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di Giuseppe Monsagrati
Nacque a Piacenza il 1° genn. 1774 da Giambattista, possidente,
e da Teresa Sambuceti. La sua infanzia, travagliata da problemi di
salute che ne minavano - e ne minarono a lungo - il fisico
gettandolo in una condizione di costante insicurezza interiore,
trovò scarso conforto nell'affetto di padre e madre, questa
malandata in salute, bigotta e perfino scostante, quello distratto
dagli impegni di membro della comunità cittadina, che, come
la patente di nobiltà accordatagli nel 1794, lo gratificavano
delle soddisfazioni negategli da una laurea in legge presa per
obbedire al padre e mai utilizzata. Il G. crebbe dunque solitario e
taciturno, rifugiandosi nella lettura precoce dei molti testi
offertigli dalla biblioteca paterna e rivelando già da
bambino, insieme con la predilezione per le matematiche, grandi
capacità di apprendimento, mal disciplinate dalle cure
riservategli da qualcuno degli ecclesiastici di cui si circondava la
madre. Nel 1813 ammise "di non aver fatto mai né potuto fare
alcuno studio regolato", con la conseguenza che "avendo io malamente
visto di parecchie cose, non ne so di nessuna" (Treves, p. 399).
Seguì lo stesso metodo, disordinato ma confacente al suo
carattere scontroso e curioso di tutto, sia quando a 11 anni fu
ammesso alla classe di umanità del collegio S. Pietro (e qui
tentò di guidarlo don G. Taverna, un prete in odore di
giansenismo), sia quando, passato a Parma nel 1788, vi
frequentò i corsi di filosofia, terminati i quali il padre
volle che si iscrivesse a giurisprudenza: nel luglio 1795
riuscì a laurearsi, assistito pazientemente da un cugino,
Luigi Uberto Giordani, docente di diritto a Parma e più tardi
tanto sollecito del suo futuro da sostituirsi quasi alla figura
paterna. Ma intanto il G. aveva continuato a coltivare i propri
variegati interessi dedicandosi per conto proprio allo studio della
storia e delle lingue classiche.
Sul suo sviluppo intellettuale gli anni passati a Parma, dove era
ancora vivo il sensismo di É.- B. de Condillac, ebbero un
peso notevolissimo. Altrettanto formativa fu l'esperienza umana che
il giovane ricavò dalla conoscenza di Rosa Milesi, di 15 anni
più anziana di lui, con la quale, tornato a Piacenza dopo la
laurea, tenne fino al 1800 una corrispondenza rivelatrice in lui di
un sentimento assai vicino alla passione ma sempre contenuto - un
po' per l'opposizione dei genitori, un po' per l'atteggiamento
sfuggente e talvolta beffardo della donna - nei limiti di un gioco
intellettuale spiritoso e galante. In realtà il G., bloccato
dalla famiglia nella decisione di trasferirsi a Parma e avviato
contro voglia alla pratica legale, soffrì molto la situazione
e nell'ottobre 1795 tentò perfino il suicidio: "sin la morte
mi ha fuggito", scrisse alla Milesi il 7 ott. 1795 (Ferretti, p.
41); mettendo sulla carta i suoi sfoghi e le sue frustrazioni, si
addestrava intanto a un genere, quello epistolare, nel quale col
tempo avrebbe raggiunto livelli di assoluta eccellenza.
Lo stato d'animo del G. dopo il mancato suicidio era quello di una
personalità ormai adulta, ma costretta a prendere atto della
propria totale dipendenza - economica e psicologica - dalla famiglia
e priva della forza necessaria per uscire da una condizione di vita
assai simile a una prigionia. La scelta di entrare in religione il
1° genn. 1797, per lui che aveva già manifestato qualche
razionalistica insofferenza verso il clero e le pratiche religiose,
fu dunque il solo mezzo che aveva saputo trovare per rompere
l'opprimente legame con la madre e per dimenticare, allo stesso
tempo, un amore infelice. Raggiunse entrambi questi scopi, il
secondo dopo un repentino ritorno di fiamma che lo aveva colpito
quando già da più di un anno aveva conseguito il
suddiaconato (26 maggio 1798): in più, i tre anni vissuti in
parte nel monastero benedettino di S. Sisto, presso Piacenza, in
parte nella vicina Cotrebbia, dove con gli altri monaci era stato
spinto a cercare rifugio dalla prima invasione francese e dalla
dispersione degli ordini religiosi che ne era derivata, gli diedero
la certezza che la vita monastica non era fatta per lui e, per
difendersene, aveva ripreso a dedicare il molto tempo disponibile
alle letture dei classici. Approfittò allora della discesa di
Napoleone Bonaparte in Italia dopo il ritorno degli Austro-Russi per
fuggire dal monastero e affrancarsi così dall'ennesimo legame
della sua vita. Nel 1802 la S. Sede, assolvendolo su sua istanza da
ogni censura, lo avrebbe ridotto allo stato laicale.
Impossibilitato a rientrare in famiglia dalle modalità stesse
della sua svestizione, il G. nel giugno 1800 era a Milano in cerca
di un lavoro. L'amministrazione napoleonica gli offrì alcuni
impieghi minori, prima come segretario del commissario di governo
inviato a Massa, in Toscana, poi, a metà 1801, come
segretario del Dipartimento del Basso Po a Ferrara; quindi, un anno
dopo, come vicesegretario della prefettura di Ravenna. Quella
burocratica non era certo la sua vocazione più sentita ("Non
amo gl'impieghi: e vorrei potermi mantenere senza cariche", scriveva
a un amico il 26 fruttidoro IX [12 sett. 1801] deprecando di non
aver mai avuto l'autorità necessaria per dimostrare di
possedere "petto non di monaca ma di granatiere": in Bibl.
apostolica Vaticana, Autografi Patetta, I), ma lo metteva a
contatto, nelle varie sedi assegnategli, con la parte più
dinamica della società. Risale appunto a quest'epoca la
conoscenza di Pietro Brighenti, anch'egli funzionario napoleonico
con la passione della letteratura e negli anni a venire una delle
amicizie più salde di chi come il G. cercava in questi
affetti ciò che da giovane non aveva avuto. La sua
aspirazione più vera era l'insegnamento, al punto che, quando
gli offrirono una supplenza sulla cattedra di eloquenza a Bologna,
il G., malgrado dovesse svolgere anche compiti di bibliotecario e il
compenso fosse inferiore a quello percepito prima, si
affrettò a lasciare la segreteria generale della prefettura
di Ferrara cui era stato preposto dal 12 sett. 1802. Non fu comunque
una sistemazione duratura: la supplenza non gli fu rinnovata e anzi
per certe sue intemperanze perse anche il posto di bibliotecario.
Ridotto a fare il copista, il G. accumulò nuovi malumori che
poi riversò nelle sue prime prove di scrittore, prendendo di
mira sia un oscuro poeta dilettante (Prima esercitazione scolastica
d'un ignorante sopra un epitalamio di un poeta crostolio, s.l.
1805), sia il celebre V. Monti cui pure in un futuro non lontano
sarebbe stato molto legato (L'Arpia messaggera, o Il corriere alato
di Rubacervelli e Portavittoria, 1806, bloccato dalla censura).
Quando nel 1806 l'Accademia di belle arti di Bologna gli
commissionò un'Orazione per le belle arti (ne esistono due
stesure, la seconda effettivamente pronunziata, ora in P. Giordani,
Opere, VIII, pp. 169-182), il G. era già noto per
l'incisività della sua prosa, paludata ed enfatica ma non
vacua e già lucida nella comprensione di cosa il regime
napoleonico avesse significato in concreto per la vecchia Italia
feudale.
Con tale realtà si misurò più direttamente nel
1807 allorché, di ritorno da un viaggio che nel 1806 lo aveva
portato fino a Napoli, gli fu chiesto di celebrare Napoleone presso
l'Accademia dei Filomati di Cesena, dove lo aveva accolto il
Brighenti dandogli un modesto incarico di segreteria nella vicina
Roversano. Nacque così, dopo la prova riuscita del Discorso…
per la morte di mons. Nicolò Della Massa Masini tenuto
all'Accademia cesenate il 1° giugno 1807 (Forlì 1807, poi
in Opere, VIII, pp. 203-218), l'orazione Napoleone legislatore,
ossia Panegirico allo imperator Napoleone per le sue imprese civili
detto nell'Accademia di Cesena il XVI agosto MDCCCVII, dedicata al
viceré Eugenio Beauharnais e subito nota semplicemente come
Panegirico a Napoleone (Bologna 1808, poi Brescia 1810, infine, dopo
molte altre edizioni, in un testo che presenta alcune varianti, in
Opere, VIII, pp. 219-310). Sul modello degli autori latini il G. vi
esaltava non il condottiero e le sue vittorie ma colui che dando
alla società italiana nuove leggi aveva cominciato a
liberarla dalla "pestilenza feudale", dai privilegi, dalle
disuguaglianze, dall'ignoranza, dalla soggezione alla Chiesa.
Napoleone era dunque il sovrano illuminato che utilizzava il potere
assoluto per incivilire il mondo, non per dominarlo; e in questa
visione di stampo settecentesco rientravano una nota materialistica
(il pensiero umano era presentato come una secrezione del cervello)
e l'ormai acquisita prospettiva anticlericale e antireligiosa, qui
visibile nell'apologia del divorzio appena introdotto. Tali
contenuti, se qualificavano in senso liberal-borghese il
progressismo giordaniano, rendevano d'altra parte meno
significativi, perché funzionali comunque a un'attesa di
rinnovamento profondo, gli accenti di piaggeria sparsi qua e
là nel Panegirico: accenti che i contemporanei colsero e
talvolta criticarono, come fece, per es., con particolare acrimonia
U. Foscolo. In seguito lo stesso G. mantenne con questo scritto un
rapporto intermittente di accettazione e rifiuto, per cui, pur
considerandolo sempre tra i suoi migliori quanto a eloquenza, ebbe
talvolta a presentarlo più come un adempimento d'ufficio che
come una prova di sincerità. Certo era sincero quando nel
1809 scrisse (Osservazioni sul Panegirico di Napoleone) di aver
mirato non tanto "a celebrare la grandezza di Napoleone, quanto a
rivolgere verso di lui l'amore del Mondo, come autore di tanti beni"
(Opere, VIII, p. 320). Di fatto, come progetto politico liberatore,
l'ideologia bonapartista continuò ad affascinarlo anche dopo
la morte di Napoleone, creando un solido legame tra lui e i figli di
Luigi Bonaparte, già re d'Olanda.
Nessun vantaggio di carriera derivò comunque da questa
esibizione cesenate al G., che vide ancora delusa la sua speranza di
una cattedra (stavolta doveva essere quella dantesca): dal marzo
1808 ottenne però il posto di prosegretario dell'Accademia di
belle arti di Bologna, posto mal remunerato ma propizio a fruttuosi
incontri intellettuali (fu da qui che iniziò l'amicizia del
G. con il Monti), sebbene esposto a più di una tensione.
Tuttavia con i discorsi che nelle vesti di segretario lesse anno per
anno e fino al 1813 su temi prevalentemente artistici egli, pur
senza essere un critico o uno storico dell'arte, ottenne la
crescente considerazione del pubblico medio-alto che cominciava a
scoprire la vasta gamma dei suoi interessi e ad apprezzare la sua
scrittura, limpida, semplice, ma raffinata e tuttavia così
vicina ai moduli retorici classici da dare a volte l'impressione di
artificiosa freddezza. Al centro della sua attenzione stava il
neoclassicismo, per il dichiarato legame contenutistico e stilistico
con i modelli greci che per il G. rappresentavano la non
raggiungibile perfezione di un ideale di decoro e compostezza e che
ora rivivevano grazie soprattutto alle opere di A. Canova, oggetto
della sua continua venerazione (Panegirico ad Antonio Canova,
dedicandosi il suo busto nell'Accademia di belle arti in Bologna, 28
giugno 1810, in Opere, IX, pp. 16-81); ma la sua idea del bello -
che era poi quella del vero e dunque del bene - poteva emergere
anche dalla trattazione di personaggi minori, per esempio nel
discorso Sui dipinti del cav. Landi e del cav. Camuccini (1811,
ibid., IX, pp. 122-139), dove sosteneva: "Credo e tengo che l'arte,
sì nelle cose da natura fatte, e sì nelle umane opere,
dee scegliere il bello, e in tutto serbare il decoro, e un'avvenenza
gradevole", ovvero: "Senza stringente necessità della storia
[…] non si dee mai figurare il brutto".
Nel formulare la sua estetica il pensiero del G. andava ai problemi
della lingua, a un settore, cioè, assai più in crisi
di quello artistico, per la mancanza di scrittori ma anche per il
contagio del francese, la cui affermazione al seguito delle armate
napoleoniche aveva inquinato la purezza dell'italiano. La lingua (e
la prosa, il romanzo e la pubblicistica che da essa nascevano)
diventava il primo elemento dell'identità nazionale, il
più potente fattore della sua conservazione, il tramite
espressivo di un pensiero a formare il quale era indispensabile la
lettura degli scrittori che per primi avevano elaborato il
linguaggio nelle sue caratteristiche più originali e dirette:
gli autori del Trecento, in particolare, cui il G. si accostava, e
consigliava di accostarsi, con l'indole del ricercatore attento a
cogliere ciò che in passato aveva distinto e reso superiore
l'italiano rispetto alle culture "barbare". In assidua
corrispondenza con A. Cesari nei primi anni della Restaurazione, il
G. se ne differenziava perché dava al proprio purismo un
senso molto più laico, amando egli Dante e i trecentisti non
per l'impianto teologico delle loro creazioni ma perché con
essi era nata la lingua per il popolo. In lui il purismo non aveva
nulla di reazionario proprio perché alla radice della sua
idea di nazione c'era il rifiuto dell'universalismo cattolico e
delle concezioni politiche che ne erano derivate.
In proposito va detto che il punto di vista del G. sulla questione
non si ricava da trattazioni specifiche ma è sparso nelle
lettere che per tutta la vita scrisse ai tanti intellettuali e amici
che affollarono la sua esistenza solitaria. Non furono le idee a
mancargli, dal momento che sin da giovane fu in grado di concepire
opere nei propositi di ampio respiro (una sugli Studi degl'Italiani
nel sec. XVIII, un'altra sulla Storia dello spirito pubblico in
Italia per 600 anni considerato nelle vicende della lingua), ma la
continuità. Alla base della sua congenita incapacità
di organizzare e poi svolgere la materia c'erano varie motivazioni,
prime fra tutte una pigrizia destinata a diventare proverbiale e la
tendenza ad abbandonare un tema subito dopo averlo abbozzato, spesso
perché un altro sopraggiungeva a sostituirlo nei suoi
interessi immediati. Infatti, diffusasi la fama della sua
specializzazione nel genere oratorio o encomiastico che gli aveva
data la prima notorietà, il G. fu tempestato da varie parti
di richieste di accademie, istituzioni e anche semplici privati che
gli chiedevano di celebrare qualche gloria locale. Generoso per
carattere, quasi mai si negò; ma l'epigrafe o l'iscrizione
funeraria, genere in cui pure fu giudicato - non sempre a ragione -
eccellente, costituirono spesso per lui il modo per sottrarsi a un
impegno più gravoso. A ogni modo l'edizione delle sue Opere
è fitta di scritti interrotti dopo poche pagine per le
ragioni appena accennate o anche perché, come ebbe a
lamentare più di una volta, l'aver già provato lo
scempio che le censure facevano dei suoi scritti lo demotivava
rispetto all'intenzione iniziale.
Dipese anche da ciò il progressivo svuotamento di contenuti
civili di cui soffrirono gli scritti del G., sensibilissimo
all'esigenza di educare il pubblico ma del tutto restio a sostenere
tale proposito con un'azione politica che lo portasse a scontrarsi
con il potere dispotico dei sovrani. Tanto forte era la
preoccupazione di compromettersi che i destinatari della sua
corrispondenza erano spesso sollecitati a distruggerla per evitargli
conseguenze spiacevoli: un atteggiamento rinunciatario il suo, che
forse nasceva dalla propensione a chiudersi in se stesso e nella
salvaguardia della propria dignità per via di quello che
è stato definito "il suo legame indubbio […] con la grande
cultura settecentesca di fondo aristocratico" (M. Cerruti, G. e
l'ellenismo, in P. G. nel II centenario…, p. 222). Ciò non
gli impediva di essere sincero quando invocava l'avvento di un'era
di libertà per tutti o quando, generalizzando, sfogava nelle
lettere la frustrazione accumulata contro il "mondaccio porco", la
perfidia degli ecclesiastici, i governi assoluti: in realtà
la sua visione restava settecentesca, interna al dispotismo
illuminato più che alla democrazia, e a questa visione va in
definitiva ricondotta una sua affermazione del 1834: "Io non ho
mosso mai, non moverò mai un dito contro i troni" (citato da
E. Passerin d'Entrèves, Ideologie del Risorgimento, in Storia
della letteratura italiana [Garzanti], VII, L'Ottocento, Milano
1969, p. 401).
Definita nelle linee portanti già durante la dominazione
napoleonica, la posizione del G. maturò pienamente con la
Restaurazione, quando molte novità intervennero anche nella
sua vita. Anzitutto, non essendo suddito pontificio, dovette
lasciare il posto all'Accademia bolognese: prima, però, era
stato incaricato di tenere il 30 luglio 1815 un discorso Per le tre
Legazioni riacquistate dal papa (Parma 1815; poi Opere, X, pp. 310
ss.) che destò qualche sospetto per i sentimenti attribuiti
nell'occasione ai Bolognesi, così smaccatamente entusiastici
verso il potere temporale da far quasi pensare a una
rappresentazione satirica; si disse poi, e il G. stesso
accreditò l'interpretazione, che egli, celebrando il buon
governo pontificio del passato, aveva inteso dare a quello appena
restaurato non lodi ma "consigli camuffati da lodi" (Ferretti, p.
156). In effetti quella dell'ambiguità era una tecnica che il
G. conosceva bene, visto che fin da giovane aveva parlato di "quella
foggia di retori (come sono i Panegiristi dei Santi), che
ingrandiscon tanto, anzi gonfiano le cose, che il povero uditore
resta dubbio sempre, e non può distinguere tra la
verità, o la bugia e la canzonatura" (lettera a L.U.
Giordani, Piacenza, 18 agosto, s. anno, Roma, Bibl. naz., Autografi,
105.28).
Lasciata Bologna, dopo un breve soggiorno a Piacenza il G. si
portò nel settembre 1815 a Milano. Qui in luogo della
sospirata cattedra universitaria gli proposero di partecipare, con
il romano S. Breislak e con V. Monti, alla redazione della
Biblioteca italiana che G. Acerbi aveva fondato col sostegno del
governo austriaco. Malgrado vi fosse entrato con più di
un'esitazione, per un anno, tra il 1816 e il 1817, il G.
dedicò molte delle sue energie al periodico, redigendone il
proemio e pubblicandovi una ventina di articoli, tra saggi e
recensioni. Furono suoi l'articolo non firmato Sul discorso di
madama de Staël. Lettera di un italiano ai compilatori della
Biblioteca (in Opere, IX, pp. 339-347) in risposta al celebre
scritto della Staël Sulla maniera e sull'utilità delle
traduzioni che, tradotto proprio da lui, era stato accolto nel primo
fascicolo della rivista, e l'altro (Collezione delle migliori opere
scritte in dialetto milanese, ibid., pp. 370-375) che segnalava la
pubblicazione di una raccolta di poeti dialettali milanesi:
entrambi, percorsi da una vena polemica, offrivano al G. il destro
per esprimere da un lato, nel segno di una malintesa tutela dei
caratteri culturali della nazione, la propria diffidenza verso la
produzione letteraria straniera, e per cogliere dall'altro il fondo
sostanzialmente reazionario della poesia dialettale, che nella sua
apparente vitalità e spontaneità contribuiva a
perpetuare l'ignoranza della plebe, interdicendole l'uso della
lingua e così privandola "dell'unico soccorso per divenire un
poco civile e italiana". Quest'ultima tesi provocò subito la
replica irriverente e risentita di Carlo Porta con i suoi Dodis
sonett all'abaa Giavan, poi l'altra, più articolata, di
Pietro Borsieri che nelle sue Avventure letterarie di un giorno,
oltre a obiettare che il dialetto poteva servire a "diffondere
più facilmente una certa cultura nel volgo", tacciava di
fredda vacuità gli articoli del G. e i suoi sforzi per
rimettere in auge la lingua colta: sfuggiva a entrambi,
nell'esteriorità dei rilievi che muovevano e che
all'apparenza erano fondati, il forte movente civile della battaglia
del G. che non nasceva tanto da un pregiudizio antiromantico o da
un'idea aristocratica della cultura, quanto dall'illuministica
tensione per l'elevazione morale dei suoi connazionali, la stessa
tensione che lo spingeva, sempre sulla Biblioteca italiana, a
impopolari prese di posizione a favore della prosa e contro la mania
nazionale del poetare, che per lui altro non era che un'improvvida
fuga dalla realtà.
A un anno dal suo inizio il rapporto con la Biblioteca italiana si
chiuse per insanabili contrasti con l'Acerbi, dal G. accusato di
essere una "spia sfacciata dei tedeschi" (ad A. Canova, 15 febbr.
1818, in Lettere, I, p. 114). La permanenza a Milano lo aveva
comunque fatto entrare in relazione con l'editore G. Silvestri, con
il quale il G. avviò una intensa collaborazione che gli
consentì anzitutto di raccogliere i suoi articoli migliori e
pubblicarli nella appena lanciata "Biblioteca scelta di opere
italiane antiche e moderne" (Alcune prose di P. Giordani, Milano
1817); divenuto consulente editoriale della stessa collana, il G. vi
fece inserire i testi di autori del Trecento e del Seicento (D.
Cavalca, D. Compagni, D. Bartoli, P. Segneri, S. Pallavicino) che
meglio incarnavano il suo ideale stilistico di semplicità e
lindore della lingua. Successivamente, tra il 1824 e il 1845, la
"Biblioteca scelta" avrebbe accolto altri 5 volumi di Scritti del
G., compreso uno di quelle iscrizioni che ne avevano consolidato la
fama di maestro del gusto.
Maestro era un appellativo che il G. non amava sentirsi rivolgere,
malgrado fosse appunto un magistero quello che con i propri consigli
e suggerimenti esercitava spesso verso coloro che gli si rivolgevano
affascinati dalla lettura dei suoi testi. In questo ambito
l'incontro che egli avvertì come il più significativo
e duraturo fu quello che nel febbraio 1817 gli fece conoscere la
personalità di Giacomo Leopardi che da Recanati aveva inviato
a lui, al Monti e a mons. A. Mai - altra grande amicizia del G. -
una sua versione italiana del libro II dell'Eneide. Favorendo gli
inizi della sua carriera di letterato, il G., pure ormai affermato,
non esibì verso il Leopardi alcuna forma di paternalismo e
tanto meno di boria: fu anzi spontaneo in lui il senso di
parità intellettuale, e ben presto anche di
inferiorità, verso un giovane che per profondità e
ampiezza di requisiti culturali era stato un'autentica scoperta e
che in più sentiva vicinissimo per esperienza sofferta di
vita, sensibilità, amore per i classici, limpidezza di
scrittura. Se a partire dal 1817 e fino al 1824 il G., forzando
forse il suo vero sentire, arrivò a teorizzare che i nobili
con la loro indipendenza spirituale costituivano la sola speranza di
rinnovamento rimasta all'Italia, ciò dipese appunto dalla
conoscenza del Leopardi (e da quella coeva del conte vicentino P.
Dal Toso, spentosi precocemente nel 1819) e dalla consapevolezza,
ebbe a dire, che il Monti, il Mai, G. Perticari e lui stesso non
facevano "la metà dell'ingegno e del sapere di questo
giovine" (a P. Brighenti, 6 luglio 1819, in Lettere, I, p. 159), a
cui poteva rivolgersi come al modello del "perfetto scrittore
italiano che ho in mente" (a G. Leopardi, 21 sett. 1817, ibid., p.
110). A sua volta il Leopardi, in una perfetta reciprocità di
affetto e di stima, trovò in lui, nella fase decisiva della
propria formazione, l'interlocutore più caldo e fidato,
capace di ascoltarne gli sfoghi, di orientarne la ricerca letteraria
verso temi più civilmente impegnati, mantenendola allo stesso
tempo nell'alveo formale del classicismo, di tirarlo fuori dalla
prigione recanatese per lanciarlo nel mondo delle lettere. Gli
incontri che ebbero (a Recanati nel 1818, a Bologna nel 1825 e a
Firenze nel 1827) furono densi di effusività sentimentale e
intellettuale; ma anche quando, verso il 1824, lo scambio epistolare
tra i due si diradò, restò forte nel G., malgrado
qualche delusione e un sospetto d'egoismo, la premura per lo
sfortunato poeta, del quale - disse apprendendone la morte - "non
è da dolere che abbia finito di penare; ma sì che per
40 anni abbia dovuto desiderar di morire" (a P. Toschi, 12 luglio
1837). Un po' ingenerosamente F. De Sanctis giudicò questa
amicizia "la più cara cosa che [del G.] ricorderanno i
posteri" (Saggi critici, a cura di L. Russo, Bari 1965, I, p. 6).
Nel marzo del 1817 il G. perse il padre: la sostanza che
ereditò lo fece sentire finalmente autonomo e lo
sollevò dall'urgenza di continuare a scrivere in un paese che
non tollerava alcuna libertà. Era infatti tornato a Piacenza,
dove avvertiva ancor più che a Milano il peso di una censura
contro la quale nulla poteva la sua fama di scrittore. Risoluto a
lottare ancora, concentrò i suoi sforzi contro gli illiberali
e spesso violenti metodi didattici in uso nelle scuole inferiori,
soprattutto a opera dei gesuiti. A partire dal 1819, con
l'intervento sulla Causa dei ragazzi (Opere, X, pp. 285-310),
maturò dunque nel G. il rifiuto di ogni pratica pedagogica
autoritaria che diventò una costante del suo impegno, forse
la sola che potesse avvicinare alla politica un uomo che, come lui,
appare, malgrado l'attenzione alle vicende del paese e il forte
senso della libertà individuale e della dignità
dell'uomo, molto lontano da ogni coinvolgimento diretto nelle
iniziative della democrazia ottocentesca. Significativamente,
l'istruzione era la chiave di ogni sviluppo civile, il solo terreno
sul quale combattere l'intreccio tra religione e potere che era
all'origine di un male destinato a durare fin quando l'educazione
fosse stata "lasciata in mano alla peggior feccia dell'umana razza"
(a C. Morbio, 26 ag. 1845, in Bibl. apost. Vaticana, Autografi
Patetta): un obiettivo, questo, che assorbì molte delle
energie del G. e gli consentì di compensare con
un'accresciuta coscienza della propria capacità di mobilitare
l'opinione pubblica la fragilità nervosa che lo afflisse
soprattutto agli inizi degli anni Venti. Luogo d'elezione per
sottrarre la popolazione piacentina all'influenza perniciosa del
clero divenne dal 1820 la Società di lettura, alle cui
fortune il G., che ne era membro, consacrò molta parte del
suo lavoro, fino a suscitare l'interesse non certo benevolo delle
autorità.
Intanto la sua fama di scrittore si consolidava con l'incessante
diffusione non solo locale dei suoi scritti, che il Brighenti,
firmandosi Mario Valgano, volle ancora raccogliere in 16 volumetti
di Opere di P. Giordani, editi con l'indicazione Italia 1821-27 (e
subito messi all'Indice); seguirono numerose altre edizioni: a
Napoli nel 1826; a Rovigo in 6 tomi nel 1827-29; a Venezia nel 1832;
a Chieti nel 1838; a Palermo in 3 tomi nel 1840-41; a Firenze per il
Le Monnier in 2 volumi nel 1846; a Parma nel 1848. Vi si riproponeva
la produzione del primo quindicennio d'attività, assurta
ormai al rango di classico della prosa d'arte; e quando il G. volle
uscire dalla stasi creativa indirizzando un discorso di saluto al
nuovo vescovo di Piacenza "non mandato qui da potenza straniera"
(Congratulazioni a mons. L. Loschi nell'assunzione sua al
pontificato di Piacenza l'anno MDCCCXXIV, Piacenza 1824, poi in
Opere, X, pp. 50-52), l'Austria che da tempo sorvegliava la sua
posta non tardò a pretendere che si colpisse colui che diceva
"attratto dalla vertigine delle teorie dell'indipendenza e del
giacobinismo" (D'Ancona, p. 94). Immediatamente il governo ducale
prescrisse al G. un cambiamento d'aria. Lo scrittore obbedì,
ma presto circolò in numerose copie manoscritte una lettera
al presidente della Società di lettura in cui il 10 ag. 1824
il G. proclamava dall'esilio la sua rinunzia formale "a Piacenza;
dove per disavventura nacqui, e per mia stoltezza ritornai"
(Lettere, I, pp. 218 s.).
Nel clima vivace e relativamente più libero di Firenze, dove
aveva scelto di stabilirsi, il G. visse il periodo più felice
della sua vita. Ammirato da tutti, accolto nelle istituzioni
culturali toscane (la Colombaria, i Georgofili, l'Accademia
pistoiese e, alla fine del 1825, la Crusca), circondato dalla stima
di tanti uomini di cultura (G.B. Niccolini, F. Forti, G. Capponi, G.
e A. Poerio, G. Montani), in contatto assiduo con i puristi di
Napoli e di Roma (S. Betti, F. Ranalli, O. Gigli), il G. strinse
amicizia con il napoletano P. Colletta che incoraggiò a
ultimare la Storia del Reame di Napoli aiutandolo anche nella
scrupolosa revisione finale; si distrasse piacevolmente con le
serate nei salotti fiorentini; incontrò spesso i Napoleonidi
concependo una vera passione per Juliette de Villeneuve, la "divina"
Giulietta, nipote della ex regina di Spagna; conobbe il Manzoni nel
viaggio che questo fece a Firenze nel 1827 e, pur non condividendone
la religiosità, esaltò i Promessi sposi non tanto come
opera letteraria quanto "come libro del popolo, come catechismo
messo in dramma" (Opere, VI, p. 15: il Manzoni per parte sua lo
esorterà nel 1832 a dare altri saggi della sua prosa e, con
l'aria di elogiarlo, esprimerà il dubbio che la sua
naturalezza "possa mai diventar comune", con ciò
sottolineando il carattere elitario del suo stile). Sollecitazioni a
scrivere gli vennero anche da G.P. Vieusseux che nel 1824 gli chiese
di curare una nuova collana, la "Scelta de' prosatori", prevista in
una trentina di volumi di autori italiani selezionati secondo il
gusto del G. e tutti introdotti da un suo "discorso" critico: pur
intrattenendo con l'editore un rapporto di grande intimità e
per quanto allettato dalla prospettiva di un forte compenso, il G.
lasciò cadere l'iniziativa dopo averla annunziata con un
manifesto-programma sull'Antologia del 1° genn. 1825.
Sicché la sua collaborazione al periodico non andò
oltre una dozzina di articoli, prevalentemente sulle arti figurative
(nel 1826 uno scritto di presentazione delle Operette morali del
Leopardi gli fu respinto dal Vieusseux per evitare noie con la
censura; lo stesso anno un articolo su La prima Psiche di Pietro
Tenerani, poi in Opere, XI, pp. 183-193, fu accolto solo in minima
parte). Forse per una sua arretratezza culturale non entrò in
sintonia con la funzione dell'intellettuale quale la concepivano i
suoi amici fiorentini, o forse la rifiutò, trovandola troppo
moderata e mercantilista: in realtà, se visti con gli occhi
della democrazia radicale, sia il G., sia il gruppo dell'Antologia
non uscirono mai dall'ambito del riformismo, umanitario e solo
tendenzialmente democratico quello del G., economico l'altro del
Vieusseux; e il Mazzini, la cui rivista era stata giudicata dal G.
una "porcheria" (a G.P. Vieusseux, 25 sett. 1832, in Carteggio
Giordani-Vieusseux, p. 148), non ebbe torto ad affermare nel 1837
che "gli scritti di Giordani, puri, limpidi, musicali nei modi, ma
senz'anima e vigore di vita, sfibrano la mente e addormentano il
cuore" (Moto letterario in Italia, in G. Mazzini, Ediz. naz. degli
scritti, VIII, p. 371): limite che fu additato anche dal De Sanctis
e di cui il G., avendone coscienza, si giustificava dandone la colpa
alla censura e alla sua salute, tanto da considerare alla fine un
puro diversivo le dispute letterarie e da esclamare rivolto al
Betti: "Oh se si potesse stampare, quante cose vorrei dire che mi
gravan lo stomaco, benché io sia un povero invalido!" (Roma,
Bibl. nazionale, Autografi, A. 63.28, s.d.).
Ma anche nella tollerante Toscana arrivò d'improvviso per lui
il 14 nov. 1830 l'ordine di espulsione, a quanto pare motivato da un
eccesso di zelo verso Vienna. Per quanto facesse, il G. non
riuscì mai a sapere il perché del provvedimento che
contro la sua volontà lo aveva ricondotto nel Ducato. Da
allora però avvertì sempre più forte l'inizio
del declino, attestato anche da un'ulteriore riduzione della
capacità di lavoro. Presa dimora a Parma, finalmente nel 1833
scrisse, dedicandolo a Juliette de Villeneuve, un discorso Del
quadro di Raffaello detto Lo Spasimo e dell'intaglio in rame fattone
dal cav. Toschi (poi in Opere, XI, pp. 248-267), la cui
pubblicazione fu permessa a Milano e vietata a Parma: divenne subito
celebre e girò per tutta l'Italia la lettera che il G.
scrisse il 4 giugno 1833 a un ministro parmense, V. Mistrali, per
protestare contro l'ennesima prepotenza ostentando grande fierezza e
arrivando perfino alla minaccia: "I ministri sono sministrati; i
duchi possono essere sducati. Io per me rido, sapendo che, se anche
fossi impiccato, non sarò mai sgiordanato. Voi dovete sapere
[…] che io sono di quelli che neppur la morte fa tacere; io son di
quelli che gridano e puniscono anche dopo la morte" (Lettere, II, p.
64).
C'era già qui il tono sovreccitato e spavaldo che il 28
febbr. 1834 lo avrebbe condotto in carcere per 88 giorni per
complicità morale nell'assassinio di un funzionario di
polizia a Parma, la cui morte il G. aveva narrato con qualche
compiacimento in una lettera privata ad A. Gussalli, futuro editore
delle sue Opere. Liberato, riprese gli studi pubblicando altri
scritti di estetica, viaggiò (a Torino, dove entrò in
contatto con l'ambiente giornalistico vicino ad A. Brofferio, a
Genova, in Svizzera), pianse la scomparsa del Leopardi, del quale
nel 1845 avrebbe introdotto il III volume delle opere edito da Le
Monnier, seguì speranzoso ma senza esaltarsi troppo l'ascesa
del Piemonte carlalbertino. Portato spesso a isolarsi, nel 1839
compose un testo violentemente antigesuita e anticlericale che,
rimasto incompiuto, avrebbe visto la luce a Londra solo nel 1862
(Frammento inedito. Il peccato impossibile; n. ed. a cura di W.
Spaggiari, Parma 1985) confermando la sua condanna di un ceto,
quello dei preti, abituato a vivere di imposture e quindi
classificato come degenerazione della razza umana. La questione
della Chiesa era comunque in primo piano, ma quando apparve il
Primato giobertiano il G. non esitò a definirlo un
"miserabile imbroglio" (a G. Ricciardi, 4 sett. 1843, in Arch. di
Stato di Roma, Acquisti e doni, busta 20/79); ben diversa fu la sua
reazione all'avvento di Pio IX, "questo vero miracolo di papa"
(così il G. a S. Betti, 6 ott. 1846, in Opere, VII, p. 181,
ma anche in una lettera in copia a G. Riccardi, 1° ag. 1847, in
Bibl. apost. Vaticana, Codici Ferrajoli, 953.127), da lui celebrato
anche pubblicamente con una Lettera inedita del celebre P. Giordani
relativa a Pio IX p.o.m., apparsa con due imprimatur a Modena nel
1846. Il mito del papa liberatore durò poco; si era intanto
ancor più offuscato quello di Carlo Alberto per via dei
propositi annessionistici che, messi in campo dal Piemonte, avevano
subito fatto breccia a Piacenza.
Il G. guardò a questi eventi con crescente preoccupazione e
con la sensazione della sua prossima fine. Non lo consolò
molto la nomina a presidente onorario dell'Università di
Parma, decretatagli dal locale governo provvisorio.
Morì a Parma la notte dall'1 al 2 sett. 1848: contrariamente
alle sue richieste, ricevette funerali solenni e fu sepolto nella
parte del cimitero cittadino riservata agli uomini illustri.