GIORDANI, Pietro

 

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di Giuseppe Monsagrati

Nacque a Piacenza il 1° genn. 1774 da Giambattista, possidente, e da Teresa Sambuceti. La sua infanzia, travagliata da problemi di salute che ne minavano - e ne minarono a lungo - il fisico gettandolo in una condizione di costante insicurezza interiore, trovò scarso conforto nell'affetto di padre e madre, questa malandata in salute, bigotta e perfino scostante, quello distratto dagli impegni di membro della comunità cittadina, che, come la patente di nobiltà accordatagli nel 1794, lo gratificavano delle soddisfazioni negategli da una laurea in legge presa per obbedire al padre e mai utilizzata. Il G. crebbe dunque solitario e taciturno, rifugiandosi nella lettura precoce dei molti testi offertigli dalla biblioteca paterna e rivelando già da bambino, insieme con la predilezione per le matematiche, grandi capacità di apprendimento, mal disciplinate dalle cure riservategli da qualcuno degli ecclesiastici di cui si circondava la madre. Nel 1813 ammise "di non aver fatto mai né potuto fare alcuno studio regolato", con la conseguenza che "avendo io malamente visto di parecchie cose, non ne so di nessuna" (Treves, p. 399). Seguì lo stesso metodo, disordinato ma confacente al suo carattere scontroso e curioso di tutto, sia quando a 11 anni fu ammesso alla classe di umanità del collegio S. Pietro (e qui tentò di guidarlo don G. Taverna, un prete in odore di giansenismo), sia quando, passato a Parma nel 1788, vi frequentò i corsi di filosofia, terminati i quali il padre volle che si iscrivesse a giurisprudenza: nel luglio 1795 riuscì a laurearsi, assistito pazientemente da un cugino, Luigi Uberto Giordani, docente di diritto a Parma e più tardi tanto sollecito del suo futuro da sostituirsi quasi alla figura paterna. Ma intanto il G. aveva continuato a coltivare i propri variegati interessi dedicandosi per conto proprio allo studio della storia e delle lingue classiche.

Sul suo sviluppo intellettuale gli anni passati a Parma, dove era ancora vivo il sensismo di É.- B. de Condillac, ebbero un peso notevolissimo. Altrettanto formativa fu l'esperienza umana che il giovane ricavò dalla conoscenza di Rosa Milesi, di 15 anni più anziana di lui, con la quale, tornato a Piacenza dopo la laurea, tenne fino al 1800 una corrispondenza rivelatrice in lui di un sentimento assai vicino alla passione ma sempre contenuto - un po' per l'opposizione dei genitori, un po' per l'atteggiamento sfuggente e talvolta beffardo della donna - nei limiti di un gioco intellettuale spiritoso e galante. In realtà il G., bloccato dalla famiglia nella decisione di trasferirsi a Parma e avviato contro voglia alla pratica legale, soffrì molto la situazione e nell'ottobre 1795 tentò perfino il suicidio: "sin la morte mi ha fuggito", scrisse alla Milesi il 7 ott. 1795 (Ferretti, p. 41); mettendo sulla carta i suoi sfoghi e le sue frustrazioni, si addestrava intanto a un genere, quello epistolare, nel quale col tempo avrebbe raggiunto livelli di assoluta eccellenza.

Lo stato d'animo del G. dopo il mancato suicidio era quello di una personalità ormai adulta, ma costretta a prendere atto della propria totale dipendenza - economica e psicologica - dalla famiglia e priva della forza necessaria per uscire da una condizione di vita assai simile a una prigionia. La scelta di entrare in religione il 1° genn. 1797, per lui che aveva già manifestato qualche razionalistica insofferenza verso il clero e le pratiche religiose, fu dunque il solo mezzo che aveva saputo trovare per rompere l'opprimente legame con la madre e per dimenticare, allo stesso tempo, un amore infelice. Raggiunse entrambi questi scopi, il secondo dopo un repentino ritorno di fiamma che lo aveva colpito quando già da più di un anno aveva conseguito il suddiaconato (26 maggio 1798): in più, i tre anni vissuti in parte nel monastero benedettino di S. Sisto, presso Piacenza, in parte nella vicina Cotrebbia, dove con gli altri monaci era stato spinto a cercare rifugio dalla prima invasione francese e dalla dispersione degli ordini religiosi che ne era derivata, gli diedero la certezza che la vita monastica non era fatta per lui e, per difendersene, aveva ripreso a dedicare il molto tempo disponibile alle letture dei classici. Approfittò allora della discesa di Napoleone Bonaparte in Italia dopo il ritorno degli Austro-Russi per fuggire dal monastero e affrancarsi così dall'ennesimo legame della sua vita. Nel 1802 la S. Sede, assolvendolo su sua istanza da ogni censura, lo avrebbe ridotto allo stato laicale.

Impossibilitato a rientrare in famiglia dalle modalità stesse della sua svestizione, il G. nel giugno 1800 era a Milano in cerca di un lavoro. L'amministrazione napoleonica gli offrì alcuni impieghi minori, prima come segretario del commissario di governo inviato a Massa, in Toscana, poi, a metà 1801, come segretario del Dipartimento del Basso Po a Ferrara; quindi, un anno dopo, come vicesegretario della prefettura di Ravenna. Quella burocratica non era certo la sua vocazione più sentita ("Non amo gl'impieghi: e vorrei potermi mantenere senza cariche", scriveva a un amico il 26 fruttidoro IX [12 sett. 1801] deprecando di non aver mai avuto l'autorità necessaria per dimostrare di possedere "petto non di monaca ma di granatiere": in Bibl. apostolica Vaticana, Autografi Patetta, I), ma lo metteva a contatto, nelle varie sedi assegnategli, con la parte più dinamica della società. Risale appunto a quest'epoca la conoscenza di Pietro Brighenti, anch'egli funzionario napoleonico con la passione della letteratura e negli anni a venire una delle amicizie più salde di chi come il G. cercava in questi affetti ciò che da giovane non aveva avuto. La sua aspirazione più vera era l'insegnamento, al punto che, quando gli offrirono una supplenza sulla cattedra di eloquenza a Bologna, il G., malgrado dovesse svolgere anche compiti di bibliotecario e il compenso fosse inferiore a quello percepito prima, si affrettò a lasciare la segreteria generale della prefettura di Ferrara cui era stato preposto dal 12 sett. 1802. Non fu comunque una sistemazione duratura: la supplenza non gli fu rinnovata e anzi per certe sue intemperanze perse anche il posto di bibliotecario. Ridotto a fare il copista, il G. accumulò nuovi malumori che poi riversò nelle sue prime prove di scrittore, prendendo di mira sia un oscuro poeta dilettante (Prima esercitazione scolastica d'un ignorante sopra un epitalamio di un poeta crostolio, s.l. 1805), sia il celebre V. Monti cui pure in un futuro non lontano sarebbe stato molto legato (L'Arpia messaggera, o Il corriere alato di Rubacervelli e Portavittoria, 1806, bloccato dalla censura). Quando nel 1806 l'Accademia di belle arti di Bologna gli commissionò un'Orazione per le belle arti (ne esistono due stesure, la seconda effettivamente pronunziata, ora in P. Giordani, Opere, VIII, pp. 169-182), il G. era già noto per l'incisività della sua prosa, paludata ed enfatica ma non vacua e già lucida nella comprensione di cosa il regime napoleonico avesse significato in concreto per la vecchia Italia feudale.

Con tale realtà si misurò più direttamente nel 1807 allorché, di ritorno da un viaggio che nel 1806 lo aveva portato fino a Napoli, gli fu chiesto di celebrare Napoleone presso l'Accademia dei Filomati di Cesena, dove lo aveva accolto il Brighenti dandogli un modesto incarico di segreteria nella vicina Roversano. Nacque così, dopo la prova riuscita del Discorso… per la morte di mons. Nicolò Della Massa Masini tenuto all'Accademia cesenate il 1° giugno 1807 (Forlì 1807, poi in Opere, VIII, pp. 203-218), l'orazione Napoleone legislatore, ossia Panegirico allo imperator Napoleone per le sue imprese civili detto nell'Accademia di Cesena il XVI agosto MDCCCVII, dedicata al viceré Eugenio Beauharnais e subito nota semplicemente come Panegirico a Napoleone (Bologna 1808, poi Brescia 1810, infine, dopo molte altre edizioni, in un testo che presenta alcune varianti, in Opere, VIII, pp. 219-310). Sul modello degli autori latini il G. vi esaltava non il condottiero e le sue vittorie ma colui che dando alla società italiana nuove leggi aveva cominciato a liberarla dalla "pestilenza feudale", dai privilegi, dalle disuguaglianze, dall'ignoranza, dalla soggezione alla Chiesa. Napoleone era dunque il sovrano illuminato che utilizzava il potere assoluto per incivilire il mondo, non per dominarlo; e in questa visione di stampo settecentesco rientravano una nota materialistica (il pensiero umano era presentato come una secrezione del cervello) e l'ormai acquisita prospettiva anticlericale e antireligiosa, qui visibile nell'apologia del divorzio appena introdotto. Tali contenuti, se qualificavano in senso liberal-borghese il progressismo giordaniano, rendevano d'altra parte meno significativi, perché funzionali comunque a un'attesa di rinnovamento profondo, gli accenti di piaggeria sparsi qua e là nel Panegirico: accenti che i contemporanei colsero e talvolta criticarono, come fece, per es., con particolare acrimonia U. Foscolo. In seguito lo stesso G. mantenne con questo scritto un rapporto intermittente di accettazione e rifiuto, per cui, pur considerandolo sempre tra i suoi migliori quanto a eloquenza, ebbe talvolta a presentarlo più come un adempimento d'ufficio che come una prova di sincerità. Certo era sincero quando nel 1809 scrisse (Osservazioni sul Panegirico di Napoleone) di aver mirato non tanto "a celebrare la grandezza di Napoleone, quanto a rivolgere verso di lui l'amore del Mondo, come autore di tanti beni" (Opere, VIII, p. 320). Di fatto, come progetto politico liberatore, l'ideologia bonapartista continuò ad affascinarlo anche dopo la morte di Napoleone, creando un solido legame tra lui e i figli di Luigi Bonaparte, già re d'Olanda.

Nessun vantaggio di carriera derivò comunque da questa esibizione cesenate al G., che vide ancora delusa la sua speranza di una cattedra (stavolta doveva essere quella dantesca): dal marzo 1808 ottenne però il posto di prosegretario dell'Accademia di belle arti di Bologna, posto mal remunerato ma propizio a fruttuosi incontri intellettuali (fu da qui che iniziò l'amicizia del G. con il Monti), sebbene esposto a più di una tensione. Tuttavia con i discorsi che nelle vesti di segretario lesse anno per anno e fino al 1813 su temi prevalentemente artistici egli, pur senza essere un critico o uno storico dell'arte, ottenne la crescente considerazione del pubblico medio-alto che cominciava a scoprire la vasta gamma dei suoi interessi e ad apprezzare la sua scrittura, limpida, semplice, ma raffinata e tuttavia così vicina ai moduli retorici classici da dare a volte l'impressione di artificiosa freddezza. Al centro della sua attenzione stava il neoclassicismo, per il dichiarato legame contenutistico e stilistico con i modelli greci che per il G. rappresentavano la non raggiungibile perfezione di un ideale di decoro e compostezza e che ora rivivevano grazie soprattutto alle opere di A. Canova, oggetto della sua continua venerazione (Panegirico ad Antonio Canova, dedicandosi il suo busto nell'Accademia di belle arti in Bologna, 28 giugno 1810, in Opere, IX, pp. 16-81); ma la sua idea del bello - che era poi quella del vero e dunque del bene - poteva emergere anche dalla trattazione di personaggi minori, per esempio nel discorso Sui dipinti del cav. Landi e del cav. Camuccini (1811, ibid., IX, pp. 122-139), dove sosteneva: "Credo e tengo che l'arte, sì nelle cose da natura fatte, e sì nelle umane opere, dee scegliere il bello, e in tutto serbare il decoro, e un'avvenenza gradevole", ovvero: "Senza stringente necessità della storia […] non si dee mai figurare il brutto".

Nel formulare la sua estetica il pensiero del G. andava ai problemi della lingua, a un settore, cioè, assai più in crisi di quello artistico, per la mancanza di scrittori ma anche per il contagio del francese, la cui affermazione al seguito delle armate napoleoniche aveva inquinato la purezza dell'italiano. La lingua (e la prosa, il romanzo e la pubblicistica che da essa nascevano) diventava il primo elemento dell'identità nazionale, il più potente fattore della sua conservazione, il tramite espressivo di un pensiero a formare il quale era indispensabile la lettura degli scrittori che per primi avevano elaborato il linguaggio nelle sue caratteristiche più originali e dirette: gli autori del Trecento, in particolare, cui il G. si accostava, e consigliava di accostarsi, con l'indole del ricercatore attento a cogliere ciò che in passato aveva distinto e reso superiore l'italiano rispetto alle culture "barbare". In assidua corrispondenza con A. Cesari nei primi anni della Restaurazione, il G. se ne differenziava perché dava al proprio purismo un senso molto più laico, amando egli Dante e i trecentisti non per l'impianto teologico delle loro creazioni ma perché con essi era nata la lingua per il popolo. In lui il purismo non aveva nulla di reazionario proprio perché alla radice della sua idea di nazione c'era il rifiuto dell'universalismo cattolico e delle concezioni politiche che ne erano derivate.

In proposito va detto che il punto di vista del G. sulla questione non si ricava da trattazioni specifiche ma è sparso nelle lettere che per tutta la vita scrisse ai tanti intellettuali e amici che affollarono la sua esistenza solitaria. Non furono le idee a mancargli, dal momento che sin da giovane fu in grado di concepire opere nei propositi di ampio respiro (una sugli Studi degl'Italiani nel sec. XVIII, un'altra sulla Storia dello spirito pubblico in Italia per 600 anni considerato nelle vicende della lingua), ma la continuità. Alla base della sua congenita incapacità di organizzare e poi svolgere la materia c'erano varie motivazioni, prime fra tutte una pigrizia destinata a diventare proverbiale e la tendenza ad abbandonare un tema subito dopo averlo abbozzato, spesso perché un altro sopraggiungeva a sostituirlo nei suoi interessi immediati. Infatti, diffusasi la fama della sua specializzazione nel genere oratorio o encomiastico che gli aveva data la prima notorietà, il G. fu tempestato da varie parti di richieste di accademie, istituzioni e anche semplici privati che gli chiedevano di celebrare qualche gloria locale. Generoso per carattere, quasi mai si negò; ma l'epigrafe o l'iscrizione funeraria, genere in cui pure fu giudicato - non sempre a ragione - eccellente, costituirono spesso per lui il modo per sottrarsi a un impegno più gravoso. A ogni modo l'edizione delle sue Opere è fitta di scritti interrotti dopo poche pagine per le ragioni appena accennate o anche perché, come ebbe a lamentare più di una volta, l'aver già provato lo scempio che le censure facevano dei suoi scritti lo demotivava rispetto all'intenzione iniziale.

Dipese anche da ciò il progressivo svuotamento di contenuti civili di cui soffrirono gli scritti del G., sensibilissimo all'esigenza di educare il pubblico ma del tutto restio a sostenere tale proposito con un'azione politica che lo portasse a scontrarsi con il potere dispotico dei sovrani. Tanto forte era la preoccupazione di compromettersi che i destinatari della sua corrispondenza erano spesso sollecitati a distruggerla per evitargli conseguenze spiacevoli: un atteggiamento rinunciatario il suo, che forse nasceva dalla propensione a chiudersi in se stesso e nella salvaguardia della propria dignità per via di quello che è stato definito "il suo legame indubbio […] con la grande cultura settecentesca di fondo aristocratico" (M. Cerruti, G. e l'ellenismo, in P. G. nel II centenario…, p. 222). Ciò non gli impediva di essere sincero quando invocava l'avvento di un'era di libertà per tutti o quando, generalizzando, sfogava nelle lettere la frustrazione accumulata contro il "mondaccio porco", la perfidia degli ecclesiastici, i governi assoluti: in realtà la sua visione restava settecentesca, interna al dispotismo illuminato più che alla democrazia, e a questa visione va in definitiva ricondotta una sua affermazione del 1834: "Io non ho mosso mai, non moverò mai un dito contro i troni" (citato da E. Passerin d'Entrèves, Ideologie del Risorgimento, in Storia della letteratura italiana [Garzanti], VII, L'Ottocento, Milano 1969, p. 401).

Definita nelle linee portanti già durante la dominazione napoleonica, la posizione del G. maturò pienamente con la Restaurazione, quando molte novità intervennero anche nella sua vita. Anzitutto, non essendo suddito pontificio, dovette lasciare il posto all'Accademia bolognese: prima, però, era stato incaricato di tenere il 30 luglio 1815 un discorso Per le tre Legazioni riacquistate dal papa (Parma 1815; poi Opere, X, pp. 310 ss.) che destò qualche sospetto per i sentimenti attribuiti nell'occasione ai Bolognesi, così smaccatamente entusiastici verso il potere temporale da far quasi pensare a una rappresentazione satirica; si disse poi, e il G. stesso accreditò l'interpretazione, che egli, celebrando il buon governo pontificio del passato, aveva inteso dare a quello appena restaurato non lodi ma "consigli camuffati da lodi" (Ferretti, p. 156). In effetti quella dell'ambiguità era una tecnica che il G. conosceva bene, visto che fin da giovane aveva parlato di "quella foggia di retori (come sono i Panegiristi dei Santi), che ingrandiscon tanto, anzi gonfiano le cose, che il povero uditore resta dubbio sempre, e non può distinguere tra la verità, o la bugia e la canzonatura" (lettera a L.U. Giordani, Piacenza, 18 agosto, s. anno, Roma, Bibl. naz., Autografi, 105.28).

Lasciata Bologna, dopo un breve soggiorno a Piacenza il G. si portò nel settembre 1815 a Milano. Qui in luogo della sospirata cattedra universitaria gli proposero di partecipare, con il romano S. Breislak e con V. Monti, alla redazione della Biblioteca italiana che G. Acerbi aveva fondato col sostegno del governo austriaco. Malgrado vi fosse entrato con più di un'esitazione, per un anno, tra il 1816 e il 1817, il G. dedicò molte delle sue energie al periodico, redigendone il proemio e pubblicandovi una ventina di articoli, tra saggi e recensioni. Furono suoi l'articolo non firmato Sul discorso di madama de Staël. Lettera di un italiano ai compilatori della Biblioteca (in Opere, IX, pp. 339-347) in risposta al celebre scritto della Staël Sulla maniera e sull'utilità delle traduzioni che, tradotto proprio da lui, era stato accolto nel primo fascicolo della rivista, e l'altro (Collezione delle migliori opere scritte in dialetto milanese, ibid., pp. 370-375) che segnalava la pubblicazione di una raccolta di poeti dialettali milanesi: entrambi, percorsi da una vena polemica, offrivano al G. il destro per esprimere da un lato, nel segno di una malintesa tutela dei caratteri culturali della nazione, la propria diffidenza verso la produzione letteraria straniera, e per cogliere dall'altro il fondo sostanzialmente reazionario della poesia dialettale, che nella sua apparente vitalità e spontaneità contribuiva a perpetuare l'ignoranza della plebe, interdicendole l'uso della lingua e così privandola "dell'unico soccorso per divenire un poco civile e italiana". Quest'ultima tesi provocò subito la replica irriverente e risentita di Carlo Porta con i suoi Dodis sonett all'abaa Giavan, poi l'altra, più articolata, di Pietro Borsieri che nelle sue Avventure letterarie di un giorno, oltre a obiettare che il dialetto poteva servire a "diffondere più facilmente una certa cultura nel volgo", tacciava di fredda vacuità gli articoli del G. e i suoi sforzi per rimettere in auge la lingua colta: sfuggiva a entrambi, nell'esteriorità dei rilievi che muovevano e che all'apparenza erano fondati, il forte movente civile della battaglia del G. che non nasceva tanto da un pregiudizio antiromantico o da un'idea aristocratica della cultura, quanto dall'illuministica tensione per l'elevazione morale dei suoi connazionali, la stessa tensione che lo spingeva, sempre sulla Biblioteca italiana, a impopolari prese di posizione a favore della prosa e contro la mania nazionale del poetare, che per lui altro non era che un'improvvida fuga dalla realtà.

A un anno dal suo inizio il rapporto con la Biblioteca italiana si chiuse per insanabili contrasti con l'Acerbi, dal G. accusato di essere una "spia sfacciata dei tedeschi" (ad A. Canova, 15 febbr. 1818, in Lettere, I, p. 114). La permanenza a Milano lo aveva comunque fatto entrare in relazione con l'editore G. Silvestri, con il quale il G. avviò una intensa collaborazione che gli consentì anzitutto di raccogliere i suoi articoli migliori e pubblicarli nella appena lanciata "Biblioteca scelta di opere italiane antiche e moderne" (Alcune prose di P. Giordani, Milano 1817); divenuto consulente editoriale della stessa collana, il G. vi fece inserire i testi di autori del Trecento e del Seicento (D. Cavalca, D. Compagni, D. Bartoli, P. Segneri, S. Pallavicino) che meglio incarnavano il suo ideale stilistico di semplicità e lindore della lingua. Successivamente, tra il 1824 e il 1845, la "Biblioteca scelta" avrebbe accolto altri 5 volumi di Scritti del G., compreso uno di quelle iscrizioni che ne avevano consolidato la fama di maestro del gusto.

Maestro era un appellativo che il G. non amava sentirsi rivolgere, malgrado fosse appunto un magistero quello che con i propri consigli e suggerimenti esercitava spesso verso coloro che gli si rivolgevano affascinati dalla lettura dei suoi testi. In questo ambito l'incontro che egli avvertì come il più significativo e duraturo fu quello che nel febbraio 1817 gli fece conoscere la personalità di Giacomo Leopardi che da Recanati aveva inviato a lui, al Monti e a mons. A. Mai - altra grande amicizia del G. - una sua versione italiana del libro II dell'Eneide. Favorendo gli inizi della sua carriera di letterato, il G., pure ormai affermato, non esibì verso il Leopardi alcuna forma di paternalismo e tanto meno di boria: fu anzi spontaneo in lui il senso di parità intellettuale, e ben presto anche di inferiorità, verso un giovane che per profondità e ampiezza di requisiti culturali era stato un'autentica scoperta e che in più sentiva vicinissimo per esperienza sofferta di vita, sensibilità, amore per i classici, limpidezza di scrittura. Se a partire dal 1817 e fino al 1824 il G., forzando forse il suo vero sentire, arrivò a teorizzare che i nobili con la loro indipendenza spirituale costituivano la sola speranza di rinnovamento rimasta all'Italia, ciò dipese appunto dalla conoscenza del Leopardi (e da quella coeva del conte vicentino P. Dal Toso, spentosi precocemente nel 1819) e dalla consapevolezza, ebbe a dire, che il Monti, il Mai, G. Perticari e lui stesso non facevano "la metà dell'ingegno e del sapere di questo giovine" (a P. Brighenti, 6 luglio 1819, in Lettere, I, p. 159), a cui poteva rivolgersi come al modello del "perfetto scrittore italiano che ho in mente" (a G. Leopardi, 21 sett. 1817, ibid., p. 110). A sua volta il Leopardi, in una perfetta reciprocità di affetto e di stima, trovò in lui, nella fase decisiva della propria formazione, l'interlocutore più caldo e fidato, capace di ascoltarne gli sfoghi, di orientarne la ricerca letteraria verso temi più civilmente impegnati, mantenendola allo stesso tempo nell'alveo formale del classicismo, di tirarlo fuori dalla prigione recanatese per lanciarlo nel mondo delle lettere. Gli incontri che ebbero (a Recanati nel 1818, a Bologna nel 1825 e a Firenze nel 1827) furono densi di effusività sentimentale e intellettuale; ma anche quando, verso il 1824, lo scambio epistolare tra i due si diradò, restò forte nel G., malgrado qualche delusione e un sospetto d'egoismo, la premura per lo sfortunato poeta, del quale - disse apprendendone la morte - "non è da dolere che abbia finito di penare; ma sì che per 40 anni abbia dovuto desiderar di morire" (a P. Toschi, 12 luglio 1837). Un po' ingenerosamente F. De Sanctis giudicò questa amicizia "la più cara cosa che [del G.] ricorderanno i posteri" (Saggi critici, a cura di L. Russo, Bari 1965, I, p. 6).

Nel marzo del 1817 il G. perse il padre: la sostanza che ereditò lo fece sentire finalmente autonomo e lo sollevò dall'urgenza di continuare a scrivere in un paese che non tollerava alcuna libertà. Era infatti tornato a Piacenza, dove avvertiva ancor più che a Milano il peso di una censura contro la quale nulla poteva la sua fama di scrittore. Risoluto a lottare ancora, concentrò i suoi sforzi contro gli illiberali e spesso violenti metodi didattici in uso nelle scuole inferiori, soprattutto a opera dei gesuiti. A partire dal 1819, con l'intervento sulla Causa dei ragazzi (Opere, X, pp. 285-310), maturò dunque nel G. il rifiuto di ogni pratica pedagogica autoritaria che diventò una costante del suo impegno, forse la sola che potesse avvicinare alla politica un uomo che, come lui, appare, malgrado l'attenzione alle vicende del paese e il forte senso della libertà individuale e della dignità dell'uomo, molto lontano da ogni coinvolgimento diretto nelle iniziative della democrazia ottocentesca. Significativamente, l'istruzione era la chiave di ogni sviluppo civile, il solo terreno sul quale combattere l'intreccio tra religione e potere che era all'origine di un male destinato a durare fin quando l'educazione fosse stata "lasciata in mano alla peggior feccia dell'umana razza" (a C. Morbio, 26 ag. 1845, in Bibl. apost. Vaticana, Autografi Patetta): un obiettivo, questo, che assorbì molte delle energie del G. e gli consentì di compensare con un'accresciuta coscienza della propria capacità di mobilitare l'opinione pubblica la fragilità nervosa che lo afflisse soprattutto agli inizi degli anni Venti. Luogo d'elezione per sottrarre la popolazione piacentina all'influenza perniciosa del clero divenne dal 1820 la Società di lettura, alle cui fortune il G., che ne era membro, consacrò molta parte del suo lavoro, fino a suscitare l'interesse non certo benevolo delle autorità.

Intanto la sua fama di scrittore si consolidava con l'incessante diffusione non solo locale dei suoi scritti, che il Brighenti, firmandosi Mario Valgano, volle ancora raccogliere in 16 volumetti di Opere di P. Giordani, editi con l'indicazione Italia 1821-27 (e subito messi all'Indice); seguirono numerose altre edizioni: a Napoli nel 1826; a Rovigo in 6 tomi nel 1827-29; a Venezia nel 1832; a Chieti nel 1838; a Palermo in 3 tomi nel 1840-41; a Firenze per il Le Monnier in 2 volumi nel 1846; a Parma nel 1848. Vi si riproponeva la produzione del primo quindicennio d'attività, assurta ormai al rango di classico della prosa d'arte; e quando il G. volle uscire dalla stasi creativa indirizzando un discorso di saluto al nuovo vescovo di Piacenza "non mandato qui da potenza straniera" (Congratulazioni a mons. L. Loschi nell'assunzione sua al pontificato di Piacenza l'anno MDCCCXXIV, Piacenza 1824, poi in Opere, X, pp. 50-52), l'Austria che da tempo sorvegliava la sua posta non tardò a pretendere che si colpisse colui che diceva "attratto dalla vertigine delle teorie dell'indipendenza e del giacobinismo" (D'Ancona, p. 94). Immediatamente il governo ducale prescrisse al G. un cambiamento d'aria. Lo scrittore obbedì, ma presto circolò in numerose copie manoscritte una lettera al presidente della Società di lettura in cui il 10 ag. 1824 il G. proclamava dall'esilio la sua rinunzia formale "a Piacenza; dove per disavventura nacqui, e per mia stoltezza ritornai" (Lettere, I, pp. 218 s.).

Nel clima vivace e relativamente più libero di Firenze, dove aveva scelto di stabilirsi, il G. visse il periodo più felice della sua vita. Ammirato da tutti, accolto nelle istituzioni culturali toscane (la Colombaria, i Georgofili, l'Accademia pistoiese e, alla fine del 1825, la Crusca), circondato dalla stima di tanti uomini di cultura (G.B. Niccolini, F. Forti, G. Capponi, G. e A. Poerio, G. Montani), in contatto assiduo con i puristi di Napoli e di Roma (S. Betti, F. Ranalli, O. Gigli), il G. strinse amicizia con il napoletano P. Colletta che incoraggiò a ultimare la Storia del Reame di Napoli aiutandolo anche nella scrupolosa revisione finale; si distrasse piacevolmente con le serate nei salotti fiorentini; incontrò spesso i Napoleonidi concependo una vera passione per Juliette de Villeneuve, la "divina" Giulietta, nipote della ex regina di Spagna; conobbe il Manzoni nel viaggio che questo fece a Firenze nel 1827 e, pur non condividendone la religiosità, esaltò i Promessi sposi non tanto come opera letteraria quanto "come libro del popolo, come catechismo messo in dramma" (Opere, VI, p. 15: il Manzoni per parte sua lo esorterà nel 1832 a dare altri saggi della sua prosa e, con l'aria di elogiarlo, esprimerà il dubbio che la sua naturalezza "possa mai diventar comune", con ciò sottolineando il carattere elitario del suo stile). Sollecitazioni a scrivere gli vennero anche da G.P. Vieusseux che nel 1824 gli chiese di curare una nuova collana, la "Scelta de' prosatori", prevista in una trentina di volumi di autori italiani selezionati secondo il gusto del G. e tutti introdotti da un suo "discorso" critico: pur intrattenendo con l'editore un rapporto di grande intimità e per quanto allettato dalla prospettiva di un forte compenso, il G. lasciò cadere l'iniziativa dopo averla annunziata con un manifesto-programma sull'Antologia del 1° genn. 1825.

Sicché la sua collaborazione al periodico non andò oltre una dozzina di articoli, prevalentemente sulle arti figurative (nel 1826 uno scritto di presentazione delle Operette morali del Leopardi gli fu respinto dal Vieusseux per evitare noie con la censura; lo stesso anno un articolo su La prima Psiche di Pietro Tenerani, poi in Opere, XI, pp. 183-193, fu accolto solo in minima parte). Forse per una sua arretratezza culturale non entrò in sintonia con la funzione dell'intellettuale quale la concepivano i suoi amici fiorentini, o forse la rifiutò, trovandola troppo moderata e mercantilista: in realtà, se visti con gli occhi della democrazia radicale, sia il G., sia il gruppo dell'Antologia non uscirono mai dall'ambito del riformismo, umanitario e solo tendenzialmente democratico quello del G., economico l'altro del Vieusseux; e il Mazzini, la cui rivista era stata giudicata dal G. una "porcheria" (a G.P. Vieusseux, 25 sett. 1832, in Carteggio Giordani-Vieusseux, p. 148), non ebbe torto ad affermare nel 1837 che "gli scritti di Giordani, puri, limpidi, musicali nei modi, ma senz'anima e vigore di vita, sfibrano la mente e addormentano il cuore" (Moto letterario in Italia, in G. Mazzini, Ediz. naz. degli scritti, VIII, p. 371): limite che fu additato anche dal De Sanctis e di cui il G., avendone coscienza, si giustificava dandone la colpa alla censura e alla sua salute, tanto da considerare alla fine un puro diversivo le dispute letterarie e da esclamare rivolto al Betti: "Oh se si potesse stampare, quante cose vorrei dire che mi gravan lo stomaco, benché io sia un povero invalido!" (Roma, Bibl. nazionale, Autografi, A. 63.28, s.d.).

Ma anche nella tollerante Toscana arrivò d'improvviso per lui il 14 nov. 1830 l'ordine di espulsione, a quanto pare motivato da un eccesso di zelo verso Vienna. Per quanto facesse, il G. non riuscì mai a sapere il perché del provvedimento che contro la sua volontà lo aveva ricondotto nel Ducato. Da allora però avvertì sempre più forte l'inizio del declino, attestato anche da un'ulteriore riduzione della capacità di lavoro. Presa dimora a Parma, finalmente nel 1833 scrisse, dedicandolo a Juliette de Villeneuve, un discorso Del quadro di Raffaello detto Lo Spasimo e dell'intaglio in rame fattone dal cav. Toschi (poi in Opere, XI, pp. 248-267), la cui pubblicazione fu permessa a Milano e vietata a Parma: divenne subito celebre e girò per tutta l'Italia la lettera che il G. scrisse il 4 giugno 1833 a un ministro parmense, V. Mistrali, per protestare contro l'ennesima prepotenza ostentando grande fierezza e arrivando perfino alla minaccia: "I ministri sono sministrati; i duchi possono essere sducati. Io per me rido, sapendo che, se anche fossi impiccato, non sarò mai sgiordanato. Voi dovete sapere […] che io sono di quelli che neppur la morte fa tacere; io son di quelli che gridano e puniscono anche dopo la morte" (Lettere, II, p. 64).

C'era già qui il tono sovreccitato e spavaldo che il 28 febbr. 1834 lo avrebbe condotto in carcere per 88 giorni per complicità morale nell'assassinio di un funzionario di polizia a Parma, la cui morte il G. aveva narrato con qualche compiacimento in una lettera privata ad A. Gussalli, futuro editore delle sue Opere. Liberato, riprese gli studi pubblicando altri scritti di estetica, viaggiò (a Torino, dove entrò in contatto con l'ambiente giornalistico vicino ad A. Brofferio, a Genova, in Svizzera), pianse la scomparsa del Leopardi, del quale nel 1845 avrebbe introdotto il III volume delle opere edito da Le Monnier, seguì speranzoso ma senza esaltarsi troppo l'ascesa del Piemonte carlalbertino. Portato spesso a isolarsi, nel 1839 compose un testo violentemente antigesuita e anticlericale che, rimasto incompiuto, avrebbe visto la luce a Londra solo nel 1862 (Frammento inedito. Il peccato impossibile; n. ed. a cura di W. Spaggiari, Parma 1985) confermando la sua condanna di un ceto, quello dei preti, abituato a vivere di imposture e quindi classificato come degenerazione della razza umana. La questione della Chiesa era comunque in primo piano, ma quando apparve il Primato giobertiano il G. non esitò a definirlo un "miserabile imbroglio" (a G. Ricciardi, 4 sett. 1843, in Arch. di Stato di Roma, Acquisti e doni, busta 20/79); ben diversa fu la sua reazione all'avvento di Pio IX, "questo vero miracolo di papa" (così il G. a S. Betti, 6 ott. 1846, in Opere, VII, p. 181, ma anche in una lettera in copia a G. Riccardi, 1° ag. 1847, in Bibl. apost. Vaticana, Codici Ferrajoli, 953.127), da lui celebrato anche pubblicamente con una Lettera inedita del celebre P. Giordani relativa a Pio IX p.o.m., apparsa con due imprimatur a Modena nel 1846. Il mito del papa liberatore durò poco; si era intanto ancor più offuscato quello di Carlo Alberto per via dei propositi annessionistici che, messi in campo dal Piemonte, avevano subito fatto breccia a Piacenza.

Il G. guardò a questi eventi con crescente preoccupazione e con la sensazione della sua prossima fine. Non lo consolò molto la nomina a presidente onorario dell'Università di Parma, decretatagli dal locale governo provvisorio.

Morì a Parma la notte dall'1 al 2 sett. 1848: contrariamente alle sue richieste, ricevette funerali solenni e fu sepolto nella parte del cimitero cittadino riservata agli uomini illustri.