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di Andrea Merlotti
Nacque il 7 maggio 1676 a Ischitella (Foggia), piccolo centro del
Gargano, da Scipione (1646-1725), speziale, e Lucrezia Micaglia
(1653-1709). Ebbe quattro fratelli: Francesca (n. 1680), Vittoria
(1685-1735), Carlo (1688-1755) e Teresa (n. 1691).
Dopo aver compiuto i primi studi sotto la guida dell'arciprete del
paese, Gaetano Serra, dal 1691 il G. studiò per due anni
filosofia con un frate francescano. Fu inizialmente destinato allo
stato ecclesiastico, ma la famiglia mutò parere e ai primi di
marzo del 1694 il G. si trasferì a Napoli, dove, grazie
all'aiuto del prozio materno, Carlo Sabatelli, iniziò a
studiare diritto presso il procuratore Giovan Battista Comparelli.
Nel 1696 divenne allievo di Domenico Aulisio, sotto la cui guida
studiò diritto civile e canonico; iniziò poi gli studi
storici nella Biblioteca Brancacciana e in quella del cardinale
Gerolamo Seripando. Negli stessi anni il poeta leccese Filippo De
Angelis lo introdusse alla filosofia di P. Gassendi e ai classici
latini, greci e italiani.
Laureatosi il 4 sett. 1698 all'Università di Napoli, dallo
stesso anno il G. iniziò a frequentare (anche se
marginalmente) l'Accademia di Medinacoeli, in cui conobbe alcune
delle maggiori figure della cultura napoletana, fra cui il giurista
e poeta Nicola Capasso, il medico Luca Antonio Porzio, il filosofo
Gregorio Caloprese e il medico Nicola Cirillo sotto il cui influsso
abbandonò la filosofia gassendiana per abbracciare quella di
Cartesio. Morto improvvisamente il Sabatelli nel 1700, il G.
iniziò l'attività d'avvocato, conducendo il suo
apprendistato presso Giovanni Musto, ma, insoddisfatto della
sistemazione, si trasferì (su consiglio di don Giovanni
Spinelli, che già lo aveva presentato all'Aulisio) presso
Gaetano Argento. Per la formazione culturale del G. l'incontro con
Argento si rivelò fondamentale, poiché a casa di
questo, dal 1702, iniziò a riunirsi l'Accademia de' Saggi,
che, proseguendo l'esperienza della Medinacoeli, riuniva un gruppo
di giovani giuristi destinati a divenire il nerbo del governo
napoletano durante il viceregno austriaco. Fu in quell'Accademia che
maturò il progetto d'una nuova storia del Regno, cui il G.
diede il suo contributo iniziando a lavorare all'Istoria civile del
Regno di Napoli.
Grazie alla sua attività di avvocato, il G. si garantì
un agiato tenore di vita che gli permise di chiamare a Napoli il
fratello minore Carlo e l'ormai anziano padre. Il G. aveva nel
frattempo iniziato una relazione con la popolana Elisabetta Angela
Castelli, da cui ebbe due figli: Giovanni (1715) e Carmina Fortunata
(1721). Anno decisivo per la sua carriera forense fu il 1715, quando
divenne avvocato dei cittadini di San Pietro in Lama in una causa
intentata contro il vescovo di Lecce Fabrizio Pignatelli intorno
alla questione delle decime. In risposta a due allegazioni di Nicola
D'Afflitto, avvocato del vescovo, il G. pubblicò la scrittura
Per li possessori degli oliveti nel feudo di San Pietro in Lama
contro monsignor vescovo di Lecce barone di quel feudo intorno
all'esazione delle decime dell'olive, cui seguì, l'anno
successivo, il Ristretto delle ragioni de' possessori degli oliveti.
Tali testi, per la marcata e aperta adesione alle più
avanzate tematiche giurisdizionaliste e per gli ampi riferimenti che
il G. faceva alla storia del Regno, provocarono una forte e vivace
discussione e possono considerarsi i suoi primi importanti lavori.
Molto scalpore suscitò nel 1719 la causa in difesa del nipote
dell'Aulisio, Nicolò Ferrara, arrestato due anni prima con
l'accusa di avere avvelenato lo zio. Vinta la causa, come compenso
il G. ottenne dal suo assistito i manoscritti dell'Aulisio, di
alcuni dei quali avrebbe poi curato l'edizione. Nel 1718 a Napoli il
G. aveva pubblicato intanto, sotto lo pseudonimo di Giano Perontino
(anagramma del nome del G.), la Lettera scritta da Giano Perontino
ad un suo amico che lo richiedea onde avvenisse che nelle due cime
del Vesuvio in quella che butta fiamme ed è più bassa
la neve lungamente si conservi e nell'altra ch'è alquanto
più alta e intera non duri che pochi giorni. Il breve scritto
era frutto degli interessi scientifici che il G. aveva coltivato sin
dal suo arrivo a Napoli (riscontrabili in tutte le opere sino a
quelle del carcere) e dai quali, come avrebbe affermato
nell'autobiografia, s'era dovuto allontanare perché assorbito
dagli studi giuridici e storici.
Infatti il G., pur impiegando gran parte del suo tempo
nell'attività forense, lavorava alacremente all'Istoria
civile. Fu proprio per potervi attendere con più
tranquillità che, nel 1718, comprò e restaurò
una villa presso Posillipo, detta Dueporte perché si riteneva
fosse appartenuta ai fratelli Giovan Battista e Niccolò Della
Porta. Nei cinque anni successivi la stesura dell'Istoria lo
assorbì sempre di più, tanto che i suoi continui
ritiri a Dueporte gli valsero l'ironico soprannome di "solitario
Piero". Alla fine del 1720, l'Istoria civile era ormai
pressoché completata; il G. fece allora trasferire la
tipografia di Nicolò Naso nella villa che il suo amico
Ottavio Vitagliano aveva a Posillipo, vicino a Dueporte, e
all'inizio del 1721 cominciò la stampa. Poiché,
nonostante l'istruzione ricevuta, era più avvezzo al
linguaggio giuridico (e al dialetto napoletano) che non all'italiano
letterario, il G. chiese allora all'amico Francesco Mela di
rileggere l'opera, volgendola, ove necessario, in buon italiano. Nel
marzo 1723 l'Istoria civile del Regno di Napoli vedeva finalmente la
luce, in un'edizione di 1100 esemplari (1000 in carta ordinaria e
100 in carta reale).
Scritta con lo scopo principale di difendere i diritti e le
prerogative dello Stato contro la Curia romana, l'Istoria civile non
intendeva tanto apportare nuovi contributi documentari alla storia
del Regno, quanto offrirne una nuova interpretazione, esaminandone
l'evoluzione dalla disgregazione dell'Impero romano sino al
Viceregno austriaco.
Il G. non raccolse (se non per i primi libri) la documentazione
direttamente dalle fonti, ma organizzò quella reperibile in
altre opere, in particolare nell'Istoria del Regno di Napoli di A.
Di Costanzo (L'Aquila, Cacchi, 1581), nell'Historia della
città e Regno di Napoli di G.A. Summonte (Napoli 1601-43),
nella Historia della Repubblica veneta di B. Nani (Venezia 1662) e
nel Teatro eroico e politico de' governi de' viceré del Regno
di Napoli di D. Parrino (Napoli 1692-94). Il procedimento gli
causò, in seguito, l'accusa di plagio da parte di A. Manzoni
nel capitolo VII della Storia della colonna infame, e poi da tutta
la storiografia neoguelfa, rappresentata, tra gli altri, da G.
Bonacci e C. Caristia. Il giudizio non coglieva l'importanza
dell'Istoria civile, che non stava nella ricostruzione erudita degli
eventi del Regno, ma nell'affermazione del principio dell'autonomia
dello Stato.
In effetti, se dagli storici napoletani il G. traeva le notizie
necessarie, i modelli storiografici erano però altri,
italiani ed europei. Fra i primi Guicciardini, Sarpi e, soprattutto,
il Machiavelli delle Istorie fiorentine: come quest'ultimo aveva
attribuito alla Chiesa la responsabilità di avere impedito ai
Longobardi la realizzazione in Italia di un forte regno nazionale,
così il G. accusava Roma di avere troncato lo sviluppo dello
Stato napoletano, distruggendo l'esperienza normanno-sveva con la
chiamata di Carlo d'Angiò. L'avversione nei confronti degli
Angioini è uno dei temi ricorrenti dell'Istoria civile: alla
dinastia francese il G. imputava di avere diminuito il potere regio,
accresciuto quello baronale, ma soprattutto di aver riconosciuto
giuridicamente il Regno come feudo della Chiesa. A causa di tale
acquiescenza verso il Papato, il Meridione avrebbe consumato il
proprio distacco dal resto d'Italia, dove invece le dinastie
regnanti contrastavano apertamente le pretese di Roma. Fra i modelli
stranieri che avevano ispirato il G. erano J.-A. de Thou e U.
Grozio, da cui il G. riprendeva la rivalutazione dei barbari, e in
particolare dei Longobardi, visti come signori nazionali, nemici di
Roma e di Bisanzio. Tanto il G. era avverso agli Angioini quanto
mostrava simpatia per gli Aragonesi, i quali, pur fra incertezze e
contraddizioni, avevano tentato di restituire al Regno l'autonomia
dell'epoca normanno-sveva. Con il dominio spagnolo si era concluso
tale tentativo e per questo il G. era fortemente critico verso
Madrid, sottolineandone la politica di sfruttamento nei confronti
del Regno. L'Istoria civile si concludeva con le pagine dedicate al
dominio austriaco, nel quale il ceto civile riponeva le proprie
speranze.
L'Istoria era dunque un'opera collettiva, non perché scritta
a più mani - come malignamente sostenevano i nemici del G. -,
ma in quanto "opera che raccoglieva e organizzava le esigenze del
ceto civile" (Ricuperati, 1970, p. 163). Con l'Istoria civile il G.
si era proposto di analizzare le ragioni del potere della Chiesa
nell'Italia meridionale e in vista di ciò aveva dedicato
ampio spazio all'epoca longobarda (l'unica per cui il G. ricorresse
direttamente alle fonti). Per dimostrare soprusi e sopraffazioni
della Chiesa sul Regno, il G. ricostruiva l'evoluzione politica del
Papato, respingendone implicitamente l'origine divina; questo
atteggiamento verso la religione, interpretata in chiave
esclusivamente politica, rendeva l'Istoria un'opera del tutto nuova
nel panorama storiografico europeo ma motivava anche
l'ostilità di Roma verso il Giannone.
Il 17 marzo 1723 il Consiglio municipale di Napoli (gli Eletti)
concesse al G. una regalia di 195 ducati e lo nominò avvocato
generale della città. Mentre copie dell'Istoria erano inviate
a Vienna, a Napoli divampavano le polemiche. Le autorità
ecclesiastiche protestarono perché l'opera non aveva ottenuto
la licenza del tribunale vescovile (il G., in effetti, non l'aveva
chiesta, ritenendola superflua poiché riteneva che l'opera
non trattasse argomenti di giurisdizione ecclesiastica) e alcuni
religiosi iniziarono a tenere prediche contro il Giannone. In
seguito a ciò, il potere civile mutò atteggiamento: il
viceré austriaco Friedrich Michael von Althann, che alla fine
del 1722 aveva concesso al G. la licenza necessaria per la
pubblicazione dell'opera, il 12 aprile, in una riunione del
Consiglio del Collaterale, biasimò apertamente gli Eletti, i
quali, peraltro, sin dal 7 aprile avevano congelato i provvedimenti
a favore del G., nominando una commissione per valutare l'opera.
Nello stesso tempo, il Collaterale ordinò la sospensione
delle prediche contro il G. e la vendita dell'Istoria.
La situazione volse al peggio al momento del rito di s. Gennaro:
poiché il sangue tardava a sciogliersi, il clero napoletano
cominciò a sostenere che il santo fosse adirato con i
Napoletani per la pubblicazione dell'Istoria civile. Contro il G. si
diffusero allora in tutta la città poesie e libelli (diversi
dei quali sono oggi conservati in un codice della Biblioteca
nazionale di Napoli), mentre la curia arcivescovile si preparava a
scomunicare l'opera. Ormai era a rischio la stessa vita del G., il
quale, spinto anche dagli amici, decise di recarsi a Vienna per
chiedere la protezione dell'imperatore Carlo VI. Dopo alcune
esitazioni, il 1° maggio il G. lasciò Napoli per quella
che sperava una breve assenza e che, invece, sarebbe stata una
partenza senza ritorno. Raggiunta in incognito Manfredonia, da
lì si trasferì a Barletta, riparando per alcuni giorni
in una villa del fratello di Niccolò Fraggianni; nel
frattempo a Napoli il sangue di s. Gennaro si scioglieva. Trovata
una nave su cui imbarcarsi, il 25 maggio 1723 era a Trieste, il 27 a
Lubiana e ai primi di giugno giungeva a Vienna.
In questa città il G. prese subito contatto con alcuni
esponenti della numerosa comunità italiana, fra cui
Alessandro Riccardi, Niccolò Forlosia e il medico e
bibliotecario di corte Pio Niccolò Garelli, che portò
una copia dell'Istoria all'imperatore Carlo VI. Nel frattempo,
venuto a conoscenza della scomunica lanciatagli dalla curia
arcivescovile di Napoli e della messa all'Indice dell'Istoria civile
(1° luglio), il G. ricominciò a scrivere. Dapprima
ritornò sul trattato Del concubinato de' Romani ritenuto
nell'Impero dopo la conversione alla fede di Cristo, già
iniziato a Napoli, poi scrisse due nuovi trattati: De' rimedi contro
le proposizioni de' libri che si decretano in Roma e della
potestà de' principi in non farle valere ne' loro Stati e De'
rimedi contro le scommuniche invalide e delle potestà de'
principi intorno a' modi di farle cassare ed abolire (che
confluì nell'Apologia dell'Istoria civile). Negli ultimi mesi
dell'anno la posizione del G. sembrò migliorare. Il 22
ottobre, in seguito alle pressioni viennesi, la scomunica fu
revocata e in dicembre il G. ottenne udienza da Carlo VI, che l'anno
seguente gli concesse una pensione annuale "sopra i diritti della
Secreteria di Sicilia". Egli non riuscì, però, a
ottenere un incarico ufficiale che, come aveva sperato, gli
permettesse di tornare a Napoli in una posizione sicura. Decise
quindi di fermarsi a Vienna e nel 1726 si stabilì nel palazzo
della baronessa Therese Leichsenhoffen von Linzwal, con la sorella
minore della quale, Ernestine, aveva stretto una forte amicizia.
Nel frattempo, in Italia apparivano diverse confutazioni
dell'Istoria civile. Nel 1724 fu pubblicata a Roma l'Apologia di
quanto l'arcivescovo di Sorrento ha praticato cogli economi de' beni
ecclesiastici della sua diocesi dell'arcivescovo Filippo Anastasio.
In risposta Ottavio Ignazio Vitagliano pubblicò a Napoli, nel
1727, una Difesa della real giurisdizione intorno a' regi diritti su
la chiesa collegiata appellata di S. Maria della Cattolica della
città di Reggio, in cui, pur volendo difendere il G., finiva
invece con il criticarlo. Il G. fu allora costretto a reagire con un
proprio testo, diffuso a Napoli in forma manoscritta. Nel 1728
apparvero a Roma le Riflessioni morali e teologiche sopra l'Istoria
civile del Regno di Napoli del gesuita Giuseppe Sanfelice: rispetto
all'opera dell'Anastasio si trattava di un lavoro ben più
articolato e problematico, tanto che il G. in un primo tempo aveva
deciso di non replicare, ma durante la villeggiatura a
Perchtoldsdorf (nei dintorni di Vienna) scrisse la Professione di
fede. L'opera conobbe una vasta fortuna, testimoniata da
un'imponente circolazione manoscritta, e segnò la definitiva
rottura con la Chiesa cattolica. Un'altra Risposta del G. fece
seguito alla pubblicazione delle Annotazioni critiche sopra il nono
libro dell'Istoria civile di Napoli (Napoli 1732) del padre
Sebastiano Paoli, scritte con l'aiuto dell'erudito e antiquario
Matteo Egizio, esponente della parte più moderata del
giurisdizionalismo napoletano, non disposta a seguire la lezione del
Giannone.
Fallite le speranze di ottenere un incarico a Vienna, il G. riprese
l'attività forense; oltre a diverse allegazioni per clienti
viennesi e napoletani, nel 1725 scrisse il Ragionamento per il
signor don Leopoldo Pilati, in cui difendeva i diritti di
quest'ultimo alla nomina (poi non avvenuta) a vescovo di Trento dopo
la morte di Giovanni Benedetto Gentilotti e, nell'autunno del 1727,
il trattato De' veri e legittimi titoli delle reali preminenze che i
re di Sicilia esercitano nel Tribunale detto della Monarchia, sulla
complessa questione del Tribunale della Monarchia di Sicilia. Al
1731 risalgono due lavori di rilievo: la Breve relazione de'
Consigli e dicasteri della città di Vienna, commissionatagli
dal reggente Domenico Castelli, e le Ragioni per le quali si
dimostra che l'arcivescovado beneventano… sia… sottoposto al regio
exequatur, come tutti gli altri arcivescovadi del Regno, opera
scritta su incarico della Città di Napoli.
Nel frattempo, con l'apparizione della traduzione inglese
dell'Istoria civile (The civil history of the Kingdom of Naples,
London 1729-31) iniziava la fortuna europea del G. e dell'Istoria.
Sin dal 1728 il G. aveva cominciato a corrispondere regolarmente con
gli eruditi tedeschi Siegmund Liebe e Johann Burckard Mencke, e con
il figlio di questo, Friedrich Otto, iniziando la collaborazione
agli Acta eruditorum Lipsensium. Nel 1729 scrisse la Dissertazione
intorno il vero senso della iscrizione "Perdam Babillonis nomen"
posta in una moneta di Lodovico XII re di Francia, da alcuni creduta
coniata in Napoli l'anno 1502, che, tradotta in latino, uscì
a Londra nel 1733 in un'edizione degli Historiarum sui temporis
libri XXIV di J.-A. de Thou. All'inizio degli anni Trenta, il G. era
ormai un intellettuale inserito nel contesto europeo, per i rapporti
di collaborazione stretti con esponenti della cultura inglese e
tedesca e per la sua conoscenza, maturata in quel periodo, delle
opere che meglio rappresentavano quelle culture. In tal senso, un
ruolo fondamentale aveva avuto la frequentazione con il principe
Eugenio di Savoia, nella cui ricchissima biblioteca il G. aveva
letto i più importanti testi del pensiero libertino e
radicale europeo. Da queste sue fertili frequentazioni nei primi
anni dell'esilio viennese derivò il progetto della sua opera
principale, il Triregno, iniziata nell'estate del 1731, durante una
villeggiatura a Medeling, e le cui prime due parti erano quasi
terminate due anni più tardi, nel 1733.
Il Triregno si articola in tre parti: nella prima, il Regno terreno,
il G. studia la religione ebraica e sottolinea come in essa non si
conoscesse un aldilà, in quanto al popolo ebraico si
prometteva esclusivamente il dominio sugli altri popoli senza alcun
riferimento a mondi ultraterreni. Quello che Dio aveva promesso
all'uomo nella Genesi era, dunque, esclusivamente un regno terreno.
Nel successivo Regno celeste l'attenzione del G. si sposta al
cristianesimo delle origini: studiando i testi neotestamentari,
mette in evidenza come fosse stato il cristianesimo a introdurre
l'idea di un mondo ultraterreno cui i fedeli erano destinati dopo
essere stati giudicati sulla base delle loro azioni mondane. Il
Regno papale, l'ultima parte, riprende il discorso iniziato
nell'Istoria civile sulle origini del potere del Papato: dopo i
primi secoli vissuti in conformità con l'insegnamento
evangelico, i pontefici, approfittando della decadenza del potere
imperiale dopo Costantino, costituirono il loro Regno sul principio
della superiorità rispetto agli Stati mondani.
Nella composizione del Triregno concorrevano diverse tradizioni: la
fondamentale esperienza del libertinismo erudito, con cui il G. era
entrato in contatto negli anni della sua prima formazione
napoletana, per influenza dell'Aulisio, dal quale il G. comprese
l'importanza della storia ebraica. Molti temi delle Scuole sacre -
l'opera di Aulisio uscita postuma nel 1723, pochi mesi dopo
l'Istoria civile - ricomparivano, infatti, nel Triregno, filtrati
dalle conoscenze acquisite a Vienna: la storiografia protestante
tedesca (particolarmente evidente nel Regno celeste, dove forte
è l'influenza delle Origines, sive Antiquitates
ecclesiasticae di Joseph Bingham e delle Observationes sacrae di
Salomon Deyling) e, soprattutto, il deismo europeo postspinoziano.
In questo senso importante era stato il rapporto con gli scritti di
John Toland (in particolare le Lettere a Serena, Origines Iudaicae e
Nazarenus), dai quali il G. trasse la tesi secondo cui gli ebrei
credevano nella mortalità dell'anima e non avevano idea di un
mondo ultraterreno, e con la storiografia che con questi si era
misurata criticamente (come le Vindiciae antiquae Christianorum
disciplinae del luterano Johann Laurenz Mosheim).
Il Triregno non era, peraltro, del tutto slegato dall'Istoria
civile. La matrice giurisdizionalista era evidente soprattutto
nell'incompiuto Regno papale, dove il G. riprendeva il problema
delle origini del potere ecclesiastico, affrontandolo, però,
con gli strumenti della storiografia protestante: non più
"istoria civile" del Regno di Napoli, ma di tutto l'Occidente
cristiano. Di qui la persecuzione che la Curia romana mosse contro
di lui, riuscendo, infine, non solo a farlo arrestare, ma a entrare
anche in possesso dell'autografo del Triregno.
Si impedì così la pubblicazione dell'opera, ma non ne
fu, tuttavia, impedita completamente la diffusione, che avvenne
grazie a un apografo (probabilmente uscito dagli archivi romani in
cui l'originale era custodito). Nel secondo Settecento diversi
codici del Triregno circolarono in Italia e in Europa, e negli anni
Sessanta sembrò addirittura imminente una sua pubblicazione,
poi non avvenuta, ad Amsterdam.
La conquista del Regno di Napoli a opera di Carlo di Borbone
determinò la dispersione della comunità napoletana di
Vienna. Ritenendo, con ragione, che fosse in pericolo la sua
pensione, basata su rendite siciliane, anche il G. decise, allora,
di partire. Lasciò Vienna il 28 ag. 1734, e giunse a Venezia
il 14 settembre. Doveva essere solo un punto di passaggio sulla via
per Napoli, ma le autorità borboniche gli rifiutarono il
passaporto, temendo che un suo ritorno avrebbe compromesso le
trattative per il riconoscimento papale del nuovo sovrano.
L'ambiente culturale veneziano si rivelò, comunque, ricco di
stimoli per il G., che strinse amicizia con il senatore Angelo
Pisani, con il principe milanese Alessandro Teodoro Trivulzio, con
l'abate Antonio Conti, con l'avvocato Giuseppe Terzi e con il
libraio Francesco Pitteri. Con quest'ultimo, in particolare, si
accordò per una nuova edizione dell'Istoria civile, per la
quale approntò, come quinto tomo, quell'Apologia dell'Istoria
civile cui lavorava da tempo e in cui confluirono i tre trattati
composti a Vienna. In realtà, anche a Venezia il G. non
mancava certo di nemici. Poco dopo il suo arrivo, Domenico
Pasqualigo gli aveva offerto la cattedra di diritto civile
all'Università di Padova, ma la Curia romana era riuscita a
fare sospendere l'offerta. Nello stesso tempo, il nunzio a Venezia,
Iacopo Oddi, faceva pressioni sul governo della Serenissima
perché il G. fosse cacciato e consegnato alle autorità
pontificie. Per screditare il G. venne diffusa la voce che egli
avesse criticato la Repubblica veneziana in alcune pagine
dell'Istoria civile, obbligandolo così a difendersi: la
Risposta a tale accusa confluì anch'essa
nell'Apologiadell'Istoria civile. Alla fine del marzo 1735 il G. si
stabilì nell'abitazione del Pisani e un mese più tardi
fu raggiunto a Venezia dal figlio Giovanni, che aveva lasciato a
Napoli dodici anni prima. Riprese, allora, la stesura del Triregno,
discutendone con i suoi amici veneziani. Fu nella villa del Pisani a
Rovere di Crè (presso Rovigo) che, nel luglio 1735, il G.
scrisse la Prefazione al Triregno. Anche questa volta, tuttavia, la
tranquillità doveva rivelarsi effimera.
Dopo oltre un anno di complesse manovre sotterranee, il nunzio
ottenne il risultato sperato: la notte del 13 sett. 1735, poco dopo
aver lasciato, insieme con l'abate Conti, la casa dell'avvocato
Terzi, il G. fu catturato da agenti del S. Uffizio, caricato a forza
su un'imbarcazione e abbandonato nel Ferrarese, in territorio
pontificio. Riuscì quindi fortunosamente a raggiungere Modena
e vi restò nascosto per circa un mese, sotto il falso nome di
Antonio Rinaldi, protetto, fra gli altri, anche da L.A. Muratori.
Iniziò, allora, la stesura del Ragguaglio dell'improvviso e
violento ratto praticato in Venezia ad istigazione de' gesuiti e
della corte di Roma. Raggiunto, infine, dal figlio, il G. si
recò a Milano, allora occupata dalle truppe sabaude, dove
sperava nell'aiuto della famiglia del principe Trivulzio. Il 16 nov.
1735 fu ricevuto dal marchese Giorgio Olivazzi, gran cancelliere, il
quale gli consigliò di scrivere a Carlo Vincenzo Ferrero
marchese d'Ormea, ministro di Carlo Emanuele III di Savoia, per
offrirsi come storico di corte. Quel che Olivazzi non poteva sapere
era che l'Ormea s'era già accordato con il cardinale
Alessandro Albani, offrendogli l'arresto del G. come contropartita
per la concessione di un concordato favorevole allo Stato sabaudo al
fine di chiudere lo scontro - aperto un ventennio prima da Vittorio
Amedeo II - fra Torino e Roma. Da Torino partì quindi
l'ordine di arresto del G., che però nel frattempo aveva
già lasciato Milano per la capitale sabauda. Non considerando
più gli Stati italiani un rifugio sicuro dopo l'esperienza
veneziana, il G. aveva deciso di andare a Ginevra, dove era in
contatto con l'editore Marc-Michel Bousquet (che sin dal 1729 aveva
annunciato la sua intenzione di pubblicare una traduzione francese
dell'Istoria civile). Mentre dava l'ordine di arrestarlo a Milano,
l'Ormea non poteva immaginare che il G. fosse proprio a Torino, dove
si fermò il 27 e il 28 nov. 1735. Giunse a Ginevra il 5
dicembre, dove, pur rifiutando di convertirsi al calvinismo, strinse
amicizia con i teologi protestanti Jean-Alphonse Turretini e Jacob
Vernet.
A causa delle sue precarie condizioni economiche, decise di
pubblicare la traduzione francese dell'Istoria civile, per la quale
s'era accordato già da tempo con il Bousquet. Questi,
però, aveva sciolto proprio allora la sua società con
lo stampatore J.-A. Pellissari, e si era trasferito in Olanda. Fu
solo grazie all'aiuto di Vernet che il G. poté trovare un
nuovo finanziatore nel libraio Jacques Barillot, ma, quando,
all'inizio del marzo 1736, tutto era pronto per la nuova edizione
dell'Istoria, il G. fu attirato fraudolentemente in territorio
sabaudo e arrestato.
Sin dal 10 dic. 1735 il marchese d'Ormea aveva dato disposizioni per
l'arresto al governatore della Savoia, conte Giuseppe Piccon della
Perosa. La trama del rapimento è stata raccontata dal G.
stesso, nella sua autobiografia, in pagine esemplari per chiarezza e
drammaticità. A Ginevra egli aveva preso alloggio presso il
sarto Charles Chénevé, da tempo amico di un doganiere
sabaudo, tale Giuseppe Gastaldi, il cui fratello era aiutante di
campo del conte Piccon. Dapprima Gastaldi si guadagnò la
simpatia di Giovanni, il figlio del G., invitandolo spesso a
Vésenaz (il piccolo centro savoiardo di fronte a Ginevra,
dov'era la dogana) insieme con Chénevé. In questo modo
egli venne a conoscenza dei movimenti del G. a Ginevra, informandone
Piccon. Dopo aver rifiutato gli inviti del Gastaldi per tutto
l'inverno, il G. accettò di assistere alla messa della
domenica delle Palme nella chiesa di Vésenaz. Sabato 24 marzo
1736 si trasferì con il figlio a casa di Gastaldi. Questi,
presi con sé alcuni soldati, irruppe di notte nella stanza
del G. e arrestò lui e il figlio; il giorno dopo, Gastaldi si
mise in marcia verso Chambéry. Il G. racconta la gioia del
doganiere il quale, tenendo in mano un suo ritratto (probabilmente
una copia dell'incisione fatta a Vienna da Jacob Sedelmayer) andava
di paese in paese urlando di aver catturato "un grand'uomo".
Giunto a Chambéry la sera del 26 marzo 1736, Gastaldi
consegnò i prigionieri al conte Piccon, il quale, il 7
aprile, ne dispose il trasferimento nella fortezza di Miolans,
tradizionalmente deputata ad accogliere i prigionieri di Stato
(quarant'anni dopo vi sarebbe stato rinchiuso anche il marchese de
Sade). Ricevuta notizia dell'arresto, l'Ormea ne informò il
cardinale Albani, al quale riferì anche l'intenzione di Carlo
Emanuele III di non inviare il G. a Roma, ma di impegnarsi a tenerlo
in carcere "perpetuamente". Per quanto la corte di Roma avrebbe
preferito giudicare direttamente il G., il 5 maggio Clemente XII
ringraziò il sovrano sabaudo per l'arresto del "sedizioso".
Ormea e Albani si accordavano, intanto, perché il G. fosse
processato dal S. Uffizio piemontese e costretto ad abiurare.
Durante la sua prigionia a Miolans (aprile 1736 - settembre 1737) il
G. scrisse l'autobiografia (Vita di Pietro Giannone scritta da lui
medesimo) e iniziò, aiutato dal figlio, una prima versione
dei Discorsi sopra gli Annali di Tito Livio, un'opera che intendeva
offrire a Carlo Emanuele III per l'educazione del principe di
Piemonte, il futuro Vittorio Amedeo III. Nello stesso periodo
l'Ormea riuscì, grazie al conte Piccon e ad altri agenti
sabaudi, a entrare in possesso dei manoscritti delle opere del G.
(compreso quello del Triregno), che, dopo esser stati esaminati da
Giovanni Antonio Palazzi, abate di Selve, bibliotecario e storico di
corte, furono inviati a Roma. Il 15 sett. 1737 il G., separato dal
figlio Giovanni (che fece ritorno a Napoli), fu trasferito a Torino
(nelle carceri di Porta Po, prima, e nella cittadella, poi). Qui fu
affidato alla cura spirituale del padre filippino Giovan Battista
Prever. Nel marzo del 1738 prestò formale abiura dei suoi
errori di fronte al vicario inquisitoriale, Alfieri di Magliano.
Il testo dell'abiura non era quello che la Curia romana si
attendeva, tanto che - contrariamente alla prima intenzione - si
decise di non renderlo pubblico. A convincere il G. ad abiurare era
stata la speranza di poter tornare presto in libertà, ma il
15 giugno 1738 fu trasferito al forte di Ceva, dove sarebbe rimasto
sei anni. Le istruzioni impartite al conte Giuseppe Amedeo De
Magistris, governatore del forte, erano per la migliore sistemazione
possibile nel castello (il G. fu rinchiuso nella prigione detta "la
speranza": due stanze e un anticamera interamente rivestite in legno
e chiuse da una porta di pietra). Gli era permessa qualche ora
d'aria al giorno (purché non parlasse con nessuno, tranne il
governatore e il confessore del forte) e poteva leggere e scrivere
(purché le sue opere non uscissero da Ceva se non per
Torino).
Nei sei anni di prigionia cebana il G. terminò i Discorsi
sopra gli Annali di Tito Livio (conclusi nel maggio 1738) e scrisse
altre tre opere: l'Apologia de' teologi scolastici (1739-41),
l'Istoria del pontificato di s. Gregorio Magno (1741-42) e L'ape
ingegnosa (1743-44). In esse riaffioravano molti temi del Triregno,
soprattutto nell'Apologia de' teologi scolastici - dove
l'autorità dei Padri della Chiesa era sottoposta a una vera e
propria demolizione -, e nell'Istoria del pontificato di s. Gregorio
Magno. Quest'ultima, inizialmente concepita come conclusione
dell'Apologia, era una vera e propria prosecuzione del Triregno, nel
cui Regno papale una vasta parte doveva essere dedicata a tale
pontefice. Temi tipici degli autori libertini, in particolare del
Toland, grazie a un sapiente uso della Naturalis historia di Plinio
il Vecchio, tornavano anche nelle pagine dell'Ape ingegnosa, vasto e
complesso zibaldone, come recita il titolo, di "varie osservazioni
sopra le opere di natura e dell'arte", denso di spunti
autobiografici.
Nonostante la prigionia, la fortuna europea del G. continuava: nel
1738 ad Amsterdam era apparsa la traduzione francese dei libri sulla
"politia ecclesiastica" (Anecdotes ecclésiastiques contenant
la police et la discipline de l'Église chrétienne
depuis son établissement jusqu'au XIe siècle), nel
1742 l'intera Istoria civile era stata tradotta in francese da C.-G.
Loys de Bochat e G. Bentivoglio e pubblicata a Ginevra (ma con la
falsa indicazione dell'Aja). Mentre a Torino la diffusione delle
opere giannoniane preoccupava le autorità ecclesiastiche, a
Ceva il G. entrava in contatto con esponenti della nobiltà
locale, che lo incaricarono della stesura di alcune allegazioni
forensi.
Nell'estate del 1744, a causa dell'avanzata delle truppe
franco-spagnole, allora impegnate contro il Piemonte nella Guerra di
successione austriaca, il G. fu trasferito a Torino, dove giunse il
3 settembre. In un primo tempo le condizioni della prigionia nella
cittadella si rivelarono assai più dure: il governatore
Ercole Tomaso Roero di Cortanze non aveva avuto, come invece il De
Magistris, ordini particolari per il prigioniero, il cui trattamento
non fu inizialmente dissimile a quello riservato ai molti
prigionieri che affluivano nella capitale da tutto il Piemonte. La
situazione fu aggravata dalla morte del marchese d'Ormea (maggio
1745), tanto che il 14 maggio 1746 il G. inviò al sovrano un
lungo e disperato memoriale sul proprio stato e sulle angherie cui
lo sottoponeva il maggiore della cittadella, il conte Giovan
Battista Caramelli. Da allora le condizioni della sua detenzione
migliorarono sensibilmente. Il suo ritorno a Torino non era passato
inosservato; in pochi mesi il G. entrò in relazione con
personaggi della corte e della cultura, come i bibliotecari
dell'Università Paolo Ricolvi e Antonio Rivautella, e,
soprattutto, con il residente inglese, Arthur Villettes, il quale
gli fece avere diversi libri della propria biblioteca, grazie ai
quali, oltre a quelli avuti dalla Biblioteca reale tramite Roero di
Cortanze, il G. poté aggiungere nuovi capitoli all'Apologia
de' teologi scolastici e iniziare una nuova versione, rimasta
incompiuta, dei Discorsi. Il nuovo interesse destato dal G.
suscitò la reazione delle autorità ecclesiastiche: il
nunzio a Torino, mons. Ludovico Merlini, protestò presso il
sovrano, il quale gli assicurò che le condizioni del
prigioniero sarebbero divenute più severe.
In realtà il G. continuò a scrivere e a ricevere libri
da Villettes e da Roero di Cortanze sino alla morte, sopraggiunta il
17 marzo 1748.
Il desiderio del G., formulato in una lettera all'Ormea nel marzo
1741, che sulla sua tomba fosse posta un'iscrizione da lui
appositamente composta non fu esaudito: il suo corpo fu sepolto
nella fossa comune dei prigionieri della chiesa di S. Barbara,
all'interno della cittadella. La chiesa fu distrutta intorno al
1860.