www.sitocomunista.it
Gramsci non è certo stato troppo tiepido con Trotsky,
considerato in sintesi come «il teorico politico dell'attacco
frontale in un periodo in cui esso è solo causa di
disfatte». E ancora «un cosmopolita superficialmente
nazionale e superficialmente europeo», rispetto a Lenin
considerato al contrario «profondamente nazionale e
profondamente europeo». Qualche volta, quando
nell'impossibilità di controllare una citazione era costretto
a far ricorso alla memoria, con i rischi che ciò sempre
comporta, le critiche di Gramsci a Trotsky possono apparire troppo
dure e anche ingiustificate. Così ad esempio quando Trotsky
viene rimproverato per aver accusato Labriola di
«dilettantismo» (mentre in realtà altro era stato
il discorso del leader sovietico).
Tuttavia Trotsky non è stato mai considerato da Gramsci un
nemico da stroncare. Non nel 1926 quando chiese - invano, come si sa
- a Togliatti di intervenire per impedire che la maggioranza del
gruppo dirigente russo raccolta attorno a Stalin non si limitasse a
vincere il confronto con la minoranza ma puntasse a stravincere. E
non negli anni del carcere e del confino quando nei Quademi prese, e
più volte, posizione contro le tesi di Trotsky, quelle - in
primo luogo - della «rivoluzione permanente» o del
rapporto fra "americanismo" e "modo di vivere" - ricordando
però che alla base delle "azioni pratiche sbagliate", e
sbagliate perché destinate a «sfociare in una forma di
bonapartismo» - c'erano sempre però
«preoccupazioni giuste».
Parlando della liquidazione politica di Trotsky, espulso dall'Urss
nel 1929, Gramsci si è chiesto poi nel 1935 se non ci si
trovasse di fronte al tentativo di eliminare quel «parlamento
nero» che sussiste sempre dopo l'abolizione del
«parlamento legale». Sullo sfondo - par di capire -
c'era sempre la questione del prezzo che l'Unione Sovietica, e non
solo essa, aveva pagato nel momento in cui con la cacciata della
minoranza era stata posta fine nel partito russo alla dialettica
destra-sinistra.
Nei Quaderni del carcere, dai quali abbiamo tratto le citazioni
sopra riportate, il nome Trotsky non compare mai. Si parla di lui
come di Bronstein e più spesso di Leo Davidovich, di Leone
Davidoci e ancora di Davidovi. Allo stesso modo, e per la stessa
ragione, il nome di Lenin (Vladimir lliç Uljanov) è
stato italianizzato in Ilici e anche in Vilici e quello di Stalin
(Josip Vissarionoviç Dzugashvili) in un insospettabile
Giuseppe Bessarione: il tutto per rendere un poco più
difficile il lavoro dei censori fascisti che imbattendosi sul nome
di Trotsky avrebbero fatto un balzo sulla sedia, anche se un'opera
importante, L'autobiografìa, di Leone Davidoviç,
all'evidente scopo di far leva suIl'antistalinismo dell'autore
presentato come antisovietismo, era stata pubblicata a Milano da
Mondadori.
Quando però Grarnsci, inserendoli in una lista di libri da
inoltrare per l'acquisto probabilmente a Piero Sraffa, tentò
di entrare in possesso delle opere scritte da Trotsky dopo la
cacciata di quest'ultimo dall'Urss (La revolution
defìgurée e Vers le capitalisme ou vers le
socialisme?, come si può leggere nella copertina del primo
Quaderno) la censura fascista, al livello più alto
perché sarà lo stesso Mussolini a cancellare i due
titoli dall'elenco, compì l'opera avviata da quella di
Stalin.
Non si può però dimenticare che quando Gramsci
preparò l'elenco dei libri per Sraffa, Trotsky era un autore
all'indice anche all'interno del PCI ("Le misure prese contro
Trotsky e altri - si legge nella famosa e «famigerata»
lettera inviata al prigioniero da Ruggero Grieco nel febbraio del
1928 - sono state, certo, dolorose, ma non era possibile fare
diversamente"). La circostanza va segnalata perché fornisce
la prova da una parte dell'indipendenza e dell'autonomia di giudizio
di Gramsci e dall'altra della curiosità - curiosità
politica, desiderio di sapere come stavano le cose rivolgendosi alle
fonti dirette - con le quali il recluso guardava al conflitto che
continuava fra gli eredi di Lenin, conflitto al quale Stalin avrebbe
posto termine ordinando nel 1940 l'assassinio del rivale.
Nell'attenzione con la quale Gramsci guardava a Trotsky e alla sua
battaglia c'era anche però un dato che forse è stato
sin qui trascurato: il segno di un'antica ammirazione nei confronti
non già e non tanto dell'uomo politico ma dell'intellettuale,
quale era appunto Trotsky, cultore di storia, aperto ai problemi
della vita culturale del suo paese, con interessi e curiosità
che andavano al di là della politica in senso stretto e della
Russia.
Se si esaminano gli scritti di Trotsky e di Gramsci si può
constatare in non pochi punti l'esistenza di una reale
affinità fra due comunisti pur tanto diversi per formazione e
storia personale.
Si pensi al Trotsky di Letteratura e rivoluzione (tradotto da noi a
suo tempo e presentato da Vittorio Strada per Einaudi), alle molte
pagine dedicate da Trotsky alla polemica contro la cosiddetta
«cultura proletaria», nonché a Belyi, Pilniak,
Esenin, Blok. Si pensi alla polemica di Trotsky contro chi (F.T.
Raskolnikov) scriveva che «La Divina commedia è
preziosa perché permette di capire la psicologia di una
classe determinata di un'epoca determinata». Naturalrnente -
era la replica di Trotsky - anche Dante è il prodotto di un
determinato ambiente sociale. «Ma Dante è un genio. E
se noi consideriamo la Divina commedia come una fonte di percezione
poetica ciò avviene non perché Dante è stato un
piccolo-borghese fiorentino del XIII secolo, ma in notevole misura
nonostante questa circostanza».
Questo era Trotsky. Un modo di guardare a Dante il suo - si
dirà - di un altro secolo. Ma è anche perché
queIla battaglia sulla questione dell'autonomia dell'arte, insieme a
tante altre dei secoli precedenti e degli anni successivi, è
stata combattuta, se oggi Sermonti e Benigni possono leggere Dante
davanti a migliaia di persone che magari non credono all'esistenza
del diavolo e dell'inferno ma guardano alla Commedia come ad una
«fonte di percezione poetica».
In quanto a Gramsci, che fra l'altro aveva fondato a Torino nel 1921
un Istituto di cultura proletaria come sezione del Prolet' Kult
sovietico, non è poi naturale che trovandosi a Mosca nel 1922
per la 2a Conferenza del Comintern, si incontrasse più di una
volta con Trotsky? E non solo per parlare di problemi strettamente
politici, come è dimostrato dal fatto che un certo giorno
Trotsky gli chiese di scrivere una nota sul futurismo italiano da
inserire in Letteratura e rivoluzione.
«Caro compagno - si legge nella lettera di Trotsky del 30
agosto 1922 - non potrebbe comunicarmi qual è il ruolo del
Futurismo in Italia? Quale fu la posizione di Marinetti e della sua
scuola durante la guerra? Quale è la loro posizione adesso?
Si è conservato il gruppo di Marinetti? Qual è il suo
(di Gramsci, n.d.r.) atteggiamento verso il futurismo? Quale
l'atteggiamento di D'Annunzio...?» La risposta di Gramsci
porta la data dell'8 settembre 1922. Essa venne pubblicata per la
prima volta in italiano sul Mondo di Pannunzio nel marzo 1953 e poi
sia nel volume già citato, curato da Strada, sia
nell'undicesimo volume delle opere di Gramsci (Socialismo e
fascismo. L'ordine nuovo 1921-1922, Eiriaudi, 1966).
Vorrei ancora dire a conclusione che soltanto pochi anni or sono
rintracciare i testi qui ricordati sarebbe stata impresa non facile.
Sarebbe occorsa la pazienza di uno studioso appassionato, e penso ad
esempio a Nicola Siciliani de Cumis (si vedano le sue note su
Trotsky, Gramsci e il futurismo nel Quaderno n. 1 di Slavia del
gennaio 2001).
Oggi tutto è reso più semplice dallo straordinario
lavoro compiuto dall'Istituto Gramsci che ha messo a disposizione
degli
studiosi la Bibliografìa gramsciana on line, con una banca
dati, ora di 16.000 titoli, costantemente aggiornata da John M.
Cammet, Francesco Giasi e Maria Luisa Righi.
l'Unità, 12.04.07
***
da
http://www.trotsky.it/comunisti_italiani.html
Trotsky e i comunisti italiani
Serrati e Trotsky
Il Partito Comunista d'Italia nacque a Livorno
nel 1921 come sezione italiana dell'Internazionale Comunista.
Il Pcd'I si formò attorno ai nomi di
Bordiga e di Gramsci e attorno al programma politico della
"dittatura del proletariato", con l'intento di congiungere le lotte
dei lavoratori dell'epoca con una prospettiva di potere operaio e
contadino. Questo partito sorse in contrapposizione alle due
correnti maggioritarie del Partito socialista italiano: quella del
riformismo, guidata da Turati, e quella del centrismo, guidata da
Serrati.
I rapporti tra PCd'I e l'Internazionale furono
inizialmente segnati dai sospetti derivati dalla vecchia diatriba
sull'astensionismo tra Lenin e Bordiga il quale, sebbene si fosse
proclamato apertamente seguace del bolscevismo, aveva in passato
mostrato esitazioni e diffidenze. Nel giugno del 1921 si svolse il
Terzo Congresso dell'Internazionale Comunista in cui di fronte alla
involuzione dei moti rivoluzionari europei si iniziò a
rivalutare la questione dei tempi della rivolta in Occidente. Alla
fine venne adottata la tattica del "fronte unico" con la
socialdemocrazia, proposta da Trotsky.
Terracini e i delegati italiani furono colti di
sorpresa dalla relazione introduttiva di Radek e la delegazione
convenne a dissentire sulla decisione, giudicando inaccettabile la
proposta di alleanza che avrebbe vanificato i fondamenti politici e
teorici che erano alla base del PCd'I. La svolta sarebbe apparsa un
tacito rinnegamento della scissione di Livorno, che avrebbe giovato
solo a Serrati e ai suoi seguaci. Lenin criticò duramente le
posizioni espresse da Terracini. Durante Secondo Congresso del PCd'I
del marzo 1922 Bordiga presentò con Terracini le tesi sulla
tattica, dette "Tesi di Roma", con l'intento di dare una base
teorica alla discussione stessa.
Gramsci commentò la situazione: "A Roma
abbiamo accettato le tesi di Amadeo perchè esse erano
presentate come un'opinione per il Quarto Congresso e non come un
indirizzo d'azione. Ritenevamo di mantenere così unito il
partito attorno al suo nucleo fondamentale, pensavamo che si potesse
fare ad Amadeo questa concessione, dato l'ufficio grandissimo che
egli aveva avuto nell'organizzazione del partito: non ci pentiamo di
ciò, politicamente sarebbe stato impossibile dirigere il
partito senza l'attiva partecipazione al lavoro centrale di Amadeo e
del suo gruppo. (...) Allora ci ritiravamo e si doveva fare in modo
che la ritirata avvenisse ordinatamente, senza nuove crisi e nuove
minacce di scissione nel seno del nostro movimento, senza aggiungere
mai nuovi fermenti disgregatori a quelli che la disfatta determinava
di per sè nel movimento rivoluzionario".
Durante il Quarto Congresso del Comintern
(novembre 1922) esplose la cosiddetta "questione italiana". Bordiga
di fatto aveva accettato la politica del fronte unito imposta da
Mosca, ma in pratica non era mai stata attuata. Il PCUS impose
l'apertura di una trattativa con Serrati in vista di una risoluta
fusione dei due partiti.
Il partito italiano si schierò, con
l'eccezione di Tasca, per una opposizione alla politica
dell'Internazionale pochè era comune la convinzione che la
Russia avesse una conoscenza distorta della situazione italiana.
Terracini ricordò: "Anche noi di 'Ordine nuovo' stentavamo a
credere che fosse possibile ricomporre l'unità della sinistra
italiana con un'operazione di vertice, trascurando le differenze
profonde, non solo tattiche, ma anche strategiche, che c'erano tra
noi e i socialisti."
Dopo una lunga trattativa i dirigenti sovietici
riuscirono ad ottenere l'assenso dei delegati italiani. Bordiga si
ritrovò in minoranza e chiese un congresso straordinario del
partito. Il Pcus si convinse della necessità di un
cambiamento nella direzione del PCd'I e spinse perchè Gramsci
diventasse il nuovo capo del partito. Quest'ultimo, anche se
convinto della inefficacia dell'intransigenza bordighiana,
rifiutò l'incarico: "dissi che avrei fatto il possibile per
aiutare l'Esecutivo dell'Internazionale a risolvere la questione
italiana, ma non credevo che si potesse in nessun modo (tanto meno
con la mia persona) sostituire Amadeo senza un preventivo lavoro di
orientamento del Partito. Per sostituire Amadeo nella situazione
italiana bisognava, inoltre, avere più di un elemento
perchè Amadeo, effettivamente, come capacità generale
di lavoro, vale almeno tre".
Poco tempo dopo Bordiga venne arrestato dalla
polizia fascista ed escluso dal nuovo Esecutivo. Per tutto il 1923
il PCd'I restò fedele alla linea bordighiana anche per le
esitazioni di Gramsci ancora fiducioso nella possibilità di
recuperare Bordiga alla politica dell'Internazionale. Alla fine del
1923 Bordiga riuscì a far uscire dal carcere un manifesto in
cui imputò la crisi di direzione del partito non dovuta a
contrasti interni, ma a divergenze tra il partito italiano e
l'Internazionale Comunista.
Queste incompatibilità erano state causate
dall'abbandono delle linee tattiche, del programma e delle norme
organizzative su cui l'Internazionale era nata. Le conclusioni
perentorie di Bordiga furono che la sinistra italiana non poteva
gestire una politica disapprovata e considerata potenzialmente
pericolosa. Le scelte di Mosca sarebbero state accettate ma si
rifiutava ogni funzione direttiva nella guida del partito.
Terracini, Scoccimarro e lo stesso Togliatti si dissero disposti a
firmare il manifesto ma Gramsci si dichiarò nettamente
contrario sapendo che questa soluzione avrebbe causato
l'estromissione dal Comintern.
La necessità di adottare la linea politica
dell'Internazionale costrinse Gramsci a rompere con le scelte di
Bordiga e a porsi il problema della formazione di un nuovo gruppo
dirigente: "Il suo stesso carattere inflessibile e tenace fino
all'assurdo ci obbliga [...] a prospettarci il problema di costruire
il partito e il centro di esso anche senza di lui e contro di lui.
Penso che sulle questioni di principio non dobbiamo più fare
compromessi come nel passato: vale meglio la polemica chiara, leale,
fino in fondo, che giova al partito e lo prepara ad ogni evenienza".
Gramsci scelse di non correre il rischio di vedere il Partito
ridotto a una "minoranza internazionale" dalle prospettive incerte,
con il pericolo di essere escluso dall'azione politica.
L'aprirsi della crisi all'interno del partito
comunista russo per la lotta di successione a Lenin nel 1924
segnò anche un momento de destabilizzazione nella direzione
del partito italiano. Con Bordiga volontariamente ai margini,
Gramsci andò schierandosi con il gruppo dirigente del Partito
russo e dell'Internazionale rappresentato da Zinov'ev a Bucharin.
Egli non seppe cogliere la portata storica della
battaglia ingaggiata da Trotsky. Pur nutrendo rispetto per lui,
Trotsky viene considerato ostile alla politica di apertura ai
contadini, ed un potenziale oppositore delle riforme volute da Lenin
giudicate da Gramsci l'unico metodo attuabile per il consolidamento
del potere sovietico.
Gramsci si convinse che gli attacchi di Trotsky
costituissero una minaccia per la stabilità dell'Urss, di
conseguenza anche il dissenso di Bordiga, accomunato a Trotsky, non
potesse più essere tollerato. Egli dichiarò: "Quanto
è accaduto recentemente in seno al PC russo deve avere per
noi valore di esperienza. L'atteggiamento di Trotsky in un primo
periodo può essere paragonato a quello attuale del compagno
Bordiga. Trotsky, pur partecipando "disciplinatamente" ai lavori del
Partito, aveva col suo atteggiamento di opposizione passiva - simile
a quello di Bordiga - creato un senso di malessere in tutto il
partito il quale non poteva non avere sentore di questa situazione.
Ne è risultata una crisi che è durata parecchi mesi e
che oggi soltanto può dirsi superata. Ciò dimostra che
una opposizione - anche se mantenuta nei limiti di una disciplina
formale - da parte di spiccate personalità del movimento
operaio, può non solo impedire lo sviluppo della situazione
rivoluzionaria ma può mettere in pericolo le stesse conquiste
della Rivoluzione". Tuttavia Trotsky non venne mai considerato da
Gramsci un nemico da stroncare.
Gramsci definì Trotsky "il teorico
politico dell'attacco frontale in un periodo in cui esso è
solo causa di disfatte, e un cosmopolita superficialmente nazionale
e superficialmente europeo», rispetto a Lenin considerato al
contrario «profondamente nazionale e profondamente europeo.
Il 6 febbraio 1925 il Comitato centrale
approvò con molte difficoltà una mozione di condanna
contro Trotsky e i bordighisti: "E' evidente che deve essere
considerato come controrivoluzionario ogni atteggiamento che tenda a
diffondere nel Partito una generica sfiducia negli organismi
dirigenti della Internazionale e del Partito russo, sia travisando a
questo scopo la questione Trotzky, sia ritornando sopra questioni
definite dal V Congresso".
Alcuni giorni dopo un rapporto di Togliatti mise
al corrente la Segreteria del Comintern che all'interno del PCd'I
persisteva una forte corrente filo-trotskista animata da Bordiga. Ad
avvalorare questa accusa venne presentato un articolo dello stesso
Bordiga su "La questione Trotsky", in cui era difeso fermamente il
capo dell'Armata Rossa, e denunciati le ragioni e i metodi
diffamatori della maggioranza del Pcus. Dal partito russo
arrivò l'ordine di sollecitare l'allontanamento
dell'opposizione di sinistra. Lo stesso Stalin, durante la quinta
sessione dell'Esecutivo allargato dell'Internazionale Comunista,
invitò il delegato italiano Scoccimarro a rompere gli indugi
e ad schierarsi apertamente contro Trotsky.
La lotta nel PCd'I contro Bordiga e la sinistra
è ormai connessa con quella globale scatenata da Stalin per
la liquidazione definitiva di Trotsky e della sinistra
internazionale.
Nel 1925-26 il partito venne lacerato dalle
controversie fra Bordiga e Gramsci sia sulla organizzazione
territoriale, sia sulla politica sindacale. Nel quinto Esecutivo
allargato dell'Internazionale Comunista (marzo-aprile 1925) venne
sostenuta senza esitazioni la piena identità tra bordighismo
e trotskismo. Si era giunti ormai all'ingiuria: gli eretici
trotskisti erano definiti piccolo borghesi, trasformisti, reazionari
camuffati. Gli italiani furono invitati esplicitamente a scegliere
"tra il leninismo e la tattica di Bordiga".
Stalin aveva deciso di spegnere definitivamente
ogni focolare di minoranza legata alla opposizione trotskista. Nel
Congresso di Lione del PCd'I avvenne l'allontanamento politico di
Bordiga, giudicato irrecuperabile alla causa del Comintern.
La successiva alleanza di Zinov'ev e Kamenev con
l'opposizione di Trotsky e il perdurare dei comportamenti violenti
con cui Stalin condusse la sua battaglia, determinarono una assoluta
incertezza all'interno del PCI.
Nell'autunno del 1926 Gramsci inviò a nome
dell'Ufficio Politico del partito italiano una lettera alla
dirigenza sovietica in cui si chiedeva di "evitare le misure
eccessive" contro l'opposizione e di considerare come in un partito
comunista "l'unità e la disciplina... non possono essere
meccaniche e coatte". Essendosi dichiarato dalla parte della
maggioranza, Gramsci non esitò dal farsi portavoce delle
apprensioni dei comunisti italiani per "l'acutezza della crisi... e
le minacce di scissione aperta o latente che essa contiene".
Il partito comunista italiano si mantenne nel
segno dell'Internazionale comunista al punto che, quando nel 1926
iniziò la battaglia dello stalinismo contro l'opposizione di
sinistra di Trotsky all'interno del Pcus, Gramsci ritenne giusto
convocare d'urgenza l'ufficio politico del Pcd'I e fargli
sottoscrivere una lettera aperta a Stalin e ai dirigenti sovietici
che affermava: “Compagni, voi siete stati in questi nove anni di
storia mondiale l’elemento organizzatore e propulsore delle forze
rivoluzionarie di tutti i paesi; la funzione che voi avete svolto
non ha precedenti in tutta la storia del genere umano che la uguagli
in ampiezza e profondità. Ma voi oggi state distruggendo
l’opera vostra, voi degradate e correte il rischio di annullare la
funzione dirigente che il P.C. dell’U.R.S.S. aveva conquistato per
l’impulso di Lenin; ci pare che la passione violenta delle questioni
russe vi faccia perdere di vista gli aspetti internazionali delle
quistioni russe stesse, vi faccia dimenticare che i vostri doveri di
militanti russi possono e debbono essere adempiuti solo nel quadro
degli interessi del proletariato internazionale.”
Gramsci affidò questa lettera a Togliatti
con il compito di recapitarla a Mosca: purtroppo questo
pronunciamento formale cadde nelle mani della persona sbagliata e
non giunse mai a destinazione. Con una comunicazione dai toni
sprezzanti Togliatti intimò a Gramsci di "tenere i nervi a
posto" e di non intromettersi nel'operato dei dirigenti sovietici:
"Vi è senza dubbio un rigore nella vita interna del PC
dell'Unione. Ma vi deve essere. Se i partiti occidentali volessero
intervenire presso il gruppo dirigente per far scomparire questo
rigore, essi commetterebbero un errore assai grave. Realmente in
questo caso potrebbe essere compromessa la dittatura del
proletariato".
La politica di Stalin doveva essere appoggiata
senza insicurezze: "Quando si è d'accordo con la linea del
CC, il miglior modo di contribuire a superare la crisi è di
esprimere la propria adesione a questa linea senza porre nessuna
limitazione". Nei Quaderni dal carcere Gramsci sottolineò
ancora che alla base delle "azioni pratiche sbagliate di Trotsky",
sbagliate perché destinate a "sfociare in una forma di
bonapartismo", c'erano sempre però "preoccupazioni giuste".
Gramsci interruppe i suoi rapporti con Togliatti, mentre mantenne
con Bordiga un sentimento di grande rispetto fino alla fine della
sua vita.
Il 5 novembre 1926 il partito comunista d'Italia
venne sciolto, insieme a tutte le altre formazioni democratiche, dal
regime fascista. Bordiga e Gramsci furono arrestati e inviati al
confino a Ustica. Nel 1926 Bordiga partecipò al Congresso
segreto di Lione, dove la fazione di sinistra fu messa in minoranza
dai centristi allineati a Mosca (Gramsci, Togliatti, Terracini) con
vari espedienti, nonostante disponesse ancora della stragrande
maggioranza dei voti congressuali. Il partito venne ricostituito
clandestinamente all'estero; la sua guida di fatto passò a
Togliatti, che rafforzò ulteriormente i rapporti con l'Unione
Sovietica. Questi rapporti si ruppero bruscamente nel 1929 a causa
della presa di posizione di Tasca, che dopo aver sostituito
Togliatti a Mosca, si era schierato in favore del leader della
destra sovietica Nikolai Bucharin, in quel momento contrappostosi a
Stalin.
Il 20 marzo 1930 l'ala stalinista espulse
formalmente Bordiga e il suo gruppo dal partito comunista con
l'accusa di trotskismo.
La mozione, votata all'unanimità dal
comitato centrale, richiedeva l'espulsione per: "avere Bordiga preso
posizioni politiche le quali non sono conciliabili con la permanenza
nell'IC, per precisa decisione del IX Plenum dell'IC e del VI
Congresso mondiale; b) aver condotto un lavoro di frazione e di
disgregazione del Partito; c) aver tenuto alla fine del suo periodo
di deportazione un atteggiamento non conciliabile con la permanenza
nel Partito".
*
da http://www.trotsky.it/lezioni_ottobre.html
Nel maggio 1924, a quattro mesi dalla morte di Lenin, in una
riunione del Comitato centrale del Pcus si assistette alla lettura
della ultime volontà del leader bolscevico contenute nella
celebre Lettera al congresso (meglio nota come Testamento). Stalin
ascoltò imperturbabile il documento che lo attaccava
così duramente e personalmente.
Al termine della lettura Zinov'ev prese la parola e sostenne che,
sebbene la parola di Lenin non dovesse essere messa in discussione,
i timori per l'operato di Stalin erano destituiti di fondamento.
Kamenev invitò i membri del comitato a riconfermare Stalin
nella carica di segretario generale, confermando l'ottima
collaborazione avuta dalla troika (Stalin, Zinov'ev, Kamenev) alla
guida del partito. I due non si riprovereranno mai abbastanza quella
scelta.
Trotsky, il principale antagonista del triumvirato, preferì
tacere scegliendo di non prendere iniziative che potessero essere
interpretate come una sua candidatura alla successione di Lenin.
Stalin così uscì indenne dalla più grave crisi
della sua carriera. Nei giorni seguenti Nadezda Krupskaia, la vedova
di Lenin, protestò vivamente contro l'affronto fatto alla
memoria del marito non avendo rispettato le sue ultime
volontà. Da quel momento il testamento di Lenin scomparve,
anche con la complicità di Trotsky, che solo molti anni dopo
ammise il suo assenso all'occultamento.
Trotsky condusse la sua battaglia politica incentrandola sul
problema della democrazia all'interno del partito, il quale doveva
ammettere al suo interno varie correnti di pensiero compatibili col
suo programma e sconfiggere i burocrati che lo soffocavano con un
centralismo eccessivo. Stalin e il Politburo controbatterono che il
partito monolitico era uno dei fondamenti del leninismo e se Trotsky
lo disdegnava in quel modo era perchè, essendo stato
menscevico, non aveva mai fatto propria quell'ideologia. La troika
fece di tutto per dimostrare che egli non fosse un bolscevico
esemplare, rievocando le antiche polemiche avute con Lenin.
L'accusa di "deviazionismo piccolo borghese dal leninismo",
già scagliata il 16 gennaio 1924 nel corso di una conferenza,
venne ratificata in maggio al 13° Congresso del partito. Trotsky
si trovò di fronte a un bivio: se avesse accettato di fare
l'autocritica richiesta dal triumvirato, incolpandosi pubblicamente
dei suoi errori passati, avrebbe avallato l'ascesa al potere della
troika stessa; se invece avesse respinto quel tentativo di
codificazione del leninismo, si sarebbe ritrovato isolato
all'opposizione. Al 13° congresso del partito Zinov'ev,
ignorando i tentativi di conciliazione della Krupskaia e di Radek,
puntò all'eliminazione di Trotsky pretendendo ufficialmente
che egli sconfessasse il suo passato. Per la prima volta era stata
lanciata l'accusa del "delitto di coscienza", un elemento che
diventerà consueto negli anni dello stalinismo e di cui
sarà vittima lo stesso Zinov'ev dodici anni dopo.
In un memorabile discorso Trotsky si difese non accettando di
compiere alcuna autocritica. Egli affermò di non essere
disposto a sacrificare le sue intime convinzioni: "Senza un partito,
in mancanza di un partito, sopra la testa di un partito, o con un
sostituto di un partito, la rivoluzione proletaria non può
vincere[...] il partito in ultima analisi ha sempre ragione,
poiché il partito è l'unico strumento storico connesso
al prolertariato per la soluzione dei suoi problemi fondamentali. Ho
già detto, di fronte al proprio partito nulla sarebbe
più facile che poter dire: tutte le mie critiche, tutte le
mie dichiarazioni, i miei avvertimenti, le mie proteste, tutto
ciò è stato semplicemente un errore. Eppure, compagni,
io non posso dirlo perchè non lo penso..."
Il triumvirato si era mostrato più che mai unito e
consolidato dopo l’attacco sferrato contro le tesi politiche ed
economiche dell’Opposizione, e si presentava ormai come il fedele
continuatore del pensiero di Lenin.
Intrappolato nella mistica del partito, Trotsky diede alle stampe Le
lezioni d'Ottobre, come prefazione al terzo volume delle sue opere
in quel momento in corso di pubblicazione. Esse scatenarono l'inizio
effettivo della prima campagna antitrotskista e, quindi, di fatto
l'inizio dello stalinismo "teorico".
Questo scritto, all'apparenza un'analisi del modo in cui un partito
potesse cogliere un'opportunità rivoluzionaria, era un
evidente attacco ai presunti leninisti Zinov'ev e Kamenev, e come
tale fu compreso. I due venivano accusati di aver fatto
ostruzionismo all'azione dell'Ottobre 1917 e di essere stati
definiti dallo stesso Lenin: crumiri della rivoluzione. Inoltre
Zinov'ev veniva accusato, come presidente del Comintern, di essere
responsabile del fallimento della rivoluzione in Germania. Con le
Lezioni d'Ottobre la polemica tra Trotsky e i due rappresentanti
della troika si complicò e degenerò a colpi di
articoli e opuscoli.
Alla fine la polemica screditò tutti tranne Stalin che si
avvantaggiò di questa diatriba divenendo popolare come colui
che dedicava i suoi sforzi a grandi problemi del paese senza
perdersi in chiacchiere. Quando Trotsky mise in discussione la
legittimità della troika ad ambire alla successione del
leader scomparso, vennero scatenate massicce controaccuse che
diedero l'avvio ad un graduale processo di falsificazione della
storia: il ruolo avuto da Trotsky nella rivoluzione fu
ridimensionato e screditato con la pubblicazione sistematica sulla
Pravda di articoli e citazioni false o fuori contesto, tese a
dimostrare il suo ruolo fosse stato marginale e che alla testa
dell'insurrezione vi fosse invece stato Stalin.
Nel gennaio 1925, Kamenev e Zinov'ev ottennero dal Politburo le
dimissioni di Trotsky da Commissario alla guerra. Il fondatore e
capo idolatrato dell'Armata rossa subì con quel affronto una
sconfitta politica decisiva, che lo escluse per sempre dalla
competizione per il potere. Trotsky accettò l'esclusione
senza controbattere. E' probabile che se avesse opposto resistenza
alla troika, avrebbe trovato il sostegno dei suoi soldati e dei
quadri dirigenti miliari, ma egli scelse la fedeltà al motto
"il partito ha sempre ragione" e, con il tipico atteggiamento di
intellettuale, uscì di scena. Venne assegnato dallo stesso
Stalin al Comitato delle concessioni per il commercio estero.
Zinov'ev aveva chiesto anche la sua espulsione dal partito ma
Stalin, che non aveva interesse che i suoi alleati stravincessero,
si oppose.
Nel 1925, quando l’Opposizione di sinistra si accorse di aver
perduto definitivamente la sua battaglia, non rinunciò, ai
fini della lotta politica, a servirsi del Testamento di Lenin e il
documento venne pubblicato sul New York Times per opera del
giornalista comunista Max Eastman. Tornato negli Stati Uniti, costui
scrisse un libro, Dopo la morte di Lenin, in cui accusava il
Comitato centrale di aver celato il testamento. L’Ufficio politico
chiese a Trotsky di prendere le distanze dalle insinuazioni di
Eastman ed egli acconsentì.
Il 23 ottobre 1927, in un discorso a una seduta della sessione
plenaria comune del Comitato centrale e della Commissione centrale
di controllo del Partito bolscevico, Stalin raccontò la sua
versione della storia: "Si dice che in questo "testamento" il
compagno Lenin proponesse al Congresso che, data la "rudezza" di
Stalin, si dovesse pensare a sostituirlo con un altro compagno nella
carica di segretario generale. E’ assolutamente vero; sì, io
sono rude, compagni, nei riguardi di coloro che in modo rude e
perfido distruggono e scindono il partito... Alla prima seduta
dell’assemblea plenaria del CC dopo il 13° Congresso ho chiesto
all’assemblea plenaria del CC di esimermi dalla carica di segretario
generale. Il congresso stesso ha discusso la questione. Ogni
delegazione l’ha discussa, e tutte le delegazioni,
all’unanimità, compresi Trotsky, Kamenev e Zinoviev, hanno
imposto al compagno Stalin di restare al suo posto... Un anno dopo
ho di nuovo chiesto all’assemblea plenaria di essere esonerato dalla
carica, ma di nuovo mi è stato imposto di restare. Che cosa
dunque potevo fare? Quanto alla pubblicazione del "testamento", il
congresso ha deciso di non pubblicarlo, perché era
indirizzato al congresso e non era destinato alla stampa".
*
http://www.avantibarbari.it/news.php?sez_id=6&news_id=156
Paolo Casciola
ANCHE GRAMSCI SBAGLIAVA…
Una cosa delle cose che da sempre mi hanno profondamente colpito
è la rivendicazione del pensiero gramsciano effettuata da
varie correnti politiche “di sinistra”: dall’area
liberalsocialista fino al maoismo più becero e agli
epigoni di Trotsky passando, ovviamente, per le due scuole – quella
socialdemocratica e quella stalinista/togliattiana – che hanno
influenzato in modo decisivo la storia del movimento operaio e una
parte considerevole della stessa storiografia sul movimento
operaio. A ben vedere, però, l’opera di Gramsci, in questa o
quella fase della sua elaborazione, ben si presta a tali operazioni
di appropriazione che, comunque, sono tutt’altro che esenti da
forzature più o meno evidenti.
La principale tra queste forzature è lo scollamento parziale
o totale – ma sempre e comunque selettivo, destinato
cioè a servire, di volta in volta, questa o quella scuola di
pensiero – che viene spesso messo in atto, dagli esponenti delle
varie correnti cui ho accennato, tra l’elaborazione politica di
Gramsci e il contesto storico-politico generale entro cui egli si
muoveva. Di questo contesto generale fanno parte, e hanno una
valenza cruciale, i rapporti allora esistenti tra il movimento
operaio italiano e quello russo dopo la vittoria della rivoluzione
d’Ottobre e, soprattutto, in seguito alla creazione
dell’Internazionale Comunista, il Komintern. A mio avviso,
spesso e volentieri questi rapporti non vengono tenuti nella giusta
considerazione.
Eppure il Komintern e il Partito bolscevico, nella loro
versione leninista, giocarono un ruolo decisivo sia nel periodo
della gestazione che in quello della successiva creazione del
Partito Comunista d’Italia al congresso di Livorno del gennaio 1921.
E anche negli anni che seguirono, la reazione termidoriana
nell’Unione Sovietica e il successivo consolidamento definitivo
del regime staliniano nel 1928-29 ebbero un peso notevole sulla vita
interna e sulle scelte politiche del PCd’I, tanto sotto la direzione
del suo primo capo Amadeo Bordiga quanto nella lotta interna che,
culminando al congresso di Lione del gennaio 1926, portò alla
vittoria definitiva della frazione minoritaria gramsciana, alleatasi
all’ala destra del partito guidata da Angelo Tasca e ai cosiddetti
“terzini”, contro la sinistra bordighiana.
E proprio quella battaglia frazionistica interna, avviata da Gramsci
nel corso del 1923, è sostanzialmente rimasta ai margini
della ricerca storiografica, tanto che ancora oggi non
disponiamo di una raccolta completa e organica degli scritti
gramsciani relativi al periodo che va dal 1923-24 fino all’arresto
del novembre 1926. Per portare a termine una ricostruzione
storico-politica esaustiva della storia del PCd’I e della biografia
politica di Gramsci relative a quegli anni occorrerebbe, tra
l’altro, un lavoro di scavo profondo soprattutto negli archivi della
ex Unione Sovietica: lavoro che è stato intentato soltanto in
anni recenti, ma limitatamente all’anno 1926. È comunque
chiaro che Gramsci non operò in una sorta di atmosfera
protetta ma condusse invece quella lotta, a livello politico e
organizzativo, in stretta sintonia con le tendenze che, in seno al
regime sovietico, detenevano una posizione dominante.
Del resto Gramsci non poteva ignorare i termini dello scontro che,
dopo la morte di Lenin, aveva contrapposto il “centro” burocratico
rappresentato dalla trojka formata da Stalin, Zinov’ev e
Kamenev all’Opposizione di Sinistra guidata da Trotsky. E riesce
francamente difficile supporre che un dirigente politico del
calibro di Gramsci non fosse consapevole della posta in gioco
in quello scontro e dei veri e propri mutamenti genetici che una
vittoria della burocrazia montante avrebbe comportato a tutti i
livelli del regime sovietico. Come non pensare, allora, che la sua
posizione fosse frutto di una scelta deliberata di sostenere le
tendenze vincenti in seno al Partito bolscevico, cioè la
trojka e successivamente, dopo la crisi e la rottura definitiva
della trojka stessa nel dicembre 1925, il blocco del “centro”
staliniano con l’ala destra capeggiata da Bucharin?
Sta di fatto che, fino alla “svolta” ultrasinistra del Komintern
staliniano attuata nel 1928-29 (culminata, per quanto riguarda il
PCd’I, nel 1930 con l’espulsione di Tresso, Leonetti e
Ravazzoli), Gramsci cercò sempre di attenersi alla
“linea generale” dettata dalla dirigenza sovietica, con buona
pace dei sostenitori di una presunta affinità di vedute tra
un Gramsci e un Trotsky fraudolentemente accomunati nella lotta
contro lo stalinismo. In realtà Gramsci non capì
affatto la natura controrivoluzionaria del fenomeno staliniano
nascente e le conseguenze negative che esso comportava per il
movimento comunista mondiale. Anche nell’arcifamosa lettera al
Comitato Centrale del partito russo dell’ottobre 1926, da molti
addotta a prova di un suo presunto antistalinismo, egli
dichiara invece di ritenere “fondamentalmente giusta la linea
politica della maggioranza”, cioè del nuovo blocco costituito
da Stalin con la destra buchariniana. E persino nelle riflessioni più
mature affidate ai suoi Quaderni del carcere, Gramsci non
risparmiò gli attacchi contro Trotsky, che di Stalin era il
principale antagonista politico.
Il problema non è di poco conto, dal momento che il processo
di burocratizzazione del Partito bolscevico e degli altri partiti
comunisti culminò qualche anno dopo con la vittoria
definitiva dello stalinismo, e questa vittoria fu poi decisiva
per le sorti ulteriori del movimento operaio e per le sconfitte
della rivoluzione in paesi come la Cina, la Germania, la Francia e
la Spagna. Mi permetto di ricordare, di passata, che Stalin non solo
ruppe con il marxismo su tutta una serie di punti programmatici
cruciali, in primo luogo avanzando (nel dicembre 1924!) la sua
teoria nazionalista che postulava la possibilità di costruire
il socialismo in un paese solo, ma introdusse anche in seno al
movimento operaio la pratica della liquidazione fisica
sistematica dei militanti di partito che esprimevano posizioni
critiche rispetto all’operato della direzione.
Per questo motivo, a chi pone un accento buonista su presunte
matrici democratiche e/o libertarie di Gramsci, mi permetto di
ricordare che Gramsci agì invece da cinghia di
trasmissione dei diktat imposti al PCd’I da Mosca a partire
dalla sua approvazione della decisione del III Esecutivo Allargato
del Komintern (giugno 1923) di sostituire d’autorità la
direzione di sinistra del PCd’I incarcerata in febbraio,
nominando un nuovo Comitato Esecutivo composto essenzialmente da
avversari politici di Bordiga. La liquidazione politica di
quest’ultimo, che sarebbe culminata con la sua espulsione nel marzo
1930, si sviluppò di pari passo con la lotta orchestrata da
Stalin e compagnia contro Trotsky in Unione Sovietica.
E dopo la battuta d’arresto segnata dalla conferenza di Como del
maggio 1924 – allorché apparve chiaro che la tendenza “di
centro” gramsciana era meno numerosa non soltanto della maggioranza
bordighiana, ma anche della stessa ala destra del partito – Gramsci
intensificò la sua lotta tendente alla formazione di un nuovo
gruppo dirigente con l’appoggio del V Congresso Mondiale del
Komintern (giugno-luglio 1924), che decise di escludere la sinistra
italiana, le cui posizioni continuavano ad essere maggioritarie
nel corpo del partito, da qualsiasi posizione dirigente.
Come ho già accennato, le vicende interne del PCd’I sono
strettamente intrecciate a quelle del partito russo, e molte sono i
parallelismi che li legano. Tanto per fare un esempio,
analogamente a quanto avvenuto in Unione Sovietica con la “leva
Lenin” proclamata dalla trojka dopo la morte di Lenin – che tra il
febbraio e il maggio 1924 aprì le porte del Partito
bolscevico a circa 240mila nuovi membri senza i normali
procedimenti di selezione politica, e che ebbe l’effetto di diluire
il nucleo proletario rivoluzionario del partito in una massa
popolare indiscriminata e spesso non adeguatamente politicizzata
(comprendente un gran numero di impiegati e di carrieristi), ma
fedele all’apparato di cui Stalin rappresentava il vertice –, nei
primi mesi del 1924 anche il PCd’I operò una manovra dello
stesso tipo triplicando il numero dei suoi effettivi, con risultati
del tutto simili.
Il V Congresso del Komintern si svolse all’insegna della parola
d’ordine della “bolscevizzazione”. Varata sotto il segno della
lotta contro il trotskismo, la “bolscevizzazione”, di cui Zinov’ev
fu all’epoca il principale assertore, puntava innanzitutto a mettere
i vari partiti comunisti nazionali al passo rispetto al partito
russo. Sul piano organizzativo, ad essi veniva richiesta una
maggiore aderenza al modello ultracentralista-burocratico
emerso in Unione Sovietica a partire dall’autunno 1923 con
l’avvio della lotta contro Trotsky; e a livello politico si esigeva
una maggiore rispondenza agli zig-zag della frazione dominante in
seno all’apparato del Partito bolscevico e del Komintern. La
tendenza gramsciana si fece promotrice della “bolscevizzazione”
del PCd’I, coniugando l’opportunismo sul piano della politica
(partecipazione all’Aventino, teorizzazione di un antiparlamento che
restaurasse la democrazia borghese, ecc.) alle manovre organizzative
miranti ad emarginare e sconfiggere politicamente la sinistra del
partito. Agli anni 1924-25 risalgono anche i tentativi gramsciani di
“recuperare” Bordiga staccandolo dai compagni che gli erano
più vicini e dall’ampia base d’appoggio di cui egli godeva in
seno al PCd’I.
Quando poi, nell’aprile 1925, una serie di esponenti di primo piano
della sinistra bordighiana formò il Comitato d’Intesa
per meglio prepararsi allo scontro politico in vista del
congresso di Lione, l’essenza organizzativa della
“bolscevizzazione” messa in campo dalla tendenza gramsciana si
manifestò con la stigmatizzazione del frazionismo e con le
minacce, poi messe in pratica, di adottare provvedimenti
disciplinari contro coloro che osavano mettere in questione il
carattere monolitico del partito. Tutto ciò equivaleva di
fatto alla proibizione della libera discussione in seno al partito
(in una fase precongressuale, per giunta) e, più in
generale, ad una sospensione a tempo indeterminato della sua
democrazia interna.
Nel giugno 1925 Gramsci aprì personalmente il fuoco contro
gli oppositori sulle pagine de l’Unità, in cui si possono
leggere perle di questo tipo: “l’iniziativa del Comitato d’Intesa
porta in sé il germe della scissione del partito”; “è
un atto delittuoso che merita le più gravi sanzioni e il
biasimo più severo”; “i germi di infezione frazionistica (…)
saranno inesorabilmente schiacciati ed eliminati”. Così,
mentre il modello leninista del partito rivoluzionario
prevedeva il diritto di costituire al suo interno delle
frazioni allo scopo di sostenere posizioni diverse da quelle della
maggioranza, nel partito “bolscevizzato” patrocinato da Gramsci
anche il solo “porre il problema della organizzazione di una
frazione significa porre un problema di scissione”. E, come ha
evidenziato Paolo Spriano, per meglio combattere i presunti
scissionisti, la tendenza gramsciana ordinò ai segretari
interregionali di svolgere un’opera di vera e propria “polizia di
partito”: gli oppositori dovevano essere “accuratamente perquisiti
sulla persona e nell’abitazione” alla ricerca di “materiale
frazionistico”.
La “bolscevizzazione” del PCd’I avviata da Gramsci fu – analogamente
a quanto accadde nei partiti comunisti degli altri paesi – la prima
tappa di un processo che avrebbe portato alla sua definitiva
stalinizzazione. Il fatto che, per quanto riguarda il partito
italiano, tale processo si sia concluso nel 1929-30, sotto la
leadership di Togliatti e con Gramsci in carcere, nulla toglie
alla parte di responsabilità politica di quest’ultimo.
Vorrei anche accennare al fatto che negli anni della prigionia
Gramsci si dissociò dalla “svolta” del 1929-30 e dai suoi
risvolti organizzativi. Ma lo fece da posizioni di destra,
contestando la sterzata ultrasinistra e avventurista intrapresa
dal Komintern stalinizzato a partire dal IX Plenum del febbraio
1928. Tant’è vero che nei mesi seguenti, diversamente dalle
prese di posizioni ottimistiche di Togliatti e compagnia circa
imminenti sviluppi rivoluzionari della situazione in Italia, egli
prospettò invece per il partito, nell’ipotesi di un crollo
del regime fascista, non la necessità di orientare la
propria attività verso la conquista del potere, bensì
quella di fungere, sulla base della parola d’ordine dell’Assemblea
Costituente, da catalizzatore e da avanguardia delle “forze sane”
del paese, in un vasto fronte comprendente tutti i partiti
(proletari, piccolo-borghesi e borghesi) che avevano lottato contro
il fascismo.
La sua opposizione di destra allo stalinismo fu del resto
temporanea, e durò fin tanto che il PCd’I, sempre piegandosi
ai contorsionismi politici del Cremlino, non effettuò la
“controsvolta” del 1934-35 con l’adozione della politica
collaborazionista di classe dei Fronti Popolari, che legava il
proletariato al carrozzone dei settori “antifascisti” e
“progressisti” della propria borghesia, e che ebbe i suoi
effetti più nefasti nel contesto della guerra civile
spagnola. Quel cambiamento radicale di orientamento – di cui Gramsci
era stato per certi versi un precursore, e di cui non
poté poi constatare gli esiti negativi – determinò una
sorta di ricucitura politica tra lo stesso Gramsci e il gruppo
dirigente del PCd’I.
Secondo le testimonianze di cui disponiamo, infatti, Gramsci avrebbe
appoggiato la politica dei Fronti Popolari, identificando un
eventuale Fronte Popolare in Italia con l’Assemblea Costituente.
Probabilmente egli non seppe mai che, all’interno del PCd’I, quella
politica aveva assunto a partire dall’autunno 1935 la forma di
reiterati appelli alla “base sana” del fascismo, raggiungendo
il suo apice con il famigerato Appello ai fratelli in camicia nera
dell’agosto 1936, che proclamava: “Fascisti della vecchia guardia!
Giovani fascisti! I comunisti fanno proprio il programma
fascista del 1919 che è un programma di pace e di
libertà!”…
Quando Gramsci morì nell’aprile 1937, vittima della reazione
fascista, Pietro Tresso – che era stato uno dei membri dell’Ufficio
Politico del PCd’I ad essere colpiti dalle espulsioni del 1930 e uno
dei fondatori del trotskismo italiano, e che sarebbe poi stato
assassinato dalla “Mafia staliniana” (così egli amava
definirla) in un campo partigiano francese nell’ottobre 1943 –
scrisse un lungo necrologio in cui affermava, tra l’altro, che
“Gramsci, malgrado le sue eminenti qualità, si è
sbagliato anche lui, e su dei problemi importanti”. Questo mio
intervento si pone precisamente l’obiettivo di contribuire
all’individuazione e alla delucidazione di alcuni tra questi gravi
errori di Gramsci.
Firenze, 1° ottobre 2008