www.treccani
    
    Filosofo e uomo politico italiano (Fossano 1879 - Roma 1958).
    Militò nel movimento nazionalista e aderì al fascismo;
    fu deputato al parlamento nelle legislature XXVII e XXVIII,
    sottosegretario di stato (1924-26) e ministro dell'Educazione
    nazionale (1929-32), senatore del regno (dal 1934). Professore univ.
    di filosofia morale, insegnò dal 1932 a Roma. Tra le sue
    opere: L'idea religiosa di M. Ficino, 1904; La religiosità
    dello spirito, 1910; Il torto di Hegel, 1911; Il valore degli
    ideali, 1916.
*
    
    DBI
    
    di Roberto Pertici
    
    Nacque a Fossano (Cuneo) il 4 genn. 1879, da Angelo, insegnante
    nella scuola secondaria, morto prematuramente, e da Angelina
    Cerignasco. Non ebbe una carriera scolastica particolarmente
    brillante: dopo aver ottenuto la licenza liceale al liceo Gioberti
    di Torino nella sessione autunnale del 1896, s'iscrisse
    all'Università torinese, laureandosi in lettere il 17 dic.
    1901 (con la votazione di 92/110) col grecista G. Fraccaroli, e in
    filosofia il 15 dic. 1902 (con 86/110) col filosofo tardohegeliano
    P. D'Ercole.
    
    Intraprese, quindi, la carriera dell'insegnamento medio: risultato
    vincitore nel 1903 dei concorsi per le materie letterarie nel
    ginnasio inferiore e per l'italiano nelle scuole tecniche,
    insegnò in molte sedi minori, finché non trovò
    stabile sistemazione al ginnasio inferiore di Alba, dove
    restò fino al 1910.
    
    In questi anni, le sue posizioni politiche e i suoi orientamenti
    culturali e filosofici subirono una metamorfosi, che, pur con alcune
    peculiarità, risulta tutt'altro che insolita fra i suoi
    coetanei: come molti dei giovani intellettuali formatisi negli anni
    Novanta nella Torino del "socialismo dei professori" e della "scuola
    positiva", anche il G. non si sottrasse al fascino del socialismo e
    fu marxista, o comunque materialista e positivista (e tornò
    più volte su questa sua parabola: cfr., per esempio, La crisi
    di un mito, in L'Unità, 21 febbr. 1913, pp. 251 s.). Ma
    risentì presto della crisi di questo mondo e della pervasiva
    influenza del nuovo spiritualismo, che si diffuse nei primi anni del
    Novecento e che sulle prime gli si presentò nella forma
    esoterico-religiosa, quale si ritrovava nelle logge teosofiche e
    negli ambienti di religiosità sincretistica, allora presenti
    anche in Italia: così, nel suo primo lavoro di un certo
    respiro, il saggio su L'idea religiosa di Marsilio Ficino (Cerignola
    1904), il G. non esitava a compiere un illuminante parallelo fra
    Ficino e Annie Besant (Garin, p. 43). Il giovane professore fu molto
    attivo in questo ambito: dal 1904 al 1907 collaborò a La
    Nuova Parola di A. Cervesato e nel 1906, con il mistico G. Ferrando
    e con lo spiritista A. Righini, fu tra i fondatori della Biblioteca
    filosofica di Firenze (Rogari, p. 206) dove, nel 1907,
    partecipò a un ciclo di conferenze, in qualche modo
    programmatico, pubblicato nel volume collettaneo Per una concezione
    spirituale della vita (Firenze 1908).
    
    Negli stessi anni anche il socialismo giovanile del G. subiva
    un'analoga evoluzione: perdeva il suo ancoraggio materialistico e
    classistico, diventando umanitario e religioso, e trovava una sede
    congeniale in Coenobium, la rivista luganese di E. Bignami e G.
    Rensi, su cui il G. scrisse dal 1908 al 1911. Non per questo veniva
    meno il suo atteggiamento critico verso l'assetto della
    società italiana: in particolare fu attivo nella Federazione
    nazionale insegnanti scuola media (FNISM), di cui commentò
    assai positivamente il VII congresso, tenutosi a Firenze nel
    settembre 1909, che si era dichiarato fermamente antiministeriale
    (Coenobium, ottobre 1909, pp. 113-116).
    
    Nel 1910 il G. vinse il concorso per l'insegnamento della filosofia
    nei licei: negli anni seguenti avrebbe insegnato a Benevento
    (1910-11), Massa (1911-16) e Cuneo (1916-17). La nuova posizione
    diede maggiore visibilità alla sua attività culturale
    e politica e fu in questo periodo che il suo pensiero filosofico
    giunse a maturità (Il torto di Hegel, Roma 1912; Il valore
    degli ideali, Torino 1916).
    
    Nel mondo empirico, il G. dichiarava di accettare il superamento
    hegeliano del dualismo del conoscere e dell'essere, per cui in
    quest'ambito è possibile l'identità fra pensiero e
    realtà. Ma a tale realtà sovrasta un assoluto che, per
    sua natura, trascende la relatività del pensiero e
    soprattutto non può essere costretto nella sua forma logica.
    Il pensiero lo può conoscere solo da un punto di vista
    relativo, può progressivamente elevarsi a esso, senza
    tuttavia abbracciarlo del tutto. Dall'immanentismo idealistico, il
    G. cercava, dunque, con accenti di misticismo neoplatonico e con
    forti motivi pragmatistici, di fare scaturire la trascendenza: gli
    ideali ultimi dell'uomo (il vero, il bello, il buono) non sono al di
    fuori del suo spirito, ma nemmeno completamente si esauriscono nella
    sua attività. Lo spirito li avverte come oggetto di un
    processo continuo di adeguamento, come valori che improntano ogni
    momento dell'attività spirituale, ma non vi si realizzano mai
    completamente. L'uomo che realizza un valore è preso da un
    sentimento intimo di piacere e di gioia, da un senso creativo, che
    raggiunge il suo culmine nell'entusiasmo estetico: il G. abbozzava,
    perciò, anche un'estetica contenutistica e mistica (in quanto
    l'arte, nella scala dei valori, è al di sopra della
    mediazione logica), che tendeva a rintracciare e spiegare il
    pensiero espresso in forma "mitica" nell'opera d'arte. Ne faceva la
    base per alcuni impegnativi saggi su L'opera wagneriana (Rivista
    d'Italia, XVII [1914], t. II, pp. 88-119), su Il mito storico della
    poesia carducciana (ibid., XVIII [1915], t. I, pp. 411-434) e,
    soprattutto, su La religiosità del mistero, G. Pascoli (Roma
    1920), rifuso poi in La poesia di G. Pascoli (Bologna 1934), in cui
    veniva studiata in modo originale la religiosità della poesia
    pascoliana.
    
    Nel frattempo era entrato in crisi definitiva anche il suo
    socialismo: come tanti altri socialisti delusi, o che avevano rotto
    col partito, si riconobbe nel gruppo che si stava formando attorno a
    L'Unità di G. Salvemini, cui collaborò con una certa
    assiduità dal 1912 al 1915. Sostenne attivamente Salvemini
    anche durante la sfortunata campagna elettorale del 1913 in Puglia
    (Salvemini contro il giolittismo, nel volume collettaneo Prime
    elezioni a suffragio universale. 26 ottobre 1913. Collegi di Bitonto
    e Molfetta, Bari [1913]) e, al pari di lui, fu interventista nel
    1914-15.
    
    Il suo interventismo fu lo sbocco della sua continua polemica
    antigiolittiana: l'intervento in guerra gli parve l'occasione per
    liquidare il "nemico interno", la "malattia d'Italia", identificata
    col giolittismo, cioè con la "negazione di tutti i valori
    dello spirito" (Il valore della rivolta, in L'Unità, 21
    maggio 1915, p. 685). Non ebbe tuttavia uno sfondo nazionalistico:
    il G. polemizzò contro tutte le generalizzazioni antitedesche
    che allora cominciavano a diffondersi (Coltura tedesca e
    umanità latina, in Rivista d'Italia, XVIII [1915], t. I, pp.
    548-557) e se, in nome di un idealismo "antidogmatico" e del
    mazzinianesimo, difese il principio di nazionalità, si
    preoccupò di purificarlo dalle degenerazioni razzistiche e
    imperialistiche nonché dall'esclusivismo ed egoismo tipici
    della idea germanica di nazione (Il primato di un popolo: Fichte e
    Gioberti, Catania 1916).
    
    Fu questo il professore, che, trasferito al liceo Gioberti di Torino
    nel 1917-18, divenne la guida del giovane P. Gobetti, suo alunno di
    terza liceo. Il G. lo iniziò all'Unità di Salvemini e
    a lui Gobetti attribuì un ruolo di rilievo nei primi numeri
    di Energie nuove (1918-19); il dissenso, maturato dalle posizioni
    sempre più marcatamente nazionaliste del G., non
    cancellò, tuttavia, l'affetto di Gobetti.
    
    Al G., infatti, è dedicata ("A Balbino Giuliano maestro e
    amico con sincerità") la traduzione dal russo di A.I. Kuprin,
    Allez! (Firenze 1920) e Gobetti ne sollecitò i consigli per i
    suoi studi: restano testimonianze epistolari che confermano la
    sopravvivenza di un rapporto cordiale ancora nel 1924.
    
    Come per tanti altri, anche per il G. il trauma di Caporetto, e poi
    le passioni dell'ultimo anno di guerra, contribuirono a una resa dei
    conti definitiva col suo passato demosocialista e a
    un'estremizzazione della scelta "patriottica": "sopra tutto bisogna
    liquidare tutti i detriti della nostra cultura democratica",
    scriveva al vecchio maestro Fraccaroli nel 1918, e questo fu il
    nucleo dei suoi più impegnativi interventi su Energie nuove.
    
    Il saggio Perché sono uomo d'ordine (in Energie nuove, I
    [1918-19], pp. 51-55) e la successiva risposta alle critiche di A.
    Gramsci (ibid., pp. 111-113, poi in L'esperienza politica
    dell'Italia, Firenze 1924, pp. 17-26, 27-32, volume in cui sono
    riportati, con significativi ritocchi, i più interessanti
    interventi politici del G. degli anni del dopoguerra) mostrano come
    dalla crisi definitiva del socialismo il G. si stesse avviando alla
    scelta speculare e contraria del nazionalismo: in questo passaggio
    confessò più volte (ibid., p. 284) di aver risentito
    fortemente la suggestione del pensiero di G. Gentile, "pedagogo
    della nazione" che stava uscendo dalla guerra; su questa base giunse
    alla rottura con Salvemini.
    
    Trasferito, alla fine del 1918, presso il liceo Minghetti di
    Bologna, inizialmente vi fu attivo (con A. Galletti e L. Emery)
    nella salveminiana Lega democratica per il rinnovamento della
    politica nazionale, ma ne prese progressivamente le distanze sui
    temi della politica adriatica e della questione fiumana: nel
    settembre 1919 il G. era a Fiume e partecipò ai preparativi
    del colpo di mano dannunziano del 12 settembre (Susmel, p. 407; M.
    D'Annunzio, pp. 215 s.).
    
    Da Fiume "liberata" scriveva, "fremente d'italianità" a
    Gobetti, e un mese dopo polemizzava apertamente con Salvemini in uno
    scritto (colpito ripetutamente dalla censura) che segnava il suo
    distacco definitivo dagli ambienti "unitari" (Discussioni "extra
    moenia", in L'Unità, 30 ott. 1919, pp. 215 s.).
    
    Tornato a Bologna, fu fra i fondatori di un circolo nazionalistico
    che, poche settimane avanti le elezioni del 16 nov. 1919,
    cominciò a pubblicare un settimanale, La Battaglia, dal G.
    poi sempre ricordato come l'inizio di una fase nuova della sua
    attività politica. Intanto recideva anche gli ultimi legami
    col suo vecchio mondo.
    
    Firmatario dell'Appello per un Fascio di educazione nazionale,
    pubblicato sull'Educazione nazionale di G. Lombardo Radice il 15
    genn. 1920, e quindi pienamente inserito nel fronte
    idealistico-gentiliano per la riforma della scuola, difese,
    all'interno del direttivo bolognese della FNISM, i progetti di
    riforma di B. Croce ministro, ma fu sopraffatto dagli oppositori
    "massonici" e, alla fine del 1920, si dimise (Tognon, B. Croce alla
    Minerva).
    
    Il nazionalismo era per lui lo sbocco della "rivoluzione idealistica
    della cultura che è ricominciata verso i primi del secolo XX,
    […] che trovò da noi la sua sistemazione filosofica ed il suo
    vigoroso sviluppo scientifico nell'opera di due nostri grandi
    italiani, cioè nel Croce e nel Gentile" (Il Resto del
    carlino, 22 apr. 1922). Vivendo a Bologna, fu, poi, testimone della
    nascita e della diffusione dello squadrismo agrario fascista e si
    pose presto il problema dei rapporti fra questo movimento, giovane e
    ancora indefinito sul piano ideologico, e il nazionalismo
    (Nazionalismo e fascismo, in L'Idea nazionale, 11 genn. 1922, poi in
    L'esperienza politica, pp. 179-186).
    
    Per il G., il fascismo era un forma spuria di nazionalismo, in
    quanto, nonostante l'abbandono dei programmi del 1919, permanevano
    al suo interno tracce consistenti delle utopie, dei postulati
    ideologici e dei criteri d'azione del vecchio sovversivismo - che
    pure aveva contribuito a sconfiggere - come la tendenzialità
    repubblicana, il dirigismo economico e il mito dell'azione diretta,
    per cui la violenza, che era stata utilissima contro le roccaforti
    "rosse", rischiava di diventare ora un metodo permanente e, quindi,
    ingiustificato. Il G. era, perciò, molto cauto
    sull'eventualità di una fusione fra nazionalisti e fascisti,
    che giudicava per il momento "un errore" e che sarebbe stata
    possibile solo quando il fascismo si fosse purificato da quei
    difetti che, paradossalmente, gli avevano assicurato il successo e
    la popolarità mai raggiunti dai nazionalisti. Qualche mese
    dopo (La crisi interna, in Il Resto del carlino, 16 maggio 1922, poi
    in L'esperienza politica, pp. 187-192) indicava al fascismo una via
    tutta parlamentare, quella di "una sana coalizione di destra
    nazionale" per contrastare "la coalizione delle sinistre
    demagogiche".
    
    Ma l'azione di Mussolini sovvertì tutti questi calcoli: di
    fronte alla marcia su Roma e al governo che ne nacque, il G.
    mostrava sulle prime (16 nov. 1922) un atteggiamento riservato, e
    giudicava soprattutto positiva la legalizzazione del fascismo che
    sembrava scaturirne (in D. Biondi, Il Resto del carlino 1885-1985.
    Un giornale nella storia d'Italia, Bologna 1985, p. 185). Il fatto
    veramente storico era invece per lui il conferimento del ministero
    della Pubblica Istruzione a Gentile (G. Gentile, in Giornale di
    Roma, 12 nov. 1922): con Gentile alla Minerva giungeva finalmente al
    potere quella "rivoluzione spiritualistica" che il G. ripercorreva
    in tutte le sue componenti di pensiero e di costume in un saggio del
    dicembre 1922, ricco di riferimenti autobiografici (L'esperienza
    politica, pp. 251-285).
    
    Dopo i primi atti del governo, il G. si dichiarava, tuttavia, un
    "fervido ministerialista", vedeva i pericoli dell'azione fascista
    ("l'atto violento delle giornate d'ottobre", il dilagante mito di
    Mussolini, "il pregiudizio dell'insindacabilità di tutto
    ciò che vien fatto nel nome del Fascismo", l'"intemperanza di
    certi gruppi fascisti, elevati improvvisamente ad una dignità
    e ad una potenza, che forse supera la loro maturità
    mentale"), ma valutava molto più positivamente i vantaggi che
    il paese ne stava comunque conseguendo (ibid., pp. 287-325).
    
    Insieme con gli altri componenti dell'Associazione nazionalista
    italiana, nel marzo 1923 confluì nel Partito nazionale
    fascista (PNF), secondo il patto di fusione sancito dalle due
    organizzazioni.
    
    Il suo fascismo conservò tuttavia i tratti "nazionalistici"
    della sua provenienza: fu sempre devotamente monarchico, ostile a
    tutte le componenti movimentistiche del partito, cattolicheggiante e
    anticollettivista (il liberismo, residuo del periodo salveminiano,
    era rimasto un ingrediente anche del suo nazionalismo). Il fascismo
    gli parve, dunque, la traduzione politica delle tematiche
    spiritualistiche e antiutilitaristiche che erano la base del suo
    pensiero (Elementi di cultura fascista, Bologna 1929), anche se
    negò ripetutamente (fece scalpore una polemica parlamentare
    del 2 apr. 1930 con P. Orano) che "il Fascismo si esaurisse in una
    filosofia. […] Nessuna filosofia ufficiale del regime […] nemmeno
    quella che nega la filosofia", com'era quella esposta da Orano
    (Papa).
    
    L'accordo con Gentile e col suo programma di riforma scolastica e di
    politica culturale segnò la carriera politica e accademica
    del G.: il 16 luglio 1923, il ministro lo nominava provveditore agli
    studi per la Lombardia con sede a Milano e, in vista delle elezioni
    politiche del 6 apr. 1924, il G. veniva candidato nel "listone"
    governativo, ancora in accordo con Gentile, che puntava su di lui
    per meglio difendere la riforma scolastica alla Camera (Turi, p.
    334): veniva così eletto deputato e, dopo le dimissioni di
    Gentile nel rimpasto del giugno 1924, successivo al delitto
    Matteotti, divenne sottosegretario alla Pubblica Istruzione, con A.
    Casati ministro (3 luglio 1924), come uomo di fiducia del filosofo
    (ibid.) e in quanto esponente di un fascismo moderato, ex
    nazionalista e monarchico (De Felice, 1966).
    
    Al momento delle dimissioni di Casati, dopo la svolta autoritaria
    del 3 genn. 1925, anche il G. lasciava il ministero: Gentile lo
    indicò allora a Mussolini per la successione, ma il duce lo
    giudicò incerto e ripiegò su P. Fedele (Turi, p. 379);
    ancora Gentile lo volle nel consiglio direttivo del neonato Istituto
    nazionale fascista di cultura, da lui fondato (ibid., p. 357). Alla
    fine del marzo 1925, il G. partecipò al convegno di Bologna
    per le istituzioni fasciste di cultura con una relazione su
    "L'interpretazione storica e filosofica del movimento fascista": da
    quel convegno scaturì il Manifesto degli intellettuali
    fascisti scritto da Gentile e pubblicato il 21 apr. 1925, in cui,
    quindi, anche il G. risulta fra i firmatari.
    
    Fu probabilmente per riparare a una "deplorazione" delle superiori
    gerarchie del PNF (agosto 1925) e per fugare ogni dubbio sulla sua
    affidabilità politica, che nel novembre 1925, dopo il fallito
    attentato Zaniboni, un uomo come lui, noto anche agli avversari per
    la sua mitezza, dichiarò allo squadrista bolognese A.
    Bonaccorsi di "offrirsi come boja" degli attentatori (De Felice,
    1968).
    
    La sua carriera accademica andò di pari passo con quella
    politica: quando era sottosegretario, fu nominato con decreto
    ministeriale professore non stabile di filosofia e storia della
    filosofia all'Istituto superiore di magistero di Firenze, cittadella
    gentiliana controllata da E. Codignola (16 ott. 1924), divenendo
    stabile il 16 genn. 1928, ma, per il mandato parlamentare, rinnovato
    nel plebiscito del 24 marzo 1929, usufruì di una continua
    aspettativa. Rispetto a Gentile, il G. veniva, tuttavia, accentuando
    il carattere teistico del suo pensiero filosofico, che ormai
    guardava con crescente interesse alla tradizione cattolica.
    
    Rivelatore in tal senso è il suo discorso parlamentare sui
    Patti lateranensi (11 maggio 1929), in cui affermava che essi
    indicavano la strada per superare la contraddizione che aveva
    percorso per secoli la cultura italiana, quella fra "un'ortodossia,
    che dava un senso di staticità infeconda, e un'eresia che era
    vita, ma vita dissolvitrice di se stessa", e che ora era possibile
    "trovare nella nostra tradizione religiosa, ortodossa e nazionale,
    l'entusiastica attività creatrice che trovavamo solo
    nell'eresia straniera, nei temi derivati dalla rivoluzione francese
    o dalla riforma tedesca" (Jemolo).
    
    Comunque la sua nomina a capo di quello che dallo stesso giorno (12
    sett. 1929) venne chiamato ministero dell'Educazione nazionale, al
    posto di G. Belluzzo, parve una vittoria degli ambienti gentiliani
    che puntavano a un "ritorno alla schietta riforma" del 1923,
    infiacchita dai "ritocchi" degli ultimi ministri. In realtà
    neanche il G. poté contrastare il processo di erosione della
    riforma gentiliana, dovuto a fattori oggettivi come l'aumento della
    popolazione scolastica nelle scuole secondarie e la richiesta
    generalizzata di un allargamento dell'istruzione professionale.
    
    Il G. si fece, così, promotore della realizzazione della
    scuola di avviamento professionale, un corso postelementare che ebbe
    un certo successo nel decennio successivo, e riorganizzò,
    secondo le indicazioni che già erano state di Belluzzo, le
    scuole e gli istituti professionali (legge 15 giugno 1931, n. 889).
    Più che il promotore, il G. fu il gestore del processo di
    "fascistizzazione" della scuola che si ebbe negli anni del suo
    ministero: il 2 apr. 1930 difendeva in Senato l'adozione, dall'anno
    scolastico 1930-31, del libro di testo unico e obbligatorio per la
    scuola elementare (legge 7 genn. 1929, n. 5); analogamente dovette
    affrontare l'ancora più spinoso problema del giuramento dei
    professori universitari, scaturito da una proposta di Gentile a
    Mussolini del gennaio 1929, ripresa in marzo da Belluzzo e sfociata
    nel d.l. 28 ag. 1931, n. 1227: appena insediato al ministero, il G.
    si trovò di fronte a una lettera del duce (18 sett. 1929) che
    gli poneva "la questione della libertà o meno
    dell'insegnamento" (B. Mussolini, Opera omnia, XLI, p. 337) e lo
    stesso Mussolini esercitò personalmente la sua influenza
    sulla formulazione del giuramento, rifinita fino all'ultimo; si deve
    probabilmente al G. l'inserimento del richiamo esplicito al regime
    fascista nel testo (Charnitzky). Dovette, infine, gestire gli
    effetti del concordato nel mondo della scuola: il 14 marzo 1930, in
    un discorso alla Camera, offriva nuove assicurazioni
    sull'insegnamento della religione nella scuola media, ma
    mostrò in genere comprensione per le ragioni delle altre
    "confessioni ammesse" nel delicato problema del loro rapporto con
    l'insegnamento della "religione di Stato".
    
    Durante il periodo del suo ministero la carriera universitaria del
    G. conobbe l'avanzamento finale: il 1° nov. 1930 diventava
    titolare della cattedra di etica (creata appositamente per lui)
    all'Università di Bologna e dal 1° dic. 1931 era
    chiamato, su proposta di Gentile, alla medesima cattedra (anche
    questa istituita ad personam) nella Scuola di filosofia di Roma
    (facoltà di lettere). All'insegnamento il G. tornò nel
    1932 (fino ad allora era stato solo titolare di cattedra, svolgendo
    unicamente attività politica), quando, il 10 luglio,
    cessò dall'incarico ministeriale, avendo come successore F.
    Ercole: non ripresentato al plebiscito del 25 marzo 1934, fu
    nominato senatore (1° marzo 1934). Nella vita della
    facoltà romana, di cui fu anche preside dal 1936 al 1940, si
    mosse in generale in sintonia con Gentile, ma si ha l'impressione
    che, col passare degli anni, abbia rivestito un ruolo più di
    notabile che di protagonista attivo della scena politica o
    accademica.
    
    L'avvicinamento, e poi l'alleanza, fra Italia fascista e Germania
    nazista lo ricondusse alle meditazioni, su cui si era già
    esercitato durante la Grande Guerra, su Latinità e
    germanesimo (Bologna 1940) e non sembrò modificare di molto
    le idee allora espresse.
    
    Ribadì, attraverso un esame tutto filosofico delle vicende
    storiche, la "fondamentale costitutiva differenza" fra le due
    mentalità (universale e spiritualistico-religiosa quella
    romano-italiana, rigidamente nazionale e legata a "un costituzionale
    fattore biologico di razza", quella germanica), e la precedenza del
    fascismo italiano, da cui il nazionalsocialismo molto aveva appreso.
    Dalla lettura di questo libretto (in cui, fra l'altro, non compare
    neanche un cenno alla politica razziale e antisemita delle due
    potenze) sarebbe eccessivo ricavare l'immagine di un G. tiepido o
    contrario all'alleanza italo-tedesca; ma ne emerge sicuramente la
    consapevolezza (comune peraltro a diversi ambienti fascisti,
    idealisti e gentiliani) delle differenze di fondo fra la cultura e
    la mentalità del fascismo e quelle del nazionalsocialismo e
    quindi la necessità che il primo non abdicasse a favore del
    secondo al ruolo di costruttore della nuova Europa. Dopo Pearl
    Harbour, quando ormai si erano precisati gli schieramenti
    definitivi, il G. tornava sulla necessità di dare al
    conflitto una giustificazione ideologica (Una guerra
    chiarificatrice, in Nuova Antologia, 16 dic. 1941, poi in
    Conversazioni storiche, Bologna 1943, pp. 127-153). Nella Prefazione
    a quest'ultimo volume (pp. VII-XVIII), scritta negli ultimi mesi del
    regime, affiorano tuttavia i timori, le perplessità, la
    consapevolezza dei pericoli che ormai sovrastavano l'Italia.
    
    Dopo l'8 sett. 1943, il G. si astenne, comunque, dall'aderire al
    nuovo fascismo e - come almeno ebbe a ricordare più volte in
    scritti giustificativi del periodo successivo all'occupazione
    alleata - resistette a tutte le richieste di collaborazione da parte
    delle autorità della Repubblica sociale italiana. Ciò
    nonostante, il 4 luglio 1944, a un mese dalla liberazione di Roma,
    il colonnello americano C. Poletti, capo della commissione affari
    civili del Governo militare alleato, ordinava l'immediato esonero
    del G. dall'insegnamento di filosofia morale (come si chiamava ora
    la sua cattedra). Il caso Giuliano veniva quindi affrontato dalla
    Commissione centrale per l'epurazione, che, il 29 dic. 1944, ne
    domandava la dispensa dal servizio: ma il G. preferì chiedere
    personalmente di essere collocato a riposo a decorrere dal 29 genn.
    1945. Nel luglio 1948 il G., tuttavia, si decise a fare opposizione
    a tale provvedimento: il 16 dic. 1948 fu così reintegrato, il
    1° nov. 1949 uscì di ruolo, il 10 maggio 1955 fu nominato
    emerito.
    
    Intanto anche il suo percorso filosofico conosceva l'esito finale.
    Dopo la conclusione della guerra, ristampò Il valore degli
    ideali (Bologna 1946), con le modificazioni e gli adattamenti resi
    necessari dalla sua posizione, ormai di deciso teismo.
    
    Ancora in quell'anno, in un intervento al II convegno di studi
    filosofici cristiani (Gallarate, 4-6 sett. 1946), ripercorreva la
    sua biografia filosofica: era stato in un primo momento sedotto
    dalle "vecchie ideologie della democrazia materialista" (fase
    socialista), poi si era fatto sacerdote della nuova "idolatria del
    soggetto umano" (idealismo filosofico); con "l'esperienza del
    fallimento delle idolatrie", si era avviato alla fine "a risolvere
    la crisi del dramma nella risorgente Verità", cioè
    nell'approdo alla religione rivelata (Il dramma delle moderne
    idolatrie, in Filosofia e cristianesimo, Milano 1947, pp. 204-220).
    
    Il G. morì a Roma il 13 giugno 1958.