La non-rivoluzione italiana. 1796-1799

di Paolo Quintili
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Il nodo storico del "giacobinismo", alle origini dello stato moderno e dell'Italia contemporanea.
Il periodo giacobino ha svolto un ruolo importante nell'azione e nell'immaginario dei democratici radicali italiani.


Al vecchio canto dei Lazzaroni di Napoli che Croce ricorda nel saggio La Rivoluzione napoletana del 1799 : "A lu suonu de li violini/Sempre a morte a' Giacobbini…" , fa eco il verso del "plebeo" Belli alla vigilia del '48, La morte co' la coda: "Cqua nun ze n'essce: o ssemo ggiacubbini,/ O ccredemo a la lègge der Ziggnore...". Da un sommario riesame delle formulazioni proposte al convegno all'Università di Roma "La Sapienza" (20-23 ottobre) su "Universalismo e nazionalità nell'esperienza del giacobinismo italiano", emerge la cifra costante della scissione tra i "due popoli" che caratterizza tanta parte della cultura politica progressista italiana: da una parte, le élites rivoluzionarie, "illuminate" ma isolate, dall'altra un popolo lontano, estraneo agli entusiasmi, alle motivazioni del rivolgimento politico importato d'oltralpe. Un popolo, dunque, pericoloso alleato delle classi conservatrici. L'argomento del convegno sul triennio repubblicano 1796-1799 fa pendant all'incontro di Napoli (28-30 ottobre), presso l'Istituto italiano per gli studi filosofici: "Il giacobinismo europeo e la fondazione dello stato moderno" dove la questione è affrontata da un'angolatura filosofico-giuridica.

Non che a Roma non si siano poste questioni "filosofiche" e non si sia pensato a quanto il termine "giacobino" subisce, nel linguaggio politico corrente. È un destino analogo a quello del termine "libertino" in ambito filosofico-morale: è il discorso dell'altro, sono gli avversari del movimento che affibbiano ai nemici un'etichetta infamante ancor oggi carica di passioni, faziosità, oggetto di polemiche non troppo lontane nella storia italiana. Coloro che vissero quell'esperienza rivoluzionaria, abortita sul nascere, amarono definirsi per lo più "patrioti" o italiani "repubblicani" tout court.

Il triennio delle "Repubbliche sorelle" volute da Bonaparte e da altri generali - Cisalpina, Cispadana, Napoletana, Romana - legate alle alterne vicende dell'esercito francese in Italia, è dunque passato alla storia come il "triennio giacobino" non senza una forzatura di senso, in parte legittima, che ha spinto provocatoriamente M. Verga nel suo intervento ad auspicare che se ne possa (e se ne debba) anche fare a meno. Abbandoniamo la dizione "giacobinismo", pensiamo ad altre categorie storiografiche se non altro per non dar adito agli eterni avversari di tutto ciò che è in odore di "rivoluzionario" di parlare di questo convegno come dell'ennesima testimonianza della "crisi della sinistra", e magari dar materia ad un prossimo libro di E. Galli della Loggia. L'attuale stagione storiografica, ha sottolineato Verga, favorisce i revisionismi perché "è stagione arida, che non costruisce, non inventa da spinte, desideri e bisogni civili forti, temi storiografici nuovi". C'è da chiedersi perché manca oggi la spinta ideale che portò ad esempio Franco Venturi a pubblicare negli anni '60 per la Ricciardi, una collana di scritti degli Illuministi italiani; quella fu un'operazione culturale di notevole rilevanza anche politica.

Quanto agli anni giacobini, potremmo chiamarlo "triennio repubblicano" con tutta ragione e con buona pace di Galli della Loggia, riavviando in termini nuovi il dibattito politico sul senso del radicalismo politico in contesto italiano. Prima va rinnovato il modo di studiare il triennio come momento di svolta e d'instaurazione di nuove categorie politiche: nazione, patria, cittadinanza qui ripensate - ad esempio, rileva C. Capra, da "luogo natio" e appartenenza regionale, "patria" inizia ad indicare l'appartenenza civica ad una nazione unitaria - e riassorbite poi in chiave moderata (che sarà la dominante) durante l'età risorgimentale.

I repubblicani radicali inventano letteralmente un'identità italiana unitaria, durante il triennio, come nel resto d'Europa, essendone stati i più intransigenti e "astratti" fautori. Verga ha ricordato anche la "debolezza dell'altro popolo", la borghesia italiana, in quegli anni di lotte. La tesi dell'"astrattezza" dei giacobini è di vecchia data, risale al celebre Saggio di Vincenzo Cuoco sulla Rivoluzione napoletana. Ma ad osservarla più da vicino, quell'astrattezza si rivela essere anche un più fine senso della realtà degli scopi rivoluzionari da raggiungere, che verranno poi riprogrammati dalle stesse élites moderate. G. Verucci ha introdotto la Tavola rotonda "Il giacobinismo, il Risorgimento e l'Europa", ricordando il lavoro pionieristico di D. Cantimori. Il movimento giacobino è definito come un insieme di aspirazioni, ideali, bisogni, sentiti, rozzamente espressi al tempo e rimasti a lungo dimenticati a causa di un vieto conformismo storiografico. Il triennio e il periodo napoleonico non rappresenterebbero le "origini del Risorgimento" ma della stessa Italia contemporanea, e si tratta di due concetti da tenere distinti (C. Capra).

E. Leso, con ottimi esempi, ha mostrato come in quel periodo nasca il vocabolario politico italiano moderno. In particolare, nella semantica di "politico" e "politica" si sono avuti spostamenti di senso rilevanti (lo si vede nel significato moderno assunto dalla locuzione "parlare di politica"), legati al riconoscimento di nuovi soggetti per la politica (una base più ampia di partecipazione), di nuovi oggetti (aspetti della vita di tutti i cittadini che hanno valenza politica: diritto alla sussistenza, all’assistenza ecc.), della molteplicità dei centri del potere (potere usato al plurale, specializzazione semantica della parola "governo"). Il lessico politico tradizionale si detecnicizza per il nuovo investimento affettivo che lo tocca ("repubblica", "democrazia", "popolo") e altri lessici speciali vengono politicizzati ("barbarie", "apostolato", ecc.). Questo tema dell’affettività del politico, inaugurato dai giacobini, torna in vari interventi, a cominciare da quello di C. Capra.
L'acquisizione del concetto di cittadinanza anche da parte dei gruppi femminili, secondo Verucci, è un'eredità forte del periodo giacobino passata all'Italia contemporanea, come lo fu la libertà dei culti nella Cisalpina, l'intervento dello Stato in ambiti di tradizionale competenza ecclesiastica: assistenza sociale, beneficenza, istruzione ecc. Non è un caso che il grande polverone odierno sulla "parità" scolastica viene sollevato nel momento di maggiore debolezza storica di quello "Stato" immaginato dai repubblicani del triennio. L'immagine che poi del giacobinismo si forgiarono gli uomini del Risorgimento, secondo Verucci, pare essere quella della grande Rivoluzione francese e dei suoi jacobins piuttosto che del triennio italiano.

A proposito dell’Italia del sud, G. Giarrizzo ha rimarcato il ruolo dei philosophes nella costruzione del movimento, organizzati in logge segrete e orditori di congiure. Nella particolare situazione italiana, il cambiamento progettato dai giacobini meridionali tra il '92 e il '94 è quasi sempre di natura terroristica: una dittatura militare guidata dalle élites. Questo elemento, insieme alle congiure, contraddistingue il movimento ed è un importante legato settecentesco al Risorgimento. Insurrezione, dittatura, governo provvisorio e quanto segue. Bisogna sfatare, secondo Giarrizzo, la leggenda che vuole il '99 e la caduta della Repubblica napoletana, come l'anno in cui venne meno allo stato meridionale la sua classe dirigente, fatta fuori dalla controrivoluzione. E' vero il contrario, in special modo per il caso siciliano, in quanto fu da quell'esperienza di governo che vennero fuori nuove categorie politiche e nuovi modelli di "governamentalità". Il problema è dunque quello di costruire una cultura di governo come eredità di un certo modello di diritto pubblico. La cultura politica dei rivoluzionari non era sommaria, competenze tecniche, militari, politiche e giuridiche si coniugavano bene, allora, e tuttavia non si ponevano nel contesto di un semplice problema di "Stato" ma di governo repubblicano. Certi modelli della cultura repubblicana si affermarono nel corso del decennio 1770-80, senza tuttavia produrre vere e proprie competenze di "governo". Ma, come insegnò Hegel, segreto ammiratore dei rivoluzionari, il paradosso della Rivoluzione consisté proprio in questo: non si impara a nuotare se non gettandosi in acqua e, innanzitutto, il diritto rivoluzionario s'afferma nel momento in cui riconosce che ogni diritto nasce da un atto di non-diritto, che appare tale solo al tempo in cui esso viene compiuto.

F. Della Peruta ha ricordato, a tal proposito, le idee del giovane Mazzini nel biennio '31/32, un Mazzini poco noto, il quale riteneva che il movimento rivoluzionario italiano doveva liberarsi dei ceppi della tirannia seguendo le orme dell'"antica Rivoluzione" compreso il Terrore con la sua "dura necessità" per spezzare il gioco delle "congiure dei preti aiutati dall'oro inglese". Si comprende perché il termine stesso "giacobino" diviene presto una parola pericolosa, da usare con cautela per definire il triennio repubblicano. Come ha ricordato G. Galasso, questo senz'altro non si riduce a congiure e terrorismo, ma presenta una geografia politica molto più complessa: moderati, liberali, democratici radicali si disputano un terreno d'azione autonoma ristretto, dominato dall'alternarsi delle vicende militari.

Il tema della "rivoluzione passiva", una delle materie caratteristiche del contendere storiografico, si basa su un confronto col modello francese dell’89 che spesso si presenta nella veste di un paradigma irrigidito. Questo confronto non sembra sia stato riconsiderato, se non da P. Viola, col suo discorso sulla mancanza di uno scontro politico violento, anzi sulla "poca politica" che si vede nell’Italia di quel periodo. In fondo, qui è implicito il presupposto che senza lo scontro politico molto ridotta diviene anche la possibilità di creare un consenso più ampio, un rapporto attivo tra i gruppi dirigenti e i ceti popolari, i quali potrebbero in quel caso schierarsi con i radicali, come in Francia prima della caduta di Robespierre. La questione della costruzione di un "consenso popolare" anima anche l’intervento di M. Caffiero sul tentativo di organizzare una nuova religione repubblicana, tema che richiama di nuovo l’attenzione sull’insufficienza politica e "affettiva" di un atteggiamento puramente pedagogico dei repubblicani verso il popolo. Sempre che si volesse coinvolgerla veramente, questa "plebe", con tutte le conseguenze che ciò avrebbe comportato: tale coinvolgimento interessava, per lo più, i "patrioti" (oltre che, sull’altro fronte, i controrivoluzionari), non certo i francesi direttoriali o i moderati italiani da cui, di fatto, dipesero le sorti delle Repubbliche sorelle.

C. Capra ha puntato il dito con acume sulla scissione dei "due popoli" - dicotomia che si diffrange in vario modo: plebe/intellettuali ricchi/poveri, colti/illetterati -, centrando l'analisi sul "carattere degli italiani". Quanto è stato rilevato da diversi autori, da Martinelli a Romeo, è sempre un oggetto di critica; quel "carattere" italiano, variamente definito, è ritenuto un elemento d’arretratezza dei rivoluzionari italiani nei confronti dei compagni degli altri paesi. Nasce qui una sorta di coscienza schizofrenica che fu anche quella del "Leopardi antitaliano" : il riconoscimento di un passato di grandezza, dell'esistenza di individualità straordinarie, di fronte all'apprensione di un presente collettivo "senza speranze".
"Il peso del destino futuro", secondo P. Viola, sta quindi nell'aver lottato in un luogo e in un ruolo vuoto; i giacobini italiani non sapevano esattamente come né dove costruire una nazione unitaria. Il peso del destino passato - i decenni di lotta culturale e politica dei movimenti filosofici, enciclopedisti in testa - giocò positivamente sul destino presente dei rivoluzionari francesi. Non così per gli italiani. Questi difendono, dal punto di vista del passato (riformista), un progetto di costruzione futura della patria unitaria che non si sa tuttavia dove costruire. Non si va mai al di là di una discussione sui progetti, su come adattare il concetto del diritto al "carattere degli italiani", lasciato ad un futuro da determinare, che pesa. Nel frattempo, un opuscolo gesuita filosanfedista definisce l'equazione, falsa ma che avrà gran futuro: ateismo=giacobinismo=patriottismo. I patrioti sembrano esser consapevoli del ritardo nell'azione organizzativa e che il progetto costituzionale è proiettato in un pesante, indeterminato futuro a cui si rimette il finale compimento. L. Guerci tuttavia non è d’accordo con Viola sull’assenza di lacerazioni politiche forti tra gli stessi radicali italiani e sul criterio discriminante del conflitto violento, a suo avviso insufficiente per misurare la "quantità di politica" presente nel triennio. Proprio perché secondo Guerci le differenze politiche ci sono, e sono forti (il carattere "passivo" della rivoluzione è occasione di lucidità), è d’accordo sull’uso che definisce "proprio" del termine giacobino: è la parte radicale del movimento democratico.

Quello che conta è la definizione chiara, sul modello del biennio' 92/94, del binomio libertà/uguaglianza, motore del giacobinismo italiano. La "fraternità" è cosa lontana, l'impossibilità di farne discorso rinvia al problema dei due popoli e della natura passiva della rivoluzione. Il campo semantico sovversivo non si definisce in modo compiuto, le differenze teoriche non prendono corpo in un dibattito politico che scivoli in una guerra di popolo consentita. Ma quello che più colpisce sono i connotati sotto i quali si presenta l'idea stessa di "libertà". Nulla di giuridico né di costituzionale, né libertà dei moderni (B. Constant), né libertà degli antichi, né libertà d'ancien régime (quella di tutelare le proprie gerarchie e comprensioni del mondo, consuetudini e diritti di parte). In molti giacobini è operante un'idea puramente filosofica, individualista, di libertà dell'uomo in società: "libertà di pensare ciò che appartiene al suo diritto e di migliorarsi" (Compagnoni, professore di diritto).

È questa l'idea che marcò, più di ogni altra, la solitudine e l'inefficacia della battaglia rivoluzionaria italiana.


Antonio Piromalli

Storia della letteratura italiana, Cap. 14,  http://www.storiadellaletteratura.it/main.php?cap=14

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Capitolo 14: Società e cultura nell'età napoleonica

Paragrafo 1: L'età delle rivoluzioni e i giacobini

La Rivoluzione francese sconvolge l'ordine degli assolutismi politici, dei vecchi assestamenti, i propositi riformatori. E anche se l'azione napoleonica assume una direzione di conservatorismo sociale, determinando la soluzione moderata della rivoluzione, la nascita in Italia dal 1796 al '99 di repubbliche democratiche accelera il processo di trasformazione della società. La cultura illuministica diffusa negli Stati italiani aiuta le simpatie verso la rivoluzione, e nelle repubbliche democratiche (la prima sorge a Reggio Emilia nel 1796) si viene maturando la prima idea di coscienza e di indipendenza nazionale come conseguenza dell'abbattimento di regni e principati, della diffusione delle ideologie egualitarie, dei concetti di unità politica e libertà.

La campagna di Napoleone in Egitto e l'intervento degli austro-russi cancella le repubbliche democratiche e la più atroce reazione si ha a Napoli — dove nel 1799 era nata la Repubblica — con l'impiccagione e l'imprigionamento di patrioti. Il ritorno di Napoleone comporta l'annessione alla Francia di una parte dei territori dell'Italia centro-settentrionale, la formazione del Regno d'Italia, del Regno di Napoli assegnato a Giuseppe Bonaparte e, dal 1808, al valoroso Gioacchino Murat. Dopo la caduta di Napoleone tale assetto è completamente modificato dagli austriaci i quali restaurano i vecchi regni e principati.

La Rivoluzione di Francia suscita in Italia opposizione ai governi e ai ceti dominanti, ma la mancanza di un centro politico rivoluzionario e la diversità delle situazioni locali non rendono possibile una aggregazione politica anche se qua e là sorgono agitazioni e tumulti delle masse contadine. Emblematica è a Rionero in Basilicata nel 1793 la protesta della folla che impedisce all'adunanza comunale di ripartire l'imposta da pagare alla Regia Corte gridando: «Ma che pagamenti e fiscali, che Regia Corte! Volimo fa come li Francise!».

Il movimento patriottico giacobino, costituito da intellettuali delle città, interpreti di interessi della borghesia, delle masse contadine e di qualche frazione di aristocrazia, si propone il problema del «risorgimento» d'Italia al di fuori del riformismo e sulla base rivoluzionaria di un rinnovamento politico e sociale, nazionale e democratico. Questo importante movimento si forma negli anni 1789-95 e opera politicamente nel triennio 1796-99 in cui i giacobini radicali pongono come problema fondamentale quello della partecipazione del popolo al rinnovamento (riforma agraria e abolizione dei vincoli feudali) mentre i giacobini moderati, portatori dell'ideologia della borghesia, cercano di far accettare al popolo la libertà dell'industria e la difesa della proprietà.

I limiti di classe del giacobinismo moderato si riflessero soprattutto come preoccupazioni costituzionalistiche e legalitarie e impedirono al popolo di partecipare alla rivoluzione, che esso vede come rivoluzione borghese perché non modifica le strutture in favore delle sterminate masse di sottoproletari della terra. La stessa sfiducia avranno, dopo l'unità d'Italia, le masse contadine nel nuovo governo difensore della grande proprietà agraria; e daranno luogo al fenomeno del brigantaggio. Al tempo dei giacobini le masse popolari erano ancora sotto il peso dell'avvilimento di secoli di dispotismo, influenzabili dai controrivoluzionari che sotto il simbolo paurosamente reazionario della Santa Fede (1799) utilizzarono a fini di restaurazione elementi sottoproletari. Ma soprattutto le idealità dei giacobini radicali, il mito di uno Stato italiano unitario e repubblicano, la rivoluzione di classe, erano ben lontani dai propositi dei francesi che della situazione italiana intendevano servirsi diplomaticamente, nel gioco della loro politica, nelle trattative con l'Austria.
Il movimento giacobino non riuscì, per la componente legalitaria, a rendere rivoluzionarie le masse e cadde per opera della reazione del '99 ma anche per il predominio che ebbe l'idea del compromesso borghese, uno dei tanti compromessi disfacitori che incontriamo nella nostra storia nei momenti cruciali, che sempre si richiamano a paure determinate da fallimenti precedenti favorendo l'acquattamento politico e sociale. Nel movimento giacobino si raggrupparono uomini di tutti gli Stati italiani — i centri dell'Italia giacobina erano Milano, Bologna, le città emiliane, Napoli, Roma — i quali, crearono la prima idea di Risorgimento nazionale. Essi elaborarono per primi una nuova concezione della vita, della cultura, della letteratura che interessava la partecipazione del popolo; e quelli tra di loro che scamparono alla reazione crearono nell'Ottocento, sulla base delle idee rivoluzionarie, una corrente di pensiero democratico oppositore della restaurazione politica e religiosa e accompagnatore del nostro Risorgimento.

Tra i giacobini italiani il pisano Filippo Buonarroti (1761-1837), amico di Robespierre, partecipò a Parigi alla congiura di Babeuf (o degli Eguali) e tentò ad Oneglia un esperimento avanzato di governo democratico. Nell'opera Congiura per l'eguaglianza sostenne inflessibilmente che la libertà dipende dall'eguaglianza di vita e di godimento dei diritti politici da parte dei cittadini:

L'eguaglianza naturale a cui si mira è l'uniformità dei bisogni […]. Dall'integrale ripartizione dei beni e del potere nascono tutti i disordini […]. Proprio a trattenere entro giusti limiti la ricchezza e la potenza degli individui devono tendere le istituzioni di una società degna di tal nome.

Uno dei problemi più importanti della cultura giacobina (zona, come ha detto Giuseppe Petronio, in cui «per i critici, scorazzano ancora i leoni») è quello dell'educazione rivoluzionaria del popolo per mezzo dei giornali.

Paragrafo 2: Novità della cultura giacobina: il dialetto in funzione rivoluzionaria (Mannu, Cardone, Calvo). F. S. Salfi. Le correzioni di Cuoco

L'età giacobina non offre arte «pura» ma le più specifiche manifestazioni culturali sono la satira, la protesta, sorrette da precise ragioni teoriche oltre che politiche. Il giacobinismo ebbe un carattere popolare, ha rappresentato una misura politica della nostra cultura e si è manifestato intensamente nel teatro, nel giornale, in una letteratura poetica espressa in dialetto come autentica produzione del popolo rivoluzionario.

Già gli intellettuali appartenenti al movimento illuministico avevano creato una cultura (e una opinione pubblica) più concreta di quella dell'età dell'Arcadia e avevano sperimentato nuovi strumenti di comunicazione (gazzette, fogli volanti). Inoltre avevano acquistato coscienza del loro ruolo pedagogico e culturale, di guida nella società e in molti di essi si era verificato uno scatto psicologico e politico che li aveva trasformati in intellettuali attivi. Il tardo-arcade Aurelio Bertola, diventato giacobino, ad esempio, nel proporre un piano repubblicano di pubblica istruzione, così scriveva:
Il popolo ha un'enorme benda agli occhi: facciamo di strappargliela: abbia egli un'idea di ciò che egli è stato, di ciò che egli è, di ciò che deve egli essere: questa fatale ignoranza fomentata segretamente e con mezzi terribili dai nemici nati del pubblico ben essere, questa ignoranza che fa continua guerra ai salutari effetti della provvidenza di chi governa, questa lo espone, anzi lo getta in braccio alle insidiose sorprese di male intenzionati che trovano una facilità senza pari di poter calcare di gagliarde impressioni su questa cerea superficie. Alla Municipalità di Venezia, per ovviare o metter riparo a siffatto male è stato, ne' di passati, proposto da uno de' suoi comitati di procacciare le più accreditate gazzette patriottiche e di spargerle in luoghi determinati perché il popolo vi legga i suoi interessi politici e commerciali […], Ma, e non si potrebbe egli compilare un foglio, il qual contenesse il succo spremuto da' molti e migliori fogli patriottici, e versar poi codesto licor salutare nel seno della nostra gente e purgarla de' pregiudizi ed animarla di nuova vita veracemente repubblicana?

Nel Bertola giacobino, come in altri, erano i motivi di lumi e istruzione per il popolo; in altri era una fede mitica nel popolo e in altri ancora mancava il realismo della strategia politica o era presente il rischio di cadere nell'astrattezza. Però negli intellettuali giacobini più avanzati la polemica letteraria sinuosa e vischiosa cede allo scontro ideologico-politico (di politica culturale) tra rivoluzionari e controrivoluzionari.

Furono i giacobini i primi intellettuali nuovi i quali ruppero con forza ideologica le acque stagnanti del quietismo, si vennero collegando con gli altri rivoluzionari francesi ed europei e con le loro ideologie. Essi per primi infransero le incrostazioni del feudalesimo, dell'assolutismo, della controriforma e diedero il loro contributo anche teorico oltre che politico e pragmatico con progetti di riforme (Girolamo Bocalosi, Matteo Galdi, Francesco Saverio Salfi, Giuseppe Gioanetti, Lorenzo Mascheroni etc.), con la letteratura, con il teatro, con la poesia. Coloro i quali fanno coincidere i concetti di popolo e rivoluzione sono soprattutto il romano Enrico Michele L'Aurora, il napoletano Vincenzo Russo; in Toscana Francesco Maria Gianni interpretava le tendenze moderate, nel Veneto Melchiorre Cesarotti esprimeva le paure dei moderati.

Esiste una letteratura giacobina in lingua ma la letteratura dialettale delle gazzette, delle sceneggiate, dei dialoghetti, dei canti di protesta, oltre a essere più viva, ha un particolare significato poiché rappresenta una scelta democratica di politica culturale. Con tale scelta programmatica i rappresentanti più responsabili del movimento giacobino si collegavano con le classi subalterne in rivolta nelle città e nelle campagne, con i gruppi che operavano sulle montagne dove le persecuzioni e le malversazioni li avevano imbrigantati, con gli artigiani e i contadini.

I giacobini con il dialetto instaurano un nuovo rapporto tra intellettuali e popolo, tra avanguardia politica e masse: le nuove proposte nascono da una vita culturale di base. Il dialetto, strumento di istruzione per il popolo (perché ad esso accessibile), serve per la comunicazione diretta con i proletari di città e campagna, per esporre ad essi la tematica politico-sociale: la condizione di sfruttati e perseguitati, la necessità della liberazione.
Del bisogno di usare il dialetto si rendeva ben conto, politicamente, Eleonora Fonseca Pimentel la quale sul Monitore napoletano (febbraio 1799) ringraziava un cittadino patriota il quale sul giornale del 15 de lo mese che chiove (febbraio) aveva pubblicato una civica arringa in dialetto napoletano. La Fonseca dichiarava che con una parte del popolo (la plebe) non esisteva possibilità di intesa perché non si aveva «con essa un linguaggio comune»; per questa mancanza di intesa la plebe diffidava dei patrioti (talvolta li vedeva come borghesi, come suoi nemici). Perciò, concludeva la Fonseca «ogni buon cittadino, cui per la comunione del patrio linguaggio, si rende facile il parlarle e 'l commischiarsi fra lei, compie con ciò opera non solo utile, ma doverosa».

Anche nella cultura i rivoluzionari dissacravano gli idoli, rompevano le scale di valori tipiche del senso comune culturale classico-moderato, cattolico, aristocratico, il dialetto era una scelta fatta per rigettare la vecchia cultura iniziatico-accademica ed era, soprattutto, funzionale ai progetti di istruzione pubblica rivoluzionaria. Esso ha toni razionali e severi o satirici, è rivolto a moltitudini di oppressi e indugia nel racconto di fatti scandalosi che corrono sulla bocca di tutti.
L'inno Su patriottu sardu a sos feudatarios di Francesco Ignazio Mannu (1758-1839) di Ozieri fu cantato la prima volta nella sollevazione sarda del 1796: pubblicato in Corsica, giunse poi clandestinamente in Sardegna. Il poeta illumina il popolo e lo esorta a muovere contro i feudatari e i «tirannos minores», ponendosi dal punto di vista del popolo-vittima: «estirpare sos abusos», «gherra, gherra a s'egoismu», «gherra a sa prepotenzia» e a «sos oppressores». Il Mannu interpreta lo stato degli oppressi e di tutta la patria sarda, illumina le ragioni della protesta (squilibri tra ricchezza dei feudatari e miseria generale, ingiustizia sostanziale), tocca il sentimento popolare, lo indirizza verso l'azione.

Questa «marsigliese sarda» giacobina fu scritta nella lingua comune agli oppressi della nazione sarda diventata schiava dei feudatari e dei loro ufficiali di giustizia; essa fa risaltare le usurpazioni delle terre comuni e dei villaggi da parte di poche famiglie di prepotenti, gli smisurati tributi che servono a mantenere il fasto, le amanti, le carrozze, i vizi dei baroni, le portantine e il lusso delle baronesse. Il contadino vassallo lavora tutto il giorno cibandosi meno del cane del padrone, i baroni s'imparentano con le famiglie ricche locali, rapinano oro, argento, tutte le risorse e perfino i più importanti documenti.

L'inno del Mannu conclude esortando a cogliere il momento favorevole e a ribellarsi. In esso si riflette il grande movimento isolano antifeudale e antipiemontese e i motivi della rivolta saranno sentiti come propri dai sardi anche nelle altre rivolte dell'Ottocento: così, ad esempio, nella rivolta nuorese dell'aprile del 1868 quando al grido di «a su connottu» («al conosciuto») contadini e pastori nuoresi si richiamavano alle usanze conosciute e improvvisamente sovvertite ma anche al concetto di «eredità e quasi di bene di famiglia».

Il radicalismo giacobino ha una potente espressione in Il Te Deum dei Calabresi (1797-1800) di Gian Lorenzo Cardone (1743-1813) di Bella in Basilicata. In Calabria la costituzione delle municipalità repubblicane fu spesso accompagnata dal canto del Te Deum e forse all'inutilità di tale prassi (considerato che la Provvidenza non vede e non sente: «Mó nun bidi mó nun senti?! | Vuoi durmiri eternamenti?!») si richiama ironicamente il Cardone che scrisse la seconda parte dell'inno dopo la caduta della Repubblica partenopea.

Cardone svuota il concetto di Dio provvidente e avente cura delle cose create, mette in evidenza il prevalere delle ingiustizie e l'innalzamento improvviso di uomini e donne conosciuti come viziosi e corrotti. Nel suo canto predominano l'ironia nei riguardi della divinità e il disprezzo della tirannide borbonica:
Chi si merita na funi,
fierru, focu, lampu e truonu,
Tu 'ngrannisci e Tui pirduni,
Granni Deu […]
Laudamu, laudamu lu Deu d'Abramu!

Nella seconda parte (1800) sono oggetto di satira l'onnipotenza e l'imperscrutabilità divine nonostante le quali hanno trionfato i sovrani disumani, Acton, il cardinale Ruffo, ministri di polizia, ladroni, traditori, prostitute: gli eletti sono «li mostri | na scrufazza ca nn'accidi, | Lazzaruni e Santafidi!» e quanti altri per i quali sarebbero necessari «...lu boia | cu nu fierru e na capizza!»); l'uomo giusto «campa affrittu e arruinatu», chi pratica la giustizia invece di andare avanti «va arreti».

Il canto di Cardone rappresenta la critica ideologica più avanzata e radicale al potere borbonico nei suoi connubi con altri poteri disumani, falsamente religiosi, soprattutto all'unione di trono e altare. Il moto rivoluzionario era stato abbandonato dalla borghesia con base terriera, la reazione sanfedista aveva trionfato ed esaltava con i lazzaroni la forca e il boia.
In Piemonte il torinese Edoardo Calvo (1773-1804) fin dai primi scritti scrolla da sé ogni impalcatura colta e va alla ricerca di modi discorsivi e quasi trascurati. Nei versi sulla vita di campagna esalta la semplicità e la santità della vita contadina e rifiuta i modi di quella cittadina. I versi sono recitati nella loro discorsività quasi sciatta ma il Calvo non bada agli autonomi valori letterari; eppure dalla densità degli oggetti ammucchiati nella descrizione delle attività della vita contadina emergono uno spessore e una concretezza che derivano da una visione reale.

Nel Passaport d'ij aristocrat, che fu il primo suo scritto in dialetto, Calvo esorta i patrioti repubblicani a liberarsi dai tiranni, ricorda ad essi in quali modi gli aristocratici (quegli stessi che, un secolo dopo, con letteraria nostalgia di decadente sopravvissuto Guido Gozzano esalterà col pianto estetico alla gola) hanno sfruttato e massacrato le classi dei poveri e dei lavoratori. Nei suoi ottonari Calvo collega il motivo dell'oppressione con quello della rivendicazione della libertà e della giustizia violenta: «Pendie tuit attacà un trav». Più tardi egli canterà nelle favole le speranze dei patrioti, le loro delusioni per il malgoverno dei Francesi.

Il quadro della cultura italiana di fine Settecento risulta incompleto se privo della specificità espressiva giacobina dialettale e rivoluzionaria che rappresenta un momento breve ed essenziale di democrazia popolare; momento eccezionale ed eroico in un paese che è stato sempre mantenuto nell'immobilismo e nella divisione dall'egemonia del predio e del guadagno esercitata dall'aristocrazia e dalla borghesia.

Il giacobinismo di fine Settecento, presentato dalla cultura ufficiale come una confusa proposta estremistica, settaria e avventuristica, non ebbe seguito per il frazionamento politico, per la profondità dello schieramento reazionario, per i limiti di conservazione che forze — le quali dovevano essere oggettivamente alleate — posero allo sbocco rivoluzionario. La critica avversa al movimento politico-culturale giacobino ha salvato, in sostanza, la facciata della vecchia letteratura e convalidate irrazionali preclusioni e paure.

Il Risorgimento italiano e la sua cultura non furono il superamento del 1799; nella vicenda risorgimentale sono i segni e le prove delle mancate soluzioni: le sopravvivenze politiche moderate, le conciliazioni e i trasformismi anche culturali. Dopo l'Unità tali residui patogeni si riveleranno ancora, in Italia, come elementi di mistificazione, anche se le altre nazioni avranno segnato una via di sviluppo moderno; in ogni caso in Italia giacobinismo e rivoluzione culturale saranno i bersagli di governi trasformisti, di regimi autoritari, della cultura accademica e di ogni pedagogia e dialettica ufficiale.

Gli avvenimenti rivoluzionari danno luogo a una letteratura dialettale o in lingua che esprime l'adesione alla causa giacobina o a quella controrivoluzionaria. Prima della venuta dei Francesi e della Repubblica partenopea a Napoli fu composto un Inno a S. Gennaro (1794) in cui si lamenta la povertà popolare:
In due regni così ricchi
dove piove ognor la manna
ci ha ridotti la Tirannia
a soffrir la povertà […]
Si vorrebbe far la guerra
con il popolo francese
che ci libera a sue spese
Nel 1794 in versi anonimi bergamaschi si ricorda a Venezia che se non si osservano i patti ogni suddito può diventare libero come in Francia:
A Venezia gh'è i Paroni
perché nu li avemo fati […]
No ve pare? No ve piase?
Gh'è i Francesi, recordeve.
Anche a Brescia si canta (1797) contro la tirannide di Venezia:
E i diritti conquistati
or dal Popolo sovrano
sosterrem colla spada alla mano,
col coraggio d'un libero cuor.
Nella stessa Venezia (1797) è condannato il governo oligarchico:
La politica severa
d'un antico reo dominio,
andò alfine in esterminio,
e si deve festeggiar.
A Genova si cantò L'indegno aristocratico per celebrare l'albero della libertà:
Or che innalzato è l'albero,
s'abbassino i tiranni,
da suoi superbi scanni
scenda la nobiltà […]
Già reso uguale e libero,
ma suddito alla legge,
è il popolo che regge:
sovrano ei sol sarà.
Molto diffusi furono nell'Italia meridionale i canti antigiacobini esaltanti il cardinale Ruffo («lo papa santu»), l'impiccagione di Eleonora Fonseca Pimentel:
A lu suono le campane
viva, viva li pupulane!
A lu suono de li violini,
sempre morte a' Giacobini!;

[...]
È venuto lo papa santu,
ch'ha portato li cannoncini
p'ammazzà li giacobini […]
È venuto lo francese
co no mazzo de' carte 'mmano:
liberté, égalité, fraternité,
tu rubbi a me, io rubbo a tte;

[...]
'A signora donna Dianòra
che cantava 'ncoppa 'o triato,
mo' abballa 'mmiez'o mercato […]
Viva 'a forca 'e Mastu Donato
Sant'Antonio sia priato.

La presenza francese in Italia ha profonde ripercussioni nella modificazione delle strutture sociali, nei rapporti fra le classi, nella creazione — attraverso i quadri amministrativi — di nuovi ceti sociali, nell'abolizione dei feudi, del patrimonio ecclesiastico. L'eversione dei feudi in Italia meridionale (1806) abolisce la vecchia e nuova aristocrazia terriera e crea una borghesia agraria che si sostituisce alla nobiltà acquistandone i possedimenti. La fondamentale beneficiaria dei mutamenti fu la borghesia, il popolo proletario rimase nella condizione di affamato di terra e di pane, i rapporti agrari rimasero quali erano.

Nella cultura correnti diverse si incrociano, italiane ed europee, vecchio e nuovo coesistono, idee moderne sono rivestite di espressioni antiquate. Gli esuli napoletani (Francesco Lomonaco, Francesco Saverio Salfi) sono intermediari importanti per la formazione di un ideale unitario italiano.

Salfi (1759-1832) cosentino visse a Napoli a contatto con gli illuministi e affrontò il problema del rapporto fra Stato e Chiesa (difesa dello Stato, ritorno alla religione apostolica) in un quadro di cultura intesa come capacità di intervenire nella realtà, di dare ordine alle idee, di creare principi razionali. Dopo la Rivoluzione francese l'abate Salfi diventò giacobino partecipando alla lotta politica anche con il suo teatro di ispirazione alfieriana: così in Corradino (1790), Virginia bresciana (1797), Pausania (1801).

Segretario del Governo provvisorio della Repubblica napoletana scampò al patibolo e fu esule nella Cisalpina e in Francia, a contatto con altri esuli di formazione illuministica e massonica insieme coi quali svolse attività clandestina. Dopo Marengo torna in Italia, insegna al ginnasio di Brera, nel 1814 è a Napoli, l'anno seguente a Parigi consigliere di Murat. Dalla Francia segue le vicende italiane, delinea il programma di una federazione italiana, nel 1831 prepara un movimento insurrezionale in Italia e scrive con Filippo Buonarroti un programma in cui è auspicato il sorgere dell'Italia «Repubblica una e indivisibile dalle Alpi al mare».

Illuminista, sensista, giacobino, patriota, Salfi colloca Telesio all'inizio della tradizione italiana di libero pensiero e vede Galilei come il grande attore del naturalismo progressista. Collaborò al Termometro, progettò una riforma dell'insegnamento medio, scrisse sul terremoto del 1783, continuò la Histoire littéraire d'Italie di Pierre-Louis Ginguené.

Vincenzo Cuoco (1770-1823) di Civitacampomarano nel Molise, esule scampato alla caduta della Repubblica napoletana, critica dal punto di vista della concretezza politica e dei suoi studi intorno a Machiavelli e Vico i rivoluzionari francesi e giacobini. Nel Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 (1801) Cuoco, studioso di diritto ed economia, contestava ai rivoluzionari la fiducia nelle teorie derivate «dalla più astrusa metafisica», la scarsa conoscenza delle condizioni del popolo, l'adesione dei giacobini a un modello straniero.

Cuoco indicava anche il distacco tra la minoranza rivoluzionaria e le esigenze delle plebi rimaste passive. Non già che Cuoco vedesse l'insufficienza del programma giacobino da cui era assente la riforma agraria (ed era naturale perché i capi giacobini moderati miravano a difendere la proprietà) ma perché il suo punto di vista era quello del moderato, legalista, riformista e gradualista borghese. Infatti lo storico propone una accorta educazione della coscienza popolare in senso nazionale, armonizzata con le tappe del rinnovamento politico.

Saranno queste le idee liberali della borghesia moderata, cattolica, fautrice di una nazione italiana avente la tradizione del primato morale e culturale e non necessitata a imitare le idee provenienti dalla Francia. I motivi nazionali rimasero anche nel Platone in Italia (1805), romanzo archeologico disorganico il cui tema è la formazione di una coscienza nazionale.