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    Costanza Orlandi
    
    La prima parte di questo lavoro è dedicata alla formazione di
    Gramsci presso l’Università di Torino. Tra gli insegnamenti e
    gli interessi di studio di questi  anni cerco di mettere in
    luce un filo conduttore rappresentato  dall’approccio 
    storicista. Non si tratta quindi di ripercorre tutte le tappe della
    formazione dello studente, tema tra l’altro già affrontato
    dalla critica gramsciana, ma piuttosto di sottolineare la
    continuità e la relazione tra gli interessi del periodo
    giovanile e i Quaderni del carcere.
    
    In passato la questione della lingua e del linguaggio/dei linguaggi
    negli studi gramsciani è stata affrontata separatamente, in
    modo specialistico da linguisti, quindi spesso al di fuori del
    flusso di pensieri delle note carcerarie.
    Invece da uno studio trasversale ai vari ambiti del sapere emerge
    anche che cosa rimane invariato del pensiero gramsciano, la sua
    logica interna. Quello che colpisce è la costante del
    riferimento ad un altro da sé, un rimando che compare ad un
    livello profondo della formazione dei concetti. Così
    nell’analisi degli interessi di studio giovanili mi sono soffermata
    su questa loro tendenza “semantica” , che a mio avviso rimane un
    tratto distintivo del pensiero gramsciano maturo.
    
    Nella seconda e terza parte del mio saggio passo in rassegna alcuni
    passi dei Quaderni del carcere di argomento linguistico,
    concentrandomi sul Quaderno 29, sulla cui genesi pongo delle
    questioni, che non  vogliono  tanto  aprire 
    un  dibattito  filologico sull’ultimo dei Quaderni, quanto
    mostrare in che misura esso sia intimamente legato a quelli che
    precedono.
    
    Nell’ultima parte mi occupo del rapporto oralità-scrittura,
    come un aspetto della riflessione sulla lingua e tema ricorrente, in
    forma diversa, nei Quaderni del carcere.
    
        2.   Antonio Gramsci studente di
    filologia
    
    L'arcangelo destinato a profligare definitivamente i neogrammatici
    
    Antonio Gramsci si era potuto iscrivere per l'anno accademico
    1911-12 alla Facoltà di Lettere dell'Università di
    Torino, grazie ad una borsa di studio del Collegio Carlo Alberto,
    riservata agli studenti provenienti da famiglie poco abbienti delle
    province dell'ex Regno di Sardegna. I suoi interessi di studio si
    rivolsero in particolare agli insegnamenti  di 
    glottologia  del  prof.  Matteo  Bartoli, 
    il  quale  gli  affidò  ben  presto
    l'incarico di curare una dispensa[1] per gli studenti degli anni
    successi ed era solito consultarlo per questioni relative ai
    dialetti sardi.[2]
    
    Gramsci,  come  noto,  non  concluse 
    gli  studi.  Lo  studente  sostenne 
    il  suo  ultimo esame, Letteratura italiana, nel 1915 e in
    seguito fu assorbito a tempo pieno dall'attività 
    giornalistica,  resa  più  intensa 
    con  l'entrata  in  guerra  dell'Italia 
    e  la conseguente difficoltà a reperire redattori.
    Tuttavia, fino al 1918 Gramsci pensava ancora di poter riprendere
    gli studi e di laurearsi in glottologia.
    
    Nella lettera del 19 marzo 1927 a Tania, per spiegare alla cognata
    la scelta di volersi occupare di uno studio di linguistica
    comparata, Gramsci confessa di provare rimorso per aver abbandonato
    gli studi, soprattutto per "il  dolore profondo" procurato al
    maestro che avrebbe visto nel giovane studente "l'arcangelo
    destinato a profligare definitivamente i neogrammatici". Il passo ha
    un tono chiaramente ironico, ma è indubbio che l'esperienza
    umana e intellettuale degli anni universitari era ancora viva nel
    carcerato.[3]
    
    In contrasto con la visione dei neogrammatici, i quali intendevano
    lo studio della lingua come una ricerca dell'origine del vocabolo o
    del suono, Matteo Bartoli, fondatore della  scuola 
    neolinguista  credeva  nell'utilità  di un
    approccio storico  alla lingua, essendo tra l'altro il
    traduttore della Grammatica storica della lingua italiana di
    Meyer-Luebke [4].
    
    Vorrei qui solo ricordare che nella prefazione all'edizione italiana
    del linguista svizzero si trova una dichiarazione di riconoscenza
    intellettuale nei confronti di Isaia Ascoli, un autore che, come
    sappiamo, occupa un posto importante nella formazione linguistica
    gramsciana. Esiste una direttrice che passa attraverso 
    Ascoli,  Meyer-Luebke,  Bartoli,  Croce, 
    Bréal[5],  autori  molto  diversi  tra
    loro, ma che in comune hanno un atteggiamento storicista nello
    studio della lingua. La neolinguistica di Bartoli,  detta  anche linguistica   
    areale  o  spaziale,  era caratterizzata  da un 
    originale approccio  relazionale  ai  fenomeni
    linguistici,  basato sulle seguenti quattro norme areali o
    spaziali:
    
    "1 Norma dell’area meno esposta alle comunicazioni: se di due
    ‘fasi’ una si trova in un’area che sia o sia stata meno esposta alle
    comunicazioni che l’area dell’altra fase, la fase dell’area meno
    esposta è di norma la più antica.
        2. Norma delle aree laterali:
    se di due ‘fasi’ cronologiche una si trova – oppure si è
    trovata – in aree laterali, e l’altra in aree intermedie ad esse, la
    fase delle aree laterali è di norma la più antica.
    Più brevemente: inter hoc, ergo post hoc. Di norma, non
    sempre. È da eccettuare, soprattutto, il caso che le aree
    intermedie siano meno esposte alle comunicazioni che le aree
    laterali (cfr. norma 1).
        3. Norma dell’area maggiore: se
    di due aree l’una è – oppure è stata – molto maggiore,
    cioè molto più estesa, che l’altra, la fase diffusa
    nell’area maggiore è di norma la più antica. Di norma,
    non sempre. Sono eccettuati soprattutto due casi distinti. L’uno
    è che l’area minore sia meno esposta alle comunicazioni che
    non l’area maggiore (cfr. norma 1). E l’altro, che l’area minore
    consti della somma di due o più aree laterali (cfr. norma 2).
        4.  Norma dell’area seriore: di
    due ‘fasi’ esistite un tempo nell’area anteriore (madre patria) di
    cui l’una sopravviva in questa, e l’altra nell’area seriore
    (colonie, propaggine linguistica), quella conservata nell’area seriore è di norma
    la fase seriore.” [6]
    
    Le norme areali di Bartoli furono ideate per stabilire con una
    relativa certezza il rapporto di anteriorità/posteriorità di diversi fasi linguistiche in mancanza di dati
    documentabili, ma conobbero un'applicazione anche negli studi
    demologici, inizialmente per merito di Giuseppe Vidossi[7], il quale
    se ne avvalse nell'osservazione  di  riti 
    folclorici  comuni  a  diversi  gruppi 
    culturali,  più  o  meno distanti
    geograficamente. La caratteristica dell’approccio di Bartoli
    è l’attenzione alla relazione tra le fasi di sviluppo di una
    lingua (o di un particolare fenomeno culturale, nella variante
    etnologica). In altre parole si va alla ricerca di una datazione
    relativa, non assoluta delle fasi di sviluppo attraverso la
    creazione di figure similari, di un esemplificazione grafica che
    mostri il rapporto tra le diverse aree geografiche.[8]
    
    La “relatività” delle norme nasce anche dal fatto che le
    conclusioni a cui si può arrivare con questo metodo sono di
    tipo probabilistico e l’applicazione di una norma piuttosto che di
    un’altra dipende da una valutazione soggettiva, da considerare caso
    per caso. Anche per questo Bartoli non parlava di "regole” , ma
    appunto di "norme” , di cui per loro natura si possono sempre
    presupporre delle eccezioni. La teoria spaziale era alla base delle
    nuove discipline di geografia e cartografia linguistica a cui essa
    contribuiva con la definizione delle isoglosse. Il loro studio
    comparato ad altri tipi di indicazioni geografiche era fondamentale
    per un'analisi della lingua di tipo "diffusionista", tipico della
    scuola neolinguista. Secondo questo approccio,  i mutamenti
    lessicali, morfologici e fonetici delle parti del discorso non
    avvengono in maniera simultanea e omogenea, ma si diffondono a
    partire da un centro per irradiazione. La dimensione spaziale di cui
    rende immediatamente conto la carta linguistica è connessa ad
    un elemento cronologico, cioè il tempo di diffusione di un
    dato mutamento dal centro alla periferia.
    
    La questione della lingua unica
    
    Nella lettera a Tania del 17 novembre 1930 Gramsci ricorda come
    dieci anni prima avesse scritto un saggio sulla questione della
    lingua secondo il Manzoni[9] e come in quell'occasione si fosse
    occupato della storia della cultura italiana, del distacco tra
    lingua scritta e lingua parlata, conseguente alla caduta dell'impero
    romano, e della nascita dei dialetti. Come ha esaurientemente
    mostrato Lo Piparo[10] esiste una forte continuità tra le
    tematiche linguistiche manzoniane e la riflessione 
    carceraria  sul nesso oralità-scrittura e
    popolo-intellettuali, nonché sulla mancanza di una
    letteratura popolare italiana.
    
    Come  noto,   nel   dibattito  
    sull'unificazione  della   lingua  
    in  Italia,   Gramsci   non appoggiava la
    posizione di Manzoni, bensì quella di Ascoli.[11] La
    distanza  con l'autore de I promessi sposi nasceva dall'assenza
    nella sua teoria linguistica di un aspetto dinamico relativo alla
    formazione culturale della lingua e ai suoi rapporti verticali ed
    orizzontali con altri idiomi. In altre parole per Manzoni il
    parlante usava e diffondeva una lingua, non la produceva: da qui
    l'inevitabile presa di distanza di Gramsci che pensa la lingua in un
    rapporto di interscambio con la visione del mondo, cioè con
    una cultura.
    
    Sulla simpatia di Gramsci per la posizione ascoliana non mi dilungo,
    visto che anche questo argomento è stato trattato da Lo
    Piparo[12] il quale, testi alla mano, mostra le contaminazioni
    ascoliane nei Quaderni del carcere.
    
    Gli elementi più facilmente  riconoscibili di vicinanza
    alle teorie  del linguista ottocentesco sono la già
    citata prospettiva storica nello studio della formazione di una
    lingua e il riferimento non al singolo, ma ad una comunità di
    parlanti, composta da popolo e intellettuali. Vicino al sentire
    gramsciano è in generale l'idea ascoliana che l'unità
    linguistica debba nascere da un processo, da uno scambio culturale
    sia tra parlanti di regioni diverse che tra lingua nazionale e
    dialetti. La questione della lingua deve quindi da questo punto di
    vista essere messa in relazione con un più ampio programma di
    organizzazione della cultura e non può essere risolta in modo
    a-storico o artificiale.[13] I riflessi del dibattito
    sull'unificazione della lingua in Italia si ritrovano anche nella
    polemica verso la proposta esperantista.[14]
    Bartoli aveva conosciuto una "fase crociana" direttamente
    conseguente alla pubblicazione dell'Estetica, nel 1902, anche se in
    seguito egli si allontanò dalle posizioni del filosofo
    napoletano. Possiamo dire che una sorte analoga toccò al suo
    allievo, il giovane studente Antonio Gramsci, il quale partendo da
    posizioni vicine al pensiero di Croce, nel suo percorso politico ed
    intellettuale tese sempre più ad allontanarsene. Rispetto
    alla questione della lingua la posizione di Croce, pur partendo da
    premesse filosofiche originali, si inseriva nel filone della critica
    alla posizione manzoniana e ad una visione puramente strumentale
    della lingua.
    
    "La questione dell'unità della lingua torna sempre in
    campo,  perché,  così  com'è
    posta, è insolubile, essendo fondata sopra un falso concetto
    di ciò che sia la lingua. La quale non è arsenale di
    armi belle e fatte, e non è il vocabolario, raccolta di
    astrazioni ossia cimitero di cadaveri più o meno
    imbalsamati."[15]
    
    L'immagine è ripresa fedelmente da Gramsci non a caso in un
    corsivo in  cui  si occupa di opere artistiche, affermando
    che
    
    "non bisogna confondere vocabolario con linguaggio. Il vocabolario
    è un museo di cadaveri imbalsamati, il linguaggio è
    l'intuizione vitale che a questi cadaveri dà nuova forma,
    nuova vita in quanto crea nuovi rapporti, nuovi periodi nei quali le
    singole parole riacquistano un significato proprio e attuale."[16]
    
    È questa prima fase della linguistica crociana verso cui
    Gramsci prova simpatia e che lo porta ad esprimersi negli articoli
    giovanili in termini in cui è facile riconoscere l'influsso
    della teoria  estetica di Croce. Scrive ad esempio 
    Gramsci in  un  articolo dell'Avanti!, edizione milanese
    del 1918:
    
    "La lingua non è solo mezzo di comunicazione: è prima
    di tutto opera d'arte,  è bellezza, e che tale sia anche
    per i più umili strati sociali si vede dal riso che suscita
    chi non si esprime bene in una lingua o in un dialetto che gli
    è estraneo abitualmente."[17]
    
    Questa iniziale varietà teorica della formazione
    giovanile  attinge contemporaneamente sia ad una posizione
    estetizzante della lingua come quella di Croce che ad una che
    potremmo definire sociologica come quella di Ascoli. Da un punto di
    vista filosofico le due posizioni appaiono ancora 
    più  inconciliabili,  se  si pensa che Gramsci
    in questo momento subisce l'influsso da una parte dell'Idealismo di
    Croce e dall'altra del Positivismo di Ascoli.
    È ancora di chiara filiazione crociana l'utilizzo del termine
    "vocabolario" che fa Gramsci in un articolo di "Sotto la Mole",
    polemizzando con la vacuità e la falsità di alcuni
    opinionisti, che parlano per frasi fatte, che utilizzano cioè
    una lingua che riferisce solo a se stessa, astratta dalla
    realtà sociale dei lettori.
    
    "Bella invenzione il vocabolario per chi non ha niente da dire e
    deve tuttavia scrivere qualcosa ogni giorno. Esso diventa cuore,
    diventa cervello, diventa logica, diventa uno scrittore magnifico.
    Le parole si drizzano su dei trampoli grammaticali e sintattici e se
    ne vanno a spasso come le persone vive, a farsi ammirare nei mercati
    della provincia per  la spruzzatina di rossetto che sostituisce
    così bene il sorriso lusingatore."[18]
    
    A partire da questo fondamentale contributo del pensiero di
    Benedetto Croce per la riflessione linguistica gramsciana, che come
    abbiamo visto connota anche l'uso di alcuni concetti che ritroveremo
    inalterati nei Quaderni del carcere, nei prossimi capitoli vedremo
    come parallelamente a quanto accade per la riflessione filosofica,
    anche quella linguistica si evolve all'interno delle note carcerarie
    in una  direzione anticrociana.
    
    Il saggio di semantica di Michel Bréal 
    
    Nel 1897 il linguista francese Michel Bréal dette alle stampe
    un suo Saggio di semantica, inaugurando così una nuova
    disciplina, la semantica appunto, intesa come lo studio dei
    significati. Nel capitolo introduttivo "Idea dell'opera",
    Bréal scriveva del suo approccio innovativo, rispetto agli
    studi tradizionali di linguistica:
    
    "Se ci si limita allo studio dei mutamenti vocalici e consonantici,
    si finisce col ridurre questo studio alle dimensioni di una branca
    secondaria della fisiologia; se ci si contenta di enumerare le
    perdite subite dal meccanismo grammaticale, si fornisce l'immagine
    illusoria di un edificio che sta andando in rovina; se infine ci si
    trincera dietro astratte teorie sull'origine del linguaggio, si
    corre il rischio di aggiungere un ennesimo capitolo alla storia
    già lunga dei vari sistemi teorici. Mi sembra, invece, che vi
    sia ben altro da fare. Quel che occorre mettere in luce, quel che ho
    cercato di fare in questo libro, è far emergere dalla
    linguistica tutto quanto possa proporsi come stimolo alla
    riflessione, ed anche – e non ho timore di aggiungerlo – come regola
    del nostro stesso linguaggio, in quanto ciascuno dà il
    proprio contributo all'evoluzione della parola umana"[19]
    
    Bréal rappresenta una fonte importante nella formazione di
    Gramsci e non è difficile riconoscere nella riflessione
    carceraria degli elementi di vicinanza brealiana. Detto questo
    è bene però ricordare come l'introduzione di parti o
    di terminologie di teorie altrui nei Quaderni del carcere avvenga
    sempre in modo "dialogico". Gramsci cioè non si limita ad
    assumere elementi teorici esterni, ma li "rimette in circolazione",
    li inserisce in un nuovo contesto per certi versi eteroclito,
    stabilendo così un diverso collegamento tra parola e
    denotazione, in cui il vecchio significato non viene perduto, ma si
    arricchisce di nuovi riflessi che nascono dalla relazione tra
    diversi contesti teorici e tematici.
Come già alcuni studiosi hanno mostrato[20], la parola nei
    Quaderni del carcere assume in alcuni casi una portata metaforica.
    Non solo nelle note ci sono solo metafore stilistiche prese
    dall'ambito semantico della musica, della rifrazione di luce o della
    biologia[21], ma proprio la capacità a cui ho appena
    accennato di costruire rimandi tra concetti presi da universi del
    discorso diversi crea continue metafore concettuali.
    
    Da questo punto di vista possiamo dire che più che un rimando
    teorico alla teoria brealiana, nei Quaderni c'è una
    continuità pratica, visto che per Bréal nelle lingue
    indoeuropee  la  metaforicità  sarebbe 
    necessaria  alla  creazione  di  concetti: 
    da espediente stilistico il discorso metaforico può
    acquistare una valenza gnoseologica. Venendo invece alle
    affinità teoriche vorrei evidenziarne di seguito alcuni
    momenti. Sull'idea  che  la  lingua  debba 
    essere  studiata  all'interno  di  un 
    contesto  storico  e culturale non mi  dilungo, 
    perché credo  che sia  già 
    abbastanza  chiaro  da  quanto emerso fino ad ora.
    Vorrei invece soffermarmi sul ricorso al concetto di popolo e di
    spirito  popolare. Gramsci  utilizzava l'espressione di
    "spirito  popolare creativo"  per definire 
    l'elemento  comune  alle  manifestazioni 
    culturali  (in  senso  lato)  di  cui
    intendeva occuparsi nel suo primo abbozzo di un piano di
    studio.[22]  Bréal parla di "spirito popolare" 
    oppure di "intelligenza popolare” , come una sorta di
    soggettività diffusa, depositaria di una conoscenza della
    lingua – dei significati delle parole - che viene 
    dall’uso.  C’è  in  questa 
    concezione  l'idea  di  una 
    legittimità  di  fatto  nella conoscenza della
    lingua che viene dal basso che si contrappone al purismo e allo
    studio erudito della grammatica. Come in Bréal, così
    in Gramsci il momento "basso" della conoscenza – l'intuito, il
    sentire – non viene proposto come alternativa al livello
    scientifico-erudito[23], piuttosto entrambi i pensatori studiano i
    fenomeni linguistici e culturali tenendo presente le relazioni tra i
    vari gruppi sociali. Scrive Bréal:
    
    "Nella nostra società moderna, il senso delle parole si
    modifica più rapidamente di quanto non sia avvenuto
    nell'antichità, ed anche nelle generazioni che ci hanno
    immediatamente preceduto. In ciò bisogna riconoscere
    l'effetto d'un incrocio tra le classi, della lotta tra opinioni e
    interessi contrapposti, della guerra trai partiti, della
    diversità nelle aspirazioni e nei gusti"[24]
    
    Credo che sia difficile non avvertire in questo passo una certa
    assonanza gramsciana, soprattutto per questa idea comune di fondo
    che la comunicazione non solo tra individui, ma anche tra classi o
    gruppi sociali ha un effetto produttivo in senso quantitativo e
    qualitativo sulla formazione della lingua e quindi della
    cultura.[25] L'esistenza di un gruppo sociale/ culturale distinto
    genera un linguaggio, una cultura che si connota attraverso le
    diversità specifiche di quel gruppo. In definitiva, se ci
    riflettiamo, sia Bréal    che Gramsci ci
    dicono che la diversità (sociale/nazionale/culturale) genera cultura, la quale a sua volta si esprime
    attraverso il linguaggio tipico del gruppo (sociale/ nazionale/
    culturale) di appartenenza.
    
    La fortuna del "Gramsci linguista"
    
    Lo studio che ha più contribuito ad una lettura di Gramsci a
    partire dalla su a formazione di linguista è stato Lingua intellettuali egemonia in
      Gramsci di Franco Lo Piparo. Convinto che le fonti
    dell’originalità del pensiero gramsciano fossero da ricercare
    al di fuori della tradizione marxista, l’autore si propone di
    mostrare il rapporto tra gli studi di filologia e la formazione dei
    principali concetti gramsciani, quali  
    "nazional-popolare"[26],   intellettuali,  
    folklore,   egemonia,  
    società   politica, società civile,
    consenso. Di particolare interesse lo studio sulla formazione del
    concetto   di  "egemonia"  in  
    Gramsci,  che  Lo  Piparo  fa  risalire  a  quello   di "fascino-prestigio"  utilizzato da
    Graziadio Isaia Ascoli[27] e adottato da Bartoli per spiegare i
    processi di influenza tra lingue e culture diverse.
    
    Il saggio di Lo Piparo non è stato il primo a trattare degli
    interessi linguistici del giovane Gramsci e a mostrarne le relazioni
    con la riflessione carceraria.[28] Piuttosto il lavoro dello
    studioso siciliano ha il merito di aver indicato una strada in
    seguito almeno in Italia assai poco battuta[29], cioè quella
    della presa in considerazione di tutta la formazione intellettuale
    di Gramsci che vede nella riflessione sulla lingua un momento
    imprescindibile. Parallelamente, il limite dello studio di Lo Piparo
    è quello di  voler  presentare  la 
    formazione  linguistica  di  Gramsci  in 
    una  posizione  di
    "concorrenza" rispetto alla tradizione marxista. Questo suo intento
    già presente nella pubblicazione  del  ‘79 
    si  accentua  nel  suo  intervento 
    Studio  del  linguaggio  e  teoria
    gramsciana.[30]
    
    Lo Piparo mette giustamente in risalto il parallelismo tra il
    rifiuto delle teorie meccanicistiche del linguaggio e della
    comunicazione e quello delle interpretazioni meccanicistiche del
    marxismo tipiche della Seconda Internazionale, ma forza a mio avviso
    le conclusioni quando intende sostenere la posizione
    dell’antistatalismo, del sostanziale liberalismo di Gramsci. Egli
    mostrerebbe cioè di avere un’idea "liberale" della
    linguistica, perché nel dibattito Manzoni-Ascoli difende la
    posizione ascoliana secondo la quale la lingua non può essere
    imposta istituzionalmente. Se il riferimento alla questione della
    lingua nazionale è importante per collocare Gramsci
    all’interno di una tradizione storicista della linguistica che
    dall’Ascoli passa per il Bartoli, da questo però non è
    giustificabile postulare un rifiuto dell’autore dei Quaderni per
    ogni tipo di istituzione. Il "liberalismo etico del giovane
    Gramsci" sarebbe inconfutabilmente provato dall’" insistenza quasi
    ossessiva con cui Gramsci tiene a precisare la natura ‘cosiddetta’
    privata e liberale degli apparati della società civile" .[31]
    
    L’analisi di Lo Piparo, o forse anche solo il suo uso politico,
    sebbene si fondi su premesse originali e indubbiamente molto
    produttive, è stato recepito da una buona parte della critica
    gramsciana come uno dei tanti tentativi di dimostrare la lontananza
    di Gramsci dal marxismo, la preferenza accordata al momento della
    società civile rispetto alla società politica[32],
    nonché la sua accettazione del liberismo.[33] Questo elemento
    non ha facilitato la nascita di un dibattito sul contenuto di
    novità dell'opera di Lo Piparo e magari un suo
    approfondimento, quanto mai utile. L'origine linguistica di alcuni
    concetti gramsciani potrebbe forse essere ulteriormente studiato,
    contribuendo così all'interpretazione di lemmi che pongono
    ancora problemi agli studiosi, uno per tutti il già citato
    concetto di popolo e di conseguenza di molte espressioni ad esso
    legate, ad esempio quelle di cultura e letteratura popolare.
    
    Credo che le difficoltà che si incontrano nel proporre questo
    tipo  di  percorso  di lettura siano ancora un
    retaggio degli studi condotti sulla edizione tematica dei Quaderni
    che proponevano una separazione disciplinare delle note gramsciane,
    distinte tra letteratura, filosofia, teoria politica. Sebbene non
    sia facile slegarsi dall’idea specialistica del sapere tipica della
    nostra cultura, credo che sia indispensabile operare un tentativo in
    questo senso quando ci si avvicini alla lettura dei Quaderni, per
    seguirne il corso delle riflessioni che raramente sono
    circoscrivibili all’interno di una sola disciplina. Separare o
    raggruppare arbitrariamente le note carcerarie ha anche
    l'inconveniente di spezzare la catena del riferimento. L’uso del
    linguaggio,  la  scelta  dei  vocaboli, 
    come  già  ricordato,  ha  spesso 
    in  Gramsci  un
    portata  metaforica,  di  rimando  ad 
    altro,  ad  un'altra  teoria[34]  oppure
    ad  un  altro passo dei Quaderni. A questo proposito
    Valentino Gerratana ricordava la caratteristica di Gramsci di "narrare"  i concetti.[35] Questo saper "stare in bilico" 
    tra discipline, linguaggi, stili diversi ci riporta a due importanti
    aspetti della personalità intellettuale dell’autore dei
    Quaderni: per prima cosa il coraggio e l’umiltà di utilizzare
    tutti gli strumenti che si dimostrino utili all’approfondimento
    della ricerca e della riflessione; poi la mentalità
    dialogica[36], antidogmatica, che prevede la presenza dell’altro. 
    
    Nell’interpretazione di Gramsci non si può prescindere da un
    approccio linguistico, ma questo non perché, come ha tentato
    di dimostrare Lo Piparo, la componente linguistica  sia 
    predominante  rispetto  a  quella 
    filosofica.  Come  spero  che  diverrà
    chiaro  nel  corso  della  mia 
    trattazione,  individuare  le  premesse 
    della  riflessione linguistica  nei Quaderni è
    sicuramente un'operazione necessaria,  ma  fatto 
    questo bisogna ancora descrivere e analizzare quale sia il percorso
    originale che i concetti, provenienti  da  ambiti 
    disciplinari  diversi,  compiono  nelle 
    note  carcerarie.  Non  si tratta quindi di decidere
    all’interno di quale disciplina catalogare i Quaderni del carcere.
    Il ricorso e il riferimento allo studio della lingua mi sembra
    fondamentale per cogliere la centralità della riflessione
    sulla parola, sul rapporto tra linguaggio e soggettività, sul
    valore antropologico  e politico del dialogo. Gramsci 
    è cosciente  della  "versatilità" della
    parola, quale elemento presente alle diverse modalità umane
    di espressione, produzione,  organizzazione.  In 
    altre  parole,   egli  si  
    allontana   dal  "pregiudizio positivista" secondo
    cui l’uso del metodo scientifico razionalizzabile, schematizzabile
    sia in grado di far avvicinare alla conoscenza della realtà
    più di quanto non possa fare l’approccio metaforico tipico
    dell’espressione artistica. La motivazione e la libertà di
    forma, consentita paradossalmente dalla condizione di carcerato, con
    cui Gramsci si dedica  alla  ricerca  lo 
    spinge  a  percorrere  tutte  le 
    strade  possibili,  a  mettere  in relazione
    campi del sapere e dell’esperienza quotidiana. Gramsci utilizza
    modalità linguistiche diverse ed  è in 
    grado  di  passare dall’una  all’altra, di 
    intrecciare l’una all’altra con naturalezza: la parola come
    strumento di introspezione psicologica, di dialogo 
    interiore  nelle  Lettere  o  dei 
    passaggi  autobiografici  dei  Quaderni;  come
    espressione artistica (discorso sulle forme letterarie, ma gli
    stessi Quaderni sono a loro volta  un’opera 
    letteraria);  come  mezzo  di  indagine 
    filosofica,  storica  (momento scientifico, 
    sistematico).  A  questi  momenti  si 
    aggiunge  e  si  intreccia  (livello 
    0  e metalivello) la riflessione sulla lingua (studi di
    linguistica), come espressione umana che possiede una
    molteplicità di impiego, allo stesso modo della conoscenza
    che può utilizzare gli strumenti tipici dell’ambito
    artistico-creativo o di quello scientifico.
    
    3. La riflessione carceraria
    
    La riflessione sulla lingua attraverso i Quaderni
    
    Nelle prossime pagine vorrei descrivere e commentare alcune note dei
    Quaderni del carcere di argomento linguistico, con una precisazione:
    non intendo occuparmi qui di tutti i passi in cui si parla del tema
    della lingua, del linguaggio o di altri argomenti riconducibili
    a  questo, perché il lavoro  sarebbe molto
    più complesso. Anzi da un certo punto di vista, ci sarebbe da
    considerare l'intera produzione carceraria, visto che – e questa
    è proprio la conclusione a cui vorrei arrivare nel mio lavoro
    – tutto il discorso gramsciano è profondamente legato alla
    questione della lingua nei suoi più vari aspetti. Si pensi
    solo a filoni di indagine come il giornalismo, gli intellettuali, la
    cultura popolare, il rapporto fra le varie culture nazionali, la
    produzione letteraria, la formazione dell'ideologia, per citarne
    solo alcuni. Alla base di tutti questi grandi temi c'è
    un'attenta riflessione sul concetto di lingua, intesa sotto diverse
    accezioni. Scorrendo le note carcerarie se ne possono riconoscere
    almeno tre:
        -  come una particolare lingua
    nazionale (ambito più strettamente linguistico e
    storico-linguistico);
        -  come forma di comunicazione
    umana (ambito linguistico-antropologico);[37]
        -  come linguaggio, usato anche
    come sinonimo di "tecnica” (si pensi alla riflessione sul
    linguaggio artistico, sul saper fare, e naturalmente al grande tema
    della produzione).
Piuttosto vorrei far notare un'anomalia almeno apparente, per cui,
    sebbene un studio di linguistica comparata fosse addirittura uno dei
    quattro temi annunciati da Gramsci nel suo primo piano di studio[38]
    di fatto poi le note di argomento linguistico nei Quaderni sono
    poche e, a parte quelle raccolte nel Quaderno 29 di cui ci
    occuperemo alla fine del presente capitolo, i testi A e B non vanno
    oltre il Quaderno 7. Inoltre i testi a stesura unica sono la
    maggioranza e "Linguistica" come titolo di rubrica compare solo due
    volte.[39] Da tutto questo emerge una difficoltà ad occuparsi
    di un
    tema che era però sicuramente nelle intenzioni del carcerato
    trattare, come dimostra il fatto che Gramsci lo inserisce anche nei
    titoletti di rubrica. Se poi passiamo a considerare le Lettere, il 3
    ottobre 1927, quindi due anni prima  di  cominciare 
    la stesura dei Quaderni, Gramsci prega la cognata di fargli avere
    tra gli altri due libri, a cui sembra tenere particolarmente.
    
    "Ancora, desidero avere il Manualetto di linguistica di Giulio
    Bertoni e Matteo Giulio Bartoli, stampato a Modena nel 25 o nel 26.
    Avevo comandato alla libreria Sperling e Kupfer (Via Larga, 23) un
    libretto del Finck; siccome non ricordavo il titolo, invece del
    libro voluto, me ne hanno inviato uno abbastanza interessante per
    chi vuole studiare il cinese, il lappone, il turco, il georgiano, il
    samoano e il dialetto dei negri dello Zambesi, ma non ancora
    interessante per me, che non mi sono ancora deciso a così
    ardue fatiche. Quello desiderato si intitola precisamente
    così: F.N. Finck, Die Sprachstämme des Erdkreises,
    Edizione Teubner di Lipsia, nella collezione «Aus Natur und
    Geisteswelt». È una classificazione di tutte le lingue
    del mondo, ma l’oggetto del libro è solo la classificazione e
    non lo studio delle lingue separatamente."
    
    Successivamente Gramsci si dedicherà alla traduzione del
    testo del Finck.[40]
    
    Il 12 dicembre dello stesso anno, egli si lamenta con Tania di 
    non aver ancora ricevuto il Manualetto di linguistica.
    
    "Se è difficile da procurare, si può lasciar correre,
    perché ormai ho abbandonato il disegno di scrivere (per forza
    maggiore, data l’impossibilità di ottenere la
    disponibilità del materiale scrittorio) una dissertazione sul
    tema e dal titolo: «Questa tavola rotonda è
    quadrata», che penso, sarebbe diventata un modello per lavori
    intellettuali carcerari presenti e futuri. La quistione, purtroppo,
    rimarrà insoluta per un pezzo ancora e ciò mi procura
    un certo dispiacere. Ma ti assicuro che la quistione esiste ed
    è già stata discussa e trattata in qualche centinaio
    di memorie accademiche e opuscoli polemici. E non è una
    piccola quistione, se pensi che essa significa: «Che cosa
    è la grammatica?» e che ogni anno, in tutti i paesi del
    mondo, milioni e milioni di grammatiche  vengono 
    avidamente  divorate  da  milioni  e 
    milioni  di  esemplari  della razza umana, senza che
    gli infelici abbiano una coscienza esatta dell’oggetto che
    divorano."[41]
    
    La linguistica è un tema presente a Gramsci durante tutto il
    periodo carcerario, anche se come accennato, esso non verrà
    svolto a sufficienza, rispetto a quello che ci si potrebbe aspettare
    dalle dichiarazioni di intenti dell'autore. Il primo accenno[42] a
    questioni linguistiche si trova nella nota § 73 del Q 1, in un
    contesto che ben rappresenta il nesso tematico entro cui si
    inserisce la riflessione sulla lingua, che passa attraverso le note
    di letteratura, il rapporto tra cultura alta e cultura popolare e
    tra oralità e scrittura
    
    La nota è riportata con poche modifiche, 
    soprattutto  ampliamenti  e  miglioramenti della
    forma nella nota § 40 - Bellonci e Crémieux – del Q 23,
    il quaderno speciale che raccoglie le note di critica letteraria. Le
    uniche elaborazioni concettuali del testo riguardano due passi.
    La  prima  compare a  proposito  di Ascoli
    
    "che, storicista, non crede alle egemonie linguistiche per decreto
    legge, senza la struttura  economico-culturale".[43]
    
    Nel testo C, lo stesso passo viene modificato in:
    
    "che, più storicista, non crede alle egemonie [culturali] per
    decreto, non sorrette cioè da una funzione nazionale
    più profonda e necessaria".[44]
    
    Gramsci rinuncia qui al concetto di “struttura” , ormai messo in
    crisi dai quattro anni circa di riflessione carceraria[45] a favore
    di quello di “funzione” che, a  quanto sembra, dovrebbe
    riferirsi al blocco storico nazionale-popolare. Altra modifica degna
    di nota è l'allargamento di prospettiva generato dalla
    sostituzione di "egemonie linguistiche" con "egemonie culturali", a
    sottolineare la prospettiva storico-culturale in cui si muove la
    riflessione linguistica gramsciana e ancor prima quella ascoliana.
    La seconda modifica che vorrei brevemente considerare riguarda
    l'ultimo passaggio, che nel testo C viene ampliato in un modo molto
    significativo. Per dire che Bellonci non capisce di questioni
    linguistiche, Gramsci lo accusa di ragionare per "categorie
    libresche", come lingua, dialetto, "varietà" ecc.". Notiamo
    qui un uso dell'aggettivo "libresco" che è frequente nei
    Quaderni e attraverso il quale si può ricostruire il
    collegamento tra diversi livelli del discorso. Il nesso più
    immediato è alle rubriche dal titoletto "I nipotini di padre
    Bresciani" e rimanda alla ben nota riflessione di politica culturale
    che attraversa le note carcerarie. Non a caso nel passo precedente,
    la nota § 72, compare proprio questo titoletto.
    
    La nota successiva, § 74, dal titolo "Stracittà e
    strapaese", riporta il commento ad un articolo della stessa rivista[46], quindi presumibilmente è
    stata scritta contestualmente alla § 73. Qui l'attenzione di
    Gramsci cade sul provincialismo e l'arretratezza di certa cultura
    italiana impermeabile alla contaminazione. Non a caso questa nota
    verrà inserita nel Q 22, in cui, come noto, Gramsci si
    interroga sugli effetti dell'influsso dell'americanismo sulla
    cultura europea. Seguendo il flusso degli appunti anche solo di
    queste tre note si intravede quale sia il quadro in cui si inserisce
    nei Quaderni la tematica linguistica.
    
    Il problema posto nella nota § 73 è la mancanza in
    Italia di una lingua moderna che accomuni classe colta e popolo. La
    "lingua viva", cioè quella più aderente alla
    realtà materiale è solo il dialetto parlato non solo
    dal popolo, ma anche dagli intellettuali in contesti familiari. Il
    risultato è che la lingua scritta diventa astratta, proprio
    perché le manca il rapporto con la realtà, oppure al
    contrario risente troppo della chiusura provincializzante delle
    espressioni dialettali a cui deve ricorrere  in 
    alcuni  casi.  In breve questa nota condensa in poche
    righe la riflessione tra cultura alta e cultura popolare che si
    svolge attraverso i Quaderni: la mancanza di un blocco storico, di
    una cultura nazionale-popolare, fa precipitare la cultura alta
    nell'astrattezza (si veda la polemica contro il lorianismo e i
    nipotini di padre Bresciani) e la cultura bassa nel folclore,
    cioè in un tipo di espressione linguistica o culturale non
    traducibile in altre lingue della stessa epoca storica.
Nella nota § 13 del terzo quaderno, dal titolo di rubrica "I
    nipotini di padre Bresciani", Gramsci critica Alfredo Panzini, un
    personaggio di cui avremo di nuovo modo  di parlare
    riguardo  al  Q  29.[47]  Commentando 
    una  risposta  del  Panzini al direttore del "Resto del Carlino", il quale aveva definito "cosa
    leggera" una sua fatica dal titolo Vita di Cavour, proprio per la
    caratteristica "linguaiola" di utilizzare la lingua scritta, scrive
    Gramsci:
    
    "è, il suo, un puro gioco di parole, che sotto un'ironia di
    maniera fa credere di contenere chissà quali
    profondità: in realtà non c'è nulla oltre le
    parole: è un nuovo stenterellismo che si dà l'aria di
    machiavellismo."[48]
    
    Nella rielaborazione dello stesso passo nel Q 23, nota § 32,
    Gramsci rincara la dose:
    
    "il suo scrivere è un puro e infantile gioco di parole,
    ammantato di una specie di melensa ironia che dovrebbe far credere
    all'esistenza di chissà mai quali profondità, come
    quelle che certi contadini esprimono nel loro ingenuo modo di
    parlare. Bertoldo storico! In realtà è una forma di
    stenterellismo che si dà l'aria del Machiavelli in maniche di
    camicia e non in abito curiale."[49]
    
    La nota contiene altre colorite osservazioni sulla banalità
    dello scritto del Panzini, ma mi interessava soffermarmi su questa
    invettiva proprio per il richiamo, mantenuto in entrambe le
    varianti, al concetto di "stenterellismo", un riferimento diretto
    alle questioni legate al dibattito sulla lingua italiana
    Manzoni-Ascoli, di cui Gramsci si era occupato anni prima.[50]
    
    Nel Q 3, alle note § 74 e § 76 troviamo due testi a
    stesura unica di argomento linguistico. La prima, dal titolo "Giulio
    Bertoni e la linguistica", accenna ai temi che saranno ripresi
    soltanto nel Q 29. Bertoni aveva collaborato con Bartoli alla
    stesura del Breviario di neolinguistica. Dopo questo lavoro comune
    era venuta a galla una distanza intellettuale tra i due studiosi,
    tanto che in seguito Bartoli preferirà riferirsi alla sua
    teoria chiamandola "linguistica spaziale" o "areale", lasciando
    cioè da parte la definizione di "neolinguistica", al fine
    di  prendere le distanze da Bertoni.
    Fedele alla linea del maestro, la stroncatura di Gramsci è
    senza appello:
    
    "Mi pare si possa dimostrare che il Bertoni né è
    riuscito a dare una teoria generale delle innovazioni portate dal
    Bartoli nella linguistica, né è riuscito a capire in
    che cosa consistano queste innovazioni e quale sia la loro
    importanza pratica e teorica."[51]
    
    A parte la polemica con Bertoni, che ci mostra quanto l'interesse di
    Gramsci per le "vecchie" questioni relative agli studi di
    linguistica non fosse scemato nel periodo carcerario, la nota
    contiene anche un importante accenno al rapporto tra Bartoli e
    Croce. Come detto, il linguista aveva mostrato una grande
    ammirazione per Croce al momento della pubblicazione dell'Estetica,
    prendendo in seguito le distanze dal filosofo  napoletano.
Gramsci spiega così questo atteggiamento apparentemente
    ambiguo:
    
    "A me pare che tra il metodo del Bartoli e il crocismo non ci sia
    nessun rapporto di dipendenza immediata: il rapporto è con lo
    storicismo in generale, non con una particolare forma di storicismo.
    L’innovazione del Bartoli è appunto questa, che dalla
    linguistica, concepita grettamente come scienza naturale, ha fatto
    una scienza storica, le cui radici sono da cercare ‘nello spazio e
    nel tempo’ e non nell’apparato vocale fisiologicamente inteso "[52]
    
    Il secondo periodo verrà ricopiato esattamente nel Q 29.[53]
    In altre parole Gramsci sta dicendo che l'avvicinamento delle teorie
    di Bartoli e Croce è possibile  solo quando queste si
    contrappongano all'insegnamento dei  neogrammatici.  In un
    secondo momento però l'impostazione idealistica 
    crociana  non  trova  nessun riscontro nella
    prospettiva teorica del Bartoli.
    
    La nota § 76 del terzo Quaderno è contrassegnata dal
    titoletto "La quistione della lingua e le classi intellettuali
    italiane" e descrive molto chiaramente anche se in modo schematico,
    il rapporto tra lingua, cultura/ e e storia. A mo' di appunto da
    riprendere in un secondo tempo Gramsci scrive:
    
    "I rapporti tra gli intellettuali e il popolo-nazione studiati sotto
    l'aspetto della lingua scritta dagli intellettuali e usata nei loro
    rapporti e sotto l'aspetto della funzione avuta dagli intellettuali
    italiani nella Cosmopoli medievale per il fatto che il Papato aveva
    sede in Italia (l'uso del latino come lingua dotta è legato
    al cosmopolitismo cattolico)."[54]
    
    L'interesse di Gramsci si concentra in questa nota sul fenomeno del
    "mediolatino", che riprende da  un articolo di Filippo
    Ermini[55], e sulla  nascita dei volgari. Con mediolatino ci si
    riferisce a quella fase di sviluppo che conosce il  latino
    classico letterario nel corso del medioevo, detta anche latino
    cristiano. È il latino del clero e degli intellettuali, un
    idioma distinto dalla lingua parlata "storicamente vivente" del
    popolo, la quale evolverà più velocemente nel volgare,
    fino ad arrivare alle lingue romanze moderne. Malgrado il
    mediolatino non possa essere definito "lingua viva", esso non
    è però nemmeno una lingua a-storica o artificiale come
    ad esempio l'esperanto. Questa precisazione è importante per
    capire su quale base le due lingue che hanno entrambe la loro
    origine nel latino ad un certo punto si distinguano. Sono tutte e
    due lingue storiche e la differenza non è riconducibile
    semplicemente ad una modalità orale o scritta, perché
    i volgari ad  un certo punto verranno scritti, cioè
    acquisteranno pian piano valore di lingua ufficiale. Da parte sua il
    mediolatino non viene solo scritto, ma è utilizzato nelle
    conversazioni dei dotti. La differenza sta nella cultura di
    appartenenza, anche se non si tratta di una cultura definita in
    termini nazionali, ma rispetto al rapporto cultura dominante e
    subalterna. 
Nella sua ricostruzione della storia della lingua,
    Gramsci mostra che è sempre la lingua del gruppo dominante
    che passa allo status di lingua scritta. Infatti se nell'Alto
    medioevo la lingua scritta è ricalcata sul mediolatino, la
    nascita dei Comuni stimola lo sviluppo della lingua scritta in
    volgare e l’egemonia intellettuale del Comune di Firenze attribuisce
    una particolare “nobiltà” ad un dialetto particolare, il
    fiorentino, “volgare illustre” , che “è il fiorentino di
    vocabolario e di fonetica, ma è latino di sintassi” . Si
    tratta cioè ancora di una produzione intellettuale,
    originaria della classe intellettuale tradizionale. Con la caduta
    dei Comuni e la nascita della Signoria, cioè allorché
    si forma una “casta di governo staccata dal popolo” , la lingua si
    cristallizza (non è più “lingua viva” ) e svolge di
    fatto la stessa funzione che aveva in passato il latino letterario:
    “l’italiano è di nuovo una lingua scritta e non parlata, dei
    dotti, non della nazione” . Di queste due lingue dotte - italiano e
    latino – la prima diventerà egemone della cultura laica nel
    XIX secolo, mentre gli intellettuali ecclesiastici continueranno a
    scrivere in latino.
    
    Rimane però la frattura tra popolo e cultura: la funzione che
    nel Basso medioevo era svolta dal latino, in seguito passa
    all'italiano (volgare illustre). Per Gramsci questo fenomeno non ha
    un'orgine puramente linguistica, ma storico-politica:
    
    "Dopo una breve parentesi (libertà comunali) in cui
    c'è una fioritura di intellettuali usciti dalle classi
    popolari (borghesi) c'è un riassorbimento della funzione
    intellettuale nella casta tradizionale, in cui i singoli sono di
    origine popolare, ma in cui prevale in essi il carattere di casta
    sull'origine. Non è cioè tutto uno strato della
    popolazione che arrivando al potere crea i suoi intellettuali
    (ciò che è avvenuto nel Trecento) ma è un
    organismo tradizionalmente selezionato che assimila nei suoi quadri
    singoli individui (l'esempio tipico di ciò è dato
    dall'organizzazione ecclesiastica."[56]
    
    Tale tipo di approccio sarebbe necessario secondo Gramsci per
    studiare la storia della lingua, che come risulta chiaro anche da
    questo singolo passo deve essere messa in relazione con la storia
    della cultura, dei rapporti di potere interni ed internazionali,
    come dimostra anche la breve nota § 79 Q 3, ispirata da un
    articolo tratto dallo stesso numero della rivista che considera il
    rapporto tra romanesco e latino nella storia di Roma.
Con la nota § 86 dello stesso Quaderno Gramsci dà inizio
    ad una serie, da riportare sotto la rubrica di "Lorianismo", che
    prende di mira Alfredo Trombetti, il quale rientrerebbe di diritto
    nella categoria per lo "squilibrio tra la
    «logicità» e il contenuto concreto dei suoi
    studi". Tra le scoperte scientifiche ascritte a  Trombetti
    comparivano la dimostrazione della monogenesi del linguaggio e
    conseguentemente dell'umanità,  discendente   da Adamo ed Eva[57]  e la presunta   decifrazione dell'Etrusco
    
    "Ha il Trombetti trovato un nuovo metodo? Questa è la
    quistione. Questo nuovo metodo fa progredire la scienza più
    del vecchio, interpreta meglio ecc.? Niente di tutto ciò.
    Anche qui appare come il nazionalismo introduca deviazioni dannose
    nella valutazione scientifica e quindi nelle condizioni pratiche del
    lavoro scientifico. Il Bartoli ha trovato un nuovo metodo, ma esso
    non può far chiasso interpretando l’etrusco: il Trombetti
    invece afferma di aver decifrato l’etrusco, quindi risolto uno
    dei  più  grandi  e  appassionanti 
    enigmi  della  storia:  applausi, 
    popolarità,  aiuti economici ecc."[58]
    
    La polemica continua alla nota §156 Q 3 e nella nota § 36
    del Quaderno 6. Non è il caso di addentrarci sui particolari,
    ma è utile segnalare come Gramsci, prendendo spunto dalle
    critiche mosse dal glottologo Pisani a Trombetti, si occupi in
    queste note di questioni puramente linguistiche, come la ricerca
    etimologica e confronti le posizioni definite "antiscientifiche" del
    Trombetti  con  un  tipo  di 
    approccio  storico che studia il lessico e i fenomeni fonetici
    all'interno di un contesto storico-geografico, come quello di Pareti
    (Q 6 § 36).
    
    Nella nota § 20 del Quaderno 6, Gramsci torna ad occuparsi di
    Giulio Bertoni, la cui nuova teoria linguistica, acclamata come
    originale dai crociani, rappresenterebbe in realtà un ritorno
    ad una vecchia concezione della linguistica "per cui si dividono le
    parole in «brutte» e «belle», in poetiche e
    non poetiche o antipoetiche ecc., così come si erano
    similmente divise le lingue in belle e brutte, civili o barbariche,
    poetiche e prosastiche ecc." Nella teoria linguistica del Bertoni,
    in cui si considerano le parole prese singolarmente, mancherebbe il
    riferimento ad un contesto, "come se il vocabolo più
    «frusto e meccanicizzato» non riacquistasse nella
    concreta opera d’arte tutta la sua freschezza e ingenuità
    primitiva". A ben  vedere  quindi  oggetto 
    della critica gramsciana è sempre un tipo di atteggiamento
    "puramente sintattico" o "macchinale" sia negli studi glottologici
    che più in generale come approccio alla conoscenza.
Nel caso di questa nota la posizione gramsciana è molto
    esplicita e viene formulata attraverso domande dirette.
    
    "Cosa sono le parole avulse e astratte dall’opera letteraria? Non
    più elemento estetico, ma elemento di storia della cultura e
    come tali il linguista le studia. E cos’è la giustificazione
    che il Bertoni fa dell’«esame naturalistico delle 
    lingue,  come  fatto fisico e come fatto sociale»?
    Come fatto fisico? Cosa significa? Che anche l’uomo, oltre che
    elemento della storia politica deve essere studiato come fatto
    biologico? Che di  una pittura si deve fare anche l’analisi
    chimica? ecc.? Che sarebbe utile esaminare quanto sforzo meccanico
    sia costato a Michelangelo lo scolpire il Mosè?"[59]
    
    Nella nota § 71 Q 6, una delle due con titolo di rubrica
    "Linguistica", Gramsci si occupa di un testo del 1930, Sommario di
    linguistica arioeuropea di Antonio Pagliaro. La nota è
    piuttosto disordinata, segno che Gramsci stava cercando di prendere
    appunti veloci su questo argomento, di delineare sinteticamente un
    possibile corso della riflessione. La questione è quella
    della individuazione  dell'ambito  disciplinare
    all'interno del quale inserire gli studi linguistici. Il punto di
    partenza rimane l'Estetica crociana e l'identificazione di lingua e
    arte, ma poi il discorso si apre in una prospettiva molto più
    complessa. La distinzione tra arte da un lato e lingua come
    "materiale" dell'arte, "in quanto prodotto sociale, in quanto
    espressione culturale di un dato popolo" dall'altro sarà
    ampiamente trattata nei Quaderni in tutte quelle note in cui Gramsci
    si pone la questione di come suddividere l'umanità per gruppi
    culturali.[60] Altri temi, appena accennati in questa nota ma
    decisivi nell'impianto teorico gramsciano, sono l'unità di
    lingua e cultura, il rapporto tra lingua nazionale e dialetto e tra
    individuo e cultura nazionale.[61] Siamo a questa altezza con ogni
    probabilità nel 1932, nel cuore della riflessione carceraria.
    
    "Anche nella lingua non c’è partenogenesi, cioè la
    lingua che produce altra lingua, ma c’è innovazione per
    interferenze di culture diverse ecc., ciò  che 
    avviene  in  modi molto diversi e ancora avviene per
    intere masse di elementi linguistici, e avviene molecolarmente (per
    esempio: il latino ha come «massa» innovato il celtico
    delle Gallie, e ha invece influenzato il germanico
    «molecolarmente», cioè imprestandogli singole
    parole o forme ecc.).
L’interferenza e l’influenza
    «molecolare» può avvenire nello stesso seno di
    una nazione, tra diversi strati ecc.; una nuova classe che diventa
    dirigente innova come «massa»; il gergo dei mestieri
    ecc. cioè delle società particolari, innovano
    molecolarmente. "[62]
    
    Rischiando forse di far perdere il filo del discorso, con questa
    analisi delle note di argomento "puramente" linguistico mi premeva
    dimostrare come il dato apparente che il tema non abbia avuto
    fortuna nel corso dei Quaderni, cioè che di fatto esistano
    pochissime note con il titolo "Linguistica" o qualcosa di simile,
    deve essere rivisto tenendo conto del fatto che Gramsci in
    definitiva non smette  mai  di  parlare  di
    lingua. Piuttosto nei Quaderni rispetto alla riflessione giovanile
    il concetto di lingua per così dire si amplifica. "Lingua"
    è cioè uno dei tanti lemmi che attraverso la
    riflessione dei Quaderni subiscono uno slittamento semantico, senza
    però perdere il loro significato originario: il risultato
    è un termine che diventa metafora di se stesso. Un eccellente
    esempio di questo fenomeno si trova proprio nella già citata
    nota § 132 del Quaderno 9, in cui Gramsci crea un gioco di
    rimandi, fatto di virgolettature e parentesi, con la parola
    "lingua".
    
    "La lingua e le lingue. Ogni espressione ha una «lingua»
    storicamente determinata, ogni attività intellettuale e
    morale: questa lingua è ciò che si chiama anche
    «tecnica» e anche struttura. Se un letterato si mettesse
    a scrivere in un linguaggio personalmente arbitrario (cioè
    diventasse un «neolalico» nel senso patologico della
    parola) e fosse imitato da altri, si parlerebbe di
    «Babele» delle lingue. La stessa impressione non si
    prova per il linguaggio (tecnica) musicale, pittorico, plastico
    ecc."[63]
    
    Un altro momento di grande interesse per  lo  studio 
    dell'evoluzione  dei  significati nella lingua gramsciana
    è l'ultimo dei Quaderni del carcere.
    
    Il Quaderno 29
    
    Scritto nel 1935, raccoglie nove note a cui Gramsci ha dato il
    titolo di "Note per una introduzione allo studio della grammatica”
    . L’ultima nota del Quaderno è di un rigo soltanto: "Il
    titolo dello studio potrebbe essere ‘Lingua nazionale e grammatica’”
    . Non è solo il quaderno che chiude la serie: dopo questo,
    scritto attorno all’aprile 1935, Antonio Gramsci apporterà
    solo poche ulteriori variazioni a note già prese da tempo.
    Notoriamente la particolarità del quaderno 29 consiste
    nell’essere composto da soli testi B[64], di stesura unica, mentre
    dalle ricostruzioni del metodo e delle fasi di produzione delle note carcerarie sappiamo che dall’agosto 1933
    all'agosto del 1935, durante cioè l’ultimo periodo di
    produzione dei Quaderni, Gramsci si era dedicato soprattutto alla
    rielaborazione di note già scritte e al loro accorpamento nei
    quaderni speciali.
    
    Il 24 agosto del 1935 Gramsci viene trasferito alla clinica
    Quisisana di Roma ed in questa data la stesura dei Quaderni viene
    materialmente interrotta, ma il lavoro aveva già 
    da  tempo  subito  un  rallentamento, 
    in  conseguenza  del  peggioramento  delle
    condizioni di salute del detenuto, sopravvenuto in seguito alla
    crisi del 7 marzo 1933. La diminuzione dell’attività di
    scrittura è riscontrabile anche nella progressione delle
    lettere. In tutto  il 1934 Gramsci scrive una sola 
    lettera,  l’otto marzo, per fare gli auguri alla madre, che
    crede o si autoillude di credere ancora viva, in occasione del
    vicino onomastico. Poi un buco di più di un anno. Tra l’8
    aprile e il 14 dicembre 1935 le lettere sono sei. Due, indirizzate a
    Tatiana, riguardano problemi di carattere pratico  e 
    di  urgente  soluzione,  ma  lo 
    scriverle  costa  fatica.  Le  rimanenti 
    sono destinate due alla moglie Julca e una a testa, molto brevi, ai
    figli Delio e Giuliano. Ricapitolando: nel 1935 Gramsci è
    ormai stremato da circa sei anni di detenzione in un carcere
    fascista più due nella clinica di Formia; trova
    difficoltà persino a scrivere ai familiari, nonché a
    Tania, che è stata la sua corrispondente privilegiata per
    tutto il periodo della solitudine. Non si fa grandi illusioni sulla
    sua sorte, ma trova ancora la lucidità e l’energia per un
    ultimo sforzo creativo: un’ultima serie di note, altre dieci pagine
    di appunti nuovi di argomento linguistico. Lo Piparo ha osservato
    che così si chiude il cerchio: Gramsci inizia e finisce come
    linguista. Di immagini suggestive per descrivere la vita di Antonio
    Gramsci se ne possono trovare molte, ma anche con la dovuta dose di
    pragmatismo credo che abbia ragione chi afferma che al Quaderno 29
    è stata dedicata fino ad ora in effetti troppo poca
    attenzione.[65]
    
    Renzo Martinelli ha mostrato in un articolo del 1989 apparso su
    "Belfagor"[66] l'importanza della Guida alla grammatica italiana di
    Panzini per la stesura di questo ultimo Quaderno. Grazie al tardivo
    reperimento di un volume della  Guida con le annotazioni di
    Gramsci, di cui si era persa traccia per quasi quarant'anni, lo
    studioso è riuscito a formulare un’ipotesi sulla la nascita
    del Quaderno 29. Gramsci ricevette il volume di Panzini quando si
    trovava già a Formia[67] e prima la lettura, poi l'analisi
    dettagliata di questo testo, così come riprodotto da
    Martinelli, potrebbero aver indotto Gramsci a scrivere l'ultimo
    Quaderno.[68]
    
    Il Q 29 si apre con una critica al saggio di Croce "Questa tavola
    rotonda è quadrata"[69], alla sua visione  "meccanica" della
    grammatica che permetterebbe di stabilire una volta per tutte che
    cosa sia "grammaticalmente esatto" . La grammatica invece è
    "storia" , ricorda Gramsci, è "documento storico" , "fotografia" di un particolare momento dello sviluppo di una lingua
    nazionale. Ogni espressione linguistica deve essere valutata nel suo
    contesto, così come un'immagine può essere compresa
    solo nell'insieme di un quadro.
    
    "Quante forme di grammatica possono esistere?"  è il
    titoletto della nota sulla distinzione tra grammatica normativa e
    immanente o spontanea. La grammatica normativa si sviluppa in uno "spazio" e in un "tempo" determinati,  è costituita dal
    controllo reciproco, dall’insegnamento reciproco, dalla cesura
    reciproca [corsivi miei]" . Gramsci insiste volutamente su questi
    punti, sulla reciprocità, che prevede l’azione di due (o
    più) soggetti e sulla contestualità della grammatica
    rispetto ad un gruppo nazionale/storico, muovendosi così
    all’interno di una visione semantica del linguaggio.
    
    "Il numero delle ‘grammatiche spontanee o immanenti’ è
    incalcolabile e teoricamente si può dire che ognuno ha una
    sua grammatica. Tuttavia, accanto a questa ‘disgregazione’ di fatto
    sono da rilevare i movimenti unificatori, di maggiore  o minore
    ampiezza sia come area territoriale, sia come ‘volume linguistico’
    per creare un conformismo linguistico nazionale unitario, che
    d’altronde pone in un piano più alto l’ ‘individualismo’
    espressivo, perché crea uno scheletro più robusto e
    omogeneo all’organismo linguistico nazionale di cui ogni individuo
    è il riflesso e l’interprete. (Sistema Taylor e
    autodidattismo)" [70]
    
    La comunità linguistica si fortifica grazie alla presenza del
    singolo che fa sua (interpreta) la lingua e la riflette, si fa
    riconoscere quale appartenente ad una determinata cultura e la
    riproduce. Allo stesso tempo il singolo si arricchisce (è
    posto in un piano più alto) attraverso la sua partecipazione
    al dialogo interno alla comunità linguistica.  La 
    sua  particolare  scelta  lessicale,  il 
    suo  stile,  il  suo  dialetto  (il 
    suo "individualismo" espressivo) non lo isola, non lo rende un
    "vero" individualista, perché la sua particolarità
    attraverso il dialogo con le altre particolarità è
    fonte di "irrobustimento" per l’“organismo linguistico nazionale" . Il
    dialogo è reso possibile dal riflesso, dall’emanazione della
    coscienza visibile dall’esterno. Due soggetti si riconoscono
    reciprocamente ed entrano in relazione.
    
    Per    quanto   
    riguarda    l'analogia   
    tra    lingua    e   
    tecnica,    già    considerato
    precedentemente[71], è utile soffermarsi sul parallelo tra
    sistema Taylor e autodidattismo, anche se è appena accennato.
    Probabilmente Gramsci lo annota velocemente, per riprendere il
    discorso sui diversi tipi di grammatica, che infatti ricomincia
    subito dopo, ma non per questo si può ignorare. Il metodo di
    produzione taylorista è la negazione del rapporto
    intersoggettivo, perché prevede solamente rapporti del tipo
    soggetto-oggetto, in cui il secondo termine se non è una cosa
    è una coscienza reificata. Il mondo taylorista non conosce la
    dialogicità del rapporto pedagogico. Lo strumento di
    conoscenza che più gli si addice è l’autodidattismo,
    capace solo di uno studio puramente sintattico della grammatica.
    L’autodidattismo è quanto di più lontano ci si possa
    attendere da uno studio che si avvalga del contributo della
    reciprocità, uno studio cioè calato in un contesto
    storico, semantico. Non esiste un rapporto con l’alterità, di
    cui l’identità ha bisogno per porsi in dialogo. La grammatica
    non può essere tolta dal  suo contesto storico/
    semantico,  astratta dalla storia delle lotte sociali interne
    ad una nazione e dalla storia mondiale. Non si può capire
    profondamente un soggetto, una coscienza (la lingua è
    portatrice della soggettività nazionale) al di fuori delle
    sue relazioni. "La grammatica storica non può non essere
    comparativa [...] le storie particolari vivono solo nel quadro della
    storia mondiale" [72] Oltre al rapporto tra nazione e mondo esiste
    anche quella  "paritetica" tra singole nazioni. Le lingue si
    contaminano a vicenda, "influiscono per vie innumerevoli e spesso
    difficili da controllare" (es. emigrati rimpatriati, traduttori,
    viaggiatori, ecc.).
    
    Lo studio della grammatica non può limitarsi al suo aspetto
    puramente tecnico, sintattico, ma non può nemmeno prescindere
    da esso. Gramsci prende spunto da una polemica con gli idealisti
    gentiliani, i quali affermavano che non si dovesse più
    insegnare nessun tipo di grammatica nelle scuole, perché
    è sufficiente impararla dal vivo, nel vivo della lingua.
    Gramsci accusa gli idealisti di estremismo teorico e di
    liberalismo.  La  polemica  serve  da 
    spunto  per  tornare  a  discutere 
    del  ruolo  della tecnica.
    
    "Si deve apprendere ‘sistematicamente’ la tecnica? È successo
    che alla tecnica di Ford si contrapponga quella dell’artigiano del
    villaggio. In quanti modi si apprende la ‘tecnica industriale’:
    artigiano, durante lo stesso lavoro di fabbrica, osservando come
    lavorano gli altri (e quindi con maggior perdita di tempo e di
    fatica e solo parzialmente); con le scuole professionali (in cui si
    impara sistematicamente tutto il mestiere, anche se alcune nozioni
    apprese dovranno servire poche volte in tutta la vita e anche mai);
    con le combinazioni di vari modi, col sistema Taylor-Ford che crea
    un nuovo tipo di qualifica e di mestiere ristretto a determinate
    fabbriche, e anche macchine o momenti del processo produttivo." [73]
    
    Nelle righe successive Gramsci istituisce un parallelo tra i modi in
    cui si può imparare la tecnica produttiva e la grammatica. La
    tecnica non è  uno  strumento  neutrale,
    quindi la questione della tecnica non può essere risolto su
    un piano puramente sintattico-formale. Il progetto gentiliano
    è più  politico di quanto non sembri. Non
    insegnare la grammatica a scuola significa di fatto impedire alle
    massa popolare nazionale di conoscere le forme corrette della
    lingua.
Ho cercato di evidenziare e commentare qui alcuni passi a mio
    giudizio molto significativi   dell'andamento  
    del   discorso   gramsciano  
    nell'ultimo   Quaderno,   per rendere conto
    almeno in parte della densità metaforica della lingua.[74]
    Scorrendo le note del Q 29 ci accorgiamo che non compaiono argomenti
    nuovi. In altre parole, sebbene il Quaderno sia composto di note di
    prima stesura, non mi sembra corretto assimilare questi passi agli
    appunti di spoglio di riviste o ad altri passi più "grezzi".
    Questo ultimo Quaderno è intimamente legato agli altri, sia
    per gli argomenti trattati che per l'uso della lingua, densa di
    rimandi interni alle note già scritte. Non sappiamo se e
    quali pagine di altri quaderni Gramsci stesse scorrendo mentre
    compilava queste note. Il Quaderno 3 è stato ripreso in
    mano[75], per gli altri possiamo solo fare delle ipotesi. Certo
    è che ad esempio i passi sul rapporto tra lingua e tecnica
    ricordano molto da vicino – se non per le frasi usate, quanto per
    contenuto – la nota § 132 del Quaderno, ripresa alla nota
    § 7 del Quaderno 23, in cui non a caso si parla anche di
    "vocabolario" come un aspetto del linguaggio individuale. La
    definizione di "immanente" attribuita alla grammatica e tra l'altro
    messa tra virgolette risuona del passo sul Saggio di Bucharin[76] in
    cui Gramsci si era occupato della metaforicità della lingua,
    ripensando tra l'altro all'insegnamento di Bréal. Potremmo
    pensare anche in questo caso che Gramsci avesse ripreso in mano la
    nota del Quaderno 7 oppure la sua rielaborazione nel Quaderno 11. Lo
    stesso si può dire di altri passi, si guardi ad esempio l’uso
    del temine “molecolare”  (o molecolarmente e altri derivati )
    già incontrato nella nota § 71 del Quaderno 6,
    cioè proprio in una delle due note che porta i titolo di “Linguistica” . C’è poi chiaramente il riferimento al fordismo
    o alla questione della lingua unica, ma al di là della
    ripresa di alcuni importanti temi, quello che colpisce di più
    di queste ultime note è la continuità semantica
    nell'uso dei termini ripresi da contesti precedenti, tanto che si
    potrebbe parlare di una sorta di “seconda stesura a senso” .
    
    Oralità e scrittura
    
    Vorrei qui riprendere più approfonditamente un  nesso
    tematico che si è più volte affacciato nel discorso
    della riflessione sulla lingua. Mi riferisco al rapporto tra
    oralità e scrittura che attraversa i Quaderni del carcere e
    che ci è utile per capire appieno quello che Gramsci
    intendesse, quando, presentando alla cognata il suo progetto di
    studio in quattro punti tra cui "uno studio di linguistica
    comparata” [77], lo mettesse in relazione allo "spirito popolare
    creativo".
Gramsci si occupa del tema oralità/scrittura già nel
    Primo Quaderno, in due note distinte §122 e §153 che
    prendono le mosse da un articolo di Macaulay sulla funzione
    dell’oralità nell’educazione degli antichi greci. [78] Le due
    note verranno poi ricucite in un’unica nel Quaderno 16, §21,
    con il titolo: “Oratoria, conversazione, cultura” . Questo non
    è l’unico punto dei Quaderni in cui Gramsci si occupa di
    oralità: si veda ad esempio tutta la riflessione sulla “lingua viva” o sulla funzione dei “dialetti” . Mi sembra utile
    però soffermarci su questa nota – prima e seconda stesura non
    presentano differenze particolarmente interessanti – perché
    questa tratta non solo di oralità, ma del rapporto tra
    oralità e scrittura, cioè tra due diversi livelli di
    espressione, la prima potenzialmente più vicina alla cultura
    popolare, la seconda alla sfera intellettuale. Il problema di
    partenza, riassunto da Gramsci, è questo:
    
    “L’abitudine della conversazione e dell’oratoria genera una certa
    facoltà di trovare con grande prontezza argomenti di una
    qualche apparenza brillante che chiudono momentaneamente la bocca
    all’avversario e lasciano sbalordito l’ascoltatore.” [79]
    
    Gramsci, anche dalla sua prospettiva per noi oggi "limitata”
    di  uomo  degli  anni ’20-‘30 in carcere, si rendeva
    già conto dell’importanza della questione, in relazione alla
    diffusione delle idee in una società di comunicazione di
    massa.
    
    “Anche oggi la comunicazione parlata è un mezzo di diffusione
    ideologica che ha una rapidità, un’area d’azione e una
    simultaneità emotiva enormemente più vaste della
    comunicazione scritta (il teatro, il cinematografo e la radio, con
    la diffusione di altoparlanti nelle piazze, battono tutte le forme
    di comunicazione scritta, dal libro, alla rivista, al giornale, al
    giornale murale) ma in superficie, non in profondità.” [80]
    
    Il discorso si ricollega quindi a quello del giornalismo e non solo
    perché il giornale o la rivista si avvicinano più di
    altre forme di scrittura alla lingua parlata, alla "lingua viva” :
    Gramsci critica una certa "cultura” giornalistica, soprattutto
    italiana, che produce articoli "affrettati” , "improvvisati” ,
    simili a "discorsi da comizio” , cioè superficiali ma di
    grande impatto emotivo.
    
    Fin qui l’analisi della situazione presente. È una costante
    gramsciana però la capacità di studiare i problemi
    ponendosi nella prospettiva del rapporto tra presente e futuro,
    cioè da un punto di vista dinamico, ovvero la formazione
    di  un  nuovo  tipo  di cultura. In questo caso
    si parte da una riflessione sulla storia della filosofia,
    apparentemente distante dai temi appena trattati: lo studio della
    logica formale portato avanti dalla Scolastica rappresenta secondo
    Gramsci una reazione contro i metodi di educazione e insegnamento
    tradizionali, basati sull’oratoria. Da qui il discorso si apre su
    una direzione che dovrebbe mettere in guardia dalla tentazione di
    interpretare le osservazioni di Gramsci schiacciando la prospettiva
    sul giudizio rispetto alla cultura popolare. Per Gramsci infatti “gli errori di logica formale sono specialmente comuni
    nell’argomentazione parlata” [81], quindi soprattutto nel discorso “popolare” , cioè del popolo e diretto al popolo. Ecco dove
    nasce il problema politico per Gramsci. Il “blocco
    intellettuale  tradizionale”  ha  più
    confidenza con i principi della logica formale, li riproduce con
    meno fatica, proprio come accade che i figli delle classi colte,
    abituati fin da piccoli a parlare "secondo grammatica” abbiano meno
    difficoltà a parlare correttamente la lingua nazionale
    rispetto ai ragazzi che in casa sentono parlare il dialetto. Che
    cosa potrebbe accadere allora nel “creare una nuova cultura su una
    nuova base sociale” ? Se non si istruiscono i ragazzi nelle scuole,
    se non si fa un lavoro di educazione di massa che comprenda il “tirocinio” con la logica formale non c’è possibilità
    di successo. La logica formale deve divenire quindi non il fine
    dello studio, come proponevano gli Scolastici, ma una premessa.
    
    Anche la riflessione  sulla scuola e sull’istruzione si
    inserisce all’interno di questo panorama politico-dinamico.
    L’analisi della scuola e dell’università nel presente, in
    poche parole, è svolta in funzione del rapporto tra presente
    e futuro, o detto altrimenti, della “visione” del futuro a partire
    dal presente.
    I figli delle “classi strumentali” frequentano gli istituti
    tecnico-professionali, in cui si studiano  
    fondamentalmente  materie  scientifiche 
    applicate.   I   figli  
    dei   borghesi frequentano invece il liceo. Che cosa
    succede? Che quando vanno al Politecnico[82] i secondi risultano
    più preparati dei primi. L’apparente paradosso viene spiegato
    da Gramsci nel seguente modo.
    
    “La matematica si basa essenzialmente sulla serie numerica,
    cioè su un’infinita serie di uguaglianze (1 = 1) che possono
    essere combinate in modi infiniti. La logica formale tende a far lo
    stesso, ma solo fino a un certo punto: la sua astrattezza si
    mantiene solo all’inizio dell’apprendimento, nella formulazione
    immediata  nuda  e  cruda  dei suoi principii,
    ma si attua concretamente nel discorso stesso in cui la formulazione
    astratta viene fatta.” [83]
    
    È un passo di non facile interpretazione. Il nocciolo del
    problema mi sembra stia in quel “si attua concretamente” del resto
    ripreso dalla prima stesura, rispetto alla quale ci sono due
    modifiche degne di nota. La prima è che “tende” era tra
    virgolette: la logica non è un soggetto e quindi non
    può chiaramente tendere a fare qualcosa. In seconda stesura
    l’allusione è stata per così dire "riassorbita” nel
    testo. La seconda modifica riguarda la fine del passo citato che
    riporta:
    
    “ma si attua concretamente nel discorso stesso in cui questa stessa
    formulazione astratta si compie.” [84]
    
    Credo  che  qui  Gramsci  intenda 
    qualcosa  di  molto  simile  alla 
    differenza  tra “grammatica normativa” e “grammatica storica”
    di cui si occuperà nel Quaderno 29, che sono interdipendenti,
    anche se distinte. A questo ordine di problemi è connesso il
    fenomeno della non perfetta traducibilità tra le
    lingue,  a  cui  Gramsci  accenna subito dopo, o
    degli slittamenti semantici e sintattici di una parola all’interno
    dell’evoluzione storica di una stessa lingua.
    
    Nel Quaderno 5, in un testo a stesura unica[85], Gramsci si occupa
    di una particolare espressione del rapporto tra oralità e
    scrittura, quello della cultura cinese, in cui il distacco tra
    cultura alta e cultura popolare ha una base materiale, pratica: il
    sistema di scrittura ideografica limita ancora più che in
    Europa l’avvicinamento delle  grandi masse alla cultura alta,
    che si trasforma in una sorta di casta sacerdotale. Non solo il
    sistema di scrittura è in sé oggettivamente molto
    più complesso, perché il senso di ogni ideogramma
    dipende anche dalla sua posizione all’interno di un contesto, ma la
    capacità di interpretazione si affina con l’esperienza, per
    cui “chi più legge, più sa” . La cultura popolare non
    si può sviluppare e rimane confinata nell’oralità. La
    conversazione è l’unica forma di diffusione della cultura. In
    queste condizioni, naturalmente il distacco tra intellettuali e
    popolo è estremo ed è interessante come Gramsci
    sottolinei il fatto che la cultura e la filosofia cinese siano
    strettamente legate alle tre scuole religiose di Confucianesimo,
    Taoismo e Buddismo  osservando che questo ci può aiutare
    a capire di che tipo di intellettuali si tratta. C’è qui
    naturalmente un riferimento diretto alla definizione degli
    intellettuali italiani come casta o sacerdozio.[86]
    
    Il carattere comparativo di questa nota[87], in cui Gramsci sembra
    voler verificare la validità di alcuni principi, proprio
    nell’estrema diversità delle culture, si esprime nel nesso
    livello cosmopolitico-livello nazionale, che, come sappiamo,
    è alla base della sua riflessione sulla formazione degli
    intellettuali italiani. Il sistema di scrittura ideografico serve
    infatti ad una serie di lingue nazionali, ha un valore per
    così dire “esperantistico” . L’impossibilità delle
    culture popolari di svilupparsi per raggiungere un livello di
    organizzazione intellettuale produce una mancanza di culture
    nazionali (nazionali-popolari). L’ideografia nella cultura cinese
    svolge, osserva Gramsci, la stessa funzione del mediolatino nella
    cultura cosmopolita cattolica  e  quindi  nella
    storia della formazione degli intellettuali italiani.
    
    Il tema del rapporto tra oralità e scrittura ritorna nella
    nota § 19 (a stesura unica) del Quaderno 14, in cui Gramsci se
    la prende ancora una volta con il gusto melodrammatico caro al
    popolo italiano che in poesia si traduce nel “fracasso” della rima
    e degli accenti prosodici e nella scelta di un 
    vocabolario  barocco.  Gramsci spiega che la formazione di
    un tale gusto è da imputare al fatto che il popolo è a
    contatto più con le forme artistiche orali che con quelle
    scritte. Il “popolano” non è avvezzo alla lettura e alla “meditazione intima e individuale della poesia e dell’arte” ma il suo
    gusto si è formato “nella manifestazioni collettive,
    oratorie  e  teatrali” . Esempi di oratorie sono i comizi
    popolari, i discorsi funebri e le  arringhe  in tribunale,
    che Gramsci disegna con questa immagine:
    
    “queste manifestazioni hanno tutte un pubblico di ‘tifosi’ di
    carattere popolare, e un pubblico costituito (per i tribunali) da
    quelli che attendono il proprio turno, testimoni ecc.” [88]
    
    Il quadro è molto vicino a quello di un teatro spontaneo,
    anzi per la componente del pubblico che diventa attore si potrebbero
    individuare anche degli elementi carnevaleschi. Anche il “gusto”
    è un elemento culturalmente connotante di  un gruppo
    sociale, in senso sia attivo che passivo. Il gruppo cioè si
    esprime e si riconosce attraverso un particolare modello estetico.
    Lavorare per costruire un nuovo tipo di cultura significa quindi
    anche "combattere” contro il gusto melodrammatico, attraverso la
    critica e la diffusione di altri modelli poetici ed artistici.
    
    Troviamo una correzione di rotta e allo stesso tempo un aumento di
    complessità rispetto alle note dei primi Quaderni nella nota
    § 44 del Quaderno 9, ripresa nel Quaderno 16: è vero che
    all’espressione orale è connaturata una “intima debolezza” ,
    dice Gramsci, ma è anche vero che “per diffondere
    organicamente una forma culturale” è necessario affidarsi
    alla “parola parlata” .[89] Da qui si pongono una serie di problemi
    formali che bisogna saper risolvere perché sia appunto
    possibile la circolazione della cultura. Come potrà esserci
    un dialogo tra intellettuali (tecnici) e non specialisti? Questa
    situazione si ripropone nell’insegnamento a tutti i livelli,
    nonché nella divulgazione giornalistica. In un discorso tra
    tecnici si dà per scontata una base comune di conoscenze e si
    può passare a discutere dei particolari. Un tale tipo di
    discussione non sarebbe però riproducibile con un
    non-specialista. In questo caso “occorre creare preventivamente un
    terreno comune, con  un  linguaggio  comune, modi
    comuni di ragionare tra persone che non sono intellettuali
    professionali, che non hanno ancora acquisito l’abito e la
    disciplina mentale necessaria per connettere rapidamente concetti
    apparentemente disparati, come viceversa per analizzare rapidamente,
    scomporre, intuire, scoprire differenze essenziali tra concetti
    apparentemente simili.” [90]
    
    
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    d’Erasmo, Torino
    
    Note
    
    [1]
    Al fine di ricostruire i legami tra la formazione linguistica e la
    riflessione matura dei Quaderni, sarebbe interessante
    studiare questo documento. Le uniche citazioni che conosco tratte
    dalla dispensa curata da Gramsci per i corsi del prof.  
    Bartoli sono quelle di Franco Lo Piparo, il quale ne riporta un
    interessante stralcio - in Lo Piparo (1979), p. 24 - sull'importanza
    del Giuramento di Strasburgo per la storia delle lingue moderne
    europee, in cui si ritrovano alcuni temi di quella che
    diverrà la trattazione carceraria sul rapporto tra lingua
    orale e scritta. Inoltre, proprio durante questo convegno, Derek
    Boothman ha presentato un intervento dal titolo “Spazio e lingua:
    gli appunti universitari di glottologia e i Quaderni“, nel quale
    alcuni passi della vecchia dispensa torinese vengono analizzati e
    messi in relazione con note del periodo carcerario.
    [2]
    Nel quadro della teoria linguistica spaziale di Bartoli, i dialetti
    sardi costituivano una fonte significativa per la verifica
    lessicale o fonetica di un'area "meno esposta" (si veda più
    avanti), grazie al relativo isolamento della Sardegna, in
    particolare di alcune sue zone, dal continente italiano. Gramsci
    costituiva una fonte molto utile, considerato che parlava
    perfettamente il sardo e che in facoltà non c'erano molti
    studenti originari della Sardegna. All'epoca del loro incontro,
    Bartoli si era già occupato dei dialetti sardi in un articolo
    pubblicato otto anni prima. Cfr. Bartoli (1903).
    [3]
    La polemica contro le posizioni dei neogrammatici è presente
    anche nei corsivi di Gramsci, cioè nel periodo del suo
    impegno politico e giornalistico. Non è difficile infatti
    notare la continuità tra un certo uso razzista delle teorie
    funzionalistiche in campo linguistico e il nazionalismo politico. Ad
    esempio, riducendo le trasformazioni fonetiche alla fisiologia, non
    era difficile per Goidàinich, esponente della scuola
    neogrammatica italiana, istituire una gerarchia tra popoli che erano
    più o meno capaci di modulare i suoni. Naturalmente all'apice
    della gerarchia si trovava per Goidàinich il popolo italico
    che era riuscito più di altri a conservare l'antico latino.
    In un corsivo apparso su "Il grido del popolo" del 19 gennaio 1918
    Gramsci si esprime così nei confronti dell'articolo
    Perché i
    bergamaschi triplicano e i veneziani scempiano di Achille Loria:
    "Lo studio del Loria […] ricercava, coi lumi del più pedreste
    e volgare materialismo storico, le ragioni per cui nei dialetti di
    montagna del Veneto si sono conservate le consonanti lunghe del
    latino (per il Loria le consonanti sono tre), mentre nei dialetti di
    pianura queste consonanti si sono abbreviate (scempiate nel gergo
    degli studiosi). Il Loria stabilisce questa teoria: in montagna si
    gode la salute, in montagna si è ammalati. Chi è sano
    triplica le consonanti, chi è ammalato le scempia, e a
    riprova del fenomeno cita il suo caso personale. Quando Loria
    è ammalato, domanda una taza di brodo alla cameriera, quando
    è sano gliene domanda invece una tazzza."
    [4]
     Cfr. Meyer-Luebke (1979).
    [5] 
    Si veda più avanti.
    [6] 
    Bartoli (1953) pp. 484-490.
    [7] 
    Cfr. Vidossi (1934). 
    [8] 
    Per fare un esempio, una semplice figura similare, riportata in
    Bartoli (1942) è quella che ricostruisce l'alternanza delle
    derivazioni da magis o plus nelle lingue neolatine.
    
               
    Spagna – Francia e Italia – Romania
    Lat.       
    magis      
    plus     
    plus        magis
                  
    mas        
    plus      
    più         mai
    
    La figura individua un'area centrale (Italia e Francia) e due aree
    laterali (Spagna ad Ovest e Romania ad Est). Per la seconda norma
    spaziale, le forme mas e magis sono anteriori.
    [9] 
    Secondo Antonio Santucci, curatore delle Lettere nell'edizione
    Sellerio - cfr. Gramsci (1996) p. 366 - Gramsci alluderebbe
    qui ad un saggio non portato a termine, a cui egli avrebbe lavorato
    attorno al 1918 e che avrebbe dovuto far parte di una raccolta di
    scritti su Manzoni della collana "Collezione di classici italiani"
    della UTET.
    [10]
    Cfr. Lo Piparo (1979) p. 18 e ss.
    
    [11]
    Come noto, nel 1868 Alessandro Manzoni aveva esposto la sua teoria
    di una unificazione della lingua italiana attraverso
    l'accoglimento e la diffusione del fiorentino colto nella sua
    relazione dal titolo "Dell'unità della lingua e dei mezzi per
    diffonderla" indirizzata al ministro Broglio. Quattro anni dopo,
    Graziadio Isaia Ascoli rispondeva con una posizione critica rispetto
    all'ipotesi manzoniana dalle pagine del Proemio all'"Archivio
    glottologico italiano".
    [12]
    Cfr. Lo Piparo (1979) p. 34 e ss.
    [13]
    Un concetto importante della teoria ascoliana è quello di
    "sostrato" o di "reazione etnica", con cui si spiegavano i
    cambiamenti o le nuove formazioni linguistiche. Ascoli rifiutava
    l'idea che le lingue si trasformassero "per partenogenesi",
    cioè attraverso meccanismi interni al singolo idioma e
    ricercava l'origine dell'evoluzione delle lingue nella storia degli
    incontri etnico-culturali dei diversi popoli. Secondo la concezione
    ascoliana, con "lingua sostrato" – concetto passato nel frattempo
    nel vocabolario degli studi linguistici – si intendeva l'idioma
    preesistente di un popolo che in seguito ad annessione o conquista
    adottava una nuova lingua e con "azione di sostrato" l'influsso che
    tale idioma originario esercitava sulla lingua   di
    acquisizione. Secondo questa teoria ad esempio le differenze
    nell'evoluzione delle lingue romanze o la formazione dei dialetti
    vanno ricercate nel rapporto tra il latino e gli idiomi preesistenti
    e quindi in definitiva nel rapporto tra le diverse culture. La
    storia della lingua rientra cioè nel quadro della storia
    politica, culturale e sociale. Ogni nuova lingua è il frutto
    di una contaminazione: anche la lingua che si afferma sulle altre, a
    causa del contatto si trasforma. Da questo punto di vista è
    chiaro come la proposta di Manzoni di "sostituire" il fiorentino
    agli altri dialetti per Ascoli fosse priva di fondamento, in quanto
    le lingue non possono sostituirsi ad altre così come sono, ma
    possono solo affermarsi grazie al loro "prestigio" sulle altre, dopo
    un periodo di contatto che prevede un influsso reciproco fra lingua
    dominante e "subalterna". Il risultato di questo processo
    sarà quindi di fatto una nuova lingua.
    [14]
    Gramsci critica l'esperanto come esempio di lingua artificiale,
    a-storica e quindi inservibile alla comunicazione negli
    scritti giovanili, dapprima sulle pagine dell'"Avanti!" E poi su "Il
    Grido del popolo". Si vedano: Contro un pregiudizio, in: "Avanti!",
    24 gennaio 1918, Teoria e pratica. Ancora intorno all'esperanto, in:
    "Avanti!", 29 gennaio 1918, "La lingua unica e l'Esperanto, in: "Il
    grido del popolo", 16 febbraio 1918, l'articolo conclusivo della
    serie. Nei Quaderni si trovano accenni  alla polemica
    anti-esperantista. In una nota del Quaderno 7 (Q 855), rielaborata
    nel Quaderno 11 § 45 con il titolo "Esperanto filosofico e
    scientifico", Gramsci fa un uso metaforico del termine "esperanto",
    che denota un atteggiamento a-storico nell'indagine filosofica e
    scientifica. Si noti che nella trascrizione del titolo della nota
    dal Quaderno 7 al Quaderno 11 si perdono le virgolette, aumentando
    la portata metaforica delle parole. Di questo fenomeno, osservato da
    Raul Mordenti (cfr. Mordenti 1996) ci occuperemo più
    diffusamente nel capitolo dedicato alle metafore nei Quaderni del
    carcere.
    [15]
    Croce (1945), p. 164.
    [16]
    Si veda: Sull'esposizione al circolo degli artisti, in "Avanti!", 4
    gennaio 1917.
    [17]
    Contro un pregiudizio, in: "Avanti!", 24 gennaio 1918.
    [18]
    I meriti di Carneade, in: "Avanti!", 17 dicembre1916, rubrica "Sotto
    la Mole"
    [19]
    Bréal (1990), p. 3.
    [20]
    Penso ad esempio a Medici (2000), Piazza (1995) e a Mordenti (1996),
    sull’aumento progressivo della metaforicità del
    discorso nei Quaderni del carcere.
    [21]
    Riguardo a quest'ultime si veda Piazza (1995).
    [22]
    Mi riferisco al noto passo della lettera del 19 marzo 1927 a
    Tatiana. Dopo aver individuato i quattro argomeni
    di studio, su cui avvrebbe voluto concentrarsi (1. storia degli
    intellettuali italiani,  2. studio di linguistica comparata, 3.
    il  teatro di Pirandello, 4. letteratura popolare) Gramsci
    afferma: “In fondo, a chi bene osservi, tra questi quattro argomenti
    esiste omogeneità: lo spirito popolare creativo, nelle sue
    diverse fasi e gradi di sviluppo, è alla base di essi in
    misura uguale.”
    [23]
    "Ma è bene non affidare all'intuito popolare la risoluzione
    di problemi troppo complessi" si legge in Bréal (1990), p. 47
    oppure "La memoria popolare è corta" qualche riga più
    avanti. In Gramsci si rammenti tutta la riflessione sulla cultura
    popolare che rischia di cadere al livello di folklore, una volta che
    il popolo sia isolato e non riesca più a "tradurre" il suo
    linguaggio in quello di un'altra cultura contemporanea.
    [24]
    Bréal (1990), p. 66.
    [25]
    Nei Quaderni Bréal è citato nella nota § 36 del Q
    7 dal titolo "Saggio popolare. La metafora e il linguaggio",
    rielaborata
    e ampliata nel Q 11, alla nota § 24 con i titolo "Il linguaggio
    e le metafore". In entrambi i contesti Gramsci si occupa
    dell'affermazione contenuta nel testo di Bucharin per cui Marx
    avrebbe usato i termini di "immanenza" e "immanente in  senso
    metaforico. Nel Saggio popolare, non c'è un'adeguata
    trattazione di questo fenomeno, mentre secondo Gramsci la questione
    del rapporto tra linguaggio e metafora meriterebbe un
    approfondimento, visto che "il linguaggio attuale è 
    metaforico per rispetto ai significati e al contenuto ideologico che
    le parole hanno avuto nei precedenti periodi di civiltà".
    Più avanti si legge ancora:
    "Ma è possibile togliere al linguaggio i suoi significati
    metaforici ed estensivi? È impossibile. Il linguaggio si
    trasforma col trasformarsi di tutta la civiltà, per
    l'affiorare di nuove classi alla coltura, per l'egemonia esercitata
    da una lingua nazionale sulle altre ecc., e precisamente assume
    metaforicamente le parole delle civiltà e culture
    precedenti." Entrambe le citazioni sono riportate dal testo C.
    [26]
    Cfr. Lo Piparo (1979) ad esempio pag. 11. Lo Piparo utilizza
    erroneamente il termine nazional-popolare che non
    appartiene a Gramsci, il quale ha sempre utilizzato l'aggettivo
    composto nazionale-popolare, ma alla cosiddetta vulgata gramsciana
    inaugurata dalla presentazione di Togliatti. La differenza, per
    quanto possa sembrare pedantesca, ha invece delle conseguenze sia in
    ambito politico – da qui il chiaro intento interpretativo di
    Togliatti – sia per quanto riguarda la riflessione gramsciana sulla
    difficile definizione di "popolo" e "popolare" in un'epoca storica
    che si colloca tra il mito nazionale ottocentesco e la nascita di
    una cultura di massa.
    [27]
    Accanto alla tradizione ascoliana, altre importanti fonti sarebbero
    le teorie linguistiche "socioculturali e geografiche" dei
    francesi Gilliéron e Meillet. Queste derivazioni sono
    documentate nel saggio di Lo Piparo (in particolare in "Dal
    prestigio all’egemonia" pagg. 103-145), il quale ricorda come anche
    la critica all’esperanto condotta da Gramsci sull’ "Avanti!" e su
    "Il grido del popolo" riproponesse argomentazioni di questi
    linguisti.
    [28]
    Luigi Rosiello (1959 e 1970) aveva già osservato, tra
    l'altro, come la distinzione tra grammatica "normativa" e "immanente" inserisse Gramsci all'interno di quel corso di
    riflessione sulla lingua che dalle intuizioni di  Bréal
    porta alla ricerca strutturalista di Saussurre e alla sua
    classificazione di "langue" e "parole". Si vedano anche Amodio
    (1965) e Carrannante (1973).
    [29]
    Un' autorevole eccezione è rappresentata dai lavori di Tullio
    De Mauro (1979) e (1999).
    [30]
    Lo Piparo (1987). 
    [31]
    Ibid.
    [32]
    Ricordo la famosa definizione di Norberto Bobbio di Gramsci come
    "teorico delle superstrutture" che tanta fortuna ha
    avuto, proprio per la sua facilità di utilizzo in un tipo di
    discorso su Gramsci che allontani per quanto possibile il pensatore
    sardo dalla tradizione marxista o tra i sostenitori di un Gramsci
    idealista.
    [33]
    Un tentativo di ricomposizione, quello che potremmo chiamare un
    approccio globale a Gramsci, viene proposta invece
    nella Prefazione al testo di Lo Piparo da parte di Tullio De Mauro
    che si domanda quale sia stata l'importanza del rapporto tra parola
    e azione per lo sviluppo della riflessione linguistica in Gramsci e
    in particolare quale ruolo abbia svolto la sua esperienza di
    dirigente politico.
    [34]
    Si pensi ad esempio al particolare uso dei concetti importati dal
    marxismo o da altri ambiti che, una volta importati
    all'interno delle note carcerarie, acquistano un riferimento nuovo,
    senza però perdere quello originario, creando così un
    rapporto dialogico di rimando tra l'apparato concettuale dei
    Quaderni del carcere e l'altro sistema interpretativo. Si vedano a
    questo proposito i due saggi di Cospito sulla coppia concettuale di
    struttura e sovrastrutture, in cui lo studioso mostra, attraverso
    un'analisi diacronica dei Quaderni, come Gramsci metta in
    discussione progressivamente la connotazione di questi termini,
    creando così una nuova estensione di significati che va al di
    là, supera dialetticamente la tradizione marxista, da cui i
    termini erano stati presi.
    [35]
    In Problemi di metodo.
    [36]
    Anche questa è un’espressione usata da Gerratana.
    [37]
    Su questo punto si veda l’ultimo capitolo di questo questo lavoro
    dedicato al rapporto tra forma scritta e orale.
    [38]
    Si veda Introduzione ai Quaderni del carcere.
    [39]
    Più precisamente, portano il titoletto di "Linguistica", le
    note § 151 del Q 5 e § 71 del Q 6. In più ci sono
    altre due note,
    § 74 del Q 3 e § 20 del Q 6, rispettivamente con il titolo
    di rubrica "Giulio Bertoni e la linguistica" e "Quistioni di
    linguistica. Giulio Bertoni".
    [40]
    Si vedano i Quaderni di traduzioni.
    [41]
    La questione sarà poi affrontata nel Quaderno 29, come
    vedremo più avanti.
    [42]
     Da questa analisi sono per ora esclusi i quaderni di
    traduzioni.
    [43]
    (Q 82).
    [44]
    (Q 2237).
    [45]
    Cfr. Cospito (2000) e (2004).
    [46]
    Si tratta della "Fiera letteraria" del 15 gennaio 1928.
    [47]
    Questo è solo uno dei tanti riferimenti a Panzini nel corso
    dei Quaderni. 
    [48]
    (Q 299).
    [49]
    (Q 2218-2219).
    [50]
    Il concetto di "stenterellismo" si ritrova anche in altri passi dei
    Quaderni – mi premeva citarne almeno uno – e allude
    alla vacuità di una particolare forma di stile retorico.
    Proprio come Manzoni e i manzoniani pensavano di poter "colorare" di
    toscanismi l'italiano parlato per farne una lingua nazionale. Questo
    semplice e ironico riferimento alla maschera toscana cela una
    critica al distacco tra forma e contenuto nella lingua.
    [51]
    (Q 351).
    [52]
    (Q 352).
    [53]
    A questo proposito si veda la nota 68.
    [54]
    (Q 353).
    [55]
    Articolo contenuto nella rivista "Nuova Antologia" del 16 maggio
    1928.
    [56]
    (Q 355).
    [57] 
    In queste affermazioni gramsciane non è difficile riconoscere
    la polemica contro i neogrammatici e lo studio dell'origine
    della lingua.
    [58]
    (Q 366).
    [59]
    (Q 700).
    [60]
    Penso ad esempio alla riflessione su lingua, lingue e linguaggi
    svolta nella nota § 132 del Quaderno 9, dove Gramsci
    scrive: "L’espressione «verbale» ha un carattere
    strettamente nazionale-popolare-culturale; una poesia di Goethe,
    nell’originale, può essere capita e rivissuta solo da un
    tedesco; Dante può essere capito e rivissuto solo da un
    italiano colto   ecc. Una statua di Michelangelo, un brano
    musicale di Verdi, un balletto russo, un quadro di Raffaello ecc.
    può essere capito quasi immediatamente da qualsiasi cittadino
    del mondo, anche non cosmopolita, anche se non ha superato l’angusta
    cerchia   di una provincia del suo paese. Tuttavia questo
    è così solo in apparenza, superficialmente. L’emozione
    artistica che un giapponese o un lappone prova dinanzi a un quadro
    di Raffaello o ascoltando un brano di Verdi è una emozione
    artistica; lo stesso giapponese o lappone non potrebbe non restare
    insensibile e sordo se ascoltasse recitare una poesia di Dante, di
    Goethe, di Shelley; c’è quindi una profonda differenza tra
    l’espressione «verbale» e quelle delle arti figurative,
    della musica ecc. Tuttavia, l’emozione artistica del giapponese o
    del lappone dinanzi a un quadro di Raffaello o ad un brano musicale
    di Verdi non sarà della stessa intensità e calore
    dell’emozione artistica di un italiano medio e tanto meno di un
    italiano colto. Cioè accanto o meglio al di sotto
    dell’espressione di carattere «cosmopolita» del
    linguaggio musicale, pittorico ecc., «internazionale»,
    c’è una più profonda sostanza culturale più
    ristretta, più «nazionale-popolare»."
    [61]
    Su quest'ultimo tema si veda oltre nella trattazione del Quaderno
    29.
    [62]
    (Q 739).
    [63]
    (Q 1193).
    [64]
    Ma a questo proposito si veda la nota 68.
    [65]
    Cfr. i lavori di De Mauro e Lo Piparo. Quest’ultimo lo definisce „il
    meno letto“. Secondo Lo Piparo i Quaderni del
    carcere andrebbero riletti a partire da questo quaderno.
    [66]
    Cfr. Martinelli (1989).
    [67]
    Martinelli arriva a questa conclusione mettendo insieme una serie di
    dati. Prima di tutto la Guida, pubblicata la prima
    volta nel 1932, conobbe due ristampe l'anno seguente e in seguito
    una nel 1934, una nel 1935 ed infine una nel 1937. La  copia
    posseduta da Gramsci fa parte della prima ristampa del 1933. Dal
    momento che questa, come i "Quaderni di Formia" è priva dei
    contrassegni carcerari, se ne deduce che Gramsci deve averla
    ricevuta proprio in quel periodo, cioè tra il 1933 e il 1935.
    [68]
    Le note del Q 29 sono classificate nell'edizione critica di
    Gerratana come testi B, cioè di stesura unica. Questo
    è vero ad
    esclusione delle tre righe che si riferiscono a Bartoli
    (“L’innovazione del Bartoli è appunto questa, che dalla
    linguistica, concepita grettamente come scienza naturale, ha fatto
    una scienza storica, le cui radici sono da cercare ‘nello spazio e
    nel tempo’ e non nell’apparato vocale fisiologicamente inteso”) che
    più precisamente sarebbero un testo A nel Q 3 e un testo
    C  nel Q 29. L'osservazione al limite della pedanteria
    filologica può portarci a riflettere sul fatto che durante la
    stesura  dell'ultimo quaderno, redatto a diversi anni di
    distanza da quelli del primo gruppo e spesso considerato il
    più isolato dagli altri, Gramsci sia comunque ricorso ad una
    nota del Q 3, contestualmente alla definizione del suo professore di
    glottologia.  Ma se Gramsci ha dovuto materialmente riprendere
    in mano il Q 3, allora anche il riferimento all'articolo di Croce
    Questa tavola rotonda è quadrata contenuto nell'apertura del
    Q 29 è possibile che sia stato ripreso da questa nota, anzi
    è possibile  che Gramsci sia proprio andato a ricercare
    questa nota B (A) per iniziare a scrivere il Q 29 e in
    quell'occasione abbia ripreso  la descrizione di Bartoli. Se
    questo fosse vero, l'ipotesi di Martinelli potrebbe essere messa in
    discussione almeno in parte, perché la sollecitazione per la
    redazione del Q 29 non sarebbe esclusivamente esterna, cioè
    non arriverebbe solo con la lettura della Grammatica del Panzini, ma
    conoscerebbe anche uno sviluppo interno ai Quaderni. Si può
    cioè formulare un’ipotesi alternativa, in cui Gramsci avrebbe
    riletto la nota § 74 del Q 3 e avrebbe deciso di iniziare un
    nuovo quaderno con la nota sull'articolo di Croce.
    Contemporaneamente o addirittura in un secondo momento (anche solo
    logico, se non temporale), avrebbe inserito le osservazioni su
    Panzini.
    [69]
    Cfr. quanto detto sopra a proposito della lettera a Tania del 12
    dicembre 1927.
    [70]
    (Q 2343).
    [71]
    Ricordo che "Grammatica e tecnica" sarà anche il titolo della
    nota § 6.
    [72]
     (Q 2343).
    [73]
    (Q 2349).
    [74]
    Oltre all’impiego di metafore pittoriche e musicali, si veda anche
    il fenomeno dell’assorbimento delle virgolette, come
    indicato in Mordenti (1996).
    [75]
    Cfr. Nota 68.
    [76]
    Vedi sopra quanto detto a proposito della nota § 36 del Q 7.
    [77]
    Gli altri, lo ricordo, erano “una ricerca sulla formazione dello
    spirito pubblico in Italia nel secolo scorso", “uno studio sul
    teatro di Pirandello" e “un saggio sui romanzi di appendice e il
    gusto popolare in letteratura”.
    [78]
    Cfr. (Q. 113).
    [79]
    (Q 1889).
    [80]
    (Q 1891).
    [81]
    A Gramsci non sfugge l’opportunità di criticare anche in
    questo passo il Saggio popolare di sociologia, di cui auspica
    un’analisi delle singole affermazioni sulla base dei principi della
    logica formale.
    [82]
    Cfr. (Q 1892).
    [83]
    (Q 1893).
    [84]
    (Q 136).
    [85]
    Cfr. (Q 557).
    [86]
    Da notare che come soluzione alla difficoltà delle classi
    popolari ad avvicinarsi al sistema di scrittura ideografico,
    Gramsci propone l’introduzione di un sistema parallelo su base
    sillabica. Sappiamo invece che la storia della cultura cinese ha
    seguito un altro corso, non creando una nuova forma di scrittura
    facilitato, il che avrebbe forse permesso una comunicazione tra
    cultura alta e cultura popolare, almeno per gli scritti destinati ad
    una più larga diffusione, ma semplificando il sistema
    già esistente, cioè abbassando la complessità
    della cultura alta.
    [87]
    Nelle intenzioni di Gramsci la trattazione della cultura cinese non
    avrebbe dovuto avere solo questa funzione
    comparativa. Egli aveva in mente di scrivere una storia degli
    intellettuali cinesi che sarebbe dovuta diventare un capitolo 
    della più generale trattazione sulla storia degli
    intellettuali. Alcune note più sotto (§ 50) Gramsci
    butta giù i primi appunti di quello che sarebbe dovuto
    divenire un altro capitolo analogo, sulla storia degli intellettuali
    giapponesi. Anche in questo caso c’è un tentativo di
    comparazione tra Europa e Giapppone per quanto riguarda il rapporto
    tra religioni e culture nazionali.
    [88]
    (Q 1677).
    [89]
    (Q 1902).
    [90]
    (Q 1901-1902).
    
    *
    www.treccani.it 
Questione della lingua
    
    di Claudio Marazzini
    
    1. Definizione, origine e limiti
    
    Per contrastare l’interpretazione riduttiva della questione della
    lingua, considerata come un dibattito sulle varie denominazioni
    fiorentino, toscano, lingua comune o italiano, cioè
    equiparata a un’oziosa disputa nominalistica, si può
    ricordare il parere di Antonio Gramsci:
    Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la quistione della
    lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi:
    la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la
    necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri
    tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di
    riorganizzare l’egemonia culturale (Quaderni del carcere, Quaderno
    29, § 3)
    Gramsci, in questa riflessione, si riferiva soprattutto alle tesi
    di  Alessandro Manzoni, che collegava al dibattito della prima
    metà del Novecento. Poco oltre affermava (ibid.: § 7)
    che il De vulgari eloquentia di  Dante era da intendere come un
    atto di politica culturale-nazionale (pur nel senso che la parola
    nazionale aveva al tempo di Dante), e che «un aspetto della
    lotta politica è stata sempre quella che viene chiamata ‘la
    quistione della lingua’che da questo punto di vista diventa
    interessante da studiare». Essa, nell’interpretazione di
    Gramsci, era consistita nella «reazione degli intellettuali
    allo sfacelo dell’unità politica» e «alla
    disintegrazione delle classi economiche e politiche», al fine
    di «conservare e anzi rafforzare un ceto intellettuale
    unitario, la cui esistenza doveva avere non piccolo significato nel
    Settecento e Ottocento (nel Risorgimento)».
    Collocandosi a mezza strada tra l’affascinante interpretazione
    integralmente ‘politica’ di Gramsci e quella nominalistica
    riduttiva, è possibile affermare che la questione della
    lingua è in sostanza il lungo dibattito attorno alla norma e
    all’identità dell’italiano, quale si è concretizzato
    nella trattatistica, da Dante in poi (in questa forma la materia
    è stata trattata in Vitale 1978, che è il riferimento
    specifico più autorevole; si veda anche Marazzini 2009), e
    quale ancora si svolge non di rado anche oggi, quando si riapre in
    qualunque modo la discussione su temi come: i destini dell’italiano,
    i suoi caratteri costitutivi, il suo ruolo di lingua ufficiale o
    nazionale, la lingua nella scuola, i rapporti con i dialetti, con le
    lingue di minoranza o con le lingue straniere. Vi rientrano le
    relazioni tra italiano e fiorentino, la definizione della 
    norma linguistica (anche le questioni di grafia e i tentativi di
    riforma ortografica;  ortografia), la distanza maggiore o
    minore che si vuole interporre tra scritto e parlato ( lingua
    parlata;  lingua scritta), l’uso della lingua antica o la
    preferenza per la modernità, l’adozione o il rifiuto di
    novità lessicali ( neologismi), il rapporto tra uso
    letterario e uso corrente della lingua ( storia della lingua).
    Le ragioni di un dibattito così ampio stanno in parte nella
    natura stessa della lingua, al di là della specificità
    italiana, perché sempre e dovunque esistono differenze tra
    scritto e parlato, ed è normale che il livello elevato,
    letterario e colto, si contrapponga all’uso corrente. Tuttavia,
    alcune ragioni del dibattito sono da ricondurre alle caratteristiche
    specifiche della storia d’Italia, paese in cui la lingua si è
    splendidamente sviluppata in assenza di uno Stato politico, come
    strumento pressoché esclusivo di una comunità di dotti
    e di letterati. I rapporti con il popolo, nella sua complessa
    stratificazione sociale, si sono resi necessari solo quando
    già esisteva una possente tradizione letteraria. Da
    ciò emerge quanto possa essere vasta la questione della
    lingua, intesa nella sua valenza letteraria e sociale, e come possa
    costituire parte rilevante dell’intera storia nazionale (non solo di
    quella linguistica), in riferimento alle idee sulla lingua, alla
    politica scolastica, oltre che alle scelte di intellettuali e
    scrittori messe in atto per fini d’arte. In gran parte, comunque, la
    definizione di questione della lingua si applica a un dibattito
    teorico, e potrebbe essere rimpiazzata dall’espressione teorie sulla
    lingua italiana (cfr. Marazzini 1993;  storia della linguistica
    italiana).
    Va precisato, infine, che la questione della lingua non è
    esclusiva dell’Italia. Basti pensare alla Francia, dove prese corpo
    nel Cinquecento il tentativo di vantare la (supposta) vicinanza del
    francese al greco, dove l’Académie française assunse
    la funzione di istituto garante e custode della lingua, dove si
    identificò la buona lingua nel miglior uso della corte reale,
    e dove poi alcune teorie settecentesche attribuirono alla
    costruzione sintattica del francese il primato universale della
    razionalità logica, dunque il primato sulle altre lingue. La
    Francia fu anche il paese in cui si crearono le basi del cosiddetto
    giacobinismo linguistico, avverso alle parlate locali.
    Un altro confronto interessante può essere istituito con la
    Grecia, un paese costretto a fare i conti, a partire
    dall’indipendenza ottenuta nell’Ottocento, con una grande
    tradizione: qui la questione della lingua si è sviluppata nel
    confronto tra la katharèvousa, la lingua «pura»,
    arcaica, simile al greco antico, e la lingua popolare, la
    dimotikì, esito normale della koinè ellenistica. Lo
    scontro tra i fautori delle due diverse soluzioni è stato
    talora molto forte, fino al prevalere della lingua popolare, per
    decisione politica, nel 1976, al momento della proclamazione della
    nuova Repubblica.
    Dunque, anche in altre nazioni si è discusso di lingua.
    Tuttavia in Italia il dibattito si è caratterizzato per la
    maggior durata e per la speciale vitalità, almeno a partire
    dal Cinquecento. Quanto alla data di inizio, può esser
    giudicato discutibile l’inserimento nella questione della lingua
    delle teorie di Dante esposte nel De vulgari eloquentia, non per la
    pertinenza dei contenuti, innegabile, ma per la semplice ragione che
    l’opera non suscitò un dibattito, in quanto non risulta abbia
    avuto interlocutori, almeno fino al XVI secolo. Quanto alle
    discussioni tra umanisti a proposito dell’origine del volgare e
    delle sue eventuali possibilità di miglioramento qualitativo
    ( Umanesimo e Rinascimento, lingua dell’), esse possono forse essere
    assunte come punto di avvio della questione della lingua,
    perché vertono sul confronto tra italiano e latino, quindi
    segnano la prima definizione delle qualità che si richiedono
    al volgare per raggiungere la perfezione. Anche Dante aveva
    confrontato volgare e latino, soppesando i vantaggi dell’uno e
    dell’altro, ma, come si è detto, la sua posizione è
    quella di un gigante solitario, mentre la questione della lingua,
    per essere tale, richiede un dibattito, la cui pienezza si raggiunse
    appunto nel primo Cinquecento, secolo che, assieme all’Ottocento,
    rappresenta il momento culminante di queste discussioni.
    
    2. La questione della lingua nel Cinquecento
    
    Le Prose della volgar lingua di  Pietro Bembo, pubblicate nel
    1525, sono il libro in cui meglio si valuta il confronto fra le
    diverse teorie linguistiche che allora si fronteggiavano.
    Occorre tuttavia premettere che la discussione sulla ‘lingua
    migliore’ aveva investito in precedenza il latino, e ciò
    costituisce una fondamentale premessa. Già nel Quattrocento,
    Paolo Cortese aveva avuto una disputa con il  Poliziano,
    fautore di un modello stilistico eclettico che attingeva ad autori
    latini di varie epoche. Cortese, per contro, fissò alcuni
    punti della teoria dell’imitazione dello stile ciceroniano. Pietro
    Bembo, prima di essere protagonista della questione della lingua per
    l’italiano, discusse con Giovanni Pico della Mirandola sul modello
    da adottare per la lingua latina. Pico, allievo del Poliziano, era
    sostenitore di uno stile eclettico; Bembo, per contro, indicava due
    modelli a cui attenersi in maniera sostanziale, se non proprio
    esclusiva: Cicerone e Virgilio, l’uno per la prosa, l’altro per la
    poesia.
    Veniva proposta insomma, in riferimento alla lingua latina, la
    cosiddetta teoria dell’imitazione, poi applicata da Bembo al
    volgare, indicando come modelli  Francesco Petrarca per la
    poesia e  Giovanni Boccaccio per la prosa. Al terzo modello,
    cioè a Dante, Bembo rimproverava l’uso di un lessico basso,
    ovvero la caduta stilistica, che in Petrarca non si era verificata
    mai. Anche Boccaccio aveva adoperato, in certe parti del Decameron
    (per es. quelle dialogiche) un linguaggio meno elevato, ma Bembo
    invitava a considerare non i passi in cui c’era il rischio della
    mimesi di parlato, ma quelli in cui lo stile era più alto,
    come la cornice della raccolta. Inoltre ammetteva che la prosa
    potesse tollerare la varietà linguistica meglio della poesia.
    Indubitabile è la propensione di Bembo per quello che oggi
    definiremmo il  monolinguismo petrarchesco, e questa preferenza
    determinò una concezione classicistica e arcaicizzante della
    lingua, contraria a ogni contaminazione col parlato e
    l’espressività popolare. Di fronte all’obiezione che in
    questo modo, staccandosi dalla contemporaneità e facendo
    riferimento al Trecento, si rischiava di parlare la «lingua
    dei morti», Bembo, per bocca del fratello Carlo (il quale,
    nelle Prose, è portavoce delle idee dell’autore), rispondeva
    che parlava con i morti chi si affidava alla lingua contemporanea,
    di per sé effimera, mentre la perfezione dei modelli antichi
    garantiva la comunicazione con i posteri, cioè la lunga
    durata temporale. Parlare, in questa accezione, significava
    trasmettere un messaggio letterario, secondo una rigida e austera
    concezione classicistica della lingua, per la quale la letteratura
    ‘alta’ è l’unico momento che meriti davvero attenzione e
    rispetto. Questa è la sostanza più profonda della
    teoria arcaicizzante di Bembo, fondata sul primato dell’imitazione
    del canone trecentesco delle Tre Corone.
    Di per sé, l’identificazione dei modelli nelle Tre Corone non
    era un fatto inusitato. Il primo grammatico dell’italiano, Giovanni
    Francesco Fortunio, aveva composto le proprie Regole (1516)
    utilizzando gli stessi modelli, seppure mostrando la massima
    disponibilità nei confronti di Dante. Quanto all’idea che la
    letteratura avesse in sé la capacità di nobilitare la
    lingua, riscattandola da eventuali difetti di origine, un’analoga
    concezione era stata esposta nel Quattrocento da  Leon Battista
    Alberti, e anche dal Poliziano, nell’Epistola aragonese (
    grammatica). Nelle Prose di Bembo, però, la teoria
    linguistica è collocata nel contesto di un’esposizione
    sistematica molto più completa e rigorosa. Inoltre nelle
    Prose venivano passate accuratamente in rassegna tutte le teorie
    linguistiche dell’epoca, per quanto con spirito di parte, allo scopo
    di far emergere come vincente la tesi fiorentinista arcaicizzante
    nella quale l’autore riponeva la massima fiducia. Le teorie con le
    quali si misurava erano tre: (a) quella della superiorità del
    latino; (b) quella detta cortigiana ( cortigiana, lingua); (c) la
    fiorentinista o toscanista dell’uso vivente.
    Di esse, la prima era la meno difficile da avversare, perché
    nel 1525, data di pubblicazione delle Prose, essa aveva ormai perso
    mordente, visto che il volgare progrediva e otteneva successi.
    Quanto alla teoria cortigiana, buona parte delle notizie che abbiamo
    su di essa vengono proprio da Bembo, cioè sono trasmesse da
    un avversario. Tale teoria, infatti, era stata sostenuta da Vincenzo
    Calmeta in un’opera che non ci è giunta. La teoria cortigiana
    è stata definita perciò un fantasma. Più di
    recente, ben due libri hanno cercato di eliminare la designazione,
    ormai consolidata, di teoria fantasma (cfr. Drusi 1995 e Giovanardi
    1998). Senza dubbio la teoria cortigiana trovava rispondenza
    nell’uso linguistico di  koinè delle corti tra
    Quattrocento e Cinquecento, che era dettato però da esigenze
    pratiche, senza pretese di coerenza e senza obbedire a una teoria
    sistematica.
    Di recente è stato ritrovato un sunto del perduto libro di
    Vincenzo Colli detto il Calmeta, Della volgar poesia, stilato da
    Ludovico Castelvetro, il quale aveva contestato il modo con cui
    Bembo aveva esposto le tesi del Calmeta. Nella sintesi di
    Castelvetro, la teoria cortigiana pare meno antitetica rispetto alle
    teorie di Bembo, perché anche in essa ha parte l’imitazione
    delle Tre Corone. Il Calmeta aveva fatto speciale riferimento
    all’uso della corte di Roma, il cui carattere cosmopolitico dava
    luogo a una realtà linguistica non provinciale. Aveva parlato
    della corte di Roma anche Mario Equicola, un altro sostenitore della
    teoria cortigiana, mentre  Baldassarre Castiglione, nel
    Cortegiano, aveva propugnato una lingua non solo toscana, ma comune,
    lontana dall’affettazione di arcaismi, non limitata all’imitazione
    di Petrarca e Boccaccio, anche se non ostile ad accogliere i
    toscanismi accettati dalla tradizione. Si può dunque
    ammettere che Bembo, nella propria esposizione, radicalizzasse
    alcuni aspetti della teoria cortigiana a scopo polemico e
    dialettico. Bembo aveva interpretato la teoria del Calmeta come
    riferimento all’uso dei cortigiani romani, non certo a quello del
    popolo della città, ma aveva condannato questa lingua, in
    quanto, per suo status naturale, gli pareva priva di
    omogeneità, nata da «mescolamento», mancante di
    «certa e ferma regola» proprio a causa della
    varietà degli usi, oltre che per la varietà delle
    corti. Per quanto gli studiosi di oggi si siano impegnati a mostrare
    la rispondenza tra lingua cortigiana e lingua di koinè, e per
    quanto la lingua di koinè adottasse soluzioni in parte
    omogenee anche in luoghi geografici diversi, non è difficile
    riconoscere la distanza abissale rispetto al rigore della soluzione
    bembiana, che non accettava di far riferimento a un uso localizzato,
    a un ambiente reale di conversazione quale era la corte, né
    poteva ridurre l’imitazione delle Tre Corone a un fatto casuale e
    non sistematico. Oltre al resto, Bembo non amava i crudi latinismi
    grafici e lessicali di cui la lingua cortigiana faceva largo uso. Di
    fatto, la teoria cortigiana, fantasma o no, fu spazzata via dalle
    tesi bembiane.
    Cosa diversa dalla teoria cortigiana è quella della lingua
    comune italiana, esposta da  Gian Giorgio Trissino. Contro di
    lui non vi è polemica nelle Prose di Bembo, perché le
    opere di Trissino sulla questione della lingua furono pubblicate
    più tardi, attorno al 1529: sia il dialogo Il castellano (che
    prende il nome dal fatto che nel dialogo compare, come portavoce
    delle idee dell’autore, Giovanni Rucellai, comandante di Castel
    Sant’Angelo, fortezza papale in Roma), sia la traduzione del De
    vulgari eloquentia di Dante. In larga parte la teoria di Trissino si
    fondava sul libro di Dante, nel quale quasi tutti i volgari italiani
    erano condannati, in particolare il toscano, e in cui si auspicava
    la formazione di una lingua italiana sovraregionale. Nella
    trattazione di Trissino, svolta discendendo dal generale al
    particolare, con un procedere logico di matrice aristotelica, ha
    sicuramente parte un certo nominalismo, perché la discussione
    si concentra proprio sul nome della lingua, prima ancora che sui
    suoi caratteri, ma si riesce a cogliere anche la sostanza della
    discussione, perché Trissino ritiene inaccettabili toscanismi
    come testé, costì, costinci, cotesto, guata, allotta,
    suto, e non si fonda affatto, a differenza di Bembo, su una rigida
    teoria dell’imitazione. Inoltre la teoria di Trissino apre la strada
    ai sostenitori della legittimità del contributo regionale al
    lessico, cioè a coloro che avrebbero voluto aprire la lingua
    letteraria a parole non toscane (come il grammatico piemontese
    Matteo di San Martino). La teoria italianista di Trissino è
    comunque cosa diversa da quella cortigiana con cui si misurò
    Bembo, la quale traeva le sue ragioni dalla situazione delle corti
    tra Quattrocento e Cinquecento.
    L’altra tesi con cui si confrontò Bembo è quella
    secondo la quale i fiorentini sarebbero stati i naturali portatori
    della lingua più «vaga e gentile». La
    confutazione del primato fiorentino palesa il contenuto marcatamente
    classicistico della tesi bembiana, perché la maggior
    naturalezza della parlata dei fiorentini era un fatto talmente
    evidente da non poter essere messo in discussione. Tuttavia Bembo
    obiettò che proprio la maggior naturalezza nascondeva il
    rischio di una contaminazione con gli elementi popolari della
    lingua, rischio da cui i non toscani erano più facilmente
    immuni, visto che studiavano il volgare come un idioma artificiale.
    La tesi può sconcertare noi moderni, ma è
    assolutamente coerente con il pensiero di Bembo, e anzi ci aiuta a
    metterne a fuoco la splendida inattualità rispetto alle
    nostre concezioni.
    Per molto tempo le posizioni bembiane, ovunque trionfanti
    (influenzarono persino la Chiesa;  Chiesa e lingua), destarono
    solo reazioni negative a Firenze, dove pareva inammissibile che un
    forestiero (Bembo era un patrizio veneziano) si fosse permesso di
    dare le regole del volgare toscano. Si tenga presente che la
    posizione dominante a Firenze (a parte alcuni isolati consensi alla
    teoria di Trissino) accordava assoluta fiducia al primato locale,
    così come appare nel Discorso o Dialogo di 
    Niccolò Machiavelli (opera che però rimase inedita), o
    come mostra Carlo Lenzoni nella Difesa della lingua fiorentina (cfr.
    Pozzi 1988: 369-371), là dove introduce Machiavelli a
    spiegare a certo Messer Maffio, un interlocutore veneto, quanto sia
    ridicola la pretesa dei non fiorentini di insegnare il toscano ai
    toscani, così come sarebbe stato altrettanto ridicolo che un
    toscano, avendo appreso il veneziano per via libresca, avesse
    preteso di insegnarlo ai veneziani.
    La conciliazione tra le idee di Bembo e il punto di vista fiorentino
    si ebbe solo con l’Ercolano di  Benedetto Varchi (pubblicato
    postumo nel 1570), ampio trattato in cui la questione della lingua
    è svolta nel contesto di una concezione totale della lingua,
    della sua storia, del suo funzionamento. Varchi seppe riportare
    l’attenzione sulla vivacità e dignità del parlato,
    evidenziando le qualità del fiorentino vivo e vanificando
    allo stesso tempo l’austero rigore delle Prose. L’Ercolano, pur
    tributando a Bembo il massimo elogio, ne tradì abilmente
    l’insegnamento, sancendo il principio dell’autorità
    ‘popolare’ (seppure mai troppo bassa, ma piuttosto di tono medio) la
    quale doveva affiancare con vantaggio i grandi scrittori. Firenze
    poté così candidarsi nuovamente alla guida e al
    controllo della lingua, dopo che il successo della teoria bembiana
    le aveva tolto il primato. Successivamente, la cultura linguistica
    fiorentina, con  Lionardo Salviati, proseguì
    nell’operazione di snaturamento della teoria bembiana. A lui si deve
    l’ideazio-ne del canone che portò nel 1612 al vocabolario
    della Crusca ( accademie nella storia della lingua). Salviati
    collocò, accanto ai tre grandi del Trecento, una serie di
    autori minori e minimi, spesso di livello popolare, modestissimi per
    qualità d’arte, trasformando completamente la teoria di
    Bembo, la quale non era fondata sul pregio dell’arcaismo in
    sé e per sé, cioè sul mito dell’antico, ma
    sull’oggettiva constatazione del valore letterario. Tra le due
    posizioni passa la differenza che distingue il  classicismo
    dal  purismo, che è invece fondato sulla nostalgia del
    passato linguistico, al quale viene attribuita la perfezione. Con
    Salviati e con la Crusca, tuttavia, furono superate le posizioni
    simili a quelle di Giovan Battista Gelli, esposte nel dialogo
    pubblicato assieme alla grammatica di Pierfrancesco Giambullari, nel
    1551: in questo dialogo si indicava la difficoltà di dare
    regole a una lingua vivente quale il fiorentino, in perenne
    evoluzione. Gelli aveva attribuito gran valore all’uso, ma in questo
    modo diventava impossibile la creazione di strumenti normativi
    affidabili, quali il pubblico italiano desiderava possedere e dei
    quali aveva necessità. Anche per questo la teoria
    fiorentinista modernista aveva avuto difficoltà ad imporsi,
    mentre il bembismo aveva potuto trionfare.
    
    3. Dal Seicento a Manzoni
    
    La Crusca, con l’autorevole vocabolario del 1612, ristampato due
    volte nel XVII secolo e un’altra nel XVIII ( lessicografia),
    invertì la tendenza: Firenze riebbe la piena autorità
    normativa; a conferma di ciò, vediamo realizzata a Firenze
    nel XVII secolo una delle più complete grammatiche, quella di
    Benedetto Buonmattei.
    La questione della lingua, dopo la pubblicazione del Vocabolario
    degli Accademici della Crusca, finì per gravitare
    essenzialmente attorno al dibattito pro o contro il vocabolario.
    L’autorità di Firenze fu in sostanza la questione principale
    su cui si discusse di lì in poi. Lo si fece non solo
    contrapponendo al fiorentinismo le posizioni italianiste o
    cortigiane che già abbiamo visto nel Cinquecento, sovente
    collegate al ricordo delle varietà del greco antico, ma
    talora anche avversando il primato fiorentino in nome di un
    più generico toscanismo, o vantando i meriti di un’altra
    città toscana, Siena.
    Siena aveva una propria tradizione di lingua e di studi linguistici,
    già avviata da Claudio Tolomei nel Cinquecento, continuata
    nel Seicento da Celso Cittadini. All’inizio del Settecento, Gerolamo
    Gigli (che fu anche curatore degli scritti di Cittadini)
    preparò un Dizionario cateriniano (un lessico delle parole di
    santa Caterina da Siena) in cui diede libero sfogo a dissacranti
    sbeffeggiamenti contro la Crusca e contro la lingua fiorentina, i
    cui difetti erano emblematicamente rappresentati dal fenomeno
    della  gorgia toscana (a Siena molto più tenue),
    anch’essa abilmente ridicolizzata. Lo stesso Granduca di Toscana
    chiese allora che Gigli fosse punito: fu in effetti bandito da Roma,
    dove si trovava; costretto alla pubblica ritrattazione, si ridusse
    in miseria. Nel 1717 il Dizionario cateriniano, non ancora giunto
    alla fine della stampa (si era alla lettera R), fu bruciato in
    piazza: è il caso più celebre in Italia di repressione
    nei confronti di un vocabolario, e di uno strumento linguistico in
    particolare. Mai la questione della lingua aveva avuto effetti
    così severi.
    Senza dubbio molti tra i più illuminati e celebri letterati
    italiani del Seicento ( età barocca, lingua dell’) e del
    Settecento ( Settecento, lingua del) furono avversi al fiorentino e
    alle idee della Crusca, la quale, fra l’altro, si era resa
    responsabile dell’esclusione dal novero degli autori spogliati
    di  Torquato Tasso, accolto solo nella terza edizione. Tra
    costoro, si possono citare Paolo Beni, Giambattista Marino, Emanuele
    Tesauro, Alessandro Tassoni, padre Daniello Bartoli, quest’ultimo
    molto attento a verificare le ragioni pretestuose che stanno a volte
    dietro i perentori divieti dei grammatici, dietro i loro recisi ma
    infondati ‘non si può’. Con il passare del tempo, le
    posizioni della Crusca apparvero via via più anacronistiche,
    senza che tuttavia si allestissero strumenti normativi diversi. Il
    Vocabolario della Crusca, con il suo rigido fiorentinismo e la sua
    impostazione arcaicizzante, continuò a fare testo, seppure
    ampliato nelle successive edizioni. Nessuno riuscì a
    rimpiazzarlo, anche quando il nizzardo Alberti di Villanova
    stampò tra il 1797 e il 1805 un dizionario ideato con spirito
    illuministico, attento alla terminologia delle arti e dei mestieri
    ben più di quanto fosse stata la Crusca, la quale aveva
    sempre voluto tenersi distante dal rischio del cosiddetto
    nomenclatore, come chiamava il repertorio del lessico tecnico. La
    rivoluzione, o meglio la liberazione dai canoni cruscanti, non
    poté dirsi allora compiuta. Ad Alberti fu impedito di dare
    alle stampe la sua opera a Firenze, come avrebbe voluto: dovette
    ripiegare su Lucca. Inoltre Alberti aveva certamente arricchito il
    vocabolario, ma la base restava pur sempre il repertorio della
    Crusca.
    Nel dibattito teorico (se ne vedano i principali documenti in Puppo
    196611), molti illuministi furono particolarmente aggressivi verso
    la Crusca: così Carlo Denina (che aveva finito per voltare le
    spalle alla lingua italiana), così i redattori della rivista
    milanese «Il Caffè», e in particolare Alessandro
    Verri, autore di una provocatoria e sarcastica Rinunzia avanti
    notaio al Vocabolario della Crusca. Ma la migliore, più
    completa e più meditata presa di posizione settecentesca
    nella questione della lingua, estranea al radicalismo un po’
    superficiale di Verri, è senz’altro quella di 
    Melchiorre Cesarotti nel Saggio sulla filosofia delle lingue, che si
    conclude con la proposta di un Consiglio nazionale della lingua da
    istituire a Firenze al posto della Crusca, con l’apporto di
    intellettuali di tutte le regioni italiane. Cesarotti era aperto non
    solo all’accrescimento del lessico tecnico, ma anche ai dialetti,
    oltre che ai prestiti forestieri.
    Il Saggio di Cesarotti, così disponibile alle novità e
    così equilibrato, cadde in un contesto assai sfavorevole, che
    ne vanificò il possibile effetto benefico sulla cultura
    italiana. Infatti l’invadente primato politico-militare francese
    degli anni rivoluzionari e napoleonici ebbe come conseguenza una
    diffusa ostilità nei confronti di ogni apertura verso il
    prestito dalle lingue straniere e verso la lingua francese in
    particolare (si pensi al misogallismo di  Vittorio Alfieri o al
    trattato di Gian Francesco Galeani Napione Dell’uso e dei pregi
    della lingua italiana, che, puntando alla definitiva
    italianizzazione del Piemonte, vantava i pregi dell’italiano
    rispetto al francese). Si affermò sempre di più
    un’affezione fanatica per la tradizione italiana. In mancanza di
    unità politica, ci si abbarbicò alla gloriosa lingua
    antica, carica di valore simbolico, e ciò determinò un
    rinnovato amore per il Trecento. Fiorì allora la stagione
    del  purismo, ben rappresentato al Sud da Basilio Puoti (che fu
    ottimo maestro di allievi famosi, come Francesco De Sanctis), al
    Nord dal padre Antonio Cesari e dalla sua Crusca Veronese,
    realizzata a Verona, ma più intensamente cruscante della
    stessa Crusca fiorentina, quest’ultima già variamente
    riproposta nel corso del Settecento in molte ristampe non ufficiali,
    in particolare a Venezia e a Napoli. Padre Cesari, con la
    Dissertazione sopra lo stato presente della lingua italiana,
    divulgò il culto del Trecento, epoca in cui tutti (a suo
    parere) avevano avuto il merito di scrivere bene, colti o ignoranti
    che fossero.
    I romantici si occuparono di lingua facendo proprie alcune posizioni
    del Settecento illuminista e sensista (così Ludovico di
    Breme), ma con vivacità minore rispetto ai classicisti. Si
    sviluppò anche, tra romantici e classicisti, una polemica sui
    dialetti, nella quale non tutti gli argomenti dei classicisti sono
    da considerare reazionari: Carlo Porta attaccò in una serie
    di poesie Pietro Giordani, il quale riconosceva nei dialetti un
    ostacolo alla comune circolazione delle idee (la polemica aveva un
    precedente settecentesco nella disputa tra Giuseppe Parini e padre
    Paolo Onofrio Branda). Quanto al purismo, il vero fustigatore di
    questa dottrina, «così debolmente e sgraziatamente
    presentata e così vigorosamente combattuta», eppure
    destinata a «così lunga fortuna in Italia»
    (Dionisotti 1971: 121), fu il classicista  Vincenzo Monti,
    all’apice della celebrità, il quale si dedicò alla
    direzione e al coordinamento di quella grande impresa, pubblicata in
    molti volumi, che va sotto il titolo di Proposta di correzioni e
    aggiunte al Vocabolario della Crusca (1817-1826), conclusione della
    sua lunga attività di letterato. In questa impresa furono
    coinvolti altri studiosi: Giulio Perticari, Giuseppe Grassi, Amedeo
    Peyron. La polemica contro Cesari (definito privatamente da Monti
    come il «grammuffastronzolo di Verona»), poi estesa al
    Vocabolario della Crusca, raggiunge negli scritti di Monti
    un’intensità inusitata, talora con toni comico-satirici che
    richiamano le più vivaci dispute cinquecentesche, ad es.
    quella tra Annibale Caro e Ludovico Castelvetro.
    
    4. Dall’Unità alla metà del Novecento
    
    Il purismo fu combattuto non solo dai classicisti, ma anche da 
    Alessandro Manzoni, le cui teorie rappresentano il risultato
    più profondo della riflessione linguistica dei romantici, con
    un esito che il primo Romanticismo non avrebbe fatto supporre. Nel
    1825-1827 Manzoni diede alle stampe la prima edizione dei Promessi
    sposi, nel 1840-1842 la seconda, rivista nella forma linguistica per
    renderla aderente al fiorentino vivo, nel quale giunse a riporre
    tutta la propria fiducia. In mezzo sta il soggiorno a Firenze, che
    gli consentì di consultare con larghezza parlanti nativi
    toscani.
    Si noti che Manzoni, a differenza di altri cultori della parlata
    toscana, non guardava al fiorentino rurale, conservativo e arcaico,
    ma alla parlata della classe colta della città di Firenze: la
    sua propensione per l’ambiente urbano è significativa, e lo
    differenzia, per es., da  Niccolò Tommaseo o da padre
    Giambattista Giuliani. Alcuni scritti teorici danno conto della
    posizione finale assunta da Manzoni, per es. la lettera al
    lessicografo Giacinto Carena del 1847. Ma l’occasione della svolta
    per il dibattito sulla questione della lingua fu l’incarico affidato
    a Manzoni nel 1868 dal ministro Emilio Broglio perché
    presiedesse la doppia commissione (milanese e fiorentina) incaricata
    di «ricercare e di proporre tutti i provvedimenti e i modi coi
    quali si possa aiutare e rendere più universale in tutti gli
    ordini di popolo la notizia della buona lingua e della buona
    pronunzia» ( scuola e lingua). La commissione non raggiunse
    l’accordo perché la sottocommissione fiorentina non
    aderì alle tesi di Manzoni: questi pubblicò la propria
    Relazione sull’unità della lingua nello stesso 1868. Questa
    volta la richiesta di intervento era venuta da un ministro dello
    Stato unitario, e il dibattito non riguardava le scelte di un
    singolo scrittore o di un gruppo di letterati, ma il popolo
    dell’intera nazione da poco unificata. La Relazione del 1868
    provocò un dibattito vivace, perché proponeva
    l’adozione del fiorentino vivo come lingua da divulgare attraverso
    l’insegnamento scolastico. Le obiezioni richiamavano le annose
    polemiche sul tema: chi difendeva i diritti della lingua letteraria,
    chi voleva estendere la funzione di lingua nazionale al toscano
    (andando oltre al solo fiorentino). Si noti che Firenze era allora
    capitale provvisoria, in attesa di Roma, ancora sotto i papi. Anche
    la questione romana si legò alla questione della lingua,
    perché v’era motivo di supporre che la nuova capitale, una
    volta divenuta italiana, avrebbe influito sullo sviluppo della
    lingua nazionale.
    Questa era anche l’opinione di  Graziadio Isaia Ascoli, il
    fondatore della scienza glottologica italiana, il quale intervenne
    contro la soluzione manzoniana nel Proemio al primo fascicolo
    dell’«Archivio Glottologico Italiano», la rivista che
    aveva appena fondato. Il Proemio, scritto nel 1872 e pubblicato nel
    1873, fu la più forte risposta alle teorie di Manzoni. La via
    indicata da Ascoli si differenziava da tutte le altre, perché
    non presupponeva una lingua-modello a cui fare riferimento, non
    contrapponeva al toscano di Manzoni un’altra lingua, anche se
    considerava favorevolmente il contributo delle regioni al comune
    idioma nazionale. Ascoli riteneva che lo sviluppo culturale e
    sociale della nazione avrebbe portato in modo naturale
    all’unificazione linguistica (anche Luigi Settembrini aveva scritto
    che «il pensiero fa la lingua, non la lingua fa il
    pensiero», e aveva concluso: «Se volete una buona
    lingua, dovete prima fare una buona Italia»; cfr. Marazzini
    1977: 62-65). Al modello centralistico di Manzoni (che si era
    ispirato alla funzione di Parigi e di Roma antica) veniva
    contrapposto un modello policentrico, e la lingua non era
    considerata una premessa, bensì una conseguenza dello
    sviluppo politico-sociale. Il salto era notevole, e non può
    essere attenuato da interpretazioni edulcorate del pensiero
    ascoliano (come quella di Francesco D’Ovidio). La tesi di Ascoli, in
    ogni modo, non fu mai popolare. Semmai la popolarità maggiore
    toccò a interpretazioni facilitate del manzonismo, come
    quella di Edmondo De Amicis nell’Idioma gentile (1905), libro che
    divulgò la terminologia domestica toscana e diffuse
    largamente l’apostolato toscanista anche tra gli educatori. A sua
    volta, l’Idioma gentile fu soggetto alla severa critica di 
    Benedetto Croce, che respinse ogni idea di lingua-modello in nome
    della libera espressività individuale.
    Toscanismo e fiorentinismo continuarono a essere operanti anche
    nella prima metà del Novecento, nonostante il prestigio del
    pensiero crociano e l’autorità di Ascoli. Successivamente
    all’unificazione italiana, si manifestarono novità nella
    politica linguistica, che ora assumeva il carattere di politica
    culturale nazionale, con qualche punta autoritaria. Si
    profilò una certa avversione ai dialetti e alle lingue di
    minoranza, anche prima che il fascismo accentuasse queste tendenze (
    fascismo, lingua del). Nello stesso tempo, però, i dialetti
    venivano anche utilizzati come strumento di accesso alla lingua
    italiana, almeno in alcuni esperimenti ai quali non erano estranei i
    suggerimenti forniti da Ascoli, fin dal 1874, al IX congresso
    pedagogico italiano.
    Si è accennato alla ‘parte di Roma’ nella questione della
    lingua. Il ruolo della capitale aveva destato aspettative e
    risvegliato gli animi negli anni attorno al 1870 (cfr. Marazzini
    1978). La situazione dell’italiano, ora lingua di una nazione
    organizzata e moderna, è rivelata anche dal rinnovato
    interesse per la pronuncia. Nel 1939, Giulio Bertoni e Francesco
    Alessandro Ugolini affrontarono il tema dell’ortoepia nel Prontuario
    di pronunzia e di ortografia destinato a diventare strumento
    ufficiale dell’EIAR, l’ente radiofonico di Stato ( radio e
    lingua;  pronuncia). In questa occasione la variante romana,
    divergente da quella di Firenze (nei casi di apertura vocalica
    diversa, come fedèle/fedéle,
    léttera/lèttera, ecc.), fu registrata e proposta come
    la pronuncia ‘dell’avvenire’ (più tardi, nel 1945, sul tema
    intervenne anche Bruno Migliorini, con il libretto Pronunzia
    fiorentina o pronunzia romana?, che conteneva un dialogo e una
    rassegna delle divergenze tra Firenze e Roma, con vari riferimenti
    all’uso di altre città toscane;  neopurismo).
    Durante il fascismo ( politica linguistica), la lingua italiana
    sembrava avviata a un destino imperiale, con una forte espansione
    all’estero, prima di tutto nelle colonie. In quel periodo si
    accentuò la politica di contenimento dei dialetti e si
    andarono radicalizzando atteggiamenti di natura esterofoba, fino
    all’intervento contro i forestierismi attuato dall’Accademia
    d’Italia. In tale contesto si inserisce anche la campagna contro
    l’uso del lei a vantaggio del tu e del voi ( allocutivi, pronomi).
    La caduta del fascismo e la perdita dell’Impero cancellarono le
    velleità autoritarie e i sogni di grandezza.
    
    5. Dagli anni Sessanta a oggi
    
    La questione della lingua, a lungo silente, ebbe un fortunato
    rilancio nel 1964-1965 con una serie di interventi dello
    scrittore  Pier Paolo Pasolini che presero l’avvio con una
    conferenza, poi pubblicata su «Rinascita» (26 dicembre
    1964), intitolata Nuove questioni linguistiche.
    Pasolini, che prendeva le mosse dal rapporto tra gli scrittori del
    Novecento e la lingua italiana, passava a discorrere della fase in
    cui si trovava l’italiano del suo tempo, sostenendo che il centro
    irradiatore delle novità linguistiche si era spostato: non
    era più a Firenze o a Roma, nei centri umanistici, ma nel
    cosiddetto triangolo industriale del Nord. Nel Nord si veniva
    formando una nuova lingua, l’italiano tecnologico, legato al fiorire
    della nuova classe egemone capitalistica, un italiano brutto,
    comunicativo ma non espressivo. Nelle tesi di Pasolini, uomo dalle
    molte letture, si mescolava il concetto di egemonia di Gramsci con
    concetti stilistici e linguistici ricavati da Gianfranco Contini, da
    Charles Bally e da Ferdinand de Saussure. Attorno a questa tesi si
    avviò un dibattito molto vivace (cfr. Parlangeli 1971). Le
    posizioni di Pasolini furono giudicate in maniera riduttiva, mentre
    in realtà il suo innegabile ma geniale dilettantismo legava
    la personale concezione di stile ad alcune intuizioni profetiche,
    con una sensibilità verso i cambiamenti ben maggiore di
    quanto immaginassero molti dei suoi critici. Questo è stato
    forse il momento più notevole della questione della lingua
    nel Novecento, e ha riguardato la valutazione dello stato della
    lingua e del suo destino nella società tecnologica e
    industriale.
    Negli anni successivi si sono avute altre polemiche notevoli, per
    es. quelle connesse con un lungamente discusso progetto di legge
    sulla definizione e tutela delle minoranze, infine approvato nel
    1999 (legge 482;  minoranze linguistiche;  legislazione
    linguistica), dopo che si era arenato nel 1991 (Tullio De Mauro
    stigmatizzò la perplessità manifestata da vari celebri
    intellettuali di fronte a questa legge; ma anche quella del 1999
    suscitò non poche reazioni negative). Spesso si è
    discusso della crisi dell’italiano nella scuola, individuando un
    processo di decadimento comunicativo che un fascicolo monografico
    della rivista «Sigma» (1-2 del 1985) ha definito come il
    trionfo della «lingua selvaggia».
    Sta di fatto che molte parole comuni dell’italiano colto sono ormai
    ignote o fraintese, soprattutto dai giovani, tanto che il dizionario
    Zingarelli 2010 prevede una serie di ‘parole da salvare’
    contrassegnate con apposito fiorellino, allusivo a una sorta di
    ecologia della lingua.
    Quanto ai dialetti, sui quali la polemica ritorna ciclicamente, poco
    prima di morire, nel 1975, Pasolini aveva affermato che erano
    l’ultima possibilità di difesa dall’omologazione linguistica
    (in precedenza aveva mostrato di giudicare severamente l’italiano
    diffuso tra le masse proletarie ormai non più dialettofone, e
    per questo prive di vitalità e creatività
    linguistica). Nell’estate del 2009 si discusse
    dell’opportunità di introdurre nelle scuole l’insegnamento
    del dialetto (cfr. Pinello 2009). Le discussioni su singole norme
    dell’italiano trovano voce in rubriche di alcuni giornali, ma
    soprattutto negli spazi dedicati dall’Accademia della Crusca alla
    discussione e alla divulgazione. Sono state invocate regole rigide
    per ottenere una lingua ‘politicamente corretta’ ( politically
    correct), depurata dei pregiudizi legati agli stereotipi e non
    sessista (esistono, a proposito del sessismo, le Raccomandazioni
    della Commissione nazionale per la realizzazione della parità
    tra uomo e donna, pubblicate nel 1986;  genere e lingua).
    Inoltre si è oggi più sensibili, anche da parte dei
    governi, all’esigenza di chiarezza comunicativa negli atti della
    pubblica amministrazione (esistono apposite raccolte di
    suggerimenti, utili per la formazione dei pubblici funzionari).
    Una vivace discussione fu infine suscitata dalla proposta di
    istituzione del Consiglio superiore della lingua italiana (2001),
    tema al quale fu dedicato l’editoriale del primo fascicolo della
    rivista «Lingua italiana d’oggi» (2004). Temi come
    quelli elencati provocano talora discussioni accese, senza
    però che il dibattito sulla questione della lingua ritrovi
    l’importanza che ebbe nei secoli passati.
    
    da
      http://www.edizioniconoscenza.it/articolo.asp?id=1133&eid=134
    
    La faticosa nascita di una lingua
    
    Una delle tante freddure di questa rovente estate ha sollevato una
    questione seria. Esame di dialetto ai professori che vogliono
    insegnare in una regione diversa da quella d’origine. 
    Potremmo avere professori interrogati in dialetto, chissà da
    chi, poi – rappresentanti della società civile, genitori,
    eruditi locali inseriti d’ufficio nei prossimi consigli di istituto,
    dialettologi di chiara fama stanati dalle università e messi
    al servizio di una politica linguistica –; e su che cosa: lingua e
    letteratura lombarda, Manzoni a parte? Grammatica e analisi
    testuale? Comprensione e produzione di testi orali e scritti? 
    E le altre materie, matematica, fisica, storia, filosofia… “mi parli
    della critica della ragion pura”… e religione? Bella questa, fra le
    altre: religione cattolica, cioè universale, declinata in
    bergamasco! Forse sarebbe la giusta risposta al ricominciare a dir
    messa in latino, di cui il papa tedesco pare che non potesse proprio
    fare a meno; e magari anche all’idea di insegnare in inglese una o
    più materie del curricolo, come si prevede nella gelminiana
    revisione della formazione iniziale degli insegnanti.
    La solita polemica estiva, dunque, roba da ombrelloni, sotto i quali
    chiunque può dire quello che vuole, tanto poi l’ombrellone si
    chiude e via. Ma siccome sembra che sia allo studio un disegno di
    legge (sempre meglio, comunque, che un decreto legge) forse è
    il caso di fermarsi un po’ sulla questione, magari per dare qualche
    spunto ai legislatori…
    
    La lingua come problema politico
    
    In effetti il problema sollevato da Bossi e C. meriterebbe molta
    più attenzione – e sui giornali, un po’ a rilento in
    verità (per colpa delle ferie estive?) qualcuno gliela ha
    data, anche senza crederci molto (cfr. ad es. la Repubblica del 30/7
    e 6/9 2009). E invece si dovrebbe cominciare col ricordare che ogni
    volta che “affiora” la questione della lingua – scriveva il troppo
    dimenticato Gramsci – vuol dire che ci si trova di fronte a una
    serie di questioni, alle quali il problema della lingua va
    ricondotto. “La formazione e l’allargamento della classe dirigente,
    la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri
    tra gruppi dirigenti e la massa popolare nazionale, cioè di
    riorganizzare l’egemonia culturale”; al punto che “un aspetto della
    lotta politica è stata sempre quella che viene chiamata la
    questione della lingua” (cfr. Quaderni del carcere, ed. critica, a
    cura di V. Gerratana, Torino 1975, vol.III, pp. 2345/6). Andrebbero
    rilette quelle pagine, assieme ad altre più specifiche
    relative alla storia della lingua italiana, e quindi alla storia
    sociale degli italiani (e magari al saggio su Alcuni temi della
    questione meridionale). Scopriremmo che in fondo Bossi, quando
    solleva il problema del dialetto, non solo non fa nulla di
    eccezionale, ma senza volerlo coglie un aspetto culturale e politico
    di grande importanza.
    Se non fosse che a lui del dialetto non importa un fico secco, come
    non gli importa della lingua italiana o dell’inglese o, più
    in generale, della scuola. È evidente infatti che i suoi sono
    solo interessi di natura politica generale, cioè di potere,
    indifferente alle questioni specifiche di cui strumentalmente, per
    motivi di tattica, si avvale di volta in volta: si tratti della
    bandiera regionale, dell’inno di Mameli, delle gabbie salariali,
    delle badanti, degli immigrati o, appunto, dei dialetti. A proposito
    delle quali, è appena il caso di notare ancora alcuni curiosi
    capovolgimenti e curiose contraddizioni: i discendenti di chi impose
    – o comunque conseguì – l’unità d’Italia (sconfiggendo
    anche il disegno federalista) ora vogliono affossarla; mentre i
    discendenti di chi la subì, la rivendicano come un’ancora di
    salvezza, con toni patriottici che sanno di retorico lontano un
    miglio, e per farlo preparano un “partito del sud” – tra i promotori
    del quale, ironia della storia, c’è uno che si chiama
    Lombardo! –; d’altra parte, ai “Fratelli” si contrappone il “Va
    pensiero”, il cui autore aveva un nome che, preceduto da un
    entusiastico “viva”, serviva da acrostico per inneggiare a Vittorio
    Emanuele Re d’Italia… Cose che farebbero ridere, se in mezzo non ci
    fosse proprio la contraddittoria storia italiana dell’ultimo secolo
    e mezzo (di cui sembra che nessuno abbia tanta voglia di parlare,
    come ci insegna la vicenda delle celebrazioni del 150°
    anniversario). 
    Ed è così anche per il rapporto tra lingua e dialetti:
    forse si è dimenticato che proprio il prevalere del
    manzonismo, inteso come modello letterario e come teoria
    linguistica, sta alla radice della considerazione dei dialetti come
    “malerba”… Curioso, insomma, che per mandare avanti la propria
    polemica antitaliana la lega sia costretta a negare le proprie
    radici culturali regionali, che sono profondamente patriottiche… Ma
    forse non lo fa apposta…
    
    Il ministro e Manzoni
    
    Proviamo a riordinare le cose. Correva l’anno 1868… Un lontano
    conterraneo di Bossi, tal don Lisander, autor d’un romanzetto dove
    si parla di promessi sposi, fu interpellato dall’allora ministro
    della Pubblica Istruzione del neonato regno d’Italia, Broglio. Fatta
    l’Italia, tra le altre cose che occorrevano per fare gli italiani
    c’era la lingua (oltre che una scuola, ovvero un luogo in cui
    insegnarla): ma qual era, questa lingua? Dove trovarla? e
    soprattutto, come fare per diffonderla? 
    Per chi non lo ricordasse può essere utile richiamare la
    sostanza delle proposte manzoniane per diffondere l’italiano –
    cioè quello che lui riteneva fosse l’italiano – nelle scuole
    e quindi nel paese.
    Manzoni, considerato il massimo scrittore italiano di quel periodo,
    che per quarant’anni aveva continuato il suo lavorìo sulla
    lingua del romanzo che l’aveva reso celebre, nella relazione
    presentata al ministro affermò con sicurezza quello che
    molti, ma non tutti, sembravano disposti ad accettare – e che lui
    aveva tentato di mostrare praticamente –, e cioè che
    l’italiano parlato, di fatto inesistente se non per una percentuale
    minima della popolazione, era da identificarsi col fiorentino
    parlato (cioè con un dialetto), sia pure nella variante
    colta, consolidata dalla tradizione letteraria, ma mondata dagli
    eccessi del purismo e vivificata dall’uso quotidiano; e pensò
    che la soluzione potesse articolarsi in poche e (a dirsi) semplici
    mosse: mandare gli insegnanti toscani a insegnare l’alfabeto nelle
    varie regioni d’Italia e gli insegnanti delle altre regioni a
    insegnare l’alfabeto in Toscana e in regioni diverse da quella
    d’origine, così che potessero anche loro, se non “sciacquare”
    il proprio patrimonio lessicale alla fonte, quanto meno praticare
    quell’italiano scritto di cui avevano notizia solo dai libri,
    parlandolo. Naturalmente, a loro disposizione sarebbe stato messo un
    agile ed economico vocabolarietto da utilizzare e da diffondere
    nelle scuole. Una sorta di Comenius ante litteram.
    Inguaribile illuminista! Pensava che una lingua si potesse
    diffondere semplicemente insegnandola nelle scuole. 
    Non se ne fece nulla, ovviamente, ma l’idea, per quanto discutibile,
    era significativa se non altro del clima e dell’afflato
    risorgimentale: avere finalmente una vera lingua comune per
    cementare quel processo di unificazione che Machiavelli – e tanti
    prima e dopo di lui – aveva auspicato e che era arrivato a
    compimento politico. 
    
    Lingua e società
    
    Altre sarebbero state le vie lungo le quali questa lingua avrebbe
    camminato, come argomentò con efficacia, nel corso del
    dibattito seguito alle proposte di Manzoni e dei manzoniani,
    Graziadio Isaia Ascoli, glottologo e storico della lingua, il quale
    spiegò ai manzoniani che – udite udite – “Firenze non
    è Parigi”, per dire che una lingua non si crea a tavolino,
    né sui banchi di scuola, né inventando una capitale,
    negando la storia…: la lingua è del popolo che la usa e solo
    i fenomeni sociali, le trasformazioni politiche, economiche e
    culturali complessive comportano mutamenti significativi di lingua:
    all’Italia era sempre mancata – e mancava ancora in quel momento
    –una capitale, ossia il luogo reale e simbolico in cui risiede una
    testa politica capace di guidare i mutamenti; mancava un mercato,
    un’economia forte, una rete di uffici, di strutture e di
    infrastrutture, una cultura materiale condivisa ecc. Solo grazie a
    questi elementi sarebbe nata quella lingua comune che, per il
    momento, continuava a restare una lingua per colti, una lingua
    “solo” letteraria, che i non fiorentini (e i non romani per motivi
    diversi…) potevano apprendere solo dai libri. E infatti, circa l’80%
    dei regnicoli – come risultava dal primo censimento effettuato – con
    buona pace di Manzoni e del suo vocabolario, era assieme analfabeta
    e dialettofona. Malerba, sì, i dialetti; ma pur sempre unica
    erba capace di nutrire i discorsi del popolo. Quanto agli
    intellettuali, potevano ben usare tutti i registri linguistici,
    incluso il dialetto materno, per produrre opere che nel momento
    stesso in cui venivano scritte diventavano patrimonio culturale
    esclusivo degli alfabetizzati più colti.
    
    Dai dialetti all’italiano popolare
    
    La questione sociale sottostante, che Gramsci aveva ben presente,
    è indubbiamente quella del non risolto problema tra nord e
    sud d’Italia, di una “questione meridionale” rimasta aperta da 150
    anni, ossia da quando gli avi di Bossi riuscirono nel tentativo di
    annettersi i territori del regno borbonico dando inizio a uno
    sfruttamento diretto di risorse e di manodopera. Le migrazioni
    interne dal sud a nord del paese furono il volano dello sviluppo
    industriale delle regioni settentrionali; ma furono anche un
    fenomeno decisivo – assieme a quelle dalle campagne verso le
    città e a quelle verso l’estero – per avviare il lento
    rimescolamento linguistico che seguì al processo di
    unificazione nazionale, indebolendo le basi dialettali non per
    diktat politico di qualcuno (le politiche linguistiche dirigistiche
    lasciano sempre il tempo che trovano, quale che sia la lingua che si
    vorrebbe imporre…), ma per i cambiamenti materiali indotti nella
    base dei parlanti: scambi sempre più intensi tra dialettofoni
    diversi, avrebbero prodotto un lento riequilibrio, fino alla nascita
    di idiomi diversi rispetto alle lingue d’origine, su base regionale
    e su base nazionale, senza cancellare mai del tutto le lingue di
    partenza, ma certo modificandole in base alle esigenze di
    comunicazione dei soggetti che le usavano.
    Assieme a fenomeni che gli storici della lingua hanno ben descritto
    (emigrazioni verso l’estero, conseguenti rimesse in denaro, lento
    potenziamento del sistema di istruzione, nascita di un sistema
    burocratico e di un mercato interno, servizio militare obbligatorio,
    primi vagiti della pubblicità, di un sistema informativo e di
    produzione culturale su scala nazionale…), i cambiamenti e quindi la
    lenta erosione dei dialetti fanno parte del quadro che portò
    tra la fine del secolo XIX e gli inizi del successivo a scorgere i
    tratti salienti di una nuova lingua, mai esistita prima di quel
    momento in Italia: una lingua parlata veramente dal popolo, che con
    fondatezza di giudizio, è stata definita dagli studiosi
    “italiano popolare unitario”. Se ne trovano tracce significative
    nelle lettere dei prigionieri della prima guerra mondiale che furono
    raccolte e analizzate dallo studioso e critico letterario Leo
    Spitzer, il quale esercitava all’epoca il poco divertente compito di
    censore in uno dei campi austriaci in cui erano tenuti prigionieri i
    soldati italiani catturati nei feroci assalti che costellavano la
    terribile guerra di trincea.
    Espressioni dialettali, regole grammaticali e ortografia
    dell’italiano letterario malamente apprese in pochi anni di scuola
    elementare, semplificazioni sintattiche ecc. fanno assomigliare
    queste lettere ai lontani placiti cassinesi (sao ke kelle terre per
    kelle fini que ki contene trenta anni le possette parte sancti
    benedicti) che segnalano, alle soglie dell’anno mille, il passaggio
    ormai avvenuto dal latino ai volgari, i nonni dei dialetti…
    
    “amattissimo mia Peppine Viscrive questa letera per farvi sapere la
    mie notizie e per oro unotima salute bene e così spere
    divoio…poi mia mata sposa miavete mandante addire che volete sapere
    una cosa di tutto da qui io non Vipozo farvi sapere una sane cose di
    niente”
    (indirizzata a Montefalcone, Benevento)
    
    “miacara moglie vidolemie buonenotizie io fino algiordoggi coteuna
    perfetta salude” (indirizzata a Poli d’Aquila)
    
    “tu midici che ieri ai visto O. e che la ga un altro fio de cinque
    giorni dio ge dagi magari ogni 6 mesi uno cussi non manchera mai
    omini” (a Trieste)
    
    “me car socis. It mandi sto strasc at carta par fat save che mi sto
    ben at’ salut” (a Novara)
    
    (cfr. L.Spitzer, Lettere di prigionieri di guerra italiani
    1915-1918, Boringhieri, Torino 1976, presentazione di L. Renzi).
    
    Espressioni che tornano nei canti di guerra, in cui al patriottismo
    di facciata subentra il dolore individuale e concreto di un popolo
    che sta diventando tale nel fuoco di una grande tragedia, che
    produce parole e ritmi nuovi, uguali per tutti:
    
    “cara moglie che tu non mi senti/raccomando ai compagni vicini/ di
    tenermi da conto i bambini/ che io muoio col tuo nome nel cuor”
    (“Gorizia tu sei maledetta”)
    
    Sgrammaticati, fuori da ogni stilema letterario, ma comprensibili e
    cantabili da tutti, non come “l’elmo di Scipio” di cui “s’è
    cinta la testa” un’Italia “desta” ma ancora distante, anche
    perché parla una lingua letteraria, da intellettuali o
    comunque da ceti ben scolarizzati, alla quale il bifolco poteva
    contrapporre solo il suo dialetto, cioè una lingua adatta a
    esprimere sentimenti ed emozioni, bisogni e rabbia, ma non concetti
    astratti, poesie e canti, ma non informazioni e analisi economiche,
    politiche, culturali, scientifiche ecc.; ma alla quale, dai primi
    del ’900 può cominciare a rispondere anche in termini nuovi,
    non più limitati da un localismo di breve respiro,
    politicamente e umanamente chiuso, ma comprensibili da “ogni uomo
    che sente coscienza” – come recitano ancora i versi del canto
    “Gorizia, tu sei maledetta” –. Termini e periodi sconnessi quanto si
    vuole, ma che annunciano un nuovo sentire, una coscienza unitaria
    che non a caso trova una radice profonda proprio nel rifiuto della
    guerra; quello stesso rifiuto che dopo la sbornia fascista e la
    seconda, tragica guerra, avrebbe prodotto, nel giro di trent’anni
    circa, il nitido “l’Italia ripudia la guerra”, che segna e informa
    di sé la Costituzione Repubblicana; capolavoro, a suo modo,
    di chiarezza linguistica e perciò anche fondativa
    dell’unità democratica di un popolo… 
    L’italiano che nasce – o che ri-nasce – agli inizi del ’900 non
    è più dunque una lingua “morta che giace morta nei
    libri”, è una lingua usata da un numero crescente di persone
    in ogni città e in ogni provincia del Regno, quindi
    tendenzialmente nazionale, ma è anche una lingua che esprime,
    con la sua stessa esistenza, una sorta di riconciliazione profonda
    con l’istruzione e la scuola, se non ancora con l’alta cultura
    scientifica e filosofica. Quante lettere di emigranti invitano, in
    un italiano stentato ancora pieno di dialettismi, i figli rimasti a
    casa a frequentare la scuola, a istruirsi, con sforzo e sacrificio,
    per costruirsi un avvenire migliore, quell’avvenire a cui loro
    avevano dovuto rinunciare, condannati dalla miseria e dallo
    sfruttamento, che sono tutt’uno con l’analfabetismo e il povero
    dialetto in cui sono condannati a restare chiusi?
    Una lingua che cerca di affrancarsi dai dialetti e dai suoi limitati
    orizzonti culturali e che è tutt’altra cosa sia dall’italiano
    letterario, sia dai raffinati versi in dialetto prodotti da
    intellettuali bilingui come Porta, Belli o Giusti… che spesso
    tradiscono, al contrario, un atteggiamento ambiguo, comunque
    separato dal popolo-plebe, di cui usano la calda koiné,
    mutuano stilemi, ma presentano anche i pesanti retaggi culturali, a
    cominciare dal disprezzo e la diffidenza per l’istruzione, la
    scuola, la cultura in generale. Si ricorderà il Belli:
    “da ste penne e sti libbri maledetti/ ce vo’ tanto a ccapì
    ccosa ne naschi?/ grilli in testa, e un diluvio de bbijjetti”
     (Er legge e scrive, 27 agosto 1835)
    
    La storia dunque, e non le intenzioni del Manzoni, ha prodotto
    questa lingua unitaria e l’ha imposta sui dialetti, e la stessa
    storia ha ridotto i dialetti ad essere solo un utile serbatoio
    lessicale e uno strumento di comunicazione essenzialmente orale,
    valido solo in ambito familiare, ricco quanto si vuole di
    espressività e di colore, ma certo privo di uno statuto che
    lo renda “insegnabile” in modo formale. A meno di farne oggetto di
    studio specialistico. Che altro sono i tanti repertori e le tante
    grammatiche descrittive dei dialetti italiani? Che cosa le
    monumentali grammatiche storiche della lingua italiana, a partire da
    quella di Gerhard Rolfhs? 
    Sarebbe un grave errore dare l’impressione, ad esempio, che
    l’insegnamento/apprendimento del dialetto sia qualcosa di naturale e
    di spontaneo, come è apparso in certe dichiarazioni che
    sembravano alludere a una sorta di rivalsa plebea, più che
    democratica, contro Roma e i professori: mettiamo sotto torchio i
    soloni, costringendoli a scendere sul “nostro” terreno, sul terreno
    della “nostra” lingua: dialettofoni puri incontrerebbero le stesse
    difficoltà di chiunque altro quando tentassero di insegnare
    “il” dialetto “in” dialetto… Per non parlare del fatto che gli
    immigrati tanto temuti dai leghisti imparano subito proprio il
    dialetto dei paesi in cui vivono: e sarebbe il colmo – e forse il
    giusto contrappasso – se a insegnare il bergamasco fossero proprio i
    tanti, temuti neo-terroni che continuano a “invadere” (e a far
    funzionare) il nord d’Italia, e non solo…