Giusnaturalismo

 

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Per giusnaturalismo (dal latino ius naturale, «diritto di natura») s'intende la dottrina che prevede l'esistenza di un diritto universalmente valido fondato su una peculiare idea di natura che preesiste a ogni forma storicamente assunta di diritto positivo.

Evoluzione storica

Il primo giusnaturalismo è rinvenibile già nel pensiero greco dell'età classica e, specificamente, nello stoicismo, dunque nel cristianesimo antico e medievale. Però, con maggior proprietà, s'intende per giusnaturalismo la corrente di pensiero filosofico-giuridico maturata fra il Seicento e il Settecento che ha rielaborato il concetto classico di diritto naturale interpretandolo in chiave razionalistica e umanistica.

Il giusnaturalismo nell'età classica

Il pensiero ha origini antichissime, e sovente viene suddiviso in vari tronconi storici: un giusnaturalismo antico, fondato sul pensiero del filosofo Aristotele e dalla successiva scuola stoica che abbracciò anche l'antica Roma e coinvolse il celeberrimo retore, politico e avvocato romano Marco Tullio Cicerone. Il pensiero su cui si basa il giusnaturalismo antico è riassumibile nel pensiero del grande filosofo greco espresso nella sua Etica nicomachea.

Vanno tuttavia ricordati, prima di Aristotele, anche due filosofi che nell'ambito della Sofistica fondarono la teoria naturalistica del diritto: Ippia di Elide ed Antifonte di Atene. Per Ippia esiste un diritto naturale, universalmente valido, superiore a quello positivo che è un prodotto arbitrario e mutevole delle convenzioni umane. Egli dice infatti che gli uomini sono "tutti parenti, familiari e concittadini per natura non per legge; perché il simile è per natura parente del simile, mentre la legge, essendo tiranna degli uomini, costringe a fare molte cose contro natura".

Per Antifonte le leggi umane non hanno una sanzione necessaria come le norme di natura e perciò sono ad esse inferiori, poiché "le norme di legge sono accessorie, quelle di natura essenziali; quelle di legge sono frutto di convenzione, non di creazione della natura; quelle di natura sono frutto di creazione, non di convenzione. Perciò, se uno trasgredisce le norme di legge, finché non se ne accorgono gli autori di esse va esente da biasimo e da pena... ma se violenta oltre il possibile le norme create dalla natura, se anche nessuno se ne accorge, non minore è il male, né è maggiore anche se tutti lo sanno, perché si offende non l'opinione ma la verità".

La nozione di diritto naturale si trasfonde nella cultura latina attraverso l'influenza dello stoicismo ciceroniano. Difatti Cicerone richiama le supreme idee morali tramite cui la natura illumina la mente umana e bolla come ingiusto colui che le rifiutasse. Attraverso Cicerone la riflessione sul diritto naturale entra nell'opera dei giuristi Gaio e Ulpiano:

Gaio propende per una bipartizione del diritto, cioè che il diritto si divida in ius civile, creazione artificiale della civitas, e in ius gentium o ius naturale, diritto comune ai popoli e che trova la sua ragion d'essere nella naturalis ratio, cioè in una ragione naturale, dunque ritenuto anche eticamente migliore poiché ispirato dalla natura: in questa visione la schiavitù è considerata come una situazione naturale già predisposta dalla stessa natura.

Ulpiano propende per una tripartizione del diritto; come Gaio, pensa che il ius civile sia creazione artificiale, ma va oltre affermando che il ius gentium riguarda un regolamento per i soli uomini, mentre il ius naturale sarebbe quello di tutte le creature viventi: in questo caso la condizione di schiavo viene vista come una condizione predisposta dal diritto e non riconducibile alla condizione naturale dell'uomo.

Il giusnaturalismo medievale

Il problema della dottrina giusnaturalistica medievale è quello della conoscibilità del diritto naturale. A tale questione i medievali rispondono asserendo che Dio, avendo donato la ragione a ogni uomo, ha reso capace quest'ultimo di conoscere i supremi princìpi dell'agire morale attraverso la naturalis ratio. Ciò che nella concezione teologizzante medievale facilita la conoscibilità all'uomo della legge naturale è la rivelazione della Legge e del Vangelo. Tuttavia, pur ritenendo necessaria tale rivelazione, giacché essa è finalizzata a illuminare l'umana coscienza oscurata dal peccato, la filosofia teologica medievale, prima Patristica e successivamente Scolastica, ritengono che si possa avere ugualmente una imperfetta conoscenza dei precetti della legge naturale.

Tale visione è suffragata da un passo della Lettera ai Romani di San Paolo Apostolo (Rom. 2,14-15), che recita: «Quando i pagani che non hanno legge compiono per natura le cose della legge, questi pur non avendo legge sono legge a se stessi. Essi mostrano scritta nei loro cuori l'opera della legge [...]».

Questa tesi fu recisamente sostenuta da Abelardo, Guglielmo di Auxerre e da Alberto Magno. Proprio Alberto Magno, anticipando la visione del suo discepolo San Tommaso d'Aquino, concepisce il diritto naturale come il diritto umano nei suoi princìpi più comuni e universali. Ciononostante, è solo con Tommaso d'Aquino che si pongono i confini fra conoscenza razionale e conoscenza per fede. In ragione di tali confini, Tommaso d'Aquino riconduce la legge naturale alla ragione dell'uomo. È doveroso precisare che il nesso fra ragione e legge naturale dianzi citato, nell'interpretazione scolastica resta sempre legato a una concezione razionale orientata teologicamente. Ciò è icasticamente rappresentato da Tommaso d'Aquino allorché, in un passo della sua «Summa Theologiae», mette in relazione la legge naturale con la legge eterna. Quel che è estraneo alle preoccupazioni della dottrina teologica medievale, è il tentativo di ricostruire sistematicamente tutti i princìpi del diritto naturale. I filosofi scolastici insistono maggiormente su precetti tratti dal Decalogo mosaico o su massime ancor più generali come quella di non far ad altri ciò che non si vorrebbe fatto a se stessi.

Il giusnaturalismo nell'età moderna

A seguito della rottura dell'unità religiosa occasionata dalla Riforma protestante la moderna corrente giusnaturalistica si svincola da ogni fede ispirandosi al razionalismo cartesiano e concentrando l'analisi filosofica sulla ricerca delle leggi generali in grado di realizzare la convivenza sociale. La nuova interpretazione del diritto naturale prese le mosse dalla necessità di formulare un nuovo diritto internazionale in grado di assicurare una pacifica convivenza fra le nazioni europee.

I primi tentativi di formulare un nuovo concetto di diritto naturale partendo dall'interrogativo sulla liceità della guerra sono rinvenibili nell'opera del 1588 di Alberico Gentili intitolata «De iure belli». Gentili sostiene l'illiceità della guerra, giacché tutti gli esseri umani costituiscono un'unica sostanza e sono legati insieme da una consonanza affettiva. In tale visione, il diritto naturale si riviene nell'istinto ancestrale e immutabile che conduce ogni essere umano all'unità. Dunque, l'uomo per natura non è nemico del suo prossimo e nello Stato di natura non vi sarebbe alcuna guerra. La guerra, al contrario, nascerebbe allorquando gli uomini si rifiutassero di seguire la natura. Gentili, però, distingue due tipi di guerra: una guerra giusta rappresentata dalla guerra di difesa, dacché la difesa è un diritto innato dell'uomo; una guerra ingiusta costituita dalla guerra di offesa e di religione, perché nessuno può essere astretto a professar un culto, dunque, la religione dev'essere libera. Ciononostante, in guerra non vengono meno i diritti naturali, perché essi sono propri dell'umanità.

Coevo di Gentili, Johannes Althusius, richiamando Jean Bodin, formula nella sua opera del 1603, intitolata «Politica methodice digesta», il principio della sovranità popolare (qualificandolo come unico, indivisibile e intrasmissibile), elevandolo a criterio di legittimità vitale dello Stato.

 Althusius sostiene che ogni comunità umana s'istituisca tramite un contratto (pactum unionis), sia esso tacito o espresso, che comporta la nascita di un organismo vivente. Tale contratto si fonda su un sentimento naturale e viene regolato dalle leggi, le quali si distinguono in leges communicationis, regolanti i rapporti fra i consociati, e leges directionis et gubernationis, regolanti i rapporti fra i consociati e l'autorità governativa. Althusius definisce lo Stato come «una comunità pubblica universale per la quale più città e province si obbligano a possedere, costituire, esercitare e difendere la sovranità mediante la mutua comunicazione di cose e di opere e con forze e a spese comuni».

Nella interpretazione della sovranità popolare di Althusius il principe è un mero magistrato il cui potere proviene dal contratto sociale. Affiancano il principe gli efori che esercitano i diritti popolari nei suoi confronti. Nel caso in cui il popolo venisse meno ai patti, il principe si riterrebbe liberato dai suoi obblighi; ma se fosse il principe a rompere il patto, al popolo spetterebbe di scegliere un nuovo principe o di redigere una nuova costituzione. Ancorché Althusius conferisca larghi poteri al popolo, egli nega ogni libertà religiosa. Ciò è dovuto alla sua intransigenza calvinista che lo porta a ritenere che solo lo Stato può farsi promotore della religione, condannando all'ostracismo gli atei e i miscredenti.[10] Questi temi sono ricorrenti anche nel pensiero del francese François Hotman, ugonotto e avversario della Chiesa. Come Althusius, Hotman ritiene che i poteri pubblici provengano da un originario patto sociale e non da Dio.

Il maggior impegno volto alla formulazione di un nuovo diritto internazionale, però, è rinvenibile nel pensiero dell'olandese Ugo Grozio, il quale, riprendendo le argomentazioni del suo connazionale Erasmo da Rotterdam e della seconda Scolastica spagnola (specialmente di Francisco Suárez e Gabriel Vásquez), può considerarsi il vero iniziatore del giusnaturalismo moderno.

Nell'opera del 1625 intitolata «De iure belli ac pacis», Grozio, dovendo discutere del ius gentium e della liceità della guerra, premette alcune considerazioni sul diritto positivo. Tali considerazioni, inserite nei Prolegomeni (considerati la parte filosoficamente più importante dell'opera), contengono la ripulsa nei confronti della riduzione del diritto positivo a mero sistema di norme arbitrarie e relative, nonché l'auspicio che il diritto positivo si fondi su princìpi universalmente validi, scaturiti dalla natura razionale dell'uomo.

Questi princìpi universali, derivanti dalla natura razionale dell'uomo, costituiscono il diritto naturale, definito da Grozio come «una norma della retta ragione la quale ci fa conoscere che una determinata azione, secondo che sia o no conforme alla natura razionale, è moralmente necessaria oppure immorale e che per conseguenza tale azione è da Dio, autore della natura, prescritta oppure vietata».

Nell'impostazione teorica di Grozio il diritto naturale, derivando dall'essenza razionale comune a ogni uomo, ha una valenza assoluta, eguale a quella dei princìpi matematici. Sulla base di questa eguaglianza Grozio asserisce che, come Dio non può mutare i princìpi matematici, così non potrebbe mutare i princìpi del diritto di natura e questi ultimi rimarrebbero validi e intangibili anche nell'esecranda ipotesi in cui Dio non esistesse o non si curasse delle cose umane. Partendo da tali presupposti, Ugo Grozio costruisce la nuova impostazione laica del giusnaturalismo, giacché il fondamento universale del diritto naturale è adesso rinvenibile non in un ordine trascendentale, ma entro la natura razionale umana.

Contenuto essenziale del diritto naturale, per Grozio, è mantenere i patti da cui deriva il rispetto della proprietà, l'obbligo di mantenere le promesse, il poter essere soggetti a pene fra gli uomini. Ma, tralasciando il contenuto del diritto naturale, ciò che rileva nella nuova visione giusnaturalistica è il fondamento del diritto sulla natura umana intesa come razionalità (dunque, può parlarsi di una posizione soggettivistica da cui scaturisce il diritto).

Due dei più noti giusnaturalisti sono : Tommaso Hobbes(1588-1679) e John Locke(1632-1704).

Il primo dei due va ricordato essenzialmente per essere stato uno dei maggiori sostenitori della dottrina secondo cui bisognerebbe conferire "pieni poteri" nelle mani di un unico individuo. I tre poteri (giudiziario, esecutivo e, legislativo) sono da intendersi, dunque, come una sorta di strumento nelle mani del sovrano per assicurare l'ordine in una data società. Nella fattispecie Thomas Hobbes ritiene che l' uomo affinché riesca ad uscire da quello stadio della vita definito "stato naturale" o "di natura" caratterizzato dalla bellum omnium contra omnes, debba necessariamente stipulare un pactum leonino, immaginario ovviamente, con il principe in base al quale quest'ultimo gli garantisce tranquillità e pace in cambio di una totale obbedienza. Si tratta, quindi, di assolutismo puro entro il quale opera il principe che, essendo fonte della legge, non è tenuto a rispettarla, si dirà: solutus legibus.

Poco dopo Locke nella sua opera "Secondo trattato sul governo civile" illustrerà il suo pensiero al riguardo, partendo sempre dal suddetto "stato di natura". Si percepisce subito una filosofia che si distacca dalla concezione dell'homo homini lupus per approdare invece ad un'altra ipotesi che vede l'uomo calato in uno stato di natura retto dalla pacifica coesistenza e, soprattutto, uno stato naturale governato da tre principi "nuovi": ragione, eguaglianza, libertà. L'uomo possiede dei diritti innati (diritto alla vita; alla libertà; alla proprietà; alla salute) la cui custodia spetta al principe; è il sovrano a dover salvaguardare tali diritti. Ancora una volta, tra il governante e i governati si deve stipulare un patto sociale che soprattutto deve essere rispettato da ambedue le parti (pacta sunt servanda cit. Grozio).

A tal proposito il filosofo inglese pone in evidenza il fatto che, la ribellione non è altro che la conseguenza della mancata conservazione di tale pactum . In aggiunta Locke preferisce vedere il potere legislativo e quello esecutivo separati e attribuiti ad organi diversi, non è difficile intuire che il medesimo avesse come modello di riferimento la situazione recente dell'Inghilterra . In Locke trovano quindi le loro fondamenta il costituzionalismo e il garantismo moderni.

Un autore molto importante che ha approfondito il diritto naturale del '900 è stato sicuramente Murray Newton Rothbard; a differenza di molti suoi predecessori è però arrivato a conclusioni diverse: criticò fortemente la teoria del contratto sociale di Hobbes e dello stesso Jean-Jacques Rousseau; l'interpretazione del diritto naturale data dal filosofo e scrittore americano è alla base dell'anarco-capitalismo, teoria che propone la cancellazione di ogni autorità statale a fini liberistici, in ossequio al "mito" della capacità autonormativa del mercato, considerato, cioè, metro di misura dei rapporti sociali e, quasi personalizzandolo, in grado di porre da sé le proprie regole e, quindi, il proprio ordine e, più in assoluto, l'ordine sociale.