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    di Lucia Strappini
Nacque a Venezia il 25 febbr. 1707 da Giulio,
    veneziano anche lui ma di origine modenese, e da Margherita
    Salvioni.
    
    Si devono allo stesso G. molti dettagli sui suoi primi anni di vita,
    secondo il racconto dei Mémoires, che, tuttavia, come ha
    rilevato la critica più recente, va considerato solo
    parzialmente attendibile, non solo per quanto condivide di
    finzionale con qualunque autobiografia, ma anche perché
    risponde in modo chiaro a un preciso disegno di ideologia
    intellettuale e culturale.
    
    Mémoires de Goldoni pour servir à l'histoire de sa vie
    et de son théâtre: così, infatti, il G.
    intitolò la ricostruzione autobiografica che scrisse durante
    gli anni del lungo soggiorno francese e pubblicò a Parigi nel
    1787. Ormai vecchio e lontano dall'Italia da molti anni, riprendeva
    e rielaborava i frammenti narrativi sulla propria vita sparsi tra le
    Prefazioni ai diciassette tomi dell'edizione Pasquali delle sue
    Opere (Venezia 1761-78) e gli spunti autobiografici disseminati in
    varie commedie o, a volte, nelle singole prefazioni a esse (che
    hanno il titolo L'autore a chi legge). Dal confronto delle varianti
    e dal riscontro di queste con gli accertamenti documentari, quando
    è stato possibile, è risultata confermata la
    volontà goldoniana di subordinare ogni ricordo e ogni
    omissione intenzionale al disegno del quadro autobiografico che,
    esattamente come recita il titolo, è funzionale alla
    illustrazione e alla valorizzazione del suo intervento riformatore
    sul teatro ("Ho intrapreso a scrivere la mia vita, niente per altro,
    che per fare la storia del mio teatro", Prefazione al tomo XII, ed.
    Pasquali).
    
    Appartiene alla dimensione deformata dei ricordi l'evocazione della
    suggestione esercitata sul piccolo G. dagli allestimenti teatrali
    curati dal nonno paterno Carlo, morto quattro anni prima della sua
    nascita anziché nel 1712, come annotato appunto nei
    Mémoires ("Io sono nato in mezzo a tale confusione, in mezzo
    a tale abbondanza: come potevo disprezzare gli spettacoli? Come
    potevo non amare la festosità?", p. 28: tutte le citazioni
    dei Mémoires sono tratte da C. Goldoni, Memorie, a cura di P.
    Bosisio, Milano 1993). A una analoga prospettiva risponde
    l'atmosfera pacata e bonaria che si prolunga dalla sua nascita ("ero
    mite, tranquillo e obbediente", p. 29), per delineare il ritratto
    del bonhomme fin da piccolo, secondo una precisa intenzione
    programmatica; ogni parte dell'autobiografia è insomma
    meticolosamente selezionata e disposta per avvalorare quel mito
    della vocazione naturale al teatro e all'arte comica che il G.
    affermava prepotentemente già all'inizio della sua opera
    riformatrice, quando scriveva, nella Prefazione all'edizione
    Bettinelli delle Commedie (Venezia 1750) che "io certamente mi sono
    sentito rapire quasi per una interna insuperabile forza agli studi
    teatrali sin dalla più tenera mia giovinezza".
    
    Nel 1712 nacque Giovanni Paolo (Giampaolo), l'unico dei fratelli che
    sopravvisse; a causa di serie difficoltà economiche, il padre
    dovette allontanarsi da Venezia, per andare a Roma, dove
    studiò medicina senza forse ottenere la qualifica di medico
    (come scrisse il G.) ma soltanto quella di farmacista (così
    risulta da un documento del 1716); si trasferì quindi con
    tutta la famiglia a Perugia dove esercitò la nuova
    professione. Il G., che aveva ricevuto i primi insegnamenti da un
    precettore, proseguì gli studi in collegio, prima a Perugia
    con i gesuiti (1719), poi a Rimini con i domenicani, poi ancora
    sotto la guida del domenicano Candini. Si collocano in questo
    periodo la stesura della prima commedia, il famoso episodio della
    fuga (aprile 1721) da Rimini a Chioggia (dove i genitori si erano
    nel frattempo trasferiti) al seguito di una compagnia di comici dai
    quali era stato affascinato e anche i primi segnali di quella
    malattia ("certi vapori ipocondriaci e malinconici che offuscavano
    il mio spirito", Memorie, p. 53) che lo accompagnò tutta la
    vita, con bruschi e incontrollabili passaggi dall'allegria alla
    malinconia.
    
    Nel 1721 tornò a Venezia, con la madre, entrando, come
    praticante, nello studio legale dello zio Giampaolo Indric, dove
    rimase fino al 5 genn. 1723, quando fu ammesso al collegio Ghislieri
    di Pavia con una borsa di studio concessa dal marchese Pietro
    Goldoni Vidoni, protettore della famiglia; ma prima della fine del
    terzo anno venne espulso a causa di una composizione satirica
    "destinata a colpire la sensibilità di molte famiglie onorate
    e rispettabili" (ibid., p. 83). Accompagnò quindi a Udine e
    poi a Vipacco il padre che aveva in cura il conte Francesco Antonio
    Lantieri. Qui, tra l'altro, mise in scena in un teatro di marionette
    allestito nel castello una "bambocciata" di P.I. Martello, Lo
    starnuto di Ercole. Continuò a seguire il padre in varie
    località del Friuli, della Slovenia e del Tirolo,
    finché, tornati a Chioggia, fu assunto (gennaio 1728) nella
    cancelleria criminale della città come vicecoadiutore. Si
    trasferì quindi a Feltre (aprile 1729) con la funzione di
    vicecancelliere criminale e qui affiancò al lavoro una
    rinnovata attenzione al teatro, approfittando della presenza in
    città della compagnia di Carlo Veronese (la figlia Camilla
    sarà con lui trenta anni dopo a Parigi alla Comédie
    Italienne): curò, infatti, la rappresentazione di due opere
    di Metastasio (Didone e Siroe), nelle quali si riservò ruoli
    secondari (ma "per il tragico non valevo proprio nulla", Memorie, p.
    126) e allestì due sue "operine" (Il buon vecchio e La
    cantatrice, la prima perduta, la seconda pubblicata più tardi
    con il titolo La pelarina), recitando anche in queste, ma con
    risultati più soddisfacenti, essendo le parti comiche.
    
    Nel 1731 il padre morì e il G. riprese e completò gli
    studi, si laureò in diritto all'Università di Padova e
    divenne, l'anno successivo, "avvocato veneziano" (20 maggio 1732).
    Cominciò, quindi, a esercitare la nuova professione presso lo
    studio di Carlo Terzi, senza rinunciare alle divagazioni letterarie,
    come il lunario composto per l'anno 1732 intitolato L'esperienza del
    passato fatta astrologa del futuro, "che venne stampato, apprezzato
    e applaudito" (Memorie, p. 146) o teatrali come la tragedia lirica
    Amalasunta, ideata con il preciso scopo di guadagnare "d'un colpo
    cento zecchini" (ibid., p. 148), che tentò invano di far
    rappresentare a Milano, dove nel frattempo aveva dovuto rifugiarsi,
    in seguito a una mancata promessa di matrimonio. Il residente della
    Repubblica di Venezia a Milano, O. Bartolini, gli assegnò la
    qualifica di gentiluomo di camera, per nulla redditizia ma piacevole
    e leggera; tanto che poté dedicarsi alla messa in scena al
    teatro Ducale di Milano (1733) di un'altra "operina", I sdegni
    amorosi tra Bettina putta de campielo e Buleghin barcariol veneziano
    o sia Gli sdegni amorosi (più tardi pubblicato con il titolo
    Il gondoliere veneziano), un intermezzo anche questa, composta per
    il ciarlatano Buonafede Vitali che aveva fatto compagnia con quattro
    maschere della commedia dell'arte; quindi, su commissione del primo
    amoroso della compagnia, Gaetano Casali, iniziò la stesura di
    una tragicommedia, Belisario, che terminò a Verona, dove si
    era rifugiato, per ripararsi dagli eventi bellici che stavano
    scuotendo la zona. Vi conobbe il capocomico genovese Giuseppe Imer
    che era impegnato con il teatro S. Samuele di Venezia, di
    proprietà del senatore Michele Grimani che possedeva anche il
    teatro S. Giovanni Grisostomo, adibito esclusivamente alle
    rappresentazioni dell'opera in musica.
    
    Tornò così, come poeta della compagnia Imer, a Venezia
    (1734), dove venne rappresentato con gran successo il suo Belisario
    al quale, alla sesta replica, Imer volle affiancare La pupilla, un
    altro intermezzo, ossia la solita composizione comica breve,
    accompagnata dalla musica, imperniata su due o tre personaggi al
    massimo e destinata a essere rappresentata tra un atto e l'altro di
    tragedie o melodrammi: un genere nel quale l'estro del G. eccelse,
    permettendogli, insieme, di rodare e calibrare l'uso della lingua e
    dei dialetti, gli accorgimenti e gli espedienti della drammaturgia
    tradizionale (travestimenti, agnizioni, equivoci, ecc.), la
    mescolanza di comico e patetico, secondo linee di ricerca e di
    sperimentazione che andò percorrendo con impegno per molti
    anni. L'anno successivo si rappresentò, nel carnevale, ancora
    una tragedia, Rosmonda, insieme con l'intermezzo La birba, una
    "bagatella, molto allegra e comica" (Memorie, p. 211); in maggio,
    andò in scena una Griselda, con musica di A. Vivaldi e un
    libretto adattato dal G. sul testo originale di A. Zeno. "Eccomi,
    dunque, iniziato al melodramma, alla commedia e agli intermezzi, i
    quali ultimi furono i precursori dell'opera buffa italiana" (ibid.,
    p. 213): così il G. sintetizzò questa prima fase di
    apprendistato che lo impegnò nella composizione di altri
    intermezzi (L'ippocondriaco, Il filosofo, 1735; Monsieur Petiton, La
    bottega da caffè, L'amante cabala, 1736), di tragedie
    (Enrico, re di Sicilia, Giustino, 1737), di tragicommedie (Rinaldo
    di Montalbano, 1736), di drammi eroicomici, comici e seri per musica
    (Aristide, 1735, con musica di A. Vivaldi; La generosità
    politica, 1736; Lugrezia romana in Costantinopoli, 1737), di un
    divertimento musicale (La fondazion di Venezia, 1736), di una
    ennesima versione del celeberrimo tema di don Giovanni al quale il
    G. diede forma di commedia con il titolo Don Giovanni o sia Il
    dissoluto (1735), normalizzandolo, per così dire, ossia
    sopprimendo i tratti più esasperati, sia nella trama sia
    nella sceneggiatura, sicché viene a perdersi quel senso di
    trasgressione e di oltranza dal quale deriva in buona misura il
    fascino del tema, tanto distante dallo spirito e dall'indole del
    Goldoni.
    
    A Genova, dove aveva seguito la compagnia, conobbe Nicoletta Connio,
    figlia di un notaio del Banco di S. Giorgio, che il 22 ag. 1736
    sposò, portandola subito dopo con sé a Venezia, dove
    continuò a scrivere drammi e intermezzi per il S. Samuele e
    libretti seri adattati per il S. Giovanni Grisostomo; di
    quest'ultimo divenne direttore e mantenne l'incarico per i cinque
    anni successivi.
    
    Quando fu nominato, infatti, console della Repubblica di Genova a
    Venezia (12 dic. 1740), volle interrompere il rapporto professionale
    con il teatro, sia perché impegnato a redigere i dispacci
    settimanali che il suo incarico comportava (ne stese, in totale,
    108), sia per rispetto del suo nuovo ruolo sociale ("non parendomi
    conveniente che un ministro di una repubblica fosse stipendiato da'
    comici", Prefazione al tomo XVI, ed. Pasquali). Ma l'alto tenore di
    vita e alcune sconsideratezze economiche, uniti alla natura
    pressoché onorifica dell'incarico, lo fecero ritrovare ben
    presto carico di debiti e in un'ambigua situazione finanziaria,
    sicché nel marzo 1743 abbandonò provvisoriamente
    l'incarico, rinunciandovi poi del tutto all'inizio del 1744. Si
    allontanò quindi, insieme con la moglie, anche da Venezia e
    vagò tra diverse città, da Bologna a Modena a Rimini,
    Firenze, Siena, finché alla fine del 1744 si fermò a
    Pisa dove rimase fino alla primavera del 1748, riprendendo la
    professione di avvocato. Qui ottenne l'aggregazione all'Arcadia con
    l'attribuzione del nome Polisseno Fegejo, che poi volle spesso
    esibire, come sul frontespizio dell'edizione Bettinelli delle
    Commedie già ricordata e in tutti i drammi giocosi per
    musica.
    
    Ma, pure se allentato, il legame con il teatro rimase in questo
    periodo sempre vivo, soprattutto per la suggestione che su di lui
    continuavano a esercitare gli attori. Nel 1738 l'arrivo in
    città di due attori straordinari come il Pantalone Francesco
    Golinetti e il Truffaldino Antonio Sacchi stimolarono il suo genio,
    spingendolo a scrivere un canovaccio dal titolo Momolo cortesan (poi
    L'uomo di mondo), nel quale la parte del protagonista, pensata
    appositamente per la maschera di Golinetti, era per la prima volta
    scritta per intero ("di scritto non c'era che la parte del
    protagonista. Il resto era all'improvviso", Memorie, p. 236).
    
    Una analoga mescolanza di parte scritta e parti all'improvviso
    caratterizza le due commedie successive, sempre ideate per
    Golinetti, Il prodigo (rappresentata nel 1739 e nel 1740 con il
    titolo Momolo sulla Brenta) e La bancarotta o sia Il mercante
    fallito (1740), che vengono a costituire un ideale trittico da porre
    all'inizio del percorso di trasformazione della maschera di
    Pantalone nel mercante veneziano serio, onesto e onorato di tante
    commedie successive, parallelamente alla metamorfosi dell'attore che
    dalla professionalità dell'"improvviso" passerà alla
    interpretazione del "carattere". A questi testi vanno affiancati i
    canovacci Le trentadue disgrazie d'Arlecchino, La notte critica o
    sia I cento e quattro accidenti in una notte (1737-38), Il mondo
    della luna (1743, perduto) per Antonio Sacchi, nonché i
    libretti per melodrammi Germondo (1739), Gustavo primo re di Svezia
    e Oronte, re de' Sciti (1740; questi ultimi due musicati da B.
    Galuppi), Statira, Tigrane (1741), l'opera buffa La contessina
    (1743), le cantate La ninfa saggia, Gli amanti felici, Le quattro
    stagioni (1740; aveva composto l'anno prima anche un oratorio
    latino, Magdalenae conversio) e gli intermezzi Amor fa l'uomo cieco
    (1742), Il quartiere fortunato (1743).
    
    Già in questa fase di apprendistato, dunque, come poi nella
    maturità e, infine, nel periodo francese, la produzione
    goldoniana è improntata a un massimo di variabilità
    sulla linea della sperimentazione, ma soprattutto dell'aderenza
    totale alle ragioni del teatro, del quale ha saputo sempre
    riconoscere e rispettare tutte le componenti materiali e
    intellettuali, individuali e sociali, artistiche ed economiche; che
    sono precisamente gli elementi che diventeranno ingredienti di
    spettacolo nel suo Teatro comico dieci anni più tardi. Ma
    nella visione progressiva del G. ideologo è con la commedia
    La donna di garbo (1743), la prima scritta per intero (per l'attrice
    Anna Baccherini), che ha inizio il percorso ascendente e progressivo
    della riforma ("da essa ho cominciato il nuovo genere di commedie
    intrapreso", Prefazione al tomo XVII, ed. Pasquali), anche se le
    date mostrano con chiarezza che non di movimento lineare e concorde
    si è trattato, ma piuttosto di andamento discontinuo e
    frammentato, legato tuttavia dal filo solido e persistente del
    riferimento al vivo teatro degli attori.
    
    Come aveva fatto per il Pantalone Golinetti, infatti, così
    rispose alle sollecitazioni del Truffaldino Sacchi che gli chiedeva
    nuovi scenari; riprese dunque un vecchio canovaccio di Luigi
    Riccoboni, Arlequin valet de deux maîtres, e lo
    rielaborò su misura per Sacchi, dandogli per titolo Il
    servitore di due padroni (1745): "questa commedia l'ho disegnata
    espressamente per lui" (L'autore a chi legge); solo alcune parti
    erano scritte ("tre o quattro scene per atto, le più
    interessanti per le parti serie", ibid.) e vennero integrate
    più tardi con la stesura di "tutti i lazzi più
    necessari" (ibid.). Dunque nel testo che noi leggiamo oggi è
    fissata una deliberata selezione delle tante performances che furono
    realizzate a partire da quello spunto. Si tratta di un esempio
    significativo del metodo di lavoro del G., sempre massimamente
    reattivo all'ambiente del teatro, ed è anche una delle
    ragioni di interesse per questo testo, essendo l'altra dovuta alla
    predilezione che per esso hanno manifestato registi e attori
    d'avanguardia nel Novecento, riscontrandovi la più raffinata
    e astratta messa in gioco delle componenti drammaturgiche, sulla
    linea della commedia dell'arte, ma con una rinnovata e geniale
    capacità di produrre spettacolo puro. Ancora per Sacchi
    scrisse lo scenario Il figlio d'Arlecchino perduto e ritrovato
    (1746), mentre per un altro celebre Pantalone, Cesare Arbes,
    ideò Il paroncin veneziano o sia Tonin Bellagrazia (1745, che
    divenne, a stampa, Il frappatore), I due gemelli veneziani (1747) e
    L'uomo prudente (1748).
    
    Fu proprio Arbes il tramite dell'incontro, a Livorno, tra il G. e
    l'impresario Gerolamo Medebach (1747) che in città
    rappresentava con la sua compagnia La Griselda e La donna di garbo
    (fu in questa occasione che il G. vide per la prima volta la sua
    commedia in teatro, nella interpretazione di Teodora Medebach);
    dunque il G. accettò la proposta del Medebach di assumerlo
    come poeta della compagnia e lasciò poco dopo definitivamente
    Pisa (aprile 1748) e la professione legale per un contratto,
    stipulato il 10 marzo 1749, che lo legava per i successivi quattro
    anni, impegnandolo a produrre ogni anno otto commedie e due opere
    musicali, a seguire la compagnia in tournée e ad accomodare i
    testi del suo repertorio. Tornava così, dopo cinque anni di
    assenza, a Venezia, dove, salvo qualche breve viaggio, rimase fino
    alla partenza per Parigi nel 1762.
    
    Termina a questo punto la prima parte dei Mémoires (la
    seconda parte copre gli anni 1748-62; l'ultima coincide con il
    soggiorno francese): il noviziato era concluso e con esso il
    peregrinare di città in città; il ritorno a Venezia
    segna l'inizio della fase eroica della riforma ("Era là che
    avevo posto le fondamenta di un teatro italiano ed era là che
    dovevo lavorare per la costruzione di quel nuovo edificio. Non avevo
    rivali da vincere, ma avevo pregiudizi da superare", Memorie, p.
    297). È superfluo sottolineare ancora una volta la natura
    tutt'altro che monolitica del processo, come testimonia
    efficacemente la composizione parallela di opere buffe, commedie e
    drammi musicati, tra gli altri, da B. Galuppi, G. Paisiello, Ch.W.
    Gluck, J. Haydn: La scuola moderna o sia La maestra di buon gusto,
    Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno (1748); L'Arcadia in Brenta,
    Arcifanfano re dei matti, Il mondo della luna, Il finto principe, Il
    negligente (1749); Il paese della cuccagna, Il mondo alla roversa o
    sia Le donne che comandano, La mascherata, Le donne vendicate
    (1750); di intermezzi (La favola de' tre gobbi, 1748) e di canovacci
    (I fratelli riconosciuti, Pantalone imprudente, I flati
    ipocondriaci, Le amorose fattucchiere di Brighella, 1749).
    
    Tuttavia è certo che al G. soprattutto interessava continuare
    a lavorare alla trasformazione di elementi della tradizione teatrale
    italiana, così come lui stesso la conosceva e la praticava;
    poiché riconosceva con assoluta chiarezza la funzione
    strutturante delle tre componenti essenziali del teatro, oltre
    l'autore, ossia l'impresario, gli attori, il pubblico, fu
    precisamente su tutti e tre che intervenne, senza mai dimenticarne o
    sottovalutarne il valore. Tutto ciò risulta, del resto, molto
    chiaramente dalle considerazioni, critiche e autocritiche, sulle sue
    composizioni che sono doviziosamente diffuse nei Mémoires.
    
    Con questo spirito, dunque, il G. affrontava l'avventura nel teatro
    S. Angelo affittato dal Medebach dopo che i coniugi Gozzi l'avevano
    lasciato, a causa della lunga stagione di fallimenti: la sua
    inventiva era stimolata dalle caratteristiche del palcoscenico e
    della sala, come da quelle degli attori della compagnia, prima fra
    tutte Teodora Medebach che aveva già ammirato nella Donna di
    garbo. Per lei aveva scritto La vedova scaltra (presumibilmente
    già andata in scena a Modena nell'estate) che aprì la
    stagione del S. Angelo il 26 dic. 1748, seguita da La putta onorata
    e dalla riproposta di L'uomo prudente, I due gemelli veneziani,
    Tonin Bellagrazia.
    
    Proprio la vedova Rosaura sorregge una commedia scritta per intero,
    la seconda dopo La donna di garbo, che si segnala pure per
    l'abolizione delle maschere (che vi compaiono, ma in una prospettiva
    direttamente funzionale all'intreccio), insieme con La putta
    onorata, in direzione di un progressivo allontanamento dei
    personaggi dalle figure stereotipate, dell'invenzione di un
    linguaggio popolare felicemente mimetico, com'è quello dei
    gondolieri che compaiono nella Putta onorata, di una operazione
    complessiva di asciugamento delle ragioni ereditate dalla tradizione
    comica e di una loro conversione "onesta e istruttiva", i termini da
    lui stesso assegnati alla storia di Bettina, che era "una popolana,
    ma, per i suoi costumi e la sua moralità, era fatta per
    interessare tutte le classi e tutti i cuori onesti e sensibili"
    (Memorie, p. 311). È facilmente avvertibile qui quella
    tonalità patetica e sentimentale che attraversa tante
    composizioni goldoniane, producendo esiti drammaturgici diversi, in
    linea del resto con un robusto filone della sensibilità
    settecentesca. Ma c'è un altro punto da segnalare ed è
    la sottolineatura goldoniana del carattere morale dei suoi
    personaggi e delle sue trame: proprio sulla Vedova scaltra, infatti,
    si addensarono quelle accuse di immoralità che furono spesso
    rivolte alle sue commedie, accompagnando, in qualche modo, tutta la
    sua carriera. Il poeta scritturato al teatro S. Samuele, Pietro
    Chiari, ne scrisse e ne fece rappresentare nel 1749 una parodia
    intitolata La scuola delle vedove (ce n'è pervenuto solo
    l'Argomento), che rispondeva, come tutti i successivi testi parodici
    e polemici del Chiari, alla volontà di distogliere dal S.
    Angelo il pubblico per attirarlo con ogni mezzo nel proprio teatro.
    Il G. contrattaccò subito con un Prologo apologetico della
    "Vedova", un dialogo tra Prudenzio sostenitore della riforma del
    teatro (nel quale è ben riconoscibile il Medebach) e
    Polisseno, trasparente schermo dello stesso drammaturgo. È di
    particolare rilievo la scelta operata, anche in questo caso, dal G.
    di appellarsi direttamente al pubblico. Il dialogo fu infatti
    stampato e diffuso per tutta la città e il teatro S. Angelo
    continuò a essere frequentato dai suoi estimatori.
    Benché poi il governo intervenisse introducendo per decreto
    "la censura per le opere destinate al teatro" (ibid.), lo scontro
    con il Chiari e con i suoi paladini continuò negli anni
    successivi, diretta e naturale ripercussione della accanita
    concorrenza tra i numerosi teatri attivi allora a Venezia, mescolato
    alle critiche anche aspre sulle quali convergevano posizioni
    intellettuali e letterarie diverse (come quella di Baretti e poi di
    Carlo Gozzi, per esempio) che erano accomunate tuttavia dal rifiuto
    - più o meno esplicito e aggressivo - delle innovazioni
    goldoniane sul terreno della morale e dell'estetica.
    
    Per il primo aspetto, si contestava al G. di avere messo alla
    berlina personaggi del ceto aristocratico, opponendo a essi, in
    positivo, figure borghesi o addirittura popolari; più in
    generale gli si imputava un'ambientazione "troppo realistica e
    pungente" (Memorie, p. 307), con un atteggiamento ideologicamente
    sconveniente perché troppo poco rispettoso delle tradizioni e
    dell'ordine sociale. Scriverà qualche anno dopo il suo
    più temibile e tenace avversario, Carlo Gozzi: "Io non
    iscopro nelle sue Putte onorate che delle lascive fanciulle,
    bugiarde, di poco onore, ne' suoi Cavalieri di spirito che dei
    seduttori; ne' suoi Impresari delle Smirne che una scuola di
    immodestia e di lussuria; nelle sue Spose persiane che un cattivo
    specchio di poligamia pernizioso, che un'oppression della
    virtù" (Ragionamento ingenuo, in C. Gozzi, Opere, a cura di
    G. Petronio, Milano 1962, pp. 1075 s.). Sull'altro fronte, quello
    estetico, le accuse avevano uno sfondo del tutto simile: anche in
    questo caso era censurata la sua attitudine innovativa, per nulla
    libresca e conforme alle regole fissate dai classici. Dal mancato
    rispetto di esse discendeva, a parere dei suoi critici, il difetto
    di verosimiglianza che essi riscontravano nei comportamenti di tanti
    suoi personaggi.
    
    La risposta del G. fu affidata alla già citata Prefazione
    alla prima raccolta delle Commedie e al contemporaneo Teatro comico
    che letteralmente mette in scena i capisaldi della sua riforma.
    Nella Prefazione illustrava con chiarezza i termini della sua
    poetica, introducendo i due concetti, "mondo" e "teatro", come fonti
    privilegiate della sua inventiva, sostitutive di ogni conformismo,
    sul terreno ideologico come su quello drammaturgico. "Ma dirò
    con ingenuità, che sebben non ho trascurata la lettura de'
    più venerabili e celebri Autori, da' quali, come da ottimi
    maestri, non possono trarsi che utilissimi documenti ed esempli:
    contuttociò i due libri su' quali ho più meditato, e
    di cui non mi pentirò mai d'essermi servito, furono il Mondo
    e il Teatro. Il primo mi mostra tanti e poi tanti vari caratteri di
    persone, me li dipinge così al naturale, che paion fatti
    apposta per somministrarmi abbondantissimi argomenti di graziose ed
    istruttive Commedie […]. Il secondo poi, cioè il libro del
    Teatro, mentre io lo vo maneggiando, mi fa conoscere con quali
    colori si debban rappresentare sulle scene i caratteri, le passioni,
    gli avvenimenti che nel libro del Mondo si leggono; come si debba
    ombreggiarli per dar loro il maggior rilievo, e quali sien quelle
    tinte, che più li rendon grati agli occhi dilicati de'
    spettatori".
    
    Non per caso F. De Sanctis evocò il nome di Galilei per
    sintetizzare l'indole dell'operazione intellettuale goldoniana ("E
    riuscì il Galileo della nuova letteratura", p. 355),
    evidentemente colpito dalla ripresa della metafora libresca mediante
    la quale appunto Galilei aveva voluto esporre le sue nuove idee; ed
    era precisamente nella capacità, straordinaria per la
    tradizione italiana, di sostanziare la scrittura drammaturgica con
    la diretta e profonda conoscenza della macchina teatrale, che,
    secondo De Sanctis, si manifestava il carattere più forte
    della sua innovazione; anche se, su questa via, esagerava la
    "naturalità" dell'ingegno del G. a scapito della sua cultura:
    "La sua scarsa coltura classica avea questo di buono: che tenea il
    suo spirito sgombro da ogni elemento che non fosse moderno e
    contemporaneo" (ibid., p. 354). "Incultura" unita a "istinto" vanno
    così a confermare, nella critica, quel mito della vocazione
    congenita e inarrestabile che era stato posto dallo stesso G. a
    fondamento della sua riforma, fin dall'inizio. "Io certamente mi
    sono sentito rapire quasi per una interna insuperabile forza agli
    studi teatrali sin dalla più tenera mia giovinezza"
    (Prefazione, in C. Goldoni, Opere, a cura di G. Folena, Milano 1969,
    p. 1306); una linea, l'abbiamo visto, più volte ribadita nei
    Mémoires, direttamente funzionale al recupero degli elementi
    più vitali della tradizione scenica, legati alla recitazione,
    alla strutturazione drammaturgica dei testi, alle modalità di
    traduzione del "mondo" nel "teatro" ("Il teatro è un modo
    specifico di comporre gli elementi offerti dal Mondo", Baratto,
    1964, p. 163). Si tratta dunque dell'opera di valorizzazione di
    quegli elementi, opportunamente selezionati e depurati delle scorie
    che la cattiva pratica delle compagnie aveva su di essi depositato
    negli ultimi decenni, corrompendo il gusto del pubblico e deprimendo
    l'arte degli attori. Con la piena legittimazione professionale e
    morale degli attori e, per la prima volta, dell'autore, il G.
    fissava le basi dell'idea moderna di teatro. Che fosse ben
    consapevole, di là da qualche vezzo, della portata delle sue
    novità, è facilmente riscontrabile alla lettura di
    molti passi, come il seguente, riferito proprio ai primi anni del
    suo lavoro al S. Angelo: "Per tutto il tempo in cui lavorai sul
    vecchio repertorio della commedia dell'arte e produssi commedie in
    parte scritte e in parte all'improvviso, mi si lasciò godere
    in pace degli applausi della platea; ma, non appena mi presentai
    come autore, come inventore, come poeta, i begli ingegni si
    risvegliarono dal letargo e mi ritennero degno della loro attenzione
    e delle loro critiche" (Memorie, p. 314). Questa è
    precisamente la materia del Teatro comico, un vero e proprio
    manifesto delle idee riformatrici: "Questa, ch'io intitolo Il teatro
    comico, piuttosto che una Commedia, prefazione può dirsi alle
    mie Commedie. In questa qualunque siasi composizione, ho inteso di
    palesemente notare una gran parte di que' difetti che ho procurato
    sfuggire, e tutti que' fondamenti su' quali il metodo mio ho
    stabilito, nel comporre le mie Commedie, né altra evvi
    diversità fra un proemio e questo componimento, se non che
    nel primo si annoierebbono forse i leggitori più facilmente,
    e nel secondo vado in parte schivando il tedio col movimento di
    qualche azione" (L'autore a chi legge). Com'è nel suo stile,
    il G. minimizza il valore della sua commedia che è in effetti
    più ricca e interessante di una semplice "poetica posta in
    azione" (Memorie, p. 331), se non altro perché la raddoppia,
    l'azione, presentando una nuova variante di teatro nel teatro, che
    arricchisce semanticamente il testo, offrendolo a una
    pluralità di letture.
    
    Al Teatro comico il G. assegnò il compito di aprire la
    stagione 1750, quella per la quale aveva promesso al pubblico di
    presentare sedici commedie nuove: la sua risposta agli attacchi,
    alle polemiche, all'annunciato abbandono della compagnia da parte di
    d'Arbes e, per ultimo, all'insuccesso della commedia L'erede
    fortunata, dopo la buona accoglienza delle precedenti La buona
    moglie (che riprendeva personaggi e situazioni della Putta onorata),
    Il cavaliere e la dama, L'avvocato veneziano, Il padre di famiglia,
    La famiglia dell'antiquario, che, sia pure in modi diversi, avevano
    continuato a segnare la distanza dai consueti canoni comici per
    tutta la stagione precedente. Alla rappresentazione inaugurale
    seguirono gli altri quindici titoli: Il giuocatore, Il bugiardo,
    L'adulatore, La bottega del caffè, Il poeta fanatico, Le
    femmine puntigliose, I pettegolezzi delle donne, Il vero amico, La
    Pamela, Il cavaliere di buon gusto, La finta ammalata, La dama
    prudente, L'incognita, L'avventuriere onorato, La donna volubile.
    
    In alcuni di essi i caratteri sono disegnati con quella
    felicità di mano che produrrà le figure più
    note della galleria goldoniana, in altri è più
    accentuata, in qualche caso con risultati ragguardevoli,
    l'attenzione al ritratto d'ambiente, secondo la linea di altre
    commedie famose. Ampio spazio, poi, è dato ai personaggi
    femminili, sia nel comico, sia in quella dimensione sentimentale e
    patetica già sperimentata nella Putta onorata e nella Buona
    moglie, che rispondeva bene alle esigenze espresse dal pubblico in
    tutta Europa; con la Pamela eguagliò lo straordinario
    successo che aveva ottenuto, pochi anni prima, il romanzo di S.
    Richardson dal quale aveva tratto la storia: "fra tutte le mie opere
    rappresentate fino ad allora, fu quella che riportò la palma"
    (Memorie, p. 345).
    
    Merito certamente anche della Medebach, pensando alla quale stese
    tanti testi, talora (come per La finta ammalata, cfr. Memorie, pp.
    353-355) ispirandosi direttamente a qualche sua debolezza o
    caratteristica, come farà anche per la Corallina, Maddalena
    Raffi Marliani (cfr. L'autore a chi legge, in La serva amorosa:
    "Conoscendo io dove potea fare maggior risalto la di lei
    abilità, ho procurato vestirla d'una prontezza di spirito,
    che a lei suol essere famigliare") che entrò nel 1751 nella
    compagnia, inducendo il G. a orientare su di lei la sua
    immaginazione.
    
    Dunque, seguendo il proprio metodo (che viveva anche delle relazioni
    sentimentali che frequentemente intrecciava con le attrici),
    cominciò ad affiancare ai ruoli della prima donna parti
    sempre più estese destinate alla soubrette, fino a farne la
    protagonista, come nella Serva amorosa e poi nella Locandiera
    (1752). Era l'esito, anche stavolta, del percorso di trasformazione
    di un ruolo tradizionale: la servetta da La donna di garbo alla
    Vedova scaltra, a La castalda, fino alle due citate sopra, era
    sottoposta a un'opera di affinamento sul terreno psicologico e
    drammaturgico, per essere proiettata su una serie di figure
    femminili, che vivevano del tutto autonomamente rispetto al tipo
    della tradizione.
    
    La Mirandolina della Locandiera rappresenta, a giudizio della
    generalità della critica, uno dei punti più alti
    raggiunti dall'arte goldoniana. Temi cardine attorno ai quali ruota
    il meccanismo perfetto dell'azione sono la seduzione e la finzione,
    messe fin dall'inizio in rapporto preciso con un altro dei temi
    forti della invenzione goldoniana, ossia il denaro (o la sua
    assenza) che padroneggia le prime tre scene dell'atto primo e rimane
    costantemente presente in tutto lo svolgimento, insieme con gli
    altri. Tutti i personaggi sono dominati dalla passione, da una
    qualche passione; l'unica che, almeno fino a un certo punto, sa
    governare saldamente il quadro, perché sa fingere e sa usare
    la sua finzione, è la protagonista, nella quale è
    perciò possibile riconoscere anche una funzione, per
    così dire, metateatrale: "Se la locanda somiglia a un teatro
    e Mirandolina a un'attrice, non sarà arbitrario leggere la
    commedia anche come un'ulteriore esemplificazione che l'autore fa
    della sua idea di teatro e della sua poetica" (Angelini, La
    locandiera di C. G., p. 1110).
    
    Già dal debutto La locandiera ebbe un successo così
    brillante "che fu posta sul medesimo piano, o anche al di sopra, di
    tutto ciò che avevo fatto nel genere in cui l'artificio
    supplisce all'interesse" (Memorie, p. 385); un successo che si
    è costantemente ripetuto nel corso degli anni e nei diversi
    paesi in cui è stata rappresentata. Nei due anni che
    passarono tra le sedici commedie nuove e La locandiera il G.
    iniziò quel girovagare al seguito della compagnia che lo
    portò in quasi tutte le città dell'Italia
    settentrionale e centrale, permettendogli di realizzare conoscenze e
    stringere amicizie, alcune delle quali mantenne per tutta la vita.
    Tra le personalità più significative il marchese F.
    Albergati Capacelli, attore dilettante e commediografo anch'egli,
    con il quale sviluppò una profonda e duratura amicizia
    testimoniata dal carteggio che presenta più di un motivo di
    interesse.
    
    Il G. aveva continuato a scrivere per il Medebach e il teatro S.
    Angelo commedie come Il Molière, La castalda e L'amante
    militare (1751); Il tutore, La moglie saggia, Il feudatario, Le
    donne gelose, I puntigli domestici, La figlia obbediente e I due
    Pantaloni o sia I mercatanti (1752). Ma le condizioni imposte
    dall'impresario si facevano sentire sempre più pesantemente;
    i loro rapporti si erano inoltre guastati per le pretese avanzate
    dal Medebach sui proventi della pubblicazione delle Commedie
    goldoniane intrapresa presso l'editore veneziano Bettinelli. Insomma
    alla fine del 1752 il G. gli comunicò l'intenzione di non
    rinnovare il contratto alla scadenza dell'anno successivo; nel
    frattempo prese accordi per passare al teatro S. Luca di
    proprietà del nobile Antonio Vendramin con un impegno
    decennale (che si sarebbe protratto fino al carnevale 1763), molto
    più vantaggioso e rispettoso dei suoi meriti.
    
    Alla rottura con il Medebach seguì la chiusura del rapporto
    anche con l'editore Bettinelli (il G. curò dunque per lui
    soltanto i primi tre tomi) e il passaggio all'editore Paperini di
    Firenze che fece uscire in dieci volumi le cinquanta commedie fin
    lì scritte (1753-57). Con la rappresentazione di Le donne
    curiose e di Il contrattempoo sia Il chiacchierone imprudente nel
    carnevale 1753 si concluse la collaborazione con il Medebach e con
    il S. Angelo (ma ancora nell'autunno dello stesso anno andò
    in scena l'ultima commedia scritta dal G. per Medebach, La donna
    vendicativa).
    
    "Passai dal teatro Sant'Angelo al San Luca: là non v'era
    alcun impresario; i comici si dividevano i proventi e il
    proprietario del teatro che disponeva dei guadagni dei palchi,
    accordava loro provvigioni in proporzione al merito o
    all'anzianità" (Memorie, p. 389): una situazione che, in
    realtà, gli creò molti problemi, sia nei rapporti con
    il proprietario e gli attori ("non ancora abbastanza preparati al
    nuovo metodo delle mie commedie", ibid., p. 393), sia
    nell'adattamento alle nuove dimensioni del teatro che "era molto
    più grande; le azioni semplici e delicate, le finezze, gli
    scherzi, il vero comico vi perdevano molto" (ibid.).
    
    Nessuna meraviglia perciò per la caduta delle prime
    rappresentazioni al teatro S. Luca: Il geloso avaro, e La donna di
    testa debole o sia La vedova infatuata, un dato negativo da
    aggiungere alle ripercussioni della concorrenza del Chiari che gli
    era subentrato al teatro S. Angelo.
    
    Ma il G. reagì ancora una volta alle difficoltà con
    uno scatto d'ingegno: "Secondo l'intento che mi ero proposto, cercai
    un argomento che potesse fornire comico, interesse e sorpresa"
    (Memorie, p. 394). Il frutto fu la tragicommedia La sposa persiana
    (1753, in versi martelliani come il precedente Molière) che,
    con le sue 34 repliche, risultò uno dei successi più
    clamorosi del secolo. Ma la ripresa del tema in Ircana in Julfa
    (1755) non fu affatto gradita dal pubblico; il successo tornò
    con Ircana in Ispahan o sia Osmano ritornato dal campo (1756), un
    vero e proprio trionfo.
    
    La principale ragione della fortuna, tra i contemporanei, della
    trilogia persiana va ricercata senz'altro nella bravura della nuova
    stella della compagnia, Caterina Bresciani, con la quale il G.
    raggiunse la sintonia che aveva sperimentato già tante volte
    con le sue attrici preferite. La trama, inoltre, l'ambientazione
    esotica e la modulazione del tema della passione erano tutti
    elementi che sollecitavano il gusto diffuso in tutta Europa dalla
    metà del XVIII secolo.
    
    Ispirate a una tonalità variamente esotica sono ancora altre
    commedie o tragicommedie come Il filosofo inglese (1754), La
    peruviana (1754), Il medico olandese (1756), La bella selvaggia, La
    dalmatina (1758), La scozzese, La bella giorgiana (1761), che si
    affiancarono, spesso con ottima rispondenza di pubblico, agli altri
    filoni sui quali il G. continuava a lavorare.
    
    Uno dei più consistenti, in termini quantitativi e
    qualitativi, è certamente quello che arricchisce, sulla linea
    della Locandiera, la galleria dei ritratti femminili, proseguendo
    nella trasformazione del ruolo della servetta, con una ampiezza di
    sfaccettature che poggia sullo scavo dei caratteri, sulla ricerca
    sempre più raffinata attorno a casi e situazioni psicologiche
    emblematiche. Di qui i tanti titoli in qualche modo raggruppabili
    sotto lo stesso segno: La cameriera brillante (1753); La madre
    amorosa (1754); La donna stravagante (1756); La donna sola, La
    pupilla, La vedova spiritosa (1757); La donna bizzarra, La sposa
    sagace, La donna di governo, La donna forte (1758); Pamela maritata
    (composta per gli attori del teatro Capranica di Roma), La donna di
    maneggio, La buona madre (1760): titoli che compongono quella che
    è stata felicemente definita l'"unica comédie humaine
    femminile della nostra letteratura teatrale" (Angelini, Vita di G.,
    p. 72).
    
    Accanto a queste commedie centrate sui personaggi femminili si
    dispongono quelle costruite su personaggi e situazioni diverse, come
    Il vecchio bizzarro, L'impostore (1754, appositamente priva di
    personaggi femminili, per poter essere rappresentata nei collegi dei
    gesuiti); Il cavalier giocondo (rappresentata con il titolo I
    viaggiatori), Il festino, La buona famiglia, I malcontenti (1755);
    Il raggiratore, L'avaro, L'amante di se medesimo (1756); Il
    cavaliere di spirito o sia La donna di testa debole, Il padre per
    amore (1757); Lo spirito di contraddizione, Il ricco insidiato,
    L'apatista o sia L'indifferente (1758); o centrate su personaggi
    storici come Terenzio (1754), Torquato Tasso (1755): commedie in
    prosa o, in diversi casi, in versi (martelliani, endecasillabi e
    settenari, ecc.), secondo un'attitudine praticata dal G. durante
    tutta la sua carriera. Un particolare interesse presenta un gruppo
    di testi di questi anni nei quali risalta la concentrazione
    drammaturgica sul disegno di ambienti, popolari o cittadini, per lo
    più in dialetto, su una linea che porterà all'alto
    risultato delle Baruffe chiozzotte (1762). Si tratta di Le massere
    (la prima commedia interamente in dialetto), Le donne de casa soa
    (1755), Il campiello (1756), Le morbinose, Le donne di buon umore
    (1758), I morbinosi (1759): commedie in cui spesso è il
    carnevale a essere protagonista, o almeno sfondo organico, in quanto
    allusione a un tempo eccezionale che permette l'espressione di
    sentimenti, comportamenti e inclinazioni tenuti in qualche modo a
    freno durante il resto dell'anno. In questo senso non si tratta mai
    di veri e propri intrecci, ma piuttosto di quadri montati con
    perizia per restituire una speciale atmosfera ambientale e corale.
    Già in commedie precedenti era comparso il carnevale, ma non
    per caso è in quella precisa stagione che il G.
    ambienterà la sua ultima commedia italiana, il congedo dal
    pubblico veneziano, intitolata appunto Una delle ultime sere di
    carnovale (1762), nella quale sono tratteggiate in una forma
    trasparentemente allegorica le ragioni della partenza, le delusioni,
    le amarezze e le speranze che animano il protagonista Anzoletto che
    lascia Venezia per Moscovia.
    
    La decisione di accettare la proposta di andare per due anni a
    Parigi alla Comédie Italienne nasceva in buona misura dalle
    difficoltà che continuava a incontrare, nonostante tutto, la
    sua idea di teatro, concretata in buona parte della produzione,
    straordinariamente intensa e ricca, del decennio precedente.
    
    Oltre le commedie e le tragicommedie di cui si è detto, il G.
    aveva continuato a produrre opere buffe presentate per lo più
    al S. Samuele, al S. Cassiano, al S. Moisè, al S. Angelo di
    Venezia: Il conte di Caramella, Le pescatrici, La mascherata, Le
    virtuose ridicole (1751); I portentosi effetti della madre natura,
    La calamita de' cuori, I bagni d'Abano (1752); De gustibus non est
    disputandum (1753); Il filosofo di campagna, Lo speziale o La finta
    ammalata (1754); Il povero superbo, Le nozze, La diavolessa, La
    cascina, La ritornata di Londra (1755); La buona figliuola, Il
    festino, Il viaggiatore ridicolo (1756); L'isola disabitata, Il
    mercato di Malmantile, La conversazione (1757); Il signor dottore,
    Buovo d'Antona, Gli uccellatori (1758); Filosofia ed amore, La fiera
    di Sinigaglia (rappr. al teatro delle Dame di Roma), Amor contadino
    (1760); La donna di governo (rappr. al teatro Argentina di Roma), La
    buona figliuola maritata (rappr. al teatro Formagliari di Bologna),
    Amore in caricatura (1761), musicate anche da artisti come B.
    Galuppi, G. Paisiello, N. Piccinni, A. Salieri, D. Cimarosa, J.
    Haydn, W.A. Mozart.
    
    Accanto a queste andarono in scena le farse per musica Il matrimonio
    discorde (al teatro Capranica di Roma) e La cantarina (1756), le
    opere giocose Il conte Chicchera (1759), L'amor artigiano (1760) e
    La bella verità (1762), l'intermezzo La vendemmia (1760, ma
    composto negli anni precedenti), la tragedia a lieto fine Artemisia,
    la tragicommedia Gli amori di Alessandro Magno (1759), la tragedia
    Enea nel Lazio (1760). Per illustrare pienamente la straordinaria
    capacità lavorativa del G. vanno ricordate ancora la serenata
    L'amor della patria composta nel 1752 ed eseguita in onore del nuovo
    doge, la cantata L'oracolo del Vaticano (1758), l'operetta
    spirituale L'unzione del reale profeta Davidde (1760, ma composta
    l'anno precedente a Roma); nonché le numerose composizioni
    poetiche, per lo più d'occasione, che furono raccolte in due
    tomi e pubblicate presso l'editore Pasquali (1764 e 1768) con il
    titolo Delli componimenti diversi. Né va dimenticata
    l'attività quasi ininterrotta spesa per la pubblicazione
    delle sue opere. Rotto infatti, come si è detto, il rapporto
    con Bettinelli, curò la stampa delle Opere drammatiche
    giocose di Polisseno Fegejo per l'editore Tevernin (Venezia, 1753),
    contemporaneamente all'impegno con Paperini, mentre presso Pitteri
    (Venezia) uscivano in 10 tomi le 40 composizioni scritte per il
    teatro S. Luca e per il teatrino dell'Albergati a Zola Predosa
    (1757-64); dal 1761, poi, si occupò della edizione delle sue
    opere presso Pasquali che interruppe dopo il volume XVII (1778).
    
    Tutta questa operosità venne spesso ripagata da soddisfazioni
    e riconoscimenti, ma ai successi di pubblico e agli incoraggiamenti
    dei suoi protettori (oltre l'Albergati Capacelli, si ritrovano in
    questa schiera, tra gli altri, G. Gozzi, P. Verri, M. Cesarotti e,
    tra i più lusinghieri, Voltaire: tutti, come si vede,
    esponenti di spicco della intellighenzia illuministica), si
    alternavano fallimenti, cadute e attacchi aspri e velenosi dei suoi
    detrattori, primo fra tutti C. Gozzi che nel 1761 debuttò
    anche come drammaturgo con la fiaba teatrale L'amore delle tre
    melarance, messa in scena da A. Sacchi al teatro S. Angelo e accolta
    trionfalmente dal pubblico. Un ulteriore dispiacere per il G. che
    aveva attraversato una fase di stanchezza attorno alla metà
    degli anni Cinquanta, forse a causa della morte della madre (1754),
    forse anche per il riacutizzarsi dei suoi malori ("I miei attacchi
    erano fisici oltre che psicologici", Memorie, p. 414), ma che era
    tornato sul finire del decennio alla più piena e ricca
    creatività, producendo una serie di capolavori: Gli
    innamorati (1759); La casa nova, I rusteghi (1760); Le smanie della
    villeggiatura, Le avventure della villeggiatura, Il ritorno dalla
    villeggiatura (1761, presentate fin dall'inizio come trilogia; una
    precedente commedia con il titolo La villeggiatura era stata
    rappresentata nel 1755); alle quali si affiancarono opere di grande
    perizia ed esito come L'impresario delle Smirne, La guerra (1759);
    Un curioso accidente (1760); L'osteria della posta (scritta su
    richiesta dell'Albergati), Sior Todero brontolon o sia Il vecchio
    fastidioso (1762).
    
    Dunque, a spingerlo verso la Francia fu in parte la lusinga per la
    proposta parigina; ma influì certo maggiormente lo sconforto
    per l'abbandono del pubblico sempre più fortemente attratto
    dal teatro dei suoi avversari Gozzi e Chiari. Anche questo
    frangente, come tutti quelli fondamentali, è consegnato
    all'autobiografia in dimensione falsata: "io amavo la mia patria, vi
    ero vezzeggiato, festeggiato, applaudito; le critiche contro di me
    erano cessate e io godevo di una deliziosa tranquillità"
    (Memorie, p. 516). Il 22 apr. 1762 il G., dopo aver ottenuto licenza
    dal duca di Parma (che gli aveva assegnato, nel 1756, la patente di
    poeta di sua altezza serenissima e una pensione annua in cambio
    della produzione di opere buffe per la corte) e il permesso dal
    proprietario del teatro S. Luca (che tentò invano di
    dissuaderlo), partiva per Parigi con la moglie e il nipote Antonio,
    che insieme con la sorella Petronilla Margherita gli era stato
    affidato dal fratello Giovanni Paolo già dal 1754.
    
    Ma il primo incontro con la nuova situazione fu tutt'altro che
    gratificante. Gli attori della Comédie Italienne (che
    dall'inizio dell'anno era stata fusa con l'Opéra Comique, con
    l'ovvia conseguenza della emarginazione del repertorio italiano) non
    erano preparati alla nuova recitazione dei testi "premeditati",
    così come il pubblico francese che identificava teatro comico
    italiano e commedia dell'arte, secondo una prospettiva consolidata
    da diverse generazioni di celebri comici italiani ma ormai
    gravemente impoverita. Così la prima rappresentazione a corte
    di un suo canovaccio, L'enfant d'Arlequin perdu et retrouvé,
    si risolse in una caduta. Di fronte all'insuccesso e alla
    constatazione della profonda disaffezione del pubblico agli
    spettacoli della Comédie Italienne, il G. tentò di
    ripetere a Parigi il percorso tracciato a Venezia: "i miei cari
    compatrioti non facevano che rappresentare commedie ormai logore,
    commedie all'improvviso di un genere pessimo, quel genere che io
    avevo riformato in Italia. Ci penserò io, mi dicevo, ci
    penserò io a dare caratteri, sentimento, progressione,
    condotta, stile" (Memorie, p. 545). Ma L'amore paterno o sia La
    serva riconoscente (1763), scritta per intero ma senza abolire le
    maschere, fu accolta molto tiepidamente, tanto che il G., nelle
    repliche, vi unì lo scenario Arlequin cru mort.
    
    Questa è la linea sulla quale si andrà collocando
    tutta la sua produzione francese: fornire al pubblico e ai
    Comédiens Italiens quello che chiedevano e che apprezzavano,
    rinunciando del tutto ai propositi riformatori. Ecco dunque gli
    scenari Arlequin valet de deux maîtres, Arlequin
    héritier ridicule, La famille en discorde, L'éventail,
    Les deux frères rivaux, Les amours d'Arlequin et de Camille,
    La jalousie d'Arlequin, L'inquiétude de Camille (1763);
    Camille aubergiste (tratto dalla Locandiera), Arlequin, dupe
    vengée, Le portrait d'Arlequin, Le rendez-vous nocturne,
    L'inimitié d'Arlequin et de Scapin, Les métamorphoses
    d'Arlequin, L'amitié d'Arlequin et de Scapin, Arlequin
    complaisant, Arlequin philosophe, Les vingt deux infortunes
    d'Arlequin (1764); Arlequin et Camille esclaves en Barbarie,
    Arlequin joueur (1765); La bague magique (1770); Les cinq âges
    d'Arlequin (1771); Arlequin charbonnier (1779). Da alcuni di questi
    canovacci il G. trasse delle commedie da rappresentarsi al teatro S.
    Luca, a Venezia. Si tratta della trilogia Gli amori di Zelinda e
    Lindoro, La gelosia di Lindoro, Le inquietudini di Zelinda, e
    inoltre Gli amanti timidi o sia L'imbroglio de' due ritratti, Il
    ventaglio, Chi la fa l'aspetti o sia I chiassetti del carneval
    (1764-65), La burla retrocessa nel contraccambio (1775), che si
    collocano nel solco del rapporto con Venezia lasciato in qualche
    modo sempre aperto, già all'indomani della partenza con la
    commedia Il matrimonio per concorso, rappresentata al S. Luca
    (1763).
    
    Come si vede bene da questa cronologia, dopo l'entusiasmo iniziale
    il G. ripiegò su una produzione di routine, con alterne
    fortune, e soprattutto con un allontanamento sempre più
    marcato dal teatro e dalle sue ragioni, anche se alcuni tra i titoli
    sopra elencati sono considerati del tutto degni della sua migliore
    vena. Ma era la prospettiva a essere radicalmente mutata. Nel marzo
    1765, in seguito alla nomina a maestro di lingua italiana della
    principessa Maria Adelaide, primogenita del re Luigi XV,
    abbandonò la Comédie Italienne per trasferirsi a
    Versailles dove rimase per i cinque anni successivi; tornò
    poi a Versailles nel 1775 con l'incarico di insegnante d'italiano
    delle due sorelle di Luigi XVI, che mantenne fino al 1780, quando
    gli subentrò il nipote che fino ad allora aveva svolto un
    ruolo analogo presso la reale École militaire. Nello stesso
    1765 si era concluso l'accordo con Vendramin che lo aveva impegnato
    a fornirgli "in esclusiva" sei nuove commedie.
    
    Tuttavia il legame diretto con i teatri d'Italia e di Venezia non si
    interruppe; il G. continuò a scrivere e a far rappresentare
    opere buffe (musicate, per lo più, dagli artisti sopra
    menzionati) come Il re alla caccia (1763, S. Samuele), La finta
    semplice (1764, S. Moisè), La notte critica (1765, S.
    Cassiano), La cameriera spiritosa, Le nozze in campagna (1768,
    entrambe al S. Moisè), I volponi (1777), Il talismano (1779,
    Milano, teatro alla Canobbiana); lo scherzo comico La metempsicosi
    (1776), l'intermezzo allegorico Il disinganno in corte (1777), la
    fiaba Il genio buono e il genio cattivo, messa in scena dal Medebach
    al S. Giovanni Grisostomo nel 1767 (probabilmente composta tre anni
    prima).
    
    Indubbiamente il periodo francese, che copre più di un terzo
    della vita del G., rappresentò davvero un cambiamento
    radicale, con il grande spazio che acquistò la vita mondana,
    di corte e di società, con la frequentazione di giornalisti,
    scrittori e intellettuali francesi e poi gli incontri con
    personalità come Voltaire (che vedrà solo nel 1778,
    dopo molti anni di reciproci omaggi), come J.-J. Rousseau (lo
    andò a visitare nell'inverno 1770-71) e come Diderot con il
    quale era, per così dire, aperto un contenzioso che il G.
    volle concludere. Diderot era stato infatti accusato da alcuni
    avversari di avere plagiato Il vero amico e Il padre di famiglia
    goldoniani nella composizione dei suoi drammi Le fils naturel e Le
    père de famille; per rintuzzare gli attacchi, egli aveva
    tradotto e stampato le due opere italiane, accompagnandole da una
    malevola denigrazione del G. e da composizioni satiriche che
    alludevano ad alcune dame parigine tanto imprudentemente, da
    suscitare uno scandalo ancora vivo quando il G. arrivò a
    Parigi. Tutte queste vicende sono registrate nei Mémoires,
    dove si trova anche un rapido accenno a V. Alfieri che andò a
    visitarlo diverse volte negli ultimi anni.
    
    Ma il teatro, la vita del teatro si andava facendo sempre più
    lontana dal suo orizzonte; vi tornò con uno scatto d'orgoglio
    con la composizione in francese di una commedia come Le bourru
    bienfaisant che venne rappresentata alla Comédie
    Française il 4 nov. 1771 e ottenne un grande successo di
    pubblico e di critica, rimanendo la più rappresentata di
    tutte le sue commedie in Italia e fuori, subito prima della
    Locandiera e del Servitore di due padroni. Tentò di ripetere
    l'esperienza con L'avare fastueux, presentato a corte cinque anni
    dopo, ma questa volta con un risultato tanto negativo da indurlo a
    ritirare del tutto la commedia. Una vita dunque che, sotto la
    superficie della amenità e della piacevolezza che domina nel
    racconto dei Mémoires, fu segnata, in buona misura, dalle
    ristrettezze economiche (nel 1780 fu costretto a vendere una parte
    della biblioteca e a 84 anni, nel 1791, si diede alla traduzione
    dell'Istoria dimiss Jenny di Marie Jeanne de Heurles de Labrovas de
    Mézières moglie di F.A.V. Riccoboni), dalle
    infermità (dal 1765 era rimasto orbo dell'occhio sinistro) e
    dalla delusione per il ruolo che si trovava a coprire a Parigi.
    
    L'ultimo, emblematico, episodio della sua vita è legato alla
    pensione di 4000 lire annue che gli era stata concessa dalla corte
    nel 1769 e che perdette nel giugno 1792, quando l'Assemblea
    legislativa soppresse tutte le pensioni di corte; avanzò
    allora una supplica e la pensione gli venne restituita, ma la
    comunicazione fu recapitata il 7 febbraio, il giorno successivo alla
    sua morte, avvenuta a Parigi il 6 febbr. 1793.
    
    Fino alla fine si era dedicato al progetto di composizione del
    quadro che doveva dar ragione del suo lavoro drammaturgico; dunque
    nel 1777 uscì a Torino una nuova edizione delle Opere
    drammatichegiocose (ed. Guilbert e Orgeas) e, dopo la chiusura della
    edizione Pasquali, intraprese (1788) una ulteriore pubblicazione,
    presso lo Zatta di Venezia, delle sue Opere complete, che si
    concluderà solo nel 1795. Ma era soprattutto ai
    Mémoires che aveva affidato l'immagine di sé e del
    proprio teatro, due immagini che aveva voluto far coincidere, nella
    convinzione che nella sua opera di drammaturgo fosse completamente
    risolto il senso di tutta la sua vita.