GALILEI, Galileo

DBI

Nacque a Pisa il 15 febbr. 1564 da Vincenzio e Giulia Ammannati.

I Galilei (detti così dal nome o soprannome d'un antenato, il cui cognome era Bonaiuti) appartenevano alla nobiltà fiorentina e la loro genealogia è nota dal secolo XIV. Esecutore e compositore di musica, teorico tra i maggiori del Cinquecento, Vincenzio trasmise doti e passione ai figli Galileo, virtuoso di più strumenti, e Michelangelo, musicista professionista. Dalla sua attività non trasse però redditi adeguati, sebbene l'integrasse col commercio di tessuti: le fonti parlano di ristrettezze o anche di povertà. Nel 1562, trasferitosi a Pisa, vi aveva sposato l'Ammannati. A Galileo seguirono Virginia (1573), Michelangelo (1575) e Livia (1578). Altri figli, Benedetto e Anna, morirono presto; vi fu forse un'altra sorella, Lena (Elena).

Fino al 1574 la famiglia rimase a Pisa, affidata durante le assenze di Vincenzio al cognato Muzio Tedaldi, e il G. v'iniziò gli studi. Entro la fine del 1574 i Galilei si trasferirono a Firenze, dove egli studiò lingue e letterature classiche forse con un J. Borghini, alle cui carenze avrebbe supplito con l'impegno personale (restano versioni da autori greci). V. Viviani, il cui Racconto istorico della vita di G. è fonte principale sulla sua infanzia e gioventù, parla del gusto di riprodurre macchine e congegni, annuncio della manualità tecnica del G. maturo, e ne esalta le doti per il disegno (forse dipinse anche per diletto). Nel 1578 il Tedaldi parlò dell'intento del padre di far frequentare al giovane l'Università di Pisa e si disse lieto che "haviate riavuto Galileo". La frase è stata collegata a studi con i padri vallombrosani: secondo Viviani il G. studiò logica con un membro dell'Ordine; una fonte lo dice ex novizio in S. Trinita, casa vallombrosana di Firenze; una afferma che aveva studiato a Vallombrosa, da dove il padre l'avrebbe tolto col pretesto di cure agli occhi. Questi studi sarebbero quindi avvenuti tra 1577 e 1578, ma l'ammissione al noviziato non poteva precedere il compimento del quindicesimo anno, e il periodo a Vallombrosa non trova conferme. Forse, per ragioni economiche, Vincenzio collocò il figlio come studente in S. Trinita lasciando credere che sarebbe entrato nell'Ordine, e frequentando la scuola conventuale da interno, in abito monastico, il G. poté essere ritenuto un novizio. Nel settembre 1581 s'immatricolò nel corso di arti della Sapienza pisana per conseguire la laurea in medicina, ritenuta dal padre mezzo d'innalzamento economico. Le modalità dei suoi studi sono mal note. Secondo Viviani non seguì i corsi di matematica, ma quelli filosofici di G. Borri, F. Buonamico, F. Verino, G. Libri (criticherà poi i primi due, e Libri contesterà le sue osservazioni telescopiche), e inizialmente quelli medici (con scarso impegno, nonostante la presenza di un A. Cesalpino). La tradizione lo dice già critico verso l'aristotelismo accademico, attribuendo la sua maturazione a vie non istituzionali: studio personale di testi aristotelici e platonici; loro confronto spregiudicato con dati osservativo-sperimentali; attitudine a porre in termini meccanici fenomeni dell'esperienza comune. Ancora secondo Viviani le oscillazioni d'un lampadario del duomo di Pisa gli suggerirono l'isocronismo dei pendoli; non v'è ragione di negarlo, anche se le prove sperimentali vennero dopo e se Viviani eccedette affermando che costruì allora un congegno (pulsilogio) per misurare tempi col conto delle oscillazioni. Per alcuni storici il periodo universitario spiega solo la conoscenza di dottrine che poi criticò, mentre altri lo considerano fonte di parte del suo bagaglio concettuale. Alla matematica il G. si avvicinò nel 1583 per influsso di O. Ricci, lettore della disciplina nell'accademia del disegno di Firenze e nella paggeria medicea. Secondo certe fonti Vincenzio, cultore di matematica, non l'aveva insegnata al figlio per non distoglierlo dalla medicina, e il G. dapprima gli nascose la svolta nei propri studi; il padre l'avrebbe poi lasciato libero nelle scelte, purché si rendesse presto indipendente. Il disinteresse per la medicina è un dato notevole; il G. lesse Galeno e poco altro, e le sue idee in biomeccanica non dipesero dalla tradizione medico-naturalistica. Nonostante l'assenza di prospettive e lo stato precario della famiglia, nel 1585 tornò a Firenze senza laurearsi.

Le modalità degli studi matematici influirono sulla sua attività scientifica. Tra 1583 e 1585 studiò gli Elementi euclidei (forse nell'edizione di N. Tartaglia) e Archimede (resta un esemplare annotato della princeps basileense del 1544). Poi lavorò a un commento all'Almagesto, approfondì Archimede e matematici recenti: la statica di F. Commandino e Guidobaldo Dal Monte, i commenti a Euclide e alla Sfera di J. de Sacrobosco del gesuita C. Clavio (C. Schlüsse; forse sua prima fonte su Copernico), la Sfera di A. Piccolomini. Studiò Apollonio e Pappo meno di Archimede, e forse non approfondì Diofanto e l'algebra da F. Viète in poi; l'approccio geometrico sarà in lui prevalente. Trascurò gnomonica e teoria del calendario ma non l'astrologia - pur antitetica alla sua idea di scienza - in parte per convenzione, in parte per richieste o per guadagno (restano le natività delle figlie e oroscopi per amici e autorità; nel 1604 una denuncia all'Inquisizione di Padova, che non ebbe corso, l'indicò come astrologo). In lui l'ottica, pur essenziale per il lavoro sul telescopio e per certe sue concezioni fisiche, fu soprattutto pratica (dirà oscura la Dioptrice di G. Keplero), e hanno scarso ruolo la trigonometria recente, certi metodi di calcolo (fu astronomo più "fisico" che "matematico"), i logaritmi. Resta da chiarire quanto ciò dipese da casualità, scelte o aspetti della cultura matematica a Firenze. Il G. dirà di aver dedicato più anni alla fisica che mesi alla matematica, ma insegnò la seconda e a essa dedicò i primi lavori (rimasti gli unici, a parte l'abbozzo di una riformulazione della teoria delle proporzioni). Si trattava di lemmi e teoremi sui centri di gravità di solidi (conoide parabolico, cono, piramide); di uno si conserva una copia del dicembre 1587, sottoscritta da amici e approvata da G. Moleto, matematico dell'Università di Padova. Nel 1586 costruì una "bilancia idrostatica", impiegata con modifiche fino a metà '600, corredata da uno scritto esplicativo (La bilancetta), pubblicato solo nel 1644, e da una Tavola delle proporzioni delle gravità in specie de i metalli e delle gioie pesate in aria ed in acqua. Il suo sperimentalismo matematico fu forse ispirato anche dal padre, che studiò la divisibilità dei semitoni con corde vibranti aventi pesi alle estremità. Se partecipò a queste ricerche la tesi della natura quantitativa delle qualità percettive, perno della sua epistemologia, poté derivare da suggestioni altrettanto tecniche che teoriche. Il lavoro non matematico più importante di quegli anni è un gruppo di testi denominato De motu antiquiora, raramente datati e talora stesi in più versioni; li si colloca attorno al 1590, durante l'insegnamento a Pisa, ma per alcuni si è pensato al 1586 o 1587. La loro data è rilevante per la genesi delle concezioni galileiane e per fissare il loro rapporto con altri scritti pure a lungo inediti, gli Iuvenilia dei mss. galileiani 27 e 46 della Biblioteca nazionale di Firenze.

Si tratta di parti trascritte dal G. di un corso di logica e di uno su De caelo e Physica di Aristotele, tenuti nel Collegio Romano dei gesuiti. La parte logica proviene dal corso di P. Valla nel 1587-88 o da un testo derivato; quella fisica ha forti corrispondenze in corsi degli anni 1580-1590. Gli Iuvenilia sono quindi datati prevalentemente nel 1589-90; secondo alcuni interpreti il G. vi inserì idee proprie, che sono però ancora aristoteliche; ne verrebbe che l'aristotelismo non fu solo oggetto delle sue critiche, ma origine delle sue concezioni, e che il De motu, più originale, non precederebbe il 1591. Tuttavia certamente galileiano è solo il De motu, che confuta tesi aristoteliche e analizza i moti "naturali" con concetti archimedei, non giungendo ancora a risultati validi e restando in parte tradizionale, ma prefigurando sviluppi successivi; non v'è prova che il G. conoscesse il tentativo analogo di G.B. Benedetti.

Ebbe anche interessi letterari. Tra 1587 e 1588 tenne due lezioni sul luogo dell'inferno dantesco nell'Accademia Fiorentina; ne fu membro prima del 1599, e nel 1605 fu ascritto alla Crusca. Scrisse versi berneschi Contro il portar la toga (da parte dei docenti), una traccia di commedia, uno scherzo in dialetto veneziano, sei sonetti. Le "Considerazioni al Tasso" e postille all'Orlando furioso mostrano una netta preferenza per Ariosto (lo conobbe quasi a memoria). Amò la letteratura dialettale veneta e Ruzante, e iniziò a tradurre la Batracomiomachia. Un capitolo in terzine Contro gli aristotelici, attribuitogli, è dell'allievo Jacopo Soldani; sue aggiunte alla canzone Per le stelle Medicee temerariamente impugnate di A. Salvadori passarono nella stampa.

Dal 1585 cercò l'indipendenza economica. Un documento del 1587 afferma che aveva insegnato nello Studio di Siena, e privatamente a Siena e Firenze. Dell'insegnamento pubblico non v'è traccia; del privato lo sono forse rapporti successivi con nobili senesi, e sue deposizioni circa il testamento di G.B. Ricasoli Baroni (1590-92) indicano in quest'ultimo un allievo fiorentino. Il G. visse a tratti in casa del Ricasoli - quasi suo coetaneo -anche come compagno di studi poetici e filosofici. Quando l'amico, preso da disturbi psichici, fuggì da Firenze, su richiesta dei familiari lo seguì (maggio 1589) fino a Lucca e Genova. Nacque per l'insegnamento privato un breve Trattato della sfera, edito postumo. Dal 1587 concorse a letture di matematica in varie sedi. Inviò i propri teoremi a diversi e li presentò al Clavio a Roma per averne l'appoggio per una lettura a Bologna; il gesuita sostenne G.A. Magini, ma la conoscenza ebbe un ruolo in seguito. Infine nel 1589 fu chiamato nell'Università di Pisa, dove iniziò le lezioni nel novembre e proseguì studi e ricerche sui baricentri dei solidi. Attorno al 1590 tracciò - forse per primo - la cicloide, e ne misurò l'area meccanicamente e con approssimazione; lavorò al De motu; dialogò con J. Mazzoni, filosofo non originale ma non dogmaticamente aristotelico e capace di informarlo su altre tradizioni, come la platonica. G. Mercuriale, docente di medicina autore di un trattato innovativo di ginnastica, destò forse il suo interesse per il moto animale, documentato in seguito. Viviani attesta un esperimento per controllare la tesi aristotelica della proporzionalità dei tempi di caduta dei gravi ai loro volumi; esso è parso dubbio, ma il De motu ne sconta implicitamente l'esito.

Il G. non considerò la lettura a Pisa come approdo definitivo, anche per l'esiguità del compenso; nel 1590 Dal Monte lo propose come successore di Moleto a Padova, al momento senza buon esito. L'insoddisfazione crebbe con la morte del padre nel 1591, che gli impose a lungo di sostentare la famiglia (una vertenza per la dote della sorella Virginia andò oltre il 1600). Ebbe screzi accademici, forse non solo dottrinali: nei versi sull'uso della toga mostrò insofferenza per i formalismi e gusto per i piaceri della vita. Ma fu forse decisivo il risentimento di Giovanni de' Medici per il parere negativo del G. su un suo congegno per dragare la darsena di Livorno (il Medici gli sarà poi contrario nella disputa sul galleggiamento). Nel 1592 Dal Monte gli suggerì d'andare a Padova per richiedere una cattedra; vi andò nell'estate e a fine settembre, malgrado la candidatura del Magini, padovano, ebbe la lettura di matematica per quattro anni rinnovabili per altri due, con provvigione annua (180 fiorini) modesta, ma maggiore di quella pisana. Al rinnovo nel 1599 ebbe provvigione doppia, e nel 1606 una di 520 fiorini, inconsueta per i matematici; nel 1609, dopo l'offerta del telescopio al governo veneto, verrà la conferma a vita con lo stipendio di 1000 fiorini. Iniziò i corsi nel dicembre 1592, seguendo una rotazione biennale: sfera e Elementi di Euclide; teoria dei pianeti (astronomia avanzata). Almeno un anno, però, trattò le Questioni meccaniche pseudoaristoteliche. Si è creduto che insegnasse anche fortificazione in base alle Brevi instruzioni all'arte militare (forse del 1593; scrisse pure un Trattato di fortificazione), ma poté trattarsi di un corso privato. Le testimonianze e gli aumenti retributivi provano che il suo insegnamento ebbe successo, ma esso fu quasi irrelato ai suoi studi e ricerche: in astronomia si attenne al geocentrismo (privatamente usò ancora il Trattato della sfera, fedele a Sacrobosco). Il trattatello Le mecaniche, forse scritto pure per corsi privati tra 1593 e 1599 (il testo conservato reca forse modifiche successive), riguarda la parte matematica della meccanica - statica e teoria delle macchine semplici - sulla scorta di Dal Monte.

Pur con tratti originali (dimostra la legge della leva diversamente da Archimede, considera situazioni statiche come limiti di quelle cinetiche, usa il concetto di "momento"), l'operetta non configura ancora una meccanica integrata. Gli scritti di fortificazione, che accennano appena ai temi balistici della meccanica galileiana evoluta, si sarebbero forse sviluppati col concretarsi (mancato) di due iniziative: tra 1603 e 1604 il G. trattò per divenire matematico del duca di Mantova Vincenzo Gonzaga (ruolo che avrebbe incluso l'ingegneria militare), e nel marzo 1610 concorse per la lettura di matematica nell'Accademia Delia di Padova, riservata ad aspiranti alla carriera delle armi (rimane il programma che presentò; gli fu preferito il nobile padovano Ingolfo Conti).

Fino al 1604 si occupò di astronomia in modo didattico e ristretto all'analisi classica dei moti orbitali: non v'è traccia di osservazioni pianificate o lavori avanzati. Un mutamento fu prodotto dalla supernova di quell'anno, cui dedicò tre lezioni, ponendola con misure parallattiche tra le stelle, che l'aristotelismo diceva immutabili. Il metodo, non nuovo, fu respinto dai filosofi universitari, ligi alla cosmologia aristotelica; nel Discorso intorno a