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Letterato veneziano (Venezia 1713 - Padova 1786). Tra i principali
esponenti dell'Accademia dei Granelleschi, raggiunse grande
notorietà nel campo degli studi danteschi con l'opera
Giudizio degli antichi poeti sopra la moderna censura di Dante
attribuita ingiustamente a Virgilio, cioè la Difesa di Dante
(1758), in cui si oppose alla negazione delle Lettere virgiliane di
S. Bettinelli, con buon senso, ma generalmente su fondamenti di
retorica tradizionale, in modo, cioè, inadatto a comprendere
la vera poesia di Dante. La sua opera principale sono due
bisettimanali, la Gazzetta veneta, e l'Osservatore veneto, in cui le
doti del suo temperamento (arguta osservazione della vita e degli
uomini, equilibrio e buon senso, sanità morale, amore della
tradizione, non chiuso, però, come nel fratello Carlo,
all'accoglimento di quel che di buono ci fosse nel nuovo) si
rivelano in pieno, in una prosa limpida ed elegante: specialmente
favolette, apologhi, ritratti, raggiungono talvolta la perfezione.
VitaA 22 anni compose un breve canzoniere amoroso per la poetessa
Luisa Bergalli, maggiore di lui di 10 anni, che sposò nel
1738; presto divenuto padre di cinque figli, venne a trovarsi in
ristrettezze economiche: di ciò è stata data da alcuni
(a cominciare dal fratello Carlo) la colpa alla moglie, cui G., per
poter più liberamente dedicarsi alle lettere, aveva affidato
l'amministrazione del patrimonio di famiglia; la verità
è che questo, prima cospicuo, era già dissestato dal
disordine e da spese inconsulte dei genitori; inoltre rimasero a
carico di Gasparo la madre e le sorelle. Per guadagnare, G. dovette
"pattuire l'ingegno e farlo operaio degli ingordi librai"; e lui e
la moglie, più tardi anche con l'aiuto delle figlie, si
diedero alle traduzioni, specialmente dal francese, talvolta dal
latino. Nel 1746 venne a L. Bergalli l'idea di assumere l'impresa
del teatro Sant'Angelo: essa durò due anni, e fu la rovina.
Nel corso di tali anni i coniugi Gozzi misero in scena numerose
commedie e tragedie, molte delle quali dovute alla loro penna
(Edipo, Marco Polo, L'Antiochia). Gli anni dal 1750 al 1760 furono
per G. dei più difficili (nonostante, intorno al 1752, Marco
Foscarini lo avesse nominato suo segretario); non bastando il
compenso delle traduzioni e qualche altro modesto incarico, dovette
adattarsi a dar lezioni private. Dal 1762 ebbe dal magistrato dei
Riformatori varie incombenze, come soprintendente alle stampe e alle
materie letterarie, relatore per la riforma delle scuole dopo la
soppressione dei Gesuiti (1773), ecc. Nel 1777 tentò il
suicidio gettandosi, a Padova, nel Bacchiglione, ma fu tratto in
salvo. Lo assistette poi la parigina Sara Cénet che, morta la
Bergalli (1779), sposò per gratitudine, e con cui visse gli
ultimi anni, malaticcio.
OpereG. scrisse moltissimo: drammi e melodrammi, cicalate per
l'Accademia dei Granelleschi di cui era stato tra i fondatori,
relazioni, versi burleschi e rime d'occasione (Rime piacevoli d'un
moderno autore stampate, dapprima anonime, nel 1757). Oltre alle
opere già citate, nel 1750 aveva pubblicato il primo volume
delle Lettere diverse che ripubblicò, due anni dopo, con il
titolo di Lettere serie, facete, capricciose, strane e quasi
bestiali. Dei versi vivono ancora i Sermoni in sciolti (pubblicati
nel 1763 e ristampati l'anno dopo con l'aggiunta di un poemetto, Il
trionfo dell'Umiltà), in cui, sia che satireggi i corrotti
costumi, i cattivi poeti e predicatori, sia che lamenti la sua
sorte, dà prova di arguzia e finezza d'arte.
*
DBI
di Domenico Proietti
GOZZI, Gasparo. - Nacque a Venezia il 4 dic. 1713, primo degli
undici figli del conte Iacopo Antonio e della nobildonna Angela
Tiepolo. I Gozzi sono attestati a Bergamo a partire dal XIV secolo;
all'inizio del XVI secolo il ramo cui apparteneva la famiglia del G.
si trasferì a Venezia, acquistando diversi immobili in
città e altri beni nel Trevigiano, oltre a possedimenti in
Friuli (in particolare una villa a Visinale, frazione di Pasiano di
Pordenone), sui quali ottenne il titolo comitale nel XVII secolo.
Dall'inizio del Settecento, tuttavia, il patrimonio familiare si
ridusse progressivamente, cosicché solo il G. e il
secondogenito Francesco poterono seguire corsi di studi regolari in
collegi pubblici.
Dopo i primi studi in casa con precettori entrò nel collegio
somasco di Murano, dove acquisì una solida formazione
umanistica. A Venezia, poi, seguì corsi di matematica e
giurisprudenza, ma i suoi interessi erano già stabilmente
rivolti alla letteratura, per consuetudine familiare (membri della
famiglia componevano versi e in casa per alcuni anni si tennero
adunanze letterarie, come ricorda nelle sue Memorie inutili Carlo,
uno dei fratelli più giovani del G.) e per la frequentazione
di giovani intellettuali vicini ad A. Zeno.
Tra questi, l'abate Antonio Sforza e i fratelli Niccolò e
Anton Federico Seghezzi lo esortarono alla poesia arcadica e
bernesca, e allo studio dei classici italiani, mentre la poetessa
Luisa Bergalli lo indirizzava alla lirica petrarchesca. Proprio in
tale gruppo si collocano, tra 1731 e 1735, gli esordi letterari del
G., in una serie di opuscoli poetici d'occasione, molti dei quali
curati dalla Bergalli (con la quale i rapporti si fecero via via
più stretti), cui partecipò con versi in latino,
composizioni in terzine dantesche, sonetti e canzoni di stampo
petrarchesco, nei quali è trasfigurato l'amore per la
Bergalli.
Con quest'ultima nel 1736 preparò e pubblicò a Venezia
l'edizione delle Rime dell'amico A. Sforza (morto quell'anno), con
l'aggiunta di componimenti di amici in onore dello scomparso
(incluse alcune poesie dello stesso G.) e un profilo iniziale dello
Sforza (pp. IX-XIV) che costituisce la sua prima prova come critico.
Il volume era anche una sorta di dichiarazione pubblica del rapporto
tra i due curatori, ormai consolidato ma fortemente contrastato dai
Gozzi sia per l'età di lei (di dieci anni più anziana
del G.), sia per le sue condizioni socio-economiche (la Bergalli era
di estrazione borghese e aveva potuto studiare con grandi sacrifici
da parte della famiglia). Per lei, comunque, l'anno successivo il G.
entrò nel terreno della polemica letteraria con una lunga
lettera all'amico A.F. Seghezzi (pubblicata nel t. XV della Raccolta
di opuscoli scientifici e filologici edita da A. Calogerà,
pp. 488-506), difendendo contro un anonimo critico bolognese la
traduzione della Tebaide di J. Racine pubblicata nel 1735 dalla
Bergalli unitamente a quella di altre tragedie del drammaturgo
francese. Inoltre, nel 1738, quando la Bergalli pubblicò a
Venezia un'edizione delle Rime di Gaspara Stampa con l'aggiunta di
"rime di diversi" in lode della poetessa cinquecentesca, il G.
contribuì con tre sonetti.
Ottenuto un poco convinto assenso della famiglia (nelle già
ricordate Memorie inutili, p. I, cap. 3, il fratello Carlo avrebbe
definito l'unione "una geniale astrazione poetica"), l'8 luglio 1738
il G. poté finalmente sposare la Bergalli: il matrimonio, dal
quale sarebbero nati cinque figli, finì per aggravare le non
floride condizioni economiche della famiglia, cosicché i
novelli sposi, vinte le riluttanze della Bergalli, dovettero
trasferirsi nella villa di Visinale, dove tra 1739 e 1740 il G.
compose versi berneschi e tenne un'intensa corrispondenza con amici
veneziani (soprattutto L. Pomo e A.F. Seghezzi), nucleo originario
delle sue lettere familiari.
Dopo una breve parentesi veneziana nella primavera-estate 1740
(quando il G. iniziò una traduzione in prosa dell'Anfitrione
di Plauto che costituisce il primo documento dei suoi interessi
teatrali e progettò un'edizione, poi non realizzata, delle
commedie di I.A. Nelli), egli e la Bergalli dovettero tornare a
Visinale, dove avviarono per l'editore veneziano Francesco Storti la
traduzione della monumentale Histoire ecclésiastique di C.
Fleury (conclusa solo nel 1766 e che risulta nei frontespizi opera
del solo G.); per lo Storti, sempre nel 1740, curò la
ristampa d'un manuale epistolare all'epoca assai diffuso, Il
segretario principiante di I. Nardi. A questo periodo risalgono
anche tentativi presto interrotti di traduzione da Molière
(probabilmente su commissione dell'editore Francesco Pitteri) e
dall'Asinaria di Plauto, che confermano un'attenzione del G. per il
teatro che gli derivava probabilmente sia dalla consuetudine
familiare, sia dall'esempio della Bergalli (che tra 1721 e 1731
aveva tradotto il teatro di Terenzio), sia, soprattutto, da
un'istintiva insoddisfazione per la produzione teatrale
contemporanea, accostabile anche cronologicamente a quella di C.
Goldoni, che proprio in questi anni stava maturando le sue idee
sulla riforma teatrale.
Nella primavera 1742 il G. tornò con la famiglia a Venezia
per dedicarsi più agevolmente al lavoro editoriale e forse
per attendere ai suoi lavori teatrali. L'anno dopo, infatti,
esordì con la tragedia Elettra, versione-adattamento in
polimetri del testo di un drammaturgo classicista grecizzante
epigono di Racine, H.-B. de Requeleyne barone di Longepierre, forse
commissionata dalla compagnia del teatro S. Samuele e recitata con
scarso esito in quel teatro (fu ripresa con maggiore successo nel
1745). Le fece seguito nel 1746, dopo una laboriosa opera di
traduzione e adattamento tra fine 1744 e 1745, un'altra versione da
Longepierre, la Medea, rappresentata sempre al S. Samuele e dedicata
alla moglie di Michiel Grimani, proprietario dei teatri S. Samuele e
S. Giovanni Crisostomo (con il quale il G. sperò, invano, di
entrare in società). La proposta di tali testi al pubblico
veneziano derivava dalla "consapevolezza della povertà della
produzione drammaturgica italiana, specie nel genere tragico" e dal
riconoscimento del "magistero indiscusso" (Bosisio, p. 289)
esercitato in quello stesso periodo dalla letteratura teatrale
francese. A fronte di questi incerti inizi teatrali, in questo
periodo il G. portò a termine importanti iniziative
editoriali, che lo segnalarono come uno dei letterati emergenti
più affidabili nel vivace mercato editoriale veneziano:
l'edizione in dieci tomi (Venezia 1744) delle Poesie drammatiche di
A. Zeno, che lo mise in diretto contatto con l'anziano e celebrato
scrittore, il quale rinfocolò la passione teatrale del G. e
gli aprì la sua ricca biblioteca; e una collaborazione,
destinata a durare, con Marco Foscarini per la compilazione della
storia Della letteratura veneziana (di cui fu pubblicato nel 1752 a
Padova solo il primo volume).
Nel 1747, spinto dalla Bergalli e dalla speranza di profitti che
risollevassero la critica situazione economica della famiglia, e
indotto dall'ambizione di modificare il gusto teatrale corrente, il
G. s'imbarcò nella rischiosa iniziativa di rilevare la
gestione del teatro S. Angelo, in cui erano di solito messe in scena
opere musicali, proponendo già nella stagione autunnale di
quell'anno un cartellone assai lontano da quello popolare e
dell'arte, imperniato su testi colti e moraleggianti della
più recente letteratura drammatica francese, scelti e
adattati dal G. e dalla moglie. Già alla fine del 1748,
però, l'impresa dovette essere abbandonata, essendo risultata
disastrosa dal punto di vista economico (per l'imperizia
organizzativa dei coniugi, la modestia dei mezzi di cui disponevano
e la loro scarsa sintonia con i gusti del pubblico) e avendo
procurato, in luogo degli attesi profitti, ulteriori dissesti al
bilancio familiare: la direzione del teatro venne assunta da G.
Medebach, che ingaggiò come autore C. Goldoni. Per di
più, i testi tradotti e adattati dal G. per il S. Angelo tra
il 1747 e il 1748 (le commedie Esopo alla corte ed Esopo in
città di E. Boursault; i drammi borghesi e sentimentali La
finta semplice e I filosofi innamorati di Destouches; l'operetta Il
borbottone di J. Palabrat e D.-A. de Brueys) erano opere di modesto
valore teatrale, spesso appesantite dalla versione molto letteraria
oltre che dalle numerose aggiunte del G. (in particolare gli
apologhi, inseriti nelle due commedie di Boursault). Di notevole
rilievo culturale restava, comunque, la proposta (oltretutto, in
anticipo sulla riforma goldoniana) di un teatro moderno, borghese,
caratterizzato da un gusto per l'apologo e la favola che consentisse
di sorridere con bonomia sui vizi e le debolezze umane, attuando in
tal modo l'impegno morale da cui l'opera teatrale doveva essere
ispirata (e che si sarebbe più compiutamente espresso in
quella vena di bonaria censura dei costumi che percorre le opere
più mature del G. narratore e giornalista).
Nel maggio 1747 il G. aveva partecipato, col fratello Carlo e altri
patrizi letterati, alla fondazione dell'Accademia "serio-faceta" dei
Granelleschi (che derivava il nome dallo stemma recante un gufo "con
due genitali nel destro artiglio"). Ne divenne una delle
personalità di spicco e, non condividendone l'iniziale
impostazione burlesca (con la conseguente esaltazione/imitazione
della produzione comica toscana del Quattro-Cinquecento: L. Pulci,
il Burchiello, F. Berni) o certi eccessi polemici (per es., contro
Goldoni), ne indirizzò gli interessi verso un più
austero culto classicheggiante della purezza della lingua,
rifacendosi a Petrarca e soprattutto a Dante.
Nel frattempo continuava a occuparsi di teatro, anche in veste di
autore: nel 1749 pubblicò a Venezia l'Edipo, tragedia
d'argomento e fattura classicistica in cui echi senechiani e
sofoclei si mescolano con reminiscenze di Corneille, Voltaire e La
Motte e che, pur risultando fredda e statica (al punto che non venne
mai portata sulle scene), avrebbe avuto le lodi di Goldoni. Nel
gennaio 1752 andò in scena al teatro S. Moisè il
melodramma metastasiano l'Isola d'amore, con musica di G. Latilla su
libretto anonimo, ma da attribuire al G., che tentò ancora il
melodramma nel 1756 con I tre matrimoni (messo in scena al S.
Samuele con musica di A. Calandria). Intanto continuava
l'attività di traduttore/adattatore: dopo la traduzione della
tragedia Zaira di Voltaire (Venezia 1749, ma probabilmente
realizzata per il S. Angelo), pubblicò nel 1751 la versione
di un'altra tragedia volterriana, la Marianna, che, pur non essendo
certo un'opera eccellente, era, come la precedente, molto apprezzata
e rappresentata (anch'essa ebbe, nella versione del G., diverse
ristampe). Nello stesso periodo non tralasciò la traduzione
di commedie e nel 1754, l'anno della polemica tra i sostenitori di
P. Chiari e quelli di Goldoni (nel corso della quale il G., pur non
schierandosi, criticò le commedie di Chiari, cosicché
quello stesso anno Goldoni gli dedicò la commedia
L'impostore, lodando per l'efficacia drammatica il suo Edipo),
pubblicò il volume Teatro comico francese (ibid.), in cui
erano anche le sue versioni di due commedie di Destouches
(L'ostacolo imprevisto e La forza de' natali, tradotte
rispettivamente in prosa e in versi martelliani, allora molto
graditi al pubblico veneziano), della Cenia, fortunatissima
comédie larmoyante di Françoise d'Issembourg
d'Happoncourt, dame de Graffigny (che, forse per influenza della
versione del G., fu adattata per le scene italiane da Goldoni nel
Padre per amore, del 1757) e, ultima tra le sue traduzioni teatrali
dal francese, Democrito creduto pazzo di J. Autreau. Una serie di
testi, dunque, che ribadiva il suo orientamento verso un teatro
moderno e borghese, rivelando una certa sintonia con l'evoluzione
del gusto teatrale contemporaneo. E tale gusto tentò di
interpretare e indirizzare con altre sue composizioni originali
anche verso un rinnovamento del genere tragico, consapevole della
ritrosia con cui erano ormai accolte le tragedie classicistiche e
altresì convinto della necessità di introdurre sulle
scene una certa varietà di generi. Si tratta di tre
composizioni tragiche scritte tra il 1755 e il 1758 per il teatro S.
Giovanni Crisostomo, che egli designò "rappresentazioni
sceniche", quasi "a prendere le distanze dal genere tragico"
(Bosisio, p. 305), e che potrebbero essere definite tragicommedie
d'argomento storico: Marco Polo (1755) e Costantinopoli (1755,
stampata nel 1758 con il titolo Isaccio, ma nota anche come Enrico
Dandolo), entrambe su figure della storia veneziana; Antiochia
(tratta dalle omelie di s. Giovanni Crisostomo, 1758). L'ultima
fatica del G. per il teatro, anche attribuendogli la versione delle
venticinque commedie di Molière uscita in quattro volumi tra
il 1756 e il 1757 per i tipi dell'editore veneziano G. Novelli, fu
ancora una traduzione: quella (condotta su una versione francese)
del poema drammatico d'argomento biblico La morte di Adamo di F.G.
Klopstock, inserita, con la versione di alcuni dei dialoghi di
Luciano, nel romanzo allegorico-didascalico Il mondo morale, che il
G. pubblicò a puntate nel 1760. L'utilizzazione in funzione
apertamente didascalica di un testo teatrale segnò il suo
abbandono definitivo della pratica teatrale: l'ormai netta
affermazione della riforma goldoniana, l'emergere della produzione
teatrale del fratello Carlo e il divampare di una nuova polemica tra
quest'ultimo e Goldoni (nella quale il G. si mantenne di nuovo
sostanzialmente neutrale, continuando a non risparmiare giudizi
limitativi su Chiari e seguaci, che pure sostenevano Carlo Gozzi) lo
orientarono verso il ruolo certo più congeniale di
osservatore dei costumi e di critico. In tale veste, pur non
cessando di valorizzare il teatro goldoniano per l'opzione
realistica che ne costituiva il carattere di novità e di
progresso, riuscì ad aprire "un fecondo dialogo a distanza"
con il fratello (Beniscelli, p. 269).
Le radici e le ragioni di tale svolta si ritrovano nel lavoro
d'intellettuale e nell'opera in versi e in prosa del G. sin dal
1751, quando pubblicò (anonime e con il falso luogo di stampa
di Lucca) le Rime piacevoli d'un moderno autore, nelle quali
raccoglieva i frutti del suo tirocinio arcadico, percorso da
un'impronta bernesca non estranea alle sue attitudini moraleggianti
ma abbandonato, già dall'anno precedente, per dedicarsi ai
Sermoni (i primi dodici raccolti dal G. nel 1763 e ripubblicati nel
1781; due dispersi in pubblicazioni occasionali, quattro pubblicati
postumi). Un genere, questo, certo a lui assai congeniale, in cui
l'adozione dell'endecasillabo sciolto (già utilizzato nei
Sermoni di G. Chiabrera) gli consentiva di trattare, sulla filigrana
del modello oraziano ma con attenzione realistica tutta moderna, i
temi (presenti in molte commedie goldoniane) della decadenza dei
costumi e mollezza di vita dell'aristocrazia contemporanea, esposti
nitidamente, con un registro colloquiale e scorrevole ma mai
sciatto, attraverso apologhi e ritratti di persone e situazioni.
La stessa tendenza all'osservazione e alla descrizione etico-morale
della realtà contemporanea attraverso narrazioni e ritratti
nitidi e realistici è, nella prosa, all'origine delle Lettere
diverse, una delle opere più fortunate del G., il primo
volume delle quali uscì a Venezia nel 1750 (salutato quello
stesso anno da un significativo riconoscimento di Goldoni nel
Cavaliere di buon gusto) e a cui, due anni dopo, seguì un
secondo. I due volumi contengono non solo lettere, ma dialoghi,
novelle, favole, sogni, traduzioni e componimenti in versi (capitoli
e sette Sermoni, uno nel primo volume, sei nel secondo). La ripresa
del genere epistolare da parte del G. fu sicuramente più un
implicito ossequio all'epistolografia rinascimentale italiana che un
richiamo al modello illuministico delle Lettres persanes di
Montesquieu o delle Lettres anglaises di Voltaire; ma certo il
referente più vicino (non solo cronologicamente) sembra il
genere delle lettere di "vario argomento" che godeva di una certa
fortuna nella Venezia del tempo, con esempi quali le Lettere
critiche, giocose, morali di G.A. Costantini (1743) e le Lettere
scelte di varie materie di P. Chiari (1749). Il G., però, pur
rispettando le caratteristiche formali della tradizione, si
discostò da questi precedenti per il registro caratterizzato
da un umorismo bonario ma penetrante, per l'attenzione verso la
realtà contemporanea (anche negli aspetti più pratici
e quotidiani) e soprattutto per l'interesse a scoprire sotto la
molteplicità del reale la tipicità, la
paradigmaticità etica di personaggi e situazioni, peraltro
chiaramente esplicitata nel titolo che nell'edizione originale
dell'opera compare in un frontespizio interno (p. 9): Lettere serie,
facete, capricciose, strane, e quasi bestiali, nelle quali si
trattano diversi punti di morale ora istoricamente, e ora col velo
dell'allegoria. Proprio la mistione di realismo e moralismo, se
costituisce il limite dell'incerto e talora confuso progressismo del
G., del suo "scetticismo riformatore", gli consentì di uscire
dall'isolamento di erudito e letterato, di esternare le sue amarezze
e ridimensionare le sue malinconie, intravedendo a contatto con la
realtà un nuovo ruolo e nuove modalità espressive per
l'intellettuale in una prosa conversevole e colloquiale ormai assai
prossima a quella giornalistica.
In modo solo apparentemente contraddittorio rispetto a questa
maturazione intellettuale sembrano collocarsi il culto
tradizionalista tributato dal G. a Dante e la composizione della
Difesa di Dante. Sono già state ricordate le ragioni per cui
si fece promotore dello studio di Dante nell'Accademia dei
Granelleschi; si può aggiungere che tale richiamo, pur
derivato dal principio dell'imitazione del classicismo arcadico,
venne da lui interpretato nel senso di un contatto diretto con il
testo dantesco, attuato nella lettura integrale della Commedia che
propose e condusse durante le riunioni accademiche a partire dalla
fine del 1752. Sono da connettere a tale rilettura gli argomenti in
terzine che il G. compose in stile dantesco e premise a ogni canto
della Commedia nell'edizione che curò per l'editore veneziano
Antonio Zatta, nel 1757.
Così, quando nel dicembre di quell'anno (ma con data 1758)
furono pubblicate le Lettere virgiliane di S. Bettinelli, che
contenevano una censura alla poesia dantesca, il G., che aveva
potuto leggere il pamphlet già prima della pubblicazione,
sentì di dover rispondere anche a nome dei Granelleschi.
Compose così il Giudizio degli antichi poeti sopra la moderna
censura di Dante attribuita ingiustamente a Virgilio (noto come
Difesa di Dante), pubblicato a Venezia per i tipi dell'editore Zatta
nel marzo 1758 unitamente a una traduzione dello stesso G., mediata
da una precedente versione francese, dell'Essay on criticism di A.
Pope. L'opuscolo, riprendendo polemicamente lo schema delle
Virgiliane, si articola in tre lettere che il G. finge inviate da
A.F. Doni allo Zatta; alle lettere sono intercalati un dialogo tra
Virgilio e Doni, una conversazione tra Virgilio, Aristofane e altri
poeti, un parere sull'arte della Commedia del grammatico e dantista
cinquecentesco Trifone Gabriel; la trattazione è conclusa dal
mito di Orfeo esposto da Aristofane. Certo, il testo, pur nella
garbata incisività di molti passaggi, non regge il confronto
con la provocatoria, ma serrata e brillante critica di Bettinelli,
che aveva buon gioco nel demolire attraverso l'attacco a Dante
l'imitazione pedissequa dei classici. Tuttavia le argomentazioni del
G., pur dettate da buon senso e moderazione piuttosto che da precise
direttive di metodo, non sono assimilabili alle difese superficiali
e manierate di altri apologeti settecenteschi di Dante. Infatti,
proponendo una lettura storicizzante della Commedia che ne
comprendesse i contenuti e la lingua in relazione agli ideali del
Trecento (e non la svalutasse in base a pregiudizi moderni, come
faceva Bettinelli), il G. indicava originalmente la vitalità
e l'attualità del poema nella passione morale che animava
Dante, determinando l'unità strutturale e poetica dell'opera.
Il decennio 1748-58, pur così ricco di attività e
opere, fu per il G. tra i più difficili economicamente e nel
rapporto con familiari. Nel 1748, dopo il fallimento dell'impresa
teatrale del S. Angelo, intensificò i rapporti di
collaborazione con M. Foscarini, divenendone segretario (a lui
dedicò il primo volume delle Lettere diverse); fu il
Foscarini che nel 1754, per alleviarne le sempre disagiate
condizioni economiche, gli procurò l'incarico di trascrivere,
per 200 ducati l'anno, il catalogo della Biblioteca di S. Marco.
Tale entrata, però, non bastava ai bisogni del G. e della
famiglia; per cui, oltre al lavoro per Foscarini e alle sue numerose
collaborazioni editoriali, egli dovette per sei anni dedicarsi a
impartire lezioni private a giovani nobili. A questi anni risale
anche un breve rapporto con Marianna Mastraca: per starle vicino,
nel 1756 il G., stanco anche della logorante situazione familiare,
si ritirò a vivere da solo per un breve periodo e in tale
occasione conobbe la giovane sarta francese Giovanna Sara Cenet,
accolta in casa Mastraca come governante. Alla fine del 1760,
dapprima raffreddò poi interruppe del tutto i rapporti con
Foscarini, dopo aver sperato invano nel suo appoggio per ottenere la
cattedra di lettere latine e greche vacante nello Studio di Padova
(che fu invece assegnata a C. Sibiliato).
Peraltro, era stato proprio grazie a un amico di Foscarini, Daniele
Farsetti, che all'inizio di quello stesso 1760 il G. aveva ottenuto
da una società di commercianti veneziani il finanziamento
necessario per affrontare la sua prima impresa giornalistica, la
Gazzetta veneta, con la quale voleva introdurre a Venezia un nuovo
tipo di giornale modellato sullo Spectator di J. Addison, la cui
traduzione in francese era stata accolta con molto favore dai
Veneziani.
La Gazzetta, della quale con cadenza bisettimanale uscirono 104
numeri dal 6 febbr. 1760 al 31 genn. 1762, si proponeva come
periodico di cronaca locale, notizie utili, annunci economici,
recensioni di spettacoli (memorabile quella dei Rusteghi di Goldoni
sul numero del 20 febbr. 1760), rivolto a un pubblico vasto ed
eterogeneo, per il quale il G. descriveva e commentava con finezza e
ironia tipi e costumi della realtà contemporanea e in
particolare scene ed episodi di vita quotidiana: ne risultava un
ritratto della vita veneziana del tempo tratteggiato con uno stile
cronistico ancora più nitido e garbato di quello già
sperimentato nelle Lettere diverse e accostabile allo sfondo
realistico del teatro goldoniano. Certo, tale rappresentazione non
era approfondita come conoscenza critica e non si concretizzava in
un progetto riformatore, restando al livello del bozzettistico e,
talora, del pittoresco: lo scetticismo e le esitazioni del G. gli
impedivano di trasformare la riflessione morale e la scrittura
pedagogica in impegno civile (del resto, in mancanza di "un'azione
riformatrice che fermi la decadenza della Serenissima, il suo
tramonto può venire solo dipinto": Santato, p. 407). E
proprio la convinzione che il compito del letterato si risolvesse
essenzialmente nell'impegno della riflessione morale animò il
G. nell'intraprendere, parallelamente alla Gazzetta, la
pubblicazione di un secondo giornale, Il Mondo morale, uscito per
nove mesi dal 5 maggio 1760. Più che un periodico,
però, esso fu una sorta di romanzo a puntate, occupato quasi
per intero dall'omonimo, farraginoso romanzo allegorico-didattico
sul tema dell'originaria bontà del genere umano e della sua
graduale corruzione, che comprendeva (come s'è già
accennato) traduzioni della tragedia La morte di Adamo di Klopstock
e di dialoghi di Luciano, e che rimase incompiuto. L'idea del G. era
di integrare e utilizzare congiuntamente nella prospettiva di un
unico programma educativo e morale i due generi più efficaci
e innovativi della comunicazione moderna, il giornale e il romanzo.
Il risultato fu una composizione senza unità narrativa,
inceppata dalla pesante sovrastruttura allegorico-didascalica e
priva del garbo e della freschezza del G. cronista e narratore di
brevi casi esemplari. Fu così inevitabile che anche questa
iniziativa (come già la Gazzetta, affidata dall'editore a P.
Chiari) dovesse essere interrotta per lo scarso riscontro presso il
pubblico.
Una fusione tra la spigliatezza giornalistica della Gazzetta e le
finalità didascaliche del Mondo morale fu tentata dal G.
nella sua terza impresa giornalistica, il periodico L'Osservatore
veneto (di cui pubblicò 104 numeri bisettimanali dal 4 febbr.
1761 al 30 genn. 1762 e altri 41 settimanali, con il titolo Gli
Osservatori veneti, dal 3 febbraio al 18 ag. 1762). Liberatosi del
rapporto con la cronaca, dominante nella Gazzetta, il G.,
richiamandosi sin dal titolo allo Spectator di Addison, da cronista
si fece "osservatore", tendendo però a cogliere dietro il
discorso sulla realtà contingente il tratto universale e
permanente di personaggi e avvenimenti e traducendolo, sul modello
dei Caractères di La Bruyère, in ritratto morale
attraverso una varietà di forme e soluzioni espressive
inserite nella prosa del periodico (dialoghi, apologhi, lettere,
capricci, cicalate). Questo risultò, pertanto, più
opera letteraria (peraltro di impeccabile eleganza e, da questo
punto di vista, certamente il capolavoro della prosa gozziana) che
giornalistica, mancandovi quasi del tutto i riferimenti all'urgenza
del reale. Proprio tale distacco, la "disillusa saggezza" che
percorre la prosa accattivante e sciolta, ma sapientemente
letteraria dell'Osservatore, l'estraneità del G. a ogni
prospettiva riformatrice e, d'altro canto, l'impossibilità di
avviare a Venezia un dialogo con le istituzioni determinarono il
fallimento del tentativo di rivolgersi a un pubblico più
ampio. Così, dopo un anno di conduzione solitaria del
giornale, nel febbraio 1762, anche per cercare di rinnovarlo
attraverso una pluralità di collaboratori, provò a
inserire nella redazione alcuni degli accademici Granelleschi, ma
con così scarso successo che già nell'agosto il
giornale dovette chiudere. Lo stesso G. nel 1767 ne curò la
ristampa (a Venezia) riordinando la materia per argomenti in cinque
parti.
Quasi a risarcimento della delusione per il sostanziale fallimento
dell'attività giornalistica, sempre nel 1762 egli ricevette
il primo incarico pubblico d'un certo rilievo, la nomina da parte
dei Riformatori dello Studio di Padova a sovrintendente alle stampe
e alle materie letterarie; nel 1764 divenne soprintendente alle
stampe per la Serenissima. In questa veste, nel triennio 1765-67 su
incarico del Senato redasse, tra l'altro, tre relazioni sullo stato
dell'arte della stampa a Venezia (per le indicazioni bibliografiche
e d'archivio, v. G. Gozzi, Lettere, ed. Soldini, pp. LII-LIV): nella
prima delineava una storia dell'editoria veneziana dalle origini al
secolo XVIII, ricercando le cause della decadenza presente e
proponendo rimedi; nella seconda prospettava provvedimenti per
riorganizzare la produzione libraria, specie quella di
qualità, proponendo di istituire una stamperia
dell'Università; la terza presentava un'analisi della
situazione dell'editoria veneziana e individuava un progetto per il
suo sviluppo.
Nel frattempo proseguiva le sue numerose collaborazioni editoriali.
Innanzitutto, portò a termine la versione da Fleury (stampata
a Venezia con il falso luogo di stampa di Firenze, Istoria
ecclesiastica di Fleury, I-XXVI, 1766-77); inoltre, pubblicò
traduzioni di opere francesi in prosa e in versi (tra cui: le
Novelle morali di J.-F. Marmontel, Venezia 1762; L'amico delle
fanciulle di B.-C. Graillard de Graville, ibid. 1763) e la versione
degli Amori pastorali di Dafni e Cloe di Longo Sofista, ricavata da
una traduzione francese (ibid. 1766). Curò (ibid. 1764)
un'edizione, con una sua prefazione, delle Poesie piacevoli di G.
Baretti, che nella Frusta letteraria aveva recensito con favore i
suoi scritti, e, soprattutto, provvedendo, su desiderio dell'autore,
alla revisione dell'edizione delle commedie di Goldoni presso lo
stampatore veneziano Giambattista Pasquali (1761-67). In questo
periodo il G. conobbe ed entrò in rapporti sempre più
stretti e cordiali con la nobildonna Caterina Dolfin, moglie di
Andrea Tron, che divenne un punto di riferimento fondamentale nei
suoi ultimi, tormentati anni.
All'amicizia con la Dolfin, che gli consentì di entrare in
diretto contatto con i settori del patriziato veneziano che
gestivano il potere politico, va probabilmente collegata l'ultima
esperienza giornalistica del G.: i 18 numeri (usciti anonimi dal 21
maggio al 17 sett. 1768 ma ormai concordemente attribuiti a lui) del
periodico Il Sognatore italiano, apertamente schierato su posizioni
di dura polemica antirazionalista e antilluminista e impegnato,
contro il progressismo cosmopolita dei riformatori, in un'opera di
rivendicazione della specificità della storia e delle
istituzioni veneziane in sintonia con il disilluso e pessimistico
scetticismo che ormai dominava lo stato d'animo e le idee del Gozzi.
Tale scetticismo, comunque, non gli impedì di portare a
termine con buon senso e pragmatismo i diversi compiti e incarichi
che gli vennero assegnati dal 1770 al 1775 nell'ambito della riforma
generale del sistema scolastico veneziano (dati e indicazioni
archivistiche e bibliografiche in G. Gozzi, Lettere, ed. Soldini,
pp. LV-LIX). Alla denuncia delle arretratezze del sistema fece
seguire, nel 1770, lo schema di un modello educativo rinnovato,
proponendo tra l'altro l'istituzione del collegio universitario S.
Marco; nell'estate del 1771 terminò una relazione con una
proposta di riforma dell'Università di Padova, divenuta
operativa dall'autunno di quello stesso anno; nel 1773-74 delineava
il progetto (poi effettivamente adottato) di scuole pubbliche laiche
in sostituzione di quelle dei gesuiti, da poco sciolti; nel 1775,
infine, propose una riforma pure in senso laico dell'Accademia
veneziana della Giudecca (in cui venivano istruiti i nobili poveri)
e partecipò ai lavori della commissione per la redazione dei
relativi libri di testo, che gli affidò la compilazione di
due antologie (delle quali risulta realizzata solo la Scelta di
lettere tratte da diversi autori, Venezia 1779) e la versione dal
francese del Compendio di notizie scientifiche di J.-H.-S. Formey
(pubblicata presumibilmente poco dopo e di cui è nota la
seconda ed., ibid. 1785).
Da questi incarichi, che gli riuscirono sempre più gravosi
anche per il progressivo deteriorarsi delle condizioni di salute,
non ricavò né la soddisfazione di cooperare con un
ruolo importante a un progetto di riforma delle istituzioni (nel
quale aveva ormai perso completamente ogni fiducia), né la
tranquillità economica: dal 1768 le condizioni della famiglia
si fecero via via più precarie (per la malattia del figlio
Francesco, le spese connesse ai matrimoni di tre altri figli, la
malattia e la morte nel 1779 della moglie, i continui ritardi nei
pagamenti dei suoi stipendi). Ad aggravare la situazione
contribuirono lo stato di forte depressione in cui il G. cadde dalla
fine del 1776 e crisi di ipocondria che si manifestavano sempre
più spesso. A scuoterlo non valsero né le cure
amorevoli della Cenet, che dal 1757 si era trasferita come
governante in casa Gozzi e che, dopo la morte della moglie, il G.
sposò nel 1780, né le premure della fedele amica
Caterina Dolfin Tron, che lo ospitò a Padova, insieme con due
figlie e la Cenet, dal giugno 1777. Anzi, proprio a Padova, depresso
anche per l'aggravarsi delle sue condizioni di salute, nel novembre
di quello stesso anno tentò il suicidio. Non completamente
ristabilito, decise di trasferirsi a Padova, assistito dalla Cenet e
dopo aver ceduto la cura dello scarso patrimonio residuo al figlio
Francesco. Trascorse gli ultimi anni, in cui diradò quasi del
tutto l'attività letteraria, assillato dalle incombenze
connesse al suo incarico di sovrintendente alle stampe (dal quale
aveva chiesto invano il pensionamento) che dovette svolgere da
Padova con la collaborazione del nipote Antonio Prata.
A Padova morì il 27 dic. 1786. Fu sepolto nell'oratorio della
Confraternita di S. Antonio.