www.treccani.it
    
    di Francesca Sofia
    
    Nacque a Piacenza il 19 genn. 1767 da
    Gaspare e Marianna Coppellotti. Rimasto orfano a cinque anni del
    padre e a tredici della madre, andò a vivere con lo zio
    materno Giovanni, giurista e avvocato piacentino, che lo
    avviò alla carriera ecclesiastica. A tal fine entrò
    nel novembre 1784 nel collegio Alberoni, da cui uscì solo
    nell'agosto 1793, dopo aver ricevuto tutti gli ordini religiosi,
    compreso il sacerdozio. I nove anni trascorsi nel collegio, noto
    centro di irradiazione dell'illuminismo cattolico, permisero al G.
    di familiarizzarsi con le correnti filosofiche sperimentali, ma
    dovettero pure infondergli un acuto senso di insofferenza verso le
    costrizioni che frenavano la sua inesauribile sete di conoscenza.
    Sono ascrivibili all'ultimo scorcio della sua permanenza al collegio
    le prime, consapevoli testimonianze della sua adesione entusiastica
    agli ideali politici giacobini e antirealisti provenienti
    d'Oltralpe, tra le quali la composizione di due tragedie, il
    Caligola e il Tiberio, esemplate sul modello antitirannico
    alfieriano e per il momento rimaste manoscritte.
    
    Uscito dal collegio con l'abito talare, il G. andò a vivere
    con il fratello Lodovico e, privo di un incarico ecclesiastico,
    dovette adattarsi a fare il precettore in casa dei marchesi
    piacentini Paveri Fontana. La nuova occupazione e la
    possibilità di tenersi al corrente delle novità ne
    rafforzarono le convinzioni politiche, portandolo, subito dopo
    l'entrata dei Francesi a Milano, a schierarsi con i sostenitori in
    Italia della causa democratica. Nel luglio 1796 il G. iniziava a
    collaborare con il milanese Giornale degli amici della
    libertà e dell'uguaglianza, pubblicandovi tra l'altro un
    notevole articolo in cui esortava il Direttorio francese ad
    adempiere alla promessa di liberazione dell'Italia; meno di un anno
    dopo - il 26 giugno 1797 - risultava essere l'autore della memoria,
    sottoscritta con il motto Omnia ad unum, che la Società di
    pubblica istruzione dichiarò vincitrice del concorso bandito
    il 27 sett. 1796 dall'amministrazione generale della Lombardia sul
    tema Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità
    d'Italia?
    
    La dissertazione, pubblicata in forma privata dallo stesso G. a
    Milano nel gennaio 1798, dopo che erano rimasti infruttuosi i
    tentativi del governo di dar corpo a un'edizione ufficiale emendata
    e corretta, valse a consacrare la fama del G. agli occhi dei
    contemporanei e dei posteri, essendo a lungo considerata una delle
    più precoci testimonianze d'ispirazione democratica del
    Risorgimento italiano. Divisa in tre parti, dedicate rispettivamente
    a dimostrare che cosa bisognasse intendere per governo libero, quale
    forma di Stato convenisse all'Italia e in che modo portarla ad
    attuazione, la Dissertazione s'impose all'attenzione soprattutto per
    la seconda parte, laddove il G. perorava l'unificazione politica
    dell'Italia quale unica soluzione praticabile per estinguere i
    privilegi e dar vita a uno Stato democratico.
    
    Quando lo proclamarono vincitore il G. era però detenuto dal
    14 marzo 1797 nelle carceri di Piacenza, imputato di aver celebrato
    messe a scopo di lucro, ma in realtà perseguito per le sue
    dichiarate simpatie patriottiche. Restò in carcere otto mesi,
    finché le autorità cisalpine, e forse Napoleone
    Bonaparte in persona, intervennero a liberarlo. Riparato
    immediatamente a Milano, il G. si liberò dell'abito talare e
    accettò in un primo tempo la nomina e il connesso stipendio
    di redattore del Gran Consiglio della Repubblica. Ma dieci giorni
    dopo, il 7 dic. 1797, si dimetteva, consapevole che nella magmatica
    e turbolenta realtà cisalpina una tale carica pubblica gli
    avrebbe consentito di agire unicamente da spettatore e non da
    interprete.
    
    Da quel momento il G. andò progressivamente scoprendo la sua
    vocazione più specifica e più originale, quella di
    diffusore e promotore di opinione, annodando con il pubblico un
    ideale rapporto di tipo contrattuale destinato a rinsaldarsi con gli
    anni. Il 20 genn. 1798 fondava con U. Foscolo e G. Breganze il
    Monitore italiano, impegnandosi con i suoi numerosi articoli a
    stigmatizzare la miope politica dei legislatori della Cisalpina e
    soprattutto il progressivo asservimento della Repubblica al volere
    del Direttorio francese. Già in questi primi interventi il G.
    iniziava a far sfoggio dell'ironia, ora giocosa ora salace, che
    doveva contrassegnare la sua lunga carriera di pubblicista,
    convinto, come scriveva egli stesso nel n. 6 del Monitore, che il
    giornalista democratico "non meriterà di esser confuso colla
    vil turba de' schiavi, se fiancheggiando la troppo debole ragione,
    screditerà le abitudini monarchiche colla finezza del
    dileggio, col sarcasmo la malignità orgogliosa, colle satire
    amare la tirannia, che si veste delle forme repubblicane" (Dubbj
    sull'articolo Politica, inserito nel n. 4 del Monitore italiano, in
    Opere minori, I, Lugano 1834, p. 209). Mentre contribuiva a fare del
    periodico una delle voci più alte dell'opposizione
    costituzionale alla Francia, il G. iniziava anche a ricredersi sulle
    potenzialità palingenetiche delle istituzioni democratiche
    che aveva esaltato nella Dissertazione, a indagare sugli "inveterati
    pregiudizi popolari", a misurare lo scarto tra il sentire del volgo
    e le idee dei filosofi e a suggerire la sperimentazione di nuove
    politiche di costruzione del consenso, capaci di incidere
    sull'immaginazione e sui sensi, piuttosto che sulla ragione.
    
    In ideale proseguimento di un articolo pubblicato sul Monitore
    dell'11 marzo 1798 e rimasto interrotto per l'intervento del
    generale in capo dell'Armata d'Italia A. Berthier, il G. dava alle
    stampe dieci giorni dopo, a Lecco, l'opuscolo Riflessioni sul
    trattato d'alleanza tra le Repubbliche Cisalpina e Francese, con il
    quale, definendo le richieste avanzate dalla Francia "il tratto del
    lupo coll'agnello" (ibid., p. 118), si faceva il portavoce
    più rigoroso della protesta di libertà contro
    l'asservimento che minacciava il paese. D'altro canto, si
    distanziava anche dalle posizioni dei patrioti più
    estremisti, consapevole che il diritto alla critica sarebbe
    risultato vano senza il sussidio di efficaci garanzie giuridiche e
    che solo la libertà di espressione, e non una politica
    repressiva, avrebbe condotto con il tempo all'affermazione di una
    coscienza repubblicana; quando il Monitore veniva soppresso proprio
    per la sua tenace rivendicazione d'indipendenza (13 apr. 1798), il
    G. dette alle stampe una serrata requisitoria contro la legge votata
    dieci giorni prima dal Gran Consiglio con la quale la patria veniva
    dichiarata in pericolo e si perseguivano penalmente i trasgressori
    (Analisi della legge contro gli allarmisti emanata dal Corpo
    legislativo cisalpino nel 10 ventoso anno 6° repubblicano,
    Milano 1798); allo stesso tempo, in nome del diritto incoercibile
    alla felicità individuale e alla libertà
    d'associazione si ergeva a protettore delle comunità
    monastiche minacciate di scioglimento da un progetto legislativo (I
    frati e le monache. Lettera al Consiglio dei seniori, Milano, 5
    maggio 1798).
    
    Ma è negli avvenimenti convulsi che sconvolsero la Cisalpina
    nel secondo semestre del 1798, con i ripetuti rimaneggiamenti
    governativi e costituzionali attuati dagli inviati francesi, che il
    G. legò compiutamente il tema dell'indipendenza nazionale con
    quello di una necessaria riforma morale. Con una serie di opuscoli
    pubblicati a poca distanza di tempo tra il maggio e il luglio -
    Quadro politico di Milano; Apologia al Quadro politico di Milano;
    Cos'è il patriotismo? Appendice di M. Gioia al quadro
    politico di Milano - il G. offriva un ritratto impietoso della
    classe politica cisalpina, connotata da improvvisazione,
    pressappochismo e corruzione, quasi a voler innescare un'ultima
    riscossa morale a fronte delle violazioni della legalità che
    si profilavano all'orizzonte e ad affermare l'insopprimibile diritto
    alla libertà di stampa: e va ricordato che la sua iniziativa
    ebbe effetto, perché la pubblicazione del Quadro politico
    aprì un animato dibattito nella Cisalpina, che portò a
    schierarsi al fianco del G. anche il ministro della Giustizia, al
    quale il Direttorio si era rivolto per punire l'autore. Nello stesso
    torno di tempo il G. presentava, largamente fuori dei termini
    fissati dal bando, una memoria al concorso bandito dal ministero
    degli Interni sull'organizzazione dei teatri nazionali, in cui,
    approfondendo alcuni spunti già ventilati nella Dissertazione
    e nell'attività giornalistica di quei mesi, indicava nel
    teatro lo strumento più appropriato per l'acculturazione
    democratica delle classi popolari, purché fosse un teatro che
    al modello "sublime" sostituisse argomenti cari alla
    sensibilità del popolo.
    
    Il 22 agosto, vale a dire a ridosso dell'ormai ineludibile riforma
    di segno conservatore progettata dall'ambasciatore francese a
    Milano, Ch.-J. Trouvé, il G. iniziava la pubblicazione di un
    nuovo giornale, Il Censore, dove, pur continuando a indicare le
    malefatte dei governanti cisalpini, si soffermava sul pregiudizio
    dei Francesi verso i patrioti italiani e soprattutto sulla
    rivendicazione morale del valore dell'indipendenza. Una volta
    emanata la nuova costituzione (1° sett. 1798), il Censore, dopo
    solo quattro numeri, fu ovviamente uno dei primi giornali a fare le
    spese della censura preventiva introdotta nel testo. Colpito da
    proscrizione in base all'abolizione della precedente norma
    costituzionale che concedeva la cittadinanza ai "benemeriti della
    Repubblica", il G. riuscì a salvarsi con i successivi
    rimpasti governativi operati dal generale G. Brune e
    dall'ambasciatore F. Rivaud, ottenendo l'agognata concessione del
    titolo di cittadino.
    
    Nel corso dei primi giorni del 1799 è avvertibile nel G. un
    progressivo allineamento alle posizioni governative, giustificabile
    in parte con l'agitata situazione politica internazionale:
    nell'opuscolo I partiti chiamati all'ordine, pubblicato il 3
    gennaio, si ergeva a paladino del nuovo testo costituzionale,
    riuscendo a farne diffondere dal governo 6000 esemplari; il 24
    gennaio, "annojato piuttosto che stanco delle proscrizioni",
    iniziava la pubblicazione di un nuovo giornale sottoscritto per
    mille copie dallo stesso governo, la Gazzetta nazionale della
    Cisalpina (n. 1, 5 piovoso anno VII [24 genn. 1799]; ora in Opere
    minori, XIII, p. 174). Tuttavia, il sussidio governativo non era
    sufficiente a tarpare l'indomabile indipendenza di giudizio dello
    scrittore: il 18 febbraio, con il pretesto di un giudizio caustico
    sulla politica estera francese inserito nel n. 4 del giornale, ma in
    realtà su richiesta del ministro della Guerra M. de Vignolle,
    stanco delle frequenti censure espresse dal G. sul suo operato, la
    Gazzetta veniva soppressa. Lo stesso giorno il G. lanciava un altro
    foglio, il Giornale filosofico politico, rivendicando l'impegno
    preso con i sottoscrittori privati. Ciò non gli impediva
    comunque di ergersi ad avvocato dei commissari del Tesoro, a suo
    dire indebitamente accusati di peculato dal Corpo legislativo e
    illegittimamente destituiti (Risposta degli ex-commissari del Tesoro
    nazionale all'opuscolo intitolato "Il rappresentante Pozzi al
    Governo e alla Nazione", Milano, 25 marzo 1799). Anche la nuova
    iniziativa giornalistica, in cui il G. si dedicò in
    particolare a riferire i lavori delle assemblee legislative, ebbe
    vita breve: il 17 aprile il Direttorio esecutivo ordinava l'arresto
    del G., dando soddisfazione alle proteste dell'ambasciatore di Parma
    presso la Cisalpina, indignato per una richiesta di indennizzo della
    carcerazione presentata dal G. al duca Ferdinando. Il ritorno degli
    Austro-Russi, di poco successivo, comportò perciò per
    il G. unicamente il trasferimento in quel carcere del S. Uffizio di
    Piacenza dal quale era stato catapultato nel 1797 a Milano.
    
    Questa volta il G. rimase in carcere quattordici mesi. Tornato di
    nuovo a Milano dopo la vittoria di Marengo, malandato in salute e a
    corto di denaro, inizialmente cercò invano di promuovere
    presso il governo cisalpino un provvedimento di risarcimento dei
    danni subiti dai repubblicani durante l'occupazione austro-russa
    (Problema politico e civile, se sia dovuto ai democratici
    perseguitati sotto l'interregno tedesco un'indennizzazione, Milano
    anno IX [1800]). In quegli stessi mesi le angherie patite durante la
    Restaurazione dovevano dettargli una condanna senza appello della
    società d'antico regime, identificata tout court nella
    barbarie, come testimoniano sia l'opuscolo dedicato al Bonaparte,
    Idee sulle opinioni religiose e sul clero cattolico (Milano, 9 sett.
    1800), sia il dramma La Giulia, ossia L'interregno della Cisalpina
    (ibid., 1801). Per converso gli ideali politici repubblicani del
    triennio venivano precisandosi ai suoi occhi in un insieme di valori
    collettivi orientati alla civilizzazione e all'individualismo, dal
    G. ricondotti alla matrice evangelica (La causa di Dio e degli
    uomini difesa dagli insulti degli empi e dalle pretensioni dei
    fanatici, ibid. 1800). Privo comunque di risorse, si risolse a
    chiedere una forma di sussidio al governo e per interessamento del
    ministro F. Pancaldi venne nominato il 5 apr. 1801 "istoriografo
    della Repubblica". All'uopo, e per tutta la durata della seconda
    Cisalpina, lavorò indefessamente a raccogliere materiali per
    una storia del triennio rivoluzionario, le cui linee interpretative
    vennero pubblicate a Milano solo nel 1805 con il titolo I Francesi,
    i Tedeschi, i Russi in Lombardia. Saggio popolare. Nel frattempo,
    prendendo spunto dal rincaro del pane registratosi in quegli anni,
    sfociato in alcuni tumulti in Emilia e in Valtellina, dava alle
    stampe, sempre a Milano, tra l'ottobre del 1801 e il febbraio
    successivo il saggio Sul commercio de' commestibili e caro prezzo
    del vitto. Opera storico-teorico-popolare.
    
    Ispirandosi alle opere antivincolistiche di P. Verri, il G. vi
    delineava il primo abbozzo della sua teoria economica, già
    chiaramente influenzata dagli scritti di C.-A. Helvétius e J.
    Bentham: l'affermazione della libertà del commercio interno
    era sorretta da una visione tutta utilitaristica dell'agire sociale,
    in cui l'incontro tra compratori e venditori era assicurato dal
    tornaconto individuale; quello stesso tornaconto individuale,
    riconosciuto al cuore del progresso collettivo, provava
    l'inefficacia della tradizionale legislazione proibitiva, alla quale
    il G. fin d'allora suggeriva di sostituire più adeguate
    misure promozionali: il tutto argomentato attraverso la concreta,
    minuziosa e ironica volgarizzazione dei materiali storici,
    anticipando caratteristiche proprie dei posteriori lavori statistici
    e di quelli più propriamente filosofici.
    
    A soli due mesi di distanza, il G. pubblicava anche Il nuovo galateo
    (ibid. 1802), opera senza la quale, a parere di G. Sacchi, "il nome
    dell'autore sarebbe rimasto fra le labbra di pochi savj".
    
    Ristampato e rimaneggiato più volte dall'autore (nel 1820,
    nel 1822, nel 1827); edito in versioni più o meno corrette o
    compendiate fin dentro al Novecento; bersaglio degli strali polemici
    del giovane A. Rosmini Serbati, che a ragione v'individuava il
    manifesto dell'etica laica nella Milano della Restaurazione, il
    Nuovo galateo rappresentava il naturale pendant prescrittivo di
    quella società tutta protesa alla ricerca del proprio
    egoistico vantaggio delineata qualche mese prima. Per quanto sia
    necessario ricordare che il grande successo dello scritto
    iniziò a far data dalla seconda e accresciuta edizione,
    l'ispirazione dell'opera s'inseriva a pieno titolo nel tentativo,
    proprio al G. di quegli anni, di dar vita a una nuova civiltà
    repubblicana, una forma di convivenza civile, tale da scostarsi
    "tanto dalla servilità monarchica quanto dalla democratica
    rozzezza". Al cuore delle buone maniere consone al consolidarsi
    della società postrivoluzionaria si stagliavano una serie di
    valori, definiti a partire dal 1820 "ragione sociale", equamente
    distanti dagli odiosi privilegi del passato e dagli egoistici comodi
    dell'oggi, e retti dall'autoregolazione razionale dei diritti e
    della stima fra individui uguali.
    
    E tuttavia quanto fosse profondo lo scarto tra questi valori, tutti
    intonati al merito individuale, e l'angolazione moderata assunta
    dalla neocostituita Repubblica Italiana proclamata a gennaio a
    Lione, il G. dovette sperimentarlo l'anno seguente quando
    tentò di inserirsi nei dibattiti preparatori del codice
    civile in gestazione in Francia, intervenendo a favore del divorzio.
    La sua Teoria civile e penale del divorzio (ibid. 1803), esemplata
    sulle concezioni utilitaristiche del diritto di Bentham e oggetto di
    accuse pubbliche da parte delle gerarchie ecclesiastiche, valse al
    G. il 9 ag. 1803 la destituzione dall'incarico di storiografo,
    destituzione che i vertici governativi non esitarono a
    mercanteggiare nel concordato in corso con la S. Sede.
    
    Rimasto senza stipendio, il G. mise le proprie competenze a
    disposizione dei poteri locali. Sull'onda della diffusione e
    rilevanza assunta nella Francia consolare dalle statistiche
    descrittive dipartimentali e probabilmente dietro sollecitazione
    delle stesse amministrazioni interessate, tra il novembre 1803 e il
    giugno 1804 pubblicava le due Discussioni economiche sui
    dipartimenti dell'Olona e del Lario, offrendo al pubblico una prima,
    ragionata metodologia di analisi della società civile a uso
    della pubblica amministrazione. In quello stesso torno di tempo, il
    G. acquistava una compartecipazione nella tipografia milanese
    Pirotta e Maspero, con cui aveva edito la maggior parte di quanto
    scritto sino allora, ponendo le basi materiali di quell'immagine di
    libero intellettuale imprenditore di se stesso che doveva renderlo
    celebre durante la Restaurazione. Non per questo rinunciava a
    sollecitare dal governo finanziamenti e un qualche impiego. Dopo
    aver invano tentato di essere reintegrato nella carica di
    storiografo al momento del passaggio dalla Repubblica al Regno
    d'Italia, nel maggio 1805, riuscì a strappare al governo la
    nomina, non certo prestigiosa, a impiegato di polizia presso la
    prefettura di Milano. Per quanto facesse immediatamente presente al
    viceré Eugenio Beauharnais come quell'impiego fosse inadatto
    alla sua preparazione, fu solo dopo aver dato prova di
    incondizionata fedeltà politica, testimoniata dalla
    pubblicazione di una serie di libelli di propaganda filogovernativa
    (oltre al già ricordato I Francesi, i Tedeschi, i Russi in
    Lombardia,Cenni morali e politici sull'Inghilterra estratti dagli
    scrittori inglesi, ibid. 1806, e Manifesto di s.m. prussiana contro
    la Francia del 9 ott. 1806, corredato di note, ibid. 15 nov. 1806),
    che il G. ottenne quanto da lui agognato: il 24 febbr. 1807 era
    infatti nominato direttore dell'istituendo ufficio di Statistica
    presso il ministero dell'Interno.
    
    Qui in un primo tempo lavorò a raccogliere materiali per una
    statistica della Dalmazia, commissionatagli dallo stesso
    viceré, e a mettere ordine nelle risposte al questionario
    progettato nel luglio dal ministro dell'Interno L. Arborio Gattinara
    di Breme che i Comuni facevano mano a mano pervenire al centro: ma
    insoddisfatto dei risultati di questa prima inchiesta, nel marzo
    1808 dava alle stampe, affinché servissero da scheletro per
    le successive statistiche ufficiali, le Tavole statistiche, ossia
    Norme per descrivere, calcolare, classificare tutti gli oggetti di
    amministrazione privata e pubblica, autentico manifesto
    dell'ideologia utilitaristica da lui definitivamente acquisita. La
    puntuale successione delle sette materie d'indagine - topografia,
    popolazione, agricoltura, arti e mestieri, commercio,
    amministrazione pubblica, carattere del popolo - rifletteva una
    visione della società civile ormai univocamente risolta nella
    dimensione economica e, per converso, un'immagine del pubblico
    potere circoscritto a perseguire apertamente il benessere
    collettivo: le Tavole apparivano in tal modo come le formule
    algebriche per una ottimale soluzione del contemperamento della
    felicità di tutti e di ciascuno. Seguiva nel settembre, come
    coerente corollario epistemologico, la Logica statistica, anch'essa
    destinata a essere notevolmente accresciuta e ristampata più
    volte durante la Restaurazione con il titolo Elementi di filosofia:
    qui i principî cognitivi sensisti, propri alla maggior parte
    del pensiero del Settecento, venivano divulgati, alla luce dello
    scacco subito dall'esperienza giacobina e degli apporti
    dell'idéologie francese, attraverso un'inedita applicazione
    dell'aritmetica dei piaceri e dei dolori, al fine di innescare la
    razionalità tramite la persuasione.
    
    Ma anche questa volta la visione del G. risultò non collimare
    del tutto con quella ufficiale. Sottoposte all'esame di un'apposita
    commissione, le Tavole vennero criticate per quanto di eversivo
    contenevano rispetto a un rapporto Stato-società intonato a
    una logica notabilare del potere. Il parere della commissione
    ricevette subito soddisfazione da parte del ministero, il cui
    segretario generale, G. Tamassia, nell'intento di distanziare le
    posizioni ufficiali in materia da quelle del G., si affrettò
    a pubblicare con i torchi ufficiali un opuscolo sul Fine delle
    statistiche. Poco tempo dopo, il 31 dic. 1808, il G. veniva
    licenziato con il pretesto di uno scontro apertosi con un suo
    diretto sottoposto. Come era suo costume, il G. ritenne di chiamare
    il pubblico a giudice della vertenza, dando alle stampe le risposte
    a tutte le critiche ricevute (Indole, estensione, vantaggi delle
    statistica. Confutazione dell'opuscolo che ha per titolo: "Del fine
    delle statistiche". Risposta alle obbiezioni fatte alle "Tavole
    statistiche", Milano, marzo 1809). Non pago, e forse indispettito
    per un'ulteriore risposta pubblica del Tamassia, nel maggio
    pubblicava il romanzo satirico La scienza del povero diavolo, in cui
    sotto mentite spoglie orientali raffigurava l'incompetenza e i
    favoritismi degli apparati pubblici del Regno. All'immediato
    sequestro del libro seguì in luglio il decreto d'esilio, a
    cui invano il G. contrappose i titoli della propria cittadinanza
    (Documenti comprovanti la cittadinanza italiana di M. G., ibid.
    1809). Riparato a Castel San Giovanni, vi rimase fino al novembre
    1810, quando il nuovo ministro dell'Interno, L. Vaccari, lo
    autorizzò a ritornare a Milano: il mese seguente ottenne
    l'approvazione vicereale a continuare la redazione della statistica
    del Regno in qualità di "privato scrittore". All'opera si
    mise però solo nell'aprile 1812, dopo un'estenuante
    trattativa con il ministero dell'Interno, definita dallo stesso G.
    "un saggio d'ignoranza, piccolezza, tirannia burocratica" (Alla
    Reggenza provvisoria del Regno d'Italia. Ricorso, ibid. 1814, p. 4).
    In base al nuovo contratto stipulato con l'amministrazione, il G.
    completò entro il maggio 1814 sei descrizioni statistiche
    dipartimentali, e si accingeva a redigerne altre quando la Reggenza
    provvisoria austriaca, succeduta ai Francesi a Milano, lo
    diffidò dal continuare il lavoro, dichiarandosi proprietaria
    di quanto aveva sino allora consegnato. Oltre a irridere
    pubblicamente l'avversario, il G intentò causa al Fisco
    rivendicando i propri diritti di proprietà. La vertenza, che
    alla fine ebbe esito favorevole per il G., si prolungò
    però fino al 1832 e non consentì quindi al G. di
    decidere la sorte dei manoscritti. Venduti dal fratello ed erede
    Baldassarre all'editore milanese G. Crespi, solo due riuscirono a
    vedere la luce, opportunamente rivisti dalla censura austriaca: la
    statistica del Mincio nel 1838 e una parte di quella dell'Agogna nel
    1840.
    
    Il primo impatto con l'amministrazione austriaca non dissuase
    però il G. dal sollecitare commesse e sovvenzioni, anche per
    tentare di coinvolgerla nello sfruttamento della miniera di carbon
    fossile comprata nel 1814 a Leffe, in Val Gandino, acquisto
    dimostratosi poi fallimentare (Dimostrazione de' vantaggi
    provenienti dalla sostituzione della lignite di Valgandino alla
    legna ed al carbone comune nelle manifatture e negli usi bisognosi
    di continuato calore, ibid., luglio 1815). Ma presto il G. dovette
    anche prendere atto della diffidenza dei nuovi governanti nei
    confronti degli intellettuali. Privo di quel canale privilegiato di
    diffusione delle cognizioni, il G. si trasformò allora in un
    abile e oculato amministratore della propria produzione scientifica,
    districandosi magistralmente tra censori, librai, contraffattori.
    Sono, questi, anche gli anni in cui il G., amplificando le linee
    direttrici tracciate nell'età napoleonica, diede alla luce i
    suoi maggiori trattati. Tra il 1815 e il 1817 uscivano i sei volumi
    del Nuovo prospetto delle scienze economiche, seguiti a breve
    distanza da Del merito e delle ricompense. Trattato storico e
    filosofico (Milano-Filadelfia, 1818-19). Entrambe le opere traevano
    origine da un progetto in gestazione fin dal 1807 e rappresentavano
    le due facce complementari, privata e pubblica, del "mondo nuovo"
    apertosi con il secolo.
    
    La prima, presentata come un compendio sistematico delle dottrine
    economiche enunciate sino ad allora, costituiva la vera e propria
    summa della filosofia sociale del Gioia. Ponendo a scopo
    fondamentale dell'economia i tre assiomi - "Ridurre gli sforzi al
    grado minimo; Portare l'utilità al grado massimo; Produrre
    con forze addizionali ciò che sarebbe impossibile all'uomo
    privo di esse" (Nuovo prospetto, I, p. 64) - il G. la caricava di
    moderne istanze produttivistiche, socialmente tradotte nella
    preferenza accordata alla manifattura sull'agricoltura,
    all'imprenditore sul proprietario, alla grande coltura sulla
    piccola, alle capitali sui borghi, all'associazione delle forze
    sulla divisione dei lavori, all'ingegno umano che si fa tecnica
    sulla routine agraria. Ma si trattava anche di un produttivismo che,
    discostandosi dal pensiero economico prevalente, faceva
    costantemente appello all'incentivazione governativa e non
    sacrificava nella sua forza espansiva l'insopprimibile ricerca della
    felicità da parte dell'individuo: significativa in tal senso
    sia la sua teoria del valore, dove l'utilità dell'oggetto si
    sommava alla fatica necessaria per produrlo, sia la sua esaltazione
    dei consumi, perché la ricchezza non era altro che l'insieme
    dei piaceri cui partecipava la popolazione. Il Nuovo prospetto si
    presentava in tal modo come il manifesto di una società
    indefinitamente indirizzata verso il progresso, contro le rendite di
    posizione o la tutela di interessi consolidati. A questa vocazione
    eudemonistica faceva eco il secondo trattato, quasi che la nuova
    società vagheggiata dal G. si contrapponesse all'antica
    assumendo come proprio principio regolatore il merito e le
    ricompense anziché i delitti e le pene. Rivisitando e
    ampliando le proposte di Bentham, il G. approntava una minuta
    casistica dei meriti civili e dei modi per ricompensarli. I meriti
    presi in considerazione nel trattato - e calcolati in base alla
    "difficoltà vinta, utilità prodotta, fine
    disinteressato, convenienza sociale" (Del merito e delle ricompense,
    I, p. 1) - erano naturalmente solidali all'individualismo
    soggiacente alla sua società ideale, e tra tutti
    primeggiavano i meriti intellettuali.
    
    A queste opere si accompagnavano, oltre alle nuove edizioni del
    Galateo e della Logica, alcuni interventi di natura economica
    direttamente legati al dibattito in corso: con il primo, oggetto di
    due edizioni nel giro di pochi mesi, il G. interveniva sul rapporto
    tra pauperismo e industrializzazione e riaffermava la sua fede nelle
    estensive potenzialità redistributive delle manifatture
    (Problema: quali sono i mezzi, più spediti, più
    efficaci, più economici per alleviare l'attuale miseria del
    popolo in Europa, ibid. 1817); con il secondo, si schierava a favore
    della politica protezionistica adottata dal governo austriaco, in
    nome della necessità di tutelare le industrie nascenti (Sulle
    manifatture nazionali e tariffe daziarie. Discorso popolare, Milano
    1819). Dal 1817, poi, aveva iniziato a collaborare alla Biblioteca
    italiana, che usò fino alla morte come trampolino di lancio
    delle proprie dottrine economiche e come tribuna delle battaglie a
    difesa delle proprie convinzioni. Per quanto sollecitato e fatto
    oggetto di stima da parte della rivista, il G. invece non
    aderì all'impresa del Conciliatore.
    
    Quest'ultima circostanza non gli impedì di essere inquisito
    nei processi del 1820-21 e di subire l'ultima detenzione della sua
    travagliata esistenza: arrestato il 19 dic. 1820, il G. fu rinchiuso
    nel carcere milanese di S. Margherita e vi rimase fino al 10 luglio
    1821. Come aveva già fatto in gioventù, ma questa
    volta con ben altro spessore filosofico, appena liberato
    pubblicò due volumi Dell'ingiuria, dei danni, del
    soddisfacimento e relative basi di stima avanti i tribunali civili,
    ibid. 1821, dove rivendicava, quantificandolo, il torto subito.
    L'opera era inoltre dedicata a Bianca Milesi, che lo aveva assistito
    durante la prigionia; ma la dedica, poiché lo scritto
    conteneva una pungente critica di B. Mojon, futuro marito della
    bella "giardiniera", provocò una violenta rottura tra i due,
    che fece clamore nella Milano intellettuale.
    
    Negli ultimi anni il G. ritornò sui temi gnoseologici della
    propria riflessione, quasi a volerne accentuare gli aspetti
    pedagogici: tra il 1822 e il 1823 usciva l'Ideologia, seguita l'anno
    dopo dall'Eserciziologico sugli errori d'ideologia e zoologia, ossia
    Arte di trar profitti dai cattivi libri, dove si ergeva a difensore
    di un sensismo tanto lontano da un materialismo male inteso, quanto
    dall'eclettismo che si stava imponendo in Francia; quindi nel 1826,
    con la Filosofia della statistica, il G. tornava a indicare
    minutamente, contro i nuovi detrattori d'Oltralpe della disciplina,
    le fonti e i principî con cui giudicare "lo stato delle
    nazioni". Nella Milano della Restaurazione la sua supremazia su
    alcuni temi era talmente incontrastata che quando F. Lampato
    ideò nel 1824 la pubblicazione degli Annali universali di
    statistica - a cui il G. cominciò a collaborare dal 1825 -
    tutti ritennero che dietro l'estensore ufficiale della rivista ci
    fosse appunto lui.
    
    Consunto da un tumore che s'era manifestato nel 1823, il G.
    morì a Milano il 2 genn. 1829, in tempo per non assistere
    all'eclissi della propria fama nella temperie più moderata
    degli anni Trenta; una settimana prima di morire aveva consegnato a
    G. Gherardini le proprie carte affinché venissero depositate
    presso la Biblioteca dell'Accademia di belle arti di Brera.