle prese di posizioni ottimistiche di Togliatti e compagnia circa imminenti sviluppi rivoluzionari della situazione in Italia, egli prospettò invece per il partito, nell’ipotesi di un crollo del regime fa­scista, non la necessità di orientare la propria attività verso la conquista del potere, bensì quella di fungere, sulla base della parola d’ordine dell’Assemblea Costituente, da catalizzatore e da avanguardia delle “forze sane” del paese, in un vasto fronte comprendente tutti i partiti (proletari, piccolo-borghesi e borghesi) che avevano lottato contro il fascismo.

La sua opposizione di destra allo stalinismo fu del resto temporanea, e durò fin tanto che il PCd’I, sempre piegandosi ai contorsionismi politici del Cremlino, non effettuò la “contro­svolta” del 1934-35 con l’adozione della politica collaborazionista di classe dei Fronti Popola­ri, che legava il proletariato al carrozzone dei settori “antifascisti” e “progressisti” della pro­pria borghesia, e che ebbe i suoi effetti più nefasti nel contesto della guerra civile spagnola. Quel cambiamento radicale di orientamento – di cui Gramsci era stato per certi versi un pre­cursore, e di cui non poté poi constatare gli esiti negativi – determinò una sorta di ricucitura politica tra lo stesso Gramsci e il gruppo dirigente del PCd’I.

Secondo le testimonianze di cui disponiamo, infatti, Gramsci avrebbe appoggiato la politi­ca dei Fronti Popolari, identificando un eventuale Fronte Popolare in Italia con l’Assemblea Costituente. Probabilmente egli non seppe mai che, all’interno del PCd’I, quella politica aveva assunto a partire dall’autunno 1935 la forma di reiterati appelli alla “base sana” del fa­scismo, raggiungendo il suo apice con il famigerato Appello ai fratelli in camicia nera dell’agosto 1936, che proclamava: “Fascisti della vecchia guardia! Giovani fascisti! I comuni­sti fanno proprio il programma fascista del 1919 che è un programma di pace e di libertà!”…

Quando Gramsci morì nell’aprile 1937, vittima della reazione fascista, Pietro Tresso – che era stato uno dei membri dell’Ufficio Politico del PCd’I ad essere colpiti dalle espulsioni del 1930 e uno dei fondatori del trotskismo italiano, e che sarebbe poi stato assassinato dalla “Mafia staliniana” (così egli amava definirla) in un campo partigiano francese nell’ottobre 1943  – scrisse un lungo necrologio in cui affermava, tra l’altro, che “Gramsci, malgrado le sue eminenti qualità, si è sbagliato anche lui, e su dei problemi importanti”. Questo mio inter­vento si pone precisamente l’obiettivo di contribuire all’individuazione e alla delucidazione di alcuni tra questi gravi errori di Gramsci.

Firenze, 1° ottobre 2008