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di Raffaella Di Castro
Nacque a Roma, il 13 maggio 1838, da Francesco e Clotilde Staderini.
Il padre, Francesco, nato a Monterotondo nel 1810, magistrato, dopo
aver preso parte attiva alla fondazione e alla difesa della
Repubblica Romana, fu dal restaurato governo pontificio confinato a
Monterotondo e quindi a Perugia; poi eletto nel 1870 consigliere
alla Provincia di Roma, ebbe tra i punti fermi del proprio impegno
politico la separazione tra Stato e Chiesa, il riformismo e il
decentramento amministrativo (La Capitale, I [1870], n. 45).
Morì a Roma nel 1876.
Rimasto presto orfano della madre, morta di parto nel 1849, il G.
ebbe nel padre, secondo la sua stessa testimonianza, "una scuola
continua, dilettevole e larga, di utili cognizioni e insegnamenti
morali" (Brevi cenni della vita e degli studi di R. G., Venezia
1872, p. 6). Iniziato alla storia romana all'età di sei anni,
a dieci aveva letto tutti gli storici antichi. Dal 1850 al 1859
seguì a Monterotondo corsi di letteratura italiana e latina e
di filosofia. Debuttò come giornalista nel 1858, scrivendo
articoli storici, artistici e letterari per lo Spettatore e il
Giornale delle strade ferrate; frequentava l'Università di
Roma quando, nel 1859, partì volontario insieme con il cugino
Alessandro Giovagnoli e i fratelli Ettore, Mario e Fabio.
Agli occhi del G. il padre e i suoi quattro figli costituivano "come
le cinque dita di una mano, mosse da una sola idealità e ad
un solo fine: la redenzione della patria" (Roma, Museo centr. del
Risorgimento, b. 1099/38). Ettore, nato il 2 apr. 1841, ingegnere,
nel 1889 fu eletto consigliere comunale a Monterotondo, ove
trascorse gli ultimi anni di vita facendo l'agricoltore e
morì nel 1908. Mario prese parte alla repressione del
brigantaggio nell'Italia meridionale e, insieme con Ettore, alla
campagna garibaldina del Trentino (1866) per poi dedicarsi
all'insegnamento: incaricato di redigere i nuovi programmi per
l'insegnamento della matematica, pubblicò un manuale di
Aritmetica teorica per le scuole tecniche (Roma 1880); morì a
Roma nel 1884. Fabio, già segretario particolare del generale
I. Pettinengo, morì combattendo a Monterotondo appena
ventiquattrenne (25 ott. 1867). In occasione della sua morte, G.
Garibaldi definì i fratelli Giovagnoli i "Cairoli del Lazio".
Addestratosi alla Scuola militare di Modena (1859-60), il G.
insegnò materie umanistiche presso la Scuola superiore
reggimentale dei sottufficiali (1862-67). Nel 1866 partecipò
alla terza guerra d'indipendenza e l'anno dopo si dimise
dall'esercito regio per seguire, insieme con i fratelli, Garibaldi
nella campagna dell'Agro romano.
Nonostante la militanza patriottica, il G. non trascurò mai i
propri interessi storici, artistici e letterari. Oltre a studiare
Dante, si accostò proprio in questi anni a poeti stranieri,
quali W. Shakespeare, F. Schiller e P.-J. Béranger, e
collaborò al Fischietto e allo Spirito folletto (1862-66).
Entrato come correttore al Secolo (1866) per necessità
economiche, fu in breve tempo promosso redattore e incaricato di
politica estera. Collaboratore della Gazzetta di Firenze (1868-78),
vi pubblicò a puntate il suo primo romanzo, Evelina (1868),
accolto con successo, come alcune sue commedie (Un caro giovine
[1866], La vedova di Putifarre [1867], Audacia e timidezza [1870]),
che ricevettero in questi anni premi e menzioni onorevoli.
Rientrato a Roma dopo il 20 sett. 1870, il G. intraprese la carriera
politica tra le file dell'Estrema Sinistra. Fu infatti tra i
fondatori del più importante organo della Sinistra romana, La
Capitale, di cui per due mesi fu anche direttore. Candidato del
Circolo popolare, nei numerosi articoli per le politiche del 1870
diede ampio sfogo al proprio sentimento anticlericale e
antimoderato, battendosi per l'abolizione delle corporazioni
religiose, specie se controllate dai gesuiti, per una scuola
pubblica laica e per una politica libera da pregiudizi e privilegi
sacerdotali.
Critiche molto aspre rivolse al luogotenente Alfonso Ferrero della
Marmora, responsabile non solo di una politica fiscale assai dura ma
anche di una poco laica volontà di pacificazione con la
Chiesa. Senza aver "fatto sentire uno solo dei benefici che seco
adduce la libertà", il Ferrero ne avrebbe, secondo il G.,
fatto "provare già tutti i pesi" (Dopo due mesi, in La
Capitale, I [1870], n. 59). Alcuni anni prima un uguale giudizio
aveva colpito la politica corrotta di B. Ricasoli, legata alla
"consorteria" e "coperta dalla vernice dell'amor d'Italia" (Mosche e
vespe. Studi sull'atmosfera politica italiana, in Carte E. Michel,
1099/44, 3, p. 20). In tema di politica estera, il G. intervenne a
più riprese sulla guerra franco-prussiana del 1870
dichiarandosi neutralista. Ma era ancora vivo in lui il rancore
verso i "fratelli d'oltr'Alpe" (Peccata iuventutis meae, Roma 1883,
p. 189), da lui considerati traditori che, dopo aver duramente
avversato l'unificazione italiana, mendicavano senza scrupolo aiuto
dai Savoia: di qui le perplessità circa il soccorso offerto
ai Francesi da Garibaldi, vittima, secondo il G., di accecamento
ideologico per quanto riguardava l'oggettivo snaturamento, per opera
di Napoleone III, il "più grande dei moderni malfattori" (La
Capitale, n. 15), della tradizione rivoluzionaria d'Oltralpe.
Il 30 nov. 1870 il G. lasciò La Capitale per contrasti con il
proprietario R. Sonzogno e divenne per alcuni mesi direttore de Il
Diavolo color di rosa, politicamente vicino alla Capitale ma aperto
persino alle istanze dell'Internazionale (1871). Convinto della
necessità che tutte le classi sociali, tutte le professioni e
tutti i bisogni fossero equamente rappresentati e tutelati (Criteri
elettrorali I, II, III, ibid., nn. 49-51), nel 1872 il G. fu
segretario della commissione che sosteneva l'estensione del diritto
di voto e collaborò al quotidiano da essa pubblicato, Il
Suffragio universale. Diresse per brevi periodi sia il Don
Pirloncino (1874), giornale satirico che aveva i suoi bersagli nella
Destra e nel clero, sia La Stampa di Roma (1882). Dopo aver curato
la parte letteraria del Capitan Fracassa, il G. ne seguì i
fondatori anche nel giornale di satira politica Don Chisciotte della
Mancia (1887). Infine negli anni dei governi Depretis fu
collaboratore e redattore de La Tribuna, espressione
dell'opposizione della "pentarchia" al trasformismo.
Per dieci anni il G. fu eletto consigliere comunale, per otto
consigliere provinciale, per cinque legislature non consecutive
(XIV-XV, XVII-XVIII, XXII) deputato nei collegi di Tivoli e di Roma.
In quest'ultima veste nel 1881 si oppose con successo al progetto di
deviare l'Aniene nei pressi di Tivoli per creare una forza motrice
per le industrie romane, che avrebbe arrecato gravi danni
all'attività industriale e agricola di Tivoli. Nel Discorso
sul bonificamento dell'Agro romano (Roma 1883) propose, insieme con
il collega M. Garibaldi, un disegno di legge finalizzato a concedere
ai contadini il diritto di enfiteusi; quindi, ancora con Menotti
Garibaldi, sollecitò il governo a prendere provvedimenti in
soccorso delle popolazioni del Lazio danneggiate dal terremoto del
1892. Inoltre intervenne più volte in materia di istruzione e
partecipò al comitato direttivo de Il Parlamento, foglio di
informazione e di critica dell'attività delle Camere,
sostenitore di G. Giolitti (1893-94).
Nel corso degli anni il G. si spostò su posizioni
conservatrici filocrispine e anche il suo radicale anticlericalismo
scivolò verso atteggiamenti sempre più esplicitamente
conciliatori.
A F. Crispi, "il solo vero uomo di Stato che, dopo Cavour, abbia
avuto l'Italia risorta", il G. attribuiva il merito "di una saggia
ed energica opera restauratrice". Ne esaltava la politica di
espansionismo coloniale, in quanto "politica del diritto
all'esistenza, impostaci dalla natura e dalla storia" che sola
poteva, a suo parere, giustificare i sacrifici passati e garantire
l'indipendenza futura degli Italiani. Elogiava inoltre la
capacità del Crispi di comprendere e sintetizzare in efficaci
formule le esigenze storico-politiche del momento. In particolare
nella formula "con Dio, col Re e per la Patria", il G. vedeva
riassunto "il pensiero dei più grandi italiani, dal divino
Dante, allo scettico Machiavelli, al mistico Mazzini, intorno al
fondamento morale da darsi alla società sulla base del
sentimento religioso" (Arch. Giovagnoli, 849/29). Se un tempo aveva
ritenuto le antiche come le moderne cerimonie religiose un semplice
"pretesto a gazzarre più o meno velate, fatte per lo
più dai furbi sulla credulità dei gonzi" (Spartaco,
Firenze 1955, p. 224), ora nel Discorso commemorativo per Amedeo di
Savoia (Roma 1890), in opposizione ai liberali che condannavano il
principe perché cattolico osservante, separava il sentimento
religioso dalla subordinazione al pontefice e ne faceva la conditio
sine qua non del benessere e della grandezza dei popoli.
Rivolgendosi quindi ai primi secoli del cristianesimo, il G. ne
esaltava i "benefici effetti" sul decadente mondo ellenistico e
sottolineava il ruolo "umanitario e civilizzatore" svolto dal Papato
nel periodo dal 330 al 799, in quanto "difensore dell'elemento
nazionale, continuatore dell'elemento latino, propugnatore della
supremazia romana, conquistatore morale dell'occidente" (I latini, i
barbari e la Chiesa, Firenze 1893, p. 489). Pochi anni dopo
arrivò persino ad auspicare "di veder composto il dissidio
che vorrebbe scindere i due nobilissimi sentimenti di patria e
religione", in una "più pacifica convivenza in Roma delle
podestà civili e delle autorità religiose" (Savarese,
p. 560). Senza perdere la sua vis polemica giovanile, il G. fu
"pronto alle battaglie contro i sovversivi, come prima era stato
pronto alle battaglie contro i sanfedisti" (Baccelli, p. 85) e quasi
prevedendo le accuse che gli sarebbero state mosse, scrisse in punto
di morte all'amico C. Quaranta: "nelle azioni della mia vita non vi
fu ombra di contraddizione, perché volli l'indipendenza,
l'unità, la libertà e la grandezza d'Italia, ma non
volli […] la distruzione della religione […] e lo schifoso
materialismo; perché fui credente sempre e sempre patriota"
(Quaranta, p. 13).
Ricevuto nel 1874 l'incarico provvisorio per l'insegnamento delle
lettere italiane nell'istituto tecnico di Roma, nel 1878 il G.
ottenne una cattedra presso il liceo M. Foscarini di Venezia. L'anno
seguente fu nominato professore di storia all'Istituto superiore
femminile di magistero a Roma, ove insegnò fino agli ultimi
anni di vita, continuando negli intervalli di mandato parlamentare a
tenervi libere conferenze. Dopo un iter burocratico durato otto
anni, il 17 febbr. 1903 fu conferita al G. la prima cattedra di
storia del Risorgimento presso la facoltà di lettere e
filosofia dell'Università di Roma. Interrotto nel 1904
l'incarico da una nuova elezione a deputato, alla scadenza del
mandato preferì tornare alla facoltà di magistero.
Come riconoscimento dei quarant'anni di insegnamento, nel 1913 gli
fu permesso di continuare a esercitarlo nonostante
l'anzianità. Nell'ultimo anno di vita divenne direttore
dell'Istituto.
Il G. morì a Roma il 15 luglio 1915.
"Tipico rappresentante di quel romanticismo garibaldino" che
fiorì a Roma intorno al 1870 (Russo, pp. XI, XV), amico ed
estimatore di P. Cossa, di L. Castellazzo e di G. Carducci, il G.
nutrì un profondo culto per Roma in tutte le sue diverse
epoche e sfaccettature, tanto da avere nella romanità
l'elemento unificante della sua biografia. Vantandosi in più
occasioni del proprio "sangue latino", il G. riteneva che il romano
fosse "ancora il primo popolo d'Italia", in grado di "apprezzare la
libertà, di allargarla e mantenerla" (La Capitale, n. 32) e
in possesso della "squisitezza innata di un senso estetico quasi
perfetto" (Passeggiate romane, Milano 1882, p. 35). Tale primato si
prestava bene, sotto il fascismo, a essere tradotto in termini
razziali e a incentivare, anche per mano del genero L.
Paterna-Baldizzi, l'opinione postuma che il G. avesse posseduto "le
stesse qualità che il Fascismo aveva rimesso in onore" e "che
avrebbero fatto di Lui un milite fra i più ardenti e
disciplinati della nuova Fede politica" (Paterna-Baldizzi, p. I).
In quasi tutti i romanzi del G., "il vero protagonista è
sempre l'idea di Roma", anche "con tutti i suoi orrori e le sue
sociali ingiustizie" (F. Lopez-Celly, p. 213). Nell'opera del G. il
gusto per l'antichità si univa costantemente alla sua
fondamentale ispirazione etico-libertaria e, mediante il ricordo
delle antiche gesta popolari per la conquista della libertà,
mirava a rafforzare il sentimento patriottico. Emblematica a tal
proposito è la ricostruzione romanzesca della rivolta degli
schiavi nello Spartaco che,
ispirato al Tito Vezio di L. Castellazzo, fu scritto al caffè
del teatro Valle - ove insieme con P. Cossa, L.A. Vassallo e altri
intellettuali romani il G. aveva fondato la Lega dell'ortografia - e
pubblicato nelle appendici del Fanfulla nel 1873-74. Il G. mette in
bocca al "rudiario" i più alti ideali per cui si era battuto:
"veder sorgere l'indipendenza dei popoli […], abbattere le leggi
infami che vogliono l'uomo prono innanzi all'uomo ed impongono che
[…] l'uno sudi su zolle non sue per dare cibo all'altra che
poltrisce in ozio infingardo […], ricacciarvi entro i confini
d'Italia […] i limiti della quale non avreste dovuto giammai
varcare" (Spartaco, Firenze 1955, p. 247). Il romanzo fu accolto
entusiasticamente dai contemporanei, in particolare da G. Garibaldi
che paragonò l'autore a Michelangelo per l'abilità
nello "scolpire" l'antico eroe e "il più brillante periodo
storico della grandissima Repubblica" (lettera al G., 25 giugno
1874, in Roma, Museo centr. del Risorgimento, b. 592/2, 1). L'opera
fu subito tradotta in francese, tedesco, spagnolo e russo; in Unione
Sovietica ebbe notevole successo e fu riedita fino al Novecento
avanzato. A. Gramsci, individuando in Spartaco "uno dei pochissimi
romanzi popolari italiani che ha avuto diffusione anche all'estero,
in un periodo storico in cui il "romanzo" popolare […] aveva
caratteristiche e limiti strettamente paesani", ne propose una
"traduzione" attualizzante, consiglio che nel secondo dopoguerra
venne seguito dalla rivista comunista Vie nuove.
La fondamentale "ispirazione spartachiana" che, secondo L. Russo,
avrebbe percorso tutta l'opera del G., per G. Savarese avrebbe
invece seguito la stessa involuzione ideologico-politica dell'autore
(Savarese, pp. 561 ss.). Nel Publio Clodio (Roma-Torino 1905), dopo
alcuni anni di silenzio come autore di romanzi storici, il G.
spostava infatti le sue simpatie dai tribuni del popolo a uomini
quali Cicerone e Catone, difensori dell'ordine costituito e della
legalità, ai quali fa esprimere opinioni negative sul popolo
ignorante, vizioso e potenziale tiranno. Sebbene risentano di alcuni
dei difetti del tempo, nei romanzi del G. i critici hanno spesso
rilevato l'inusuale prosa colloquiale e giornalistica, nonché
l'abilità nel dipingere gli ambienti e nel restituire la vita
quotidiana alla sua semplicità. Chiuso a qualsiasi influenza
da parte della nascente letteratura novecentesca, nei suoi saggi di
critica e di estetica letteraria il G. si mostrò accanito
oppositore del verismo, in nome di una piena adesione al modello
estetico idealista di matrice mazziniana e schilleriana (Meditazioni
di un brontolone, Roma 1887).
Come storico, nei suoi diversi lavori sulla rivoluzione romana,
tutti corredati da amplissimo e importante materiale documentario,
il G. si preoccupò di mettere in evidenza la larga
partecipazione dei cittadini romani alla rivoluzione, al fine di
smascherare l'infondatezza del tentativo degli storici clericali,
quali G. Spada, di far passare tanto Pio IX quanto il suo
"fedelissimo popolo", come vittime dei capi del partito
democratico-rivoluzionario: Ciceruacchio e don Pirlone. Ricordi
storici della rivoluzione romana dal 1846 al 1849, Roma 1894;
Pellegrino Rossie la rivoluzione romana, I-III, Roma 1898-1911; Il
Risorgimento italiano dal 1815 al 1848, Milano 1904.
Il G. sperava con ciò di mostrare che il ruolo di capitale
spettava a Roma non solo per la sua grandezza ideale e storica, ma
anche per la sua effettiva cooperazione al Risorgimento. Ritenendo
l'assassinio di P. Rossi "un dramma alla Shakespeare scritto dalla
storia" (P. Rossi, p. 7), il G. ne indagò a fondo le cause.
Oltre a indicare in P. Sterbini, L. Bonaparte e A. Brunetti
(Ciceruacchio) i mandanti e in L. Brunetti l'esecutore materiale
dell'omicidio - scagionando definitivamente il condannato L.
Grandoni -, il G. svelò le trame tese contro il ministro
anche da parte clericale-reazionaria e ritenne complice Roma intera
che, avendo assistito impassibile al fatto, ne cancellò poi
ogni traccia: di modo che l'uccisione di una delle più
elevate intelligenze d'Europa era il tragico ma inevitabile effetto
dell'assurdo tentativo del Rossi di governare in nome di un partito
moderato che era morto di consunzione: "la rivoluzione, che era il
sillogismo storico, abbatteva P. Rossi, che era il sofisma politico"
(ibid., pp. 267 s.). Analogamente il voltafaccia reazionario del
pontefice era dal G. ricondotto all'inconciliabilità delle
due funzioni di principe liberale e di tutore universale dei dogmi
della Chiesa. Ma, pur svelando il grande equivoco consolidatosi
intorno a Pio IX nel generale clima di entusiasmo prodotto dalle
riforme, per il quale si voleva riconoscere in lui, "povero curato
di campagna", l'incarnazione del sogno giobertiano, il G.
continuò a ritenerlo degno di essere annoverato fra i grandi
protagonisti del Risorgimento.
Il G. aveva una concezione positivistica della storia come
ininterrotta catena di sillogismi intimamente congiunti tra loro da
leggi necessarie, che lo storico deve indagare "con metodo
serenamente scientifico, obiettivo, spassionato ed imparziale"
(Roma, Museo centr. del Risorg., b. 849/1). Più volte egli
è stato tuttavia accusato dagli storici di mostrarsi
"partigiano e non sorretto da un vigile senso storico", in quanto
troppo incline al romanzesco. Severo anche il giudizio sui limiti
documentari delle sue ricerche e sulle "generalizzazioni
letteralmente superficiali" (Ghisalberti), in base a cui,
rintracciando il fondamento dell'idea di unità nazionale "nel
sangue, nella favella, nell'arte, nella scienza" degli Italiani (Il
Risorgimento italiano, p. 38), il G. interpretava la storia come
un'univoca linea diretta che dagli antichi romani passa attraverso
Dante fino a Garibaldi.