GOZZI, Carlo

 

www.treccani.it

di Alberto Beniscelli

Nacque a Venezia il 13 dic. 1720, dal conte Iacopo Antonio e da Angela Tiepolo. La famiglia, di lontane origini bergamasche, si era trasferita nel Veneto nel secolo XVI, divenendo proprietaria di terre in Friuli che davano diritto alla riscossione di scarsi tributi e al riconoscimento del titolo nobiliare. Non tutto fu facile negli anni dell'adolescenza e della giovinezza, per sopraggiunte difficoltà economiche, come raccontò lo stesso G. nelle Memorie inutili. Se i fratelli maggiori Gasparo e Francesco avevano ancora potuto seguire un regolare corso di studi in pubblici collegi, l'educazione del G. fu affidata alla occasionale capacità di volonterosi parroci di villa o, più avanti, di più colti ma altrettanto pedanti sacerdoti di città. L'insoddisfacente rapporto con i maestri, tuttavia, non gli impedì di approfondire la lingua e la poesia italiana, anche sull'esempio e per i consigli del primogenito Gasparo, che nel frattempo si stava rivelando letterato di sicure capacità. Proprio il desiderio di emulare il fratello fece scattare nel G. la passione per gli studi e insieme la rivendicazione ribellistica, alternativa della propria formazione da autodidatta. Lesse gli scrittori della tradizione tre-cinquecentesca toscana, i novellieri F. Sacchetti o A. Firenzuola, gli irregolari L. Pulci, Burchiello, F. Berni, apprese i rudimenti della lingua francese al solo scopo di comprendere le novità d'una nazione che cominciava a non amare - scrisse - "furiosamente".

Molti componimenti giovanili sono inseriti in raccolte d'occasione mentre, sulla scia della tradizione bernesca particolarmente viva nella Venezia del tempo, il G. compose, ma non pubblicò, alcuni poemi (il Berlinghieri, il Don Chisciotte, il Gonella) e versificò col titolo La filosofia morale i Discorsi degli animali di A. Firenzuola, adattamento destinato anch'esso a rimanere inedito. Sempre in "fresca età" - ma indagini recenti datano al 1747 circa la composizione - lavorò a un corpus novellistico di dodici testi, undici dei quali pubblicati come Saggio di novelle nella più tarda edizione Colombani.

Dopo una parentesi in Dalmazia (1740-44) al seguito dell'esercito veneto, il G. riprese gli studi letterari. Fu particolarmente attivo nell'Accademia dei Granelleschi, nata nel 1747 per volontà di Gasparo e di altri sodali sulla scia di precedenti radunanze tenute in casa Gozzi. Nonostante Gasparo vi perseguisse l'intento di conciliare le eredità della tradizione con le esigenze di un rinnovamento degli istituti letterari, su sollecitazione del G. molti accademici si dilettarono piuttosto di stili (talvolta anche di pratica) burleschi, con le varie declinazioni della beffa, parodia, satira, invettiva. Nelle alterne vicende del sodalizio la tendenza rappresentata dal G. venne anzi a prevalere, dando vita a una cospicua e sostanzialmente anonima messe di versi, caratterizzata al più da ostilità nei confronti delle novità ideologico-culturali, che era anch'essa lezione appresa dal più giovane dei Gozzi. Ma a scuotere le consuetudini accademiche fu ancora il G., quando tra la fine del 1757 e l'inizio del 1758 scrisse e pubblicò presso l'editore Colombani La tartana degli influssi per l'anno bisestile 1756.

In quest'operetta satirica il G. finse di stampare un almanacco d'un amico appena defunto, organizzato come tradizione voleva per ottave, sonetti, capitoli in terza rima. L'autoritrattistica denuncia di un "poeta" affannato e solitario, che per un'ultima volta irride con i suoi versi il mondo circostante, corroso dalle permissive dottrine dei "lumi", e la recente letteratura che quelle degradazioni sociali e morali agevola e veicola, ha come bersaglio ambiti e personaggi di stretta attualità. Intanto, tra i luoghi in cui da sempre cultura e società dialogano, viene individuato il vasto campo del teatro, importante nella Venezia del tempo per le sue capacità di richiamo e le istanze riformatrici che lo percorrevano, attraendo persino l'"illuminato" Gasparo. In secondo luogo vengono additati alla pubblica esecrazione i due scrittori che - in opposizione tra loro e con modi e risultati affatto diversi - stavano impegnandosi per un rinnovamento della drammatica. Pietro Chiari e Carlo Goldoni, ritratti nelle buffe vesti di spadaccini che si scambiano fendenti scomposti e proibiti in mezzo a una folla tumultuante, sono appunto coloro che lavorano un tanto a pezzo, scrivono troppo e troppo sciattamente, rubano idee e mescolano linguaggi, importano dalla vicina Francia "Marianne" e "filosofesse", le interpreti più aggiornate dei perniciosi comportamenti, e le trasferiscono in palcoscenico.

Era un attacco particolarmente duro ai recenti tentativi di riforma teatrale e ai loro più fortunati interpreti. Il più autorevole dei due, il Goldoni, rispose, con molta misura, nelle terzine All'illustrissimo signor avvocato Giuseppe Alcaini. La polemica mise a rumore l'intero ambiente culturale di Venezia; il G. controbatté con La scrittura contestativa al taglio della tartana, del 1758, e alle successive repliche goldoniane, contenute in un passo del poemetto La tavola rotonda, fece seguire un secondo poemetto, I sudori d'Imeneo, edito da Zatta nel 1759. Anche i Granelleschi si mobilitarono in difesa del sodale; tra 1760 e 1761, presso il libraio e stampatore Colombani, pubblicarono Atti accademici miscellanei nei quali gli scritti in versi sono interamente volti a caricaturare scelte e messinscene goldoniane. Quando, nello stesso 1761, il G. ripensò con più calma gli statuti letterari della tradizione e mise mano al poema in ottave e in dodici canti La Marfisa bizzarra, terminato soltanto nel 1768 e pubblicato nel 1772 presso Colombani, non dimenticò gli obiettivi polemici della sua ultima battaglia.

Le vicende narrate ne LaMarfisa bizzarra sono quelle della stravagante eroina boiardesca, trasformata in una bizzosa dama del Settecento. L'impasto tra gli antichi modelli dell'epica cavalleresca e gli anacronistici camuffamenti rimanda immediatamente alla linea, pedantesca e "divertente", che dall'esempio di M.M. Boiardo e del suo "rifacitore" toscano F. Berni viene attraversando la sei-settecentesca sperimentazione eroicomica, da A. Tassoni a N. Forteguerri, fino a talune soluzioni satiriche del Giorno pariniano che il G. ricorda nella prefazione. Tuttavia anche questo più approfondito e sapiente uso del gioco letterario era ormai interamente finalizzato a una radicale denuncia. Come ai tempi della Tartana il poeta, nelle vesti del buon paladino Dodone, si era riservato uno spazio da cui giudicare personaggi ed eventi. Travestiti a loro volta da cavalieri, reggono le fila degli intrighi e delle confusioni Goldoni e Chiari. Del resto Marfisa è una "filosofessa" cavata di peso dalle loro commedie e destinata a finir male come molte eroine della drammaturgia contemporanea. I contenuti e le forme polemiche della Tartana risultano rinvigoriti da una narrazione che rinforza ulteriormente la voce dello scrittore e allarga i riferimenti ai modi e alle responsabilità d'un teatro visto come emblema della più generale decadenza, specchio deformato di una realtà nella quale i due nefasti suggeritori muovono a loro volta protagonisti e comprimari per farli interpreti delle destabilizzanti aspirazioni all'ascesa sociale, dei cedimenti alla nuova morale del commercio e del lusso, delle compromissioni con un potere pubblico arrendevole e corruttibile. Ciò che nella Tartana era appena accennato, ne LaMarfisa bizzarra assume dunque l'aspetto d'un vero e proprio pamphlet antilluministico.

Il risultato era certamente interessante, soprattutto in relazione all'evoluzione del poema eroicomico, alla sua capacità d'oltrepassare la misura del divertissement accademico per discutere il tempo presente e il ruolo della letteratura (specie, in questo caso, della drammatica). Ma era ormai chiaro che l'interesse del G. si era direttamente appuntato sul teatro. Che non si trattasse più e solo di un rapporto polemico dall'esterno, ma di un coinvolgimento interno ai problemi e alle tecniche della messinscena fu dimostrato da una recensione, stesa ancora in forma burlesco-satirica, e da un incontro risultato decisivo. Nel 1758 (in altra sede ho però ipotizzato una datazione 1760-61) il G. aveva steso un intervento in prosa, Il teatro comico all'osteria del Pellegrino, che per ragioni di censura fu pubblicato solo nell'edizione Zanardi del 1805.

Sotto le apparenze granellesche, vi aveva smontato con estrema lucidità la dilogia goldoniana della Putta onorata e della Buona moglie. A suo parere, essendo affidato alla protagonista Bettina l'inedito compito di mettere in scena i sospiri, i pianti, le pene d'amore che un tempo erano di esclusiva competenza dell'alto repertorio melodrammatico, i tradizionali rapporti scenici risultavano irrimediabilmente rovesciati. I nobili, che di quel repertorio erano da sempre stati i protagonisti, erano trasformati in personaggi negativi, persino comici nelle loro viziose ossessioni di stupratori e giocatori d'azzardo. E le maschere di Arlecchino o Brighella, costrette a prestare voce e gesti a personaggi di bassa ma realistica estrazione, vedevano sottrarsi ogni spazio di libero e stilizzato gioco. Dunque il G., scrivendo con Il teatro comico all'osteria del Pellegrino un'angolata pagina di critica teatrale, uscì dalle pastoie "accademiche".

Al passaggio dalla posizione di acuto osservatore della scena contemporanea a quella di autentico protagonista mancava, a questo punto, solo l'occasione, che si presentò con la maschera e il mestiere di Antonio Sacchi. Il grande capocomico, non dimenticato coautore e protagonista del goldoniano Servitore di due padroni, era rientrato da poco a Venezia dopo una lunga peregrinazione fino in Portogallo. Nonostante la compagnia restasse tra le più famose e importanti, Sacchi e i suoi compagni erano ormai ai margini dell'intensa vita teatrale veneziana, incapaci di adattarsi a opere che li costringevano a muoversi su schemi sempre meno suscettibili d'improvvisazione e a togliersi persino le impronte di cuoio dal volto. L'intesa col G. era perciò nei fatti. Nel polemizzare con i "riformatori" e nello smontarne le opere egli non aveva dimenticato di contrapporre loro l'"arte" di Sacchi. Già nella Tartana l'attore, appena rientrato in patria, era stato salutato come colui che avrebbe riportato l'"allegria" nei teatri pervasi dalla sottile "noia" che le commedie riformate e regolate, con la loro poetica della verosimiglianza, stavano spargendo all'insaputa dei molti sostenitori. Ora, nel 1761, in un lungo Canto ditirambico de' partigiani del Sacchi Truffaldino uscito a stampa senza indicazioni di tipografia, il G. gli attestò una condivisa solidarietà e lo esortò a mostrarsi in palcoscenico senza timori e complessi. Per aiutare Sacchi e la sua troupe a riconquistare fiducia e spettatori iniziò a fissare su fogli sparsi prologhi, battute e trame. Si è all'immediata vigilia dell'ideazione e messinscena delle dieci Fiabe teatrali: la sera del 21 genn. 1761 fu rappresentata al S. Samuele L'amore delle tre melarance.

La pièce sceneggia la storia d'un principe malinconico, la cui felicità e la cui stessa vita dipendono, per la maledizione di una fata nemica, dal ritrovamento dei pomi incantati. Malamente protetto da un mago di scarso valore, il principe partirà per la difficile ricerca insieme con un fedele compagno. La fiaba ha diverse declinazioni folcloriche e una precisa ascendenza letteraria, la novella Le tre cetra (I tre cedri) in Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile. Quel che conta notare, comunque, è l'intenzione allegorico-parodica che, tra folclore e letteratura, guida la sceneggiatura. Questa volontà fu certificata dallo stesso G. quando - passati dieci anni e accettate le insistenti offerte dell'editore Colombani - decise di pubblicare la fiaba nell'inconsueta forma di una "analisi riflessiva". Solo il prologo, infatti, era a stampa al momento della rappresentazione, mentre lo svolgimento della vicenda era appena tracciato, e non più che in qualche passo compiutamente scritto. Stendendo nel 1772 la primitiva "traccia" e corredandola di fitte didascalie sulla recitazione, le invenzioni scenotecniche, gli obiettivi polemici, le reazioni degli spettatori, il G. ebbe modo di spiegare fino in fondo il significato metateatrale della sua provocazione. Non soltanto lo stolto mago e una cattiva fata rappresentano direttamente il Goldoni e il Chiari, impegnati l'uno contro l'altro per conquistare la scena veneziana, ma tutti i passaggi fiabeschi servono a discutere i modi stessi della drammaturgia contemporanea: quelli delle basse "tabernarie" di Goldoni, appunto, o quelli delle dilatate e piagnucolose "tragedie" in roboanti versi martelliani dell'abate Chiari. Il lieto fine, che permette al principe di trovare felicità e amore, è dovuto agli interventi, casuali ma risolutivi, del "faceto" accompagnatore Truffaldino, vale a dire alla lezione scenicamente vincente della commedia dell'arte.

Dopo aver attentamente analizzato le reazioni del pubblico, divertito e nel contempo avvinto, il G. capì che la fiaba di magia aveva in sé una potenzialità drammaturgica da non sottovalutare. Invece di insistere sul nesso maschere-parodia, egli scommise per intero sull'effetto-spettacolo, la rappresentabilità del meraviglioso fiabesco, il fascino che essa può produrre. L'intenzione di costruire testi soprattutto antigoldoniani non venne meno, ma per realizzarla scelse allora una diversa via, che escludeva la polemica diretta e lo sberleffo derisorio, affidandosi alla forza delle singole forme teatrali, dei singoli piani di linguaggio che vengono studiati e montati per sceneggiare nuovi racconti. Questa importante svolta fu messa a fuoco nelle ravvicinate e complesse fasi di stesura del Corvo e del Re cervo, rappresentati nell'ottobre 1761 e nel gennaio 1762.

L'impiego di testi autorizzati - ancora il basiliano Cunto de li cunti ovvero due novelle tratte dalla settecentesca silloge francese dei cicli "orientali", i quarantun volumi de Le cabinet des fées - consentì al G. di sbozzare o ricostruire storie ben definite: quella di Millo, re di Frattombrosa, malinconico per via di un sortilegio, e di Armilla, la giovane figlia d'un negromante che sola è in grado salvargli la vita; o l'altra di re Deramo e della sua sposa Angela, la cui felicità, messa in forse da magici segreti e da perfidi cortigiani, può essere riconquistata al prezzo di affanni e dedizione. Esso gli consentì anche di far convergere intorno a quelle storie, ai loro nuclei forti, l'intero repertorio recitativo, già esibito nelle Tre melarance e che intendeva ulteriormente rivitalizzare, degli "zanni" e dei "magnifici". Ma i loro compiti e spazi vengono ora precisati in direzione d'una disposizione gerarchica dei ruoli e dei linguaggi, funzionale al dominio scenico delle superiori motivazioni.

Quando ancora era viva nel pubblico veneziano l'eco del grande successo di Re cervo, a fine gennaio 1762 il G. mise mano alla Turandot, il cui notevole successo convinse Sacchi a spostare la propria compagnia nel più ampio teatro S. Angelo. Nell'ottobre 1762 andò in scena la fortunata Donna serpente. Con la Turandot, ricavata anch'essa, come i testi successivi, dalla novellistica franco-orientale, il G. sfidò i detrattori, eliminando gli effetti di magia e di trasformazioni che potevano facilitare un consenso di pubblico ed evidenziando i temi seri e declamati dell'ispirazione. Scelta dunque la vicenda di coraggio e di passione di cui è interprete la bella e crudele principessa di Cina, decisa a opporsi alle richieste che l'ardimentoso e sconosciuto principe dei Tartari le muove a rischio della vita, il commediografo concentra la trama sui duetti dei protagonisti, sui ripetuti "bei gesti" dell'uno e la sempre più tormentata resistenza dell'altra, in un crescendo melodrammatico che offre le diverse variazioni della generosità, dell'orgoglio, dell'onore, dell'amore infine. Con la Turandot acquista dunque uno spicco decisivo il nucleo drammatico-patetico che sorregge l'inconsueta favola. A parere del G. la forza, anche scenica, degli amorosi "eroismi" non va perciò allentata, ma semmai rinvigorita alla luce del "meraviglioso" intensamente sperimentato ai tempi del Re cervo. Dall'inesauribile serbatoio "orientale" egli ricava allora una seconda "folle" storia d'amore, che è insieme una bella fiaba di magia. La vicenda di una principessa-fata che si è innamorata, contro i decreti che regolano il suo mondo, d'un uomo mortale, e che dovrebbe compiere atti tali da farsi maledire dal suo sposo e costringerlo ad affrontare alcune difficili prove per riconquistarla, è la trama de La donna serpente. È compito del registro fiabesco e degli intensi correlativi spettacolari divaricare ulteriormente il piano della realtà stralunata degli zanni, o di quella assennata dei magnifici, da quello, vittorioso infine, del sogno. Il conclusivo approdo, per forza di magia, alla remota terra dell'oro, simbolo settecentesco (e volterriano) della felicità, dota l'itinerario dei due innamorati di una valenza paradigmatica che va oltre l'approfondimento melodrammatico del nesso ragione-follia e si riverbera sulla stessa funzione del teatro, radicalmente alternativo al "mondo".

Il risultato raggiunto nella Donna serpente è decisivo e ricco di indicazioni metateatrali. Le successive opere fiabesche (la Zobeide, dell'autunno 1763, Ipitocchi fortunati e Il mostro turchino, del novembre-dicembre 1764) si limitano a riproporre una formula ormai sfruttata e conosciuta, che l'autore non riesce a forzare per mezzo d'ulteriori innovazioni e anzi appesantisce con inserimenti didascalici o con eccessi "tragici", come nella Zobeide. Il G., peraltro, avvertì l'esaurirsi della propria inventiva e reagì. Da consumato sperimentatore, decise di riscompigliare tutto, di riproporre per altre vie le proprie immutabili idee sul teatro, di riattraversare temi e atmosfere settecentesche con nuovi tagli e montaggi. Per realizzare tutto ciò tornò all'origine della sua ispirazione teatrale e nel gennaio 1765 scrisse l'Augellino belverde, ideale prosecuzione dell'Amore delle tre melarance. La decima fiaba, Zeim re de' geni, del novembre 1765, non spense l'eco degli applausi che avevano salutato nell'Augellino il vittorioso congedo gozziano. Nel reame di Monterotondo, il principe "malinconico" è divenuto nel frattempo "vedovo" per gli intrighi della terribile madre, che ha fatto seppellire viva la sua giovane sposa in una oscura prigione e commissionato l'uccisione dei due figli gemelli. Salvati in realtà da genitori adottivi di umile estrazione, ma corrotti dalla corrente ideologia dei "lumi", essi pagheranno l'iniziale arroganza attraverso un fiabesco percorso d'iniziazione, in parte cavato da una novella della secentesca raccolta di Pompeo Sarnelli, la Posilicheata, concluso con l'immancabile lieto fine. È l'ultima, importante svolta della drammaturgia gozziana. La pièce non ha infatti una finalità parodica, come nell'Amore delle tre melarance, e neppure esalta il primato alternativo ed esclusivo dei grandi gesti e sentimenti, come nelle "tragicommedie" centrali. È invece "filosofica", interessata cioè a delineare un itinerario d'educazione. Il reagente fiabesco-teatrale interviene non già per operare scarti rispetto alla realtà e opporle altri mondi compatti e irraggiungibili ai più, ma per attraversarla, mutarla e indicare così nuove convinzioni e comportamenti. Il fluire del racconto e delle sorprese sceniche si fa rapido, il ritmo raggiunto alleggerisce le stesse ipoteche ideologiche e coinvolge protagonisti, comprimari e (persino) spettatori in una collettiva e "aperta" conversione finale. Che resta la soluzione forse più brillante, certo più nota dell'intero teatro del Gozzi.

In realtà egli aveva già vinto la battaglia teatrale fra il carnevale e l'autunno 1762, al momento della sua maggiore inventività. Nell'aprile di quell'anno il Goldoni si era infatti deciso ad accettare le offerte che provenivano da Parigi e lasciava per sempre Venezia, deluso anche dal sensibile calo degli spettatori al teatro S. Luca, presso cui collaborava come autore. L'abate Chiari, per sua parte, si era allontanato dalla città proprio nell'aprile dello stesso anno. Improvvisamente il G. si era trovato solo, e questa non era una buona condizione per uno scrittore che aveva costruito il proprio teatro in competizione con le scelte altrui.

Tuttavia non disarmò. Privo del suo stimolante avversario, concluso quello che egli stesso in un passo delle Memorie inutili definì un percorso "omogeneo", ripartì dall'occasione di sempre: aiutare i comici della compagnia Sacchi nella giornaliera conquista dei consensi. In un clima fattosi più incerto e confuso, ma pur sempre affollato di iniziative e polemiche teatrali, cercò di non smarrire l'identità recitativa dei suoi protetti e di non rinnegare i criteri messi a fuoco nelle Fiabe. Così si rivolse al vasto repertorio drammaturgico del Seicento spagnolo, costituito da opere di forte tenuta narrativa e spettacolare, cominciando a lavorare su autori quali P. Calderón de la Barca, Tirso de Molina, J. de Matos Fragoso.

Le molte messinscene si intitolano La donna vendicativa (1767), La caduta di donna Elvira e La punizione nel precipizio (1768), Il pubblico segreto (1769), Le due notti affannose (1771), I due fratelli nemici (1773), La malia nella voce (1774), Il moro di corpo bianco (1775). Si tratta di "tragicommedie" che presentano fondali decorati e slontananti - le regge di Saragozza o di Aragona, le campagne della Navarra, gli squarci marittimi del Salernitano - dove si ambientano vicende di principi e duchi "caricate" nell'intrigo e nella psicologia in modo da scartare vistosamente dagli altrettanto intricati ma "quotidiani" casi dell'odiata drammaturgia postgoldoniana, e contrappuntate da inserti affidati come sempre alle improvvisazioni. La particolare attenzione alle ragioni e alle esigenze dei comici portò il G. a cedere sempre più spesso alle loro richieste. La più imprevedibile fu proprio il parziale abbandono della recitazione in maschera, giustificato dal progressivo logoramento degli interpreti, dalla sempre più forte concorrenza delle opere interamente di "carattere", dalla mutata composizione della compagnia.

Già nel 1762 Sacchi aveva chiesto allo scrittore due commedie (il Cavaliere amico e la Doride) senza ruoli destinati all'improvvisazione, "per aver qualche sera del riposo". Nel 1771 poi, mentre con i buoni uffici del G. la troupe si trasferiva al teatro S. Luca, il bravissimo Pantalone Cesare Darbes (o d'Arbes) lo abbandonò e fu scritturata come prima donna Teodora Ricci, attrice di forte temperamento. Quando l'anno seguente arrivò Carlo Coralli, per sostenere "in concorrenza" con un Sacchi via via più stanco il ruolo di Truffaldino, riscuotendo però molto meno successo, fu chiaro lo spostamento degli equilibri all'interno della compagnia. Tra il G. e la Ricci iniziò un rapporto di lavoro e d'amore durato sei anni e sfociato in aperti e "comici" contrasti con altri pretendenti. Per intanto lo scrittore aveva promesso all'amica "de' soccorsi scenici a lei appoggiati". Così andò in scena La donna innamorata di vero (1771), una commedia a "intreccio bizzarro" in cui l'attrice fu impegnata in un difficile gioco delle parti che tuttavia non convinse attori e pubblico. Interessato ormai a ideare ruoli di sempre maggiore spicco per la Ricci - tanto da tradurre a sua misura, nel 1771, persino un odiato dramma francese, Il Fajel di F.-Th. d'Arnaud - nel 1772 il G. scrisse La principessa filosofa.

In quest'opera le maschere vengono accantonate e si stabilizza così una scelta adottata anche in esiti più tardi e in assenza di Teodora (Il metafisico, 1778, o Bianca contessa di Melfi, 1779). Nel frattempo, infatti, la Ricci si era allontanata, complici le rivalità dei colleghi e le gelosie del Sacchi, ma soprattutto gli echi di uno scandalo teatrale e mondano di cui era stata protagonista insieme con il Gozzi. Il 10 genn. 1777 era andata in scena, al S. Luca, una nuova composizione titolata Le droghe d'amore, in cui il pubblico aveva riconosciuto nella figura di don Adone, "damerino affettato", la caricatura di Pietro Antonio Gratarol, amante da qualche tempo di Teodora. L'incidente non era stato di poco conto: il Gratarol, segretario del Senato malvisto dal patriziato per la sua affiliazione alla massoneria, aveva addirittura dovuto lasciare Venezia.

Se i risvolti biografici e politici della disputa dettero vita alla scrittura memorialistica, di contro rallentarono la pratica teatrale. L'interruzione dei rapporti con la Ricci non fu definitiva. Per lei il G. compose nel 1782 la commedia L'amore assottiglia il cervello e scrisse ancora due opere di forte impegno recitativo, La figlia dell'aria e Cimene Pardo. Queste ultime rappresentazioni sono però databili al 1786, quando da alcuni anni la compagnia Sacchi si era sciolta. Nel laborioso decennio delle Fiabe e delle prime pièces d'argomento spagnolo il G. non aveva pubblicato i propri testi teatrali. Nel 1772, dopo molte insistenze di amici ed editori, accettò di stampare i lavori fiabeschi e quelli d'imitazione spagnola composti fino ad allora, licenziando gli otto volumi dell'edizione Colombani (Opere, Venezia 1772-74; altri due volumi vennero pubblicati a Venezia, nel 1787 dal Foglierini e nel 1792 dal Curti Vitto). Più avanti il G. curò una seconda più ampia edizione in quattordici volumi presso lo stampatore Zanardi (Opere edite e inedite, Venezia 1801-04; mentre, nel 1805, il vol. XV riunì le Opere edite ed inedite non teatrali).

La decisione del G. fu certamente mossa dalla constatazione che i comici avevano ecceduto nella libertà di adattare i testi alle circostanze. Di là da questa esigenza di carattere "restaurativo" è vero tuttavia che egli avvertì la necessità di imprimere sulla pagina i risultati d'un lungo esperimento teatrale, per riassumerne e spiegarne le finalità. Troppi erano i possibili fraintendimenti in quell'incerto panorama postgoldoniano, e troppe variazioni stava introducendo egli stesso nel primitivo e compatto nucleo fiabesco con i suoi nuovi argomenti. Non a caso i volumi Colombani vengono prefati da un Ragionamento ingenuo e da una Appendice che sono un ripensamento del suo intero percorso drammatico e una guida interpretativa. Il nuovo punto di riferimento polemico e di conseguente scarto sono i postgoldoniani cedimenti del drame larmoyant, definitivamente imperante grazie ai molti traduttori, in particolare Elisabetta Caminer, che lo stavano imponendo all'editoria e ai palcoscenici veneziani. In un maturo Settecento dove il nuovo genere del romanzo contaminava pesantemente il teatro, le protagoniste femminili di quella drammatica flebile ponevano in scena intrighi d'amore in cui un indebolito onore, messo a dura prova, si riscattava a stento nelle lacrime finali. Grazie alla loro interpretazione, il segno romanzesco-larmoyant aveva ormai snervato del tutto la tenuta, ideologica e soprattutto scenica, delle rappresentazioni contemporanee.

In un autore fortemente attento, come ancora nel Ragionamento ingenuo, a misurare con ostinazione le proprie convinzioni su quelle altrui, il tardo approdo all'autobiografia - così comune nel secolo XVIII a intellettuali e a scrittori di teatro: Goldoni, Da Ponte, Casanova, Alfieri - si caratterizza per una dichiarata intenzione polemico-apologetica. In origine sta la controversa messinscena delle Droghe d'amore. Fuggito il Gratarol a Stoccolma, apparve a Venezia, nel 1780, una Narrazione di suo pugno contro colui che lo aveva politicamente e moralmente rovinato. Il G., ormai libero dalle venete censure, rispose allora con due volumi di Memorie inutili, divenuti tre al momento della pubblicazione presso l'editore Palese (Venezia 1797). Perciò, quando il lettore, nella dedicatoria, è chiamato in prima persona a stabilire torti e ragioni del caso Gratarol, è sulla "verità" di un intero percorso biografico che deve esercitare il proprio "giudizio".

In anni non diversi, a Parigi, il Goldoni stava invitando i lettori dei suoi Mémoires - amici cortesi e non giudici - a seguire con fiducia le vicende da lui narrate secondo un rapporto pacificato e lineare con la "verité". Ma per l'appunto Goldoni si accingeva a dar vita, programmaticamente, a un racconto in cui la posizione personale avrebbe coinciso, fino a confondervisi, con la storia progressiva e consolidata della sua riforma. Non così il G., che esibì un punto di vista rilevato, muovendosi per contrasto, usando costantemente la propria opera a testimonianza o a prova sempre decisiva, chiedendo al lettore, erede dell'antico pubblico, di schierarsi. Nei molti, efficaci episodi "teatrali" delle sue pagine - i furori giovanili, le liti familiari, le sfide impossibili, la "commedia" Ricci-Gratarol - non giocò a nascondersi, come accadde spesso al Goldoni, ma comparve, apparentemente trascinato in scena da altri, nelle vesti di attore protagonista. E le volte che, al modo di Goldoni, riuscì a defilarsi dagli eventi per meglio osservarli, non adoperò le mobili e persuasive tecniche dell'ironia ma quelle di un "riso" forte e "ingenuo", oppositivo e "inutile". Come ingenuamente superfluo l'irriducibile conservatore immaginava dovesse essere lo spettacolo, in una società sempre più interessata e utilitaristica; e come i suoi molti estimatori d'area tedesca ed europea sapranno interpretare e aggiornare, lungo il corso dell'Ottocento e del Novecento, chiamandolo di volta in volta a testimoniare le ragioni d'un teatro eversivo, fantastico, pasticheur.

Dopo aver messo mano alle ultime revisioni dei suoi scritti il G. morì a Venezia, il 4 apr. 1806.