G. Fornero, S. Tassinari

Le filosofie del Novecento

Il marxismo dopo Marx e la Scuola di Francoforte (pp. 411-590)

15. Il marxismo dopo Marx

1. Marx, il marxismo, i marxismi

Aveva qualche ragione Marx allorché, un anno prima della morte, conversando con il genero Paul Lafargue, si trovò a esclamare: «quello che è certo è che io non sono marxista». Nel diffondersi di termini come questo, egli avvertiva il rischio di apparire come il capo di una setta e, soprattutto, di veder cristallizzate in dogmi immutabili e astratti le sue teorie, a indicare le quali egli preferiva la denominazione di "socialismo materialista critico". La storia ha voluto, invece, che il termine "marxismo", proprio a partire dagli anni ottanta del XIX secolo, cominciasse a essere usato con sempre maggior frequenza dai seguaci di Marx e di Engels, fino a diventare designazione universalmente riconosciuta dell'insieme delle teorie marxiane ed engelsiane, quali venivano interpretate, discusse e sviluppate all'interno dei movimenti e dei partiti socialisti che aderivano alla Seconda Internazionale dei lavoratori nata a Parigi nel 1889.

Questa è, del resto, la sorte cui è difficile possano sfuggire teorie o messaggi destinati a dar vita a un movimento di idee diffuso in mezzo a grandi masse di uomini, e a fissarsi in vere e proprie forme istituzionali. Anche il pensiero di Marx, divenuto, fin dall'ultimo decennio dell'Ottocento, la "dottrina" ufficiale di gran parte del movimento operaio socialista moderno, non poteva, dunque, non confondersi con il "marxismo" e con la storia travagliata e drammatica delle sue interpretazioni, spesso assai diverse tra loro.

Piuttosto, non di marxismo si dovrebbe parlare, quanto di "marxismi", tanto differenti sono le interpretazioni e gli sviluppi del pensiero marxiano: fin dalla fine dell'Ottocento, al "revisionismo marxista" di Bernstein si oppone il "marxismo ortodosso" di Kautsky, che, a sua volta, doveva essere combattuto dal "marxismo rivoluzionario" di Rosa Luxemburg e di Lenin. Per non dire degli sviluppi successivi, dal Diamat (materialismo dialettico) sovietico dell'età staliniana, vera e propria filosofia ufficiale del mondo comunista raccolto intorno all'Urss, al marxismo di Mao Tse-Tung, fino alle diverse forme di "marxismo occidentale" sviluppatesi in Europa negli anni venti del secolo scorso e in quelli successivi, e, ancora, nei lunghi decenni che seguono la fine della seconda guerra mondiale.

Durante questo lungo cammino, l'eredità del pensiero di Marx e di Engels viene incrociandosi con le diverse culture non marxiste che dominano in Europa nei vari periodi storici e che inevitabilmente intervengono a "inquinare" l'originario patrimonio di idee marxiane ed engelsiane. Sullo stesso Engels opera una forte suggestione il clima positivistico europeo, che favorisce la tendenza del principale collaboratore di Marx a inquadrare il materialismo storico e il socialismo scientifico in una più vasta prospettiva filosofica che abbraccia in una medesima concezione mondo della natura e mondo della storia, concezione che, pur mantenendosi fedele a un metodo dialettico di ascendenza hegeliana, non è insensibile ai richiami dell'evoluzionismo positivistico.

Del resto, gran parte del marxismo dell'età della Seconda Internazionale (1889-1914) è imbevuto di cultura positivistica, tanto da andare - immemore della lettura dialettica della realtà che era stata degli "hegeliani" Marx ed Engels - a scuola di darwinismo e di naturalismo scientista, proiettando sui processi storici della società il determinismo biologico della lotta per l'esistenza e della selezione naturale. L'esempio più eloquente di questa "contaminazione" è rappresentato da Karl Kautsky, il maggiore teorico della socialdemocrazia tedesca, collaboratore di Engels e fondatore, nel 1883, della più importante rivista teorica socialista dell'epoca, "Die neue Zeit".

Lo stesso iniziatore del cosiddetto "revisionismo marxista" di fine Ottocento, Eduard Bernstein, pone al centro della propria riflessione il concetto di "evoluzione", soggiacendo così alla metodologia adialettica con la quale il positivismo assu me e assolutizza i dati dell'osservazione empirica.

L'influenza positivistica non è peraltro l'unica operante in questo periodo, anche se è sicuramente quella prevalente. Sul marxismo primonovecentesco esercita una non marginale incidenza anche il filone neokantiano del pensiero tedesco, sviluppatosi fin dagli anni settanta dell'Ottocento. Già in Bernstein sono presenti riferi menti, anche se non del tutto esplicitati, all'etica kantiana, che sarebbe stata più tardi un punto di riferimento essenziale per l'austromarxismo dei primi anni del Novecento. Mentre è a partire dal 1905, l'anno della prima Rivoluzione russa, che va lentamente riemergendo nel marxismo il riferimento alla dialettica hegelo-marxiana, destinata a essere recuperata soprattutto a opera di Lenin.

Il dibattito teorico che coinvolge in quest'epoca i maggiori esponenti del marxismo non deve essere considerato alla stregua di un semplice confronto fra intellettuali, interessante solo per la storia del pensiero politico e filosofico: in realtà in esso si riflettono i problemi, le esigenze e anche le contraddizioni che, coinvolgen do grandi masse di individui, maturano all'interno del movimento operaio internazionale, nei partiti socialisti nazionali e in particolare nella socialdemocrazia tedesca alla quale, per la sua forza organizzativa e sindacale e per i grandi successi elettorali ottenuti a partire dagli anni novanta, era riconosciuto ormai da tutti gli altri partiti fratelli il ruolo-guida del socialismo internazionale.

2. La Seconda Internazionale

A differenza della Prima Internazionale dei lavoratori (1864-76), la Seconda Intemazionale, a partire soprattutto dal congresso di Londra del 1896, nel quale sono espulsi gli anarchici, si presenta come un'organizzazione ideologicamente omogenea, costituita da partiti socialisti che si vanno orientando verso il marxismo. A cominciare dal partito socialdemocratico tedesco il quale, fin dal congres so di Erfurt del 1891, si era dato un programma fondato sull'adesione ai princìpi del marxismo, che aveva avuto anche l'autorevole approvazione di Engels.

I primi anni di vita dell'Internazionale sono segnati da un lato dallo straordinario sviluppo del movimento socialista (i principali partiti socialisti europei nascono tra il 1882 e il 1894), dall'altro dal perdurare di una grave crisi dell'economia internazionale - la "grande depressione" - che sembra preludere al crollo del sistema capitalistico.

A questo primo succede un secondo periodo, a partire dalla metà degli anni no vanta dell'Ottocento, durante il quale, nonostante il proseguire dello sviluppo e dei successi propagandistici e organizzativi del movimento operaio in quasi tutti i paesi europei e negli stessi Stati Uniti, le sorti dell'economia capitalistica vengono profilandosi assai diversamente da come si era potuto prevedere negli anni prece denti. La crisi economica si è conclusa e il capitalismo mostra un nuovo vigore e grandi potenzialità di sviluppo produttivo nonché capacità di espansione mondia le; le speranze di un suo crollo imminente svaniscono, e così il movimento operaio deve prepararsi a una lotta ben più lunga, nella quale la meta finale del socialismo si allontana nel tempo, lasciando sempre maggior spazio agli obiettivi più immediati della tutela delle condizioni di vita e di lavoro delle masse operaie, e dell'ottenimento di leggi e riforme favorevoli agli interessi dei lavoratori. Le lotte rivendi cative sindacali e l'azione dei socialisti nei parlamenti nazionali finiscono con l'assumere un rilievo sempre più consistente nei programmi concreti della socialdemocrazia tedesca e dei partiti socialisti degli altri paesi.

È in questo clima che, non casualmente, si apre nel partito tedesco lo scontro tra posizioni revisionistiche che propongono, più o meno scopertamente, la rinuncia agli obbiettivi rivoluzionari e la trasformazione, anche sul piano teorico, della socialdemocrazia tedesca in un partito riformista e democratico-socialista, e concezioni ortodosse che difendono i princìpi della lotta anticapitalistica e gli obiettivi strategici della rivoluzione socialista. Ma nella realtà dei fatti, al di sotto di questo dibattito apparentemente soltanto teorico, la socialdemocrazia si viene trasformando, per la natura delle scelte quotidiane, proprio in quel partito riformista e parlamentare che il revisionismo viene proponendo.

Con la rivoluzione russa del 1905 si apre la terza e ultima fase della vicenda della Seconda Internazionale, che si conclude con l'inizio della prima guerra mondiale. Nonostante gli esiti fallimentari, il tentativo in Russia ha dimostrato il grande potenziale di energie rivoluzionarie presenti nel proletariato, in un paese caratterizzato da un recente sviluppo capitalistico, e, del resto, i grandi scioperi e le crescenti lotte operaie che si verificano anche nei paesi occidentali, sembrano confermare l'attualità della prospettiva rivoluzionaria socialista. Il riemergere, a cominciare dal 1907, di un'acuta crisi economica internazionale rafforza nel movimento socialista le posizioni antiriformiste e, anche sul terreno dello scontro teorico, acquistano sempre più credito le proposte rivoluzionarie, che trovano nella Luxemburg e in Lenin i loro esponenti più autorevoli.

L'aprirsi nel 1914 del conflitto mondiale produce la drammatica crisi dell'Internazionale. Quasi tutti i partiti socialisti europei, e comunque le maggioranze dei loro gruppi dirigenti, aderiscono alle scelte belliche dei rispettivi governi borghesi, venendo meno alle posizioni pacifiste e antiimperialiste più volte riaffermate nei congressi dell'Internazionale. Le lacerazioni provocate da queste vicende sarebbero state rese ancora più profonde nell'ultimo anno di guerra e, soprattutto, negli anni tempestosi del dopoguerra, in seguito al trionfo della Rivoluzione bolscevica in Russia.

La fondazione della Terza Internazionale e la spaccatura, in tutti i paesi, tra socialdemocratici o socialisti e comunisti avrebbero inaugurato una nuova epoca nella storia del movimento operaio internazionale.

3. Kautsky, il maestro della socialdemocrazia

Kautsky è, senza alcun dubbio, il più autorevole interprete del pensiero marxiano nell'età della Seconda Internazionale. Attraverso i suoi scritti e in particolare la sua rivista, "Die neue Zeit", egli esercita una vasta influenza e una grande autorità sul pensiero socialista europeo almeno fino alla vigilia della prima guerra mondiale, tanto da essere indicato dagli avversari, ma anche dagli stessi socialisti, come il "papa rosso".

Della sua opera di marxista è stata creata un'immagine non del tutto corrispondente alla realtà, come di un interprete dogmatico del pensiero di Marx e di Engels, responsabile di una sua cristallizzazione entro una rigida dottrina sistematica, non suscettibile di alcun movimento interno. Kautsky ebbe a ribellarsi a quest'immagine di custode dell'ortodossia marxista, e negli scritti autobiografici della vecchiaia avrebbe rifiutato l'interpretazione che lo voleva far apparire «come uno che giura sulla parola del maestro e non vuol sentir altro, a differenza degli spiriti liberi». Il che non sarebbe neanche possibile, dato che

il marxismo non è venuto al mondo come un dogma, una volta per tutte stabilito, ma come una concezione che è nata in relazione all'osservazione della realtà e che con questa si sviluppa grazie ai metodi dell'osservazione. Dal Manifesto dei comunisti del 1847 fino all'ultimo articolo di Engels nel 1895, il pensiero dei nostri maestri ha subito molti mutamenti. Questo semplice fatto impedisce ogni ortodossia. E una simile ortodossia non era in nessun modo possibile dopo la loro morte, poiché erano emersi nel mondo tanti problemi, di cui Marx ed Engels non avevano potuto saper nulla, e che noi abbiamo dovuto risolvere autonomamente.

Karl Kautsky nasce nel 1854 a Praga. Iscrittosi nel 1871, l'anno della Comune di Parigi, all'Università di Vienna, aderisce, sotto la suggestione degli accadimenti parigini, agli ideali del socialismo, mentre la lettura del Capitale di Marx, ma soprattutto dell'Anti-Dùhring di Engels, contribuiscono, sul finire degli anni settanta, alla sua adesione al marxismo. Di fianco all'influenza esercitata, in modo particolare dallo spirito sistematico engelsiano e dalla sua ambizione di una visione complessiva della realtà, risulta di rilevanza fondamentale il fatto che, alla lettura dei testi di Marx e di Engels, egli giunga dopo aver subito il fascino delle idee del darwinismo, in particolare quelle di Ernst Haeckel. Nel corso degli anni ottanta egli elabora, dunque, una concezione marxista nella quale confluisce l'evoluzionismo darwiniano, in una sorta di sintesi che è responsabile dei due caratteri che segnano il suo modo di intendere i processi sociali. Da un lato egli accentua il carattere oggettivo e "naturale", deterministico, delle leggi dei mutamenti sociali, e pertanto considera la fine del capitalismo e l'avvento della società socialista come prodotti inevitabili e "fatali" della storia. Dall'altro, il passaggio dal capitalismo al socialismo non viene inteso come risultato di una rottura rivoluzionaria violenta, bensì come l'esito di una graduale "evoluzione". E così, per la prima di queste due tesi, il marxismo di Kautsky si sarebbe rivelato irriducibile alle conclusioni del revisionismo; per la seconda, esso si sarebbe distinto dalle posizioni della sinistra rivoluzionaria, occupando così, nella storia del socialismo secondinternazionalista, una posizione, per così dire, "centrista". Kautsky vi perviene attraverso un'operazione teoretica assai rilevante: la sostituzione dell'interpretazione dialettica di origine hegeliana, che Marx ed Engels avevano proposto del movimento storico-sociale, con una lettura di esso in chiave di evoluzionismo sociale di ascendenza positivistica. Ma così la forte sottolineatura che Marx ed Engels (più Marx che Engels) avevano fatto della soggettività della classe operaia come agente della storia, insieme al riconoscimento della rottura intrinseca al processo rivoluzionario - la negazione dialettica, appunto - vengono come messi tra parentesi, a tutto vantaggio dell'oggettività e della gradualità dei processi.

Si può capire, allora, la permanente ostilità di Kautsky per ogni tipo di soggettivismo volontaristico (da quello del sindacalismo rivoluzionario alla teoria luxem-burghiana dello sciopero politico di massa, fino alla forzatura leninista dell'ottobre del 1917), in cui egli scorge sempre il rinnovarsi di devianti tentazioni blanquiste. Si è detto che, per sfuggire a questo errore, Kautsky sarebbe a sua volta caduto nell'errore opposto dell'"attendismo rivoluzionario", ossia nel ritenere che il momento rivoluzionario del trapasso dal capitalismo al socialismo dipenda dalla ma turazione oggettiva delle condizioni sulla quale sarebbe ininfluente l'intervento della volontà degli uomini. Compito del proletariato sarebbe, nel frattempo, quello di "organizzarsi e attendere". Insomma, la preminenza riconosciuta alla categoria della necessità nella prospettazione della «vittoria finale del proletariato», induce Kautsky a lasciare questo esito sullo sfondo di un futuro lontano. Come dire: ciò che comunque avverrà, non lo si deve affrettare. Nel Catechismo rivoluzionario (1893), così si legge:

Noi sappiamo che i nostri obbiettivi possono venir raggiunti solo mediante una ri voluzione, ma sappiamo anche che è tanto poco in nostro potere fare questa rivolu zione quanto è in potere dei nostri avversari impedirla. Pertanto, non ci passa nean che per la mente di voler provocare o preparare una rivoluzione. E poiché la rivo luzione non può essere fatta a nostro arbitrio, non possiamo dire assolutamente nul la circa il tempo, le condizioni e le forme in cui essa avverrà.

È in questa dimensione che si colloca la concezione kautskyana del partito. Il com pito che viene attribuito al partito è quello di far vivere e di alimentare il «finali smo rivoluzionario» che mai potrebbe scaturire dalla spontaneità della coscienza dei proletari. Questi, che pure subiscono lo sfruttamento e sperimentano quotidia namente l'antagonismo di classe, non sarebbero mai in grado, da soli, di innalzarsi a una visione globale dello sviluppo sociale, necessaria per rendere agibile l'obietti vo del socialismo. Una siffatta visione può essere elaborata e offerta alla lotta di classe del proletariato solo dall'esterno, ossia dal lavoro della scienza sociale svolto dagli intellettuali. Compito del partito è appunto di promuovere la sintesi di que ste due componenti: il proletariato che subisce lo sfruttamento capitalistico da un lato, e l'intellettuale che fornisce gli strumenti per comprendere scientificamente l'origine dello sfruttamento, ponendo così le premesse del suo superamento, dal l'altro.

Nell'assolvere a questa sua funzione il partito non può eludere il problema di quale atteggiamento assumere di fronte alle lotte per le riforme all'interno del siste ma capitalistico. Contro il revisionismo di Bernstein, Kautsky nega che la prospetti va dell'emancipazione proletaria possa essere conclusa entro l'orizzonte di riforme migliorative del sistema sociale vigente, e ritiene che la socialdemocrazia debba es sere il partito della rivoluzione sociale che abolisce la proprietà privata dei mezzi di produzione. Questo non comporta, però, indifferenza nei confronti delle lotte per le riforme, come anche di quelle sindacali, attraverso le quali la classe operaia pren de coscienza e guadagna fiducia nelle proprie possibilità, sviluppa il senso dell'or ganizzazione e la solidarietà di classe, migliora, nel caso di successi anche parziali, le proprie condizioni di esistenza e, più in generale, si prepara alla scadenza rivolu zionaria. Anche perché la guida del partito consente di neutralizzare il rischio, pre sente nelle lotte sindacali e politiche quotidiane, di un'integrazione della classe operaia nella società capitalistica. Per ovviare a questa pericolosa eventualità, Kautsky insiste nel sostenere che le riforme devono essere imposte ai governi in virtù di un'opposizione intransigente del proletariato, indisponibile a ogni intesa con le altre forze politiche e sociali che possa menomarne l'autonomia.

Il luogo centrale intorno a cui ruota il pensiero kautskyano riguarda il problema dei rapporti tra democrazia e socialismo, nell'affrontare il quale Kautsky prende le distanze da Marx. Egli si oppone alla teoria del crollo economico del capitalismo quale prologo della rivoluzione socialista, e pensa piuttosto che la crisi del capitali smo sia destinata a consumarsi sul terreno sociale e politico perché provocata, sì, dal radicalizzarsi dei conflitti di classe, ma anche dall'incapacità del capitalismo stesso, che con il prevalere del capitale finanziario e dei monopoli si va facendo sempre più aggressivo e autoritario, di conciliare i propri interessi con l'accettazio ne del sistema democratico. La democrazia come sistema di regolazione dei rap porti politici fondato sulle istituzioni parlamentari, sul suffragio universale e sul ri spetto della maggioranza, sarebbe insomma destinata a sostanziarsi sempre di più di valori proletari, al punto che Kautsky giunge a teorizzare la via parlamentare al socialismo. All'indicazione marxiana della dittatura del proletariato, contenuta nel la Critica del programma di Gotha, egli sostituisce l'idea della conquista da parte del proletariato, attraverso la competizione elettorale, della maggioranza parlamen tare, che permetta un uso della discussione democratica in funzione del processo di trasformazione socialista della società.

Già nello scritto del 1892 nel quale commentava il Programma di Erfurt, Kautsky aveva rifiutato la contrapposizione tra democrazia diretta e sistema rap presentativo dello stato moderno, sostenuta da Marx negli scritti sulla Comune di Parigi. Egli afferma, contro la tesi della distruzione dello Stato parlamentare mo derno in vista dell'edificazione di uno Stato interamente nuovo del proletariato, che il sistema rappresentativo parlamentare è da considerarsi esito irreversibile del l'evoluzione istituzionale moderna, valevole anche oltre l'epoca del dominio politi co borghese. A questa convinzione Kautsky rimarrà sempre fedele, facendone anzi uno dei motivi fondamentali della sua polemica antibolscevica, dopo la rivoluzione leninista del 1917.

Rifacendosi alla celebre prefazione di Engels del 1895 alle Lotte di classe in Francia di Marx, egli si era venuto convincendo, fin da quegli anni, che la via alla rivoluzio ne socialista sarebbe stata pacifica e non insurrezionale, segnata da grandi lotte so ciali e politiche di massa, accompagnate dall'azione parlamentare del partito. Forme eventuali di violenza sarebbero state di natura difensiva, e sarebbero dipese dal tipo di resistenza opposta dalla classe dominante all'avanzata del movimento proletario.

È vero che nel 1905, l'esplosione della rivoluzione in Russia e l'organizzazione di scioperi di massa in diversi paesi europei occidentali sembra far tornare di attua lità, anche nell'Occidente sviluppato, quelle forme di iniziativa rivoluzionaria vio lenta che Engels nella succitata prefazione aveva considerate non più attuali, tanto che Kautsky viene in qualche modo correggendo la propria visione della prospetti va rivoluzionaria, immaginando possibile uno scontro anche armato tra movimen to operaio e Stato capitalistico. Ma si tratta soltanto di un momento, destinato pre sto a tramontare. Kautsky sarebbe rimasto fedele per sempre alla concezione non violenta del processo rivoluzionario, come dimostra la polemica antiluxemburghia- na che egli conduce negli anni precedenti il conflitto mondiale. Alla rivoluzionaria polacca, che sostiene la proponibilità anche in Germania di un'azione rivoluziona ria simile a quella russa del 1905 che culmini nello sciopero politico di massa, Kautsky risponde proponendo una paziente «strategia di logoramento» del potere capitalistico, da condurre mediante l'azione parlamentare, le rivendicazioni salaria li e le pacifiche dimostrazioni di strada.

In questi stessi anni egli sottopone ad analisi il fenomeno dell'imperialismo nei suoi rapporti con lo sviluppo monopolistico del capitalismo. A differenza di Lenin che concepisce l'imperialismo come intrinseco alla stessa natura del capitalismo, Kautsky ritiene che esso sia espressione di una sola componente del capitalismo, riconosciuta nel grande capitale finanziario, violento e aggressivo, a cui si oppor rebbe però gran parte del capitalismo industriale, interessato allo sviluppo pacifico dell'economia e ad amichevoli rapporti internazionali. Da questa convinzione egli trae ottimistiche prospettive per il successo di una politica di disarmo che la social democrazia dovrebbe sostenere con le proprie battaglie pacifiste. L'esplosione del la guerra e il fallimento dell'Internazionale socialista avrebbero smentito queste previsioni; Kautsky, avverso alle scelte collaborazioniste della maggioranza del Partito socialdemocratico tedesco, ne sarebbe uscito per aderire nel 1917 al Partito socialdemocratico indipendente.

Negli anni del dopoguerra fino, si può dire, alla morte, sopraggiunta nel 1938, l'ex capo del movimento operaio internazionale investe tutte le sue energie nella polemica, violentissima, contro la Rivoluzione bolscevica e l'opera di Lenin, nei confronti delle quali, per la verità, egli non aveva nascosto, inizialmente, un moto di simpatia. In due saggi, La dittatura del proletariato (1918) e Terrorismo e comu nismo (1919), Kautsky, che nel 1922 sarebbe rientrato nei ranghi del Partito social democratico tedesco, conferma nettamente la propria idea del nesso indissolubile tra democrazia parlamentare fondata sul suffragio universale e socialismo.

Kautsky scorge nello scioglimento dell'assemblea costituente decretato dal go verno bolscevico agli inizi del 1918, l'avvio della rivoluzione leninista verso esiti autoritari e antidemocratici che presto l'avrebbero trasformata in un regime dispo tico fondato sull'annientamento terroristico degli avversari e sulla dittatura, non del proletariato bensì sul proletariato, di una minoranza costituita da «una nuova classe di funzionari» destinata a dar vita a una nuova forma di "cesarismo".

La risposta di Lenin e Trockij non si sarebbe fatta attendere; essi avrebbero ad ditato in Kautsky un "rinnegato" e un "traditore": in realtà il suo antibolscevismo era, nella sostanza, in una linea di coerenza con il suo passato di teorico della rivo luzione socialista nella quale la "dittatura del proletariato" veniva fatta coincidere con la conquista della maggioranza nel parlamento e nella società da parte del proletariato.

Non si può però nascondere che il Kautsky degli anni venti e trenta ha fatto regi strare spostamenti in senso più moderato del proprio pensiero politico. Per esem pio, egli non sostiene più l'idea che democrazia e socialismo coincidano, e si con vince che la lotta per la "repubblica democratica" rappresenti un primo momento che deve essere distinto da quello successivo della lotta per il socialismo. Kautsky, che aveva sempre rifiutato ogni prospettiva di collaborazione della socialdemocra zia con i partiti e i ceti borghesi, ammette in quel primo momento la possibilità di governi di coalizione cui i socialdemocratici possano partecipare. Di fronte al trionfo anche in Germania del modello totalitario fascista, egli avrebbe sostenuto che l'obiettivo della lotta antifascista doveva essere il ristabilimento della democrazia politica e non l'immediata realizzazione del socialismo.

Negli anni della vecchiaia Kautsky ripudia anche importanti luoghi teorici di Marx e del marxismo, in cui ritrova soltanto nuclei di astratto utopismo, incompa tibili con una concezione autenticamente scientifica. Nel secondo volume, pubbli cato nel 1927, della sua opera monumentale, La concezione materialistica della sto ria (la cui prima parte era apparsa nel 1891), egli rifiuta l'idea dell'estinzione dello Stato nella società comunista: il superamento della divisione della società in classi non farebbe venir meno la divisione del lavoro e, di conseguenza, la necessità di un'organizzazione amministrativa della società di cui lo Stato rappresenta l'istituto fondamentale. Avendo rifiutato anche la teoria del "crollo" del capitalismo che, se condo la tradizione marxista, avrebbe dovuto spianare la strada al socialismo, egli attribuisce allo Stato democratico moderno, sorto dalla rivoluzione borghese, fun zioni di intervento anche nell'organizzazione democratica, all'interno della nuova società, della produzione e della distribuzione della ricchezza.

4. Bernstein, il revisionista

Eduard Bernstein è una delle figure più significative del socialismo della Seconda Internazionale. Iscritto al Partito socialdemocratico fin dal 1872, collaboratore di Marx ed Engels, che lo avrebbe designato proprio esecutore testamentario, più volte deputato al Reichstag, il suo nome è però ormai indissolubilmente legato agli anni tra il 1896 e il 1903, quando si accende all'interno della socialdemocrazia te desca il dibattito intorno alle sue proposte di revisione radicale del marxismo in senso riformistico e anticlassista.

Un anno dopo la morte di Engels, nel 1896, Bernstein pubblica su "Die neue Zeit" una serie di articoli intorno ai Problemi del socialismo, che nel 1899 raccoglie in un volume dal titolo I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemo crazia. In questi scritti Bernstein intende mettere in luce l'infondatezza filosofica, sociologica ed economica dell'idea marxista di rivoluzione, con lo scopo di porre fine al dualismo, caratteristico della socialdemocrazia tedesca, tra l'enunciazione di una teoria rivoluzionaria e una pratica reale di stampo, invece, riformistico.

Per la verità, Bernstein dichiara inizialmente di voler proporre non già un revi sionismo antimarxista bensì un «revisionismo nel marxismo», che sia in grado di correggerne alcuni aspetti, e questo in nome del rifiuto che gli stessi Marx ed Engels avevano sempre proclamato nei confronti di «tutti gli edifici utopistici co struiti in base a princìpi astratti»,2 non confermati dal movimento reale delle cose. E così egli irride quella tendenza presente nel marxismo a fare dei propri princìpi una sorta di «rivelazione divina, in sé conclusa fin dal primo giorno e che era, è e sarà in eterno come al principio di tutte le cose»,3 in contrasto con lo stesso carat tere più autentico del marxismo di essere il prodotto della pratica concreta del mo vimento operaio, aperto a tutti i rinnovamenti richiesti dal modificarsi delle situazioni storiche.

In realtà, il revisionismo bernsteiniano, per la radicalità con cui mette in discus sione i fondamenti stessi della teoria marxista (dal principio della lotta di classe al l'idea della rivoluzione, fino ai princìpi del materialismo storico), finisce con l'assu mere il senso di una vera e propria liquidazione del marxismo. Come tale lo avreb bero giudicato, respingendolo, i più autorevoli, e tra di loro assai diversi, esponenti del socialismo secondinternazionalista, da Kautsky a Plechanov (fondatore e primo teorico della socialdemocrazia russa), dalla Luxemburg a Lenin.

L'intero discorso di Bernstein prende avvio dal rifiuto del carattere scientifico del socialismo, considerato piuttosto come una prospettiva dettata principalmente da esigenze morali. Non che egli intenda negare la presenza in esso di alcuni ele menti scientifici, ben individuati da Marx nella teoria del valore o in quella della produzione; questo però non cancellerebbe il fatto che il socialismo è innanzitutto un ideale etico, l'espressione di ciò che gli uomini desiderano e vogliono, come la giustizia, la fine dello sfruttamento e dell'oppressione e così via. Sotto l'influenza del neokantismo, che andava prendendo piede all'interno della socialdemocrazia, Bernstein sottolinea l'importanza della volontà morale nella determinazione dei fini del socialismo e nega di conseguenza che questo sia frutto di un processo ne cessario della storia, scientificamente predeterminabile.

Avverso alla dialettica hegeliana («ciò che Marx ed Engels hanno prodotto di grande, l'hanno prodotto non grazie alla dialettica hegeliana, ma malgrado essa»),4egli lo è altrettanto nei confronti dell'evoluzionismo deterministico di Kautsky, so stenendo che il socialismo, lungi dall'essere l'esito necessario e inevitabile della cri si finale del capitalismo, è nient'altro che una possibilità, alimentata nel cuore delle masse proletarie dalla sua alta desiderabilità etica.

Bernstein è convinto che tutta una serie di proposizioni marxiste siano state bru talmente confutate dallo sviluppo economico e sociale intervenuto nella più recen te storia del capitalismo. Innanzitutto la progressiva concentrazione delle imprese industriali non ha portato con sé una corrispondente concentrazione dei patrimo ni, poiché, anzi, è aumentato sia in senso assoluto sia in senso relativo il numero dei possidenti, soprattutto per il diffondersi delle società per azioni. In secondo luogo, è stata smentita la previsione marxiana della scomparsa dei ceti medi; lungi dall'estinguersi, essi mostrano una forte capacità di sopravvivenza, e anche nel set tore produttivo siamo ben lontani dalla scomparsa delle piccole e medie imprese. Pertanto, occorre liberarsi dell'idea marxiana di una progressiva polarizzazione della società in due classi antagoniste, destinate a una guerra sociale culminante nella rivoluzione. Tanto più che si è dimostrata anche errata la previsione di una crescente pauperizzazione della classe operaia, anch'essa considerata come origine dell'acuirsi dei conflitti di classe. Soprattutto si è rivelata infondata la prospettiva del crollo e, comunque, di una crisi finale del capitalismo. In realtà, lo sviluppo dei trust e delle altre forme di monopolio e di alleanza tra le diverse imprese, così come l'estendersi del credito, consentono oggi al capitalismo, se non di rendere impossibili le crisi, di ridurne sensibilmente la portata e di controllarle.

In forza di questi dati empirici, raccolti da un'analisi fattuale del movimento del la società, Bernstein rifiuta le concezioni rivoluzionarie del socialismo, in nome di un gradualismo riformistico secondo il quale la società capitalistica sarebbe in gra do di consentire, senza per questo dover essere messa in discussione, lo sviluppo al proprio interno del socialismo. La maturazione di rapporti socialisti di produzione si produrrebbe lentamente e senza "salti", in un lungo periodo di sviluppo, analo gamente a come i rapporti capitalistici di produzione si sono venuti formando a poco a poco nell'ambito della società feudale. In questa prospettiva, Bernstein at tribuisce allo Stato un compito di controllo dell'economia che ne esalterebbe pro gressivamente la funzione sociale.

Si capisce, allora, perché egli contrapponga alla rivoluzione le riforme, all'autoi- solamento del partito socialdemocratico, voluto dal rigido classismo della tradizio ne marxista, la collaborazione con i settori progressisti della borghesia e con i loro partiti, e addirittura la trasformazione della socialdemocrazia in un raggruppamen to politico democratico, espressione non solo della classe operaia ma anche di altri ceti sociali. Non può nemmeno meravigliare che il massimo esponente del revisio nismo si spingesse fino a considerare il socialismo legittimo erede del liberalismo borghese: «non esiste idea liberale che non appartenga anche al patrimonio ideale del socialismo».

Una siffatta proposta riformistica doveva sollevare un vasto dibattito nelle file della socialdemocrazia tedesca, all'interno del quale non poteva mancare la rispo sta di Kautsky, il defensor fidei, come è stato chiamato, del marxismo dell'epoca. Nello scritto del 1899, Bernstein e il programma socialdemocratico. Un'anticritica, Kautsky conferma la teoria del socialismo come esito necessario della crisi capitali stica, alimentata da una sovrapproduzione cronica e dall'incapacità di soddisfare i bisogni sociali, e mantiene salda anche la convinzione che la democrazia sia possibi le solo come democrazia socialista. In quanto forma del dominio della maggioranza, essa è, certo, una premessa necessaria del socialismo, ma, per diventare una demo crazia reale, deve accogliere in sé contenuti che solo il socialismo può assicurare.

In particolare, Kautsky contesta la validità delle singole analisi bernsteiniane: è vero, sì, che i ceti medi sopravvivono e che anche le piccole e medie imprese conti nuano a svilupparsi, però diventa sempre più crescente il controllo che su di esse esercita il grande capitale, impedendo così ai ceti medi un'autonoma espressione politica. Quanto alla teoria dell'impoverimento assoluto del proletariato, essa è estranea al pensiero di Marx che semmai ha parlato, giustamente, di un impoveri mento relativo rispetto alla crescente ricchezza capitalistica. Quanto basta per de terminare l'acuirsi progressivo del conflitto di classe e per legittimare il partito so cialdemocratico, non già come un partito «che si limita alle riforme democratico- socialiste», bensì come «partito della rivoluzione sociale»,6 chiamato a organizzare il proletariato, e soltanto il proletariato. Se Bernstein ha ragione nel rifiutare come erronea la teoria del crollo economico, non meno irreale appare la sua idillica con cezione dello sviluppo capitalistico che darebbe impulso, in assenza di contraddi zioni, a una crescente democratizzazione della società.

Nonostante l'autorevolezza dei personaggi che ne argomentarono la critica, ben ché condannate nel Congresso di Dresda del 1903, le tesi revisioniste di Bernstein si sarebbero comunque diffuse largamente nel corpo del Partito socialdemocratico tedesco, come anche nei gruppi dirigenti degli altri partiti socialisti europei.

5. Luxemburg: il potere delle masse

Rosa Luxemburg è stata per lunghi decenni, tra Ottocento e Novecento, uno dei più prestigiosi esponenti della socialdemocrazia tedesca, per divenire più tardi di rigente del movimento comunista affermatosi in Germania nell'immediato primo dopoguerra. Nasce nel 1870 a Zamosc, in Rutenia, da un'agiata famiglia ebraica di commercianti colti e di idee liberali e antizariste. Compiuti gli studi liceali a Varsavia, già nel 1886 milita nel Partito socialista rivoluzionario polacco e pochi anni dopo, per sfuggire alle persecuzioni poliziesche zariste, si rifugia in Svizzera.

Qui, a Zurigo, segue gli studi universitari presso la facoltà di Scienze politiche, ap profondisce la lettura di Smith, Ricardo e, soprattutto, di Marx. Frequenta gli am bienti degli emigrati politici russi e polacchi, dove ha modo di conoscere, tra gli al tri, Plechanov, s'impegna nella riorganizzazione del movimento socialista polacco, partecipa nel 1883 al Congresso dell'Internazionale socialista. Infine si trasferisce nel 1897 in Germania, ove milita nel Partito socialdemocratico.

Grande fu il fascino esercitato da questa donna energica e appassionata, oltre che per l'acutezza e originalità dell'intelligenza, per la forte tensione morale con la quale ella visse gli ideali del socialismo, e per l'intransigenza con cui combatté, in un impegno esistenziale totale a favore dell'emancipazione sociale e umana del proletariato. Nessun altro esponente del movimento socialista internazionale del tempo, d'altronde, sarebbe stato sensibile come lei all'esigenza di riscattare la li bertà di ogni singolo uomo e di conciliarla con una democrazia socialista che fosse espressione della maturazione autonoma delle masse.

La Luxemburg sottolinea la drammaticità, soprattutto dopo l'esplosione del con flitto mondiale, dello scontro tra capitalismo e proletariato, nel quale vede in gioco le sorti dell'intera umanità. Da un lato ella rifiuta la convinzione kautskiana dell'i nevitabilità del socialismo, da lei interpretato come una possibilità presente nel grembo della storia, dall'altro teorizza l'ineluttabilità del crollo del capitalismo e della sua degenerazione nell'anarchia, sicché l'alternativa che vede incombere sul l'umanità è quella tra socialismo e "barbarie": «il dilemma dinanzi a cui si trova l'umanità si presenta così: o il tramonto nell'anarchia o la salvezza per opera del socialismo».

Questo non significa che la Luxemburg condivida il modo bernsteiniano di con cepire il socialismo come possibilità. Di contro all'esponente del revisionismo che intendeva fondare la prospettiva socialista solo su un principio soggettivo di desi derabilità etica, ella non rinuncia a pensare il socialismo come necessità storica, pur senza alcuna attribuzione di significato "destinale". Non c'è nulla di fatale nella storia, ma neppure nulla di arbitrario. E vero, piuttosto, che in essa operano neces sità storiche tra loro contrastanti egualmente intrinseche alla situazione sociale, e che è imprevedibile quale delle due prevarrà:

La dialettica storica si compiace per l'appunto di contraddizioni e pone nel mondo per ogni necessità anche il suo contrario. Il dominio di classe borghese è senza dub bio una necessità storica, ma anche la sollevazione della classe lavoratrice contro di esso; il capitale è una necessità storica, ma anche il suo becchino, il proletariato socialista; il dominio mondiale dell'imperialismo è una necessità storica, ma an che la sua caduta per opera dell'internazionale proletaria.

Sarà, in ultima istanza, la volontà cosciente degli uomini a far prevalere l'una o l'al tra di queste due "necessità"; quel che è certo è che «la vittoria del socialismo non cadrà dal cielo come un fato»;9 essa non potrà che essere l'esito di una dura lotta quotidiana.

La limpida consapevolezza di questo drammatico aut aut nascosto nel fluire della storia, nonché la percezione della sua radicalità, spingono urgentemente la corag giosa intellettuale polacca a un impegno politico rivoluzionario che le impone il sa crificio dei suoi bisogni personali di felicità, lei così incline a una vita serena a con tatto con la natura, i fiori, le piante, gli animali, che amava moltissimo. In una lette ra a Luise Kautsky, moglie di Karl, confessa le sue native quanto profonde inclinazioni:

Ho bisogno dopotutto di qualcuno che mi creda quando dico che solo per sbaglio sono presa nel turbine della storia del mondo, ma in realtà sono nata per stare a cu stodire le oche.

Nella biografia politica della Luxemburg si possono riconoscere alcuni momenti salienti, che permettono di cogliere il senso della sua opera di organizzatrice rivo luzionaria e di pensatrice marxista: a) la polemica contro il revisionismo di Bernstein; b) il dibattito, negli anni precedenti la guerra mondiale, sullo sciopero di massa; c) la guerra e la rottura con i "social-patrioti"; d) la Rivoluzione d'ottobre e i rapporti con Lenin e i bolscevichi.

a) E la Luxemburg a condurre la critica più organica, più irruenta, e insieme più coerente con il pensiero marxiano, del revisionismo, di cui marxisti come Kautsky non sarebbero stati capaci. Essa si concretizza nella pubblicazione, nel 1898, di una serie di articoli raccolti l'anno successivo nel volume Riforma sociale o rivolu zione?. L'autrice imposta il discorso secondo una metodologia che ripropone, con tro l'empirismo delle analisi bernsteiniane, l'impianto dialettico della teoria marxiana. L'errore di Bernstein si nasconde, infatti, nel rifiuto della dialettica, nel l'incapacità, come accade a tutti gli empiristi che al posto dei processi vedono solo i singoli fatti isolati, di cogliere la totalità del reale e l'insieme dei fenomeni. Bernstein, complice dell'atomismo delle analisi borghesi, non riesce a cogliere le contraddizioni che si annidano all'interno della società capitalistica e che questa è incapace di risolvere. Gli sfugge il fatto che il capitalismo, anche se riesce a evitare o a superare singole crisi congiunturali, porta in sé, intrinseca alla propria essenza, una contraddizione insanabile tra crescente potenzialità produttiva e limitate pos sibilità di smercio dei prodotti, che non può non esprimersi in continue crisi eco nomiche e politiche, destinate a culminare infine nelle guerre interimperialistiche.

Improprio e illusorio è pertanto il tentativo, di vago sapore proudhoniano, di as sumere i "lati buoni" del capitalismo respingendo quelli "cattivi", come se questi non fossero aspetti essenziali dell'"intero" della società fondata sul profitto.

La critica condotta da Kautsky al revisionismo è, d'altronde, del tutto insoddisfa cente, poiché egli si è limitato a rispondere alle singole contestazioni che Bernstein rivolge alle previsioni di Marx, e non ha visto il vizio di fondo del suo discorso, che sta per l'appunto nell'aver ripudiato il metodo dialettico con il quale Marx aveva in terpretato la storia e dato avvio all'analisi della società. Kautsky, del resto, non era nelle condizioni di poterlo vedere, considerato che lui stesso aveva abbandonato il pensiero dialettico.

Se guardiamo bene, in Riforma sociale o rivoluzione? non c'è soltanto l'attacco al revisionismo ma anche, implicita, la divaricazione dall'ortodossia kautskyana che si sarebbe esplicitata più tardi, riguardante il modo di considerare il rapporto tra riforme e rivoluzione. In Kautsky questo rapporto è estrinseco e meccanico, sicché la meta finale del socialismo rimane scissa dall'operare quotidiano della classe ope raia e del suo partito, attenti soltanto al perseguimento degli obiettivi immediati dell'azione sindacale e/o parlamentare! La Luxemburg non è affatto contraria a tali lotte politico-sindacali, tese a migliorare le condizioni di vita e di lavoro della clas se operaia già all'interno della società esistente e a ottenere importanti riforme po litiche e sociali. A lei, però, interessa che si ricostituisca il nesso dialettico tra que ste lotte e l'obiettivo finale del socialismo, in modo che già in esse questo viva come orizzonte che dia loro un senso e ne consenta la selezione, impedendo che si esauriscano semplicemente in un'azione correttiva della società esistente. Il deter minismo evoluzionistico di Kautsky lascia in uno sfondo inerte e lontano lo scopo finale del socialismo, e così finisce con il dare ragione al revisionismo che con Bernstein afferma che «lo scopo finale è nulla, mentre il movimento è tutto», dove per movimento si intende un generico progresso sociale da perseguire indefinita mente. Bisogna, viceversa, operare in modo che nelle stesse lotte quotidiane della classe operaia, rivolte a limitare lo sfruttamento all'interno della società borghese, sia presente il riferimento alla soppressione di questo stesso sfruttamento, e dun que della società borghese stessa, rifiutando sia l'estremismo, che in nome del do mani socialista nega valore agli obiettivi immediati dell'oggi, sia l'opportunismo re visionista che guarda esclusivamente a questi obiettivi, giudicando astratta utopia la "grande riforma del mondo" e intrascendibile l'orizzonte della società borghese.

b) D'accordo con Lenin nel sostenere la versione rivoluzionaria e dialettica del marxismo, in opposizione alle interpretazioni evoluzionistiche, sia riformiste che ortodosse, prevalenti nei partiti della Seconda Internazionale, la Luxemburg dis sente dal rivoluzionario russo su non pochi né secondari aspetti di teoria politica, tra i quali uno dei più significativi è quello riguardante il modo di intendere i rap porti tra classe e partito.

Contro il Lenin del Che fare? la Luxemburg, rivelandosi in questo erede più fe dele dell'insegnamento marxiano, rivendica le potenzialità di autodeterminazione rivoluzionaria delle masse e sottolinea energicamente il ruolo determinante della soggettività operaia. Nessun comitato centrale di partito, ella afferma, ancorché infallibile e costituito da avanguardie consapevoli e combattive, sarebbe in grado di supplire all'assenza o all'immaturità di un movimento operaio di massa, i cui eventuali errori sarebbero pur sempre storicamente più fruttuosi di quella infalli bilità. Nel suo ultimo discorso, tenuto in occasione della fondazione del Partito comunista tedesco nel 1918, durante la rivoluzione di novembre, la Luxemburg dichiara:

Il socialismo non è fatto e non può esser fatto mediante decreti, neppure da un go verno socialista caratterizzato. Il socialismo dev'esser fatto dalle masse, da ciascun proletario: là dove essi sono legati alla catena del capitale, là dev'essere spezzata la catena. Solo questo è socialismo, solo così il socialismo può essere attuato. [...] Noi dobbiamo lavorare dal basso e questo corrisponde precisamente al carattere di massa della nostra rivoluzione quanto agli scopi che vanno al fondo della costituzio ne sociale; risponde al carattere dell'odierna rivoluzione proletaria che noi dobbia mo conquistare il potere politico non dall'alto ma dal basso.

La novità "eretica" del messaggio luxemburghiano, rispetto sia al marxismo orto dosso di Kautsky sia a quello rivoluzionario di Lenin, sta nella decisa sottolineatu ra dell'elemento della spontaneità. Non che la Luxemburg non riconosca il partito come un fattore insostituibile ai fini della lotta per il socialismo, ma esso è solo una delle componenti di questa lotta, strettamente interconnessa e interdipendente con l'iniziativa delle masse. Non senza correre il rischio di scivolare verso posizioni "spontaneistiche" di enfatizzazione delle capacità creative della classe operaia, che spesso le sono state rimproverate, la Luxemburg riesce quasi sempre a interpretare in modo dialettico il rapporto spontaneità-organizzazione, masse-partito, inten dendolo come un rapporto circolare nel quale il partito nasce dall'esperienza delle lotte spontanee e insieme si pone come principio di unificazione di queste lotte, di rigendole e accelerandone l'esito rivoluzionario.

La rivoluzione russa del 1905 doveva incoraggiare questa tendenza a valorizzare l'iniziativa rivoluzionaria del proletariato in quanto tale. Essa potè apparire in Occidente come l'espressione di un grande sciopero generale spontaneo di massa, all'interno del quale si venivano costituendo nuove forme di auto-organizzazione dal basso della classe operaia, gli organismi consiliari, detti soviet. Nell'accesa di scussione che su questa rivoluzione si sviluppa all'interno della socialdemocrazia tedesca e delle organizzazioni sindacali gravitanti nella sua orbita, la Luxemburg viene a trovarsi isolata, e con lei la convinzione che la linea di sviluppo del movi mento operaio debba essere quella della crescita dei soviet, intesi non solo come strumenti della lotta di classe ma come organismi di un nuovo nascente potere po litico, di una nuova democrazia alternativa a quella borghese. L'esempio della ri voluzione russa viene giudicato inapplicabile ai paesi sviluppati dell'Occidente, e i maggiori teorici del marxismo, da Kautsky a Bernstein, continuano a considerare la via parlamentare, all'interno del quadro istituzionale dello stato borghese, come la strada maestra che il movimento operaio deve percorrere. La Luxemburg avrebbe più tardi apostrofato questa posizione come un esempio di «cretinismo parlamentare».

c) La definitiva rottura della Luxemburg con le posizioni di Kautsky si consuma negli anni precedenti la prima guerra mondiale, in presenza di un capitalismo sem pre più aggressivo, sempre più orientato verso politiche militaristiche, preludio allo scatenarsi della guerra imperialistica.

Nel 1913 appare lo scritto teorico più importante della Luxemburg, dedicato al l'esame della crisi, che le appare imminente, del capitalismo: L'accumulazione del capitale. In quest'opera essa sostiene che le possibilità di espansione del sistema ca pitalistico non sono illimitate, ma legate alle aree del mondo non capitalistiche, in particolare dalle colonie, nelle quali il capitalismo esporta il plus-valore prodotto e vende le merci esuberanti rispetto alla domanda dei mercati metropolitani. Una volta, però, che anche queste aree del mondo avranno abbracciato la logica di pro duzione capitalistica, verranno meno le condizioni di espansione del capitalismo, che dunque si awierà verso la catastrofe. Il sistema capitalistico è come insidiato da un'interna, profonda contraddizione:

[Esso] è la prima forma economica dotata di una forza di propagazione; una forma che reca in sé la tendenza immanente a espandersi in tutto il mondo e a espellere tutte le altre forme economiche; una forma che non ne tollera altre accanto a sé. Ma è, allo stesso tempo, la prima che non può esistere da sola, senza altre forme eco nomiche come suo ambiente e terreno di sviluppo; che perciò, mentre tende a dive nire forma economica mondiale, s'infrange contro l'incapacità intrinseca a essere una forma mondiale di produzione. E una vivente contraddizione storica; il suo moto di accumulazione è insieme l'espressione, la soluzione continua e il potenziamento di un'antitesi interna.

Nell'analisi luxemburghiana del processo di accumulazione del capitale, che ancor oggi rappresenta un capitolo assai interessante dello studio dei processi economici nel sistema capitalistico, occupa un posto di grande rilievo il militarismo. La Luxemburg ritiene che esso abbia assolto a una funzione importante fin dagli albori del capitalismo, nel periodo della cosiddetta «accumulazione primitiva», renden do possibile la conquista e la colonizzazione di interi continenti, l'«introduzione del commercio in paesi la cui struttura sociale ostacolava l'economia mercantile» e di cui, pertanto, venivano distrutte le comunità sociali esistenti, imponendo la «proletarizzazione forzata degli indigeni» attraverso l'introduzione del lavoro sala riato. Per non dire dell'uso del militarismo come «arma della lotta di concorrenza fra stati capitalistici per il controllo di regioni a civiltà non capitalistica». Non solo: «anche dal punto di vista economico, il militarismo appare al capitale un mezzo di prim'ordine per la realizzazione del plus-valore».

Infatti,

quanto più energicamente il capitale si serve del militarismo per assimilarsi i mezzi produttivi e le forze-lavoro di paesi e società non-capitalistici attraverso la politica coloniale e mondiale, tanto più energicamente il militarismo lavora, nel cuore degli stessi paesi capitalistici, per sottrarre agli strati noncapitalistici della sua terra di ori gine, ai rappresentanti della produzione mercantile semplice, così come alla classe operaia, una percentuale sempre maggiore di potere d'acquisto; priva sempre più i primi delle loro forze produttive e comprime sempre più il livello di vita dei secon di, per dare poderoso impulso, a spese di entrambi, all'accumulazione del capitale.

Sulla base del nesso così istituito tra capitalismo, corsa al riarmo e guerra, che fa del militarismo un momento necessario nel processo di accumulazione, la Luxem burg introduce un'importante novità nella concezione marxista della rivoluzione consistente nel mostrare come, prima ancora e più delle crisi economiche, è la guerra a poter costituire, in alternativa al suo uso capitalistico, l'elemento principa le scatenante la crisi capitalistica, insomma l'occasione in grado di favorire la rivo luzione socialista.

d) L'adesione alla guerra da parte della socialdemocrazia tedesca induce la Luxemburg a rompere ogni legame con essa, giudicata ormai un «cadavere maleo dorante». La guerra rappresenta «la maggiore sconfitta concepibile per il proleta riato europeo», ma è anche l'atto con cui il capitalismo «rivela il proprio volto di morte» e conferma che «il suo diritto storico all'esistenza è esaurito, il suo dominio non ulteriormente compatibile con il progresso dell'umanità».

La Luxemburg che, per aver incitato i soldati alla diserzione, trascorre quasi tutti gli anni della guerra in carcere, aveva dato vita, nel 1914, a un nuovo gruppo rivo luzionario, la Lega di Spartaco, che subito dopo il conflitto avrebbe promosso la fondazione del Partito comunista tedesco.

Il suo ultimo scritto importante, La rivoluzione russa (1918), composto in carce re, è dedicato all'esame della Rivoluzione d'ottobre e del nascente Stato sovietico. La Luxemburg saluta con entusiasmo l'iniziativa rivoluzionaria dei bolscevichi e, fino alla morte, la considera come il possibile prologo di uno sviluppo rivoluziona rio internazionale. Pertanto, le critiche contenute in questo scritto ad alcuni aspetti dell'operato di Lenin e degli altri capi bolscevichi, che la fanno apparire oggi come una "Cassandra del socialismo", non sono in alcun modo confondibili con quelle di Kautsky e di altri esponenti della socialdemocrazia, che accusavano Lenin di aver preteso di saltare la fase della rivoluzione democratico-borghese e di aver compiuto un vero e proprio colpo di mano. La Luxemburg, al contrario, ritiene che Lenin e Trockij siano stati «i primi che hanno dato l'esempio al proletariato mondiale» nel percorrere la strada della conquista socialista del potere, anche se, ella osserva, «in Russia il problema poteva soltanto essere posto. Non poteva esse re risolto».16 La Luxemburg ritiene che nella tattica bolscevica vi sia un eccesso di misure autoritarie che portano al soffocamento della democrazia consiliare dei so viet e alla mortificazione della partecipazione attiva e consapevole delle masse. In particolare, lo scioglimento dell'Assemblea costituente nel novembre del 1917 e la requisizione del potere da parte di un partito fortemente accentrato, li avverte qua li segni di una pericolosa involuzione burocratica e antidemocratica della Rivolu zione. Quella decisione appare, ai suoi occhi,

ancora peggiore del male che si deve curare: [essa] ostruisce infatti proprio la fonte viva dalla quale soltanto possono venire le correzioni a ogni insufficienza congenita delle istituzioni sociali: la vita politica attiva, libera ed energica delle più vaste mas se popolari.

È la contrapposizione tra dittatura e democrazia, ritenute alternative l'una all'altra, che la Luxemburg considera errore esiziale compiuto, per motivazioni opposte, sia da Lenin e Trockij sia da Kautsky:

Kautsky si dichiara naturalmente per la democrazia, ben inteso per la democrazia borghese, perché la pone quale alternativa alla rivoluzione socialista. Lenin-Trockij si dichiarano al contrario per la dittatura contrapposta alla democrazia, e conseguen temente per la dittatura di un manipolo di uomini, cioè per la dittatura su modello borghese. Questi sono i due poli opposti ugualmente molto lontani dalla vera poli tica socialista.

Al contrario, il proletariato deve, sì,

esercitare la dittatura, ma una dittatura di "classe", non di un partito o di una cric ca, dittatura della "classe", cioè nella più larga pubblicità, con la più attiva e libera partecipazione delle masse popolari in una democrazia senza limiti.

Pertanto, occorre un'illimitata libertà di stampa, il libero esercizio dei diritti di associazione e di riunione che i bolscevichi hanno invece abolito:

La libertà riservata ai partigiani del governo, ai soli membri di un unico partito - siano pure numerosi quanto si vuole - non è libertà, la libertà è sempre soltanto libertà di chi pensa diversamente.

Certo, la Luxemburg sa bene che la situazione, difficilissima, in cui si sono venuti a trovare i bolscevichi - «in un paese isolato, spossato dalla guerra mondiale, strozzato dall'imperialismo, tradito dal proletariato internazionale»21 - li ha costretti a misure repressive e autoritarie, drasticamente limitative della democrazia. Ma questo non doveva consentire a Lenin di teorizzare le «storture commesse in Russia sotto la stretta necessità»,22 elevandole a modelli di strategia socialista da proporre al proletariato internazionale. Anche la Luxemburg, più tardi, nel novembre del 1918, sarebbe stata contraria, nel bel mezzo della rivoluzione tedesca, alla convocazione dell'Assemblea costituente, non però in vista di una dittatura di partito, bensì in nome del potere dei consigli degli operai e dei soldati, nella prospettiva della democrazia socialista.

Il fallimento dell'insurrezione operaia di Berlino nel gennaio del 1919, decisa, contro il parere della Luxemburg, dalla Lega di Spartaco frattanto trasformatasi nel Partito comunista tedesco, culmina con l'assassinio della rivoluzionaria. Arrestata da un reparto del vecchio esercito imperiale, ingaggiato dal governo socialdemocratico per organizzare la "caccia" ai comunisti, viene uccisa insieme al compagno Karl Liebknecht, prima ancora di essere condotta in carcere. Con il cranio fracassato da un colpo di calcio di fucile, il suo corpo viene gettato nelle acque di un canale, dalle quali riaffiora solo dopo alcuni mesi.

6. Lenin, stratega e pensatore

a) La teoria del partito

Nell'opera di Lenin (1870-1924) emerge soprattutto la figura dello stratega, dedito com'egli fu lungo tutta la sua vita, instancabilmente, all'organizzazione e alla direzione delle lotte del proletariato russo contro lo zarismo prima, alla realizzazione della rivoluzione socialista e alla costruzione dello Stato socialista poi. Tutti i suoi scritti sono direttamente riferiti alla lotta politica, ubbidiscono a precisi obiettivi da raggiungere, sono diretti contro precisi avversari, legati a precise circostanze storiche. Non fanno eccezione neppure i saggi filosofici e, comunque, gli scritti più legati all'elaborazione teorica. Se questo testimonia della coerenza marxistica di Lenin nel tenere indissolubilmente unite teoria e prassi, può, per altro verso, nuocere, soprattutto sul terreno filosofico, al rispetto della complessità dei problemi e sospingere, sotto l'incalzare delle sollecitazioni politiche, a una troppo sbrigativa semplificazione delle soluzioni.

Vladimir Il'ic Ul'janov, detto Lenin, nasce a Simbirsk nel 1870 da una famiglia della piccola borghesia intellettuale. Ha diciassette anni quando un suo fratello maggiore, Aleksandr, aderente al movimento dei nichilisti, viene giustiziato per aver partecipato alla preparazione di un attentato alla vita dello zar; da quel giorno il giovane Vladimir si convince della sterilità della lotta antizarista degli anarchici. Studente presso la facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Kazan, ne viene espulso per i suoi comportamenti ribelli nei confronti delle autorità accademiche, e solo con difficoltà riesce a laurearsi nel 1891 presso l'Università di Pietroburgo. Attraverso la lettura di Marx e di Engels e lo studio della realtà economica russa Lenin aderisce assai presto alle idee marxiste, anche per influenza di Georgi] Valentinovic Plechanov (1857-1918), che conosce nel 1895 in Svizzera, il più prestigioso esponente russo del pensiero marxista che fin dal 1882 aveva tradotto in russo il Manifesto del partito comunista. Attivo nella propaganda rivoluzionaria clandestina, Lenin viene arrestato e condannato a tre anni di confino in Siberia, durante i quali scrive il suo primo saggio importante, Lo sviluppo del capitalismo in Russia, pubblicato nel 1899.

Contro i populisti, assertori di una prospettiva rivoluzionaria che prevedeva la realizzazione del socialismo partendo dalle strutture comunitarie del mondo contadino russo, senza dover passare attraverso l'esperienza del capitalismo, Lenin dimostra, attraverso una documentatissima analisi, che il capitalismo è già penetrato nelle campagne russe, tanto da essere la formazione economico-sociale avviata a divenire dominante. Lo sviluppo del mercato, la stratificazione della popolazione contadina, la formazione di un consistente proletariato agricolo, l'industrializzazione dell'agricoltura: tutti segni evidenti dell'affermazione del capitalismo agrario.

Quest'indagine risponde a un chiaro scopo politico: mostrare che anche in Russia sussistono già le condizioni per la nascita di un partito socialdemocratico di ispirazione marxista, capace di dare avvio all'organizzazione del proletariato sulla base di un programma socialista. E appunto in quegli anni nasceva il Partito socialdemocratico russo per iniziativa di Plechanov, Martov e dello stesso Lenin che, dalla lontana Siberia, invia il suo contributo per la determinazione del programma del nuovo partito.

Il primo grande tema della riflessione di Lenin, una volta tornato nel 1899 in libertà, è, per l'appunto, il problema di quale partito costruire e con quale modello organizzativo, in un paese a ritardato sviluppo capitalistico, privo di libertà politiche e sindacali, con un proletariato di fabbrica fortemente concentrato in ristrettearee del territorio e circondato da un'immensa marea contadina. Nel 1902, alla vigilia del Congresso del Partito socialdemocratico russo, che si sarebbe svolto a Bruxelles nel 1903 e avrebbe sancito la spaccatura tra i seguaci di Lenin, i bolscevichi, e i seguaci di Martov, i menscevichi, Lenin pubblica il Che fare?, nel quale espone la propria teoria del partito. Questa si fonda sulla premessa, condivisa con Kautsky, che la visione complessiva dei rapporti di produzione, dei rapporti tra le classi, tra economia e politica, indispensabile perché si possa avere un partito capace di guidare il proletariato, non potrebbe mai essere il prodotto della coscienza spontanea della classe operaia:

La storia di tutti i paesi attesta che la classe operaia, con le sole sue forze, è in grado di elaborare soltanto una coscienza tradunionistica, cioè la convinzione della necessità di unirsi in sindacati, di condurre la lotta contro i padroni, di reclamare dal governo questa o quella legge necessaria agli operai, eccetera.

Pertanto, la consapevolezza del radicale antagonismo tra il proletariato e l'ordinamento della società capitalistica, quella che Lenin chiama coscienza politica di classeossia la coscienza rivoluzionaria, può «essere portata all'operaio "solo dall'esterno", cioè dall'esterno della lotta economica, dall'esterno della sfera dei rapporti tra operai e padroni». Infatti,

il campo dal quale soltanto è possibile attingere questa coscienza è il campo dei rapporti di "tutte" le classi e di tutti gli strati della popolazione con lo Stato e con il governo, il campo dei rapporti reciproci di "tutte" le classi.

Questo vuol dire che, affinché l'esperienza immediata che l'operaio vive dello sfruttamento capitalistico possa maturare fino a farsi coscienza rivoluzionaria, occorre una teoria generale della società che dia fondamento scientifico alla prospettiva del comunismo e che può essere fornita soltanto da intellettuali in possesso dei necessari strumenti critici del pensiero, i quali non possono essere che di origine borghese.

Da questo presupposto Lenin, però, trae una concezione del partito ben diversa da quella kautskyana, che aveva trovato traduzione pratica nell'organizzazione della socialdemocrazia tedesca. Se il partito deve essere lo strumento attraverso il quale la teoria rivoluzionaria penetra nella coscienza del proletariato, esso non può che essere formato da uomini che dedichino interamente il loro tempo all'attività teorico-pratica necessaria per l'organizzazione politica delle masse operaie. Un partito, dunque, fatto di «rivoluzionari di professione» che devono «andare in tutte le classi della popolazione come teorici, come propagandisti, come agitatori e come organizzatori».3 Un partito fortemente coeso e centralizzato, che deve costituirsi non già in base a un processo spontaneo, che mai consentirebbe il passaggio dalla lotta economica "dentro" il sistema capitalistico alla lotta politica "contro" questo sistema, bensì dall'alto - il comitato centrale - al basso - la massa proletaria. Attraverso il partito si può allora esprimere quel primato del "politico" suH'"economico" che caratterizza il volontarismo rivoluzionario di Lenin, secondo il quale spetta al soggetto-partito il potere di forzare la realtà e affrettare la stessa precipitazione rivoluzionaria.

Siamo in presenza, come si vede, di una concezione del partito fortemente connotata da un'ispirazione "giacobina" ed elitaria che non sembra facilmente riconducibile all'insegnamento di Marx, secondo il quale è il proletariato che matura, attraverso le lotte, la coscienza antagonistica di classe, dalla quale i teorici attingo no la materia per poter enunciare la teoria rivoluzionaria. Certo, nel Che fare? Lenin, impegnato com'era nella lotta contro le tendenze economicistiche presenti nella socialdemocrazia russa, aveva estremizzato questa sua concezione del partito, per controbilanciare e neutralizzare tali tendenze: nel congresso del 1903 egli ebbe a dire che «gli economisti avevano curvato il bastone da una parte. Per raddrizzarlo era necessario curvarlo dalla parte opposta».4 Come è anche vero che era la stessa situazione della Russia, un paese nel quale l'autocrazia zarista impediva qualunque forma di opposizione politica e sociale, a costringere alla clandestinità un partito rivoluzionario, imponendogli un'organizzazione necessariamente gerarchica e centralizzata.

Non c'è dubbio, però, che, seppur successivamente mitigate (in particolare sul punto dell'identificazione del militante con il "rivoluzionario di professione"), queste rimarranno sempre le idee di Lenin sul partito rivoluzionario. Esse comportano una separazione tra classe operaia e partito, con il rischio incombente di una sovrapposizione burocratica e autoritaria del secondo alla prima. Un rischio che, nelle vicende successive alla Rivoluzione del 1917 e, in particolare, nell'involuzione autoritaria verificatasi dopo la morte di Lenin e culminata nell'instaurarsi dello stalinismo, avrebbe trovato la sua drammatica conferma.

b) Il pensatore

In conseguenza del fallimento della rivoluzione del 1905, un grande disorientamento viene a diffondersi all'interno del movimento rivoluzionario russo, e anche tra le schiere degli intellettuali acquisiti al marxismo affiorano le prime insofferenze nei confronti dell'eredità soprattutto engelsiana della filosofia marxista, mentre trovano ascolto sempre maggiore orientamenti filosofici ispirati al neokantismo e soprattutto all'empiriocriticismo di Mach e Avenarius. Si profila, pertanto, la tendenza a dare un fondamento idealistico al pensiero socialista, mettendo in discussione quel materialismo dialettico che scritti come l'Anti-Diihring e il Ludwig Feuerbach di Engels avevano integrato nella costruzione teorica marxista.

In nome dell'inseparabilità di marxismo e materialismo Lenin scrive, nel 1908, a Londra e a Parigi Materialismo ed empiriocriticismo. Note critiche su una filosofia reazionaria, pubblicato a Mosca l'anno successivo. Si tratta di una risposta netta e decisa alle posizioni "machiste", che prende avvio dalla convinzione che la teoria, sia scientifica che filosofica, non sia mai svincolata dalla prassi, neutrale e indiffe rente alle sue pressioni. Convinto, al contrario, della "partiticità" della filosofia e dello stesso sapere scientifico (nel senso che il momento teorico sarebbe sempre funzionale agli interessi pratici della classe sociale che lo promuove), Lenin scorge nel contrasto tra idealismo e materialismo l'espressione di due opposti "partiti", quello borghese e reazionario che si esprimerebbe nelle filosofie idealistiche, quel lo progressista e proletario che svilupperebbe invece un'interpretazione materialistica della realtà.

Con questo Lenin non intende concedere nulla alle tendenze pragmatistiche e convenzionalistiche presenti nel dibattito scientifico e filosofico dei primi del Novecento, secondo le quali la verità di una teoria filosofica o scientifica si risolverebbe nella sua efficacia pragmatica, ossia nella sua capacità di assicurare il successo all'attività pratica. Una teoria non è vera, sostiene Lenin, perché ha successo nella prassi, ma, al contrario, essa ha un'efficacia pratica perché prima di tutto è vera. E la verità risiede nella sua obiettività, ossia nel saper riprodurre mentalmente la struttura e le proprietà che appartengono agli oggetti conosciuti, indipendentemente dal soggetto conoscente. Merito principale del materialismo è, appunto, quello di avere affermato che «il "successo" della pratica umana dimostra la corrispondenza delle nostre idee con la natura obiettiva delle cose che percepiamo».

L'idealismo cui Lenin si oppone è quello di stampo soggettivistico che, muovendo dall'esse est percipi del vescovo Berkeley, passa, attraverso Hume e certi enunciati della teoria kantiana della conoscenza, nella filosofia empiriocriticistica. Comune a tutte queste forme di idealismo è la riduzione del mondo oggettivo a un semplice complesso di sensazioni, intese come gli "elementi primari del mondo". Questa filosofia nasconde un preciso significato politico: erodendo, fino a distruggerlo, il concetto di materia come realtà esistente al di fuori e indipendentemente dalla nostra coscienza, essa apre la porta alle interpretazioni spiritualistiche della realtà, e dunque al fideismo, alla religione, alla «mistica dei preti».

Contro i "machisti" (come venivano chiamati in Russia i sostenitori di queste po sizioni filosofiche, dal nome di Ernst Mach), Lenin riafferma vigorosamente il punto di vista materialistico che demistifica gli arbìtri idealistici. Le sensazioni non possono venire intese come elementi primari, giacché esse presuppongono la materia e la sua azione sui nostri organi sensoriali: «la sensazione dipende dal cervello, dai nervi, dalla retina ecc., cioè dalla materia organizzata in modo determinato».6Pertanto, l'esistenza della materia non può dipendere dalle sensazioni. Scrive Lenin:

Il materialismo, in pieno accordo con le scienze naturali, considera come dato pri mordiale la materia e come dato secondario la coscienza, il pensiero, la sensazione; poiché la sensibilità è connessa, in una forma chiaramente espressa, unicamente alle forme superiori della materia.

E ancora:

Le scienze naturali affermano con sicurezza che la terra esisteva in condizioni tali che né l'uomo né in generale qualsiasi altro essere vivente poteva esistere su di essa. La materia organica è un fenomeno ulteriore, frutto di un lunghissimo sviluppo [...] La materia è primordiale, il pensiero, la coscienza, la sensazione sono il prodotto di uno sviluppo molto elevato.

Una siffatta filosofia materialistica richiede una gnoseologia compatibile che non può che essere fondata sulla teoria del rispecchiamento: la realtà oggettiva, esistente prima e indipendentemente dall'uomo, viene rispecchiata nel cervello umano attraverso le sensazioni, le quali, lungi dall'essere, come vorrebbe il soggettivismo idealistico, «una barriera, un muro che separa la coscienza dal mondo esterno», costituiscono, al contrario, il legame che unisce la prima al secondo. «La realtà esterna è copiata, fotografata, riflessa dalle nostre sensazioni, ma esiste indipen dentemente da esse.»9

Espressioni come queste - «copiata, fotografata, riflessa» - potrebbero indurre a un fraintendimento del pensiero di Lenin, facendo pensare a una concezione sostanzialmente statica e immediatistica della conoscenza. Al contrario, questa va intesa in modo dinamico e processuale: le sensazioni sono strumenti mediante i quali noi ci approssimiamo sempre di più alla realtà; pertanto ognuna di esse e tutte nel loro insieme debbono essere vagliate ed elaborate sempre di nuovo ai livelli delle conoscenze superiori, in modo da offrirci una rappresentazione sempre più ade rente alla realtà oggettiva delle cose.

Dire che la conoscenza riflette la realtà, non significa sostenere che essa esaurisca la realtà: è in questo che il materialismo di Lenin, fedele al materialismo dialettico di Engels, si distingue dal materialismo meccanicistico settecentesco come da quello "volgare" di Ludwig Büchner e Jacob Moleschott. Fermi entrambi a un punto di vista ancora dogmatico e metafisico, costoro affermavano che gli uomini sarebbero capaci di conoscere una volta per sempre e in modo esaustivo la verità delle cose, in quanto questa sarebbe costituita da un'essenza immutabile. Il materialismo dialettico, invece, pur riconoscendo l'esistenza oggettiva e incondizionata del mondo fisico, lo considera come il modello cui le conoscenze scientifiche si avvicinano progressivamente senza mai poter pretendere di averlo riprodotto per intero. In questo modo si può riconoscere la relatività delle conoscenze scientifiche senza, per questo, cedere alle posizioni relativistiche e convenzionalistiche che negano a quelle conoscenze il valore di verità. Scrive Lenin:

La dialettica materialistica di Marx e di Engels contiene in sé incontestabilmente il relativismo, ma non si riduce a esso, ammette cioè la relatività di tutte le nostre conoscenze, non nel senso della negazione della verità obiettiva, bensì nel senso della relatività storica dei limiti dell'approssimazione delle nostre conoscenze a questa verità.

In virtù di questa teoria della conoscenza che vuole la coscienza come riflesso della realtà oggettiva, Lenin può guardare criticamente anche alla dottrina kantiana della cosa in sé. Kant ha errato nel ritenere assoluto il limite della conoscenza umana, e la cosa in sé irriducibile al fenomeno. Il materialismo dialettico insegna, infatti, che

non vi è né vi può essere differenza di principio tra fenomeno e cosa in sé. La differenza è semplicemente fra ciò che è noto e ciò che non è ancora noto, mentre le fantasie filosofiche sui limiti specifici tra l'uno e l'altro, sul fatto che la cosa in sé si trova "al di là" dei fenomeni [...] tutto ciò non è che vuoto non senso, ubbia, invenzione.

Alla luce di questa esclusione di una linea fissa e insormontabile che stia a separare verità relativa e verità assoluta, Lenin ritiene di poter difendere la validità del materialismo anche di fronte ai grandi rivolgimenti della fisica che hanno segnato la crisi del modello meccanicistico newtoniano, cui faceva riferimento il materialismo di origine settecentesca. La sostituzione del vecchio concetto di materia, contrassegnato da proprietà della massa, come la corpuscolarità, l'impenetrabilità e così via, con i nuovi concetti di energia, elettricità, particella subatomica ecc., non significa che la materia sia svanita, come vorrebbero scienziati e filosofi legati a prospettive idealistiche:

"La materia scompare": ciò significa che scompare il limite al quale finora si arre stava la nostra conoscenza della materia, significa che la nostra conoscenza si approfondisce; scompaiono certe proprietà della materia che prima ci sembravano assolute, immutabili, primordiali (impenetrabilità, inerzia, massa) e che ora si dimostrano relative, inerenti soltanto a certi stati della materia. Poiché l'"unica" proprietà della materia, il cui riconoscimento è alla base del materialismo filosofico, è la proprietà di "essere una realtà obiettiva", di esistere fuori della nostra coscienza.

La teoria della coscienza come riflesso non vale solo per la realtà fisica ma deve es sere estesa anche alla prassi e all'essere sociale dell'uomo. Nell'ultimo capitolo di Materialismo ed empiriocriticismo Lenin, in contrasto con i socialdemocratici "ma- chisti" secondo i quali essere sociale e coscienza sociale coinciderebbero, osserva che la coscienza sociale è semplicemente il riflesso, soltanto approssimativamente giusto, dell'essere sociale dell'uomo. Questo è reso evidente dal fatto che

in ogni formazione sociale più o meno complessa - e in particolare nella formazione sociale capitalistica - gli uomini che entrano a far parte della società non sono coscienti dei rapporti sociali che si creano in essa, delle leggi secondo le quali questi rapporti si sviluppano ecc. Per esempio, il contadino che vende il grano entra in "rapporti" con i produttori di grano di tutto il mondo sul mercato mondiale; ma egli non ne ha coscienza, e non ha coscienza neppure dei rapporti sociali che si creano in seguito allo scambio.

Oltre che essere generalmente indipendente dalla coscienza sociale, lo svolgimento dell'esistenza sociale degli uomini ubbidisce a leggi oggettivamente necessarie:

Il fatto che voi vivete e svolgete un'attività economica, generate dei figli e fabbrica te prodotti e li scambiate, dà origine a una catena di eventi obiettivamente necessaria, a una catena di sviluppi che è indipendente dalla vostra coscienza sociale e che la vostra coscienza non abbraccia mai interamente.

Da questa interpretazione deterministica dell'evoluzione dell'essere sociale, assai vicina alle propensioni naturalistiche ed evoluzionistiche tipiche del marxismo ortodosso di Kautsky, e dalla teoria della coscienza come semplice riflesso deriva un modo d'intendere lo sviluppo della coscienza sociale come adattamento di essa allo sviluppo oggettivo della società che, pur essendo frutto delle attività umane precedenti, si presenta con i caratteri di necessità e "datità" propri degli eventi naturali. La stessa azione rivoluzionaria viene prospettata, conseguentemente, come frutto della conoscenza scientifica dei processi sociali oggettivi, e quindi come "adattamento" all'evoluzione necessaria dei rapporti sociali.

Siamo di fronte a un Lenin determinista ed evoluzionista difficilmente conciliabile con lo stratega della rivoluzione socialista, proposta come esito della volontà politica che preme sulle situazioni oggettive per accelerarne la risoluzione rivoluzionaria. Tanto che si ha l'impressione che lo scopo politico di questo scritto leniniano abbia in qualche misura forzato la mano di Lenin, inducendolo, allo scopo di neutralizzare il soggettivismo degli avversari, ad accentuare l'incidenza dei processi oggettivi della società.

Resta comunque da capire come la teoria leniniana del riflesso possa conciliarsi con il Marx delle Tesi su Feuerbach, che pure Lenin invoca a sostegno del proprio materialismo. Non sembra, infatti, questo materialismo molto dissimile da quello feuerbachiano che Marx, nella prima delle sue tesi, rifiuta come materialismo meramente intuitivo e contemplativo che «vuole oggetti sensibili, realmente distinti dagli oggetti del pensiero», ma è incapace di intendere «l'attività umana stessa come attività oggettiva».

La produzione filosofica di Lenin non si esaurisce con Materialismo ed empiriocriticismo. Già negli anni precedenti e poi, soprattutto, durante gli anni della guerra, quando si dedica allo studio approfondito di Hegel, egli compila appunti e commenti critici alle letture filosofiche che viene via via facendo. Questo materiale sarebbe apparso postumo nel 1929, sotto il titolo di Quaderni filosofici. Per la prima volta nella storia del marxismo secondinternazionalista dopo Engels, l'attenzione alla dialettica hegeliana torna al centro della riflessione marxista. Significativo che ciò si verifichi a partire dal 1914: sono le sollecitazioni esercitate dalle vicende tumultuose della guerra mondiale e della Rivoluzione del 1917, con le loro drammatiche contraddizioni, a concentrare la riflessione di Lenin sul pensiero dialettico che nella contraddizione, appunto, e nella sua risoluzione, riconosce la propria funzione fondamentale.

Non può dunque sorprendere che nei Quaderni filosofici, pur mantenendo la teoria della conoscenza come riflesso, Lenin ne approfondisca il carattere dialettico, in stretta connessione con la dialetticità del mondo reale di cui, appunto, il pensiero è il riflesso. Egli afferma che «il rispecchiamento della natura nel pensiero dell'uomo è da concepire non come "morto", "astratto", senza movimento e senza contraddizioni, ma nell'eterno processo del movimento, del porsi e del risolversi delle contraddizioni».38 Il pensiero è dialettico perché riflette la dialettica della realtà:

L'"insieme" di "tutti" i lati del fenomeno, della realtà, e i loro (reciproci) "rapporti": ecco di che cosa è composta la verità. Le relazioni (= trapassi = contraddizioni) dei concetti = principale contenuto della logica; "inoltre", questi concetti (e i loro rapporti, trapassi, contraddizioni) sono mostrati come riflessi del mondo oggettivo. La dialettica delle "cose" crea la dialettica delle "idee", e non viceversa.

L'idealismo di Hegel, che pur va rovesciato in materialismo, è ben diverso da quello machiano: mentre questo è coscienzialistico e soggettivistico, l'idealismo hegeliano è un idealismo oggettivo nel quale il concetto non è semplicemente cosa della coscienza, ma qualcosa di oggettivo, anzi la stessa essenza dell'oggetto. Lenin s'interessa in particolare alla Scienza della logica, «la più idealistica», ma in cui «vi è il meno di idealismo e il più di materialismo»; il suo studio consente di penetrare più facilmente nei segreti del Capitale di Marx.

E stato detto che i Quaderni di filosofia rappresenterebbero una svolta o addirittura una frattura rispetto al materialismo del saggio del 1909, ma si è trascurato il fatto che le tesi enunciate in quest'ultimo, relative al problema della conoscenza e della realtà, sono interamente confermate dal Lenin dei Quaderni. Questo non significa, però, che non vi si possano cogliere alcuni accenti di novità, quale quello relativo a una maggiore sottolineatura, rispetto all'oggettivismo precedente, dell'elemento attivo della coscienza. Frequentemente è stata citata la pagina in cui Lenin scrive che «la coscienza dell'uomo non solo rispecchia il mondo oggettivo, ma altresì lo crea», affermando così che, mentre da un punto di vista teoretico il sog getto non può che riprodurre l'oggetto nella sua necessità, dal punto di vista della prassi esso si contrappone al mondo oggettivo, perché questo «non soddisfa l'uomo, e l'uomo decide di cambiarlo con la sua azione». In questo senso la pratica è superiore alla conoscenza teorica; infatti,

l'attività dell'uomo, che si è fatto un quadro oggettivo del mondo, "modifica" la realtà esterna, ne distrugge la determinatezza (= ne cambia questi o quei lati, qualità) e le sottrae così i tratti dell'apparenza, dell'esteriorità, della nullità, la rende esistente in sé e per sé (= oggettivamente vera).

c) La teoria dell'imperialismo. La rivoluzione socialista

L'imperialismo, fase suprema del capitalismo. Saggio popolare (1916) e Stato e rivoluzione (1917) sono i due scritti più rilevanti dell'itinerario politico leniniano durante gli anni della guerra mondiale e della Rivoluzione del 1917. Nel primo l'obiettivo politico di Lenin è quello di dimostrare l'infondatezza del socialpacifismo caratte ristico della Seconda Internazionale, e la necessità di operare in modo da trasformare la guerra imperialistica in guerra civile finalizzata alla rivoluzione socialista e alla conquista del potere da parte del proletariato. Al centro del discorso campeggia l'affermazione che l'inevitabile sviluppo in senso imperialistico del capitalismo è destinato, a differenza di quanto aveva insegnato Kautsky, a generare guerre al trettanto inevitabili. Si tratta, pertanto (ed è lo scopo di questo Saggio popolare), di convincere le masse proletarie che, solo attraverso la trasformazione della guerra in lotta rivoluzionaria, potranno essere evitati per il futuro nuovi «macelli di popoli».

Questo scritto non rivela una particolare originalità sotto il profilo teorico, dal momento che riprende i risultati di ricerche condotte precedentemente da altri: Ylmperialismo (1902) del liberale inglese Hobson, il Capitale finanziario (1910) dell'austromarxista Hilferding, il manoscritto intitolato L'economia mondiale e l'imperialismo del bolscevico Bucharin, e infine L'accumulazione del capitale della Luxemburg. Lenin sostiene che l'imperialismo è il prodotto della trasformazione, avvenuta tra la fine dell'Ottocento e i primi anni del Novecento, del capitalismo concorrenziale in capitalismo monopolistico. Il fenomeno imperialistico è infatti connotato da cinque tratti principali:

a) l'altissima concentrazione dei capitali e della produzione nelle mani di grandi proprietà monopolistiche che controllano interi settori della vita economica;

b) la crescente importanza del capitale finanziario e la sempre più totale dipendenza da esso del capitale industriale. Ciò produce, da un lato un'oligarchia finanziaria, che vive del «taglio di cedole» senza partecipare direttamente alle attività produttive, dall'altro la selezione di pochi stati finanziariamente più forti degli altri;

c) la grande importanza acquisita dall'esportazione del capitale eccedente in rapporto all'esportazione di merci, di cui viveva essenzialmente il capitalismo concorrenziale;

d) il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si spartiscono il mondo;

e) la compiuta ripartizione della Terra tra le più grandi potenze capitalistiche.

Inevitabile conseguenza dei conflitti interimperialistici che si scatenano tra i vari paesi occidentali, soprattutto a opera di quelli arrivati più tardi allo sviluppo capita listico, è la guerra, solo attraverso la quale questi ultimi possono ambire alla conquista di uno "spazio vitale". Il caso più tipico era allora rappresentato dalla Germania.

Rimpatriato nel marzo del 1917, dopo un esilio che, tranne la breve parentesi rivoluzionaria nel 1905, durava dall'inizio del secolo, Lenin è costretto di nuovo a riparare nello stesso anno in Finlandia dove scrive Stato e rivoluzione, l'esposizione più completa della sua teoria dello Stato. Ormai convinto della necessità di passare dalla rivoluzione democratico-borghese del febbraio alla rivoluzione socialista, Lenin si propone di combattere l'"opportunismo" della concezione dello Stato elaborata da Kautsky e dagli altri leader della socialdemocrazia, tra i quali il menscevico Plechanov, e di riprendere, sviluppandole, le autentiche idee di Marx e di Engels. Il discorso leniniano si rivolge contro gli "opportunisti", che ritengono si possa camminare verso il socialismo semplicemente rilevando la macchina statale borghese che sarebbe destinata a lenta estinzione, «senza sussulti né tempeste, senza rivoluzione».20 Lenin sostiene, al contrario, che lo Stato della borghesia deve essere distrutto nel corso della rivoluzione e sostituito con la dittatura del proletariato che ha il compito, attraverso un «intero periodo storico», di preparare l'instaurazione della società senza classi e senza Stato. Recuperato il discorso di Marx sulla natura intrinsecamente repressiva dello Stato (strumento nelle mani della classe dominante per realizzare il proprio dominio), Lenin afferma che anche lo Stato della fase di transizione - la dittatura del proletariato, appunto - non potrà che essere uno strumento di repressione, anche se in "modo nuovo": non più, come nel caso dello Stato borghese, una dittatura repressiva ai danni della maggioranza, bensì lo strumento in mano a una «maggioranza di ex schiavi salariati» per liquidare «una minoranza di sfruttatori». Di qui il suo carattere realmente, ma anche non compiutamente democratico:

Insieme a un grandissimo allargamento della democrazia, divenuta per la prima volta una democrazia per i poveri, per il popolo, e non una democrazia per i ricchi, la dittatura del proletariato apporta una serie di restrizioni alla libertà degli oppressori, degli sfruttatori, dei capitalisti. Costoro noi li dobbiamo reprimere, per liberare l'umanità dalla schiavitù salariata [...].

Nelle circostanze della rivoluzione socialista, la dittatura del proletariato avrebbe dovuto esprimersi nella gestione del potere da parte dei soviet degli operai, dei soldati e dei contadini - «tutto il potere ai soviet» fu, in effetti, la parola d'ordine della insurrezione di ottobre. Lenin scorge nei soviet la realizzazione autenticamente democratica del principio della rappresentatività che nella repubblica democratica borghese è riduttivamente incarnato nelle istituzioni parlamentari della democrazia delegata. Di qui il richiamo che Stato e rivoluzione rinnova di continuo alla Comune di Parigi e alle pagine che Marx aveva a questa dedicate.

Rimane il dubbio sull'effettiva conciliabilità tra questa aperta rivendicazione della democrazia consiliare e la concezione leniniana del partito che, come s'è visto, è contrassegnata da una forte centralizzazione del dibattito e dei momenti decisionali, cui corrisponde una struttura organizzativa di tipo verticale. Sta di fatto, comunque, che Stato e rivoluzione è attraversato da una forte ispirazione democratica e libertaria che si esprime soprattutto nell'idea che lo Stato, ogni specie di Stato, sia di per sé incompatibile con la libertà: «finché esiste lo Stato, non vi è libertà; quando si avrà la libertà, non vi sarà più Stato».

Discende da qui l'affermazione più significativa contenuta nell'opera, cioè che lo Stato proletario (ossia il «proletariato organizzato come classe dominante»), nato dall'abbattimento dello Stato borghese, dovrà cominciare a estinguersi fin dal primo giorno della sua nascita «poiché lo Stato è inutile e impossibile in una società senza antagonismi di classe».23

Lenin riteneva dunque che la transizione avrebbe proceduto in modo lineare e non avrebbe occupato un tempo lunghissimo. Ancora nel discorso ai lavoratori raccolti nella Piazza Rossa il primo maggio del 1919, egli predice che «la maggior parte dei presenti che non hanno superato i trenta o trentacinque anni di età vedrà il rigoglio del comunismo, dal quale siamo ancora lontani».

Come ben sappiamo, questa previsione doveva rivelarsi sbagliata: lo Stato sovietico, identificato con il Partito comunista, si sarebbe progressivamente rafforzato già a partire dal 1919, per trasformarsi, nell'epoca staliniana, in una struttura sempre più repressiva e autoritaria, fino al punto di assumere le caratteristiche di una dittatura personale, intollerante di qualsiasi forma di potere che non fosse quello del capo del Partito e dello Stato.

7. L'austromarxismo

a) Origini e caratteri generali

Abbiamo già detto dell'influenza che il neokantismo, a partire dall'ultimo decen nio dell'Ottocento, esercita in modo crescente tra le file della socialdemocrazia tedesca. Quando i revisionisti sostengono che il socialismo è sostanzialmente un ideale etico, essi si trovano sotto la suggestione dei filosofi neokantiani della Scuola di Marburgo (vedi cap. 4), i cui maggiori esponenti, Cohen e Natorp, avevano riconosciuto nell'etica kantiana un'introduzione al socialismo, là dove essa comanda di trattare l'umanità, nella persona degli altri come nella propria, sempre e prima di tutto come fine e mai come mezzo. Il socialismo, per il fatto stesso di mettere in discussione la riduzione del lavoro umano a semplice merce che si vende e si compra sul mercato, non farebbe altro che rivendicare la libertà e la dignità della persona che Kant aveva posto a fondamento dell'etica universale.

Un altro esempio di contaminazione tra marxismo e neokantismo lo troviamo in un gruppo di intellettuali e uomini politici appartenenti alla socialdemocrazia austriaca, che nei primi anni del Novecento danno vita alla cosiddetta "giovane Scuola marxiana di Vienna" e a un indirizzo di pensiero, a partire dal primo dopoguerra, conosciuto sotto il nome di "austromarxismo". I suoi esponenti, tra i quali Max Adler (1873-1937), Otto Bauer (1881-1938), Rudolf Hilferding (1877-1941), Friedrich Adler (1879-1960) e Karl Renner (1870-1950), provenivano dalle file del movimento studentesco socialista viennese e si erano formati nel confronto con le moderne correnti filosofiche e scientifiche, dal neokantismo della Scuola del Baden, che combatteva il marxismo con sottili argomentazioni filosofiche, al fenomenismo di Mach, che a Vienna aveva insegnato negli ultimi anni dell'Ottocento. Questi giovani intellettuali avvertivano l'insufficienza del marxismo ortodosso di Kautsky e Plechanov, ma, insieme, rifiutavano la liquidazione della teoria marxiana della necessità storica della rivoluzione sociale, cui l'analisi revisionista di Bernstein finiva con l'approdare. Otto Bauer, in un articolo-necrologio in memoria di Max Adler, il più autorevole tra gli austromarxisti, scrive che, di fronte agli attacchi al marxismo condotti, in forza degli strumenti "gnoseocritici" offerti dalla filosofia kantiana, dai filosofi borghesi, allo scopo di «derivoluzionare il movimento socialista» e di ridurre il socialismo «a un postulato etico, a mera massima di valutazione e di azione nell'ambito dell'ordinamento sociale esistente», il merito di Adler è stato quello di combattere questo tentativo adottando gli stessi strumenti degli avversari.

La giovane Scuola marxiana di Vienna si avvale di efficaci organi di diffusione delle proprie idee e di dibattito teorico, come i "Marx-Studien", una serie di saggi dedicati, a partire dal 1904, all'indagine filosofica, sociologica e politica, e la rivista teorico-politica "Der Kampf", fondata da Bauer nel 1907 in alternativa al "Die neue Zeit" di Kautsky. La Scuola è attiva fin dai primi anni del secolo attraversando un periodo di grande fermento intellettuale, in un ambiente culturale nel quale l'intellettualità borghese si esprime ad altissimi livelli di creatività. E la grande cultura viennese rappresentata nel settore degli studi filosofici da Mach, e più tardi, da Wittgenstein e dal Circolo di Vienna, in quello del diritto dal positivismo giuridico di Kelsen, nel campo della pittura dalla Secessione di Klimt, Schiele e Kokoschka, in quello della musica da Mahler, Schönberg e Richard Strauss, nella letteratura da Musil, Roth, Schnitzler e Hofmannsthal, nell'ambito della psicologia da Freud. Con questi interlocutori vengono a confrontarsi gli austromarxisti, sollecitati dunque a uno sforzo di rinnovamento della teoria marxista atto a rinvigorire le capacità di lettura della società capitalistica, i cui sviluppi, sempre più complessi anche sul terreno culturale, non tollerano più un uso superficiale e schematico dei metodi interpretativi proposti da Marx.

La guerra mondiale prima, la Rivoluzione bolscevica e la nascita della repubblica austriaca postbellica poi, producono nella "comunità spirituale" degli austro- marxisti divisioni politiche tra orientamenti moderati e tendenze di sinistra. Queste ultime prevalgono nel Partito socialdemocratico austriaco del dopoguerra, orientandolo verso la formulazione di una "terza via", alternativa sia al riformismo socialdemocratico sia al bolscevismo. Da questo momento le vicende dell'austro- marxismo si intrecciano con quelle del partito. Osteggiato dagli opposti versanti della socialdemocrazia tedesca e dell'Internazionale comunista, oscillante tra riforme e rivoluzione, esso sarebbe andato fatalmente incontro a un tragico scioglimento delle proprie ambiguità e incertezze, di fronte al profilarsi dell'offensiva antisocialista e reazionaria che anche in Austria, come in Germania, assume caratteri drammatici in seguito alla grande crisi del 1929. Dopo l'affermazione al potere, nel 1932-33, del regime clerico-fascista di Engelbert Dollfuss, un tentativo insurrezionale della "Vienna rossa", organizzato dai socialdemocratici, viene soffocato nel sangue e il partito messo fuori legge dal governo.

b) Adler: una lettura idealistica del marxismo

Non c'è dubbio che la più significativa rielaborazione filosofica del pensiero di Marx proposta nell'ambito dell'austromarxismo sia quella di Max Adler, conse gnata al suo saggio più importante, Causalità e teleologia nella disputa sulla scienza (1904), e ad altri scritti come il Manuale della concezione materialistica della storia (1930) e L!enigma della società (1936).

In nome di una teoria critica della coscienza discendente dalla filosofia kantiana, Adler avanza un'interpretazione del marxismo che mira a separarlo dai suoi fonda menti filosofici, costituiti dal materialismo dialettico. Questo, non diversamente dalle opposte filosofie spiritualistiche, pretende di risalire alla conoscenza dell'essenza del mondo, rivelandosi in tal modo una filosofia metafisica, dimentica del fatto che le nostre capacità conoscitive non possono trascendere i confini dell'esperienza. Scrive Adler:

In realtà, nella filosofia odierna non esistono soltanto le due correnti fondamentali del materialismo e dello spiritualismo, ma ne esiste anche una terza, quella del criticismo gnoseologico. Di contro a essa materialismo e spiritualismo vengono a confluire in una sola corrente in cui risultano simili, nonostante le altre loro differenze: ossia la corrente che accoglie in modo acritico e dogmatico l'esistenza di una sostanza delle cose in sé, la corrente metafisica.

Non dobbiamo, pertanto, farci ingannare dal fatto che Marx ed Engels abbiano chiamato la loro concezione della società con il nome di materialismo storico, piuttosto che con quello, che sarebbe stato più appropriato, di "realismo sociologico" o "positivismo". Ciò è dipeso dal fatto che essi dovettero opporsi alle interpretazioni spiritualistiche dominanti nella filosofia e nella sociologia del loro tempo. Il materialismo storico, in effetti, non è altro, sentenzia Adler, che una «scienza eco nomica della società, secondo esperienza».

In realtà, la revisione cui Adler sottopone il pensiero dei padri del marxismo non avrebbe potuto essere più radicale e tendenziosa. Non solo egli avanza una concezione d'impronta idealistica del soggetto umano, identificandolo con la coscienza, ma, addirittura, intende quest'ultima come unica realtà, cui dev'essere ricondotta l'intera esperienza umana, con l'esclusione radicale di ogni esistenza presupposta come "fuori di noi". Alla domanda che Lenin considerava decisiva a favore del materialismo - «esisteva o no la Terra prima dell'uomo?» -, così Adler risponde:

Certo la Terra è esistita prima dell'uomo, ma non prima della coscienza. La Terra in fatti, e il sorgere e l'evolversi della Terra, e l'intero periodo dell'evoluzione che precede la comparsa dell'uomo sono non soltanto contenuti della coscienza, ma determinazioni della coscienza, possibili solo attraverso le forme della coscienza. È soltanto in virtù dell'intuizione del tempo nella coscienza che viene tracciata la linea entro cui "noi" inscriviamo l'esistenza della Terra prima della comparsa dell'uomo.

Anche la società, nel suo oggettivo dispiegarsi come serie causale di eventi collettivi, rinvia a un a priori sociale costitutivo della coscienza quale proprio fondamento, nel quale l'io non è pensabile - lo aveva già detto Feuerbach - se non come un noi, principio della coesistenza plurima di soggetti diversi. Come dire che l'uomo non è sociale perché vive nella società, ma, al contrario, può vivere nella società perché è sociale nella sua coscienza originaria.

Una siffatta interpretazione del marxismo, che tornava a "porre sulla testa" quello che Marx ed Engels avevano inteso "rimettere sui piedi" e piegava i princìpi del materialismo storico a un'interpretazione coscienzialistica e idealistica, nasceva dall'esigenza di respingere le tendenze naturalistiche e dogmatico-materialistiche del marxismo ortodosso. A esso Adler rimproverava di voler trasferire nel «vivente regno del mondo umano [...] il cieco gioco di forze della materia inanimata», quasi che

lo sviluppo economico, riconosciuto come l'elemento determinante di tutto il processo storico, fosse semplicemente un movimento della materia senza vita, della materia sociale, di fronte alla quale il pensare e il volere degli uomini risulta un prodotto superfluo [...].

Una professione di fede materialistica, questa, secondo cui «lo spirito e il volere umani non hanno propriamente nessuna realtà nella storia e soltanto in apparenza sarebbero attivi in essa». Richiamandosi alle Tesi su Feuerbach e alla teoria del Capitale sul feticismo delle merci, Adler afferma, viceversa, che dietro le cose nella loro esteriorità materiale si nasconde l'attività umana, la soggettività, e parla della

grandiosa elaborazione, da parte di Marx, del concetto dei rapporti economici, nei quali egli, ben lungi dal contrapporli come materia sociale agli uomini, dimostrò all'opposto esserci dovunque nel punto centrale questi stessi uomini e che egli rappresentò così esplicitamente come umani. [...] Forze produttive, modo di produzio ne, rapporti economici, sviluppo economico e simili, tutte queste espressioni hanno in Marx sempre un significato immediatamente sociale, che non si potrebbe concepire senza il concetto dell'uomo associato, attivo, come il loro portatore. [•••] I rapporti economici non sono rapporti di cose, bensì rapporti di uomini. Nel terreno dei rapporti economici, anche se spesso sono definiti rapporti materiali, non si tratta mai di una "materia" sociale, ma sempre e ovunque dell'"uomo" sociale.

Questa rivendicazione del carattere umano dei rapporti economici e sociali, di per sé giusta, finisce però con il risolvere tali rapporti in una dimensione di natura spirituale. Fino a esaurirli in mere determinazioni della coscienza, in una sorta di contraffazione idealistica dei princìpi del materialismo storico. «Se [...] i rapporti economici non sono che rapporti umani, essi sono insieme ed essenzialmente rapporti "spirituali", ossia comportano sempre un'attività finalistica di uomini.»

Il revisionismo adleriano, peraltro, non potrebbe essere in alcun modo confuso con quello di Bernstein. Adler rifiuta di risolvere il socialismo in un mero postulato morale e nell'esercizio della libera volontà dell'uomo, non determinata da alcuna forma di necessità; egli rivendica, al contrario, il fondamento scientifico del so cialismo e una lettura dello sviluppo sociale secondo rapporti causali oggettivi. La realtà storico-umana deve poter esser ricondotta a un insieme di leggi causali necessarie, sulle quali costruire la scienza sociale. L'irriducibilità dei processi sociali al meccanicismo delle leggi naturali, contrariamente a quanto sostenuto dal materialismo dialettico, non significa che essi riposino esclusivamente sulla teleologia di una libertà arbitraria e soggettiva.

Insomma, Adler si propone, in nome del suo marxismo neokantiano, di conciliare determinismo e teleologia, necessità e libertà. Una volta chiarito che la teoria della storia e della società richiede un determinismo socio-economico in grado di dare fondamento scientifico al socialismo, è compito ulteriore del marxismo dimo strare che la causalità nel dominio della vita sociale, lungi dall'essere una causalità cieca, simile a quella del mondo naturale, è inserita nella trama delle idee e dei fini della volontà umana. Ed è allora che è giustificato parlare del socialismo anche come di un valore etico, correlato alla libertà del volere quale è consentita dallo sviluppo oggettivo, scientificamente controllabile, dei processi economici e sociali.

Del resto, sostiene Adler, Marx, nel momento in cui affermava che sono gli uomini a fare la loro storia, ma soltanto entro i limiti di circostanze oggettive che non sono loro a scegliere, aveva per primo avviato quella combinazione di determinismo e teleologia, di esigenze scientifiche e proposizioni di valori pratico-morali che è merito dell'austromarxismo di Adler aver riproposto.

8. Labriola: dalla cattedra al comunismo

L'affermazione di un movimento operaio di ispirazione socialista e la nascita del marxismo teorico è segnato, in un paese come l'Italia - caratterizzato da un sensi bile ritardo nei processi della moderna industrializzazione e nella formazione di un moderno proletariato urbano - da ritmi assai più lenti che negli altri paesi dell'Europa occidentale.

Per un lungo periodo della storia postunitaria avrebbero prevalso nel movimento operaio italiano, prima orientamenti di ispirazione mazziniana, poi, nell'età della Prima Internazionale, la predicazione degli anarchici. Soltanto la nascita nel 1892 di un Partito socialista di orientamento marxista avrebbe creato le condizioni per il diffondersi anche in Italia della conoscenza dell'opera di Marx e di Engels, anche se i fondatori del Partito socialista italiano, tra i quali fu dominante la figura del riformista Filippo Turati, non ebbero particolari interessi di natura teorica e, comunque, il loro stesso marxismo appare fortemente "inquinato", da un lato da suggestioni risalenti al pensiero democratico lombardo dell'epoca ri sorgimentale (Ferrari e Cattaneo), e dall'altro, come quasi tutte le dottrine marxistiche secondinternazionaliste, dallo scientismo e dall'evoluzionismo positivistico. Non meraviglia, pertanto, che, ad assicurare al marxismo italiano uno spazio teorico proprio, autonomo sia dal positivismo sia dalla rinascita dell'idealismo nei primi anni del Novecento, non siano stati i capi del movimento socialista direttamente impegnati nella lotta politica e sociale, bensì un solitario professore delle regie università italiane, Antonio Labriola. Il che è un segno eloquente della difficoltà che il pensiero marxista incontrava allora in Italia a radicarsi nella prassi sociale collettiva.

Duplice è stato il merito di Labriola nell'awiare il primo grande dibattito teorico sul marxismo in Italia: da un lato la riscoperta delle radici filosofiche hegeliane del pensiero di Marx e di Engels, che il prevalere di un marxismo positivisteggiante aveva reciso; dall'altro la riaffermazione del carattere rivoluzionario del socialismo marxiano, proprio negli anni in cui l'affermarsi del revisionismo bernsteiniano sembrava destinato a cancellare definitivamente la natura radicalmente antagonista del programma socialista. Si trattava in realtà di una medesima operazione, giacché era stata proprio la natura dialettica dei processi storico-sociali, teorizzata dai fondatori del marxismo sulle tracce di Hegel, a rendere possibile la fondazione della prospettiva rivoluzionaria del loro socialismo.

Nato nel 1843 a Cassino, Labriola si familiarizza con la filosofia hegeliana fin da quando, studente universitario a Napoli nel 1861, ha come maestro di filosofia Bertrando Spaventa, autorevole esponente dell'hegelismo meridionale italiano. Sotto la sua influenza, già nel 1862 si trova a polemizzare, in un saggio intitolato Una risposta alla prolusione di Zeller, contro la tendenza a favorire un "ritorno a Kant" in funzione antihegeliana. Egli sostiene che il più profondo significato della sintesi trascendentale kantiana prelude già all'hegeliana identificazione di logica e ontologia. Ottenuta nel 1874 la cattedra di Filosofia morale e pedagogia all'Università di Roma, dove insegnerà fino al 1904, anno della sua morte, Labriola si avvicina alla filosofia herbartiana. Egli ne apprezza, in particolare, lo spirito scientifico espresso nel programma di elaborazione critica dei concetti e l'interesse per la psicologia e l'etica; senza che, peraltro, questo significhi una vera e propria accettazione dell'impianto filosofico generale dell'herbartismo, rappresentato dalla logica e dalla metafisica: glielo impedisce la sua adesione, tuttora convinta, all'impostazione storicistica della lezione hegeliana. Esito di questo "herbartismo" sono gli studi etico-pedagogici labrioliani, documentati da scritti come Della libertà morale (1873), Morale e religione (1873) e Dell' insegnamento della storia (1876). Il rapporto con Herbart riveste una grande importanza per la successiva conversione di Labriola al marxismo, sicché si può dire che la funzione che Feuerbach aveva avuto nella formazione di Marx per il "raddrizzamento" della filosofia hegeliana, è svolto nella formazione di Labriola dalla psicologia herbartiana che, allargata alla considerazione della vita dei popoli, gli insegna a trasferire, dalla dimensione metafisica dell'Idea, su di un terreno concretamente antropologico, lo studio delle attività umane. È lui stesso, del resto, a confessarlo nel 1894 in una lettera a Engels: «Forse - anzi senza forse - io sono diventato comunista per effetto della mia educazione (rigorosamente) hegeliana, dopo esser passato attraverso la psicologia di Herbart».

La conversione di Labriola al marxismo teorico è preceduta da quella al socialismo politico, maturata sul finire degli anni settanta; essa mai sarebbe avvenuta, e comunque mai fino alla militanza politica, se il professore avesse esaurito la propria attività all'interno delle aule universitarie. È, del resto, il suo stesso modo, socratico, di concepire la funzione e la destinazione dell'insegnamento - a Socrate egli dedica nel 1871 un saggio, La dottrina di Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele - a spingerlo fuori dalle chiuse e soffocanti mura dell'istituzione all'incontro con i rappresentanti di quei diciannove milioni di analfabeti, nei quali egli afferma di riporre più fiducia che in tutte le scuole del regno. È, appunto, il contatto con la realtà degli operai, attraverso i frequenti corsi che organizza nei circoli popolari romani, a fungere da catalizzatore, ad accelerare la maturazione in senso socialista delle sue convinzioni.

Nel pieno dell'impegno politico, divenuto vera e propria militanza negli anni immediatamente precedenti la fondazione del partito turatiano (nel 1888 tiene perfi no un discorso politico agli operai delle acciaierie di Terni), viene a maturare anche la conversione teorica al marxismo - o al «comunismo critico», come egli preferiva dire -, attraverso un ripensamento teorico della Rivoluzione del 1789. Proprio nell'anno del centenario, egli tiene un corso universitario sulla Rivoluzione francese, che è costretto a sospendere per più di un mese a causa dei tumulti che esplodono fuori dall'università, dove ne è arrivata l'eco provocatoria. Afferma Labriola che, ormai conclusa la fase della rivoluzione liberale, l'individualismo deve cedere alla socialità, che «la rivoluzione sociale è tutt'altra della borghese, nei fini, nei mezzi e nella tattica», sicché il moto proletario non potrebbe mai essere «la semplice prosecuzione del moto liberale».

Gli scritti di filosofia marxista di Labriola appaiono tra il 1895 e il 1897: In me moria del Manifesto dei comunisti, pubblicato in una rivista francese e l'anno dopo, nel 1895, in italiano, a cura di Benedetto Croce, allora discepolo e amico dell'autore; Del materialismo storico. Delucidazione preliminare (1896); infine, Discorrendo di socialismo e di filosofia (1897), sotto forma di lettere a Georges Sorel, in cui prende posizione contro il revisionismo marxista.

Il dialogo labriolano con il pensiero di Marx e di Engels è ispirato a un'istanza ri gorosamente critica, inteso com'è a scioglierlo dall'abbraccio soffocante del positivismo e a preservarlo da ogni rischio di sclerotizzazione dogmatica. Marx, egli afferma, non ha inteso insegnare se non un metodo di interpretazione complessiva della storia, ha offerto "un filo conduttore" - il materialismo storico - che, proprio perché non è l'invenzione di un individuo geniale, ma piuttosto l'espressione del livello di maturità cui è pervenuto il movimento storico della società moderna, si propone come un orientamento di pensiero aperto a sempre nuovi sviluppi e arricchimenti, e a sempre nuove correzioni. D'altronde, Labriola nega che il marxismo possa pretendere di «riscrivere a novo tutta l'enciclopedia filosofica», così da esaurire in un sistema totalizzante «lo sviluppo della natura, della società e del pensiero». Illuminante è ciò che Labriola scrive in una lettera a Turati:

Volgendomi al socialismo, non ho chiesto a Marx l'abicì del sapere. Al marxismo non ho chiesto se non ciò che esso effettivamente contiene: ossia quella determinata critica dell'economia che esso è, quei lineamenti del materialismo storico che reca in sé, quella politica del proletariato che enumera o preannuncia.

E subito prima egli aveva chiarito come e perché egli fosse nelle migliori condizio ni per evitare le ibride mescolanze che rendevano irriconoscibile l'insegnamento di Marx in tanta parte del sedicente marxismo del tempo:

Prima [...] di diventar socialista, io avevo avuto inclinazione, agio e tempo, oppor tunità e obbligo d'aggiustar le mie partite ed i miei conti col darwinismo, col positivismo, col neokantismo [...].

No, dunque, per cominciare, al connubio Darwin-Marx, così frequente tra i positivisti sedicenti marxisti che non esitano a ridurre la storia degli uomini a natura e animalità in evoluzione meccanica. No, anche, a quella grossolana semplificazione rappresentata dall'economicismo che riduce la storia al solo momento economico, facendo di tutto il resto un "inutile fardello" di cui gli uomini si dovrebbero liberare. E no, anche a quell'idealismo etico di origine kantiana, con il quale il revisionismo alla Bernstein pretenderebbe di dare sepoltura al materialismo storico, facen do del socialismo un mero ideale etico. L'etica, ricorda Labriola, non è nulla al di fuori del «mettere il pensiero scientifico in servizio del proletariato»,36 ove per pensiero scientifico s'intende il materialismo storico. La scientificità è, infatti, la dimensione propria di una concezione materialistica della storia; essa è il portato di quel rovesciamento della dialettica hegeliana compiuto da Marx che ha voluto sostituire «alla semovenza ritmica di un pensiero per sé stante [...] la semovenza delle cose, delle quali il pensiero è da ultimo un prodotto».

La prospettiva del socialismo riposa, appunto, su questa semovenza, sull'«auto- critica che è nelle cose stesse» e non è semplicemente affidata a una mera critica soggettiva, di per sé sterile e inefficace:

La critica vera della società è la società stessa, che per le condizioni antitetiche dei contrasti su i quali poggia, genera da sé in se stessa la contraddizione, e questa poi vince per trapasso in una nuova forma. Il risolvente delle presenti antitesi è il prole tariato, che lo sappiano o non lo sappiano i proletari stessi. Come in essi la miseria loro è diventata la condizione palese della società presente, così in essi e nella miseria loro è la ragion d'essere della nuova rivoluzione sociale. In questo trapasso dalla critica del pensiero soggettivo, che esamina dal di fuori delle cose e immagina di poterle correggere per conto suo, all'intelligenza della autocritica che la società esercita sopra di se stessa nella immanenza del suo proprio processo; soltanto in ciò consiste la dialettica della storia, che Marx ed Engels, solo in quanto erano materialisti, trassero dall'idealismo di Hegel.

Questa sottolineatura dell'oggettività dei processi storici, della loro "naturalità", l'affermazione del determinismo delle leggi che li regolano (la cui scoperta distingue la previsione marxiana, scientificamente fondata, dalle profezie mülenaristiche degli utopisti, da fra' Dolcino a Fourier), non intende, si badi bene, concedere nulla a una naturalizzazione della storia che, come fa il darwinismo sociale, la equipari ai processi fisici e biologici della natura. Labriola è così convinto che la storia sia fatta dagli uomini, condizionati, certo, dalla natura, ma, attraverso questo condizionamento, pur sempre autori del mondo "artificiale" prodotto, appunto, dal loro lavoro:

La storia è il fatto dell'uomo, in quanto che l'uomo può creare e perfezionare i suoi istrumenti di lavoro, e con tali istrumenti può crearsi un ambiente artificiale, il quale poi reagisce nei suoi complicati effetti sopra di lui, e così com'è, e come via via si modifica, è l'occasione e la condizione del suo sviluppo.

La ripulsa di ogni determinismo meccanicistico e la convinzione che «la storia è il fatto dell'uomo» si manifestano, in particolare, nel rifiuto labriolano della disumanizzazione dell'economia che, quando ne siano autori dei marxisti, li condanna a esiti non dissimili da quelli cui perviene l'economia politica borghese, tutta giocata sull'assolutizzazione delle leggi economiche. Gli uomini non sono

come tante marionette, i cui fili siano tenuti e mossi, dalla provvidenza non più, ma an zi dalle categorie economiche. Queste categorie sono esse stesse divenute e divengono, come tutto il resto; perché gli uomini mutano quanto alla capacità e all'arte di vincere, aggiogare, trasformare e usare le condizioni naturali; perché gli uomini cambiano animo e attitudini per la reazione degl'istrumenti loro sopra di loro stessi; perché gli uomini mutano nei loro rispettivi rapporti di conviventi, e perciò di dipendenti in vario modo gli uni dagli altri. Si tratta insomma della storia, e non dello scheletro suo.

È sbagliato ridurre la storia al fattore semplicemente economico. È vero, certo, che «le idee non cascano dal cielo, e anzi [...] si formano in date circostanze, in tale precisa maturità dei tempi, per l'azione di determinati bisogni, e pei reiterati tentativi di dare a questi soddisfazione». E anche vero che, come ha insegnato Marx, non sono le forme di coscienza a determinare l'essere dell'uomo ma viceversa; ma non è men vero che, come ha chiarito Engels, solo «in ultima istanza» i fatti storici vanno ricondotti alla «sottostante struttura economica». Di qui prende avvio la rivalutazione labrioliana delle sovrastrutture, che non sono certo riducibili a «mere apparenze e bolle di sapone»:

[...] queste forme di coscienza, come son determinate dalle condizioni di vita, sono anch'esse la storia. Questa non è la sola anatomia economica, ma tutto quello insieme, che codesta anatomia riveste e ricopre, fino ai riflessi multicolori della fantasia. O, a dirla altrimenti, non c'è fatto della storia che non ripeta la sua origine dalle condizioni della sottostante struttura economica; ma non c'è fatto della storia che non sia preceduto, accompagnato e seguito da determinate forme della coscienza.

Non è neanche vero che, come pensano grossolani divulgatori del marxismo, dalla struttura economica

saltino fuori, a guisa d'immediati effetti automatici e macchinali, istituzioni e leggi, e costumi, e pensieri, e sentimenti, e ideologie. Da quel sottostrato a tutto il resto, il processo di derivazione e di mediazione è assai complicato, spesso sottile e tortuoso, non sempre decifrabile.

Non meno forte è l'avversione di Labriola nei confronti di qualsivoglia forma di fi losofia della storia, che lo rende assai cauto perfino nei confronti dell'arma hegelo- marxiana della dialettica, cui preferisce la locuzione concezione genetica e di cui delimita assai la portata, come di «forma di pensiero che concepisce le cose non in quanto sono (factum, specie fissa, categoria ecc.) ma in quanto divengono».

Sospettava, forse, Labriola, nell'uso marxiano della dialettica un possibile residuo idealistico, e nella visione complessiva della storia di Marx un pericolo non del tutto scongiurato di hegeliana filosofia della storia, preludio a una fine della storia stessa. In nome dell'ispirazione umanistica del proprio marxismo, escludente così ogni forma di idealismo come, allo stesso modo, il materialismo naturalistico, Labriola insiste semmai nel riconoscere «il midollo del materialismo storico» in quella che egli ama chiamare «filosofia della praxis», la quale, eliminando ogni separazione e contrapposizione tra teoria e prassi, ha il merito di restituire all'uomo 1 la pienezza delle sue capacità di trasformazione del mondo.

Negli stessi anni dell'elaborazione del proprio ripensamento del marxismo Labriola abbandona progressivamente l'impegno politico diretto, prendendo una certa distanza dal Partito socialista, alla cui nascita aveva dato il suo contributo, convinto com'è che il proletariato italiano debba avere una propria espressione politica autonoma. Sempre più difficili si sono fatti i suoi rapporti con Turati, da cui lo divide un profondo dissenso sulla linea politica da seguire. Egli non può condividere la tendenza del dirigente politico a troppo frequenti compromessi pratici, in cui vede confermata la debolezza e confusione teorica che sempre ha rimproverato a Turati. In particolare, egli ne critica la tendenza a cercare consensi al partito appena nato tra le file della borghesia scontenta, quando invece, in un paese come l'Italia di formazione capitalistica ancora tanto arretrata, compito principale dovrebbe essere quello di agire all'interno della classe operaia, accompagnandone, con un paziente lavoro di educazione, la lenta e faticosa maturazione di una coscienza di classe. Per questo Labriola si va convincendo che il più utile intervento politico che egli possa offrire è quello di dedicarsi al rigore di un lavoro teorico che nulla conceda a compromessi e contaminazioni tra marxismo e cultura borghese del tempo, dal neokantismo al positivismo.

Di qui, 1'"inattualità" di questo pensatore, come anche il suo relativo pessimismo sulle possibilità di un rapido sviluppo del movimento socialista in Italia. Del resto, viene facendosi sempre più acuta in lui la consapevolezza - che in Bernstein agisce in una direzione ben diversa da quella, intransigentemente rivoluzionaria, cui egli rimane sempre fedele - che il capitalismo sia una forma sociale ben più complessa e vitale di quello che si era immaginato fino ad allora, e che i tempi previsti da Marx per la prospettiva socialista saranno ben più lunghi e problematici.

9. Mondolfo: una lettura riformistico-democratica del marxismo

In un momento nel quale sembrava che in Italia il marxismo teorico dovesse soccombere sotto i colpi della revisione-liquidazione che del pensiero di Marx aveva condotto tra il 1896 e il 1899, attraverso i suoi studi marxisti, Benedetto Croce, ebbe qualche merito Rodolfo Mondolfo nel riaffermare la possibilità, anzi la necessità di una filosofia marxista, alla cui formulazione egli avrebbe dedicato diversi scritti, da 11 materialismo storico in Federico Engels (1912) a una serie di saggi raccolti in volume nel 1919, e ancora nel 1923, sotto il titolo Sulle orme di Marx, e che sarebbero riapparsi, in una nuova edizione arricchita, nel 1968, sotto un nuovo ti tolo, Umanismo di Marx.

In uno di questi saggi, Socialismo e filosofia (1913), Mondolfo fa risalire la crisi in corso del socialismo italiano, lacerato nelle opposte correnti del riformismo e del massimalismo, all'assenza di una limpida coscienza teorica, insomma di una filosofia, senza la quale non si danno né «chiara consapevolezza delle premesse», né «netta visione del fine, [che] sono le due condizioni della coerenza nel pensiero e della sicurezza nell'azione».

Il marxismo mondolfiano, peraltro, pur collocato al fianco del riformismo di Turati, si sarebbe rivelato incapace di incidere sulle sorti del movimento socialista italiano, e destinato a un'esclusiva rilevanza teorica, anche questa di dubbia portata rinnovatrice all'interno del pensiero marxista. La sua debolezza, costituita, com'è stato detto,47 da una troppo meccanica e semplicistica congiunzione tra og gettività dei processi reali e iniziativa soggettiva rappresentata dall'azione di classe, tra necessità e libertà, scientificità e umanismo, derivava dalla stessa formazione dell'uomo, cui avevano presieduto sia la cultura di stampo positivistico sia l'idealismo trionfante di Croce e Gentile.

E vero che Mondolfo aveva avuto il merito di riabilitare, facendola discendere dalla "soffitta" in cui era stata relegata, l'opera di Labriola, a cui si sarebbe ispirato come a quella di un maestro capace di emendare il marxismo dalle scorie positivistiche e di riscattarlo da ogni sorta di materialismo meccanicistico e di determinismo economicistico. E anche vero, però, che egli avrebbe forzato il pensiero la- briolano in una direzione umanistica e idealistica, smarrendone la carica rivoluzionaria e il più profondo spessore teorico.

Rodolfo Mondolfo nasce nel 1877 a Senigallia, ove esordisce in politica, nel 1907, con scritti che teorizzano possibili convergenze tra mazzinianesimo e sociali smo, segno di un'originaria ispirazione democratica e riformistica. Si laurea a Firenze nel 1899 e ivi aderisce al Partito socialista. A Padova, dove consegue la libera docenza, mantiene stretti rapporti con Roberto Ardigò, che supplisce nell'in segnamento tra il 1907 e il 1910. Nel 1914 si trasferisce a Bologna, nella cui università insegna fino al 1939, quando, in conseguenza delle leggi razziali, è costretto, lui ebreo, a rifugiarsi in Argentina. Nel paese sudamericano insegna per lunghi anni, fino alla morte, nel 1976, all'età di novantanove anni. Studioso fin dai primi anni del secolo delle origini del pensiero politico moderno da Hobbes a Rousseau, è costretto dal regime fascista ad abbandonare fin dal 1925 gli studi marxisti, e da quel momento si dedica a importanti studi di filosofia greca antica. Questi diversi aspetti della sua riflessione sono presenti in scritti quali Saggi per la storia della morale utilitaria: la morale di Thomas Hobbes (1903), Rousseau nella formazione della coscienza moderna (1914), Uinfinito nel pensiero dei greci (1934), Problemi del pensiero antico (1936). In Argentina, oltre che saggi ancora di filosofia antica - La comprensione del soggetto umano nell'antichità classica (1955) e Socrate (1955) - ri prende a scrivere di marxismo con un saggio, Intorno a Gramsci e alla filosofia della prassi (1955), e con altri interventi come il materialismo storico come umanismo realistico e La concezione dell'uomo in Marx (1962).

Nel già citato scritto Socialismo e filosofia Mondolfo sostiene che il "peccato di origine" del socialismo italiano - e non solo - in tutte le sue versioni è stato d'affidarsi al cosiddetto "socialismo scientifico", responsabile di aver separato «la cele bre frase di Marx, che non la coscienza determini l'essere dell'uomo, ma il suo essere sociale determini la sua coscienza [...] da quella filosofia della prassi che le conferiva il giusto valore».48 Detta separazione è, infatti, secondo Mondolfo, all'o rigine di quel determinismo, economicismo e materialismo oggettivistico che congiurano a vanificare dell'insegnamento di Marx l'ispirazione volontaristica e umanistica, ben espressa, appunto, nel concetto di prassi, condiviso anche da Engels, come non hanno saputo vedere le frequenti interpretazioni rozzamente positivistiche del suo pensiero, nonostante una qualche tendenza naturalistica affiorata nell'ultima fase della sua opera.

È da sottolineare, peraltro, che, nell'individuazione in Marx della centralità del concetto di prassi, Mondolfo appare debitore della lettura in chiave idealistica che Gentile aveva proposto, nel saggio La filosofia di Marx (1897), della terza Tesi marxiana su Feuerbach, là dove Marx parla dell'attività umana come «prassi rivo luzionaria». Il nostro autore, infatti, fa sua la traduzione infedele - «prassi rovesciata» - che di quella espressione aveva offerto il filosofo idealista e che gli aveva dato modo di intenderla nel senso di una «prassi che si rovescia».

E vero che Mondolfo avrebbe in seguito sostenuto che la traduzione infedele di quel passo non gli aveva impedito di cogliere lo "spirito" della dottrina marxiana, ben espresso dal termine «autotrasformazione» con cui nella Tesi si parla dell'attività umana; ciò non dissipa, però, l'impressione di una dipendenza del filosofo marxista da un'interpretazione francamente idealistica del testo marxiano come quella gentiliana. Un'impressione rafforzata sia dal significato piuttosto generico che Mondolfo finisce con l'attribuire alla nozione di prassi, sempre più lontana dal senso rivoluzionario secondo cui Marx l'aveva usata, sia dalla dichiarata preferenza mondolfiana per l'espressione concezione realistica della storia al posto di quella, engelsiana, a suo parere equivoca, di materialismo storico.

La filosofia della prassi, o, come anche Mondolfo la definisce, la concezione critico- pratica caratteristica del marxismo, viene assumendo nello studioso socialista la fisionomia di uno storicismo umanistico e realistico che, come ha scritto Bobbio, «rovescia Hegel sostituendo allo Spirito l'uomo concreto; [...] rende umanistico, servendosi di Feuerbach, lo storicismo di Hegel, e rende storicistico, servendosi di Hegel, l'umanismo di Feuerbach».

Se negli anni precedenti la prima guerra mondiale Mondolfo insiste nel presentare il marxismo come una filosofia della volontà, avversa a ogni interpretazione fatalistica della storia, dopo la Rivoluzione d'ottobre egli sottolinea sempre più il momento oggettivo del processo storico, contro il disegno rivoluzionario leninista, che gli appare - a lui, uomo ancora legato al socialismo della Seconda Internazionale - una forzatura volontaristica della dialettica storica. Di nuovo vicino alle posizioni politiche di Turati, egli vede nel leninismo una sorta di risorgente blanquismo, che pretende di «accelerare con la violenza il ritmo della storia», e contro il quale occorre riaffermare invece quello che era andato dicendo Marx nella Prefazione del 1859 alla Critica dell'economia politica circa le condizioni necessarie al compiersi della rivoluzione, condizioni del tutto assenti nella realtà russa. Mondolfo si trova così a recuperare le classiche argomentazioni evoluzionistiche del riformismo secondinternazionalista, contro le quali si era mossa finora la sua filosofia della prassi; esse lo inducono a scorgere nel famoso articolo del giovane Gramsci, La rivoluzione contro il Capitale, apparso sul finire del 1917, nient'altro che una testimonianza ulteriore dell'estraneità del leninismo rispetto all'autentica lezione di Marx.

Mondolfo avrebbe in ogni occasione ribadito il suo giudizio sulla Rivoluzione del 1917 e su Lenin; ne è conferma lo stesso confronto che conduce durante gli anni cinquanta e sessanta con il pensiero di Gramsci. Da un lato egli riconosce in quest'ultimo un momento del marxismo italiano come filosofia della prassi che, prendendo le mosse da Labriola, avrebbe avuto nell'opera mondolfiana stessa una sua tappa importante. Di qui l'attribuzione a Gramsci del merito, contro l'ortodossia del materialismo dialettico,

di aver decisamente distinto la filosofia della prassi dall'economismo storico, di aver rivalutato l'uomo come artefice della sua storia, [...] di aver superato il dualismo di struttura e soprastruttura nel riconoscimento dell'unità della vita sociale e del processo storico, in cui tutti i momenti e gli aspetti compiono uno scambio continuo di azioni e reazioni mutue [...].

Dall'altro lato Mondolfo rimprovera a Gramsci di aver ceduto, contravvenendo alla sua concezione "consiliare" della democrazia socialista, all'idea giacobina e leninista del partito come «moderno Principe» che suppone una distinzione persistente di dirigenti e diretti, di apparato e di massa, di intellettuali organici da una parte, incaricati d'esercitare l'azione educativa e conservare il consenso "spontaneo" del popolo e la legalità e la disciplina, e il popolo stesso dall'altra parte, che accetta la direzione spirituale, consente e obbedisce. [...] La collocazione di un Principe sul trono o sull'altare della venerazione popolare converte le élites politiche, burocratiche, tecnocratiche, investite di tale autorità, in dominatrici delle masse e delle coscienze. Questa via può condurre solo al totalitarismo come in Russia.

16. Gramsci: un marxista creativo

1. Vita e opere

Antonio Gramsci nasce ad Ales (Cagliari) nel 1891. Ottenuta la licenza liceale, nel 1911 concorre a una delle borse di studio offerte dal Collegio Carlo Alberto di Torino a studenti poveri della Sardegna. Conseguito l'obiettivo, si trasferisce nel capoluogo piemontese, ove si iscrive alla facoltà di Lettere, senza tuttavia terminare gli studi, essendo completamente assorbito dalla militanza politica nelle file del movimento socialista. Animatore dei consigli di fabbrica torinesi, nel 1919 fonda "Ordine Nuovo", che nella testata reca come motto: «Istruitevi perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza. Agitatevi perché avremo bisogno di tutto il vostro entusiasmo. Organizzatevi perché avremo bisogno di tutta la vostra forza». Sempre più critico nei confronti della politica del Partito socialista, nel 1921, a Livorno, è tra i fondatori del Partito comunista d'Italia, sezione della Terza Internazionale. Tra il 1922 e il 1923 trascorre un anno in Unione Sovietica, dove conosce Lenin. Tornato in Italia nel 1924, viene eletto deputato e fonda il quotidiano "L'Unità". L'8 novembre 1926, nonostante l'immunità parlamentare, viene arrestato dalla polizia, in seguito alle leggi eccezionali promosse dal fascismo. Dopo alcu ni giorni di detenzione nel carcere romano di Regina Coeli viene trasferito a Ustica per scontare cinque anni di confino. Nel 1927 il Tribunale speciale per la Difesa dello Stato lo riconosce colpevole di cospirazione e istigazione alla guerra civile. Il 20 gennaio viene trasferito nel carcere di San Vittore di Milano e ripetutamente in terrogato. La vicinanza di Tatiana Schucht, sorella della moglie Giulia, gli è di grande conforto. Infatti, è proprio a lei che comunica, in una lettera del 19 marzo, l'idea di un piano di studi da eseguire durante la permanenza in carcere:

«Sono assillato (è questo fenomeno proprio dei carcerati, penso) da questa idea: che bisognerebbe far qualcosa für ewig, secondo una complessa concezione di Goethe, che ricordo aver tormentato molto il nostro Pascoli. Insomma vorrei, secondo un piano prestabilito, occuparmi intensamente e sistematicamente di qualche soggetto che mi assorbisse e centralizzasse la mia vita interiore.

Processato a Roma tra il 28 marzo e il 4 giugno 1928 insieme a un gruppo di dirigenti comunisti, viene condannato a 20 anni, 4 mesi e 5 giorni di reclusione (fu in quella occasione che il pubblico ministero Michele Isgrò disse che bisognava «impedire a questo cervello di funzionare»). Nel luglio dello stesso anno Gramsci viene tradotto nella casa penale di Turi (Bari). In carcere, nonostante la mancanza «di ogni soddisfazione che faccia la vita degna di essere vissuta», egli rifiuta qualsiasi compromesso con il fascismo e mantiene una straordinaria lucidità di pensiero, come testimonia la stesura dei Quaderni del carcere, iniziata nel 1929. Grazie a un provvedimento di amnistia e condono, emanato in occasione delle celebrazioni per il decennale del regime fascista, nel 1932 ottiene una riduzione della pena a 12 anni e 4 mesi. Tuttavia le sue condizioni di salute peggiorano. Nell'agosto del 1931 e nel marzo del 1933 viene colpito da due gravissime crisi. Anche in seguito a una forte campagna internazionale di sensibilizzazione, promossa soprattutto dagli esuli di Parigi, ottiene il trasferimento in clinica, prima a Foggia poi a Roma, nel 1935. Nell'aprile del 1937 viene rilasciato, ma le sue condizioni di salute sono assai precarie. La sera del 25 aprile è colpito da emorragia cerebrale. Due giorni dopo, nel pomeriggio del 27 aprile, muore a soli quarantasei anni.

Fra le sue opere ricordiamo in primo luogo i saggi e gli articoli anteriori all'arresto, i quali, dopo la sua morte, sono stati raccolti in vari volumi (Scritti giovanili, 1914-18; Sotto la Mole; L'Ordine Nuovo, 1919-20; Socialismo e fascismo. L'Ordine Nuovo, 1921-22; La costruzione del partito comunista, 1923-26). A questi lavori bisogna aggiungere Alcuni temi della questione meridionale, composto, senza essere terminato, nel 1926 e pubblicato nel 1930. Gli scritti gramsciani più noti, anche a livello internazionale, sono le Lettere dal carcere e i 33 Quaderni del carcere (riempiti di una scrittura fitta e minuta, corrispondenti a circa 4000 pagine dattiloscritte), apparsi postumi dopo la seconda guerra mondiale. I Quaderni sono stati pubblicati dapprima sotto forma di volumi ordinati per soggetto (Il materialismo storico e la filosofia di benedetto Croce; Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura; Il Risorgimento-, Note sul Machiavelli, la politica e lo Stato moderno; Letteratura e vita nazionale-, Passato e presente). In seguito, nell'edizione critica a cura di Valentino Gerratana sono apparsi secondo l'ordine cronologico di stesura.

2. La filosofia della prassi

Gramsci vede nella filosofia della prassi qualcosa di radicalmente nuovo, originale e autonomo rispetto alle altre filosofie. Essa intanto non è una filosofia per i filosofi, un sistema di pensiero rivolto ai soli addetti ai lavori, ma un movimento culturale di massa che intende educare i "semplici" per condurli a una superiore concezione della vita, a una forma di coscienza concretamente mondiale. In questo senso i termini di confronto della filosofia della prassi sono le religioni cristiane e i grandi movimenti del pensiero laico - l'Umanesimo, l'Illuminismo, il Liberalismo -, almeno sino a dove hanno influenzato e orientato i valori, i comportamenti e i sentimenti collettivi: come nuova religione laica e attivistica operante nella soggettività popolare con la forza di un nuovo "senso comune", essa, poi, darà impulso all'opera di trasformazione consapevole della realtà. La filosofia della prassi è inoltre, come ogni teoria, qualcosa di perennemente incompiuto, mai riducibile a un siste ma chiuso, dogmatico e definitivo; ed è, come ogni ideologia, una forma di coscienza storica, da comprendersi storicamente, e non una forma di coscienza che si sottrae alla storia, ponendosene in qualche modo al di sopra: come filosofia critica, essa comprende storicisticamente anche se stessa, sa di essere un'ideologia attra versata dalle contraddizioni che lacerano la società, riconosce la propria parzialità e provvisorietà.

E però, a differenza di ogni altra filosofia del passato, il materialismo storico è anche un campo teorico autonomo, organico e complessivo: esso non è - come vuole Croce - solo un canone empirico di ricerca che ci ricorda il ruolo dei fattori economici e sociali nei processi storici, né è o è solo una teoria scientifica dell'economia o della politica. Al contrario, è una concezione sistematica e coerente, che contiene in sé tutti gli elementi necessari per costituire «una totale e integrale concezione del mondo» e farsi lievito di una più elevata, "integrale" civiltà. Risolvendo tutto nella storicità e inaugurando una concezione critica e realistica della storia, la filosofia della prassi segna, nelle parole di Gramsci, una «terrestrità e mondanizza- zione assoluta del pensiero», uno "storicismo" o "immanentismo assoluto", un "umanesimo assoluto" o "puro umanesimo", libero - al contrario dell'idealismo hegeliano e dello storicismo crociano - da ogni residuo teologico e speculativo. Sono questi caratteri, infine, ad abilitare il marxismo come teoria della transizione a una società socialista fondata sull'autogoverno dei produttori.

Tuttavia, con i continuatori di Marx e a partire proprio da Engels, la filosofia della prassi si è radicata tra le masse - per "ragioni didattiche" - nella forma di un materialismo volgare, viziato da elementi meccanicistici e dogmatici, "superstiziosi e primitivi". Come tipico esponente del materialismo volgare, di un evoluzionismo antistoricistico ingenuo e metafisico, Gramsci addita in particolare proprio il leader bolscevico cui è politicamente più vicino, ^uel Nikolàj Bucharin (1888-1937) che Stalin farà processare e giustiziare. Con la sua fiducia, tipicamente positivistica, nel- l'operare deterministico delle leggi oggettive che presiedono ai processi economici e sociali, il marxismo volgare ha infranto il delicato rapporto dialettico tra struttura e sovrastruttura, tra oggetto e soggetto, cancellando il ruolo della soggettività, dello spirito, della sovrastruttura a favore della sfera economico-produttiva, della materia, della struttura. Ciò facendo - pensa Gramsci - il marxismo dogmatico ha perso l'apporto dell'alta cultura, che con Croce e Gentile è tornata all'idealismo spiritualistico rinvigorita dal contributo del materialismo storico. Viceversa, per essere al l'altezza del suo compito storico, per trasformare un gruppo sociale subalterno privo di iniziativa storica - quale la classe lavoratrice - in una forza egemone capace di produrre coscientemente la storia, la filosofia della prassi deve formare un gruppo di intellettuali indipendenti in grado di divenire «l'esponente egemonico dell'alta cultura»; nello stesso tempo, attraverso un legame organico con le classi popolari, deve emergere come cultura nazional-popolare e suscitare tra le grandi masse una riforma intellettuale e morale che abbia la stessa qualità dell'Umanesimo e lo stesso vigore del protestantesimo e dell'Illuminismo. E in questo complesso quadro storico e teorico che si colloca l'ambivalente rapporto che Gramsci instaura con il pensiero di Benedetto Croce.

3. Il confronto con Croce e Gentile

Progettando un'alternativa radicale al pensiero di Croce, Gramsci si propone un obiettivo filosofico - portare a compimento e insieme superare lo storicismo idealistico -, e un obiettivo storico-culturale - sottrarre gli intellettuali italiani all'egemonia di tale storicismo; in tal modo intende porre le condizioni per una riforma intellettuale e morale che rimuova i più gravi limiti politici, culturali e sociali della storia italiana. A tal fine egli distingue il ruolo svolto da Croce nella cultura europea da una parte e nella società italiana dall'altra, e ne dà due diverse valutazioni. Gramsci considera lo storicismo crociano il punto più alto raggiunto dalla cultura contemporanea europea e mondiale, e nella teoria della "storia etico-politica" (vedi cap. 9), che pure nell'intento di Croce doveva segnare l'atto di morte del marxismo teorico, vede il miglior contributo che sia stato portato al dibattito di fine secolo sul marxismo. I Quaderni riprendono un antico progetto degli anni universitari, che nella risoluzione della storia nel momento etico-politico vedeva «la premessa di una ripresa della filosofia della praxis nei giorni nostri, per le no stre generazioni».

Lungi dall'essere incompatibili, filosofia della prassi e storia etico-politica di Croce respingono ambedue la visione deterministica, che riduce la sovrastruttura a derivazione meccanica dalla struttura economica, e pongono ambedue l'attenzione sul momento dell'egemonia, del consenso, della direzione intellettuale e morale, sulla «funzione dei grandi intellettuali nella vita degli Stati», sui fatti di cultura e di pensiero in quanto elementi di dominio politico irriducibili al «momento della forza, della costrizione, dell'intervento legislativo e statale o poliziesco». È merito di Croce, oltre che dell'opera teorico-pratica di Lenin, se il concetto di egemonia è divenuto parte essenziale della concezione dello Stato della filosofia della prassi. Perciò, come Croce aveva "ridotto" il marxismo a canone che invita la storiografia a tener conto dei fattori economici e sociali, ora Gramsci, con analoga riduzione, considera la storia etico-politica di Croce come «un "canone empirico" di ricerca storica da tenere sempre presente nell'esame e nell'approfondimento dello sviluppo storico, se si vuole fare storia integrale e non storia parziale ed estrinseca».

La ripresa del marxismo dipende dunque dalla restaurazione del corretto rapporto tra struttura e sovrastruttura, onde restituire a quest'ultima quel ruolo che il materialismo volgare ha lasciato in ombra, e il ritorno a una corretta lettura dell'opera di Marx si configura come ritorno alle sue matrici hegeliane: il tramite di questo ritorno sarà appunto Croce, sicché «per noi italiani essere eredi della filosofia classica tedesca significa essere eredi della filosofia crociana, che rappresenta il momento mondiale odierno della filosofia classica tedesca». Il ritorno a Marx via Croce dovrà però fare preliminarmente i conti con l'indirizzo idealistico del suo storicismo, dovrà cioè «rifare per la concezione filosofica del Croce la stessa riduzione che i primi teorici della filosofia della praxis hanno fatto per la concezione hegeliana»:58 mentre infatti Marx ha tradotto l'hegelismo in uno "storicismo realistico", depurato dal suo involucro metafisico-speculativo, Croce, risalendo a Hegel attraverso Marx, ne ha ritradotto lo storicismo realistico in termini neoidealistici, sia pur conservando nella sua concezione «più di un elemento della filosofia della praxis». Questo giudizio nasce in Gramsci dall'adesione al programma crociano di risolvere la filosofia in un immanentismo o storicismo assoluto, senza residui metafisici e radicato nel vivo dei problemi umani quali concretamente si presentano nella loro forma storicamente determinata, e nello stesso tempo dalla convinzione che in Croce questo intento non sia stato portato a compimento con la dovuta coe renza, poiché il suo storicismo è rimasto in ultima analisi viziato da un'impostazione speculativa. Lo storicismo astratto di Croce, in conclusione, andrà ritradotto in uno storicismo concreto, riprendendone alcune istanze - in particolare la dialettica dei distinti, la risoluzione della filosofia nella storiografia e la concezione etico-po- litica della storia -, che hanno avuto in Croce una soluzione puramente "verbale", ma che rispondono a una reale esigenza metodologica.

Di ben altro tenore è invece il giudizio che Gramsci dà di Croce come intellet tuale italiano. Il filosofo napoletano è paragonato a un papa laico, che con la sua autorità influenza gli intellettuali e l'alta cultura, ma che, diversamente dal papa, non ha voluto divenire guida spirituale delle classi popolari, precludendosi così la possibilità di farsi promotore di una riforma intellettuale e morale a carattere nazional-popolare, improntata a mia visione del mondo laica e immanentistica. Il suo cosmopolitismo ha svolto una funzione nazionale solo perché consapevole della necessità di sprovincializzare la cultura e il costume italiani. Anche l'atteggiamento aristocratico nei riguardi della filosofia della prassi, analogo a quello della cultura rinascimentale nei riguardi della Riforma, rivela «l'impotenza della filosofia ideali sta a diventare una integrale (e nazionale) concezione del mondo». In Croce non arde alcuna autentica passione etico-politica: lungi dall'essere una religione della libertà (quella di Croce è semmai una religione del concetto astratto di libertà), la sua filosofia è in verità l'ideologia del liberalismo in una fase determinata del suo sviluppo. Laddove crede di fare della "scienza pura", della pura "storia", della pura "filosofia", Croce in realtà fa dell'ideologia, ossia «offre strumenti pratici di azione a determinati gruppi politici», in particolare alla borghesia conservatrice meridionale. Infine, la reazione al positivismo promossa da Croce ha nuociuto alla vita civile italiana (in modo particolare al sistema scolastico), contribuendo a creare una spaccatura tra cultura scientifica e cultura umanistica.

Tanto Gramsci è consapevole del rapporto, di dipendenza e insieme di distanza critica, che lo lega al pensiero crociano, tanto pone in secondo piano ogni confronto con il pensiero di Gentile; e mentre enuncia esplicitamente di voler in- verare e superare lo storicismo idealistico del filosofo napoletano, è singolarmente avaro di concreti programmi nei riguardi dell'attualismo. Questa apparente opacità teorica non dipende dall'imbarazzo del dover ammettere il proprio debito con un pensatore che era divenuto un pilastro dell'apparato ideologico del regime fascista, e la cui filosofia costituiva la matrice coerente della sua adesione al fasci smo: l'apertura mentale di Gramsci lo rende immune da simili reticenze. Ai suoi occhi sia Croce sia Gentile svolgono nei riguardi della cultura italiana un ruolo negativo: se l'uno rappresenta la versione moderna del cosmopolitismo degli intellettuali italiani, l'altro ne testimonia l'aspetto propriamente corporativistico. Semmai, egli attribuisce ai due pensatori una diversa rilevanza: anche Gentile partecipa di un grande movimento europeo, ma non ha la medesima statura culturale di Croce e, nonostante la protezione del regime, non esercita una vera egemonia sugli intellettuali italiani. I Quaderni sottolineano perciò soprattutto gli elementi di contrapposizione nei confronti dell'attualismo. Al gentiliano atto puro Gramsci oppone l'«atto impuro», la prassi umana nella sua concreta storicità, l'atto storico in quanto concreta unità tra un soggetto e un oggetto storicamente determinati. Il soggetto non opera in una realtà indeterminata che può modellare a suo piacimento. Contro lo spiritualismo metafisico si tratta di riconoscere la specifica densità del mondo oggettivo in tutto il suo spessore e la sua forza condizionante, non meno di quanto si debba riconoscere, contro il materialismo volgare, la rilevanza specifica del soggetto con le sue forme di coscienza. La prassi umana non è autoprassi, è sempre una prassi storicamente determinata; e la coscienza è sempre «coscienza della prassi esistente». Solo a partire da questo duplice riconoscimento può esservi un effettivo «rovesciamento della praxis», una forma concretamente operosa e storicamente fattiva dello spirito umano. Compito della filosofia - nota ancora Gramsci - non è sopprimere le contraddizioni in una fittizia unità speculativa, nella conciliazione del Tutto in un astratto monismo come vorrebbe Gentile, ma riconoscere le contraddizioni che caratterizzano ciò che è effettivamente reale. Là dove individua le articolazioni del reale, la teoria crociana dei distinti è superiore, almeno sul piano metodologico, al monismo gentiliano: ma la filosofia della prassi, a sua volta, è superiore all'una e all'altro proprio perché è l'espressione cosciente di queste contraddizioni.

Queste, nell'essenziale, le critiche a Gentile. Non possiamo però tacere che, die tro tali critiche, la filosofia gentiliana aveva da tempo contribuito a modellare la lettura gramsciana del marxismo. Sin dai primi scritti torinesi, l'appello gramsciano alla volontà, all'attivismo, alla capacità costruttiva dello spirito era carica di risonanze gentiliane prima ancora che crociane. Per Gramsci, non meno che per Gentile, l'io è essenzialmente io pratico, attivo e creatore, è il processo con cui esso stesso diviene. Lo stesso riporre l'essenza del marxismo nel rapporto tra teoria e prassi e l'identificare il materialismo storico con la filosofia della praxis, sono un evidente tributo alla lettura gentiliana di Marx. E gentiliane restano, nella sostanza, alcune pagine dei Quaderni-, non tanto quelle che si richiamano allo storicismo come immanentismo assoluto, quanto quelle che sottolineano l'identità di filosofia e storia, di filosofia e storia della filosofia, di filosofia e politica, e quelle che risolvono per intero la storia nella contemporaneità della storia, nella storia presente o storia contemporanea.

4. Società civile e Stato

Lo storicismo realistico di Gramsci, destinato ai suoi occhi a condurre la filosofia della prassi oltre le secche tanto del materialismo deterministico quanto dell'idealismo speculativo, si caratterizza dunque per il recupero programmatico della peculiarità del momento delle sovrastrutture in tutto il loro spessore e in tutta la loro densità. In questa luce Gramsci riconsidera globalmente i rapporti tra società civile e Stato e dà veste teorica al concetto di egemonia che forma il retroterra sottinteso a gran parte delle sue annotazioni. Marx ed Engels avevano visto nello Stato politico un momento subordinato alla società civile, un elemento della sovrastruttura, anche se non l'unico, mentre la società civile (la cui "anatomia" andava cercata nell'economia politica) coincideva di fatto con la struttura. Guardando con crudo realismo alle forme del dominio sociale agli albori della civiltà capitalistico-indu- striale, Marx aveva messo in risalto due funzioni dello Stato, quella del dominio po litico (con la quale lo Stato governa, coordina e amministra gli interessi generali di classe della borghesia), e quella coercitiva, di apparato repressivo costituito a tutela di tali interessi mediante il monopolio della forza legittima.

Rispetto a Marx, invece, Gramsci sposta la società civile dal campo della struttura a quello della sovrastruttura, e allarga sostanzialmente il concetto di Stato. Egli dichiara apertamente di impiegare nei Quaderni la nozione di società civile «come è intesa dallo Hegel», cioè «nel senso di egemonia politica e culturale di un gruppo sociale sull'intera società, come contenuto etico dello Stato».61 La società civile è dunque uno dei due grandi momenti in cui si articola la sovrastruttura, l'altro re stando, come in Marx, lo Stato. Scrive Gramsci:

Si possono fissare due grandi piani superstrutturali, quello che si può chiamare del la società civile, cioè dell'insieme di organismi volgarmente detti privati, e quello della società politica o Stato, e che corrispondono alla funzione di egemonia che il gruppo dominante esercita in tutta la società e a quella di dominio diretto o di comando che si esprime nello Stato o nel governo giuridico.

La società civile si colloca tra la struttura economica e lo Stato come sistema di le gislazione e coercizione; ma nella realtà effettuale la distinzione morfologica tra società civile e Stato viene a cadere, perché i due momenti si identificano organica mente in una concreta formazione storica. Peraltro, lo Stato non può essere ridotto alla funzione di dominio e di coercizione, a mero momento della forza, a «guardiano notturno» che impone, controlla e tutela l'ordine sociale, poiché, come leggiamo in una brevissima nota, «Stato = società politica + società civile, egemonia corazzata di coercizione».

E appunto il concetto di egemonia, o meglio lo studio dell'attività degli intellet tuali nella società civile, a indurre Gramsci a riformulare il concetto di Stato,

che di solito è inteso come Società politica (o dittatura, o apparato coercitivo per conformare la massa popolare secondo il tipo di produzione e l'economia di un momento dato) e non come un equilibrio della Società politica con la Società civile (o egemonia di un gruppo sociale sull'intiera società nazionale esercitata attraverso le organizzazioni così dette private, come la chiesa, i sindacati, le scuole ecc.).

In polemica con Gentile, accusato di risolvere, con il fine apologetico di giustificare il fascismo, la storia nella storia dello Stato, di far esistere solo lo Stato-governo e di non distinguere società politica da società civile, egemonia politica da governo politico-statale, consenso da forza, Gramsci pone in un rapporto dialettico, di unità e distinzione, concetti come forza-consenso, società politica-società civile, dominio-egemonia, politica-morale, diritto-libertà. Ma a ben vedere lo storicismo gramsciano pone sempre l'accento sul secondo polo, benché dialetticamente unito e distinto rispetto al primo, entro una concreta gerarchia di rilevanze rispetto all'agire umano. Esso infatti non è mai il riflesso meccanico, deterministico, di un con dizionamento oggettivo emergente dalla sfera economica: il rapporto struttura-sovrastruttura non è pensabile come una derivazione della seconda dalla prima, ma come una totalità concreta in cui il momento della prassi, per quanto circoscritto e indotto dalla concreta pressione della struttura, scaturisce pur sempre dalle concrete determinazioni della coscienza. L'attività umana costituisce l'elaborazione superiore della struttura in sovrastruttura nella coscienza degli uomini.

La prassi, anziché fatto deterministico, diviene atto di libertà, perché attraverso di essa, e attraverso le forme della coscienza che la sostengono e la definiscono, la concreta volontà umana riesce a piegare a sé la struttura, indirizzandola per i propri fini, sia pure i fini concretamente circoscritti dalla struttura e configurati entro una forma di coscienza determinata. E nella sfera della sovrastruttura, in altre parole, che la storia da necessità si fa libertà, da fatto naturalistico atto interamente umano, da moto cieco e meccanico processo almeno potenzialmente consapevole. Di qui la centralità assunta in Gramsci dal momento dell 'ideologia, dalle "concezioni del mondo" che permeano in profondità la vita di larghe masse: tramite l'ideologia la struttura viene infatti assunta nella sovrastruttura e consapevolmente rappresentata; e tramite l'ideologia la sovrastruttura "si rovescia" nella struttura, modificandola attraverso la prassi. Di qui l'attenzione rivolta a tutte le manifestazioni della cultura e della mentalità, nelle classi dominanti come in quelle subalterne, e in genere al pro blema degli intellettuali, che le concezioni del mondo elaborano e diffondono.

A questo livello la storia etico-politica di Croce può venire utilmente recuperata. Lo studio della società civile è infatti indispensabile se si vogliono comprendere e descrivere le dinamiche storiche quali sono effettivamente interpretate dai loro attori concreti; se si vuole dare realismo a uno storicismo che altrimenti si ridurrebbe a una filosofia della storia, a un'ennesima metafisica speculativa che come protagonisti della storia pone non già uomini in carne e ossa ma pure categorie teoriche.

Peraltro, che la società civile abbia una sua propria autonomia rispetto al momento economico è per Gramsci qualcosa di empiricamente constatabile osservando gli effetti politici, tutt'altro che rivoluzionari e comunque non devastanti, di una crisi, quale quella del 1929-33, che la scolastica marxista avrebbe considerato, sulla carta, distruttiva. Ma questa era la lezione che si poteva ricavare, a ben vedere, anche dall'evoluzione della crisi del primo dopoguerra in Occidente, con il decennio di "stabilizzazione relativa" seguito al contenimento della rivoluzione entro i confini della Russia bolscevica. Negli Stati più avanzati, nota Gramsci, la società civile è divenuta

una struttura molto complessa,e resistente alle "irruzioni" catastrofiche dell'ele mento economico immediato (crisi, depressioni ecc.); le superstrutture della società civile sono come il sistema delle trincee nella guerra moderna. Come in questa avveniva che un accanito attacco d'artiglieria sembrava aver distrutto tutto il sistema difensivo avversario ma ne aveva solo invece distrutto la superficie esterna e al momento dell'attacco e dell'avanzata gli assalitori si trovavano di fronte una linea difensiva ancora efficiente, così avviene nella politica durante le grandi crisi economiche; né le truppe assalitrici, per effetto della crisi, si organizzano fulmineamente nel tempo e nello spazio, né tanto meno acquistano uno spirito aggressivo; per reciproca, gli assaliti non si demoralizzano né abbandonano le difese, pur tra le macerie, né perdono la fiducia nella propria forza e nel proprio avvenire.

Anche l'avvento di fascismo e nazismo conferma, più che smentire, questa diagnosi: in Italia e in Germania la crisi ha sì generato una soluzione cesaristico-re- gressiva che ha travolto lo Stato liberale, ma ciò come contraccolpo di una sconfitta già patita dal movimento operaio, a opera di una classe dominante che ha cessato di essere classe dirigente, in paesi dove la democrazia politica non aveva consolidate radici e dove l'egemonia borghese aveva sempre avuto basi ristrette e atipiche. Questa prospettiva - sia detto per inciso - ha delle immediate valenze di strategia politica, perché annulla uno dei grandi dilemmi (riforme o rivoluzione?) che aveva travagliato le varie "scuole" marxiste: essa fa mancare l'accelerazione, il momento della forzatura rivoluzionaria, la mitica resa dei conti definitiva, non essendovi più, almeno in Occidente, un luogo per la conquista del potere. La forma di tale conquista non è né può essere oggetto di teoria, dal momento che la riflessione viene a calarsi in un intero processo storico, nelle molteplici forme e negli infiniti luoghi, molecolari e capillari, della transizione. Certo è comunque che il passaggio da un sistema sociale a un altro procede per tempi lunghi, attraverso successive sedimentazioni, anche quando conosce momenti di accelerazione o di svolta radicale; mai linearmente e spesso con un lavorìo sommerso e oscuro, attraverso quei processi, simili a torrenti carsici, che Gramsci chiama di «rivoluzione passiva».

5. Egemonia e blocco storico

Gramsci non si limita a recuperare il ruolo della sovrastruttura rispetto a quello della struttura, ma prosegue sino a portare in primo piano, nell'ambito delle sovrastrutture, il ruolo del momento ideologico rispetto a quello più strettamente politico-istituzionale, il polo del consenso rispetto a quello della forza, l'egemonia rispet to al dominio. E questo il senso del brano forse universalmente più celebre di tutte le note carcerarie, che Gramsci lascia cadere un po' incidentalmente nel quaderno speciale dedicato al Risorgimento. Scrive Gramsci:

[...] la supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi, come "dominio" e come "direzione intellettuale e morale". Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a "liquidare" o a sottomettere anche con la forza armata ed è dirigente dei gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere e an che se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere anche "dirigente".

Il sistema dell'egemonia, come momento della direzione intellettuale e morale, non è il risultato di un'azione finalizzata e pianificata, né è retto e guidato da una volontà coordinatrice e centralizzatrice: esso è piuttosto un processo spontaneo, mo lecolare, organico, mai concluso e definito, anzi perennemente aperto e problematico anche quando è stabile e radicato; ed è il frutto dell'interazione reciproca tra i vari attori sociali, sintonizzati tra loro o tra loro in competizione attraverso il collante dell'ideologia.

Il concetto di egemonia non si applica peraltro alle sole relazioni tra le classi, tra i gruppi sociali o tra le espressioni della società civile, come i partiti: oltre che tra governanti e governati o tra dirigenti e diretti, rapporti di egemonia sussistono anche tra intellettuali e non intellettuali o tra città e campagna e, in campi più ampi, tra Stati, nazionalità o talora intere civiltà. Rapporti di egemonia culturale possono essere instaurati attraverso le lingue, le religioni, le filosofie. Le fonti e i canali di esercizio dell'egemonia vanno ricercati in tutte le molteplici articolazioni in cui la vita della società civile si manifesta: un ruolo preminente spetta però agli intellet tuali, veri e propri "funzionari dell'egemonia", e agli apparati ideologici, a quella rete di istituti, organismi, associazioni che elaborano, diffondono e consolidano le concezioni del mondo. Il ruolo di queste ultime è ora meglio precisabile: per loro tramite, infatti, le classi e i gruppi sociali si danno un'identità, acquistano e sviluppano il consenso sia al loro interno sia tra le classi e i gruppi affini e alleati.

Non tutte le concezioni del mondo sono egemoniche: non lo è per esempio il materialismo volgare, mentre lo è stato, entro un preciso contesto, l'idealismo speculativo. Per la sua estensione capillare e la sua articolazione funzionale, l'apparato ideologico forma, come si è detto prima, un «complesso formidabile di trincee e fortificazioni»: nella civiltà industriale esso comprende soprattutto gli strumenti di formazione dell'opinione pubblica (l'editoria a qualunque livello, dalle case editrici ai grandi giornali sino ai bollettini parrocchiali), il sistema educativo e formativo, le istituzioni culturali (accademie, biblioteche ecc.), le libere associazioni (club, circoli ecc.) e così via. Ma anche lo Stato è parte del sistema dell'egemonia: lo è normalmente, perché concorre all'elaborazione attiva del con senso, o perché svolge una funzione educativa (e ogni rapporto di egemonia è un rapporto pedagogico e viceversa) contribuendo così a creare «nuovi e più alti tipi di civiltà»; e lo è eccezionalmente, quando sostituisce la società civile nella funzione di direzione politica normalmente svolta dai suoi istituti (così il Piemonte sabaudo sostituì la borghesia moderata nel ruolo di direzione del moto risorgimentale, offrendo alla debolezza della sua forza egemonica il sostegno della sua forza diplomatica, politica e militare).

Un sistema egemonico, infine, è democratico se «favorisce il passaggio molecolare dei gruppi diretti al gruppo dirigente», ed espansivo se «facilita e promuove lo sviluppo dal basso in alto, se eleva il livello di cultura nazional-popolare».66 Sicché, accanto al grado di sviluppo delle forze produttive, andrà considerato, per parafrasare Marx, anche e soprattutto il grado di sviluppo della società civile: all'esame dei rapporti sociali fondamentali, delle relazioni internazionali e dei rapporti di forza politici e di partito (ossia dei «sistemi egemonici nell'interno dello Stato»), dovrà affiancarsi la valutazione del sistema dell'egemonia, con le sue «trincee» e «fortificazioni», e in particolare «del grado di omogeneità, di autocoscienza e di organizzazione raggiunto dai vari gruppi sociali». In conclusione, il reale storico è sempre parte di una totalità concreta in perenne movimento, di un concreto blocco storico, di una determinata configurazione in cui struttura e sovrastruttura, egemonia e dominio, società civile e Stato, classi dominanti e classi subalterne, teoria e prassi, si unificano e saldano senza perdere la loro articolazione e specificità. Ed è appunto sulla scorta di questa nozione di "blocco storico" che Gramsci può giusti ficare l'attributo di realistico al suo storicismo.

Per le classi subalterne che aspirano alla direzione dello Stato, come la classe operaia, vale la regola generale secondo la quale ci può e ci deve essere un'attività egemonica anche prima dell'andata al potere. Ma se la trasformazione di un gruppo sociale da subalterno a dirigente è - prima ancora che un atto politico, e sia pure a partire da un dato strutturale - un evento di tipo culturale, perché possano formarsi un nuovo blocco storico e un nuovo sistema di egemonia attorno a classi fondamentali debbono realizzarsi nella sfera della sovrastruttura due condizioni essenziali: un iniziale «spirito di scissione» (è chiaro qui il tributo a una metafora cara a Sorel), attraverso il quale una classe afferma la propria identità e la propria autonomia storica sia pure per mezzo della differenziazione, dell'opposizione e della critica; e un successivo, cruciale passaggio «catartico» dal momento «economico corporativo» al momento «etico-politico», dall'«essere-in-sé» all'«essere per-sé», da uno spirito particolaristico, legato a interessi circoscritti e strettamente privati, egoistico-passionali, a una visione generale, a un sentimento della totalità. Questo passaggio catartico dalla necessità alla libertà si ha elaborando l'oggettivo nel soggettivo, la struttura nella sovrastruttura, ciò che è meccanico in ciò che è consapevole. In tal modo la struttura da forza esteriore che schiaccia l'uomo, lo assimila a sé, lo rende passivo, si trasforma in mezzo di libertà, in strumento per creare una nuova forma etico-politica, in origine di nuove iniziative. Al culmine di questo processo il gruppo egemone si coordina concretamente con gli interessi generali dei gruppi subordinati e può assurgere alla direzione dello Stato, non più visto soltanto «come organismo proprio di un gruppo» ma come sintesi concretamente universale (che è a dire nazionale). In una parola, le classi subalterne potenzialmente dirigenti non sono unificate e non possono unificarsi completamente, e dunque esercitare in modo espansivo la loro capacità di direzione, fino a che «non si fanno Stato». Come è ovvio, la filosofia, la lotta culturale e gli intellettuali hanno, in tutto questo processo, un ruolo fondamentale. Si tratta, soprattutto, di «suscitare élites di intellettuali di un tipo nuovo che sorgano direttamente dalla massa pur rimanendo a contatto con essa per diventarne le "stecche" del busto».67 A questo compito di direzione, di sollecitazione storica si accinge, per la classe lavoratrice, soprattutto il partito come «intellettuale collettivo». E nella forma appunto del moderno partito di massa, la politica potrà compiutamente dispiegarsi per quello che essa è, momento superiore del processo, millenario e interminabile, dell'emancipazione umana, e dunque sintesi più alta di ciò che è integralmente umano: la storia.

6. La storia d'Italia

La storia d'Italia costituisce il principale banco di prova delle categorie teoriche elaborate da Gramsci nei Quaderni. Rispetto ai maggiori paesi europei, l'Italia presenta soprattutto anomalie. La funzione cosmopolita svolta dagli intellettuali italiani dalla crisi dell'Impero romano alla fine del Settecento, impedendo loro di svolgere una funzione nazionale, ha ostacolato la formazione di una compagine statale moderna. In assenza di un'unità culturale di tipo nazional-popolare, il particolarismo e il provincialismo improntano i modi di pensare e di agire. La struttura eco nomica e sociale è «gelatinosa»: la mancata rivoluzione agraria ha generato uno sviluppo dualistico dell'economia, fortemente squilibrato in senso territoriale e tri butario del sostegno statale; le città, con il loro tessuto parassitario, non hanno svolto, salvo rare eccezioni, un ruolo di modernizzazione; la stessa leadership della borghesia industriale è debole e poco moderna; il policentrismo della vita nazionale, reso più acuto dalla complessità delle stratificazioni sociali, ha reso meno organico e più fragile il sistema dell'egemonia borghese, che ha fatto fronte alla sua scarsa omogeneità e compattezza interna cercando appoggio non già nella democrazia e nell'attivo consenso popolare, ma nel potere dello Stato e nella cooptazione delle forze conservatrici tradizionali, dagli agrari alla Chiesa. A eccezione della Destra storica, i partiti italiani, secondo Gramsci, non hanno mai espresso in modo organico un blocco sociale omogeneo o svolto un'autentica funzione di élite progressiva, anche quando, come il Partito socialista e il Partito popolare, hanno con tribuito almeno in parte alla modernizzazione del paese. L'Italia non ha conosciuto grandi momenti di vita collettiva, alla stregua delle rivoluzioni liberali in Inghilterra, Francia e Stati Uniti o della Riforma nel mondo tedesco; se li ha avuti, il popolo ne è rimasto estraneo, specie nelle campagne (come nel Risorgimento, caso esemplare di rivoluzione passiva e dall'alto, di "rivoluzione senza rivoluzione"), o vi è stato coinvolto in modo autoritario (come nella prima guerra mondiale). Le stesse radici del moto risorgimentale non risalgono tanto alla spinta di forze endogene, ma alla pressione esterna di fenomeni internazionali venuti a maturazione con la Rivoluzione francese e le guerre napoleoniche.

La vita popolare è dominata da un sostanziale apoliticismo, che si manifesta o in un'amorfa passività, alimentata da una religione arcaica e superstiziosa, o in un ribellismo sowersivistico e antistatale primitivo ed elementare. Soprattutto, è mancata una riforma intellettuale e morale che coinvolgesse le masse popolari, come seppero fare il luteranesimo, il calvinismo, l'Illuminismo. Arretrato, in tale contesto, è perciò anche tutto il complesso delle sovrastrutture. Gli intellettuali, lontani dal popolo-nazione, estranei ai suoi bisogni e alle sue aspirazioni, esprimono una tradizione di casta «libresca e astratta» che li fa sentire più vicini «ad Annibal Caro o Ippolito Pindemonte che a un contadino pugliese o siciliano». Mancano una lingua nazionale e una letteratura popolare. Se l'intima rottura tra religione e popolo mette a nudo il fallimento del cattolicesimo come lievito culturale dell'unità della nazione, non meglio ha saputo fare la cultura laica, compreso l'idealismo crociano, che è venuta così meno al suo ruolo storico di formare la coscienza morale del popolo-nazione e di promuovere un moderno "umanesimo" capace di educare i "semplici" e gli "incolti". E meno ancora può fare la verbosa retorica patriottica del fascismo. In questo quadro, la sola forza nazionale in grado di unificare e modernizzare il paese e di promuovervi una riforma intellettuale e morale è la classe operaia: più che come metafisica missione storica, questa funzione poteva essere presentata come il concreto risultato della storia d'Italia.

Punto focale dell'attrazione culturale esercitata dal pensiero di Gramsci nell'Italia del dopoguerra, questa compatta lettura della storia nazionale ha offerto per almeno un ventennio una chiave per spiegare il ritardo italiano e nello stesso tempo un'indicazione delle forze in grado di colmarlo.

17. Il marxismo nell'età della Terza Internazionale: l'implosione del socialismo reale

1. Il Diamat sovietico: una filosofia di Stato

L'affermarsi con la Rivoluzione d'ottobre del primo Stato socialista, e la necessità del suo consolidamento proprio durante le drammatiche vicende della guerra civile, avrebbero favorito, già durante la vita di Lenin e poi soprattutto con l'inizio dell'epoca staliniana, lo sciogliersi dell'ambiguità di fondo presente nel pensiero del capo bolscevico, cioè l'oscillazione tra una componente "sovietista" e libertaria, emersa in Stato e rivoluzione, e la componente "giacobina", virtualmente autoritaria, che legittimava il primato del partito sulla classe. Il prevalere di quest'ultima si manifesta nella dittatura del partito e nella sua totale identificazione con il nuovo Stato che, anziché deperire progressivamente, come aveva preconizzato il disegno teorico leniniano, viene a rafforzare la sua presenza onnipervasiva nel tessuto sociale, ad accentuare sempre più la sua funzione coercitiva nei confronti della società civile, fino a negare di quest'ultima ogni libertà d'espressione, in un paese nel quale lo zarismo ne aveva impedito da sempre crescita e articolazione.

Ma non basta. Tra il 1926-29 - gli anni della lotta per il potere e dello scontro tra opposte strategie all'interno del Partito comunista sovietico, che dovevano concludersi con il prevalere dell'opzione di Stalin per la costruzione del socialismo in un paese solo, e con l'eliminazione dell'opposizione di Trockij e Bucharin - e il 1934- 38 - gli anni delle "grandi purghe" e dei processi staliniani che avrebbero liquidato fisicamente l'intero gruppo dirigente della Rivoluzione d'ottobre -, la dittatura del partito si sarebbe progressivamente risolta nella dittatura del Comitato centra le, e questa nella dittatura di un uomo solo. Tutto questo mentre lo Stato, strutturatosi secondo una rigida organizzazione piramidale, veniva riproducendo e perpetuando al proprio interno una burocrazia ipertrofica e socialmente privilegiata, strumento della massima centralizzazione del potere.

Primo segretario del partito fin dal 1924, e dal 1929 capo supremo e unico dello Stato sovietico, Iosif Visarionovic Dzugasvili, detto Stalin, erige il marxismo-leninismo, irrigidito e ridotto a una formulazione dogmatica, a dottrina ufficiale dello Stato, e fa del partito l'organo di controllo anche della produzione scientifico-cultu rale. Celebre quanto esiziale è rimasta l'opera di censura e di mortificazione di ogni spirito critico svolta tra gli anni trenta e quaranta da Andrej Alexandrovic Zdanov, ideologo del regime staliniano, rozzo teorizzatore del cosiddetto "realismo sociali sta", assunto quale principio direttivo della produzione e della critica artistica e letteraria. Per non dire delle imposture neolamarckiane e neovitaliste di Trofim Denisovic Lysenko, "confutatore" della teoria dell'ereditarietà di Mendel e Morgan.

Interessato ad accreditarsi come erede unico dell'opera teorica e rivoluzionaria di Lenin, Stalin è autore di testi di scarsa originalità, come Princìpi del leninismo (1924) o Questioni del leninismo (1926), nei quali domina la tendenza a semplificare e a ridurre a una scolastica pietrificata le tematiche che in Lenin avevano avuto ben diverso approfondimento. Significativo, soprattutto sotto il profilo della politica culturale di regime, è il saggio del 1938, Materialismo dialettico e materialismo storico, nel quale Stalin codifica la filosofia del Diamat (abbreviazione del russo dialekticeckij materializm), imponendola come filosofia ufficiale del movimento comunista internazionale.

Sulla base di un metodo che, anche per la finalità didattica del saggio, si compiace di definizioni assiomatiche da cui vengono ricavate le diverse proposizioni attraverso un procedimento semplicisticamente deduttivo che ignora la complessità dei problemi, Stalin propone un marxismo dalle marcate ascendenze engelsiane e leni niane quale dottrina generale e definitiva, esaustiva della realtà intera, sia del mondo della natura (materialismo dialettico) sia della società umana (materialismo storico). La dialettica che presiede allo svolgimento rigidamente determinato della società non è altro che un caso particolare della dialettica che opera prima di tutto nella natura. Questa viene concepita come «un tutto coerente unico, nel quale gli oggetti, i fenomeni sono organicamente collegati tra loro, dipendono l'uno dall'altro e si condizionano reciprocamente».68

Anche lo sviluppo della società obbedisce a meccanismi precisi, sicché le relazioni reciproche tra i fenomeni della vita sociale obbediscono a leggi che le determinano necessariamente. In questo ferreo determinismo, pervasivo di ogni aspetto della realtà, va perduta quella riscoperta del ruolo determinante della volontà rivo luzionaria che pure era stata all'origine dell'Ottobre leninista, e la dialettica si risolve del tutto in processi oggettivi sui quali la volontà degli uomini non sembra avere influenza alcuna. In Problemi economici del socialismo nell'Urss (1952), Stalin giunge ad affermare:

Il marxismo intende le leggi della scienza - si tratti di leggi delle scienze naturali o di leggi dell'economia politica - come un riflesso di processi obiettivi che si svolgono indipendentemente dalla volontà degli uomini. Gli uomini possono scoprire queste leggi, conoscerle, studiarle, tenerne conto nelle loro azioni, utilizzarle negli interessi della società, ma non possono cambiarle o abolirle.

Il consolidamento della dittatura staliniana doveva produrre la trasformazione dell'Internazionale comunista, che riuniva a Mosca tutti i partiti comunisti nel frattempo formatisi in Europa e in Asia per scissione dai vecchi partiti della Seconda Internazionale, in un organismo rigidamente controllato dal Partito comunista dell'Urss (PCUS) e ridotto a strumento per l'attuazione delle direttive dello Stato sovietico.

Questo esito era conseguente al tramonto delle speranze nella diffusione della rivoluzione socialista in Occidente, ancora forti al momento in cui Lenin, nel 1919, aveva promosso la nascita della nuova Internazionale. Il fallimento delle rivoluzioni in Germania e in Ungheria, il mantenimento da parte dei partiti socialisti e social democratici del controllo della maggioranza del proletariato nei paesi capitalistici, la riscossa reazionaria che in Italia avrebbe portato all'instaurazione del primo regime fascista, erano stati i fattori che avevano reso il primo Stato socialista un paese isolato, assediato, sicché il primo dovere, cui i partiti comunisti in Europa, e ovunque nel mondo, si sentirono obbligati, fu quello di difendere la "patria" socialista e sostenerne la sopravvivenza e il consolidamento.

Attraverso complesse e drammatiche vicende, che in questa sede non si possono nemmeno accennare, era comunque venuto maturando, all'interno del movimento comunista internazionale, il convincimento, coerente con la strategia e le teorizzazioni staliniane, che l'unica via al socialismo, valevole anche per i paesi a capitalismo avanzato, fosse quella tracciata dal bolscevismo, e che dunque l'Urss dovesse rappresentare non solo lo Stato-guida, ma anche il modello obbligatorio per ogni altra rivoluzione socialista. Doveva prendere corpo, in questa prospettiva, la celebre definizione staliniana del leninismo come «marxismo dell'epoca dell'imperialismo e della rivoluzione proletaria», che consacra, con tutti i crismi di una formulazione assiomatica, il carattere universale del comunismo sovietico.

2. Il marxismo occidentale

Sotto il nome di marxismo occidentale, espressione usata per la prima volta nel 1955 da Merleau-Ponty ne Le avventure della dialettica, vengono raccolte le nuove interpretazioni del marxismo formulate nell'Europa degli anni venti, in primo luogo a opera di due intellettuali, l'ungherese György Lukâcs e il tedesco Karl Korsch. Indipendentemente l'uno dall'altro, essi espongono in due celebri libri, Storia e coscienza di classe e Marxismo e filosofia (ambedue pubblicati nel 1923), una lettura di Marx per molti aspetti "eterodossa" rispetto sia al marxismo secon- dinternazionalista di ascendenza kautskyana, sia a quello di derivazione engelsia- no-leniniana che di lì a pochi anni si sarebbe irrigidito nella filosofia del Diamat.

Se nei confronti del marxismo evoluzionista ed economicista della socialdemocrazia tedesca la rottura fu completa, diverso fu l'atteggiamento assunto di fronte al marxismo di Lenin, con il quale sia Lukâcs sia Korsch condividevano il recupero delle radici dialettiche ed hegeliane del pensiero di Marx, il primato del politico sull'economico, la sottolineatura della praxis come elemento determinante della rottu ra rivoluzionaria. Tant'è che questi due pensatori videro nella lezione dell'Ottobre russo una confutazione pratica e insieme teorica del marxismo "ortodosso". Ciò non significa che anche nei confronti del leninismo non apparissero da subito, nep pure secondari, i dissensi, dal rifiuto della dialettica engelsiana della natura - in nome di una concezione secondo la quale la dialettica sarebbe riferibile solo al rapporto soggetto-oggetto costitutivo del mondo degli uomini - alla negazione della teoria della conoscenza come rispecchiamento. Orientamenti questi, che sottolineavano del marxismo occidentale la cifra essenzialmente umanistica e "idealistica", ri ferendosi alla quale alcuni studiosi, senza voler in alcun modo diminuire l'indubbia originalità della riflessione lukàcsiana e korschiana, hanno osservato come anche nel marxismo italiano, sia quello di Labriola sia soprattutto quello di Gramsci, risuo nassero accenti simili, un po' per la comune esigenza di riscattare Marx dai condizionamenti positivistici e kantiani e, nel caso di Gramsci, per la forte incidenza teorica che anche su di lui, come su Lukàcs e Korsch, aveva esercitato l'accelerazione rivoluzionaria dell'ottobre del 1917. Di qui la tendenza a includere nei confini del marxismo occidentale anche la produzione teorica dei due comunisti italiani.

Solo più tardi, con l'affermarsi dello stalinismo in Urss e nel movimento comuni sta internazionale, i due esponenti dell'hegelo-marxismo degli anni venti avrebbero visto approfondirsi le distanze dal marxismo ufficiale del mondo comunista, mentre i loro rispettivi comportamenti pratici e teorici si sarebbero sostanzialmente differenziati tra loro. Korsch rompe nel 1926 con il Partito comunista tedesco e si allontana dall'impegno direttamente politico, pur rimanendo nell'area teorica del marxismo. Lukàcs muove invece un'autocritica nei confronti delle posizioni espresse in Storia e coscienza di classe, e, pur non aderendo mai propriamente e senza riserve al marxismo-leninismo ufficiale dei paesi comunisti, e anzi manife stando in più di un'occasione, soprattutto sul terreno specificamente politico, dissensi e coraggiose prese di posizione, mantiene fino in fondo la propria fedeltà al mondo comunista.

Nel frattempo, lungo i decenni che intercorsero tra le due guerre mondiali, vennero iscrivendosi al marxismo occidentale anche diversi pensatori di scuola hegelo- marxista in forte dissonanza con la filosofia ufficiale dell'Urss, come, per fare l'esempio più illustre, Ernst Bloch, o come, del tutto estranei al marxismo-leninismo, gli esponenti della Scuola di Francoforte.

3. Korsch: un comunismo "di sinistra" e antistaliniano

Karl Korsch nasce nei pressi di Lüneburg nel 1886 da una famiglia borghese. Dopo gli anni universitari che lo vedono attendere a studi di giurisprudenza, eco nomia, sociologia e filosofia, si reca tra il 1912 e il 1914 in Inghilterra dove stringe rapporti con la Fabian Society. Al termine della prima guerra mondiale milita nel Partito socialdemocratico tedesco indipendente, ma presto ne esce per aderire, nel 1920, al Partito comunista tedesco. Sono gli anni della rivoluzione tedesca del novembre 1918 e dell'esperienza dei Consigli degli operai e dei soldati, di quel movimento consiliare di cui Korsch sarebbe stato teorico e sostenitore nella prospettiva di favorirne uno sviluppo autonomo rispetto al modello dei soviet.

Già nel 1923, però, si consuma il fallimento della rivoluzione in Germania, mentre l'Internazionale comunista cade sotto il crescente controllo del partito sovietico. Korsch, deputato al Reichstag tra il 1924 e il 1928, assume un atteggiamento fortemente critico nei confronti sia del Partito comunista tedesco sia del Comintern, al punto di venir espulso nel 1926 dal partito e di essere fatto oggetto di scomunica da parte dell'Internazionale comunista che accusa il suo scritto Marxismo e filosofia di revisionismo idealistico. Ormai ai margini dell'azione politica militante, nell'impossibilità di uno spazio in cui praticare un'opposizione di sinistra al movimento comunista ufficiale, Korsch si apparta e intrattiene rapporti di scambio con piccoli gruppi di operai ultraradicali e di intellettuali marxisti, tra i quali Bertolt Brecht, che stringerà con lui un legame di profonda amicizia. Lasciata la Germania al momento dell'ascesa al potere di Hitler, si trasferisce prima in Inghilterra e in Danimarca, poi negli Stati Uniti, dove vive nel Massachusetts dal 1936 fino alla morte, che lo coglie nel 1961 a Cambridge.

Le tappe principali dell'itinerario teorico di Korsch sono scandite dall'apparizio ne successiva dei suoi scritti più importanti: Marxismo e filosofia (1923), Die materialistische Geschichtsauffassung. Eine Ausseinandersetzung mit Karl Kautsky (1929, trad. it. Il materialismo storico antiKautsky), cui segue, nel 1930, una riedizione di Marxismo e filosofia accompagnata da una critica serrata del leninismo; infine, una serie di scritti prodotti tra il 1931 e il 1939, tra i quali il saggio Karl Marx (1938), che rappresentano un faticoso processo di revisione teorica del marxismo, in una fase storica di affermazione in Europa dei fascismi, di consolidamento del regime staliniano, di ricomposizione economica e politica del capitalismo e, viceversa, di tramonto delle prospettive rivoluzionarie del movimento operaio.

In Marxismo e filosofia emergono due linee tematiche del marxismo korschiano tra loro strettamente intrecciate: da un lato il recupero di Hegel e del rapporto Hegel-Marx, dall'altro la ripresa del concetto di totalità.

Sia Hegel sia Marx hanno inteso costruire, il primo nell'epoca della borghesia rivoluzionaria, il secondo al momento in cui dopo il 1848 la borghesia è venuta assumendo un volto conservatore, una teoria della società borghese fondata sul nesso dialettico di pensiero e realtà, di teoria e prassi sociale. Sia la teoria sia il suo oggetto - la società borghese - vengono così intesi come concreta totalità intrinsecamente dialettica, che non tollera di venir disarticolata nelle sue singole componenti, da una parte la prassi sociale, «l'aspro regno delle lotte reali», dall'altra le sovrastrutture ideologiche, in particolare la filosofia, ridotte a mera elucubrazione astratta, sviluppata «nell'ambiente asettico di uno studio». Hegel, «il massimo pensatore che la società borghese abbia prodotto nella sua epoca rivoluzionaria, considerava [...] la "rivoluzione nella forma del pensiero" come una componente reale dell'effettivo processo sociale rivoluzionario».70 Non diversamente Marx, o meglio il marxismo, che non vuole essere altro che l'espressione teorica del movimento rivoluzionario operaio, da questo non separabile, essendo ambedue aspetti l'uno all'altro essenziali: «In termini hegeliano-marxiani, il sorgere della teoria marxista è solo "l'altra faccia" del sorgere del reale movimento proletario di classe; solo se presi assieme i due lati formano la totalità concreta del processo storico».

Ne deriva una problematica che, agli occhi di Korsch, non può essere elusa e che si riferisce al rapporto tra filosofia e rivoluzione, tra marxismo e filosofia. Marx ed Engels avevano sostenuto, fin dagli anni quaranta dell'Ottocento, allorché avevano formulato la teoria del materialismo storico e «il comunismo immediatamente rivo luzionario del Manifesto», che il processo rivoluzionario avrebbe comportato il superamento e la soppressione della filosofia e con essa di ogni altra istituzione ed espressione della società borghese, compreso lo Stato. Considerato però che il pro cesso storico rivoluzionario, dopo i fallimenti del 1848, si è rivelato non imminente, e anzi destinato a percorrere un itinerario molto lungo e complesso, non si può sfuggire alla domanda: «qual è il rapporto che intercorre tra il marxismo e la filosofia fintantoché questo complesso processo storico non ha ancora raggiunto il suo obiettivo finale, la soppressione della filosofia?».

Questo problema è stato ignorato dal marxismo "volgare" della seconda metà dell'Ottocento, che con la massima disinvoltura lo ha messo da parte, nella convinzione che il chiarimento dei problemi filosofici, compresi quelli «che riguardavano le generali fondamenta gnoseologiche e metodologiche della teoria marxista», fos se «ai fini della prassi della lotta di classe [...] del tutto irrilevante». Al punto che, essendo il marxismo indifferente alle questioni filosofiche, «un teorico marxista [...] nella sua esistenza filosofica privata, avrebbe [...] potuto benissimo essere un discepolo della filosofia di Arthur Schopenhauer». Se poi, nell'epoca della Seconda Internazionale, vi sono stati socialisti "filosofeggianti", questi hanno pensato di dover integrare il sistema marxista con filosofie desunte dal pensiero borghese, quali quella kantiana o machiana, confermando in questo modo «che anche ai loro occhi il marxismo in sé era sprovvisto di contenuto filosofico».

Questo oscuramento dell'idea marxiana di un nesso indissolubile tra teoria e prassi, coscienza e realtà, era certamente favorito dalla caduta, dopo il 1848, delle prospettive rivoluzionarie, ma soprattutto era conseguenza dell'oscuramento del pensiero dialettico hegelo-marxiano, che faceva smarrire la dimensione della totalità, e del prevalere di interpretazioni economicistiche, che pretendevano ridurre le ideologie a qualcosa di fittizio e irreale e, pertanto, ritenevano che l'azione della classe dovesse esaurirsi nella semplice trasformazione delle strutture economiche. Ne era conseguita, appunto, la separazione tra teoria e prassi, e il marxismo veniva ridotto, da molti marxisti dell'età della Seconda Internazionale, a una ricerca puramente teorica, separata dalla prassi rivoluzionaria, tanto che Rudolf Hilferding, l'autore del Capitale finanziario, aveva negato l'identificabilità di marxismo e socialismo con l'argomento che il marxismo avrebbe potuto essere usato anche contro il socialismo. Per non dire del fatto che questi epigoni di Marx avevano potuto mettere da parte, insieme alla questione del rapporto marxismo-filosofia, il problema del rapporto marxismo-Stato, pervenendo a posizioni politiche di stampo riformistico, del tutto incluse nell'ambito dello Stato borghese, e come tali estranee alla natura dialettica, rivoluzionaria, del materialismo storico marxista.

A partire, però, dagli inizi del XX secolo, con il mutare della temperie storica, in presenza di un movimento rivoluzionario che, trionfante in Russia, sembrava dover coinvolgere l'Occidente a cominciare dalla Germania, il problema del rapporto marxismo-filosofia e, più in generale, del rapporto marxismo-sovrastrutture ideologiche, torna, a parere di Korsch, di scottante attualità, come dimostravano risorgenti letture rivoluzionarie del marxismo quali quelle di Lenin e di Luxemburg. Torna, insomma, attuale l'insegnamento di Marx ed Engels, secondo il quale la lotta contro la società borghese implica necessariamente il momento della critica teorica in vista della soppressione anche delle espressioni ideologiche di quella società, dalla filosofia allo Stato.

Korsch, convinto della necessità di un'«applicazione della concezione materialistica della storia a se stessa», della necessità di una storicizzazione del marxismo, si intrattiene a esaminare i diversi momenti nei quali si è venuto sostanziando l'atteg giamento di Marx e di Engels nei confronti del rapporto tra realtà sociale e forme di coscienza o ideologie, a cominciare dalla filosofia.

La prima forma "fenomenica" della teoria marxista, quella degli anni precedenti le rivoluzioni del 1848 e di cui il Manifesto del partito comunista è il miglior esempio, è caratterizzata, sì, dal rifiuto della filosofia borghese e, più in generale, della filosofia in quanto tale (ne è prova l'undicesima Tesi contro Feuerbach), ma, ciononostante,

essa è una teoria, totalmente impregnata di pensiero filosofico, dello sviluppo sociale visto e inteso come totalità vivente, o più precisamente: della rivoluzione sociale intesa e applicata come totalità vivente. In questa fase, una suddivisione in singole discipline degli elementi economici, politici e spirituali di questa totalità vivente [...] non è neppure presa in considerazione.

Nel periodo successivo al 1848, la teoria marxista, proprio perché non esterna al movimento reale e non indifferente ai livelli della sua maturità, non poteva non modificare, in un periodo «praticamente non rivoluzionario», quella sua prima forma fenomenica, costituitasi, invece, in un momento di forte dinamica rivoluziona ria. Ne è sortito il Capitale, grazie al quale il marxismo assume la forma di socialismo scientifico, caratterizzata dal fatto che i singoli elementi, economia, politica, ideologia, teoria scientifica e prassi sociale, si sono maggiormente staccati gli uni dagli altri. Questo non significa, certo, che nel Capitale, o anche nelle ultime opere di Marx e di Engels, venga meno il nesso indissolubile di teoria e prassi, la «"totalità" complessiva di una teoria della rivoluzione sociale»:

Marx ed Engels alla totalità non sostituiscono mai una molteplicità di elementi au tonomi [...] Nell'opera dei suoi creatori il sistema non si dissolve mai in una somma di scienze singole, cui si aggiunga, dall'esterno, un'applicazione pratica dei loro risultati.

Quello che, semmai, alimenta in Korsch un qualche sospetto, sia pur non apertamente dichiarato, nei confronti dell'analisi scientifica del Capitale, è che questa nuova forma fenomenica della teoria marxista, proprio per aver insistito nel differenziare gli elementi costitutivi della totalità, potrebbe aver aperto qualche varco all'operazione che doveva essere compiuta dagli epigoni tardo-ottocenteschi di Marx, ossia la dissoluzione in disjecta membra della teoria unitaria della rivoluzione sociale.

In questo contesto emerge la risposta di Korsch alla questione del rapporto tra marxismo e filosofia. Per Marx ed Engels sopprimere la filosofia non può, in alcun modo, voler dire metterla da parte. «Non potete - essi dicono - sopprimere la filosofia senza realizzarla.» Già l'undicesima Tesi su Feuerbach,

contrariamente a ciò che hanno immaginato gli epigoni, non liquida ogni filosofia di chiarandola vuota elucubrazione; essa piuttosto respinge drasticamente ogni teoria, filosofica o scientifica, che in pari tempo non sia prassi, prassi umana sensibile, reale, terrena - e non l'attività speculativa dell'Idea filosofica, la quale, in fondo, comprende soltanto se stessa.

Anche per il Marx della maturità, teorizzatore del socialismo scientifico, rimane fermo che di quella totalità che è la società borghese fanno parte, insieme ai rapporti materiali di produzione e alle rappresentazioni e istituzioni politiche e giuri diche, anche le ideologie più elevate come l'arte, la religione e la filosofia, sicché il processo rivoluzionario non potrà non rovesciare anche quest'ultime.

Nel saggio II materialismo storico, Korsch conduce una veemente critica del marxismo di Kautsky, le cui linee, del resto, erano già largamente prefigurate in Marxismo e filosofia. L'accusa principale consiste nel rimproverare all'autore dell'opera omonima di aver trasformato il marxismo in una dottrina puramente scientifica della società, priva di nessi immediati con la prassi sociale e politica del proletariato, sostanzialmente adialettica, costruita sui modelli della scienza naturale:

[...] la Concezione materialistica della storia di Kautsky [...] non appare quindi asso lutamente come un materialismo dialettico, ma solo come il comunissimo "materialismo naturalistico" che, sorto nell'epoca borghese dell'Illuminismo e della Rivoluzione francese [...] e filosoficamente restaurato nel XIX secolo in primo luogo da Feuerbach, [...] ha celebrato poi i suoi trionfi particolarmente nel darwinismo [...] E lo stesso materialismo di cui non solo il giovane Marx ha detto nelle Tesi su Feuerbach che esso «è il punto di vista della società borghese», ma che, anche più tardi, da [...] Marx ed Engels è stato qualificato [...] «come punto di vista teoricamente e praticamente superato per la loro teoria materialistico-dialettica e per l'azione storica della nuova classe rivoluzionaria».

È vero che Marx ed Engels riconoscono nella storia della natura il necessario pre supposto su cui si basa lo sviluppo della struttura economica della società, ma essi escludono che tale sviluppo sociale possa venire interpretato secondo il modello dei processi naturali, dei quali non può essere considerato in alcun modo un tardo episodio, sia pure eminente.

Al materialismo naturalistico corrisponde in Kautsky - ed è questa l'altra critica fondamentale di Korsch - un'interpretazione idealistica dello Stato, secondo la quale esso sarebbe da riconoscere come la più alta espressione della storia. Per aver mancato di considerare la società civile e il suo condizionamento da parte dell'economia politica, in assenza di una comprensione materialistica della relazione tra struttura economica e sovrastruttura politico-giuridica, che ha nello Stato la massima espressione, Kautsky soggiace a una visione schiettamente borghese e idealistica dell'evoluzione storica, concepita tutta in funzione dell'apparizione dello Stato moderno. Questo, nella sua attuale forma democratico-borghese, viene assunto sub specie aeternitatis, quale perfetta realizzazione dell'«idea della democr zia», e quindi come momento terminale del processo storico, nel cui ambito anche il socialismo sarebbe destinato a realizzarsi.

Mentre Marx aveva individuato la linea di separazione tra preistoria e storia della società umana nel tramonto del modo di produzione capitalistico, Kautsky, al contrario, colloca quella linea proprio alla nascita di questo modo di produzione, allorché il capitale industriale pone le premesse, appunto, dello Stato postfeudale moderno. Conseguenza di questo discorso, radicalmente divergente dal materialismo storico di Marx ed Engels, è che l'avversario della causa del proletariato non sarebbe da riconoscersi nel capitale industriale, ma piuttosto e soltanto in quelle sue escrescenze monopolistiche, imperialistiche e militariste, le quali, peraltro, non riuscirebbero a smentirne la fondamentale validità.

Attraverso e al di là della critica radicale del kautskysmo, l'intento di Korsch era, in verità, quello di colpire anche il marxismo trionfante nella Terza Internazionale e lo stesso pensiero di Lenin, di cui egli vedeva la diretta prosecuzione nel Diamat e nel fenomeno nascente dello stalinismo. Non è un caso che appena un anno dopo la pubblicazione del suo Anti-Kautsky, Korsch accompagnasse la riedizione di Marxismo e rivoluzione con un saggio, Lo stato attuale del problema "marxismo e filosofia" (Anticritica), in cui individuava una «totale convergenza» tra le critiche mosse al suo libro dalle «due confessioni della vecchia chiesa marxista ortodossa»:81 la socialdemocrazia e il marxismo-leninismo.

Convinzione di Korsch è che sia la socialdemocrazia della Seconda sia il leninismo della Terza Internazionale non siano altro che metamorfosi del marxismo in astratta ideologia poiché pretendono di inserirsi dall'esterno nel movimento proletario, di guidarne dall'alto la prassi, privilegiando così la dimensione politica ri spetto a quella economico-sociale nella quale si situa la classe operaia: la socialdemocrazia esaurisce la dimensione politica nel quadro dello Stato borghese; il leninismo stabilisce, sia nella teoria sia nella pratica, la dittatura del partito sulla classe, rivelando la propria attitudine giacobina e autoritaria. Questa è, agli occhi di Korsch, la premessa teorica che ha consentito al regime sovietico di Lenin e di Stalin di mascherare, dietro un'immagine ideologica di socialismo, la realtà di un capitalismo di Stato oppressivo e burocratico.

Quanto alla filosofia leniniana, Korsch sostiene che essa «non è la filosofia rivo luzionaria del proletariato adeguata all'attuale fase di sviluppo». Egli concentra la sua critica sulla teoria della conoscenza come rispecchiamento, nella quale crede di riconoscere una forma di realismo meccanicistico di tipo prekantiano che ignora la relazione dialettica che lega essere e coscienza:

Con il trasporre unilateralmente la dialettica nell'oggetto, nella natura e nella storia e col definire la conoscenza come semplice rispecchiamento e riproduzione passiva di questo essere oggettivo nella coscienza soggettiva, Lenin e i suoi distruggono [...] ogni rapporto dialettico tra l'"essere" e la "coscienza" e, come conseguenza necessaria, anche tra la teoria e la prassi.

La teoria del rispecchiamento appare del tutto congrua al giacobinismo politico che caratterizza il leninismo. Infatti essa include il riconoscimento dell'assoluta og gettività e necessità delle leggi che governano lo sviluppo sociale, le quali sfuggono alla coscienza immediata dei proletari, mentre soltanto il partito è in grado di rico noscerle e di potervi adeguare così la propria iniziativa politica.

A partire dal 1931, nel drammatico contesto storico-politico cui abbiamo già fat to cenno, inizia un periodo tormentato della riflessione teorica korschiana, che muove dal riconoscimento di una crisi del marxismo quale si è svolto a partire dalla seconda metà del XIX secolo fino a oggi, e insieme dalla speranza di un suo pos sibile superamento che, peraltro, agli occhi di Korsch, non potrebbe verificarsi se non in virtù di una ripresa del movimento rivoluzionario.

Per la verità, di questo travaglio non v'è traccia apparente nella monografia del 1938 dal titolo Karl Marx, che si muove ancora in linea con la tematica di Marxismo e rivoluzione, rispetto alla quale vengono, peraltro, introdotte alcune novità significative, sia nel modo d'intendere il rapporto Marx-Hegel, sia nell'interpretazione complessiva della teoria marxiana.

Quanto al rapporto Marx-Hegel, Korsch afferma che ciò che della filosofia hegeliana Marx accoglie va ricercato nel ricco contenuto di analisi dedicate alla società civile di cui Hegel, sulla scìa di Ricardo, mette spietatamente in luce le irrisolvibili contraddizioni. Marx avrebbe, invece, rifiutato il metodo dialettico con il quale Hegel, da ideologo della società borghese, pretendeva di sanare in un'unità superiore quelle stesse contraddizioni. La rottura con l'idealismo hegeliano avrebbe consentito a Marx di liberare la propria teoria della società capitalistica dalla forma filosofica e di dotarla di un carattere strettamente scientifico. Korsch rinuncia a ipotizzare, come gli accadeva di fare nello scritto del 1923, una cesura tra il Marx "filosofo" dei Manoscritti economico-filosofici o delle Tesi su Feuerbach e quello "rivoluzionario" del Manifesto da un lato, e lo "scienziato" del Capitale dall'altro, tra i quali ora vede, invece, una sostanziale continuità. Per esempio, quella che negli scritti filosofici era stata definita, secondo la lezione di Feuerbach, «autoestraneazione» dell'uomo, non sarebbe nulla di diverso da quel fenomeno che Marx, con linguaggio scientifico, chiama nel Capitale «feticismo delle merci». Se una novità va riconosciuta nel Capitale, essa consiste nell'adozione di un metodo critico intor no al modo di produzione del capitalismo moderno, che vuole rispettare, come ogni indagine scientifica empirica, la specificità delle forme che sono proprie della moderna società borghese, e soltanto di questa. A questo principio di "specifica zione" si connette naturalmente quello di "mutamento" che vuole che la società borghese venga intesa come una formazione transitoria, e non come se le sue leggi fossero naturali, e quindi inviolabili e definitive. Di qui anche la necessità, per una siffatta teoria della società capitalistica, di proporsi insieme come teoria della rivoluzione proletaria.

La teoria critica marxiana non ha voluto essere nulla più che questo. Essa, a dif ferenza di tanto marxismo successivo, a cominciare da Engels, non ha preteso di costituirsi come una teoria sociale generale, valevole per tutte le epoche storiche, né, tanto meno, ha voluto essere una filosofia totalizzante, esaustiva di tutta realtà. E proprio questa rivendicazione del carattere scientifico ed empirico della teoria marxiana a costituire l'elemento più interessante di questo studio complessivo del pensiero di Marx.

Gli scritti degli anni quaranta e cinquanta denunciano lo stato di sofferenza del pensiero korschiano. In Crisi del marxismo, scritto nel 1931 ma rimasto a lungo inedito, così scrive Korsch:

Il marxismo come fenomeno storico che è sorto nei suoi tratti fondamentali innan zitutto nella lotta rivoluzionaria della prima metà del XIX secolo, e si è mantenuto e trasformato nella seconda metà del secolo in ideologia rivoluzionaria di un movimento operaio a sua volta però non più rivoluzionario [...], questo marxismo è oggi un fatto del passato.

Anche se - si affretta Korsch ad aggiungere -

in un senso storico più profondo, anche la teoria della rivoluzione proletaria - da elaborare nel prossimo futuro - sarà una prosecuzione storica del marxismo. Per il futuro della lotta di classe proletaria la teoria rivoluzionaria con la quale Marx ed Engels nel primo periodo dello sviluppo rivoluzionario della lotta di classe proletaria hanno fornito la prima grandiosa sintesi delle idee proletarie, rimane la forma classica della coscienza rivoluzionaria moderna della classe operaia in lotta per la sua liberazione.

In realtà, sembra che Korsch si trovi a dover fare i conti con un'aporia di difficile soluzione: «Come può il marxismo rispecchiare concettualmente una rivoluzione che "non" è "ancora" avvenuta?».86 Non dobbiamo forse riconoscere che il marxi smo potrà esistere nella sua forma compiuta soltanto a rivoluzione proletaria ultimata? E che, dunque, il marxismo di Marx non è stato altro che il rispecchiamento, sì, della rivoluzione, ma di un'altra rivoluzione, quella capitalistico-borghese? O, più esattamente, della rivoluzione proletaria, ma solo per come è emersa dalla rivoluzione borghese? In effetti, è proprio questo ciò che Korsch riconosce:

Il salvataggio, fatto da Marx ed Engels [...] della dialettica cosciente dalla filosofia idealistica tedesca nella concezione materialistica della natura e della storia, dalla teoria borghese della rivoluzione in quella proletaria, ha - storicamente e teoricamente - solo il carattere di un trasferimento. Quella che è stata creata con ciò è una teoria della rivoluzione proletaria non come si è sviluppata sui suoi propri fondamenti, bensì come è emersa dalla rivoluzione borghese.

Da questo trasferimento è conseguito che la teoria marxiana, quale si è sviluppata dopo il declino della prassi rivoluzionaria della prima metà dell'Ottocento, dovesse portare i segni del giacobinismo originario della teoria della rivoluzione borghese, quello che, in precedenza, Korsch aveva ritenuto fosse stato ereditato solamente dal leninismo.

Nonostante il riconoscimento della crisi teorica e pratica del marxismo, Korsch non se ne sarebbe mai separato, pur dovendo scontare un'emarginazione che lo avrebbe costretto a una riflessione non nutrita dal vivificante legame con una prassi rivoluzionaria in atto, ma in presenza di eventi drammatici come l'ascesa del nazismo in Germania e la guerra civile spagnola. Era questo un isolamento che avrebbe drammaticamente condizionato il suo impegno teorico, convinto com'egli era dell'inutilità di «discutere punti controversi di una teoria sociale [...] se tale discussione non è parte di una lotta sociale», e che «il risultato di una tale discussione [...] deve in ogni caso mutare il comportamento effettivo non di un individuo o di un piccolo gruppo di persone, ma di un vero collettivo, di una massa sociale».88

Negli scritti degli anni trenta e quaranta, in nome della concezione marxiana del comunismo come «movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti», cui era rimasto sempre fedele, Korsch intende restituire al marxismo, degenerato in ideologia, il suo statuto scientifico e antidogmatico attraverso l'adozione del principio di specificità teorizzato nel Karl Marx, e insieme propone

la rivalutazione dell'elemento [...] pragmatico e attivistico che nonostante tutto non è mai stato completamente assente nella teoria sociale di Marx e ha reso, nei brevi periodi del suo predominio, questa teoria l'arma più efficace nella lotta di classe proletaria.

4. Lukâcs: un comunista tra Weimar e Mosca

a) Una formazione culturale mitteleuropea

György Lukâcs nasce a Budapest nel 1885 da una ricca famiglia borghese di origine ebraica. Fin dagli anni liceali si appassiona agli studi filosofici che prosegue fino a ottenere nel 1909 il dottorato in filosofia. Soggiorna tra il 1909 e il 1910 a Berlino dove segue le lezioni di Simmel, da cwi è profondamente suggestionato, e ha come compagno di studi Ernst Bloch. Successivamente, a Heidelberg, conosce Weber, subisce l'influenza di Rickert e della filosofia dei valori, mentre è forte anche l'attrazione per lo storicismo diltheyano.

È proprio la Lebensphilosophie a costituire l'orizzonte della sua prima riflessione, entro il quale si accosta per la prima volta a Hegel, e in particolare alla Fenomenologia dello spirito. Il tema intorno al quale orbitano i suoi pensieri è, da un lato, quello simmeliano della tensione tra l'impulso oscuro e impetuoso della vita e le forme in cui questa non può non esprimersi ma nelle quali non può nemmeno arrestarsi, dall'altro quello di origine romantico-hegeliana della perdita dell'unità originaria, del sentimento doloroso della scissione, dell'aspirazione inesausta alla pacificazione dello spirito nella ritrovata unità con se stesso e il mondo. D'altronde, l'influenza di Kierkegaard, uno dei suoi autori prediletti, lo tiene lontano dalla "sintesi" hegeliana, nella convinzione dell'intrascendibilità della scissione.

Esito di questa problematica giovanile, così manifestamente mitteleuropea, sono Inanima e le forme (1911), un saggio dove preminente è l'impronta simmeliana, e Teoria del romanzo (1914), dove domina invece il segno di Hegel e di Kierkegaard, ma anche di Bergson. In questo secondo saggio, il romanzo è visto come la più tipica espressione dell'epoca moderna, segnata dalla perdita dell'organicità della vita storica e sociale caratteristica del mondo greco classico, e dal prevalere della conflittualità tra singolo e collettività, interiorità ed esteriorità, io e mondo. Quando questo squilibrio si esprime in personaggi la cui coscienza risulta più angusta di quanto sia ricco invece il mondo, allora abbiamo i romanzi dell'«idealismo astratto», come il Do« Chisciotte di Cervantes; qualora invece la coscienza del protagonista sia così ricca di interiorità da straripare ben oltre la realtà, allora è il tempo dei romanzi della «disillusione», come L'educazione sentimentale di Flaubert o l'Oblomov di Goncarov. Infine Lukàcs riconosce un terzo tipo di romanzo, quello di «educazione» (esemplare il Wilhelm Meister di Goethe), nel quale il protagonista, pur continuando a soffrire dell'irrimediabile scissione, si adopra nel tentativo della conciliazione.

È con profondo pessimismo che il giovane filosofo guarda, secondo i modi della cultura decadente, alle sorti del mondo moderno, di cui avverte drammaticamente gli esiti negativi. Molti anni dopo, nel 1967, avrebbe scritto che la Teoria del romanzo era sorta «in uno stato di generale disperazione».90 E stato per altro osservato che, semmai, questo pessimismo, che in Inanima e le forme appare ontologicamente fondato sull'opposizione simmeliana tra vita e forma, e dunque non redimibile, nel saggio sul romanzo viene invece trasferito sul terreno dello sviluppo storico della cultu ra, ove non è da escludere in assoluto una possibile redenzione. Tant'è che Lukàcs, nel rifiuto romanticamente anticapitalistico del mondo occidentale, malato di un irriducibile individualismo, indicava utopicamente nel romanzo russo di Tolstoj, e soprattutto di Dostoevskij, il preannuncio di una possibile nuova epoca del mondo.

b) Il primo marxismo lukâcsiano

È la Russia di Lenin, non quella di Dostoevskij, a riaprire il giovane intellettuale alla speranza.

Solo con la rivoluzione russa si è aperta anche per me, nella realtà stessa, una pro spettiva per il futuro; già con il crollo dello zarismo e, a maggior ragione, con quello del capitalismo. Benché la nostra conoscenza dei fatti e dei princìpi fosse allora molto limitata e poco sicura, noi vedemmo tuttavia che - finalmente! - si era aperta per l'umanità una via che conduceva al di là della guerra e del capitalismo.

Con queste parole Lukâcs ricorda nel 1967 la sua conversione al marxismo e al co munismo. Per la verità, approcci con la lettura di Marx e di Engels vi erano sempre stati nel giovanile itinerario lukâcsiano, dal lontano entusiasmo, ancora acerbo e ingenuo, dello studente liceale per il Manifesto alla lettura, negli anni universitari, del primo libro del Capitale e dell' Origine della famiglia. Influenzato da Simmel, Lukâcs aveva impostato la lettura di tali opere da un punto di vista esclusivamente economico e sociologico, evidenziandone l'utilità per gli studi specialistici di sociologia della letteratura, cui il giovane intellettuale prevalentemente si dedicava. Lo studio di Hegel prima e, soprattutto, il conflitto mondiale riconosciuto ben presto come esito dei contrasti interimperialistici, e la Rivoluzione del 1917 poi, avrebbero posto le condizioni per la scoperta della dialettica hegelo-marxiana quale primario riferimento metodologico della rivoluzione sociale, e per l'adesione di Lukâcs al movimento rivoluzionario operaio. Nel 1918, entrato in rapporto con Béla Kun, il futuro capo della rivoluzione ungherese, egli aderisce al Partito comunista ungherese e, dopo la nascita, nel 1919, della "repubblica sovietica" a Budapest, divie ne commissario del popolo all'istruzione e commissario politico dell'Armata rossa ungherese. Dopo la rapida e fallimentare conclusione di questa vicenda, Lukâcs si rifugia a Vienna, dove solo per l'intervento di un gruppo di intellettuali - tra i qua li Thomas Mann, conosciuto fin dai tempi di Heidelberg - riesce a evitare l'estradizione, richiesta dal governo controrivoluzionario ungherese. Vive negli anni successivi tra Vienna e Berlino e, oltre a impegnarsi in una militanza rivoluzionaria organizzata intorno alla rivista "Kommunismus", si dedica alla stesura, tra il 1919 e il 1922, di alcuni saggi che pubblica nel 1923, sotto il titolo di Storia e coscienza di classe. E il suo primo lavoro di chiaro orientamento marxista.

Uno dei meriti di questo scritto, condiviso con il saggio coevo di Korsch, è quel lo di rendere pubblico il primo esempio (i Quaderni filosofici di Lenin sarebbero stati pubblicati solo nel 1929) di una riscoperta del rapporto Marx-Hegel nel tentativo «forse a quel tempo il più radicale di riattualizzare l'aspetto rivoluzionario di Marx attraverso il rinnovamento e lo sviluppo della dialettica hegeliana e del suo metodo».93 Un'operazione questa, che, se rivolta principalmente contro l'ortodossia socialdemocratica, non manca di esprimere un significato polemico anche nei confronti della sistemazione engelsiana del materialismo marxista. Non per niente Lukàcs nega la legittimità di un'estensione della dialettica dal mondo storico-sociale a quello della natura, introducendo così nel dibattito dentro e intorno al marxismo una pregiudiziale antiengelsiana che verrà ripresa da più parti in diversi momenti, e in particolare dagli esponenti della Scuola di Francoforte e da Sartre. Lukàcs giustifica questo rifiuto della dialettica della natura - letta come un'imitazione engelsiana del "falso esempio" di Hegel - per il fatto che

nella conoscenza della natura non sono presenti le determinazioni decisive della dialettica: l'interazione tra soggetto e oggetto, l'unità di teoria e praxis, la modificazione storica del sostrato delle categorie come base della loro modificazione del pensiero ecc.

In particolare, Lukàcs fonda la sua critica del materialismo engelsiano sulla dialet tica come unità di soggetto e oggetto, osservando che quest'unità, che la natura ignora, si dà solo nella dimensione della storia sociale, di cui essa costituisce il rap porto fondamentale. Non si tratta, infatti, del rapporto di cui si è sempre occupata la gnoseologia tradizionale e che continua a caratterizzare anche la teoria engelsiana e leniniana del "rispecchiamento", che Lukàcs rifiuta insieme alla dialettica della natura. Questo è un rapporto nel quale un soggetto individuale si limita a conoscere un oggetto altro da sé; quello, invece, è proprio dell'attività teorico-pratica attraverso la quale un soggetto collettivo - la classe sociale, non importa se borghese o proletaria - produce la realtà sociale. Discende da qui la netta separazione, an che metodologica, che Lukàcs, in questo caso ancora sotto la suggestione di Dilthey e di Windelband, traccia tra scienze della natura e scienza storico-sociale: le prime ubbidienti a un metodo empirico che ricerca la realtà nell'immediatezza dei "fatti" così come si presentano all'osservazione oggettiva, la seconda armata invece del metodo dialettico che riconduce i "fatti" a momenti dinamici di un processo complessivo e unitario, permettendo il superamento dell'isolamento e dell'immobilità.

E dunque intorno al tema, hegeliano e marxiano, della "totalità" che si raccoglie la riflessione lukâcsiana sulla realtà sociale, in netto conflitto con la scienza sociale borghese la quale, in base al procedimento analitico tipico delle scienze naturali, spezzetta la realtà sociale in fatti e aspetti cristallizzati, dei quali finisce con l'occultare la connessione dialettica e appunto la dinamicità, tanto che essi vengono asso- lutizzati in un'astratta e immobile astoricità. Di qui

la separazione del produttore dal processo complessivo di produzione, il frazionamento del processo lavorativo in parti senza tener conto del carattere umano del lavoratore, l'atomizzazione della società in individui che producono sfrenatamente al di fuori di qualsiasi piano e di qualsiasi nesso.

Di contro alla scienza capitalistica, che assume tutti questi aspetti come se fossero fatti naturali, è compito del pensiero dialettico riscoprire l'"intero" della società data nella sua attuale forma capitalistica, soltanto in virtù del quale essa rivela la sua reale struttura e insieme quella storicità cui è immanente la possibilità di essere superata. In forza del punto di vista della totalità quale discrimen tra marxismo e scienza borghese della società, Lukâcs si dissocia anche dall'economicismo caratteristico del marxismo "ortodosso":

Ciò che distingue in modo decisivo il marxismo dalla scienza borghese non è il pre dominio delle motivazioni economiche nella spiegazione della storia, ma il punto di vista della totalità. La categoria della totalità, il dominio determinante e onnilaterale del tutto sulle parti è l'essenza del metodo che Marx ha assunto da Hegel riformulandolo in modo originale e ponendolo alla base di una scienza interamente nuova.

È così che la famosa questione del rapporto tra strutture e sovrastrutture viene finalmente sottratta al nesso naturalistico di causa ed effetto, magari corretto con l'introduzione engelsiana dell'influenza reattiva che le sovrastutture eserciterebbero a loro volta sulle strutture: nella totalità concreta del processo storico, «i problemi "ideologici" ed "economici" perdono la loro reciproca estraneità e confluiscono gli uni negli altri».

Se la prospettiva della totalità è del tutto estranea alla borghesia, ciò dipende dalla tendenza, a essa connaturale, di considerare «i fenomeni della società sempre dal punto di vista dell'individuo», sicché «al massimo si perviene ad aspetti di un campo parziale, ma perlopiù soltanto a qualcosa di frammentario: "fatti" al di fuori di un contesto o leggi parziali astratte».98 Lo storico, l'economista, il sociologo borghesi non potrebbero mai, d'altronde, elevarsi alla visione della totalità sociale senza dover riconoscerne e metterne in discussione le contraddizioni, che viceversa preferiscono ignorare o, nella misura in cui ne hanno consapevolezza, le considerano come un male "naturale" e quindi inevitabile. «Il limite che rende "falsa" la coscienza di classe della borghesia, è oggettivo: è la stessa situazione di classe.»99 Soltanto il proletariato - che, dunque, è la classe per eccellenza - è capace di porsi come una totalità consapevole di se stessa, in grado pertanto di rendere anche la società oggetto visibile per intero, e per intero trasformabile. E, insomma, nel proletariato che si realizza l'unità di soggetto e oggetto, di teoria e praxis, e si pongono le condizioni della rivoluzione. Ciò che gli consente di porsi come classe universale, creatrice di storia nuova, è l'acquisizione della coscienza di sé, il suo farsi da classe in sé classe per sé, capace di trascendere la coscienza empirica, psicologica, che i singoli proletari hanno dei propri bisogni immediati. Questa coscienza, priva del punto di vista della totalità, non potrebbe mai oltrepassare, come ha insegnato Lenin, la praxis puramente rivendicativa con cui si appagano singoli bisogni particolari e immediati. La coscienza di classe, per essere «levatrice della storia», dev'essere invece espressione degli interessi "storici" del proletariato, e dunque non una coscienza immediata bensì una coscienza possibile che si costruisce nella maturazione storica e nella praxis della classe proletaria stessa.

È qui, in questo intervallo tra coscienza di fatto e coscienza di diritto (o possibi le) del proletariato, che sorge il problema del partito, dell'organizzazione cioè che concorra a colmare, o comunque a ridurre, quell'intervallo. Pur muovendo, su questo punto, da posizioni assai vicine allo "spontaneismo" della Luxemburg, Lukàcs si sforza di pervenire a conclusioni che tengano conto del Che fare? di Lenin, nello sforzo di evitare sia il modello di un partito precostituito rispetto ai livelli di consapevolezza della classe, sia quello di un partito semplice prodotto di un processo di spontanea maturazione rivoluzionaria della classe stessa.

Il merito maggiore di questo Lukàcs del 1923 - soprattutto se si considera che i Manoscritti economico-filosofici marxiani sarebbero venuti alla luce solo nel 1929 - è, peraltro, quello di recuperare un aspetto del pensiero di Marx che fino allora era rimasto del tutto inesplorato. Parliamo del tema dell'«alienazione» e del «feticismo delle merci», che viene riproposto sotto l'espressione, cara a Lukàcs, di processo di reificazione. La frammentazione e oggettivazione che l'organizzazione sociale capitalistica e la scienza borghese producono della totalità sociale, hanno l'effetto di ridurre anche gli uomini, il loro lavoro e i prodotti che ne derivano, a merci e dunque a "cose"; pertanto nel suo processo di liberazione il proletariato deve condurre la lotta, non solo nei confronti della borghesia, ma innanzitutto contro se stesso, contro gli effetti distruttivi e degradanti che la reificazione produce sulla sua coscienza di classe.

Lukàcs insiste in particolare sull'effetto reificante indotto dai processi di mecca nizzazione e dal taylorismo, tipici dell'organizzazione della fabbrica capitalistica moderna:

Questa meccanizzazione razionale giunge al punto di penetrare all'interno della stessa "anima" del lavoratore: anche le sue proprietà psicologiche vengono separate dalla sua personalità complessiva, obicttivate di fronte a essa, per poter essere inserite in sistemi specialistico-razionali e ricondotte a un concetto calcolistico.

E intrattenendosi a commentare, anche sotto la suggestione di elaborazioni risalenti a Bergson, un passo de La miseria della filosofia di Marx, così egli prosegue:

Il tempo perde così il suo carattere qualitativo, mutevole, fluido: esso si irrigidisce in un continuum esattamente delimitato, quantitativamente misurabile, riempito da "cose" quantitativamente misurabili (le "operazioni" reificate del lavoratore, oggettivate meccanicamente ed esattamente separate dalla sua personalità umana complessiva) in uno spazio. In un tempo astratto, esattamente misurabile, che si è trasformato in uno spazio fisicalistico, come mondo circostante, che è contemporaneamente pre messa e conseguenza della produzione specializzata e frazionata in modo scientifico- meccanico dell'oggetto del lavoro, i soggetti debbono essere a loro volta razionalmente frazionati in modo corrispondente. Da un lato, in quanto il loro lavoro parziale meccanizzato, l'obiettivazione della loro forza-lavoro di fronte alla loro personalità complessiva che si è già compiuta mediante la vendita di questa forza-lavoro come merce, si trasforma in realtà quotidiana permanente e insuperabile, cosicché la persona diventa anche in questo caso uno spettatore incapace di influire su ciò che accade della sua esistenza, come una particella isolata e inserita in un sistema estraneo. D'altro lato, il meccanico frazionamento del processo di produzione spezza anche quei vincoli che, nel caso della produzione "organica", ricollegavano in una co munità i soggetti singoli del lavoro. La meccanizzazione della produzione li trasforma, anche sotto questo riguardo, in atomi astrattamente isolati che non si trovano più in una relazione reciproca, organica e immediata, per via delle loro operazioni lavorative: la loro coesione è invece mediata con crescente esclusività dalle leggi astratte del meccanismo nel quale sono inseriti.

c) L'autocritica

Al suo apparire, Storia e coscienza di classe non ebbe una positiva accoglienza negli ambienti marxisti: sia gli esponenti della socialdemocrazia, prima di ogni altro Kautsky, sia il comunismo ufficiale condannarono le tesi presenti nel libro. Nel 1924, dalla tribuna del V Congresso della Terza Internazionale, Zinov'ev e Bucharin definirono il libro, insieme a Marxismo e rivoluzione di Korsch, una mistificazione idealistica del marxismo cosicché Lukâcs, in silenziosa accettazione della condanna, fece ritirare il libro dalla circolazione. E intanto, in quello stesso 1924, pubblicava Lenin. Teoria e prassi nella personalità di un rivoluzionario, un saggio in cui mostrava di aderire senza più riserve alla concezione leniniana del partito.

Anche sul terreno della militanza politica Lukâcs sarebbe stato "costretto", in anni successivi, a fare autocritica. In dissenso dalle scelte di "sinistra" che vanno maturando nel Comintern, e che verranno alla luce nella "svolta" del 1929, egli presenta, tra i lavori preparatori del II Congresso dd Partito comunista ungherese, le cosiddette Tesi di Blum (dallo pseudonimo che si era scelto per l'attività clandestina del partito), nelle quali si pronuncia per la conferma della strategia del "fron te unito" e, coerentemente con questa, per l'obiettivo dell'instaurazione in Ungheria, in alternativa al regime reazionario del generale Miklós Horthy, non di un regi me socialista, bensì della repubblica democratica. Sconfessato da Béla Kun e dal Comintern, Lukàcs si piega ancora una volta all'autocritica, nonostante la convinzione della giustezza del proprio punto di vista. Nel 1967 confessa che questa decisione era maturata nella consapevolezza

che allora un'espulsione dal partito rappresentava l'impossibilità di partecipare atti vamente alla lotta contro il fascismo che si avvicinava. Io redassi questa "autocritica" come "biglietto d'ingresso" a un'attività di questo genere.

Successivamente, in pieno periodo stalinista, Lukàcs si sarebbe adattato altre volte a compromessi di questo genere con il potere sovietico, attirandosi l'accusa postuma di essere un «gesuita della rivoluzione».103 Vive a Mosca, ininterrottamente, dal 1933, quando l'avvento del nazismo lo costringe a lasciare Berlino, al 1945, nei drammatici anni del potere assoluto di Stalin, dei processi, della guerra antifascista. Orientato ad assumere comportamenti dettati dalle ragioni del realismo politico, fin dalla metà degli anni venti aveva aderito alla strategia staliniana del "socialismo in un solo paese" e, convinto che il futuro del comunismo fosse legato alla so pravvivenza della Russia sovietica, non avrebbe mai sciolto i suoi legami con l'Internazionale comunista, l'Urss e il partito sovietico, neppure nei momenti più oscuri e tempestosi, neppure quando il dissenso gli sarebbe apparso inevitabile. Confessa in un'intervista del 1965: «Io sono un vecchio moscovita, un uomo dell'Internazionale, legato indissolubilmente al movimento comunista e in dissidio all'"interno" di esso».104

Le cose stanno, invece, diversamente per quanto riguarda il ripudio, deciso agli inizi degli anni trenta, delle posizioni espresse in Storia e coscienza di classe: nonostante in questo gesto intervengano anche ragioni di opportunità, come quella di poter lavorare presso l'Istituto di filosofia dell'Accademia delle scienze di Mosca, egli si convince davvero che il marxismo di quel libro sia gravemente viziato da impostazioni di stampo idealistico-hegeliano e da un'interpretazione inadeguata del pensiero di Marx e di Engels. Anche dopo la scomparsa di Stalin confermerà questa convinzione; prova ne sono le dichiarazioni rilasciate negli ultimi anni della sua vita, come quella del 1965: «Quando scrissi quel libro non conoscevo Marx a sufficienza»,105 e soprattutto l'introduzione duramente autocritica che egli scrive nel 1967 in occasione dell'edizione italiana del volume.

La separazione dalle posizioni del 1923 è, in effetti, la conseguenza teorica neces saria del venir meno, sconfitte dal corso degli eventi, delle posizioni politiche «settarie e utopico-messianiche» (è Lukâcs stesso a definirle in tal modo) precedente mente sostenute. E, dunque, nelle Tesi di Blum, allora condannate dal potere sovietico, che bisogna cercare, anche se questo può apparire paradossale, le premesse politico-ideologiche delle correzioni teoriche che awieranno il "secondo marxismo" lukâcsiano, questa volta integrato, sia pur in modo non servile o dogmatico, all'interno del marxismo-leninismo. Principalmente nel riconoscimento di aver confuso in modo palesemente erroneo, sotto l'influenza di Hegel, il concetto di alienazione-reificazione con quello del tutto diverso di oggettivazione, dimodoché l'alienazione, di cui pur si intendeva rilevare la natura sociale esclusivamente connaturata al sistema capitalistico, finisce invece con l'apparire una condizione inevitabile dell'uomo, a prescindere dalla realtà sociale in cui questi si trovi a vivere. Non per caso Storia e coscienza di classe - è lo stesso Lukâcs a segnalarlo - darà modo a pensatori come Heidegger di utilizzare la tematica della reificazione, assu mendola come segno di un'eterna, insuperabile "condizione umana". Al contrario (in ciò consiste gran parte del ripensamento di Lukâcs), l'oggettivazione è un ca rattere intrinseco all'attività sociale degli uomini, al lavoro, e come tale non potrebbe essere tolta senza togliere l'uomo, mentre è l'alienazione a costituire il segno ne gativo che l'oggettivazione assume quando, come nella società capitalistica, la praxis sia sottoposta alla servitù del capitale.

La lettura a Mosca, nel 1930, dei Manoscritti economico-filosofici di Marx appena ritrovati gli offre l'occasione per la scoperta dell'errore in cui era incorso. Così rievoca n<AX Introduzione del 1967:

[...] ricordo ancora oggi l'impressione sconvolgente che fecero su di me le parole di Marx sull'oggettività come proprietà materiale primaria di tutte le cose e di tutte le relazioni. A essa si ricollegava la comprensione del fatto che l'oggettivazione è un modo naturale - positivo o negativo - di dominio umano del mondo, mentre l'e straneazione è un tipo particolare di oggettivazione che si realizza in determinate condizioni sociali. Con ciò erano crollati definitivamente i fondamenti teorici di ciò che rappresentava il carattere particolare di Storia e coscienza di classe. Questo libro mi divenne completamente estraneo [...] D'un colpo mi fu chiaro che se volevo realizzare quegli elementi teorici che mi si presentavano dinanzi, dovevo ancora una vol ta ricominciare dall'inizio.

Il recupero della distinzione tra oggettivazione e alienazione richiede prima di tutto la riabilitazione delle scienze della natura e della tecnologia, giudicate, nel testo del 1923, connaturate all'organizzazione capitalistic^ della società. Non dunque, per fare un solo esempio, la macchina in quanto tale dovrà esser messa in discussione, quale responsabile dell'alienazione operaia, quanto piuttosto e soltanto l'uso che il capitalismo ne fa.

Davvero Lukàcs riparte dall'inizio: fin dai primi anni trenta egli dà inizio a una severa autocritica che giunge a piena espressione in un articolo del 1934, Limportanza di "Materialismo ed empiriocriticismo" per la bolscevizzazione dei partiti comunisti. Da questo momento fa proprie le teorie fondamentali del marxismo- leninismo, dalla dialettica engelsiana della natura, alla gnoseologia del "rispecchiamento", recuperando anche alcuni punti fondamentali dello stesso pensiero marxiano, come la fondazione economica della concezione della storia e la categoria del lavoro. Questo, riscoperto nella sua funzione di mediatore del ricambio organico della società con la natura, costringe a riconsiderare il complesso rapporto tra storia e natura che nel 1923 era rimasto come soffocato da un concetto della praxis ancora idealistico e soggettivistico.

d) Estetica e critica letteraria

Durante il lungo soggiorno moscovita Lukàcs ripartisce il proprio impegno tra l'approfondimento dello studio di Hegel, e del rapporto Hegel-Marx, e l'interesse per i problemi di estetica, critica letteraria e storia della letteratura. Frutto di questo lavoro, proseguito anche dopo il rimpatrio in Ungheria, sono numerosi scritti saggistici di grande levatura: da un lato II giovane Hegel, scritto nel 1938 ma pubblicato solo dieci anni dopo, e La distruzione della ragione (1954), dall'altro II romanzo storico (1937), Goethe e il suo tempo (1947), Saggi sul realismo (1948), Thomas Mann (1949), Balzac e il realismo francese (1952), Contributi alla storia del l'estetica (1954).

Obiettivo comune a questi studi è quello di recuperare al proletariato, reinter pretandola alla luce del marxismo, la grande cultura filosofica, letteraria e artistica borghese di orientamento progressista e democratico che, durante la prima metà dell'Ottocento e fino alla cesura del 1848, aveva saputo restare fedele, sviluppan dolo, al lascito della rivoluzione borghese della fine del Settecento. Mentre in Storia e coscienza di classe, nella prospettiva creduta imminente di un'estensione all'Occidente del processo rivoluzionario, veniva affidata al proletariato soltanto, in radicale discontinuità e rottura con il mondo borghese, la creazione esclusiva della nuova totalità sociale, ora, allontanatosi il tempo della rivoluzione mondiale, Lukàcs insiste sul tema della continuità e dell'eredità storica, al di là delle pur necessarie rotture prodotte dalla lotta di classe e dal succedersi di diversi modi di produzione. Il proletariato, insomma, la classe culturalmente non esistente, si candida a legittimo erede della cultura classica borghese nella sua fase ascendente, prima che, con la crisi del 1848, avesse inizio il processo involutivo della decadenza. Attraverso i tempi lunghi della storia, viene tracciato un continuum culturale che conduce, per le vie del secolo XIX, dall'epoca rivoluzionaria della borghesia a quel la del proletariato e del socialismo. Del resto - sia detto per inciso -, anche sul terreno dell'apparato economico dell'industria, Lukâcs ammette ora una linea di con tinuità: la società socialista dovrebbe ereditarlo così come il capitalismo lo ha prodotto, solo mutandone la gestione.

Lukâcs individua i contenuti dell'eredità culturale borghese nella dialettica (Hegel), nel valore universale dell'umanesimo (l'età classica tedesca di Schiller e Goethe) e nel realismo letterario (Stendhal, Balzac, Dickens, Tolstoj).

Nel perdurare dell'interesse per Hegel, che rappresenta il principale elemento di continuità tra il primo e il secondo Lukâcs, cambia il modo con cui quest'ultimo guarda al rapporto di Marx con il filosofo della Fenomenologia dello spirito: prendendo spunto da un'osservazione di Norberto Bobbio, si potrebbe dire che, men tre il primo Lukâcs tendeva ad "hegelianizzare" Marx, il secondo, viceversa, è impegnato a "marxificare" Hegel.107 Ne II giovane Hegel, dedicato all'evoluzione della filosofia hegeliana fino alla Fenomenologia, Lukâcs si oppone all'interpretazione diltheyana del pensiero giovanile di Hegel e nega che si possa parlare di un Hegel «romantico e mistico». Egli sostiene, al contrario, che, fin dagli anni di Tubinga e di Berna, di Francoforte e di Jena, il pensiero hegeliano, nutrito di tematiche illuministiche e giacobine, si sarebbe cimentato con i grandi eventi della sua epoca, dalla Rivoluzione francese a Napoleone, fino alla Rivoluzione industriale, traendo da essi e, in particolare, dall'economia politica degli inglesi, i materiali da interpretare alla luce del movimento dialettico della realtà. Certo, Hegel ha offerto un'interpretazione della sua epoca costringendola entro i quadri di un sistema filosofico idealistico, ma ciò è dipeso, afferma Lukâcs sulla scìa di Engels, dall'arretratezza della realtà sociale e politica tedesca.

Negli scritti di critica e storia letteraria, come nella grande Estetica, redatta tra il 1957 e il 1963, Lukâcs propone il suo "realismo critico" quale base sia della ricostruzione della storia della letteratura tedesca ed europea dagli inizi dell'Ottocento in poi, sia della formulazione della prima estetica di ispirazione marxista che sia stata pensata.

Sul fondamento della teoria engelsiano-leniniana della conoscenza come rispecchiamento, e privilegiando, nel corso della sua indagine, la letteratura rispetto ad altre forme di espressione artistica, e, nell'arte letteraria, il romanzo o anche il teatro rispetto alla poesia, Lukâcs delinea una concezione dell'arte come mimesi. Egli afferma che l'arte autentica rifugge dal vacuo formalismo del "puro gioco" che evade dalla realtà e si diletta a stilizzarla, svuotandola della ricchezza dei suoi contenuti; essa trae, al contrario, la propria forza espressiva dalla fedeltà dell'artista alla realtà, alla realtà della sua epoca, rappresentata in modo veritiero nei suoi nodi problematici, sociali, morali e psicologici, e nelle sue tendenze di sviluppo. Non è che l'artista debba "fotografare" la realtà; così ne scorgerebbe soltanto, come accade a un "naturalista" quale Zola, la "crosta" superficiale, limitandosi al documento immediato e particolare. La funzione dell'arte è, sì, di rispecchiare la realtà, ma per restituirne, come aveva già visto Aristotele, i significati universali. E, anche qui, non secondo i modi della scienza, che sono generalizzanti, astraenti e mirano a cogliere concettualmente le leggi universali, bensì secondo procedimenti individua lizzanti, a opera dei quali l'universale, l'"essenza", viene rappresentata come essenza organicamente immersa nella fervida vita dei fenomeni:

Il fatto specifico del rispecchiamento artistico è la rappresentazione del rapporto reciproco tra fenomeno ed essenza, rappresentazione che però fa sorgere di fronte a noi un mondo che sembra composto solo di fenomeni, ma di fenomeni tali che, senza perdere la loro forma fenomenica, il loro carattere di "superficie fuggevole", [...] permettono sempre di percepire l'essenzialità immanente al fenomeno.

Per dirla con Hegel: «l'arte rende sensibile l'essenza». Insomma, l'oggetto dell'arte non è né l'astratto universale, né il qualunque particolare, e nemmeno la media statistica di ciò che avviene nella banalità quotidiana, bensì quello che Lukàcs chiama il particolare-tipico o tipo, ossia, ancora una volta hegelianamente, la sintesi di essenza e fenomeno, universale e particolare. Leggiamo nel saggio II marxismo e la critica letteraria:

[...] il tipo non è [...] il tipo astratto della tragedia classica, né il personaggio schilleriano nella sua genericità idealizzante; ma tanto meno è quello che ne hanno fatto la letteratura e la teoria letteraria di Zola e dei suoi successori: la media. Il tipo vie ne caratterizzato dal fatto che in esso convergono e si intrecciano in vivente, contraddittoria unità tutti i tratti salienti di quell'unità dinamica in cui la vera letteratu ra rispecchia la vita; tutte le contraddizioni più importanti, sociali, morali e psicologiche, di un'epoca. Invece la rappresentazione della media fa sì che tali contraddizioni, che sono sempre il riflesso dei grandi problemi di un'epoca, appaiono necessariamente indebolite e dimezzate nell'animo e nelle vicende di un uomo mediocre e perdano così proprio i loro tratti essenziali. Nella raffigurazione del tipo, nell'arte tipica, si fondono la concretezza e la norma, l'elemento umano eterno e quello storicamente determinato, l'individualità e l'universalità sociale. Perciò, nella creazione di tipi, nella presentazione di caratteri e di situazioni tipiche, le più importanti tendenze dell'evoluzione sociale ricevono un'adeguata espressione artistica.

Qualora un artista possegga questa peculiare capacità di penetrazione della realtà, egli svolge una funzione progressista poiché, nelle immagini e rappresentazioni, mette allo scoperto le tendenze profonde, strutturali dell'epoca. E questo non è meno vero nell'ipotesi che soggettivamente, biograficamente, egli sia un reazionario. E il caso di Balzac che, pur essendo un legittimista, un ammiratore dell'aristocrazia decadente, raffigura nei suoi romanzi i suoi aristocratici con l'amara satira del grande scrittore realista che, scrutando nelle viscere del presente, avverte l'approssimarsi del nuovo. Tanto è complesso, e anche contraddittorio, il rapporto tra concezione del mondo e attività letteraria.

Con questo rifiuto dell'equazione uomo reazionario = scrittore mediocre (ma anche di quella opposta uomo progressista = grande scrittore), e più in generale per il carattere critico del suo realismo estetico, Lukâcs si distingue nettamente dalle concezioni zdanoviane del "realismo socialista", dominanti nell'epoca staliniana. Non per caso entra in urto con le idee ufficiali del regime su quali criteri debbano ispirare la produzione artistica e letteraria in un paese socialista, al punto da essere arrestato, nel 1940, dalla polizia di Stalin. Riesce a salvarsi soltanto grazie all'inter vento di Dimitrov.

Convinto com'è del valore universale della grande letteratura della borghesia in ascesa, Lukâcs non lo è altrettanto delle avanguardie letterarie del Novecento che anzi, quali espressioni della decadenza borghese, giudica tanto più severamente quanto più appaiono grandi. Da Kafka a Proust, da Joyce a Musil, egli scorge in questi scrittori un "immediatismo" incapace di vedere nel fenomeno l'essenza con la conseguenza che la realtà che essi descrivono, mero riflesso fenomenale della loro soggettiva esperienza, viene considerata come assoluta e definitiva, invece che storicamente determinata e, come tale, portatrice nel proprio stesso grembo di controforze e controtendenze che ne preannunciano e ne predispongono il superamento. La realtà in cui sono situati gli scrittori della decadenza è quella del capitalismo nell'età dell'imperialismo, nella quale la borghesia consuma il proprio declino, sicché l'immediatezza sociale e psicologica delle situazioni e delle storie indivi duali e collettive è accompagnata dai segni dell'angoscia e della disperazione. L'inadeguatezza degli scrittori dell'avanguardia sta nel registrare esclusivamente questi segni, assolutizzando così i fenomeni di disfacimento di cui fanno esperienza immediata. Le stesse nuove tecniche narrative - il monologo interiore, il disgregarsi del tessuto temporale, lo spaesamento - non farebbero altro che denunciare la solitudine terrificante di un soggetto che si è ritratto dall'accadere storico-sociale della sua epoca e, solo con se stesso, non può più, e nemmeno vuole, comprendere il divenire del mondo.

Non è che Lukâcs intenda negare la legittimità storica dell'esistenza delle avanguardie letterarie che «riposa sul fatto che la deformazione dell'uomo, l'antiartisti- cità dei rapporti umani, è un necessario prodotto della società capitalistica»;110 egli ritiene non solo legittima, ma necessaria la rappresentazione dei sentimenti di angoscia, di smarrimento, di autodisprezzo, di disperazione. Quello che egli contesta all'avanguardia è che tutto possa risolversi in questo:

Non si domanda se tutto questo si trovi realmente nella realtà; si domanda solo: è questa tutta la realtà? Non si domanda se tutto questo debba essere rappresentato; si domanda solo: bisogna fermarsi qui?

Si comprende perché, agli scrittori della decadenza, Lukàcs ami contrapporre, quale testimonianza della non tramontata attualità del grande realismo borghese ottocentesco, il romanziere che più di ogni altro gli sembra incarnare, in pieno XX secolo, il trionfo del realismo: Thomas Mann, cui riconosce la capacità di rivelare nei suoi romanzi la totalità degli intimi problemi della società borghese.111

Come nella critica della letteratura d'avanguardia, così anche di fronte alla filoso fia contemporanea Lukàcs procede secondo un analogo criterio di contrapposizione radicale tra due linee di sviluppo opposte. Al decadentismo delle avanguardie letterarie corrisponde lo sviluppo, dopo Hegel, dell'irrazionalismo filosofico, così come al realismo della grande letteratura ottocentesca farebbe riscontro, sul terreno filosofico, lo sviluppo del pensiero dialettico hegeliano. Con una veemenza critica e un'estrema radicalizzazione, che da alcuni è stata definita manichea e che sembra rappresentare il momento di maggior cedimento alla pressione ideologica dello stalinismo, Lukàcs ricostruisce nel saggio La distruzione della ragione una storia della filosofia europea posthegeliana drasticamente dicotomizzata: da una par te, il filone Marx-Engels-Lenin che, fedele al metodo dialettico hegeliano, sviluppa, rovesciandolo nel materialismo dialettico, il modello di razionalità e di progres sività del reale proposto da Hegel; dall'altra, il sonno della ragione, il rifiuto della dialettica, l'affermarsi di un irrazionalismo destinato inevitabilmente a sfociare nel fascismo e nel nazismo. E questo il filone che, iniziando dall'ultimo Schelling, attraverso Schopenhauer, Kierkegaard e Nietzsche, si sarebbe venuto ramificando nelle diverse versioni dell'irrazionalismo filosofico contemporaneo: dalle filosofie della vita di Simmel, Dilthey, Bergson, Spengler, alla fenomenologia di Husserl e soprattutto di Scheler, dagli esistenzialismi di Heidegger e Jaspers alla sociologia borghese di Weber, fino a Croce, anche lui accusato di interpretare in modo soggettivistico e irrazionalistico la storia.

Comune a tutte queste filosofie sarebbe il misconoscimento della ragione hegeliana, la riduzione della conoscenza razionale a quello che Hegel chiamava «intelletto», di per sé incapace di comprendere il movimento dialettico e, dunque, la razionalità del reale fino all'estrema conseguenza: la sperimentazione di aristocratiche vie di accesso alla realtà, alternative a quella della ragione, con il popolamento della realtà stessa di forze cieche e irrazionali. Conseguenza quest'ultima, chiamata da Lukàcs a conferma del tracciato «da Schelling fino a Hitler» che la filosofia borghese dell'età dell'imperialismo avrebbe percorso.

e) L'ultimo marxismo lukâcsiano

Al termine della seconda guerra mondiale, dopo più di venticinque anni di esilio, Lukàcs fa ritorno in Ungheria, dove partecipa alla vita politica del paese come membro del Parlamento, mentre insegna Estetica e Filosofia della cultura all'Università di Budapest. In conflitto con l'indirizzo staliniano, nel 1951 si ritira dall'attività politica, per ritornarvi solo nel 1956, dopo il XX Congresso del Pcus e il rapporto Chruscëv. Animatore del circolo Petöfi di Budapest, accetta di partecipare, come ministro della cultura, al governo Nagy, formatosi nel corso della rivolta antistalinista di Budapest. Dopo l'intervento militare dell'Urss e il ristabilimento di un governo fedele a Mosca, Lukàcs viene deportato per alcuni mesi in Romania, finché nel 1957 gli è concesso di rientrare a Budapest. Rifiutatosi di entrare nel partito di nuovo costituito, si ritira a vita privata, dedicandosi interamente agli studi. Nel 1967, dietro sua richiesta, viene reintegrato nel Partito comunista ungherese. Alla morte, nel 1971, viene sepolto nel cimitero di Kerepesi, in un settore desti nato ai grandi personaggi del movimento socialista ungherese.

Lukàcs dedica gli ultimi anni della sua vita alla riformulazione del proprio marxismo, ricomposto nell'ultima grande opera, Ontologia dell'essere sociale, vero e proprio testamento filosofico, lasciato inedito in più di duemila pagine manoscritte, e soltanto nel quale il filosofo ungherese ritiene di essere riuscito, alla soglia degli ot- tant'anni, a chiarire definitivamente "il nocciolo" della propria filosofia. In effetti siamo dinanzi alla formulazione di un marxismo teorico sensibilmente innovativo rispetto alle posizioni assunte durante il periodo staliniano. E non tanto perché l'autore sperimenti la via del "sistema" rispetto alle espressioni saggistiche del periodo precedente, quanto per la sostanziale rottura con il marxismo-leninismo sovietico, con il quale, per ragioni attinenti alle necessità di difesa del campo socialista, aveva accettato per lunghi anni una difficile convivenza. Ciò non significa che Lukàcs intenda rinunciare al materialismo dialettico e al principio fondamentale di questo, ossia la tesi della preesistenza e dell'autosufficienza dell'essere in rapporto alla coscienza. Al contrario: egli vuole, anzi, restituire alla filosofia, contro le tendenze prevalenti nel pensiero filosofico borghese del secolo, dal neokantismo, alla fenomenologia e al neopositivismo, e anche contro le tendenze soggettivistiche, praticistiche e storicistiche di tanta parte del marxismo occidentale, il compito di ristabilire un'ontologia fondamentale, una teoria, per dirla con Aristotele (più volte ricordato in quest'opera), dell'«essere in quanto essere». Il dissenso dal marxi smo sovietico riguarda invece il modo d'intendere il rapporto tra natura e società. Secondo il Diamat, il funzionamento delle leggi della società non è sostanzialmente diverso da quello delle leggi della natura, e la coscienza finisce con il risolversi, in un quadro di riduzione naturalistica del marxismo, a epifenomeno dello svolgimento deterministico della natura. A questo materialismo monistico, nel quale la dialettica si svolge, anche nella dimensione sociale, alle spalle dell'uomo secondo processi automatici del tutto indipendenti dalla sua volontà, Lukàcs oppone la sua ontologia, materialistica sì, ma implicante una stratificazione dei livelli dell'essere (natura inorganica, natura biologica, essere sociale), secondo la quale ogni livello presuppone il precedente nel quale si radica, ma non è a esso riducibile, data l'inconfondibile specificità delle categorie che costituiscono ognuno dei tre livelli del l'essere.

Lukâcs insiste, in particolare, nel sottolineare la novità, inconfondibile con i suoi presupposti e condizioni naturali, dell'essere sociale, ossia dell'uomo, tanto che l'antropogenesi appare essere contrassegnata da un vero e proprio «salto ontologico». Il fenomeno originario, dal quale prende inizio il processo antropogenetico è il lavoro in senso marxiano, intorno al quale si concentra l'indagine lukâcsiana. E in virtù del lavoro che la coscienza - negli animali superiori ancora vincolata alle serie causali oggettive delle quali è un semplice epifenomeno - si emancipa dall'og gettività naturale, introducendo nelle serie causali della natura, di per sé assolutamente ateleologiche, la propria attività finalistica. Non lontano in questo dalla hus serliana «intenzionalità della coscienza», Lukâcs sostiene che è l'uomo che, nell'atto di costituirsi come essere sociale attraverso il lavoro, attività essenzialmente teleologica, instaura il senso e i valori, di cui la natura è del tutto priva. Ne discende che le categorie costitutive dell'essere sociale, che lo rendono singolare e irriduci bile alle stratificazioni ontologiche inferiori, sono il dover-essere e il valore; ciò spiega perché Lukâcs si accinga, una volta portata a termine Y Ontologia dell'essere sociale, a scrivere un'Etica, di cui Y Ontologia costituirebbe l'introduzione. La morte interviene, nel 1971, a impedire la realizzazione di questo disegno.

La categoria del dover-essere potrebbe far pensare a Kant, cui invece Lukâcs non intende fare alcuna concessione. L'attività finalistica costitutiva dell'essere sociale non si svolge, infatti, nel cielo astratto delle idealità, bensì in stretta connessione con le serie causali oggettive, dalle quali sempre essa resta condizionata. La libertà intrinseca all'atto teleologico, resa possibile all'uomo dalle distanze che, in virtù del lavoro, egli è in grado di prendere dalla causalità oggettiva, aprendosi così diverse alternative di azione, consiste nel saper utilizzare, ai fini del successo dell'azione, le opportunità che la realtà offre. Questa, infatti, non è in tutto dominata dalla necessità dei rapporti causali, ma, per le mille accidentalità che la caratterizzano, include potenzialità latenti che l'azione dell'uomo è in grado di valorizzare: allo stesso modo in cui Raffaello - osserva Lukâcs - seppe trarre dalle finestre che si aprivano nelle pareti delle stanze del Vaticano ove doveva creare i suoi affreschi (di per sé un'accidentalità sfavorevole alla sua impresa), delle utili occasioni per la costruzione spaziale delle sue raffigurazioni.

Attraverso oggettivazioni sempre più complesse, vengono generandosi dal lavoro, punto embrionale della società, i diversi livelli dei rapporti sociali, fino ai più alti rapporti intersoggettivi, secondo un progresso genetico, la cui origine sta negli atti teleologici degli individui. I risultati di questi atti, che via via vengono stratifi candosi nella realtà sociale, non corrispondono però alle intenzioni individuali; essi vanno oltre e possono, in date circostanze, entrare perfino in contrasto con esse. Si tratta di quell'eterogenesi dei fini che imprime al processo storico-sociale l'andamento drammatico della lotta, sempre rinascente, degli individui e gruppi di individui che reagiscono all'andamento oggettivo delle cose cercando di riaffermare sempre di nuovo le loro intenzioni, la loro soggettività.

In questo contesto si collocano le problematiche della lotta delle classi, del con fronto-scontro tra le diverse organizzazioni dell'economia e della società, i processi della disalienizzazione dei rapporti sociali. L'alienazione del lavoro dipende dal fatto che l'oggettività delle strutture sociali, quali si sono venute storicamente determinando, esercita sugli individui una costrizione che impedisce loro, nell'atto oggettivante del lavoro, di esteriorizzare tutte le proprie potenzialità, che rimangono in larga mi sura inespresse e inattuate. Questo non significa che in una società dominata dall'alienazione umana non si esplichino anche in modo notevole le capacità umane; solo che tale esplicazione non va nella direzione dello sviluppo della personalità degli uomini. Di questa viene impedita l'autoaffermazione, che costituisce la finalità ultima dello sviluppo sociale. Lukàcs fissa il suo pensiero su questo punto attraverso la di stinzione tra due livelli del "genere umano", che ricorda la distinzione marxiana tra regno della necessità e regno della libertà: la genericità in-sé, che è l'esistenza etero- noma dell'uomo sottoposto alla costrizione dell'esistente, e la genericità per-sé, l'au toaffermazione, appunto, della personalità di uomini finalmente liberi.

L'ultimo discorso lukàcsiano suona ancora conferma di quella fede nei valori della grande tradizione umanistica europea, esemplarmente rappresentata da Hegel e Goethe, che ha costituito il punto di riferimento permanente del filosofo ungherese, lungo i decenni travagliati e drammatici dell'età staliniana.

5. Bloch: il filosofo della speranza comunista

a) Un singolare percorso

Non mancano affinità tra il marxismo di Bloch e quello di Lukàcs: ambedue si ispirano ai valori dell'umanesimo, per ambedue la filosofia hegeliana rappresenta un punto di riferimento essenziale, confliggono entrambi con l'ortodossia marxista-leninista e propongono un'interpretazione di Marx libera da cristallizzazioni dogmatiche. I due filosofi furono del resto legati da un'amicizia antica, risalente agli anni giovanili, quando si conobbero a Heidelberg e frequentarono insieme il circolo di Max Weber.

Tutto ciò, peraltro, non può far dimenticare che la figura di Bloch è per molti versi assai dissimile da quella di Lukàcs. Nato nel 1885 a Ludwigshafen da una famiglia di estrazione medio-borghese e di ascendenze ebraiche, Ernst Bloch studia a Berlino con Simmel dopo essersi laureato in filosofia nel 1909 a Würzburg. Si en tusiasma alla lettura di Storia e coscienza di classe di Lukàcs, in cui trova un «primo soffio d'aria fresca nel marxismo dopo lungo tempo», e diverse frasi della quale avrebbe potuto scrivere lui stesso. Ma rimane poi deluso dal rinnegamento dello stesso Lukàcs, una delusione che prelude alle molte e importanti divergenze che insorgeranno tra i due e che provocheranno una reciproca presa di distanza e il raffreddamento della giovanile amicizia.

Innanzitutto, le ascendenze culturali del pensiero blochiano non potrebbero essere ristrette, nonostante il fervido interesse per Hegel, all'ambito della filosofia e della cultura classica tedesca rappresentata dal binomio Hegel-Goethe e, per quanto concerne arte e letteratura, al grande realismo borghese dell'Ottocento, cui guardava invece, in modo esclusivo e intollerante di ogni altra prospettiva, Lukàcs. Bloch, fin da giovane, nutre vivo interesse per le avanguardie letterarie e artistiche del primo Novecento e, in particolare, l'espressionismo rimarrà sempre un punto fermo per la sua sensibilità di scrittore e per la sua stessa visione del mondo. In un'intervista del 1976, questo ricorda degli anni della sua giovinezza:

L'espressionismo, questa fu la rivolta della mia generazione, della nostra giovinezza, una rivolta che portava in sé il germe della speranza. [...] Quell'intera epoca e in particolare l'espressionismo erano animati da un grande anelito verso una vita nuova, verso la creazione di un uomo nuovo; le immagini di un Franz Marc lo esprimevano altrettanto quanto la musica di un Gustav Mahler.

Mai Bloch avrebbe condiviso l'atteggiamento iconoclastico di Lukàcs nei confronti del filone della filosofia posthegeliana che discendeva da Kierkegaard fino a Nietzsche, e aveva influenzato la filosofia della vita di Simmel e lo storicismo di Dilthey. Mai si sarebbe pentito di condividere e di utilizzare le critiche di Kierkegaard, e prima ancora dell'ultimo Schelling, al panlogismo e al chiuso siste ma hegeliano che pretendeva di esaurire in se stesso la realtà, come un tutto fissato una volta per sempre.

Ma è soprattutto la profonda consuetudine con la lettura della Bibbia e l'influen za del messianismo ebraico-cristiano, con il carico estremamente suggestivo delle sue speranze e attese millenaristiche, a segnare il percorso blochiano verso il marxismo di una cifra inconfondibile e originale. Fedele a un lucido e intransigente ateismo, e anzi, si direbbe, proprio in forza di esso, Bloch riconosce nella reli gione, e in particolare nel cristianesimo, o più precisamente nella sua componente profetica, una delle fonti più importanti della propria riflessione, nonché una delle forze spirituali più potenti nel concorrere alla realizzazione dell'uomo "nuovo", di quel "sogno di una cosa" di cui aveva parlato il giovane Marx. Questa profonda ispirazione messianico-religiosa non avrebbe mancato di esercitare un notevole interesse in settori importanti della teologia cristiana del Novecento, tanto che un teologo come Jürgen Moltmann si sarebbe ispirato espressamente alla sua filosofia.

Di questa attenzione dei teologi nei confronti della sua opera Bloch si mostrerà al quanto diffidente, quando, in un'intervista del 1967, a chi gli chiedeva che cosa ne pensasse, ebbe a rispondere con l'aneddoto di Socrate che, elogiato da un sofista per un discorso fatto il giorno prima, domandò ad Alcibiade: «Costui mi ha loda to. Che cosa avrò detto mai di sbagliato ieri sera?».

Dopo quanto si è detto non è difficile capire che il marxismo di un pensatore di tal fatta non poteva non rivelarsi incompatibile con l'establishment culturale e politico dei regimi comunisti dell'Est. Comunista fin dal 1919, anche per la suggestione esercitata su di lui dalla Rivoluzione d'ottobre, Bloch aderisce alla Repubblica tedesca dei consigli, pur non iscrivendosi mai al Partito comunista tedesco. Agli inizi degli anni venti condivide, in stretto sodalizio con Brecht, Adorno e Benjamin, le speranze in un imminente avvento del comunismo. Lasciata la Germania in seguito all'ascesa di Hitler al potere, dopo aver soggiornato in varie città europee, si stabilisce nel 1938 negli Stati Uniti. Davanti alle drammatiche vicende dell'epoca staliniana e ai processi di Mosca egli arriva a giustificare la politica di Stalin ascriven dola alla durezza dei tempi e alla necessità di difendere la costruzione del socialismo in Urss. Tornato nel 1949 in Europa, sceglie di stabilirsi nella Repubblica democratica tedesca, dove è accolto calorosamente, e viene chiamato a dirigere l'Istituto di filosofia dell'Università di Lipsia. Dopo i moti operai di Berlino del 1953, segnale di una crescente insofferenza popolare nei confronti del regime di Ulbricht, e nonostante il sia pur timido avvio alla destalinizzazione seguito al XX Congresso del Pcus (salutato da Bloch con grande favore), il governo della Ddr accentua la politica di repressione anche delle forme di dissenso intellettuale, prendendo di mira proprio le attività didattiche e di ricerca di Bloch, che avevano fatto del suo Istituto un laboratorio di sperimentazione filosofica marxista assai eterodosso. Dopo l'arresto di alcuni suoi discepoli, lo stesso Bloch viene allontanato nel 1957 dall'insegnamento.

Anche i libri da lui nel frattempo pubblicati mettono in moto i meccanismi della repressione: nel 1949 era apparso Soggetto-Oggetto. Commento a Hegel, mentre nel 1954-55 venivano editi i primi due volumi del suo capolavoro, Il principio speranza, di cui il terzo e ultimo volume sarebbe stato ultimato nel 1959. Nel 1961, al momento della erezione del muro di Berlino, Bloch si trova nella Germania occidentale e decide di chiedere asilo politico. Ciò non significa in alcun modo l'abbandono delle idee comuniste, quanto piuttosto un atto di accusa contro il "socialismo reale" in difesa di un socialismo autenticamente umano. In quello stesso anno Bloch inizia a insegnare all'Università di Tubinga dove rimane fino al 1977, anno della sua morte, quando gli studenti, contro il parere delle autorità accademiche, la ribattezzeranno "Ernst-Bloch-Universität". A quest'ultimo periodo appartengono scritti come Questioni fondamentali di filosofia. Id ontologia del non-essere-ancora (1961), Ateismo nel cristianesimo. Per la religione dell'Esodo e del Regno (1968), Experimentum mundi (1975).

b) Utopia concreta e marxismo

Bloch traccia i lineamenti essenziali del proprio pensiero filosofico già nel suo pri mo scritto, Spirito dell'utopia, composto nel 1918 in Svizzera dove si era rifugiato per le sue idee pacifiste, mentre già nella seconda edizione del libro, risalente al 1923, diventa esplicita l'intonazione marxista che lo aveva ispirato fin dall'inizio. Acuto e raffinato osservatore della situazione spirituale dell'Europa di quegli anni, Bloch tematizza il sentimento, allora così diffuso, della negatività del presente e dell'assenza di ogni prospettiva e speranza. Ma piuttosto che volgere questa consa pevolezza in direzione del nichilismo, che di lì a poco troverà nell'essere-per-la- morte heideggeriano la sua desolata enunciazione, egli, in nome di un marxismo rivissuto nella sua istanza utopica di fondo e sotto la sollecitazione delle avanguardie artistiche, scorge sì, nella crisi del presente, l'agonia di un mondo decrepito, ma anche il presagio della novità imminente, riconoscendo nel futuro la vera dimensione ontologica dell'uomo. In questo scritto troviamo già al centro del pensiero blochiano quell'ontologia del non-essere-ancora che rappresenterà il leitmotiv dell'intera sua meditazione, in radicale alternativa a ogni ontologia del "già-divenuto".

Mentre nell'edizione del 1918 è il dover-essere kantiano a costituire l'orizzonte categoriale di un simile discorso, nel rifacimento del 1923 emerge la riscoperta del la dialettica di Hegel, interpretata quale condizione fondamentale di una prospettiva utopica. Essa, infatti, dal profondo stesso del negativo, fa scaturire la vittoriosa affermazione di una nuova vita.

L'utopia biochiana non ha nulla a che fare con quella dimensione dell'"utopistico" che opportunamente Marx ed Engels avevano fatto oggetto della loro critica irridente. Utopistico è l'irrealizzabile, il sogno campato in aria, mancante di connessione con la situazione presente; l'utopico, viceversa, è definito dal marxismo stesso come "possibilità", sì radicalmente alternativa, ma che matura nel cuore stesso del reale, fondata su condizioni oggettive, tale da configurarsi come un'utopia concreta, idonea a chiudere la forbice che ha sempre divaricato in passato utopismo e realismo.

Il marxismo di Bloch appare inconfondibile con i marxismi ortodossi che si sono succeduti dall'età del positivismo fino al marxismo-leninismo sovietico. Questi hanno tenuto conto solo della "corrente fredda" del marxismo, ossia del suo proporsi come analisi scientifica della realtà, delle condizioni oggettive del movimento delle cose, delle forze economiche che agiscono nella storia, a scapito della "corrente calda", ossia della tensione utopica e del primato della praxis e dell'uomo che fanno del marxismo una teoria autenticamente rivoluzionaria. Quest'operazione riduttiva sarebbe stata favorita in qualche modo, e certo involontariamente, dallo stesso Marx, il quale, per dover contrastare l'astratto utopismo, aveva impegnato buona parte della sua opera scritta nell'analisi critica della situazione presente, e, in proporzione, riservato uno scarso spazio a indicazioni relative al futuro. Ne è conseguito che economicismo, determinismo meccanicistico, materialismo volgare hanno ridotto lo spessore della lezione di Marx, immiserendola ora nel dogmatismo delle formule del Diamat, ora nel miope empirismo riformistico di chi pensa soltanto a imbellettare il volto osceno della vecchia società.

La proposta biochiana è quella di restituire al marxismo, contro ogni forma di scientismo, la sua consistenza filosofica e ontologica, affidando alla "corrente fredda" il compito di «mettere sui piedi» il «rosso e caldo» annuncio profetico dell'^o- mo novus. Di qui la valorizzazione delle Tesi su Feuerbach, e in particolare della celebre undicesima Tesi che Bloch interpreta non già come rifiuto pragmatistico della filosofia, bensì come rivendicazione di una filosofia che, in forza della sintesi di teoria e praxis, non si limiti a interpretare il mondo, soggiacendo in tal modo al «già-stato», ma ne promuova, al contrario, la trasformazione attraverso l'annuncio di un «non-ancora-awenuto».

c) La malìa dell'anamnesi: Hegel

A Hegel Bloch dedica nel 1949, proprio all'inizio del suo insegnamento a Lipsia, un interessante volume, Soggetto-Oggetto, nel quale, come già Lukâcs nel 1923, rivendica le radici hegeliane di Marx. A differenza, però, del vecchio amico, che in seguito concentrerà la sua attenzione esclusivamente sul giovane Hegel, attento a salvaguardarne l'identità razionale contro i tentativi di piegarlo a significati mistici ed esistenzialistici, egli estende il suo interesse a tutta la produzione hegeliana, anche a quella della maturità, della Logica e della Filosofia della storia, perfino disponibile - cosa insolita per un marxista e comunista - ad ascoltare le voci di Kierkegaard e Schelling, quando queste risuonano a difesa degli orizzonti aperti del futuro e del nuovo.

Contrariamente alla vecchia distinzione engelsiana, divenuta catechismo nel Diamat, tra il metodo dialettico di Hegel, che rappresenterebbe l'aspetto rivolu zionario del suo pensiero, e il sistema hegeliano, conservatore e reazionario, Bloch sostiene che sia la componente progressista sia quella conservatrice segnerebbero, entrambe e in egual misura, tanto il metodo quanto il sistema hegeliano. La prima è riconoscibile nella frequente indicazione hegeliana di una dialettica non riducibile a mero gioco di concetti riproducentisi per partenogenesi, ma avente a che fare con forze e bisogni reali, staremmo per dire "materiali", da cui prende origine la sua "tendenza esplosiva", e nella ripetuta apertura del sistema alla pressione della realtà sempre nuova e cangiante. La seconda, quella conservatrice, risiede invece nell'interpretazione, avanzata da Bloch, del sistema hegeliano come esposizione totalizzata di una realtà una volta per tutte compiuta e realizzata, senza più futuro, con la conseguente riduzione anche della dialettica al ripetersi, in un circolo chiuso di tesi, antitesi e sintesi, di un identico Logos, costituito fin dall'inizio come l'in-sé del mondo.

Non vi è dubbio che Bloch riconosce quest'ultima ispirazione come dominante nel pensiero hegeliano, frutto della malìa dell'anamnesi che da sempre ha sedotto la metafisica occidentale: da quando Platone teorizzava il sapere come risalita alle origini, rammemoramento di un'Idea premondana, mentre lo stesso Aristotele, il filosofo del dispiegarsi della potenza nell'atto, definiva la sostanza come «ciò che l'essere era». In ogni caso, la realtà era nel passato, tutta data e immobile, e il compito degli uomini restava quello, retrospettivo, di registrarla. Allo stesso modo, in Hegel

il divenire non è [...] nient'altro che lo sviluppo pedagogico di un teorema bell'e fat to, sulla lavagna del soggetto apprendente [...]; sicché, in fondo, nulla di nuovo accade sotto il sole, sotto il sole immobile dello spirito del mondo che si ripete eternamente nella parola originaria e nell'arche.

È il carattere anamnestico a prevalere nell'idealismo hegeliano, sicché non basta, per aprire una prospettiva teorica rivoluzionaria, capovolgere quell'idealismo in materialismo, secondo quanto ha insegnato la tradizione marxistica. Occorre, invece, dar forma a un materialismo veramente dialettico, che riapra alla praxis umana quella dimensione del "possibile", e quindi del futuro, che Kierkegaard aveva ragione a riabilitare contro il necessitarismo hegeliano. Solo così potranno proporsi come realistiche l'utopia e la speranza nel comunismo.

d) Il principio speranza: la coscienza anticipante

È nel capolavoro blochiano che quella speranza viene tematizzata. Urge innanzi tutto chiarire che qual è proposta nel Principio speranza non si configura come un'esperienza puramente psicologica e soggettiva. Di essa, anzi, Bloch cerca il fondamento oggettivo nella stessa struttura dell'universo, nel cuore della materia, dando forma così a una cosmologia, a una filosofia della natura, affatto dissimile da quella consacrata in campo marxista da Engels.

In primo luogo Bloch mette in evidenza il carattere strutturalmente umano della speranza. Già negli scritti giovanili aveva parlato della «stolta tristezza degli animali» che sono «creature senza prospettiva», abbandonate a un'«istantaneità sen za luce»; solo degli uomini è invece il protendersi verso il futuro, irrequieti, l'«ol- trepassare», il «trascendersi», come vedremo, «senza trascendenza». L'essere umano è incompiuto, segnato dal vuoto della privazione e della mancanza; il che ha dato modo all'esistenzialismo, la filosofia che racconta l'agonia del mondo borghese, di presentare l'angoscia e la disperazione come stati ontologici, rivelatori del nulla che sarebbe costitutivo dell'esistenza. Una vera e propria mistificazione ideologica:

L'interesse borghese [...] fa sembrare fondamentale, ontologica, la propria agonia. L'assenza di prospettive dell'esistenza borghese viene dilatata ad assenza di prospettive della situazione umana in generale, dell'essere puro e semplice.

Quando, invece, del sentimento dell'umana incompiutezza si rispetti la spontaneità e la schiettezza, non deviata da ideologie nichilistiche interessate, è la speranza a emergere come «la più umana di tutte le emozioni», quella che rivela lo statuto ontologico dell'uomo, tanto che «la mancanza di speranza appare [...] la cosa più insostenibile, la più insopportabile per i bisogni umani». Per questo «da tutti i pulpi ti si continua a predicare la speranza, ma accuratamente rinchiusa nella pura interiorità o legata consolatoriamente all'aldilà».

Il principio speranza è in gran parte una sorta di fenomenologia che descrive le diverse forme ed esperienze della coscienza anticipante, come Bloch chiama la coscienza dell'uomo in quanto sospinta, dal desiderio e dalla speranza, ad anticipare il futuro. Si passano in rassegna il sogno notturno, i sogni a occhi aperti, gli archetipi della coscienza, le fiabe, il cinema, il teatro, i romanzi d'appendice, la moda, i viaggi, le utopie di varia natura che parlano di un mondo migliore e così via. Avventure e strati della coscienza che ne rivelano, scopertamente o meno, in modo talvolta illusorio e mistificato, la struttura ontologica fondamentalmente utopica.

La riflessione sui sogni consente a Bloch di affrontare l'esame della dimensione dell'inconscio, che molta importanza riveste per chi, come lui, è interessato a far emergere la componente utopica della vita della coscienza. Il confronto con Freud è, ovviamente, d'obbligo: al padre della psicoanalisi Bloch non rimprovera di aver messo in evidenza il carattere regressivo dei sogni, nei quali, in effetti, emergono, in forma camuffata, contenuti rimossi che si riferiscono al già-stato. L'errore, conseguenza di un'antropologia di tipo "anamnestico", si nasconde nell'identificare senz'altro l'inconscio con la vita regressiva della psiche, sicché «nell'inconscio di Freud non c'è nulla di nuovo».

Per ovviare a questo errore e mettere allo scoperto strati inconsci che, invece, denunciano atteggiamenti "anticipanti" della coscienza, Bloch procede a distinguere qualitativamente dal sogno notturno il «sogno a occhi aperti», che Freud avrebbe avuto il torto di intendere come semplice momento preliminare del primo. E invece, l'atteggiamento dell'Io è profondamente diverso dall'uno all'altro: mentre nel sogno notturno l'Io rimane passivo, premuto dal riemergere del già-stato, nel sogno diurno, invece, con grande forza immaginativa, l'Io esprime contenuti latenti della coscienza che, differentemente da quelli «non-più-consci» studiati da Freud, costituiscono invece il «non-ancora-conscio» e, come tali, si riferiscono al «non-an- cora-awenuto», anticipandolo. Il sogno a occhi aperti ha, insomma, a che fare con la dimensione dell'utopico: «esso è l'immagine guida di ciò che un uomo vorrebbe utopicamente essere e divenire». Ciò si dimostra soprattutto in quegli stadi della vita (la gioventù) e della storia (i tempi delle rivoluzioni e dei grandi fermenti so ciali), nei quali più forte e consapevole è la tensione verso il "nuovo".

Ancora più critico è l'esame blochiano della teoria dell'inconscio collettivo e de gli archetipi di Jung, nella quale emerge, e anzi viene estremizzata, l'attitudine anamnestica del pensiero psicoanalitico. Gli archetipi, infatti, vengono collocati dallo psicologo svizzero nella notte arcaica della psiche, nella «santa oscura notte primigenia»,117 cui viene proposto agli uomini di restituirsi, onde recuperare l'originario pensiero istintivo».118 Differentemente dagli archetipi che, non necessariamente collegati con gli antichi miti, vengono prodotti di continuo nella storia dalla coscienza utopica. Tra di essi, la danza sulle macerie della Bastiglia, musicata da Beethoven nella sua settima sinfonia. Le fiabe poi, prodotto della fantasia popolare, sono l'espressione più eloquentemente utopica delle millenarie aspirazioni degli oppressi: la liberazione dal lavoro e dalla fatica, la fuoriuscita dalla miseria, la felicità, la giustizia, l'abbondanza. Questo il significato latente di archetipi come il paese di Cuccagna, la lampada di Aladino, il giovane povero che sposa la figlia del re: in essi traspare il significato universale della vita degli uomini, stretti nelle angustie del presente e ansiosi di un mondo nuovo e migliore.

e) Le radici materiali della speranza. Il tempo multiversum

La speranza e la tensione utopica che la sostiene non traggono la loro legittimità e la loro forza dall'essere semplicemente passioni e strutture psicologiche dell'uomo. Esse affondano le radici nella storia stessa dell'universo materiale, senza il quale non sarebbero possibili, o quantomeno sarebbero condannate a rivelarsi inutili e velleitari conati, espressioni di un'astratta soggettività. Che esse siano radicate nella materia è, del resto, documentato dal fatto che il potere anticipante della coscienza non è, come vorrebbero le filosofie idealistiche, intenzionalità puramente ideale, bensì movimento suscitato da bisogni concreti, da desideri che urgono e che hanno fondamento nel "corpo vivente" dell'uomo, non estrapolabile dal mondo materiale di cui è pienamente parte. Non basta: la speranza sarebbe di nuovo illusoria e l'utopia perderebbe concretezza, confondendosi con l'utopistico, se il mondo materiale fosse un tutto organicamente perfetto in cui nulla avesse da compiersi, un cosmo esaurito e concluso; cosiffatto, esso non lascerebbe posto al futuro, e dunque alla speranza.

Bloch rifiuta non solo l'immagine dell'universo meccanico elaborata lungo i secoli che vanno dal Seicento cartesiano all'Ottocento positivistico, ma anche la filosofia engelsiana della natura egualmente compromessa in una concezione fissa e deterministica della realtà. Ciò che Bloch dice dell'uomo («l'uomo è ciò che ha ancora molte cose davanti a sé»),119 egli lo potrebbe ripetere anche della natura, che ritiene percorsa da un impulso originario, una sorta di "fame" di essere che la mantiene sempre incompiuta, protesa al nuovo e al futuro di un non-essere-ancora.

Un simile punto di vista richiede l'acquisizione, contro ogni determinismo, della categoria di possibilità. Occorre recuperare l'antico concetto aristotelico di materia come dynamis, potenza che aspira all'attualità della forma, con un'innovazione, peraltro, non marginale: Aristotele intendeva la materia-potenza ancora come passiva, come il "basso" che attende una forma che penetra in essa dall'"alto", e così lasciava aperta la strada all'ammissione di un principio divino trascendente, pienamente realizzato, datore di forme alla materia; occorre invece concepire la materia come attività che si dà da se stessa le forme, traendole da sé, e per questo bisogna riprendere quel filone di pensiero di ispirazione panteistica - Bloch in un saggio del 1952 (.Avicenna e la sinistra aristotelica) lo definisce «aristotelismo di sinistra» - che da Avicenna discende, attraverso Averroè, Davide di Dinant, Böhme, fino a Bruno, Spinoza e Schelling.

E' questo un interessante tentativo, per la prima volta condotto, diciamo così, da "sinistra" in funzione di una prospettiva rivoluzionaria, di riabilitare una tradizione di pensiero che, per essere in conflitto con l'immagine della natura prodotta dalla scienza moderna, è stata sempre considerata irrazionale, anacronistica e, in questo senso, "reazionaria" dalla cultura progressista di provenienza illuministica. Al fondo di questa operazione biochiana vive la convinzione che il modello di una natura "disantropomorfizzata", ridotta a macchina, offerto dalla meccanica moderna, sia come il segno dell'affermarsi del dominio borghese e di un suo potere arbitrario di manipolazione della materia inerte del mondo, cui si debba contrapporre un modo alternativo d'intendere il rapporto uomo-natura in vista di una loro riconciliazione e armonia, secondo l'insegnamento marxiano di un'"umanizzazione", sì, della natura, ma anche di una "naturalizzazione" dell'uomo. Una natura finalmente promossa a feconda collaborazione con l'uomo, non più "colonizzata" e misurata alla stregua di un valore di scambio.

Questa resurrezione della natura ha a che fare con il realizzarsi dell'«utopia concreta». In un'inedita commistione di Schelling con Marx, Bloch afferma che nel profondo di quel "laboratorio" che è la materia in via di formazione (la «materia in fermento») dorme il «volto dell'uomo», essendo scritta nella storia della natura la possibilità - ma solo la possibilità - che esso abbia a sorgere e compiersi:

"Risurrezione della natura" significa accelerare il sorgere del sole, predisporre il cam mino entro il processo del mondo, entro l'ancor sempre presente possibilità, entro la categoria della possibilitas e l'altra categoria della potentia dell'uomo, cioè del potere di trasformare il mondo in senso marxiano e in un senso che va ben al di là di Marx, ovvero di estrarre dal mondo il volto dell'uomo che in esso dorme e che vi ha una così difficile esistenza.

Non esiste una necessità inscritta nel corso del mondo, e nemmeno una provvidenza celeste che di questo corso predisponga il buon esito; esso sta soltanto nelle mani degli uomini, rischiosamente. L'umanesimo di Bloch nulla concede all'ideologia delle «mirabili sorti e progressive»; è lui ad affermare che «il fallimento e l'an- nichilamento sono [...] il costante pericolo di ogni esperimento processuale, la costante bara accanto a ogni speranza».

Se di ottimismo conviene parlare, esso si nutre non della certezza degli esiti ma soltanto del fervore della speranza. In un saggio sulla figura di Thomas Müntzer (1921), così il filosofo dell'utopia scrive, con accento drammatico, del faticoso procedere della storia:

[...] un viaggio duro e rischioso, un soffrire, un peregrinare, un errare, un cercare la propria dimora nascosta; piena di tragici rovesciamenti, ribollente, solcata da crepe, da esplosioni, da solitarie promesse, carica di discontinuità nella coscienza della luce.

Naturalmente, non siamo al rifiuto dell'idea di progresso storico, senza la quale la storia non avrebbe più senso della risacca del mare. Il rifiuto riguarda quell'idea rettilinea e uniforme di progresso che era stata la bandiera del pensiero borghese illuminato, ma anche del marxismo deterministico, secondo cui la storia procederebbe de claritate in claritatem. Se Bloch concorda con Hegel nel rifiutare il falso infinito di un movimento senza fine, e ammette un éschaton della storia che marxi- sticamente riconosce nella disalienazione dell'uomo e nel suo pacificarsi con se stesso, con gli altri e con la natura, egli sostiene anche, però, che il procedere avan ti della storia non avviene senza continui ritorni indietro, senza che sentieri aperti a fatica vengano interrotti e abbandonati, per essere magari ripercorsi più tardi per un tratto ulteriore. Insomma, il tempo storico non è, ai suoi occhi, la «fila indiana del prima e del poi»,123 come il tempo cronologico: il futuro è anche nel passato; questo non sempre è irrimediabilmente perduto, può tornare. I vinti di ieri, risorgendo, possono diventare i vittoriosi di domani.

C'è un'antica canzone che mi ritorna ancora sempre in mente [...], che io ho ripetuto nel mio modo di filosofare. L'antica canzone che i contadini tedeschi battuti cantavano dopo la battaglia di Frankenhausen, quando la miseria antica ricadde su di loro moltiplicata. Quelli che ancora sopravvivevano, i cui occhi non erano stati ancora cavati e le cui lingue non erano state ancora strappate, cantavano questa canzone: «Battuti ritorniamo a casa. I nostri nipoti condurranno a miglior fine la lotta».

Bloch viene maturando così l'idea del tempo storico multiversum\ nel medesimo tempo cronologico coesistono e si intersecano tempi storici diversi qualitativamen te tra loro, quello delle periferie del mondo sfasato rispetto a quello delle metropoli, come quello di un paese, di un popolo, di una civiltà, rispetto a quelli di altri paesi e popoli e civiltà. Se uno solo è il termine della storia, Xhumanum, diverse, eppure di pari dignità, sono le culture, le esperienze dislocate nei tempi e negli spazi diversi della storia mondiale. Così argomenta Bloch:

per essere giusti verso il gigantesco materiale extraeuropeo, non si può più lavorare secondo una linea retta [...] senza una nuova e complessa molteplicità del tempo [...] Le vive culture extraeuropee possono essere rappresentate, secondo un concetto sto rico-filosofico, senza violenza europeizzante o anche soltanto senza quel tentativo di livellamento di quanto hanno prodotto per la ricchezza della natura umana. [...] per quell'humanum in divenire, ultimo, preminente punto d'arrivo del progresso, tutte quante le culture della terra, insieme al loro sostrato ereditario, sono esperimenti e testimonianze variamente importanti. Esse non convergono perciò in una cultura già presente in qualche luogo, sia pure una cultura "dominante", preminentemente "classica", che per la sua qualità [...] sarebbe già "canonica". Le passate, presenti e future civiltà convergono unicamente in un humanum non ancora sufficientemente manifesto, ma sufficientemente prevedibile.

Uno degli studiosi più attenti e acuti del pensiero blochiano, Remo Bodei, ha saputo, come non altri, richiamare l'attenzione degli studiosi su questo modo, così originale, di pensare gli squilibri e la pluralità dei tempi, il carattere poliritmico del progresso, vaccino contro ogni boria eurocentrica e ogni razzismo.

f) Marxismo e cristianesimo

Uno dei caratteri più significativi del materialismo blochiano è costituito dal rifiuto delle semplificazioni economicistiche della lezione di Marx, così diffuse nel marxismo volgare, ma anche così condizionate dalla mentalità capitalistica, cui si deve l'ideologia dell 'homo oeconomicus. Bloch non dimentica neppure per un momento che Marx concepiva il comunismo come fine dell'economia politica. Del resto, a preservare il suo pensiero da ogni rischio di riduzionismo economicistico, interviene il suo modo di intendere i bisogni e i desideri dell'uomo, compresi quelli "spiri tuali", che egli radica nella materialità del corpo vivente, riconoscendoli quali espressioni di una fame che tormenta la materia universale. Non di solo pane, infatti, è la fame degli uomini. Parafrasando una nota espressione di Leibniz, Bloch afferma che «niente è nella sovrastruttura che non sia già stato prima nella struttura, se non la sovrastruttura stessa», volendo con questo dire che «l'uomo e non l'economia, come è accaduto finora, deve essere la misura di tutte le cose»; inoltre, se è vero, come è vero, che l'essere sociale condiziona la coscienza, e sono le circo stanze che formano l'uomo, allora queste circostanze devono portare il segno dell'uomo.

L'antieconomicismo conduce il filosofo dell'utopia e della speranza a fare spazio considerevole, pur nel suo rigoroso, intransigente ateismo, alla religione. Egli ritiene che proprio nella religione, o più esattamente nella religione ebraico-cristiana, e proprio nel suo filone più sotterraneo e nascosto, sia presente la più sconvolgente ribellione umana contro il Dio creatore e padrone del mondo. Nel libro, provocatoriamente intitolato Ateismo nel cristianesimo, Bloch afferma che «solo un ateo può essere un buon cristiano, e solo un cristiano può essere un buon ateo».Dobbiamo cercare di capire il senso di questa duplice provocazione.

Si capisce intanto che Bloch è avverso a quelle forme di ateismo "triviale", eredi di un Illuminismo resosi fisso e statico, che tutto ha creduto di aver detto per aver affermato «che Dio non esiste o che è un'astuta trovata dei preti».128 Con il che, al l'opportuna demistificazione della trascendenza teologica si accompagna la negazione anche di quel «fondato trascendere» - fondato sull'uomo e sul contenuto del mondo - che è appunto costitutivo della tensione utopica dell'essere umano. Se della religione va rifiutata l'ammissione di un Dio creatore e padrone del mondo, poiché da essa discende la giustificazione dell'ordine attuale delle cose e la delegit timazione di ogni ribellione nei confronti dell'esistente e di ogni apertura al nuovo, di essa va conservato, invece, quel formidabile semenzaio di speranze in un mondo migliore e di protesta di fronte alle ingiustizie del mondo, che con la religione è stato coltivato dagli uomini e che è venuto fruttificando lungo il corso della storia. Questo a dispetto dei tentativi spesso riusciti dei preti, di disinnescare la protesta, volgendo le umane speranze verso una consolatoria mèta oltremondana. La religione va insomma negata ma anche "ereditata", per quel che di eretico e antipretesco gli uomini hanno saputo esprimere attraverso di essa: «l'ateismo e la concreta utopia sono insieme, nello stesso atto fondamentale, l'annientamento della religione e la sua speranza eretica che cammina su piedi umani».

Su questo terreno Bloch ritiene di essere perfettamente in linea con la lezione marxiana. E vero, infatti, che Marx ha parlato, giustamente, della religione come «oppio dei popoli», ma questa frase non va separata, come fanno i marxisti volgari, dal suo contesto, là dove si dice che «la miseria religiosa è insieme l'espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale», e che «la religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore». Un modo efficace per dire quanto nella religione si esprime di quella "fame" che sprona l'uomo al futuro.

Ciò vale soprattutto per la religione biblica, a cui si appassiona la riflessione bio chiana: solo in essa, in quanto religione dell'Esodo e del Regno, sembra esprimersi appieno la portata totalizzante della speranza utopica. Profondo conoscitore del testo biblico, Bloch distingue dalla Bibbia di ispirazione teocratica, redatta dai «si gnori della gerarchia ecclesiastica» e nella quale l'uomo viene rappresentato come un mendicante «steso bocconi ai piedi di uno strapotente che è tanto più trascendente in quanto è solo a regnare», la «Bibbia dei poveri», quella dei profeti Amos e Isaia, che «si scaglia contro i signori con il loro Dio sacerdotale», e fa appello alla rivolta. È la Bibbia che ha ispirato le grandi eresie popolari e le guerre dei contadini italiani, inglesi, francesi e tedeschi, fino all'insurrezione delle Cévennes, «appena novant'anni prima della Rivoluzione francese»; la Bibbia di Thomas Müntzer, l'anti-Lutero, il leader religioso e militare della rivolta dei contadini tedeschi del 1525.

Con grande maestria Bloch dipana il "filo rosso" che corre attraverso il Libro sacro, da Giacobbe a Mosè, da Giobbe ai profeti, fino al Gesù della resurrezione, e che racconta del maturare della prospettiva escatologica di una liberazione, tutta umana e mondana, degli "ultimi", i diseredati e gli oppressi, dal dominio dei troni terrestri e da quella loro immagine speculare che è il trono celeste, nella prospettiva della profezia di Isaia che scongiurava «un nuovo cielo, una nuova terra, affinché non ci si ricordi più della precedente».133 A un capo di quel filo sta l'episodio del serpente, il «Prometeo della Bibbia» lo chiama Bloch, con il suo grido ribelle - eritis sicut Deus, scientes bonum et malum - che invita gli uomini a uscire dal «parco degli animali» (come Hegel definisce il paradiso terrestre), onde intraprendere il lungo viaggio della storia che porti verso la realizzazione àeWhomo absconditus che ognuno porta dentro di sé, in potenza. All'altro capo, Gesù, nel quale si celebra il farsi dio del figlio dell'uomo, e dunque la realizzazione della «promessa del serpente», e non già il farsi uomo di Dio. In contrapposizione al Gesù di Paolo, Lutero e Calvino, nonché della Chiesa di Roma, che chiama gli uomini alla penitenza della croce, all'umiltà, alla genuflessione davanti al signore celeste e ai suoi rappresentanti in terra, non importa se prìncipi o prelati, contro quella forma di mendicanza che è la preghiera, Bloch propone il suo Gesù, il Gesù che non fa della croce la sua scelta, il Gesù, invece, della resurrezione, simbolo dell'éschaton, dell'avvento dell'uomo nuovo. E così che «lo sguardo verso l'avanti ha sostituito lo sguardo verso l'alto».

«Tutta l'eredità sovversiva e non statica di cui è permeata l'intera Bibbia e che per troppo tempo è stata nascosta», è stata raccolta dal marxismo. Solo un ateo, appunto, può essere un buon cristiano: il marxismo può dare piena voce a quel «trascendere senza trascendenza» che nella Bibbia viene spesso soffocato sotto una copertura teocratica. D'altronde, solo un cristiano può essere un buon ateo: è, infatti, la Bibbia che, a sua volta, «riesce a evitare che il sale ateo diventi sciocco»,136fornendo al marxismo quel plus di desiderio utopico, il quale, pur implicito in esso, corre sempre il rischio di andare smarrito nelle piatte volgarità dell'economi cismo e del materialismo meccanicistico.

A Bloch è del tutto estranea l'intenzione di proporre un dialogo a distanza tra marxismo e cristianesimo, e tanto meno un diplomatico compromesso; egli vuole, piuttosto, un'integrazione reciproca, un'alleanza nel lungo processo di liberazione degli uomini:

Se si pensa ancora cristianamente all'emancipazione degli sfruttati e degli oppressi, se marxianamente la profondità del regno della libertà permane, e diventa reale il contenuto sostanzializzante della coscienza rivoluzionaria, allora l'alleanza tra rivoluzione e cristianesimo nelle guerre dei contadini non sarà stata l'ultima; e questa volta avrà successo.

6. Mao Tse-tung: Marx in un mondo di contadini

L'opera e il pensiero di Mao Tse-tung rappresentano un aspetto fondamentale della seconda trasformazione rivoluzionaria compiuta durante il XX secolo nel nome di Marx e di Engels, dopo quella leninista del 1917. Ma non solo: l'esperienza teo- rico-pratica del "maoismo" ha avuto (soprattutto nel periodo compreso tra la rottura, nel 1959-61, della Cina comunista con l'Urss e con il modello sovietico di co struzione del socialismo e la morte di Mao nel 1976) una vasta e suggestiva eco anche in Occidente, in particolare in certi settori dei movimenti studenteschi e in frange dissidenti dei partiti comunisti, oltre che aver rappresentato un punto di ri ferimento per il dibattito interno al pensiero marxista nei paesi occidentali.

Dopo la fondazione del Partito comunista cinese (1921) cui partecipa attivamente, Mao condivide per alcuni anni l'idea genuinamente marxista della classe operaia urbana come protagonista della rivoluzione socialista. In seguito alla dissoluzione del partito (1927), presente soprattutto nelle grandi città come Shanghai e Canton, e alla feroce repressione decisa da Chiang Kai-shek, leader del Kuomintang (il Partito nazionalista cinese del quale fino allora i comunisti erano stati alleati), egli si convince che la rivoluzione in Cina non può che caratterizzarsi come essenzialmente contadina, ed essere condotta per "accerchiamento" delle città da parte delle campagne, trasformate in centri dell'azione rivoluzionaria. Coerentemente a questa sua nuova impostazione, Mao promuove fin dal 1929 la creazione, nelle province rurali, di "basi rosse", fornite di proprie forze militari, vere e proprie cellule di uno Stato comunista in via di formazione dal basso. Sarà l'epopea della "lunga marcia" del 1934, con la quale, per sfuggire alla morsa delle truppe di Chiang, egli trasferisce l'esercito rosso dalla Cina centrale alle regioni nord-occidentali del continente, fissando a Yenan la capitale della Cina comunista, a fare di Mao il capo indiscusso del Partito comunista cinese. L'aggressione nipponica (1937) indurrà poi la Cina di Chiang e quella di Mao a stringere un'alleanza contro l'invasore (versione cinese della politica dei "fronti popolari"), che si protrae per tutti gli anni della seconda guerra mondiale. A guerra conclusa, si riaccende la guerra civile che si conclude nel 1949 con la vittoria di Mao e l'unificazione dell'intero territorio continentale della Cina sotto il regime comunista.

Tre sono gli scritti che rappresentano il contributo di Mao allo sviluppo teorico del marxismo, Sulla pratica, Sulla contraddizione (1937), e Sulle contraddizioni in seno al popolo (1957). Pur non aggiungendo molto alle dottrine del materialismo dialettico di Marx, Engels e Lenin, essi si valgono dell'apporto teorico-spirituale della grande tradizione confuciana e sono, comunque, il segno di una riflessione sostanzialmente autonoma dalle dottrine dello stalinismo.

Avverso a ogni irrigidimento dogmatico delle dottrine marxiste, Mao fa sistematicamente appello agli insegnamenti della praxis, e afferma che, non solo sul terreno delle decisioni politiche, ma anche nell'affrontare i problemi teorici, occorre partire sempre dalla pratica: «la conoscenza comincia con la pratica, raggiunge attraverso la pratica il piano teorico e deve poi tornare alla pratica»,73 sia per trovarvi conferma, sia per guidare l'azione alla trasformazione rivoluzionaria del mondo. Quanto alle contraddizioni che, come ha insegnato Hegel, sono intrinseche alla natura delle cose, Mao rifiuta di imprigionarle in schemi generali e astratti, in nome della necessaria aderenza alla concretezza del reale, insistendo nel sottolinearne la determinatezza e la sempre nuova diversità lungo lo scorrere dell'esperienza. Ma quello che sembra più interessante della riflessione di Mao sta nel ritenere che la contraddizione, ogni volta che sia stata risolta con la soppressione di uno dei due opposti, sia destinata a ripresentarsi nella nuova situazione raggiunta; il che fa apparire il pensiero di Mao non esente dall'influenza dell'idea taoista dell'universalità del divenire, e, con riferimento al dibattito svoltosi durante gli anni venti all'interno del Pcus, non poi così lontana dalla tesi di Trockij sulla "rivoluzione permanente". Ma è, in particolare, il saggio del 1957, prodotto nel clima di timida destalinizzazione instaurato dal XX Congresso del Pcus, a portare a maturazione il tema della contraddizione in tutte le sue potenzialità antistaliniste, nonostante Mao si astenga dal criticare esplicitamente Stalin e neppure aderisca, come capo della Cina comunista, al pur incerto e contraddittorio processo di "destalinizzazione" avviato in quegli anni nei paesi dell'Est europeo.

In base alla distinzione tra contraddizioni principali e antagonistiche, quali quelle che intercorrono tra i nemici di classe, e contraddizioni secondarie e non antagonistiche, che sono quelle che maturano nel partito rivoluzionario tra le diverse "linee" emergenti, e che si svolgono dunque all'interno del popolo, Mao sostiene che que st'ultime - destinate, qualora dovessero cristallizzarsi, a divenire a loro volta antagonistiche - non possono non svilupparsi lungo il corso della costruzione della società socialista. Qualora il partito rivoluzionario, invece di consentirne lo svolgimento dialettico, pretendesse di soffocarle, si trasformerebbe in un organismo burocratico, autoritario, separato dal popolo. Coerente con questa elaborazione teorica è la co siddetta "politica dei cento fiori", avviata da Mao nel 1956 (ma già sul finire del 1957 destinata a subire un ridimensionamento in senso illiberale), con la quale viene incoraggiata la fioritura di libere discussioni nel campo dell'arte e della scienza.

Il contributo più originale di Mao all'elaborazione teorica del marxismo va ricer cato, più ancora che negli scritti teorici di cui si è detto, nell'opera da lui svolta lungo i decenni postrivoluzionari, quando si trattò di affrontare i problemi della costruzione del socialismo in un paese arretrato e sostanzialmente contadino - due condizioni, si sa, non previste dall'originario impianto teorico marxiano. E fu soprattutto negli anni della cosiddetta "rivoluzione culturale", avviata da Mao nel 1965 e destinata a svilupparsi per circa un quinquennio, che arrivò a maturazione quell'insieme di strategie e teorie rivoluzionarie che va sotto il nome di "maoismo". Erano quelli gli anni successivi alla rottura della Cina con l'Urss, allorché si trattò di portare a compimento il rifiuto del modello sovietico di costruzione del socialismo, la cui messa in discussione era già iniziata con la scelta delle "comuni agricole" e il cosiddetto "grande balzo in avanti" del 1958.

Certamente, la rivoluzione culturale ebbe inizialmente, per la grande mobilitazione di energie anche morali che riuscì a mettere in campo, un significato alternativo rispetto ai metodi staliniani di lotta contro gli avversari politici, fondati sulla repressione poliziesca e sui processi di Stato. Non mancarono però nel suo svolgimento successivo fenomeni degenerativi e diffusi di violenza e di sopraffazione, che ne offuscarono e finirono con il capovolgerne il significato originariamente positivo.

Le principali tematiche teorico-pratiche approfondite da Mao in questa fase della sua vita di dirigente politico, relative tutte ai problemi della costruzione in Cina di una società socialista diversa da quella suggerita dal modello sovietico, sono le seguenti:

a) Innanzitutto, il tormentato problema del rapporto tra strutture e sovrastrutture. L'orientamento maoista è quello di negare che la trasformazione della struttura in senso socialista possa ridursi semplicemente all'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione. Con più fedele aderenza al discorso marxiano, Mao pensa che la struttura sia costituita dall'insieme dei rapporti sociali di produzione, e pertanto includa non solo la forma giuridica della proprietà, ma anche lo sviluppo delle forze produttive, la divisione del lavoro, il rapporto uomo-natura, uomo- macchina, uomo-uomo. Ciò comporta che il rapporto struttura-sovrastruttura, lungi dal poter essere considerato alla stregua di una relazione tra due componenti tra loro separate, debba, al contrario, essere riconosciuto come un rapporto nel quale la componente sovrastrutturale si rivela intrinseca alla stessa struttura materiale della società, e dunque da essa inseparabile. Ne deriva una concezione del processo rivoluzionario alternativa rispetto a quella sovietica, come trasformazione radicale e indivisibile, dall'interno del rapporto di produzione, dei rapporti sociali in tutta la loro complessità, coscienza degli uomini compresa.

b) In forza di questo ripensamento del processo rivoluzionario, matura il rifiuto del modello sovietico di accumulazione e sviluppo economico, fondato sull'idea che un processo di rapida industrializzazione, condotto in continuità con lo schema produttivo che era stato della rivoluzione industriale borghese, avrebbe portato automaticamente a una società socialista, secondo il celebre slogan leniniano: «elettrificazione + soviet = socialismo». Da una siffatta concezione industrialistica e produttivistica dello sviluppo non potevano che conseguire effetti negativi: sul terreno economico-sociale, un divario crescente tra industria e agricoltura, città e campagna, lo sviluppo di nuove forme di diseguaglianza sociale ed economica, la formazione di élites di tecnici, scienziati e dirigenti industriali privilegiate rispetto alle masse contadine e operaie, con una crescente divisione del lavoro intellettuale e manuale; sul terreno politico, la formazione di una classe burocratica "separata" e privilegiata sia nel partito sia nello Stato, con la requisizione del potere a livelli sempre più centralizzati; sul terreno, infine, propriamente culturale, l'assunzione della tecnologia e della scienza come valori socialmente neutrali e assoluti. In generale, insomma, la riproduzione delle gerarchie sociali e politiche caratteristiche del mondo capitalistico.

c) Dal rifiuto del modello di sviluppo sovietico, fondato su una presunta oggettività delle leggi economiche e sull'accettazione dell'"oggettività tecnologica" capitalistica - sono note le simpatie già dello stesso Lenin per il taylorismo - discendono due tra le principali componenti della politica rivoluzionaria maoista: da una parte l'idea che la costruzione del socialismo richieda "balzi" qualitativi, profonde rotture con il passato, una rivoluzione ininterrotta; dall'altra, l'affermazione antiecono- micistica del primato della politica anche nel processo di trasformazione del dato strutturale, e dunque della rilevanza anche materiale della trasformazione della coscienza e della natura degli uomini. Lungi dall'essere conseguenza dello sviluppo economico, la trasformazione socialista della sovrastruttura ne costituisce, al contrario, il presupposto.

d) Di qui una modificazione profonda del modo di intendere il rapporto tra partito e masse contadine e operaie, rispetto al modello leninista. Pur attribuendo al partito le funzioni di sintesi e di guida che ne legittimano l'esistenza, ne viene rifiutata, in linea di principio, l'esternità rispetto al proletariato, la pretesa di autolegit timazione e autoregolamentazione, al riparo dal movimento reale delle masse. A queste viene, pertanto, restituito il ruolo di protagoniste del processo della propria emancipazione, del quale il partito non deve essere che lo strumento. Qualora poi il partito tendesse a separarsi e sovrapporsi alle masse, queste dovrebbero essere chiamate a "ribellarsi" e a "bombardare il quartier generale".

7. Sweezy e Baran: rivoluzione e terzomondismo

Anche nella riflessione di ispirazione marxista maturata nei paesi occidentali durante la seconda metà del Novecento sono emersi orientamenti che hanno accreditato le prospettive rivoluzionarie di impronta maoista, soprattutto facendo riferimento ai paesi del Terzo Mondo e ai nuovi soggetti rivoluzionari in essi emergenti, differenti dalla classe operaia dei paesi sviluppati. E il caso dello studioso neo marxista statunitense Paul Marlor Sweezy, per alcuni anni professore di Economia ad Harvard, fondatore nel 1949, insieme a Leo Huberman, della celebre rivista marxista "Monthly Review".

Sweezy si accosta fin da giovane al pensiero marxiano a causa dell'incapacità della scienza economica borghese di spiegare le origini della crisi capitalistica del 1929 e di proporre un valido programma per la ripresa. In un ambiente profondamente ostile al marxismo, egli se ne lascia influenzare, pur procedendo a una revisione del pensiero economico di Marx non priva di suggestioni provenienti dalla "nuova economia" borghese, rappresentata dalle idee riformiste dell'economista inglese John Mainard Keynes. Due suoi scritti in particolare hanno dato un notevole contributo alla riflessione intorno ai problemi dello sviluppo economico capi talistico e del pensiero economico marxista: La teoria dello sviluppo capitalistico. Princìpi dell'economia politica marxiana (1942) e, in collaborazione con Paul Baran, Il capitale monopolistico. Saggio sulla struttura economica e sociale americana (1966).

Nel primo di questi due saggi viene avanzata la tesi intorno all'origine delle crisi che accompagnano lo sviluppo capitalistico, consistente in una spiegazione "sottoconsumistica" delle crisi, che tende a marginalizzare la teoria marxiana della caduta tendenziale del saggio di profitto, secondo la quale l'origine delle crisi è da ricercare all'interno dello stesso modo di produzione capitalistico. La teoria del sottoconsumo sostiene invece che l'origine delle crisi avrebbe a che fare con la «tenden za a espandere la capacità di produrre beni di consumo più rapidamente della domanda di beni di consumo», dal che conseguirebbe un'inevitabile propensione alla stagnazione dell'economia capitalistica.

Ne Il capitale monopolistico la teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto viene definitivamente accantonata con la motivazione che essa, valevole in regime di concorrenza, risulta invece invalidata dallo sviluppo monopolistico del capitalismo. Di qui la necessità di sostituirla, appunto, con l'ipotesi del sottoconsumo, che peraltro Sweezy integra ammettendo l'intervento di fattori "antagonistici" capaci, almeno in parte, di compensare lo squilibrio tra offerta e domanda dei beni attraverso l'assorbimento del surplus139 prodotto, riuscendo così ad assicurare una ripresa dell'espansione economica, o quantomeno il contenimento del rischio di una depressione cronica e del ristagno irreversibile. Tra questi fattori Sweezy indica, tra i più importanti, le spese militari, la pubblicità, gli sprechi, gli investimenti pubblici, la spesa sociale.

Quanto all'interpretazione generale che Sweezy e Baran propongono del sistema capitalistico, è da dire che essa è fortemente influenzata dal fatto che essi guardano alla sua versione più avanzata, quale quella statunitense, caratterizzata ormai dal dominio pressoché incontrastato delle grandi corporazioni monopolistiche. Di qui la loro insistenza, da un lato nel mettere in rilievo la razionalizzazione che un siffatto sistema induce nella produzione, sottraendola al libero mercato e sottoponendola a una gestione scientificamente organizzata, dall'altro nel sottolineare, però, che sotto questa razionalità si nasconde una fondamentale irrazionalità complessiva, messa in evidenza dalla dissipazione di una parte non irrilevante della ricchezza prodotta e dall'incombere del ristagno. Ciononostante, gli autori del Capitale monopolistico si dicono convinti del fatto che, limitando lo sguardo alla società statunitense, «la prospettiva di un'efficace azione rivoluzionaria per rovesciare il sistema sia esigua».140 Il proletariato industriale, titolare secondo il marxismo dell'iniziativa rivoluzionaria, appare sostanzialmente integrato nel sistema:

Gli operai dell'industria sono una minoranza sempre più esigua della classe lavora trice americana e i loro nuclei organizzati nelle industrie di base si sono in larga misura integrati nel sistema come consumatori e sono diventati membri ideologicamente condizionati della società.

Innegabile che il sistema produca una massa di nuovi oppressi:

I disoccupati e gli incollocabili, i lavoratori agricoli emigrati, gli abitanti dei ghetti delle grandi città, gli studenti che hanno finito le scuole, gli anziani che vivono con le misere pensioni di vecchiaia, in una parola gli esclusi, quelli che per il loro limitato potere d'acquisto sono incapaci di fruire delle soddisfazioni del consumo, quali che esse siano.

Si tratta però di soggetti sociali che,

malgrado il loro numero impressionante, sono troppo eterogenei, troppo sparpagliati e frazionati per costituire una forza coerente nella società. E l'oligarchia, mediante sussidi ed elargizioni, sa come tenerli divisi e impedire che diventino un sottoproletariato di miserabili affamati.

Ma sarebbe un errore concludere che, dunque, le strade della rivoluzione sono ormai chiuse: il capitalismo produce nuovi possibili suoi affossatori fuori dalle mura delle opulente centrali metropolitane, nella periferia povera e sfruttata del mondo. E nella natura del capitalismo di essere un sistema globale che tende a estendere il proprio dominio su tutto il mondo, dividendosi in un centro - i paesi sviluppati del "Nord" del mondo - nel quale si concentra l'accumulazione dei capitali e il più alto tasso di consumi, e in una periferia - il "Sud" del mondo -, terra di dominio e di sfruttamento da parte delle "metropoli" capitalistiche, costituita com'è di

decine di colonie, neocolonie e semicolonie condannate a rimanere nella loro degradante condizione di sottosviluppo e di miseria. Per esse, l'unica strada per andare avanti porta direttamente fuori dal sistema capitalistico.

In questa dicotomia del sistema capitalistico mondiale vanno, dunque, maturando le condizioni di una rivoluzione socialista, destinata, questa volta, ad assumere pro porzioni mondiali.

8. Althusser: per leggere Marx

a) Contro il marxismo umanistico e storicistico

La vicenda del marxismo teorico lungo il corso di gran parte del Novecento, da Gramsci a Lukàcs, da Korsch a Bloch, ha visto la netta predominanza di una lettura dell'opera di Marx secondo una prospettiva umanistica e storicistica. Questa è stata favorita sia dall'operazione, avviata da Lenin, di riannodamento del rapporto Marx-

Hegel, sia, più tardi, dall'impatto fortissimo che avrebbe avuto sul dibattito marxista la conoscenza degli scritti giovanili di Marx, in particolare dei Manoscritti economico-filosofici del 1844. Per non dire del fatto che il nuovo clima, indotto dal processo sia pur timido di destalinizzazione reso possibile dal XX Congresso del Pcus, aveva incoraggiato nei paesi dell'Est europeo la ripresa di un dibattito culturale, e diversi pensatori marxisti di quei paesi avevano avanzato, in polemica con lo stalinismo, interpretazioni del marxismo particolarmente sensibili ai temi antropologici e alla questione dell'individuo nella società socialista. Si possono ricordare filosofi come il polacco Leszek Kolakowski (1927), autore del saggio lluomo senza alternativa (1960), e Adam Schaff (1913) cui si deve II marxismo e la persona umana (1965), o il cecoslovacco Karel Kosik (1926), anch'egli polacco, la cui Dialettica del concreto (1963) riprende il tema, caro al giovane Lukâcs, della realtà umana come "totalità concreta" fondata sulla praxis.

In Occidente, è particolarmente in Francia che, tra gli anni cinquanta e sessanta, matura una svolta umanistica e personalistica del dibattito all'interno del pensiero marxista, di cui si fa interprete, in polemica con le posizioni ufficiali del Partito comunista francese, ligio all'ispirazione di Mosca e poco sensibile alle esigenze di una ripresa creativa della ricerca marxista, Roger Garaudy (1913) che negli anni cinquanta era stato uno dei più sospettosi custodi dell'ortodossia della filosofia di partito. Autore di diversi saggi {Dio è morto, 1962; Karl Marx, 1965; Dall'anatema al dialogo, 1965; Marxismo delXX secolo, 1966; e ancora Riconquista della speranza e L'alternativa, 1971-73), Garaudy, espulso dal partito nel 1970, attacca con veemenza il cosiddetto "socialismo reale" in nome di un socialismo dal volto umano e, sul terreno teorico, insiste sulle radici hegeliane, addirittura fichtiane, del marxismo, e ne promuove una lettura in chiave personalistica che lo apre al dialogo e al confronto con le posizioni cristiane, prima di convertirsi all'islamismo, ultima tap pa del suo singolare percorso intellettuale.

Questi sviluppi della filosofia marxista in Francia traggono le loro più lontane premesse per un verso dal vivace dibattito che, fin dagli anni trenta, segna la filosofia francese e che si intensifica negli anni del dopoguerra, per l'altro da eventi come il "Fronte popolare" del 1934 e, più tardi, la resistenza antinazista negli anni della guerra, che pongono le condizioni politico-culturali di un avvicinamento e, comunque, di un confronto positivo tra forze intellettuali marxiste e non. Lo stesso pensiero cattolico francese di quella stagione, rappresentato da personalità come quella, per fare l'esempio più illuminante, di Emmanuel Mounier, si orienta verso un confronto con il marxismo su un terreno di affermazione comune dei valori dell'umanesimo. Del resto, il diffondersi della fenomenologia e dell'esistenzialismo, non ché l'attenzione allo Hegel della Fenomenologia dello spirito, vengono interagendo con le suggestioni degli scritti del giovane Marx e favoriscono la crescita di esistenzialismi marxisteggianti o di marxismi esistenzializzanti (esemplare il caso di Sartre), e comunque connotati da forti inflessioni umanistiche.

Il marxismo di Althusser rappresenta la più radicale negazione di questa tradi zione culturale e filosofica francese. Caratteristico della sua impostazione teorica è il rifiuto delle concezioni umanistiche e storicistiche del marxismo in nome di una lettura del tutto originale e inedita di Marx, specificamente del Marx del Capitale. Questi viene riconosciuto quale "scienziato", fondatore di una scienza della storia finalmente in grado di sottrarre lo studio della società e dei suoi processi oggettivi agli approcci soggettivistici, come tali devianti, dell'ideologia e della filosofia.

L'operazione althusseriana consiste, innanzitutto, nel tracciare, all'interno del cammino teorico di Marx, una netta linea di discontinuità tra gli scritti del Marx giovane, fino ai Manoscritti economico-filosofici del 1844 e alla Sacra famiglia, e il Marx della maturità, impegnato nella stesura dei libri del Capitale. In mezzo, vi sa rebbe il periodo della "maturazione teorica" (1845-57) durante il quale, in opere come il Manifesto, Miseria della filosofia, Salario, prezzo e profitto e altre, Marx si sarebbe impegnato «a trovare, foggiare e fissare una terminologia e una sistematica concettuali adeguate al suo intento teorico rivoluzionario».143 In disaccordo con il "marxismo occidentale" che aveva insistito su una sostanziale continuità del percorso marxiano, Althusser ammette una vera e propria "rottura epistemologica" che sarebbe intervenuta a un certo punto a modificare radicalmente la problematica marxiana, e i cui primi segnali sarebbero annunciati nelle Tesi su Feuerbach e, in particolare, nell'Ideologia tedesca, ambedue del 1845. La rilevanza teorica di questa rottura sta nell'aver trasformato una problematica prescientifica in una scientifica, e nell'aver preso in considerazione congiuntamente due discipline teoriche distinte:

Creando la teoria della storia (materialismo storico) Marx, con un unico e medesimo gesto, aveva rotto con la sua coscienza filosofica ideologica anteriore e gettato le basi di una nuova filosofia (materialismo dialettico).

Il Marx giovane, un "ideologo" nutrito di filosofemi feuerbachiani, aveva fatto dell'"alienazione" il tema centrale della filosofia del comunismo: questo consiste rebbe nella liberazione dell'"essenza" dell'uomo dalla sua alienazione nel mondo dello Stato, della religione e delle merci, e nella riappropriazione di sé mediante la riconciliazione con la propria essenza perduta. La rottura con Feuerbach e il deli nearsi del materialismo storico avrebbero dato fine a questa «filosofia dell'uomo» inteso come soggetto protagonista della storia e dell'avvento del comunismo, e avrebbero avviato Marx, divenuto da "ideologo" "scienziato", alla fredda analisi delle strutture impersonali e oggettive che comandano, al di fuori di ogni intenzionalità, il movimento della società. Alle nozioni care al marxismo umanistico come «uomo», «essenza umana», «soggetto», «alienazione», «individuo reale», «rapporti interumani vissuti», Marx avrebbe sostituito quelle, oggettive, di «formazione so ciale», «modo di produzione», «forze produttive», «rapporti di produzione», «so vrastrutture», «ideologie», fondando così per la prima volta una scienza della società e della storia. Scrive Althusser:

Non è possibile "conoscere" qualcosa degli uomini se non all'assoluta condizione di ridurre in polvere il mito filosofico (teorico) dell'uomo. Ogni pensiero che si richiamasse dunque a Marx per restaurare in un modo o nell'altro un'antropologia o un umanismo filosofici, non sarebbe "teoricamente" altro che polvere.

Non meno severo è il giudizio sulle interpretazioni storicistiche di Marx proposte da gli hegelo-marxisti, cui sarebbe sfuggito che già il giovane Marx «non è mai stato hegeliano, ma dapprima kantiano-fichtiano, poi feuerbachiano», e che «lungi dall'acco- starglisi, Marx non aveva cessato di allontanarsi da Hegel». Soprattutto il marxismo storicistico non ha compreso che per il Marx maturo la storia non è, come ha pensato lo storicismo hegeliano (di cui egli si sarebbe limitato a rovesciare l'assunto idealistico in uno materialistico), un processo attraverso il quale un Principio tenderebbe a una meta prestabilita, bensì «un processo senza Soggetto né Fine», estraneo a ogni idea di intenzionalità. Inoltre, contro lo storicismo di matrice ottocentesca, legato al mito del progresso, Althusser nega, come vedremo, anche la linearità del movimento della storia, come se questo si svolgesse in una dimensione temporale uniforme.

Con questa sua nuova lettura di Marx Althusser non intende, peraltro, negare la consistenza filosofica del pensiero maturo di Marx: compito odierno di un marxi smo che voglia rimanere fedele al rigore teorico marxiano, è, per l'appunto, quello di dar voce alla "filosofia marxista", presente, anche se soltanto implicitamente, nella "scienza" marxiana. In vista di questo, Althusser, con riferimento alla psicoa nalisi, propone una lettura sintomale di Marx, che, andando oltre il testo considerato nella sua immediatezza letterale, sappia interpretare i silenzi, le sviste, i vuoti di discorso, gli scarti di senso, il "non-detto" presenti in esso come "sintomi" di un discorso più profondo, di problemi e domande mai formulate eppure presenti "inconsciamente", che chiedono di essere esplicitate in modo che venga a essere pie namente liberato il potenziale filosofico presente nel Capitale. Esito di questo lavoro di lettura critica dei testi marxiani è la filosofia marxista come teoria delle pratiche teoriche, investita della funzione di distinguere la "scienza" dall'"ideologia".

b) Marxismo e strutturalismo

Nato nel 1918 a Birmandreis, in Algeria, da famiglia francese di origine contadina, Louis Althusser, frequentata la scuola primaria ad Algeri, prosegue gli studi in Francia con l'intenzione di iscriversi all'École Normale Supérieure. Richiamato alle armi e fatto prigioniero nel 1940 dai tedeschi, trascorre quattro anni in un campo di concentramento in Germania. Tornato a Parigi nel 1945 e laureatosi in filosofia nel 1948, nello stesso anno inizia a insegnare all'Fcole. Nel frattempo, rompe con il proprio passato di militante cattolico e si iscrive al Partito comunista. Dopo aver pubblicato un saggio di rilievo su Freud e Lacan (1964), Althusser diventa famoso nel 1965 in seguito alla pubblicazione dei due libri in cui viene proposta la sua lettura di Marx: Ver Marx e, in collaborazione con alcuni suoi discepoli, tra i quali Etienne Balibar (1942), Leggere il Capitale. Da quel momento la sua complessa figura intellettuale e le sue teorie originali diventano oggetto di un acceso dibattito, e da più parti gli viene contestato il rifiuto dell'umanesimo marxista. Lo stesso Partito comunista francese dedica nel 1966 all'argomento una riunione del Comitato centrale, conclusosi con la decisa riaffermazione del carattere umanistico dell'insegnamento marxiano. Negli anni successivi Althusser pubblica numerosi saggi, tra i quali Lenin e la filosofia (1969), Elementi di autocritica (1974), Posizioni, Su Marx e Freud (1976), e infine Cosa non può più sopravvivere nel partito comunista (1978), un duro attacco al partito (di cui negli ultimi anni non è più membro) per il suo rifiuto di aprire un vero dibattito politico al proprio interno di cui egli avverte, viceversa, la necessità, nella consapevolezza sempre più acuta di una ormai evidente crisi generale del marxismo. La vita di Althusser è stata tormentata fin dalla giovinezza da disturbi psichici intermittenti che, nel 1980, esplodono drammaticamente in un accesso di follia e nell'omicidio della moglie, Hélène Rytman, sua ispiratrice e collaboratrice di tanti anni. Riconosciuto "incapace di intendere e di volere", trascorre diversi anni in ospedali psichiatrici, prima di poter tornare nella sua dimora parigina dove, in un progressivo degrado psichico e morale, si spegne nel 1990.

La lettura althusseriana di Marx trova nello strutturalismo, impostosi nella cultura francese tra gli anni cinquanta e sessanta, un clima culturale assai favorevole, e non c'è dubbio che esso esercita su Althusser una decisiva influenza. Basti leggere quanto egli scrive circa la necessità di prescindere dall'uomo quale soggetto, qualo ra si voglia conoscere scientificamente la società:

La struttura dei rapporti di produzione determina dei luoghi e delle funzioni che sono occupati e assunti dagli agenti di produzione, i quali sono solo gli occupanti di questi luoghi, nella misura in cui sono i "portatori" (Träger) di queste funzioni. I veri "soggetti" (nel senso di soggetti costituenti del processo) non sono dunque, contrariamente a tutte le apparenze, alle "evidenze" del "dato" dell'antropologia ingenua, gli "individui concreti", gli "uomini reali", bensì la definizione e la distribuzione di questi posti e di queste funzioni. Quindi i veri soggetti che definiscono e distri buiscono sono i rapporti di produzione (e i rapporti sociali politici e ideologici). Ma poiché sono dei "rapporti", non si potrebbero pensare nella categoria di soggetto-, e se per caso ci si azzarda a ridurre questi rapporti di produzione a dei rapporti tra uomini, cioè a rapporti umani, si farebbe torto al pensiero di Marx che indica con la massima profondità [...] che i rapporti di produzione (così come i rapporti sociali politici e ideologici) sono irriducibili a qualsiasi soggettività antropologica [...].

Certo, la scienza della società ha a che fare con gli uomini, ma solo in quanto questi sono

portatori di una funzione nel processo di produzione, determinato dal rapporto di produzione [...] E in effetti l'uomo della produzione [...] "non è altro che questo" per il modo di produzione capitalistico, [...] semplice portatore di funzioni, completamente anonimo, intercambiabile, dato che può essere gettato sulla strada, se è operaio, fare fortuna o fallire, se è capitalista.

Dal punto di vista teorico, gli individui sono irrilevanti; essi sono semplici effetti della struttura.

Occorre, peraltro, ricordare che, in scritti successivi, in particolare in Elementi di autocritica, Althusser sostiene di aver troppo concesso, nei saggi del 1965, alla suggestione dello strutturalismo, mutuata attraverso Nietzsche, Freud e soprattutto Lacan, ma che si sarebbe trattato di un semplice «allineamento terminologico» mentre, nella sostanza, il suo pensiero ne sarebbe stato indipendente. Da parte sua insiste piuttosto sull'importanza avuta da Spinoza nel proprio cammino verso Marx: «se non siamo stati strutturalisti, possiamo adesso confessare perché: [...] siamo colpevoli di una passione ben altrimenti forte e compromettente: siamo stati spinoziani».

In virtù della sua «svolta attraverso Spinoza» (uno Spinoza materialista), Althusser afferma di aver imparato a capire «la svolta di Marx attraverso Hegel»;150è infatti il filosofo olandese a consentirgli, con la sua critica antisoggettivistica e an titeleologica (si pensi all'Appendice al primo libro dell'Et bica), di capire la mistificazione rappresentata dalla coppia Soggetto/Fine costitutiva della dialettica hegeliana, e di comprendere, conseguentemente, l'operazione marxiana di ridurre la storia a un «processo senza soggetto e senza autore».151 E di nuovo a Spinoza Althusser riconosce il merito di avergli insegnato, meglio di quanto potesse fare lo strutturalismo, quella nozione di causalità strutturale che sta alla base del suo marxismo teorico.

c) Struttura sociale e principio di surdeterminazione

La società capitalistica, che è la formazione sociale concreta presa in esame nel Capitale, viene intesa come una struttura globale, una totalità nella quale i suoi diversi livelli, da quello economico a quelli detti da Marx "sovrastrutturali", si vengono determinando reciprocamente, secondo modalità destinate a variare con le circostanze. Se è vero che Marx parla della struttura economica, segnata dalla contraddizione di capitale e lavoro, come della base che determina in ultima istanza l'insieme della formazione sociale, sovrastrutture ideologiche incluse, questo però non significa che l'istanza economica agisca mai allo stato puro, e neppure che l'ideologia si riduca a pura e semplice «falsa coscienza», o che la sua efficacia si risolva in quell'«azione di ritorno» sulla base materiale, di cui pure Marx discorre.

In forza di un concetto ricavato dalla psicoanalisi, il principio di surdeterminazione, Althusser sostiene che la base economica, in quanto struttura "regionale" determinante, è sempre a sua volta "sovradeterminata" dalle altre componenti - so vrastrutturali - della struttura "globale" della società, che si distinguono nel livello giuridico-politico - il diritto e lo Stato - e in quello delle ideologie propriamente dette - religiosa, morale, politica, giuridica ecc. Questi livelli della sovrastruttura sono, dunque, a loro volta determinanti, secondo modalità in gran parte ancora da chiarire, anche se lo sono soltanto in quanto determinati originariamente dalla base economica.

Occorre, pertanto, superare la metafora dell'edificio, in cui i piani superiori presuppongono le fondamenta senza le quali essi non potrebbero "tenere" da soli, e che viene solitamente utilizzata come rappresentazione "topica" del rapporto marxiano tra strutture e sovrastrutture. I livelli sovrastrutturali non agiscono, infat ti, rimanendo come sopraelevati rispetto alla base materiale. Essi, viceversa, sono efficaci solo nella misura in cui operino "materialmente" all'interno della dinamica dei rapporti sociali di produzione. E in questo modo che essi fungono da fattori della continua "riproduzione" di quei rapporti di produzione. Questi non si spiegano solo con le condizioni economiche, ma richiedono anche, a renderne possibile la continuità, condizioni politiche, giuridiche e ideologiche.

Emerge qui quella causalità strutturale che Spinoza per primo avrebbe formulato in alternativa alla causalità meccanica, analitica e transitiva, di tipo cartesiano, e che, secondo Althusser, costituisce il nuovo modo marxiano, sia pur rimasto implicito nei testi di Marx, di intendere la dialettica. E il modo di funzionamento di una struttura globale (quello che Spinoza chiamava «ordine immanente del Tutto»), per cui essa esiste e opera efficacemente solo nel sistema degli elementi, a loro volta strutturati, che la costituiscono, i quali si condizionano tra loro reciprocamente, pur nella "dominanza" di uno sugli altri.

Sulla base di questa intrinsecazione dell'ideologia al modo di produzione, che ri corda da vicino un analogo punto di vista di Mao Tse-tung, Althusser ha modo di chiarire due aspetti importanti dell'ideologia, tra loro connessi.

In primo luogo, il fatto che l'ideologia, in quanto elemento della struttura sociale, non è un prodotto consapevole degli uomini, bensì un «sistema di rappresentazioni» che «s'impongono alla stragrande maggioranza degli uomini senza passare attraverso la loro "coscienza"». Veri e propri «oggetti culturali percepiti-accettati- subìti».

In secondo luogo, Althusser sostiene che «l'ideologia fa [...] organicamente parte, in quanto tale, di ogni totalità sociale», poiché, lungi dall'essere «un'aberrazione o un'escrescenza contingente della storia», essa è «come l'elemento e l'atmosfera stessa indispensabili alla respirazione e alla vita storica delle società umane», tanto che «neppure una società comunista può fare mai a meno di ideologia, sia che si tratti di morale o di arte o di rappresentazione del mondo». In termini più semplici, gli uomini, in quanto collocati in determinate e oggettive condizioni di esistenza, si trovano sempre a vivere il «rapporto reale» con queste e a tradurlo in un «rapporto immaginario»: il modo di questo "vivere" e "tradurre" è, appunto, l'ideologia. Scrive Althusser:

Nell'ideologia [...] gli uomini esprimono non i loro rapporti con le loro condizioni di esistenza, ma il "modo" in cui vivono i loro rapporti con le loro condizioni di esistenza, la qual cosa suppone al tempo stesso un rapporto reale e un rapporto "vissuto", "immaginario". L'ideologia è allora l'espressione del rapporto degli uomini col loro "mondo", ossia l'unità (surdeterminata) del loro rapporto reale e del loro rapporto immaginario con le loro reali condizioni di esistenza. Nell'ideologia il rapporto reale è inevitabilmente investito nel rapporto immaginario: rapporto che "esprime" più una "volontà" (conservatrice, conformista, riformista o rivoluzionaria), e persino una speranza o una nostalgia, di quanto non descriva una realtà.

In virtù di questa messa in evidenza del carattere "attivo" dell'ideologia, la quale può rinforzare ma anche modificare e mettere in crisi il rapporto degli uomini con le loro condizioni d'esistenza, Althusser può anche accettare un umanismo socialista, ma solo una volta negatagli la dignità di teoria e restituitolo alla sua natura, appunto, di ideologia. Se è vero che le ideologie umanistiche hanno generalmente contribuito ad affermare e consolidare l'egemonia borghese, è anche vero però che, in certe circostanze, esse possono dar voce alla rivolta delle masse contro lo sfruttamento e l'oppressione. A riconoscere questo «non c'è nessuna difficoltà, perché si sa che il marxismo riconosce l'esistenza delle ideologie e le apprezza se condo il ruolo che esse svolgono nella lotta di classe». d) Autocritica: la politicità della filosofia

Anche per la pressione esercitata dalle violente polemiche intorno a Per Marx e Leggere il Capitale, Althusser procede, fin dal 1967, a una revisione del proprio pensiero, espressa compiutamente qualche anno più tardi in Elementi d'autocritica (1975) e riassunta nell'ammissione di aver ceduto a una «deviazione teoricista». Non che egli rinunci a sostenere l'antiumanismo teorico del materialismo storico, che anzi, nello scritto È facile essere marxista in filosofia? (1915), difende dall'accusa, spesso rivoltagli, di produrre il disprezzo degli uomini e la paralisi della loro lotta rivoluzionaria:

[...] il Capitale è pieno della sofferenza degli sfruttati, degli orrori dell'accumulazione originaria sino al trionfo del capitalismo, ed è scritto per liberarli dalla schiavitù di classe. Ma ciò non soltanto non impedisce a Marx, ma anzi lo "obbliga", nello stesso Capitale, in cui analizza i meccanismi dello sfruttamento, a fare astrazione dagli individui concreti, e a trattarli teoricamente come semplici "supporti di rapporti".

L'autocritica althusseriana consiste piuttosto nel confessare di aver concepito la fi losofia marxista come pura teoria che troverebbe in se stessa piena autosufficienza e autolegittimazione, con la conseguenza di smarrire l'insegnamento più prezioso di Marx, cioè il nesso indisgiungibile di teoria e praxis e, di conseguenza, l'ispira zione fondamentalmente politica della filosofia. L'errore da cui occorre innanzitutto liberarsi è di aver proposto un'interpretazione "razionalista" della rottura epi stemologica compiuta da Marx dal 1845 in poi, come se si fosse trattato di un mero "fatto teorico", quando invece la sua origine sarebbe da rintracciarsi sul terreno storico e politico. Scrive Althusser nel 1967:

Egli [Marx] [...] poteva rompere con l'ideologia borghese nel suo insieme solo a condizione d'ispirarsi alle premesse dell'ideologia proletaria e alle prime lotte di classe del proletariato, nelle quali quest'ideologia prendeva corpo e consistenza. Ecco 1'"evento" che, dietro la scena razionalista dell'opposizione tra la "verità positiva" e l'illusione ideologica, dava a tale opposizione la sua autentica dimensione storica.

Occorre, pertanto, riconoscere l'unilateralità e l'inesattezza della definizione della filosofia marxista come «teoria della pratica teorica», una definizione che ne riduce il compito a quello di difendere la purezza della scienza dalle intrusioni dell'ideologia. A quella ora Althusser sostituisce l'altra, "marxista-leninista", secondo la quale la filosofia, ovvero il materialismo dialettico, rappresenta «la lotta di classe del popolo nella teoria».

Suo compito è, di conseguenza,

a) quello di battersi contro la concezione borghese del mondo, che si è sempre espressa nell'economicismo, oggi tecnocratico, e in quel suo "completamento spirituale" che è l'idealismo umanistico. Essa ha trovato la sua forma filosofica attuale nel neopositivismo e in quel suo "completamento spirituale" che è il soggettivismo fenomenologico esistenzialista;

b) quello di conquistare alla scienza le scienze umane e innanzitutto le scienze sociali che continuano a ignorare la rivoluzione scientifica marxiana e a "tramestare" in economia politica, sociologia, antropologia, psicosociologia, dopo cento anni dal Capitale, come, cinquant'anni dopo Galileo, continuavano a "tramestare" in fisica gli aristotelici;

c) quello, infine, di sviluppare con tutto il rigore e l'audacia richiesti la scienza e la filosofia nuove, legandole alle esigenze e invenzioni della pratica della lotta delle classi rivoluzionarie.

e) Gli apparati ideologici di Stato. Critica dello stalinismo

Althusser non mostra, a differenza di Sartre, grande simpatia per il Maggio degli studenti e per i movimenti sessantotteschi, dei quali, probabilmente, sottostima gli elementi di novità a causa di un modo abbastanza tradizionale d'intendere la lotta anticapitalistica. Eppure, nonostante egli condivida sostanzialmente l'interpretazione offerta dal Partito comunista francese e dall'organizzazione sindacale comunista, non mancano, nei suoi scritti degli anni settanta, tematiche che, di per se stesse e anche per come vengono trattate, sembrano risentire in qualche modo dei dibattiti apertisi nei movimenti studenteschi sorti in quegli anni in molti paesi eu ropei. Basti pensare, per esempio, allo scritto su Ideologia e apparati ideologici di Stato (1970), nel quale l'interpretazione dell'ideologia come elemento facente corpo con l'organizzazione sociale della produzione si concretizza nel descrivere gli "apparati" materiali attraverso cui l'ideologia si fa strumento di riproduzione dei rapporti sociali di produzione esistenti.

Oltre che riferirsi a quegli strumenti dell'Apparato repressivo dello Stato (ars), il governo, l'amministrazione, l'esercito, la polizia, i tribunali, le prigioni ecc., che soprattutto avevano interessato la tradizionale teoria marxista dello Stato, Althusser guarda con particolare attenzione a quelli che chiama «Apparati ideologici di Stato» (ais), le chiese, la famiglia, il sistema dell'informazione (stampa, radiotelevisione ecc.), i partiti e i sindacati, le istituzioni culturali ecc. Questi differiscono dall'ars, in primo luogo perché molteplici e diffusi nella società, mentre quello è unificato nel potere centrale dello Stato; in secondo luogo, per ché, in gran parte, fanno parte della sfera "privata", a differenza dell'ars che è "pubblico"; infine e soprattutto, per il fatto che, mentre l'ars «funziona soprat tutto con la violenza» e solo secondariamente in modo ideologico, gli ais, invece, «funzionano principalmente con l'ideologia» e con la violenza solo in seconda istanza, in modo, «al limite, ma solo al limite, molto attenuato, dissimulato, ovvero simbolico».

Richiamandosi esplicitamente alla problematica proposta da Gramsci sul concetto di egemonia e sulle "casematte" della società civile, Althusser sottolinea - con accenti che accreditano l'idea di un debito contratto nei confronti del '68 - la posizione dominante assunta nelle formazioni capitalistiche mature dall'istituzione sco lastica e, in senso più lato, dal binomio scuola-famiglia, tanto da riconoscere in essa «l'apparato ideologico n. 1 [...] che di fatto ha rimpiazzato nelle sue funzioni il vecchio apparato ideologico di Stato, qual era la Chiesa». Così egli scrive:

Essa [la scuola] prende i bambini di tutte le classi sociali a partire dalla scuola ma terna e, fin dalla scuola materna, con metodi nuovi e vecchi inculca loro per anni - gli anni in cui il bambino è più "vulnerabile", costretto tra l'apparato di Stato-fami- glia e l'apparato di Stato-scuola - dei savoir-faire rivestiti dell'ideologia dominante (la lingua, il far di conto, la storia naturale, le scienze, la letteratura) o semplicemente dell'ideologia dominante allo stato puro (morale, educazione civica, filosofia). Pressappoco verso i sedici anni una massa enorme di ragazzi finisce nella "produzione": sono gli operai o i piccoli contadini. Un'altra parte dei giovani scolarizzabili continua e, valga quel che valga, fa un altro po' di cammino per cadere lungo la strada e ricoprire i posti dei quadri piccoli e medi, impiegati, piccoli e medi funzionari, piccolo borghesi di ogni specie. Un'ultima parte arriva al vertice, sia per cadere nella semidisoccupazione intellettuale, sia per fornire, oltre agli "intellettuali dell'operaio collettivo", gli agenti dello sfruttamento (capitalisti e managers), gli agenti della re pressione (militari, poliziotti, politici, amministratori ecc.) e i professionisti dell'ideologia (preti di ogni tipo, la maggior parte dei quali sono laici convinti).

La scuola educa ognuno dei gruppi sociali e culturali, che così vengono stratifican dosi, all'ideologia «che si confà al ruolo cui deve assolvere nella società di classe»,162e dunque a peculiari "virtù", da quella dell'obbedienza e della rassegnazione a quelle del dominio e del comando, e a specifiche "abilità". E se è vero che tali virtù e abilità

s'imparano anche in famiglia, in Chiesa, nell'esercito, nei bei libri, nei film, e persino allo stadio [...] nessun apparato ideologico di Stato come questo (la scuola) dispone per altrettanti anni di un ascolto obbligatorio (e sarebbe il meno: gratuito) di cinque o sei giorni su sette per otto ore al giorno, da parte di tutti i ragazzi che so no sottoposti alla formazione sociale capitalistica.

Una tale concezione dell'ideologia, quale fattore strettamente correlato alla struttu ra sociale della produzione, ispira anche l'atteggiamento critico di Althusser nei confronti dello stalinismo. Egli dissente da chi ricerca le cause di questa "deviazione" nella pura sfera giuridica, quasi che lo stalinismo fosse consistito semplicemente in quelle che il rapporto Chruscëv aveva chiamato «violazioni della legalità socialista». Proprio perché, in una qualunque formazione sociale, strutture e sovrastrutture sono in un reciproco rapporto di determinazione, si deve riconoscere - e qui Althusser si avvicina alla critica maoista del socialismo sovietico - che le radici dello stalinismo non affondano semplicemente nella dimensione ideologica, bensì nel modo con cui si è preteso di costruire il socialismo in Urss, distinguendo, secondo un procedimento tipico dell'economicismo, un primo momento, di costruzione delle "basi materiali" del socialismo, dal momento successivo del rivoluzionamento dei rapporti sociali di produzione. È sfuggito che quest'ultimo, o avviene contestualmente allo sviluppo delle forze produttive, o è destinato a non verificarsi affatto, con la conseguente, inevitabile riproduzione, difficilmente reversibile, di una gerarchizzazione autoritaria della società.

f) Scritti postumi. Il materialismo aleatorio

Tra gli scritti althusseriani degli anni ottanta, tutti apparsi postumi {Sul pensiero marxista, 1982; L'avvenire dura a lungo, 1985; L'unica tradizione materialista, 1985; Sulla filosofia, 1994), ci limitiamo qui ad accennare a quello che sembra il più importante e certamente il più innovativo del pensiero di Althusser, La corrente sotterranea del materialismo dell'incontro (1982).

In questo saggio Althusser riprende il tema della struttura, fondamentale nella sua riflessione precedente, con l'intento di studiare della struttura gli inizi e la genesi, in vista della riscoperta di un materialismo finora misconosciuto e rimosso per la sua "pericolosità" e che peraltro ha attraversato in modo sotterraneo l'intera storia della filosofia occidentale, da Epicuro e Lucrezio, che l'hanno proposto, a Machiavelli, da Spinoza a Hobbes, dal Rousseau del secondo Discorso a Marx, fino a Heidegger e Derrida. Si tratta di un materialismo

che si oppone, come un pensiero totalmente altro, ai differenti materialismi codificati, compreso il materialismo comunemente attribuito a Marx, a Engels, a Lenin che, come ogni materialismo della tradizione razionalista, è un materialismo della necessità e della teleologia, cioè a dire una forma trasformata e mascherata di idealismo.

Di questo materialismo "altro", caratterizzato, come vedremo, da un'assoluta contingenza a-teleologica, Althusser giunge a chiedersi, addirittura, se sia ancora materialismo, e conclude che se userà questo termine sarà per comodità, dato che ci vuole una parola per designare la cosa, e comunque per «far sentire la sua opposizione radicale a ogni idealismo della coscienza, della ragione, quale che ne sia la destinazione».

Ma vediamo di che cosa si tratta: esso sorge con la teoria della "pioggia" degli atomi di Epicuro e Lucrezio, secondo la quale il mondo nasce dal clinamen che ha luogo nel vuoto - il non mondo - e nell'assoluta contingenza («non si sa dove, né quando, né come»),166 sicché «prima della formazione del mondo non esisteva "alcun Senso", né Causa, né Fine, né Ragione».

Di fronte all'audacia di questa tesi, in grado d'un sol colpo di azzerare tutte le domande classiche della filosofia («perché c'è qualcosa piuttosto che nulla? Qual è la ragion d'essere del mondo? Qual è il posto dell'uomo nei fini del mondo?»),168si è proceduto a rimuoverne la pericolosità, interpretando il clinamen in funzione di un "idealismo della libertà" e si è detto - e il giovane Marx lo ha ripetuto - che quella deviazione era funzionale al riconoscimento della libertà dell'uomo nel mondo.

Il compito che s'impone è, allora, di far riemergere dalla sua rimozione questo materialismo "dell'incontro", aleatorio (non solo nelle sue origini ma anche nei suoi effetti), demistificando la filosofia "logocentrica" dell'Occidente che ha incaricato, appunto, il Logos «di pensare l'antecedenza del Senso su ogni realtà».169 È così che Althusser va rintracciando i percorsi sotterranei del materialismo aleatorio: nella teoria machiavelliana della fortuna e della virtù e del loro incontro, da "nulla" prestabilito né garantito, nella persona del Principe; nel Dio che "non è" che natura e nel "nulla" di ogni finalità di Spinoza; nello stato di natura hobbesia- no, in cui si incontrano individui atomizzati; nella natura originaria dei selvaggi descritti da Rousseau, ignoranti di ogni ragione per vivere insieme, «individui senza incontro», «un "niente di società" anteriore a ogni società e condizione di possibilità di ogni società», la quale nascerà se qualcosa dall'esterno costringerà quei selvaggi a incontrarsi e nell'incontro a stabilizzarsi.

Quest'ispezione storica althusseriana tocca il suo momento, diciamo così, più provocatorio nell'annoverare tra i filosofi che hanno contribuito al disseppellimento del materialismo aleatorio, autori come Heidegger, Wittgenstein, Derrida, mai stati interlocutori di filosofie marxiste, come quella althusseriana si era finora pro posta di essere. Di Heidegger Althusser valorizza la filosofia dell'« gibt, la quale, per aver affermato la fatticità e contingenza del mondo nel quale si è "gettati", verrebbe a congiungersi con l'ispirazione di Epicuro. Di Wittgenstein viene citata la prima proposizione del Tractatus: «il mondo è tutto ciò che accade». Quanto a Derrida e alla tesi del primato della «disseminazione» sulla posizione del senso in ogni significante, Althusser la assume come rifiuto del Tutto e dell'Ordine, a vantaggio della dispersione e del disordine.

Ma l'obiettivo che più sta a cuore al filosofo marxista è quello di mostrare il po sto che occupa Marx in questa storia del materialismo aleatorio. Occorre, per questo, riconoscere che nel pensiero marxiano convivono due concezioni del modo di produzione profondamente diverse tra loro, anzi incompatibili: l'una coerente con il modello atomistico caratteristico del materialismo dell'incontro, l'altra subalterna invece al materialismo della necessità, essenzialistico e teleologico. Della prima, di cui è stato iniziatore il giovane Engels della Situazione della classe operaia in Inghilterra, Althusser trova testimonianza nelle pagine del Capitale dedicate all'accumulazione originaria, nonché nella teoria del modo di produzione asiatico. In questi luoghi, Marx «ci spiega che il modo di produzione capitalistico è nato dall'"incontro" tra il "proprietario di denaro" e il proletario sprovvisto di tutto, salvo che della propria forza-lavoro».171 Un incontro che è "capitato", come è capitato che esso abbia fatto presa, assumendo i caratteri di un fatto compiuto e durevole con i suoi rapporti stabili e necessari, e dunque le sue leggi, le leggi dello svi luppo del modo di produzione capitalistico. Questo assume la configurazione di un tutto strutturato, il quale non è però anteriore agli elementi che lo costituiscono - l'accumulazione finanziaria, l'accumulazione dei mezzi tecnici di produzione, l'accumulazione della materia di produzione, l'accumulazione dei produttori. Sono piuttosto questi elementi a esistere prima del tutto, allo stato "fluttuante", ognuno con la propria storia, in alcun modo finalizzata al realizzarsi dell'intero, essa stessa segnata dalla contingenza e dall'alcatorietà degli incontri. Che pensare, per esempio, del proprietario di denaro? Da dove viene? Di quali incontri è l'esito? Non lo si sa esattamente. Quel che a Marx importa è che esso, elemento fluttuante come gli altri, sia risultato, esista. Il suo "incontro" con gli altri elementi della struttura, un incontro che «continua ancora ai nostri giorni», è «un processo costante che inscrive l'aleatorio nel cuore della sopravvivenza e del rafforzamento del modo di produzione capitalistico».

L'altra teoria del modo di produzione, che rende prigioniero Marx del materialismo delle essenze, necessitano, metafisico e idealistico, assume la struttura capitalistica come precedente i suoi elementi, la storia di ognuno dei quali è già decisa in partenza, finalizzata com'è al costituirsi di una struttura prefigurata. E così leggiamo in Marx che il proletariato è il «prodotto della grande industria, dello sfruttamento capitalista, del capitalismo», dove si confonde la «riproduzione allargata del proletariato» - questa, sì, prodotto del capitalismo - con la «produzione del proletariato», che è invece l'esito di un «incontro aleatorio» che avrebbe potuto non essere. Allo stesso modo questo Marx essenzialista procede nella spiegazione della genesi del proprietario di denaro, del borghese, che viene fatta risalire a «una mitica "scomposizione" del modo di produzione feudale», dal cuore della quale sarebbe nata la borghesia, in futuro capitalista. Invece che essere assunta come un elemento "fluttuante" nel vuoto necessario a ogni incontro aleatorio, la borghesia viene proposta come l'«elemento predestinato» a unire tutti gli altri elementi del modo di produzione per dar luogo a un'altra combinazione, quella del modo di produzione capitalistico.

Qui si conclude questo scritto postumo althusseriano che si distingue, oltre che per la rinuncia alla svalutazione della diacronia e all'uso unilaterale della sincronia, per il rifiuto, in nome dell'alcatorietà della genesi e del permanere della struttura, della vocazione platonizzante caratteristica di molti tra i vari strutturalismi.

9. Il marxismo italiano dopo Gramsci

Il periodo che corre dal secondo dopoguerra alla metà degli anni settanta vede l'af fermarsi in Italia di orientamenti culturali largamente ispirati al pensiero e all'ideologia marxisti. Se è un insieme di condizioni sociali, politiche e culturali propizie che favorisce quest'emergenza del marxismo, non c'è dubbio che un fattore tra i più incisivi è rappresentato dalla pubblicazione, negli anni dell'immediato dopoguerra, dei Quaderni del carcere di Gramsci. La grande suggestione esercitata dal pensiero gramsciano, combinata con i condizionamenti politico-culturali dettati dalla direzione togliattiana del Partito comunista, spiegano d'altronde il prevalente orientamento storicistico e umanistico della cultura italiana di area marxista degli anni quaranta e cinquanta. In essa prevale la tendenza, sostenuta appunto dalla politica culturale del Pei, a combinare il marxismo con la tradizione idealistica e storicistica della cultura borghese di ascendenza prevalentemente crociana. Non a caso lo stesso pensiero di Gramsci viene forzato in questa direzione allorché lo si propone quale punto d'arrivo della linea Vico-De Sanctis-Croce, mentre sul terreno propriamente letterario s'intende recuperare il filone nazional-popolare della letteratura di origine risorgimentale e si privilegia la tradizione realistica e popolare che da Manzoni discende fino a Verga.

Un episodio esemplare di questa vicenda culturale è rappresentato dalla polemica insorta nel 1946-47, alimentata da Mario Alicata e Palmiro Togliatti nei confronti del "Politecnico", la rivista fondata nel 1945 da Elio Vittorini e da lui diretta. Quest'ultimo, allora militante del Partito comunista, veniva attaccato dai due dirigenti del partito per il suo modo di intendere la funzione dell'intellettuale e i rapporti tra cultura e politica. Gli si rimproverava da un lato la pretesa di affermare l'autonomia e la superiorità della cultura nei confronti della politica - quella creatrice di storia, questa invece operante nella dimensione della cronaca e del contingente -, così come la teorizzazione di un diretto rapporto tra intellettuale e masse indipendentemente dalla mediazione del partito; dall'altro il rifiuto di impe gnarsi sul fronte di una letteratura nazional-popolare in nome di un'apertura alle tendenze culturali di avanguardia europee e americane e, più in generale, alla grande cultura decadente europea.

Se sul primo punto aveva buon gioco Togliatti a rilevare l'inconsistenza della distinzione vittoriniana e a sostenere la dignità culturale della politica e i rapporti di dipendenza reciproca tra i due piani sulle scelte culturali e letterarie della rivista, il dissenso del Partito comunista sorgeva dalla preoccupazione di veder compromesso, da un'opzione a favore delle avanguardie letterarie, artistiche e filosofiche contemporanee, il rapporto di alleanza che si intendeva stabilire con gli strati intellettuali dei ceti medi e con lo stesso mondo accademico, entrambi cresciuti entro l'o rizzonte della tradizione umanistica e classicistica nazionale. Per non dire del fatto che si doveva fedeltà al realismo socialista professato dalla politica culturale dell'Urss.

E stato osservato che comune ad ambedue le posizioni a confronto era il modo ancora tradizionale, indifferenziato, sostanzialmente idealistico e ideologico, di in tendere la cultura e il ruolo degli intellettuali, dei quali sfuggiva quella trasformazione in massa sociale, bisognosa di veder modificate condizioni di lavoro e strutture organizzative su cui aveva a lungo riflettuto e richiamato l'analisi di Gramsci.

Per venire ora al profilo più specificamente filosofico del marxismo di ascendenza gramsciano-togliattiana, è da dire che lo storicismo e la letteratura umanistica del marxismo proposti dalla politica culturale del Pei suggerivano di privilegiare la centralità del rapporto uomo-società, e dunque il materialismo storico, a scapito del rapporto uomo-natura, e dunque del materialismo dialettico di ascendenza en- gelsiana. Esponenti tra i più significativi di questa tendenza sono Luigi Dal Pane (1903-79), Valentino Gerratana (1919-2000), Nicola Badaloni (1924) e più recentemente Aldo Zanardo (1931). Ma vi sono altri orientamenti assai lontani dalla matrice gramsciana e, più in generale, dall'umanismo marxista, che hanno animato il dibattito all'interno del marxismo italiano: dal collettivo raccolto intorno alle rivi ste "Quaderni rossi" e "Classe operaia" al cosiddetto "gruppo di Milano", raccolto per lungo tempo intorno alla figura di Geymonat, dalla scuola di Della Volpe a fi gure più appartate e non riconducibili a scuole determinate, come è il caso di Luporini o di Timpanaro.

Agli inizi degli anni sessanta, sia in seguito agli eventi drammatici del 1956 (rapporto Chruscëv e crisi ungherese), sia soprattutto per l'affermarsi di un capitalismo dinamico e aggressivo, capace di impadronirsi della struttura sociale del paese e di riplasmarla secondo i suoi fini, matura la crisi del marxismo storicistico di impianto gramsciano fino allora dominante, e insieme si consuma la prospettiva del blocco storico pensato da Gramsci stesso. Di contro si delinea un ripensamento del pensiero marxiano, alieno dal farne un uso filosofico e piuttosto orientato a restituirlo alla sua funzione di strumento teorico a servizio della lotta di classe.

Vanno in questa direzione, in aperta polemica con l'esperienza politica e ideologica del Partito comunista e della Cgil, i giovani studiosi e militanti politici e sindacali che si raccolgono intorno alla rivista "Quaderni rossi", apparsa nel 1961 e diretta da Raniero Panzieri, alle cui elaborazioni Mario Tronti avrebbe dato un contributo di indubbia rilevanza teorica, in particolare con il saggio Operai e capitale (1968), destinato a diventare il testo di riferimento dell'operaismo italiano.

L'elemento unificante della ricerca e del dibattito promossi dalla rivista, cui sarebbe succeduta nel 1964 "Classe operaia", sta, appunto, nell'orientamento operaistico, rivolto a esaltare la spontaneità della classe e la centralità della fabbrica come luogo privilegiato della lotta di classe, a scapito del momento organizzativo del partito e del sindacato. In presenza di un neocapitalismo pervenuto a livelli avanzati di ristrutturazione tecnologica della fabbrica, e allo stesso tempo capace di pervadere la società imponendole il proprio dominio culturale, l'operaismo sostiene che la contraddizione antagonista fondamentale è rappresentata dalla soggettività operaia, quale va maturando all'interno dello stesso processo capitalistico.

La scuola di Ludovico Geymonat (1908-1991), di cui hanno fatto parte Silvano Tagliagambe (1945), Felice Mondella (1928) ed Enrico Bellone (1938), pone al centro del proprio interesse il rapporto uomo-natura e il problema della conoscenza scientifica, proposti nei termini di un materialismo dialettico non dogmatico, attento agli sviluppi della scienza e al dibattito epistemologico contemporaneo. Geymonat, proveniente da una formazione neopositivistica ma poi approdato al materialismo dialettico, ha sostenuto la necessità di rimettere al centro del programma filosofico di questo materialismo il problema della conoscenza, rinnovandone radicalmente l'impostazione. In questa direzione, ha inteso recuperare la nozione - di origine leniniana - di «conoscenza dialetticamente vera [...] cioè di conoscenza perennemente trasformabile, capace sì di cogliere gradualmente la realtà, ma non di esaurirla una volta per sempre». Una nozione che, del resto, «viene suggerita da un'attenta e spregiudicata riflessione sull'effettivo procedere della scienza odierna». Soltanto muovendo da una siffatta concezione della conoscenza scientifica sarebbe possibile, secondo il gruppo di Milano, procedere alla costruzione di una ben fondata ontologia materialistico-dialettica.

Nel caso di Galvano Della Volpe (1895-1968) registriamo un percorso di pensiero che soltanto in un secondo momento sarebbe approdato sulla sponda del marxismo. Egli proveniva infatti dall'attualismo gentiliano, sotto la cui influenza aveva pubblicato i suoi primi scritti. Con La filosofia dell'esperienza di David Hume (1935-37) coincide il suo distacco dal filone idealistico che procede da Hegel fino a Gentile, e la sua conversione ai temi empiristici del concreto, del sensibile e del molteplice esistenziale, la cui positività il "platonismo" hegeliano avrebbe avuto il torto di sacrificare. Di qui Della Volpe sarebbe risalito allo sperimentalismo galileiano, riconoscendolo come sacrosanta reazione all'aristotelismo scolastico e autentica rivincita del genuino Aristotele, empirista e antiplatonico. Il passaggio al marxismo, maturato in scritti come Discorso sull'ineguaglianza (1943), La libertà comunista (1946), Per la teoria di un umanismo positivo (1949), Logica come scienza positiva (1950) e, infine, Rousseau e Marx (1964), viene a caratterizzarsi nell'interpretazione della critica del giovane Marx nei confronti di Hegel quale ideale prosecuzione di quella mossa da Galileo agli aristotelici e da Aristotele a Platone. Ne consegue un marxismo "galileiano" in radicale dissenso sia con il Diamat sovietico sia con l'hegelo-marxismo occidentale e lo storicismo gramsciano, impegnato a contrapporre alla dialettica logico-ideale della totalità astratta di Hegel quella che già in Marx sarebbe stata una logica storico-sperimentale articolata nel circolo concreto-astratto-concreto. Si tratta di quella che Della Volpe chiama astrazione determinata, quale si articola nei tre aspetti logico-gnoseologici comuni a ogni sapere scientifico: il dato problematico, storico-materiale, da cui prende inizio l'indagine; l'ipotesi razionale astratta; la verifica sperimentale di questa che consente la saldatura del circolo, nella reciproca integrazione di dato e ipotesi, di materia e ragione. Rifacendosi al Marx dell 'Introduzione del 1857 a Per la critica dell'economia politica, Della Volpe ritiene che, nel caso delle formazioni storiche concrete empiricamente date, l'astrazione determinata possa fungere da efficace critica dell'esistente, capace di incidere sui processi storici in corso. Alla linea ideale Aristotele-Galileo- Marx si accompagna poi nel marxismo dellavolpiano, ancora in funzione antihegeliana, la connessione Marx-Rousseau, secondo cui l'istanza democratica ed egualitaria del filosofo ginevrino sarebbe stata raccolta, piuttosto che dal pensiero libe- ral-democratico, dalla filosofia politica marxista.

Della Volpe ha offerto un interessante contributo anche ai problemi di estetica, proponendo in uno scritto come Critica del gusto (1960) una teoria estetica mate rialistica, anticrociana e antiromantica, ma anche ostile all'impianto sociologico delle estetiche marxiste "volgari". Contro la tesi crociana dell'arte come intuizione, egli rivendica il carattere intellettuale della conoscenza artistica. Se il linguaggio della poesia, e più in generale della letteratura, si distingue da quello della scienza non è per una pretesa assenza di contenuti concettuali, ma per il suo carattere poli senso rispetto all'univocità del linguaggio scientifico. Quanto alle altre forme artistiche, fermo rimanendo il carattere conoscitivo dell'arte come tale, esse si distinguono tra loro, e tutte dalla poesia, per i modi diversi dell'espressione. Di qui l'importanza della tecnica, che deve essere recuperata, contrariamente a quanto affermato da Croce e dalle estetiche spiritualistiche, quale fattore costitutivo del processo artistico. Circa il rapporto arte-società, Della Volpe sostiene che l'incidenza della socialità nell'opera artistica, e di questa nella società, dipende dalla specificità che caratterizza i diversi linguaggi artistici.

Tra i più noti discepoli di Della Volpe ricordiamo Umberto Cerroni (1926), Nikolao Merker (1931), Mario Rossi (1916-78) e Lucio Colletti (1924-2001). Quest'ultimo si è distinto per aver combattuto aspramente l'hegelo-marxismo fin dalla sua prima formulazione engelsiana - ne è emblematico documento II marxismo ed Hegel (1969) -, responsabile della confusione, indotta dall'interpretazione dialettica della realtà, tra contraddizione logica e opposizione reale. Nel 1974 la pubblicazione dell'Intervista politico-filosofica segna l'inizio di un progressivo distacco di Colletti dal marxismo per aver scoperto, contro quanto aveva appreso alla scuola di Della Volpe, che anche in Marx si annida il pensiero dialettico, che gli impedirebbe di essere autentico scienziato della società capitalistica moderna. Colletti finirà con il rimproverare al marxismo di essere una forma di utopismo, destinata a degenerare in tirannide. In alternativa, egli è venuto recuperando Kant secondo una linea interpretativa che passa per i sentieri aperti dall'epistemologia popperiana. E anche nel segno di Popper si delinea la sua conversione a posizioni politico-culturali di stampo liberal-democratico.

Non lontano per alcuni aspetti dalle posizioni dei "milanesi" è Sebastiano Timpanaro (1923-2000), autore, peraltro, di un interessante tentativo di innestare il materialismo edonistico e pessimistico di Leopardi, in alternativa al materialismo dialettico, nella tradizione del materialismo storico, dando forma a una visione del mondo che lui stesso chiama "marxismo-leopardismo"e che

mentre accetta l'analisi marxista della società e gli obbiettivi di lotta politico-sociale e culturale che sono con essa congiunti, per ciò che riguarda invece il rapporto uomo-natura si richiama soprattutto al materialismo vero e proprio (adialettico, "vol gare", se così piace chiamarlo) del Settecento e dell'Ottocento, all'edonismo che gli è organicamente connesso e alle conseguenze pessimistiche che, con maggiore coerenza e lucidità di chiunque altro, ne ha tratto il Leopardi.

Timpanaro ritiene che un aspetto discutibile del pensiero di Marx (anche se principalmente del Marx giovane), ma soprattutto di gran parte del marxismo occidenta le, sia costituito dalla tendenza a considerare il rapporto uomo-natura soprattutto nella dimensione economico-sociale del lavoro, quasi che la natura costituisse per l'uomo un condizionamento solo in quanto oggetto da dominare e trasformare attraverso il lavoro. Da questa impostazione discende naturalmente la tendenza a pensare che il tasso d'infelicità dell'uomo, via via che l'incivilimento lo ha reso sempre più indipendente dai fortissimi condizionamenti che la natura aveva esercitato su di lui sin dai primordi della storia, dipenda esclusivamente, o comunque prevalentemente, da fattori economico-sociali. La liberazione del lavoro realizzata con la fine del dominio e dello sfruttamento capitalistico, e l'instaurazione della società comunista dovrebbero pertanto condurre al superamento progressivo dell'infelicità umana.

Contro questi orientamenti, responsabili di condurre il marxismo a posizioni umanistico-storicistiche, idealistiche e antropocentriche, Timpanaro riafferma la priorità e irriducibilità dei condizionamenti biologici e ambientali con cui la natura incombe sulla vita umana (malattie, vecchiezza, morte, fugacità del piacere) e che nessuna riforma sociale potrebbe eliminare, al massimo limitare e contrastare. Di qui l'importanza del recupero del materialismo "volgare" e delle sue implicazioni pessimistiche, ben evidenziate da Leopardi (ma anche dal materialismo engelsiano depurato dell'impianto dialettico, intrinsecamente idealistico), contro i vari marxismi occidentali più o meno hegelianeggianti di Lukâcs, Korsch, Sartre. Anche Gramsci e il gramscianesimo risultano troppo condizionati dallo storicismo di origine idealistica.

Una posizione non riconducibile a nessuna delle correnti di cui sopra è quella elaborata da Cesare Luporini (1909-93) in scritti teorici che hanno avuto un'eco significativa nel dibattito internazionale degli anni sessanta e settanta. Critico nei confronti della scuola dellavolpiana, cui rimprovera un intellettualismo incapace di cogliere la storicità delle categorie gramsciane, in particolare egli dissente dalle in terpretazioni antropologico-filosofiche di Marx le quali, insistendo sulla continuità dell'opera del Marx maturo rispetto al periodo giovanile di influenza feuerbachia- na, ne oscurano la scientificità e la portata rigorosamente teorica. Per questi motivi Luporini è critico nei confronti delle letture storicistico-umanistiche di Marx e assai vicino alla tesi althusseriana della «rottura epistemologica», dalla quale, peraltro, si è distinto per aver rifiutato l'assolutizzazione che il marxista francese faceva delle "strutture" con la completa elisione della soggettività. Egli sostiene, al contrario, che la "scientificità" del discorso marxiano è consistita sì nel sottolineare il potere condizionante delle strutture, senza però mai dimenticare che le stesse sono infine in funzione degli individui umani viventi:

Francamente, nonostante i grandi meriti che sono da riconoscerle, tale interpretazione [di Althusser] ci sembra perdere per strada un termine che rimarrà sempre centralissimo nel discorso scientifico di Marx: gli individui umani nella loro pluralità individuale, che, congiunta al riconoscimento della loro concretezza sensibile, rappresenta in Marx il retaggio antispeculativo feuerbachiano [...] La "scientificità" del discorso di Marx consiste, mi sembra, anzi, proprio in questo: nel pensare le strutture in funzione degli individui (e viceversa) [...] Uno strutturalismo che perda [...] tale presupposto [...] è mera ideologia, anche se di apparenza scientifica.

10. Crisi o tramonto del marxismo?

a) Il marxismo d'opposizione nei paesi dell'Est

Anche prima dell'implosione dei regimi del "socialismo reale" nell'Urss e nei paesi dell'area sovietica, verificatasi con gli eventi del 1989-91, in alcuni di quei paesi, in particolare la Polonia, l'Ungheria e la Cecoslovacchia, si era registrato, anche in conseguenza dell'arresto del pur timido e limitato processo di destalinizzazione seguito al XX Congresso del Pcus, il declino del marxismo d'opposizione che aveva operato per una ripresa creativa del pensiero marxista fuori dai dogmatismi del marxismo-lenini- smo di Stato. Soprattutto dopo il fallimento, conseguito all'intervento militare sovietico del 1968, del riformismo comunista rappresentato dalla "primavera" di Praga, l'opposizione politico-culturale ai regimi comunisti in Cecoslovacchia, come anche in Ungheria e in Polonia, avrebbe fatto cadere l'ispirazione marxista che l'aveva animata inizialmente, e si sarebbe venuta a poco a poco caratterizzando in un senso amarxista, se non, addirittura, antimarxista. Testimonianze significative di questo processo sono gli itinerari, diversi tra loro ma destinati a incontrarsi nei loro ultimi esiti, di filosofi come il polacco Leszek Kolakowski (1927) e l'ungherese Agnes Heller (1929).

Il primo lavora fin dall'inizio a una revisione critica del marxismo in collisione con l'ideologia di regime. In polemica esplicita con lo stalinismo, egli rivendica il carattere di teoria "aperta" del marxismo e sostiene, ripercorrendo vie già tracciate dal revisionismo bernsteiniano, che il pensiero di Marx debba essere oggetto di seria discussione, per esempio là dove si caratterizzava per certe previsioni storiche rivelatesi erronee, quali la progressiva pauperizzazione della classe operaia o la polarizzazione della società capitalistica nelle due classi antagonistiche della borghesia e del proletariato con la conseguente scomparsa dei ceti intermedi.

Quanto agli aspetti "filosofici" del pensiero marxista, Kolakowski professa una forma estrema di soggettivismo umanistico, nella quale, in contrasto con il materialismo engelsiano e con la teoria del rispecchiamento, viene radicalizzato il tema marxiano del rapporto uomo-natura e teorizzato un concetto della natura quale prodotto dell'uomo. Della natura si può parlare solo in quanto relativa alla praxis, oggetto dei bisogni umani e, come tale, data esclusivamente all'interno della storia e della vita sociale degli uomini. Avverso al determinismo della filosofia del Diamat, Kolakowski approfondisce anche il tema della responsabilità etica dell'individuo, non abdicabile nemmeno in nome dell'oggettività dei processi storici. Di qui l'improponibilità dell'idea che il fine giustifichi l'uso di ogni mezzo e la condanna dei crimini commessi in nome del comunismo: «Nel concetto di comunismo sono contenuti altri valori, oltre ai rapporti di produzione e all'incremento del benessere, valori che contano come "fini in sé" e non solo come mezzi».

Espulso dal Partito comunista polacco nel 1966 e dall'Università di Varsavia nel 1968, Kolakowski abbandona la Polonia, si trasferisce in Nordamerica insegnando a Montreal, Berkeley e successivamente all'Ali Souls College di Oxford. L'abbandono del marxismo, maturato durante gli anni settanta, è documentato dall'apparizione di una storia del marxismo teorico, Nascita, sviluppo, dissoluzione del marxismo (1978), nella quale vengono criticate e rifiutate anche le forme di marxismo più antidogmatiche. Riconosciuto a Marx il merito di avere proposto con il suo materialismo storico un modo di interpretare i fatti storici e i fenomeni culturali che si è rivelato fecondo, Kolakowski nega che sia ancora necessario essere marxisti per accogliere «ciò che il marxismo ha introdotto nelle scienze umanistiche e soprattutto nelle scienze storiche», perché il marxismo

è diventato un fatto culturale basilare accettato da tutti [...] Per esempio, oggi non occorre né ritenersi marxista, né esserlo per studiare la storia della letteratura o dell'arte tenendo presenti i conflitti sociali dell'epoca presa in esame.

Quanto invece al marxismo come sistema generale, l'ex comunista polacco ritiene che di esso il comunismo "reale" sia una coerente applicazione, e dunque il catastrofico epilogo. Così egli conclude la sua ricostruzione storica:

Attualmente il marxismo non spiega il mondo, né lo cambia: è soltanto una miniera di slogan che servono a gestire diversi interessi che quasi mai hanno qualcosa in comune con gli ideali nei quali si identificava il marxismo nella sua forma originaria [...] L'autodeificazione dell'uomo, cui il marxismo ha dato espressione filosofica, si è conclusa come tutti gli altri tentativi del genere, si è rivelata come l'aspetto farsesco della schiavitù umana.

Di maggiore interesse, per gli arricchimenti apportati al pensiero marxista, è l'opera di Agnes Heller, allieva di Lukàcs fin dal 1947 e sua assistente all'Università di Budapest, dalla quale viene espulsa nel 1956 insieme al maestro con l'accusa di averne condiviso il revisionismo teorico. Ricercatrice dal 1963 presso l'Istituto di Sociologia dell'Accademia ungherese delle scienze, la Heller firma nel 1968 un manifesto contro l'intervento sovietico a Praga e, nel 1973, viene dimessa dall'Accademia per le sue posizioni teoriche. Nel 1977 lascia l'Ungheria, insegna per alcuni anni a Victoria, in Australia, e successivamente nella prestigiosa New School for Social Research di New York. In una serie di scritti come Sociologia della vita quotidiana (1970), Per una teoria marxista del valore (1970), La teoria dei bisogni in Marx (1973), Teoria dei sentimenti (1978), Teoria della storia (1981), la Heller ha elaborato i lineamenti fondamentali di un'antropologia marxista che esplora ambiti ignorati dalla stessa tradizione marxista, come la qualità della vita, il rapporto tra felicità e libertà, i problemi dell'esistenza quotidiana.

Nel quadro di una teoria dei "bisogni", ella distingue dai bisogni primari, relativi all'autoconservazione dell'individuo e della specie, propri di una "prima" natura umana biologicamente determinata, i bisogni propriamente umani, in cui si esprime la "seconda" natura psicosociale dell'uomo, interamente realizzantesi nella dimensione della cultura e della storia. Ma allora, una rivoluzione che voglia includere anche la trasformazione del modo di vivere degli uomini, nella prospettiva del marxiano «libero sviluppo delle capacità umane», non può prescindere dall'appagamento di questi bisogni, né, tanto meno, reprimerli. E vero, la società capitalistica è un luogo di alienazione, nel quale i bisogni più umani dell'individuo vengono sacrificati a bisogni indotti e alienati: l'aspirazione al denaro, la logica dell'"avere", il potere. Ciò non può però giustificare le società dei paesi comunisti, nelle quali il potere schiaccia la soggettività degli uomini, impedendone la libera esplicazione.

Il momento culminante della contestazione helleriana del sistema di potere tipico dei paesi del socialismo reale è rappresentato dallo scritto La dittatura sui bisogni, prodotto nel 1982 in collaborazione con Ferenc Fehér e György Markus, appartenenti anch'essi all'ormai dispersa Scuola di Budapest. In esso si rifiutano le interpretazioni delle società comuniste via via proposte, ora come forme di capitalismo di Stato, ora quali società fondate sul modo di produzione asiatico, ora come fossero un fenomeno di transizione. A esse si oppone la convinzione che si tratti piuttosto di sistemi coerenti e autoriproducentisi, costruiti sulla separazione permanente di un apparato di potere, gestore del piano di produzione e di distribuzione del surplus, dalla popolazione lavoratrice, i cui bisogni vengono coercitivamente regolati. Alla centralizzazione amministrativa della produzione e della distribuzione si ac-compagnerebbe l'atomizzazione dei consumi, con l'effetto di un'abrogazione o neutralizzazione dell'autonomia dell'individuo, la cui libertà viene soffocata da un'ideologia di regime permeante l'intera società civile. Questa contestazione così radicale delle società dell'Est conduce la Heller ad abbandonare anche il marxismo teorico cui finora aveva fatto riferimento, sia pur in una libera interpretazione del pensiero di Marx e dell'idea di comunismo. In questa direzione sono andate le prese di posizione della filosofa ungherese dopo il crollo del socialismo reale.

In occasione della partecipazione a due seminari di studio tenutisi in Italia all'inizio del 1992, ella ha per la prima volta considerato non più proponibili prospettive rivoluzionarie di radicale trasformazione della società. Sembra ora alla Heller che la libertà della persona e l'esigenza di una società aperta alla pluralità delle opzioni di vita dell'individuo - da sempre leitmotiv della sua ricerca - richiedano come loro precondizioni essenziali non solo le libertà civili, ma anche dimensioni di mercato incompatibili con un'organizzazione comunista della società. Dai rivolgimenti del 1989-91 l'antica allieva di Lukàcs sembra trarre come lezione l'idea che la modernità, identificata con le società liberaldemocratiche dell'Occidente capitalistico, non debba né possa più esser considerata una frontiera valicabile nella direzione di utopiche speranze di società mai viste, se non a rischio di nuovi e ancor più drammatici disincanti. La prospettiva proposta appare quella di un socialismo realisticamente riformatore, "altro" sia dal comunismo totalitario sia dalla variante liberista del capitalismo, ambedue collocati alle spalle della modernità.

b) Marx e il crollo del comunismo storico

Già negli anni dello stalinismo, e comunque dopo la caduta dei regimi comunisti, non poteva non imporsi con tutta la sua forza una domanda intorno al marxismo, che aveva costituito il fondamento ideologico di quelle esperienze. Gli stessi Marx ed Engels, del resto, avevano sostenuto che una teoria va giudicata in rapporto ai risultati conseguiti alla sua traduzione nella realtà. La domanda potrebbe essere così formulata: come è stato possibile che la prospettiva della più radicale liberazione degli uomini dallo sfruttamento e dall'oppressione che sia stata mai proposta nella storia del pensiero politico occidentale, quella contenuta nel Manifesto del partito comunista di Marx e di Engels, si sia rovesciata, lungo il corso del Novecento, nell'instaurazione in Europa di regimi autoritari, repressivi, intolleranti, di natura totalitaria, a cominciare da quello perfezionato da Stalin dagli anni trenta in poi, e sopravvissuto in Unione Sovietica fino al 1989?

Fare i conti con la storia è l'urgenza da rispettare in un qualsiasi dibattito sul pensiero di Marx, sul marxismo e l'idea di comunismo che voglia porsi al riparo da ogni interesse politico immediato, e non ridursi a facili anatemi o abiure frettolose. Non ci potrebbero essere, pertanto, tendenze più discutibili di quelle che, magari da versanti ideologici opposti, concordassero nel ritenere che nessun conto con la storia debba essere fatto, o perché la teoria marxiana del comunismo nulla o ben poco avrebbe a che fare con le realizzazioni storiche del socialismo reale, o, all'opposto, perché essa sarebbe già stata irreversibilmente liquidata dagli eventi straor-dinari del 1989-91.

Per affrontare brevemente una problematica ancora di stringente attualità e insieme così complessa, proviamo a registrare, in modo necessariamente schematico, alcuni tra gli orientamenti che sono andati emergendo nel dibattito finora sviluppatosi in Occidente.

a) Un primo gruppo di problemi ruota intorno alla questione, centralissima nel pensiero marxiano, della proprietà e del mercato.

Opinione di alcuni studiosi è che la prospettiva del comunismo marxiano dell'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione e del mercato, e l'alternativa prevista di un "piano comune" secondo cui assicurare la gestione della produzione e distribuzione della ricchezza prodotta, avrebbero avuto, come naturale e unico possibile esito, la pianificazione centralizzata dell'economia che nei paesi dell'Est ha dato luogo, altrettanto inevitabilmente, a società burocratizzate e tiranniche. L'idea, presente in Marx, della «libera associazione dei produttori» si sarebbe rivelata in tutta la sua patetica irrealizzabilità.

Altri, pur ammettendo che l'idea del "piano", e quella connessa del primato della produttività e della crescita delle forze produttive, rappresenta in Marx una pericolosa premessa a esiti autoritari, ritengono però che il comunismo marxiano, prima ancora che la questione della proprietà, avrebbe alla propria origine la richiesta di libertà come bisogno intrinseco dell'uomo, rispetto a cui il tema della proprietà sarebbe solo conseguente. Secondo costoro, il comunismo marxiano sarebbe la risposta alla richiesta imprescindibile di liberazione dal lavoro alienato, di riappropriazione del proprio essere, della quale l'abolizione della proprietà privata sarebbe soltanto una condizione, di per sé insufficiente. Si osserva, infatti, che il passaggio della proprietà da mani private a mani pubbliche non comporta di per sé disalienazione del lavoratore, in assenza di un mutamento dei rapporti sociali e qualora il lavoratore resti una "variabile dipendente" rispetto al capitale, sia pur divenuto pubblico. Essendo i rapporti sociali di produzione rimasti nei paesi del socialismo reale analoghi rispetto a quelli di tipo capitalistico (non riappropriazione del lavoro, riproduzione di gerarchie, mantenimento della separazione tra lavoro manuale e intellettuale e così via), ne è conseguito che in quei paesi permanesse l'alienazione del lavoro e rimanesse disattesa la libertà, valore fondante del comunismo marxiano.

b) Rispetto ai paesi a regime liberaldemocratico, nei paesi comunisti, all'alienazione economico-sociale si aggiungeva, in virtù dell'identificazione del partito con lo Stato, la carenza di garanzie giuridiche delle libertà individuali e la privazione della libertà politica. Questa è l'accusa fondamentale che viene formulata a carico del socialismo reale e, conseguentemente, del pensiero politico d'ispirazione marxista.

In effetti, è mancata in Marx una riflessione approfondita sulla natura dello Stato da edificare nel corso della rivoluzione socialista, sul rapporto che esso avrebbe dovuto stabilire con la società civile e con ogni suo singolo membro, con la conseguenza che non sono state da lui previste eventuali forme di repressione e oppressione diverse da quelle messe in atto dall'organizzazione capitalistica della società (sfruttamento, alienazione del lavoro e riduzione del lavoratore a merce), ma anch'esse lesive della libertà degli uomini. In altre parole, è mancata in Marx un'adeguata attenzione al problema delle garanzie giuridiche, delle condizioni formali necessarie per il rispetto dei diritti umani, di cui anche uno Stato socialista avrebbe dovuto dotarsi. Sua grave cecità sarebbe stata quella di pensare che, in una società liberata dai conflitti di classe e dal dominio degli interessi particolari, non sarebbe stato più necessario un ordinamento garantista degli ambiti di libertà degli individui. Tutto ciò ha lasciato aperto un varco attraverso il quale dovevano passare cattive concezioni dello Stato socialista, responsabili della creazione di forme statuali autoritarie e repressive. È stato, in particolare, Domenico Losurdo, allievo di Pasquale Salvucci, a offrire intorno a questa problematica un interessante contributo.

L'inadeguatezza marxiana relativa al problema dello Stato non dovrebbe, peraltro, far dimenticare - osservano altri studiosi - che proprio Marx ha avuto il merito di porre, sulla scìa di Rousseau, un problema vitale per la stessa democrazia moderna, senza risolvere il quale questa è condannata a perire e, comunque, a rimanere incompiuta. E cioè, la necessità di riempire di sostanza reale la libertà formale degli uomini, riscattando questi ultimi da quelle "dipendenze impersonali" imposte dai rapporti sociali capitalistici che, per il fatto di attraversare solo in modo latente la vita degli individui, non sarebbero meno ostative di una non effimera indipendenza individuale.

c) Una terza problematica riguarda il modo marxiano di concepire lo sviluppo economico da favorire in una società impegnata nella costruzione del socialismo. Marx riteneva che esso non potesse essere sostanzialmente diverso da quello che aveva caratterizzato fin dall'inizio l'affermarsi dell'economia e della società capitalistica. Uno sviluppo economico, dunque, fondato sul principio della produttività, sull'estensione illimitata della produzione e delle forze produttive, sulla sua dimensione puramente quantitativa, senza particolare considerazione del che cosa scegliere di produrre e del come produrre. Certo, non era facile ai tempi di Marx interrogarsi su un modello di sviluppo economico alternativo rispetto a quello di stampo capitalistico, anche per il fatto che si era lontani dal pensare che lo sfruttamento illimitato delle risorse della natura avrebbe potuto portare a mettere a rischio gli equilibri dell'ecosistema, al punto che ormai appare privo di futuro l'industrialismo che ha segnato il XIX e XX secolo.

Lo stesso Lenin - e questa non è l'ultima tra le ragioni dell'involuzione autoritaria della società nata dalla Rivoluzione d'ottobre - avrebbe optato per un modello di sviluppo economico mutuato dalla società capitalistica. Fin dal 1918 aveva affermato che l'enorme sviluppo materiale della produzione e della ricchezza realizzato dal capitalismo costituiva di per sé la base materiale su cui poteva venir edificata la società socialista; sarebbe bastato sovrapporre a quella base materiale la dimensione politica, rappresentata dall'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione e dalla statalizzazione della produzione. In base a questa convinzione Lenin poteva perfino spingersi a provare interesse per l'organizzazione capitalistica del lavoro di fabbrica che, fin dagli inizi degli anni venti, aveva conosciuto l'introduzione del taylorismo, ossia di tecniche che permettevano un crescente sfruttamento intensivo del lavoro operaio. Non si rendeva conto che affermare l'eredita- bilità da parte del socialismo dell'organizzazione capitalistica del lavoro avrebbe portato con sé conseguenze incompatibili con la liberazione del lavoro, inscritta quale meta essenziale nel programma comunista.

d) Un'ultima questione è relativa al problema se nel tardo capitalismo contemporaneo sia presente o meno, in atto o anche solo virtualmente, una forza antagonista che porti in se stessa la possibilità di realizzare il superamento della società capitalistica, oppure se quest'ultima contenga in sé le risorse valide a riassorbire anche le più violente contraddizioni che via via possono maturare al suo interno. È evidente che si tratta di una domanda decisiva per quanto riguarda la questione, emersa dalle più recenti vicende, della "fine del comunismo".

Innanzitutto è stato detto che, in conseguenza della rivoluzione informatica in atto nei paesi avanzati, ma anche delle profonde modifiche intervenute nella composizione del mercato del lavoro, si assisterebbe alla scomparsa, o quantomeno alla crescente marginalizzazione, di quella classe operaia tradizionale cui Marx aveva affidato il ruolo di affossatrice del capitalismo, e questo già di per sé comporterebbe il dissolvimento della prospettiva rivoluzionaria comunista. Di contro è stato osservato che il lavoro alienato, cui Marx guardava come alla contraddizione irresolubile ed esplosiva del modo di produzione capitalistico, non si identifica necessariamente e soltanto con il lavoro manuale, e che anzi, ai livelli più tecnologicamente sofisticati, l'alienazione può assumere un'intensità e una diffusione ancor più intollerabili. Continuerebbero pertanto a esistere, anche nel cuore del capitalismo metropolitano, forze e soggetti sociali potenzialmente antagonistici. Per non parlare del Sud del mondo dove, per le convenienze economiche del mercato, si tendono a mantenere vecchie tecnologie di produzione, e dunque una quota ancora molto alta di classe operaia tradizionale.

Ciò che, comunque, appare non più sostenibile oggi è l'idea, ancora dominante in Marx e diffusa nelle filosofie e nelle ideologie ottocentesche, che a fondamento dei processi storici sia la categoria della necessità, sicché il passaggio al comunismo sarebbe come già inscritto nella società capitalistica. Va peraltro detto che questo tramonto delle concezioni deterministiche della storia vale però anche per la questione della sopravvivenza del capitalismo, anch'essa non garantita da alcuna necessità storica.

 

18. La Scuola di Francoforte, Benjamin e il freudomarxismo

1. Le vicende della Scuola francofortese

I precedenti della Scuola di Francoforte risalgono al 1923, quando, nella città tedesca sul Meno, nasce l'Istituto per la ricerca sociale, fin dall'inizio affiliato all'università e riconosciuto ufficialmente dal Ministero dell'istruzione, nonostante fosse costituito da un gruppo di studiosi per lo più di esplicito orientamento marxista. Il primo direttore effettivo dell'Istituto è Karl Grünberg, uno studioso marxista austriaco, fondatore nel 1910 di una rivista, l'"Archivio per la storia del socialismo e del movimento operaio", cui avevano collaborato, tra gli altri, Lukâcs e Korsch, e che per alcuni anni sarebbe diventata l'organo dell'Istituto. Sono gli anni delle spe-ranze in un'imminente rivoluzione in Occidente, e Grünberg orienta l'attività dell'Istituto allo studio della società capitalistica, nella prospettiva del suo prossimo superamento nel socialismo, ma contemporaneamente rivendica il carattere antidogmatico e aperto del marxismo professato dai suoi membri e dichiara il rifiuto di qualsiasi forma di affiliazione politica. Non si vuole, infatti, scegliere tra la militanza nel Partito socialdemocratico, integrato nelle istituzioni della Repubblica di Weimar, e l'adesione al Partito comunista, subalterno alla politica di Mosca. La scelta è quella di dedicarsi alla pura attività teorica, segno, agli occhi del marxismo militante, di una sorta di aristocraticismo intellettuale.

Soltanto nel 1931 si può parlare della nascita dell'indirizzo che avrebbe preso il nome di Scuola di Francoforte, allorché Max Horkheimer assume la direzione dell'Istituto. È infatti per merito di questo intellettuale, professore di Filosofia sociale all'Università di Francoforte, che si ha la prima formulazione di quelle scelte teoriche e operative che avrebbero caratterizzato, da allora in poi, l'attività dell'Istituto, proposte dallo stesso Horkheimer già nella prolusione accademica su La situazione attuale della filosofia sociale e i compiti di un istituto per la ricerca sociale (1931). Quanto agli indirizzi teorici, si assume, sotto la particolare influenza della lukâcsiana Storia e coscienza di classe, il pensiero dialettico hegeliano quale punto di riferimento essenziale e insieme si riconosce nella psicoanalisi di Freud lo strumento, anch'esso fondamentale, per la comprensione profonda dei processi storico-sociali. Sul terreno operativo, si annuncia quel vasto programma di "ricerca sociale unificata", che i "francofortesi" avrebbero posto a fondamento della loro filosofia, proposta come teoria critica della società.

Attorno a Horkheimer si raccoglie un nutrito gruppo di autorevoli studiosi, specialisti di diversa competenza scientifica, ma convinti che solo un'analisi complessiva della "totalità" sociale, condotta secondo un criterio immune dalle angustie delle ricerche scientifiche particolari - dal «caos dello specialismo», come lo chiama Horkheimer -, consenta una comprensione critica della realtà umana. Tra costoro, i filosofi Theodor Wiesengrund Adorno ed Herbert Marcuse, gli economisti Henryk Grossmann e Friedrich Pollock, lo psicologo Erich Fromm, il critico letterario e filosofo Walter Benjamin, il sociologo Karl August Wittfogel, il sociologo della letteratura Leo Lowenthal. Nel 1932 inizia le pubblicazioni la "Rivista per la ricerca sociale", il nuovo organo della Scuola, destinato a vivere fino al 1941.

Marxisti e per la maggior parte di origini ebraiche, i francofortesi, in seguito all'ascesa al potere di Hitler, sono costretti all'emigrazione e, dopo un soggiorno di alcuni anni tra Ginevra e Parigi, molti di loro si trasferiscono, a partire dal 1934, negli Stati Uniti, dove a New York danno vita, presso la Columbia University, all'Istituto internazionale della ricerca sociale. Non si interrompono però i legami con l'Europa: a Parigi rimane aperta fino all'inizio della guerra una sede dell'Istituto, ed è nella capitale francese che appaiono nel 1936 gli Studi sull'autorità e la famiglia, esito della ricerca collettiva condotta dai francofortesi negli ultimi anni della loro attività europea. Alla fine della guerra si verifica una parziale dispersione del gruppo: mentre alcuni esponenti della scuola, tra i quali Marcuse e Fromm, preferiscono restare in America, Horkheimer, Adorno e Pollock fanno ritorno nel 1949 a Francoforte, dove, l'anno successivo, riaprono l'Istituto.

2. Capitalismo di Stato e totalitarismo

Per comprendere il senso e la portata della riflessione degli intellettuali francofortesi, occorre inquadrarla nelle vicende drammatiche del loro tempo, destinate a incidere significativamente nella storia del mondo: la crisi del 1929, il trionfo del fascismo e del nazismo, la perversione stalinista, la guerra, Auschwitz e la Shoah, e ancora, l'affermarsi dopo il 1929 del capitalismo di Stato e il diffondersi della società tecnologica avanzata con le sue opulenze ma anche con le sue insidie "totalitarie", che i nostri studiosi hanno l'agio di osservare da vicino negli Stati Uniti. Tutte queste vicende vengono lette seguendo un filo di continuità, secondo una logica tanto nascosta quanto stringente, sicché i francofortesi si trovano ormai lontani da quell'ottimismo rivoluzionario che aveva caratterizzato la loro riflessione durante gli anni venti e i primi anni trenta. Un'acuta consapevolezza del pervasivo potere di alienazione e "normalizzazione" dell'uomo, insito nella società di massa dell'epoca tardocapitalistica, finisce con il prevalere nelle loro analisi sociologiche, provocando, in alcuni casi, disincantati esiti pessimistici, poco conciliabili con l'iniziale ispirazione marxista.

Nel 1932-33, Pollock, già allora in piena sintonia con le posizioni di Horkheimer, conduce alcuni importanti studi sulle tendenze di fondo del capitalismo monopolistico contemporaneo, che lo awiano, soprattutto in presenza del New Deal roose-weltiano, a elaborare una teoria del «capitalismo di Stato» e delT«economia di piano», che incide profondamente sugli orientamenti successivi della Scuola. In contrasto con la teoria, dominante nei testi classici del marxismo, del crollo imminente del capitalismo, Pollock mostra come il crescente intervento dello Stato nell'economia, finalizzato al sostegno delle grandi imprese private, consenta al sistema capitalistico una sopravvivenza prolungata nel tempo, nonostante che la sua irrazionalità di fondo sia destinata a provocare crisi persistenti, a causa del carattere strutturalmente anarchico della produzione.

Non poteva essere più grande la distanza di Pollock, e con lui degli altri studiosi francofortesi, dal marxismo socialdemocratico del tempo, che con Kautski era venuto affermando, avendo rifiutato anch'esso la teoria del crollo, che la tendenza del capitalismo a darsi strumenti di autocontrollo e di razionalizzazione dei meccanismi del proprio funzionamento avrebbe favorito l'assunzione progressiva da parte dello Stato di un potere di intervento di segno democratico nella vita economica della società. Al contrario, l'economista francofortese si andava convincendo che il capitalismo di Stato così come veniva profilandosi, avrebbe assunto caratteri sempre più autoritari, di centralizzazione del potere, con la formazione di "burocrazie governative", intrecciate con gli interessi dei grandi manager dei monopoli industriali e finanziari. La crisi del liberalismo e la stessa affermazione dello Stato totalitario nazifascista avevano origine, per l'appunto, nell'avvento del capitalismo di Stato.

Lungo il corso degli anni trenta, Marcuse e Pollock pubblicano scritti nei quali sostengono tesi di inedita radicalità: l'uno afferma che lo Stato totalitario nazista, avendo in comune con il liberalismo la medesima base sociale - la proprietà capitalistica -, non ne sarebbe che una variante, generatasi da esso nell'epoca del capitalismo monopolistico; il secondo, che il totalitarismo nazista non sarebbe che la piena esplicitazione della natura intrinsecamente autoritaria del capitalismo di Stato. Horkheimer, per parte sua, esprime al proposito un tagliente giudizio, secondo cui «il fascismo è la verità della società moderna».2

Neppure il comunismo sovietico sfugge al severo giudizio di Horkheimer e Marcuse, i quali negano ogni sua parentela con la concezione marxiana del comunismo, e vi riconoscono addirittura un'affinità con il totalitarismo fascista: anch'esso si sarebbe rivelato una forma di capitalismo di Stato, resa anche più piena e coerente dall'abolizione del capitale privato, con la conseguente attribuzione al potere statuale, vero e proprio Moloch mostruoso, di un dominio onnipervasivo sulla società civile.

Negli Stati Uniti i francofortesi avrebbero avuto modo di studiare da vicino l'esempio più avanzato di società ad alto sviluppo tecnologico. Orientati a considerare di marginale importanza le istituzioni liberal-democratiche della società americana, essi la ritengono il prodotto di un processo di interiorizzazione a livello di massa dei modelli di comportamento indotti dal potere e imposti attraverso la potente macchina delY industria culturale. Costituita dai mass media - cinema, radio, televisione, giornali, pubblicità -, essa organizza e predetermina la vita intera degli uomini, quella del lavoro come quella del tempo libero, non solo i loro consumi ma anche i bisogni, le opinioni, i valori. Stereotipi spersonalizzanti e alienanti soffocano le potenzialità creative dell'individuo, cancellano le differenze nell'uniformità di comportamenti seriali, contrassegnati dal passivo adattamento alla realtà, così come è voluta dal potere dominante. Nel cuore stesso della società che rappresenta il prodotto più avanzato della moderna civiltà, fondato sul primato dello spirito scientifico e della tecnologia più raffinata, si dispiega in tutta la sua disumana potenza integratrice quello stesso totalitarismo che in Europa si è espresso nei fenomeni del nazismo e dello stalinismo.

Le analisi, le ricerche e gli enunciati sociologici e filosofici della Scuola di Francoforte si sarebbero imposti all'attenzione degli studiosi e del pubblico internazionale solo molto più tardi, nel rinnovato clima culturale e politico degli anni sessanta e settanta, allorché si assiste a una vera e propria esplosione di interesse e di popolarità intorno agli intellettuali di Francoforte, a Marcuse in particolare, i cui libri - celebri tra tutti Eros e civiltà e Luomo a una dimensione - hanno una straordinaria diffusione.

Il marxismo eterodosso e libertario dei francofortesi, la loro teoria critica della società che metteva a nudo gli effetti alienanti della società dei consumi e dei mass media, la loro contestazione del "sistema" nella prospettiva di una rivoluzione che non ripercorra le strade che avevano condotto alla società burocratica e autoritaria sovietica, e anzi significhi la liberazione globale da tutte le servitù materiali e spirituali, troveranno ascolto nelle giovani generazioni degli Stati Uniti e dei paesi capitalistici occidentali. Sono le generazioni che si oppongono alla guerra in Vietnam, delle rivolte nei campus universitari americani, del Maggio francese e della contestazione studentesca in Germania, in Italia e negli altri paesi euro-occidentali, degli entusiasmi internazionalistici, del mito terzomondista di Che Guevara, della rivoluzione culturale cinese.

Eppure, eccezion fatta forse per Marcuse, non sembra attendibile la tendenza, talvolta affiorata, che vorrebbe fare dei francofortesi i "padri" della contestazione sessantottesca. Osta l'insistenza con cui, per esempio, Adorno e Horkheimer hanno sempre rifiutato la traduzione della loro teoria critica della società in concreti programmi d'azione, poiché questo avrebbe comportato, ai loro occhi, la compromissione con la realtà oggetto di critica. Estranei al convincimento marxiano dell'inerenza della teoria alla praxis trasformatrice del mondo, essi hanno sempre rivendicato l'autosufficienza della teoria, considerata di per sé pratica contestativa dell'esistente. Per questo loro teoricismo si sono sempre rifiutati di assumere il ruolo dell'intellettuale militante, tanto da venir una volta definiti intellettuali «disorganici»,3 a sottolinearne la lontananza dall'intellettuale "organico" di gramsciana memoria. Paradossale è che, proprio negli anni del successo delle loro dottrine tra i giovani contestatori del '68, Horkheimer e Adorno si fossero già distanziati dal marxismo e dalle prospettive rivoluzionarie cui fino ad allora avevano guardato.

3. Un marxismo eterodosso, il rapporto con Hegel, Auschwitz

L'ispirazione marxistica della Scuola di Francoforte è lontana sia dal marxismo ufficiale, legato alle organizzazioni partitiche, sia da quello di stampo socialdemocratico, che aveva trovato voce nel Kautsky "revisionista" degli anni venti, sia da quello d'impronta staliniana dei partiti comunisti europei, che essi giudicano aberrante. Semmai, punto di riferimento è il marxismo del giovane Lukâcs, per la sua impronta hegeliana, il rifiuto della dialettica della natura, l'insistenza sulle categorie della totalità e della reificazione, l'antieconomicismo e l'antideterminismo; e, comunque, anche nei confronti di Lukâcs, si prendono le distanze dal suo legare strettamente la teoria al momento organizzativo del partito.

Le dissonanze di questi intellettuali radical-marxisti dalla classica lezione del marxismo sono parecchie e rilevanti. Innanzitutto essi dissentono dall'impostazione "industrialista" del discorso marxiano e marxista, e rifiutano di considerare scienza e tecnologia quali valori neutri e oggettivi, creature sì della borghesia e piegate ai suoi scopi di dominio di classe, ma che il proletariato avrebbe ragione a far propri, volgendoli al fine della propria emancipazione. Coerente con questo rifiuto dei valori incorporati nella Rivoluzione industriale moderna, di cui sarebbe inevitabile esito l'odierna società unidimensionale e totalitaria, è poi la messa in discussione - ancora una volta in dissenso con il marxismo ufficiale - anche dell'eredità illuministica del 1789, che Horkheimer, in uno scritto del 1939, con intenzione provocatoria, giudicava portasse in sé, «fin dall'inizio, la tendenza al nazismo».4 Infine, è l'idea stessa della classe operaia come protagonista della rivoluzione a essere oggetto di rifiuto: in consonanza con analoghe tendenze presenti nel marxismo statunitense - si pensi a Sweezy -, e dietro l'esempio americano di classe operaia, se ne dà per consumata l'integrazione nella società capitalistica, mentre si ricercano nuovi soggetti rivoluzionari negli emarginati, negli intellettuali "critici", nei popoli del Terzo mondo.

Non può meravigliare che anche sul piano più strettamente teorico, il "marxismo francofortese" appaia eterodosso e "deviante", fino a quando la "teoria critica della società", con la quale Horkheimer e Adorno esprimono le loro idee "marxiste", avrebbe assunto nelle sue ultime formulazioni, durante gli anni della guerra mondiale e particolarmente negli anni sessanta, un significato ormai assai lontano dall'alveo originario del pensiero marxista. Fin dall'inizio, la filosofia francofortese si fa forte di un radfcamento dialettico-hegeliano; quanto più Lukâcs si sarebbe allontanato dall'hegelismo di Storia e coscienza di classe, tanto più si sarebbe fatto intenso il confronto di Horkheimer, Adorno e Marcuse con Hegel - e solo attraverso di lui con Marx -, nell'intento, peraltro, di mettere il filosofo idealista in contraddizione con se stesso. Scritti illuminanti sono, in questo senso, Ragione e rivoluzione (1941) di Marcuse, di cui tratteremo più avanti, e, soprattutto, Tre studi su Hegel (1963) e Dialettica negativa (1966) di Adorno.

Adorno non è avaro di riconoscimenti per la filosofia hegeliana che ha avuto il merito di introdurre la contraddizione nel cuore della realtà, di aver insistito, in scritti di grande suggestione come la fenomenologia dello spirito, sul «travaglio del negativo», di aver formulato, insomma, una concezione storico-dialettica preziosa per chiunque voglia aprire la strada a una contestazione rivoluzionaria della realtà, armata di un'efficace strumentazione teorica. Ma Hegel è venuto meno a questa prospettiva quando ha preteso di ricondurre le contraddizioni della realtà a una finale e conciliante unità che, sacrificando alla propria logica "assimilatrice" l'"al-tro" e il "diverso", forzando il particolare al dominio dell'universale, si risolve in una legittimazione e consacrazione dell'esistente. Di Hegel è inaccettabile il "sistema", l'identificazione di essere e pensiero, di ragione e realtà, responsabile della persecuzione di tutto ciò che rifiuti di lasciarsi assimilare all'identità armonica del tutto, allo spirito come unità di soggetto e oggetto. Una siffatta filosofia, per il suo idealismo, per la pretesa inaccettabile di afferrare, in forza del pensiero, la totalità del reale, è viziata «da uno zelo paranoico di non tollerare nient'altro che se stessa».5 A essa Adorno oppone la dialettica negativa la quale, negando l'annessione dell'essere al pensiero, rifiuta anche la sintesi integratrice delle opposizioni che dilacerano il reale nell'uniformità di una finale, consolatoria unità.

In questa revisione della dialettica hegeliana Adorno si avvale anche del contri buto di Kierkegaard, cui egli aveva dedicato nel 1933 il suo primo saggio; il che non gli impedisce di imprimere al proprio pensiero un'inclinazione "materialisti ca", in vista di accogliere il senso della proposta marxiana di radicale messa in di scussione dell'esistente. La materialità dell'oggetto, la sua irriducibilità al pensiero, non deve indurre la ragione - come vorrebbero le filosofie irrazionalistiche, com presa quella kierkegaardiana - a riconoscere la propria impotenza ad afferrare lu realtà, dopo di che l'unica via d'uscita non sarebbe che quella dell'evasione nella trascendenza o nella disperazione. Al contrario, il riconoscimento che la realtà non è razionale conferisce alla ragione il compito di approntare le condizioni che consentano alla realtà di diventare razionale. E un compito questo che oggi si è fatto ancor più urgente e insieme più arduo: le contraddizioni che attraversano e lacerano la realtà e la rendono inaccettabile, sono state, infatti, portate a estrema tensione da eventi tragici che culminano drammaticamente nell'esperienza di Auschwitz, dopo la quale ogni tentativo di giustificazione dell'assetto del mondo moderno non potrebbe che apparire indecente. Le parole con cui Adorno proclama il fallimento di tutta un'intera cultura, sono di una violenza commisurata alla tragedia che esse vogliono denunciare:

Auschwitz ha dimostrato inconfutabilmente il fallimento della cultura. Il fatto che potesse succedere in mezzo a tutta la tradizione della filosofia, dell'arte e delle scienze illuministiche, dice molto di più che essa, lo spirito, non sia riuscito a raggiungere e modificare gli uomini.

Ma Auschwitz, l'apice del "negativo" prodottosi nella storia, è anche un appello alla ragione perché proponga un nuovo dover essere secondo cui modificare la realtà: «Hitler ha imposto agli uomini nello stato della loro illibertà un nuovo imperativo categorico: organizzare il loro agire e pensare in modo che Auschwitz non si ripeta, non succeda niente di simile».7 Che realtà e ragione non coincidano, che la cosa sia così lontana dall'adeguare il concetto, non può essere un alibi, non può significare la resa all'esistente, ma, al contrario, l'impegno della ragione critica a far sì che quella coincidenza si avveri.

Un'«utopia negativa» è la proposta che Adorno - ma più in generale, la Scuola di Francoforte - viene maturando in questi anni. Utopia, perché, come ha insegnato Ernst Bloch, l'esistente dev'essere criticato alla stregua di ciò che non è ancora, ossia di un futuro radicalmente "altro" dal presente; negativa, per il fatto che del futuro, a differenza di quanto hanno da sempre ritenuto i pensatori utopici, compreso lo stesso Bloch, non si può dire nulla. Il pensiero critico trova spazio per l'analisi contestativa del presente, ma non può che rimanere muto dinanzi al futuro. Ben poco è destinato a rimanere dell'autentico pensiero di Marx in questa teoria critica della società, ridotta ora a "utopia negativa". Sono poco disposti i filosofi di Francoforte a misurarsi sul classico terreno della critica dell'economia politica, inclini piuttosto a limitarsi a studiare gli apparati ideologici della società capitalistica. Tant'è vero che ai fattori strutturali, di ordine economico-sociale, che Marx e il marxismo ponevano all'origine della formazione sociale capitalistica - e che essi avevano sempre dati per scontati, lasciandoli, peraltro, sempre sullo sfondo delle loro analisi - vanno ora sempre più apertamente sostituendo, quale responsabile dell'ordinamento sociale capitalistico - ma anche di quello dell'Urss -, la logica del dominio, come amano esprimersi. Si tratta di un fattore essenzialmente sovrastrut-turale, a contraltare il quale non si vede come possano delinearsi una praxis e un soggetto riconoscibili in una classe sociale storicamente determinata.

La disincantata consapevolezza dell'improbabilità della rivoluzione socialista spiega a sufficienza l'aristocratico quanto amaro isolamento intellettuale nel quale Adorno ed Horkheimer vanno ora, e per sempre, chiudendosi.

4. Fromm: psicoanalisi e teoria critica della società

I francofortesi hanno utilizzato ampiamente i contributi offerti dalla psicoanalisi per la spiegazione di come il potere riesca a ottenere la sottomissione permanente degli individui e delle classi subalterne, altrimenti impossibile mediante l'esclusivo ricorso a mezzi apertamente e brutalmente coercitivi. Incontrandosi con chi, come Wilhelm Reich, all'interno della stessa scuola freudiana andava già tentando d'integrare psicoanalisi e marxismo, Horkheimer, Fromm e Marcuse s'impegnano fin dai primi anni trenta in una complessa indagine che si sarebbe conclusa con la pubblicazione degli Studi sull'autorità e la famiglia (1936).

Fra tutte le istituzioni sociali, la famiglia, più specificamente di ogni altra, assolve al compito di promuovere, attraverso la figura del padre, l'interiorizzazione del comando e dell'autorità sociale. Fromm in particolare mostra come attraverso il Super-io, l'istanza psichica teorizzata da Freud, il condizionamento sociale può trasferirsi nell'interiorità dell'individuo. A differenza però di Freud, che aveva fatto della formazione del Super-io un processo tutto interno alla privatezza dei rapporti intrafamiliari - un esito dello scioglimento del complesso edipico - solo derivatamente integrato da componenti sociali, Fromm intreccia in un rapporto interattivo condizionamento paterno e condizionamento sociale, facendo dell'autorità del padre il veicolo, all'interno della famiglia, delle autorità sociali e pubbliche e, di queste, una proiezione della figura paterna. Così argomenta lo psicologo francofortese:

Quando Freud dice che nel corso del tempo i rappresentanti della società si affiancano alla figura del padre, questo è giusto in un certo senso esterno e temporale, ma tale affermazione deve essere integrata dall'affermazione inversa, e cioè che il padre si affianca alle autorità dominanti nella società. Infatti, l'autorità di cui il padre gode nella famiglia non è un'autorità casuale, "integrata" in seguito dalle autorità sociali; l'autorità del pater familias si fonda in ultima analisi sulla struttura autoritaria della società nel suo insieme. Il padre nella famiglia è sì di fronte al figlio il primo (nel tempo) mediatore dell'autorità sociale, ma di questa egli è (nel contenuto) non il modello, ma il riflesso.8

Molto distante dal freudomarxismo rivoluzionario di Reich e decisamente orientato in senso revisionista e moderato appare il neofreudismo del Fromm "americano", il cui libro più noto e significativo rimane Avere o essere? (1976). In quest'opera Fromm attribuisce alla categoria dell'avere (che nel campo economico è definita dalla proprietà privata) il risentimento e l'invidia che sono alla base dei conflitti sociali. La modalità dell'essere ha invece come requisiti la libertà e la presenza della ragione critica. Essa si manifesta nel lavoro produttivo, che non è necessariamente quello dell'artista e dello scienziato. La modalità dell'essere è essenzialmente religiosa anche se esclude dogmi e istituzioni. Fromm ne scorge gli annunci profetici nel buddismo e nell'Antico Testamento, nei Vangeli e in Marx, in Spinoza e in Freud, nei mistici medioevali e nel dottor Schweitzer. Egli ha poca fiducia nei tentativi e nei progetti che sono stati fatti finora per rinnovare la società: il comunismo sovietico e il socialismo riformistico dell'Occidente vengono coinvolti nella stessa condanna, che tuttavia non si estende all'opera originaria di Marx e specialmente all'umanesimo degli scritti giovanili. Fromm è anche contrario all'ugualitarismo indiscriminato, da lui identificato con il «comunismo rozzo» già condannato da Marx. La società nuova dovrebbe rafforzare il pluralismo delle iniziative e, nello stesso tempo, tendere alla pianificazione, favorendo la crescita ordinata dell'economia e della ricerca scientifica, in modo da garantire la sicurezza degli individui, senza menomarne l'indipendenza. Queste trasformazioni equivarrebbero a un nuovo tipo di sistema economico, diverso, egli dice, sia dal capitalismo moderno, sia dal capitalismo di Stato centralizzato di marca sovietica come pure dalla burocrazia assistenziale totale di stampo scandinavo. Fromm è contrario sia al totalitarismo sia alla burocrazia e vorrebbe invece la creazione di un «Supremo Consiglio Culturale», costituito dai rappresentanti dell'élite intellettuale e artistica di ogni paese, che avesse il compito di consigliare gli uomini politici e i cittadini sulle questioni che richiedono conoscenze precise. E alla base di ogni mutamento ci dovrebbe essere la vittoria sull'egoismo, la preoccupazione nei confronti dei propri simili e anche soprattutto delle generazioni future. Negli ultimi tempi, Fromm si è quindi sentito il profeta di una nuova Città dell'Essere, capace di concretizzare le istanze di un socialismo umanistico e comunitario fondato sulla disponibilità a rinunciare all'avere «per essere senza residui».

5. La Dialettica dell'illuminismo: una ragione strumentale ed eterodiretta

Nato a Stoccarda nel 1895, Max Horkheimer cresce in una famiglia della ricca borghesia ebraica. Avviato alla professione commerciale, la abbandona ben presto per dedicarsi agli studi filosofici per i quali aveva mostrato, sin dalla giovinezza, in teresse e passione. In particolare la filosofia di Schopenhauer eserciterà sempre su di Lui un grande fascino, tanto che, nell'ultima fase del suo itinerario intellettuale, essa avrà un ruolo determinante nel suo distacco dal marxismo. Laureatosi nel 1922 con una tesi su Kant, presenta più tardi un lavoro sulla Critica del giudizio, che gli avrebbe valso l'abilitazione all'insegnamento. Da quel momento la sua vita intellettuale si sarebbe identificata con la storia dell'Istituto per la ricerca sociale di Francoforte.

La fase propriamente marxista del suo pensiero è consegnata agli scritti degli anni trenta, apparsi in gran parte sulle pagine della "Rivista per la ricerca sociale", e che solo dopo molte perplessità, ormai allontanatosi definitivamente dal marxismo, egli si sarebbe deciso, nel 1969, a raccogliere in due volumi destinati alla pubblicazione sotto il titolo di Teoria critica. Già in Dialettica dell'illuminismo, il suo saggio più importante, composto in stretta collaborazione con Adorno durante gli anni della guerra e pubblicato nel 1947, e in Eclisse della ragione dello stesso anno, una raccolta di conferenze tenute nel 1944 alla Columbia University, appaiono i primi chiari segni della crisi del marxismo di Horkheimer - e di Adorno - e l'emergere di quei toni pessimistici che più tardi avrebbero dominato la sua riflessione. Non doveva essere stata ininfluente l'esperienza del modello sociale statunitense maturata in quegli anni e dell'enorme potere di integrazione che la società di massa è in grado di esercitare, tanto da far dissolvere la fiducia nelle potenzialità rivoluzionarie delle classi lavoratrici.

Non per caso, nello scritto del 1947, Horkheimer e Adorno non guardano più, secondo modalità e procedimenti coerentemente marxisti, alla struttura materiale della società, e nemmeno cercano più il motore della storia nella lotta delle classi. La loro attenzione si concentra sui caratteri della società tecnologica moderna, sul dominio violento che l'uomo occidentale va esercitando sulla natura e che appare responsabile, ai loro occhi, della corrispondente violenta manipolazione dell'uomo da parte dell'uomo, quale si consuma nel totalitarismo di questa società. E così che essi capovolgono il punto di vista marxista: non sono le strutture proprietarie e il modo di produzione della società capitalistico-borghese a generare la logica del dominio, ma viceversa è questa, quale caratteristica genetica della moderna civiltà, a produrre quelle strutture. Con la conseguenza implicita che non potrebbe mai essere la rivoluzione socialista, con l'abolizione dei rapporti di produzione capitalistici - l'esperienza sovietica insegna - a liberare l'umanità dall'oppressione dell'uomo sull'uomo.

Ma lo sguardo di Horkheimer e di Adorno va ben oltre la critica della società borghese nella sua determinatezza storica: essi sottopongono a giudizio l'intera ci viltà occidentale, risalgono ai suoi tempi più remoti e originari, amplificano il signi ficato del termine "borghese", fino a riconoscere nell'Odissea omerica «uno dei primissimi documenti rappresentativi della civiltà borghese occidentale».9 Allo stesso modo essi usano il termine "illuminismo" (Aufklärung), storicamente con nesso con quello di borghesia, e intorno a esso organizzano l'intero loro discorso.

Non è l'illuminismo, semplicemente, la specifica cultura settecentesca, che semmai è il momento di maturità del processo cui essi guardano; esso è l'atteggiamento culturale dell'uomo nei confronti della natura, che ha preso le mosse dall'ideale scientifico moderno, formulato da Bacone e da Cartesio, del sapere razionale come strumento di dominio della natura da parte dell'uomo. Anzi, in un'estrema amplificazione del suo significato, Horkheimer e Adorno giungono a identificare l'evento illuminismo con il momento nel quale ha avuto inizio la stessa civiltà umana: quando cioè l'uomo, per vincere la paura nei confronti del mondo oscuro e misterioso che lo circonda, avvia, con l'invenzione dei primi utensili, i procedimenti della ragione che gli consentono di impadronirsi progressivamente della natura e di sottoporla al proprio dominio.

Ma l'illuminismo è sottoposto a un'interna dialettica destinata a rovesciarlo nel proprio contrario. Contro l'opinione avanzata da Lukâcs ne La distruzione della ragione, secondo cui la crisi della ragione contemporanea sarebbe determinata dall'aggressione di tendenze esterne a essa, di natura irrazionalistica, quali quelle indotte dal fenomeno imperialistico, i due francofortesi ritengono che è lo stesso illuminismo, nato per liberare gli uomini dai miti, per avviarli a un ordine razionale e renderli padroni della natura e di se stessi, a produrre invece nuovi miti: la scienza, la tecnologia, il progresso, l'efficienza. E l'illuminismo a generare una nuova irrazionalità, ad asservire gli uomini a quella stessa logica di sopraffazione con cui hanno voluto asservire la natura, sicché il dominio dell'uomo sulla natura si converte nel dominio dell'uomo sull'uomo.

Ma vediamola all'opera questa "dialettica dell'illuminismo" che conclude alla sua "autodistruzione". Nell'età moderna dell'illuminismo la ragione ha cessato di essere ragione "oggettiva", sotto la tutela di una verità che sapeva dare un senso, uno scopo alla vita degli uomini; essa si è trasformata in ragione "soggettiva", meramente formale, non più chiamata a giudicare della validità oggettiva dei fini che gli uomini si prefiggono. La ragione illuministica è una ragione "strumentale", priva di una propria finalità, eterodiretta, perché asservita alla logica extrarazionale del potere, limitata a stabilire i mezzi più efficaci per realizzare fini - irrazionali -da essa non decisi. Questo è, appunto, il processo di autodistruzione dell'illuminismo, che culmina nella società tecnologica e autoritaria di oggi, così scientifica e razionale nella predisposizione dei mezzi, quanto irrazionale nel perseguire i fini voluti dall'arbitrio di chi detiene il potere. Una miscela di razionalità strumentale e di irrazionalismo di fondo che si è espressa sia nella scientifica pianificazione nazista dello sterminio, sia nella programmazione "razionale" di una società massificata, dominata ò&Windustria culturale. Quest'ultima, una forma di «illuminismo come mistificazione di massa»,10 è responsabile, attraverso l'opera dei mass media e della pubblicità divenuta l'arte per eccellenza, della riproduzione di uomini sem-pre più uguali tra loro, sempre più succubi e conformisti, ridotti a semplici consumatori da classificare e organizzare, in'modo tale da impadronirsi saldamente di loro e di predeterminarne e condizionarne ogni iniziativa:

Per tutti è previsto qualcosa, perché nessuno possa sfuggire; le differenze vengono coniate e diffuse artificialmente. Il fatto di offrire al pubblico una gerarchia di qualità in serie serve solo alla quantificazione più completa. Ognuno deve condursi, per così dire spontaneamente, secondo il suo level determinato in anticipo da indici statistici, e rivolgersi alla categoria di prodotti di massa che è stata preparata per il suo tipo. Ridotti a materiale statistico, i consumatori vengono ripartiti sulla carta geografica degli uffici studio [...] in gruppi di reddito, in campi rossi, verdi e azzurri.

All'origine di questo «nuovo genere di barbarie» in cui l'umanità va sprofondando c'è, affermano Horkheimer e Adorno riecheggiando un vecchio motivo romantico, la rottura dell'armonia originaria tra uomo e natura, una scissione che, quasi come un peccato originale, ha prodotto fenomeni di portata drammatica.

Innanzitutto essa ha ridotto la natura a oggetto, promuovendo una visione del mondo quale "preda" di cui impossessarsi. Di esso, per assoggettarlo alla manipolazione dell'uomo, viene messo tra parentesi ogni aspetto qualitativo e compiuta una totale quantificazione. In nome della logica dello scambio, elemento fondamentale della società borghese, che tutto costringe a equivalenza, la natura viene ridotta a numero e misura, e la scienza, in primo luogo la matematica, diventa lo strumento privilegiato di questa dissacrazione:

La società borghese è dominata dall'equivalente. Essa rende comparabile l'eterogeneo riducendolo a grandezze astratte. Tutto ciò che non si risolve in numeri, e in definitiva nell'uno, diventa, per l'illuminismo, apparenza; e il positivismo moderno lo confina nella letteratura. Unità rimane la parola d'ordine, da Parmenide a Russell.

Ne deriva una corrispondente deformazione dell'uomo. Si produce una reificazione del pensiero, che il procedimento matematico trasforma in "cosa", "strumen to". Una volta ridotto l'oggetto a "materiale di sfruttamento", passibile di qualunque manipolazione, è l'uomo stesso, in quanto soggetto posto al centro del mondo (secondo la lucida teorizzazione kantiana), a ridursi a pura attività formale che ck termina a priori gli schemi secondo cui deve essere unificato il materiale caoti<>> delle sensazioni. Emerge così il carattere "totalitario" dell'illuminismo: il monili > ha da essere quale il borghese lo vede a priori. In questo senso, Kant non ha fatto altro che anticipare ciò che oggi l'industria cinematografica produce consapevol mente: a Hollywood, infatti, «le immagini sono censurate in anticipo, all'atto stesso della loro produzione, secondo i moduli dell'intelletto conforme al quale dovranno essere contemplate».12

Questa soggettività "paranoica", che incorpora in sé il mondo e ne fa «un'occasione per il suo delirio», non è sola a rappresentare l'alienazione dell'uomo. La fatica necessaria alla civiltà per realizzare il dominio sulla natura esterna richiede anche, come Freud ha sottolineato, un esercizio di repressione della natura interna dell'uomo, dei suoi istinti e del suo desiderio di felicità. L'uomo "borghese" deve sacrificarli a questo scopo, facendo del lavoro il valore etico esclusivo della propria esistenza. All'origine della cultura borghese moderna, accanto allo scientismo di Bacone e Cartesio, c'è l'etica di Calvino, le cui implicazioni economiche, sociali e psicologiche sono state bene evidenziate da Weber e Troeltsch.

Due sono i celebri excursus, dedicati rispettivamente all'Odissea e alla Histoire de Juliette del marchese de Sade, attraverso i quali Horkheimer e Adorno illustrano la formazione dell'uomo moderno.

Il viaggio di Odisseo è lo sfondo metaforico-narrativo in cui viene a chiarirsi la progressiva separazione dell'individuo dalla natura al fine di dominarla attraverso il sacrificio e la rinuncia al piacere, ogni volta che questo sia di ostacolo al dominio di sé. Odisseo «fa getto di sé per ritrovarsi»3 La natura alle cui seduzioni egli ha da sottrarsi è incarnata nelle figure mitiche in cui egli di volta in volta s'imbatte - dai mangiatori di loto ai buoi di Iperione, alle magìe di Circe -, la più eloquente delle quali è quella delle sirene dal canto ammaliatore. Le precauzioni che Odisseo adotta sulla nave al momento di passare davanti alle tentatrici stanno a indicare la diversa misura del sacrificio che, in una società segnata dalle diseguaglianze di classe, viene richiesto ai diversi suoi membri. Odisseo, che in quanto proprietario è esonerato dal lavoro, può concedersi il piacere dell'ascolto, ma si fa legare dai compagni all'albero della nave simbolo del dovere, perché a quel piacere non può seguire il perseguimento e la fruizione della reale felicità: «Più la tentazione diventa forte, e più strettamente si fa legare, così come, più tardi, anche i borghesi si negheranno più tenacemente la felicità, quanto più - crescendo la loro potenza - l'avranno a portata di mano».141 marinai, invece, cui spetta l'obbligo di un lavoro senza godimento, nemmeno il canto debbono udire, che li distoglierebbe dalla fatica, e dunque i loro sensi vanno violentemente repressi, le orecchie tappate con la cera: essi «devono guardare in avanti e lasciare stare tutto ciò che è a lato».15 Con sottintesi richiami al Marx dei Manoscritti riletto attraverso la figura hegeliana della "servitù-signoria", Horkheimer e Adorno fissano in questo episodio il momento della separazione tra godimento e comando-lavoro, richiesto dalla divisione sociale e dalla logica del potere.

Anche l'evocazione del «divino marchese», rinvia alla genesi della logica del potere: Sade si situa sulla linea che, dal sorgere della scienza moderna e da Cartesio si muove, attraverso l'elaborazione kantiana della ragione "strumentale", verso il totalitarismo del XX secolo. L'esasperata separazione dell'amore spirituale da quello fisico, celebrata nei romanzi di Sade, non è altro che la parafrasi del dualismo cartesiano di res cogitans e res extensa. Allo stesso modo la razionalità strumentale e soggettiva che, nell'Histoire de ]uliette, presiede all'organizzazione scientifica del sesso in tutte le sue perversioni («dove non un istante rimane inutilizzato, un'apertura del corpo trascurata, una funzione inattiva»), prelude alla concezione kantiana del soggetto in quanto chiamato a dare la configurazione che più gli piaccia al materiale caotico della natura, in base a proprie regole e categorie soggettive. Se non si dà più una verità oggettiva, se «Dio è morto» - come anche si può dire, visto che autori mettono sullo stesso piano Sade, Kant e Nietzsche -, allora «tutto è permesso» alla ragione "borghese", "illuminata", essendo ormai «dissolta come mitologica ogni devozione che si ritenesse oggettiva e fondata sulla realtà». La stessa schiavizzazione della donna, ridotta da Sade a pura funzione biologica e privata di ogni soggettività, non è altro che il simbolo del dominio brutale che una civiltà pariarcale, maschile, come quella illuministica, ha realizzato sulla natura, che trova nella condizione della donna, appunto, emblematica espressione. Più tardi, nel XX secolo, un altro oggetto di dominio, anch'esso ridotto dal potere a mera natura, avrebbe sortito il medesimo destino delle donne nei secoli dei processi alle streghe e in quello dell'illuminista Sade: gli ebrei.

Anche il pensiero di Marx si rivela un capitolo della storia dell'illuminismo - segno, questo, della crisi intervenuta nel rapporto tra i due filosofi francofortesi e il marxismo -, se non altro per il fatto che anche in esso è presente, e non marginalmente, l'esaltazione della funzione progressiva della scienza e della tecnica, nonché l'assunzione del lavoro come dimensione centrale, fondativa dell'autorealizzazione dell'uomo. In un'intervista di poco precedente la morte, Adorno avrebbe detto che, qualora Marx avesse prevalso, il mondo intero si sarebbe trasformato in una «gigantesca fabbrica».

Il loro ben radicato hegelismo non consente agli autori della Dialettica dell'illuminismo di cedere alla nostalgia romantica per l'antica, originaria unità di uomo e natura, e all'auspicio di una sua restaurazione. Essi restano fedeli alla convinzione che l'autentica riconciliazione tra uomo e natura debba maturare lungo le strade della storia e che, come Marx ha insegnato a sua volta, essa appartenga al futuro dell'umanità. Quello che piuttosto non riescono più a far vedere è come sia possibile e praticabile la transizione dal «mondo totalmente amministrato» (come Horkheimer e Adorno chiamano la società chiusa e totalizzata del presente) al mondo della libertà, se non attraverso il ricorrere al salto mortale della speranza utopica. E non è per caso che l'utopia, che l'intellettuale critico va disegnando nel silenzio della ragione, sia un'utopia "negativa", indicibile, come indicibile è Dio per la teologia apofantica.

6. Il postmarxismo di Horkheimer

L'ultimo esito del pensiero horkheimeriano è consegnato a scritti come La nostalgia del totalmente Altro (1970), La società di transizione e Studi di filosofia della società (1972) e, infine, Taccuini 1950-1969 (1974, postumo). In essi Horkheimer procede a un rifacimento sostanziale della "teoria critica della società", segnato dall'abbandono ormai dichiarato del punto di vista marxista. Il giudizio è senza appello:

L'errore di Marx consiste nel supporre che all'allargarsi della razionalità nella società, cosa che egli identifica con il più efficace padroneggiamento della natura, siano legati la libertà vera e reale e lo sviluppo di tutti gli uomini.

Al contrario, per questa sua illuministica fiducia nella tecnologia e nella scienza, anche il socialismo congiura all'avanzata della «burocrazia totalitaria»: l'Urss ne è l'evidente riprova.

E' caduta per sempre, pensa Horkheimer, la fiducia che gli uomini possano realizzare la loro piena liberazione dalla barbarie dell'attuale civiltà, attraverso il rivoluzionamento dell'esistente; anzi, è da credere che la pur «dubbia democrazia» vigente nel mondo occidentale sia preferibile alla dittatura che conseguirebbe da un suo rovesciamento. Le ambizioni riformatrici si ridimensionano al punto che la prospettiva cui guarda la nuova teoria critica non sembra andare oltre i confini del vecchio liberalismo: «assicurare l'autonomia personale al maggior numero possibile di uomini». Anzi, il conseguimento di questo traguardo appare oltremodo difficile, dato che un esame realistico delle tendenze dominanti lascia prevedere l'avvento di un mondo totalmente amministrato:

Io credo che gli uomini in siffatto mondo amministrato non potranno sviluppare liberamente le loro capacità, ma si adatteranno a regole razionalizzate. Gli uomini del mondo futuro agiranno automaticamente: a un segnale rosso si fermeranno, a un segnale verde proseguiranno. Obbediranno a segnali.

Schopenhauer, il maestro dell'età giovanile, torna a dominare la riflessione horkhei-meriana. Dalla sua amara dottrina il vecchio filosofo attinge la finitezza intrascendi-bile dell'uomo e la fenomenicità - illusoria - del mondo in cui viviamo, e però l'im-proponibilità anche, «avuto riguardo al dolore che da millenni domina sulla terra», della fede cristiana in un Dio onnipotente e buono. Eppure, Horkheimer -ma anche in questo Schopenhauer gli è, in fondo, maestro - non desiste dal lanciare un messaggio di speranza in una redenzione finale. È quella che egli chiama la sua «teologia»: non naturalmente l'ammissione dell'esistenza reale di Dio, ma piuttosto «la speranza che, nonostante questa ingiustizia che caratterizza il mondo, non possa avvenire che l'ingiustizia possa essere l'ultima parola».23 È questa, come la dice lo stesso vecchio filosofo, la «nostalgia del totalmente Altro», assai simile alla confessione heideggeriana che «solo un Dio può salvarci»: in assenza, peraltro, rispetto a Heidegger, di un referente ontologico (l'Essere) cui affidare l'invocazione della trascendenza, non ad altro appoggiata, ci sembra, che a un semplice "anelito" umano.

Il Dio di cui Horkheimer parla è questo anelito che unisce e non separa, come invece il Dio delle fedi dogmatiche, gli uomini tra loro:

Se Dio è un dogma positivo, ha un effetto di separazione, di divisione. Invece il desiderio che la realtà del mondo con tutto il suo orrore non sia la realtà ultima unisce tra loro tutti gli uomini che non vogliono né possono accettare l'ingiustizia di questo mondo. Dio diventa così l'oggetto dell'anelito e del rispetto umano; cessa di essere oggetto del sapere e del possesso.

La speranza messianica, che l'ebreo Horkheimer aveva appreso fin dalla sua infanzia, si ripropone, in vecchiaia, nelle forme di una laica e puramente umana aspirazione - pur nel pessimismo della teoria - a un futuro degno dell'uomo.

7. Adorno: il messianismo

a) Musica e società: tra conformismo e contestazione

Theodor Wiesengrund Adorno perviene all'esperienza della stesura a quattro mani della Dialettica dell'illuminismo dopo un curriculum fortemente intrecciato con quello di Horkheimer, con il quale la collaborazione, destinata a conservarsi strettissima, era cominciata nel 1931, allorché il più giovane dei due era divenuto professore di Filosofia a Francoforte, città che gli aveva dato i natali nel 1903. Figlio di un mercante ebreo-tedesco e di una cantante di origine corsa e, alla lontana, genovese - dalla quale egli volle ereditare il cognome -, Adorno si dedica fin da giovane, oltre che a quelli filosofici, anche agli studi musicali (della sua straordinaria competenza Thomas Mann si sarebbe valso al momento della scrittura del romanzo Doctor Faustus). Molti dei suoi scritti sono dedicati alla musica: Sul carattere di feticcio nella musica e la regressione dell'ascolto (1938), Filosofia della musica moderna (1949), Dissonanze (1956), fino al postumo Beethoven. Filosofia della musica. Del resto è proprio muovendo da studi musicali che Adorno elabora la sua estetica e il suo stesso pensiero filosofico. Contro l'opinione comune, egli afferma che la musica, lungi dall'essere un linguaggio immediato, non bisognoso di traduzione, come se parlasse direttamente ai sentimenti, è, al contrario, mediazione, elaborazione complessa dei materiali d'esperienza, e come tale richiede l'intervento della filosofia che sappia tradurla in parole e concetti. Aver inteso la musica come esercizio espressivo immediato ha congiurato alla sua corruzione e riduzione a mero intrattenimento.

Gli altri scritti principali di Adorno sono La personalità autoritaria (1950), Minima moralia (1951), Prismi (1955), Lezioni di sociologia (1956), Tre studi su Hegel e Dialettica negativa di cui abbiamo già parlato, Parva Aesthetica (1967), Dialettica e positivismo in sociologia (1969). Postumi sarebbero apparsi la Teoria estetica (1970) e Terminologia filosofica (1973).

Si è già detto dell'hegelismo di Adorno, del rifiuto della filosofia come "sistema", dell'utopia negativa. Si spiega di conseguenza la scelta di adottare lo scritto frammentario e il linguaggio "micrologico", i soli idonei, a suo parere, a esprimere la contraddittorietà irrisolta, l'irrazionalità e la falsa organicità del mondo in cui viviamo. Nella stessa musica contemporanea è emersa una scelta espressiva corrispondente: dinanzi alla sua mercificazione, pervenuta, con la diffusione della musica leggera e del jazz, a livelli mai conosciuti finora (tanto da farle assumere la valenza di una vera e propria droga), la musica, per poter continuare ad assolvere a una funzione contestativa dell'esistente, ha dovuto rinunciare alla struttura armonica classica che, ripresa oggi, non potrebbe che mascherare le stridenti contraddizioni che lacerano la realtà sociale. Di qui l'opzione per la musica dodecafonica di Schönberg che, con le sue "dissonanze", ben riesce a esprimere tali lacerazioni e a favorire negli ascoltatori - che quelle dissonanze avvertono "insopportabili" in quanto «parlano della loro condizione personale» - il risvegliarsi dell'aspirazione a un mondo riconciliato. Solo di un'aspirazione, peraltro: gli ascoltatori di un concerto restano immobili nelle loro poltrone, come Odisseo che si era fatto legare all'albero della nave per resistere al canto delle sirene pur senza rinunciare ad ascoltarlo. Scrivono Adorno e Horkheimer in Dialettica dell'illuminismo: «L'incatenato [Odisseo] assiste a un concerto, immobile come i futuri ascoltatori, e il suo grido appassionato, la sua richiesta di liberazione, muore già in un applauso».

b) Il rifiuto del neopositivismo e il dissenso da Husserl e Heidegger

La polemica filosofica adorniana si è misurata a lungo con le tendenze neopositivistiche che hanno attraversato tanta parte del pensiero filosofico occidentale tra gli anni trenta e sessanta del secolo scorso. Essa ebbe ad esprimersi soprattutto nel celebre dibattito sul metodo delle scienze sociali svoltosi nel 1961 a Heidelberg, in occasione del Congresso internazionale di sociologia. In quella sede Adorno si era scontrato con le posizioni antidialettiche di Popper, avverso alle letture totalizzanti della realtà, e aveva difeso l'uso del metodo dialettico negli studi sociali, in ragione del fatto che la società è in se stessa contraddittoria e pertanto l'indagine su di essa richiede l'adozione di quel metodo.

In generale, Adorno rimprovera a positivisti e neopositivisti di soggiacere al culto dei "fatti", di pretendere di applicare nell'analisi sociologica metodi propri delle scienze matematiche e naturali, procedendo a classificare e descrivere "fatti", come se gli eventi sociali potessero essere isolati e considerati atomisticamente, prescindendo dal contesto complessivo di cui sono momenti costitutivi. Al positivismo che accusa la filosofia di essere "speculazione", «pensiero a ruota libera, privo di rigore, vano»,26 palestra di uno sfrenato soggettivismo, Adorno obietta che è proprio chi prescinde dalla dialettica e dall'idea filosofica di totalità a cadere nella peggiore sorta di soggettivismo. Che altro è, infatti, il procedimento che ipostatizza il soggetto conoscente, oscurandone il carattere intrinsecamente sociale e facendone il topos noetikós, il luogo di controllo della scientificità che, pur avendo smessi i caratteri di creatività e di assolutezza che gli aveva attribuiti l'idealismo, continua a decidere come un sovrano assoluto della validità oggettiva o meno delle conoscenze?

D'altronde, la "totalità" da cui la sociologia non potrebbe in alcun modo prescindere, non va confusa con quella teorizzata dal pensiero cosiddetto " globalist i co", secondo il quale la società sarebbe un sistema di elementi uniti armonici! mente tra loro in modo organico. La società borghese moderna, dominata com Y dal rapporto di scambio, è piuttosto un sistema in larga misura "meccanico", os sia una «sintesi di un molteplice atomizzato», una mediazione che nel moment > stesso in cui unifica la vita dei singoli elementi sociali la fa anche a pezzi. Nulla dunque a che fare con la «divina teleologia» che si ritrova invece nel concetto di organismo, per la quale ogni organo ha la sua funzione nel tutto e «da questo 11 ceve il suo senso». Insomma la totalità sociale esistente è "falsa" e "irrazionale . • il pensiero dialettico che la tematizza, la mette anche in discussione, la contesta portandone allo scoperto le contraddizioni laceranti, che essa può soltanto occul tare ma non risolvere.

I neopositivisti, al contrario, ricoprono un ruolo conservatore poiché legittimarla realtà così com'è, e tutt'al più ne sostengono una riforma destinata a non intuì carne la sostanza. Essi, infatti, hanno sostenuto il carattere avalutativo, puramente descrittivo della scienza sociale, e con Popper affermano che la contraddizione appartiene esclusivamente alla conoscenza e non invece alla realtà. Il neopositivismo viene insomma considerato da Adorno come la filosofia più conforme al sistema capitalistico moderno.

Critiche severe non risparmiano altri filoni importanti del pensiero contemporaneo, come, in particolare, la fenomenologia, l'heideggerismo, l'esistenzialismo.

Pur apprezzando alcune istanze della fenomenologia husserliana, come, per esempio, quella, espressa nella Crisi delle scienze europee, di mettere in discussione i fondamenti e le finalità del sapere scientifico, Adorno, in uno scritto del 1956, Sulla metacritica della gnoseologia. Studi su Husserl e le antinomie della fenomenologia, rimprovera a Husserl di avere ceduto ora a tendenze di tipo positivistico (come quella espressa nell'invito ad «andare alle cose stesse»), ora invece a richiami idealistici e psicologistici a privilegiare la centralità della coscienza, e di avere comunque affidato alla filosofia un compito puramente contemplativo e descrittivo della realtà, che si risolve in una malcelata legittimazione dell'esistente.

Del tutto negativo il giudizio su Heidegger: in Dialettica negativa, Adorno gli rimprovera di avere trasmesso un messaggio arcaicizzante e irrazionalistico, culminato nella figura del filosofo come «pastore dell'Essere», e di avere proposto un'ontologia che, nel momento di consegnare l'Essere al silenzio dell'indicibilità, concluderebbe all'assolutizzazione dell'immanenza e alla ratifica dell'esistente.

c) La funzione utopico-rivoluzionaria dell'arte

Fino alla morte, che lo coglie improvvisamente nel 1969, Adorno, nonostante il progressivo distacco dal marxismo, persiste su posizioni utopico-messianiche, anche in lui, come in Horkheimer, sostenute dalle origini ebraiche.

E l'arte, come nessun'altra attività umana, ad assolvere a un ruolo di contestazione dell'esistente, e a mantenere aperta la prospettiva di un mondo futuro redento. Non certo all'arte popolare, di massa, invasiva del mercato culturale delle società moderne, Adorno intende pensare, che anzi egli denuncia come una delle forme di quell'industria culturale responsabile dello stordimento e della manipolazione delle coscienze. E nemmeno pensa all'arte politicizzata, alla letteratura "impegnata" caldeggiata da Sartre nel suo Che cos'è la letteratura?. Nella società dominata dal mercantilismo non c'è più posto ormai per l'artista autentico, che deve distanziarsene e, dalla sua solitudine, fungere da «fermento della trasformazione». Agli antipodi di concezioni estetiche come quella di Lukàcs, Adorno guarda alle avanguardie artistiche e letterarie contemporanee come al più efficace strumento di denuncia e di presa di coscienza dell'alienazione della soggettività umana, annientata dal carattere massificante e totalitario della società mercantile moderna. Schönber^, Berg, Webern, ma anche Janàcek, Bartók, per la musica, Kafka e Beckett per la Irt teratura, sono gli esempi di un'arte che, «nel sottrarsi all'apparenza del bello» per poter raffigurare la «mostruosità dominante», favorisce il sorgere, dalla disperazione del presente, della richiesta e della speranza in un futuro disalienato. Così parla Adorno, per esempio, delle figurazioni di Beckett:

[Esse] godono l'unica fama oggi umanamente degna: tutti se ne ritraggono impauriti e tuttavia nessuno può imbastire chiacchiere fino a convincersi che quegli eccentrici drammi e romanzi non trattino di quel che tutti sanno e nessuno vuole ammettere. Per i filosofi apologetici il suo opus può star bene come progetto antropologico. Ma gli argomenti che tocca sono argomenti storici estremamente concreti: l'abdicazione del soggetto. L'ecce homo di Beckett è quel che gli uomini sono diventati. Essi guardano muti dalle sue frasi, quasi con occhi inariditi dal pianto. [...] La prosa di Kafka, i drammi di Beckett o quel romanzo veramente mostruoso, L'innominabile, esercitano un'efficacia di fronte alla quale le poesie impegnate sembrano giochetti puerili, provocano quell'ansia su cui l'esistenzialismo si limita a discutere. [...] Chi per una volta sia stato travolto da Kafka ha perso la pace col mondo e non riesce più ad accontentarsi del giudizio che definisce malvagio il corso degli avvenimenti mondani: è stato corroso via quel momento di conferma che inerisce nella constatazione rassegnata dello strapotere del male.

Una funzione, questa dell'arte autonoma, non dissimile da quella che, in Minima moralia, già Adorno aveva assegnato alla filosofia:

La filosofia, quale solo potrebbe giustificarsi al cospetto della disperazione, è il tentativo di considerare tutte le cose come si presenterebbero dal punto di vista della redenzione. La conoscenza non ha altra luce che non sia quella che emana dalla redenzione sul mondo [...] Si tratta di stabilire prospettive in cui il mondo si dissesti, si estranei, riveli le sue fratture e le sue crepe, come apparirà un giorno, deformato e manchevole, nella luce messianica. Ottenere queste prospettive senza arbitrio e violenza, dal semplice contatto con gli oggetti, questo, e questo soltanto, è il compito del pensiero.

8. Benjamin: teoria dell'arte e filosofia della storia

Walter Benjamin nasce a Berlino nel 1892 in una famiglia di origini ebraiche e si laurea nel 1918 con una tesi di storia dell'arte; prende così avvio un'attività intellettuale in cui risulta pressoché impossibile distinguere i contributi di critica artistica, di estetica e di filosofia. Conosce sin da giovane il celebre studioso di mistica ebraica Gershom Scholem e il filosofo Ernst Bloch. Al 1924, a seguito della lettura di Lukâcs, risale la nascita del suo interesse per il marxismo, che lo conduce anche in visita a Mosca. Fa quindi la conoscenza dei principali neomarxisti, fra cui Horkheimer e Adorno, condizionando in larga misura le prospettive estetiche e la filosofia della storia di quest'ultimo. Esule all'epoca dell'avvento del nazismo e internato in Francia, nel 1940 riesce a ottenere un visto per gli Stati Uniti, ma, fermato alla frontiera spagnola, si toglie la vita mentre a tutti i suoi compagni sarà permesso di proseguire il viaggio verso la salvezza. Lascia una notevole quantità di saggi e la monografia II dramma barocco tedesco (1928).

Benché la partecipazione di Benjamin all'attività dell'Istituto per le scienze sociali di Francoforte sia limitata nel tempo, il suo influsso è rilevante, perché ai francofortesi egli fornisce parecchi temi di analisi e discussione nonché interessi disciplinari.

Diffidando di ogni "immediatezza", Benjamin affida la conoscenza della storia alle opere d'arte, non scorgendo una via d'accesso maggiormente diretta: ogni ideologia, ogni modo di vita, ogni situazione storica vengono da lui letti attraverso il medium di un'opera o un complesso di opere d'arte. La critica (in un intendimento affine a quello dei romantici tedeschi) è il necessario complemento e compimento delle opere, che ne fa emergere i significati e le valenze implicite, e questo spiega l'estrema attenzione di Benjamin per gli sviluppi della ricezione delle opere, che non è affatto un elemento estrinseco. Se la filosofia è retta da uno spirito antisistematico, l'unità della speculazione si ritrova intorno alle opere d'arte e al significato che soltanto la critica (e non la fruizione diretta o tanto meno ingenua) è in grado di far emergere. L'opera d'arte è infatti sottratta alle angustie della soggettività e mostra il suo intrinseco contenuto di verità solo attraverso la mediazione oggettivante della critica, che si sostituisce alla speculazione filosofica:

L'alternativa della forma filosofica, posta dai concetti di dottrina e di saggio esoterico, è precisamente quella che è ignorata dal concetto di sistema proprio del diciannovesimo secolo. Fintanto che esso determina la filosofia, questa rischia di adattarsi a un sincretismo, il quale cerca di catturare la verità entro una ragnatela tesa tra conoscenza, come se la verità provenisse dal di fuori, volando. Ma il suo universalismo posticcio resta lontanissimo dal raggiungimento dell'autorità didattica della dottrina. Se la filosofia vuole conservare la legge della sua forma, non in quanto tramite mediatore verso il conoscere, bensì in quanto rappresentazione della verità, va data importanza all'esercizio di questa sua forma, ma non alla sua anticipazione nel sistema.

Il saggio sul dramma barocco tedesco approfondisce la concezione dell'arte e della riflessione come allegoria: si tratta di produrre un distanziamento dall'oggetto della trattazione, di intenderne i significati sottesi, poiché nell'arte ogni elemento allude ad altro e recalcitra a essere conciliato con la realtà immediatamente presente.

Ma Benjamin sa bene che solo una definita, ristretta porzione dell'arte può èssere ricondotta alla metafora: qual è allora il ruolo gnoseologico dell'arte non metaforica? L'arte non ha una funzione rivoluzionaria diretta, a poco servono le simpatie populiste degli intellettuali o il loro impegno politico; ciò che conta è piuttosto la consapevolezza critica dell'artista, che si rende conto dei limiti posti dal potere alla propria arte e cerca di oltrepassarli. Di conseguenza, a giudizio di Benjamin scrittori come Brecht non cercano di modificare le idee, bensì l'atteggiamento concreto di chi produce l'arte o ne fruisce. Ma, a differeza di Brecht, il filosofo (che giustifica e celebra alcune avanguardie) ritiene che l'espressione, pur sempre indirizzata a scopi "didattici", non vada forzosamente piegata a tali scopi ma debba ricercare sempre nuovi strumenti espressivi.

Nel saggio Lopera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), Benjamin elabora il concetto delXauraticità dell'opera d'arte: essa è il contesto specifico in cui l'opera sorge e può essere fruita, contesto che la rende un evento che non si può reiterare. Così Benjamin stesso la definisce: «l'hic et nunc dell'opera d'arte -la sua esistenza è unica e irripetibile nel luogo in cui si trova», e più in concreto «la sua integrazione nel contesto della tradizione».29 Tuttavia, nell'età contemporanea, la sua riproducibilità tecnica (dal museo al disco per finire con la cinematografia) ha reso collettiva la possibilità della stessa fruizione e ne ha fatto venir meno il carattere esclusivo, elitario. L'arte, insomma, diventa uno dei tanti prodotti del mondo capitalistico, e sorge una vera e propria "industria culturale" che contraddice il suo carattere originario e autentico. Ciò genera, secondo Benjamin, delle conseguenze negative perché non solo distrugge l'auraticità, ma anche porta il fruitore a essere sempre più passivo di fronte all'opera, a subirla senza riflettere adeguatamente, finendo così per vederla esclusivamente come oggetto di divertimento anziché di conoscenza. Di conseguenza l'arte, più che strumento di riflessione e di emancipazione, è diventata nel tardocapitalismo un mezzo per esercitare il dominio del potere sulle masse, conclusione che sarà fatta propria da Adorno. Questo non elimina però del tutto la possibilità che un momento di verità rimanga comunque vivo nell'arte, allorché quest'ultima sviluppa intrinseche potenzialità che svelano le contraddizioni del presente.

Anche la filosofia della storia di Benjamin è un'analisi della peculiare situazione del mondo tardocapitalistico. Il filosofo congiunge originalmente marxismo e teologia messianica (non si dimentichi la sua origine ebraica): il marxismo ha ragione nell'individuare l'annientamento dell'individuo nella società borghese e nel privilegiare le dinamiche collettive; contro questa tendenza Benjamin vuole però continuare a tener vivo il carattere individuale del soggetto. Ma nella sua riflessione la tensione rimane irrisolta perché egli tende, per rassegnazione, ad ammettere e accettare questo annullamento del soggetto individuale a vantaggio di quello collettivo, nel quale peraltro non sa né vuole collocarsi. Benjamin si dibatte così, senza individuare una via d'uscita, fra la volontà impotente di fare ingresso nel soggetto collettivo per modificare il corso della storia e l'intenzione di mantenere integri i propri connotati personali.

La teoria socialdemocratica del progresso contiene un accentuato determinismo di derivazione marxista perché ritiene che il cammino verso il miglioramento non sia una semplice possibilità, ma una certezza che invece Benjamin rigetta. Essa inoltre confida nella certezza di un progresso, visto non tanto come un accumulo di nozioni specifiche, il che sarebbe anche accettabile, quanto come un accrescimento globale dell'umanità, cosa che appare invece a Benjamin una concezione metafisica priva di fondamenti storici. Un'altra caratteristica di tale teoria è la postulazione del carattere interminabile del processo: non c'è una meta, un risultato che possa considerarsi definitivo, un momento in cui tutto termina, ma un'apertura totale. Ciò presuppone tuttavia che l'umanità possa raggiungere davvero dei livelli sempre più elevati senza mai fermarsi in questa ascesa. Contro l'idea progressiva della storia, Benjamin sviluppa un concetto di dialettica che non contiene solo il movimento, ma anche l'arresto, e in ciò si differenzia radicalmente da quella he-gelo-marxiana come da quella trascendentale del tardo Ottocento. La terza e ultima caratteristica della teoria socialdemocratica del progresso è la sua linearità: la storia non conosce in questa visione stasi o momenti di regresso, ma progredisce senza incertezze. Anche questa idea è negata da Benjamin, che riconosce nella storia perdite irrecuperabili come farà poi anche Adorno, il quale citerà a questo proposito il caso di Auschwitz, orrore per il quale non esiste rimedio né redenzione.

Solo dalla coincidenza dei momenti individuale e collettivo potrebbe nascere una qualche fiducia nel futuro: ma per tale coincidenza Benjamin non indica un momento determinato, perché essa è collocata in un futuro messianico, ossia nell'attesa senza risposta della venuta del Messia. Infatti, la speranza messianica della redenzione appare quasi metastorica: essa viene differita a un futuro senza punto di arrivo e parte da un passato giudicato sempre tragico e disastroso. Per Benjamin il tempo non è omogeneo ma discontinuo, anzi in un certo senso la storia non ha realmente tempo (cioè scorrimento in avanti) perché è il semplice assommarsi di eventi irrelati:

Quando il pensiero si arresta di colpo in una costellazione carica di tensioni, le impartisce un urto per cui esso si cristallizza in una monade. Il materialista storico affronta un oggetto unicamente e solo dove esso gli si presenta come monade. In questa struttura egli riconosce il segno di un arresto messianico dell'accadere.

Allo stesso tempo il presente non ha un senso né un ruolo se non per il fatto che avvia alla redenzione finale e dunque esso, pur nella sua tragicità, è gravido di futuro: la speranza consiste nell'aspettativa di un futuro di libertà per l'individuo per il quale tuttavia non si danno metodi di attuazione né un momento preciso. Si tratta, in altre parole, dell'avvento, detto "ipotetico", di un miracolo che, nell'inverarla e nel rappresentarne il compimento, rompe con la storia stessa. Marxismo e teologia tendono così a fondersi, anzi la spinta messianica serve a eliminare gli'aspetti deterministici presenti nel marxismo tradizionale (quello ortodosso, ma non solo); la storia ha infatti per Benjamin un andamento incerto, rettilineo, e non c'è mai garanzia del progresso, anzi esso non sta nell'accumulazione graduale, ma nell'avvento improvviso dell'epoca messianica:

Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo "come propriamente è stato". Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell'istante di un pericolo.

È l'angelus novus (secondo il celebre dipinto di Paul Klee) che porta il rinnovamento come rottura netta con il passato, cioè come catastrofe.

9. Marcuse: l'uomo tra repressione e utopia

a) Un hegelo-marxista

Nato nel 1898 a Berlino da una famiglia ebrea dell'alta borghesia, Herbert Marcuse si iscrive giovanissimo al Partito socialdemocratico tedesco, ma ne esce per protesta dopo l'assassinio, nel 1919, di Karl Liebknecht e di Rosa Luxemburg, e da quel momento non parteciperà più direttamente all'impegno politico. La sua vita sarà quella dello studioso e, nei lunghi anni americani, del tranquillo professore universitario. Eppure, egli ha goduto di una straordinaria fortuna politica da quando, negli anni della contestazione, è stato riconosciuto come maestro da tanta parte del movimento studentesco internazionale. A Berlino fa ritorno, quasi settantenne, nel 1967, invitato dagli studenti della Freie Universität a partecipare a un dibattito sul movimento studentesco, su morale e politica nella società opulenta, sul Vietnam, sui movimenti di liberazione nel Terzo mondo e sulle possibilità di un'opposizione nelle metropoli.

Aveva lasciato Berlino tantissimi anni prima, allorché, ancora giovane studente, era stato attratto da Friburgo, uno dei centri universitari più attivi nel rinnovamento in senso antipositivistico della filosofia tedesca; erano gli anni in cui vi insegnava Husserl e vi dominava la fenomenologia. Il giovane studente era sensibile alle tante suggestioni antipositivistiche che offriva il vivacissimo clima culturale del tempo, dal neokantismo di Heidelberg allo storicismo di Dilthey e Simmel, dalla sociologia di Weber alla stessa fenomenologia. A Friburgo Marcuse si era laureato nel 1922 con Heidegger, di cui avrebbe frequentato anche in seguito i seminari e subito per qualche tempo l'influenza.

Acquisito al marxismo principalmente in virtù della lettura di Storia e coscienza di classe di Lukâcs, egli si sarebbe esercitato nel singolare tentativo di combinare il pensiero di Heidegger con quello marxiano, nella presunzione che Essere e Tempo costituisse «il momento in cui la filosofia borghese si dissolve dall'interno e apre la strada a una nuova scienza "concreta"».32 Esito di questo esperimento, presto abbandonato, è il saggio del 1928, Contributi per una fenomenologia del materialismo storico, in cui Marcuse insiste sulle problematiche heideggeriane della «cura», dell'«essere-con-altri», dell'«esistenza autentica», cui solo il marxismo sarebbe in grado di offrire una soluzione positiva, strappandole all'orizzonte metastorico in cui Heidegger tendeva a chiuderle, e restituendole alla concreta dimensione della storicità.

Su questa sua giovanile esperienza heideggeriana il filosofo tedesco sarebbe tornato in un'intervista rilasciata a Frederick Olafson nel 1977, due anni prima della morte, nella quale avrebbe riconosciuto l'improbabilità del tentativo di allora di combinare la «falsa concretezza» dell'esistenzialismo di Essere e tempo con il marxismo:

Presto mi accorsi che la "concretezza" di Heidegger era in gran parte un'espressione dell'apparenza, una falsa concretezza, che la sua filosofia era in realtà molto astratta e si allontanava dalla realtà, o meglio evitava la realtà. [...] Per esempio, l'esserci" è per Heidegger una categoria sociologicamente e persino biologicamente "neutrale" (non esistono differenze sessuali!).

Lo stesso concetto di "storicità" è viziato in Heidegger dalla stessa falsa concretezza,

perché in realtà nessuna delle condizioni concrete-materiali e culturali, concrete-so-ciali e politiche che fanno la storia, hanno in qualche modo un posto in Essere e tempo. La storia stessa è sottomessa alla neutralizzazione. Egli la comprime in una categoria esistenziale.

Quanto ai concetti di tecnologia e di tecnica, anch'essi

vengono trattati come "forze in se stesse", lontane dai contesti di potere con i quali stanno in relazione e che determinano il loro utilizzo e la loro funzione. Esse sono rese concrete e oggettive come destino.

All'origine del pensiero più maturo di Marcuse troviamo invece Hegel a cui, via via che il rapporto con l'heideggerismo si viene sciogliendo, egli lega sempre più strettamente la teoria marxiana secondo le indicazioni di Lukâcs, in reazione a quel marxismo che, già con Engels, ma poi soprattutto con i marxisti ortodossi della Seconda Internazionale, aveva invece letto Marx in chiave positivistica. Hegel e Marx, Marx e Lukâcs: punti di riferimento vitali anche per gli esponenti dell'Istituto francofortese per la ricerca sociale a cui, all'inizio degli anni trenta, non per caso il giovane filosofo si va avvicinando.

Nel 1932 Marcuse dà alle stampe un saggio, Nuove fonti sulla fondazione del materialismo storico, dedicato all'analisi dei Manoscritti economico-filosofici di Marx, proprio allora venuti alla luce, e in quello stesso anno pubblica il suo primo lavoro sulla filosofia hegeliana, L'ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità. La lettura di Hegel risulta ancora assai condizionata dalla presenza di Heidegger, oltre che dallo storicismo di Dilthey. L'individuazione del nucleo dell'ontologia hegeliana nell'unità di soggetto e oggetto, sempre continuamente ristabilentesi nel processo della storia, avviene in un contesto dominato dal riferimento al concetto di "storicità" di Heidegger e a quello diltheyano di «vita» cui viene ricondotta la concezione dell'essere quale emerge dagli scritti giovanili di Hegel fino alla Fenomenologia dello spirito.

Il fatto che l'interpretazione marcusiana di Hegel insista principalmente sull'unità dello spirito con se stesso, tanto da lasciare in ombra il momento della negazione, non deve far dimenticare che fin d'ora Marcuse va recuperando il tema della dialettica quale modo d'essere oggettivo della realtà. Ciò gli avrebbe consentito di combattere la feticizzazione positivistica dei "fatti" senza dover concedere nulla alla deriva irrazionalistica delle varie "filosofie della vita" che, confondendo la razionalità con quella astratta del positivismo, erano andate privilegiando in vario modo la «cattiva immediatezza» della vitalità. Da questo momento Marcuse avrebbe fatto della difesa della ragione, e della forza "mediatrice" della dialettica, uno dei capisaldi della propria riflessione.

L'altra componente fondamentale del suo pensiero, quale si sarebbe sviluppato successivamente, va ricercata nella convinzione, ispirata al Marx dei Manoscritti, che la rivoluzione comunista non possa risolversi nell'esclusivo mutamento dei rapporti economici, ma richieda una trasformazione complessiva dell'essere umano, il dispiegamento onnilaterale delle sue potenzialità, e che dunque il suo successo sia legato alla prospettiva della felicità.

Lungo il corso degli anni trenta Marcuse sviluppa queste tematiche, anche attraverso la collaborazione con i francofortesi, prima in Germania, poi, dopo l'avvento del nazismo, a Ginevra e negli Stati Uniti, dove si trasferisce definitivamente nel 1938. Sotto l'influenza in particolare di Horkheimer, egli fa proprie le proposizioni essenziali della teoria critica della società, dalla funzione critico-negativa del pensiero nei confronti della realtà al riconoscimento del carattere repressivo e autoritario della società tecnologica avanzata, dall'apertura utopica al futuro al rifiuto delle interpretazioni deterministiche ed economicistiche del marxismo.

Quello che semmai divide Marcuse da Horkheimer e Adorno, e impedisce di considerarlo organicamente appartenente alla Scuola francofortese, è l'idea, desunta ancora una volta dai Manoscritti marxiani, e alla quale, invece, i due colleghi francofortesi si sarebbero sempre mostrati contrari, che nel lavoro l'uomo realizzi la propria essenza e che, pertanto, esso abbia una rilevanza ontologica. In un articolo di rivista pubblicato nel 1933, Sui fondamenti filosofici del concetto di lavoro nella scienza economica, egli insiste su questo punto, esprimendosi in un linguaggio ancora-heideggeriano, ma anche facendo leva sulla distinzione marxianamente corretta tra reificazione e oggettivazione che gli consente di evitare l'errore lukâcsia-no, evidente in Storia e coscienza di classe, di coinvolgere il lavoro in quanto tale nella critica del lavoro alienato, quale si configura nella società capitalistica.

Il secondo saggio su Hegel, pubblicato nel 1941 con il titolo di Ragione e rivoluzione, rappresenta il momento conclusivo della collaborazione di Marcuse con la Scuola di Francoforte e soprattutto la raggiunta maturità del suo hegelo-marxismo. Egli scopre ora quello che gli era sfuggito nel saggio del 1932, cioè che la forza della dialettica hegeliana sta soprattutto nel momento della negazione, attraverso il quale la ragione mette in discussione lo stato effettuale delle cose in vista di un'adeguazione della realtà alle proprie esigenze. La ragione hegeliana, lungi dall'essere sanzionatrice di una presunta, immediata razionalità del reale, sarebbe piuttosto pensiero negativo, il cui compito critico è appunto quello di negare l'esistente in vista della sua trasformazione. La celebre formula hegeliana - «Ciò che è razionale è reale, e ciò che è reale è razionale» - non va dunque intesa come una consacrazione dell'esistente:

"Reale" viene a significare non tutto ciò che esiste in effetti (che dovrebbe piuttosto essere chiamato apparenza) ma ciò che si trova in accordo con i princìpi della ragione [...] Per esempio lo Stato diviene una realtà solo quando si basa sulle effettive possibilità degli uomini e permette il loro pieno sviluppo. Ogni forma dello Stato preliminare a questa non è ancora razionale e, conseguentemente, non ancora reale.

Per un'attenta valutazione di questa lettura di Hegel occorre non dimenticare che Marcuse scrive negli anni della guerra antitedesca, durante i quali è in atto, soprattutto nel mondo anglosassone, la tendenza a interpretare Hegel come filosofo conservatore, e addirittura a scorgere nella filosofia hegeliana i prodromi della teoria fascista dello Stato totalitario. Era questa, agli occhi del filosofo berlinese, un'interpretazione aberrante, affidata a un'indebita forzatura della concezione hegeliana dello Stato, segnata indubbiamente da un'ispirazione conservatrice, ma che non teneva conto del carattere invece critico e progressista del "pensiero negativo" di Hegel. Questo naturalmente non significa che Marcuse veda nella filosofia hegeliana già la filosofia della rivoluzione. Vieta di pensarlo il fatto che Hegel prevede la pacificazione finale della realtà nella sfera della filosofia, la coincidenza piena di reale e razionale nell'Idea realizzata, con la dissolvenza di tutte le tensioni e contraddizioni materiali della realtà. Compito di Marx è stato, appunto, di demistificare questa soluzione idealistica della negatività del reale, capovolgendo la filosofia hegeliana in "teoria sociale", restituendo così la ragione a quella funzione critica e contestativa dello stato effettuale delle cose che lo stesso Hegel gli aveva assegnato.

Marcuse appare così l'esponente di un hegelo-marxismo spinto fino al punto di ritenere che Marx non abbia fatto altro che liberare lo spirito potenzialmente rivoluzionario del pensiero hegeliano dalla lettera che ne avrebbe impedito la libera manifestazione.

b) Un freudomarxista

Più volte Marcuse era tornato durante gli anni trenta sul problema del rapporto tra rivoluzione e felicità. Era dunque nella logica delle cose che Marcuse dovesse incontrarsi con Freud e il suo originario panedonismo, ma soprattutto dovesse fare i conti con l'ultimo Freud, quello che ne II disagio della civiltà era giunto alla pessimistica conclusione che la civiltà chiede come prezzo ineludibile del suo sviluppo la repressione dell'istintualità, una repressione così radicale da provocare nevrosi e imporre il sacrificio della felicità individuale.

In Eros e civiltà (1955), il suo libro più celebre, Marcuse si propone di dimostrare che le conclusioni di Freud nascondono una generalizzazione a ogni forma possibile di civiltà e di società, di quella repressione degli impulsi istintuali, in primo luogo della sessualità, che in realtà è specifica della nostra civiltà e delle nostre istituzioni societarie, autoritarie e di classe, quali si sono venute storicamente determinando. Un errore, questo, di Freud, di considerare la società repressiva come espressione dell'ordine inevitabile, "naturale", delle cose, simile a quello, evidenziato da Marx, dell'economia politica classica di considerare la formazione sociale capitalistica come fondata sulla natura dell'uomo, e non invece anch'essa un prodotto storicamente determinato.

È possibile, allora, prospettare l'avvento di una nuova civiltà non repressiva, in cui divenga concretamente possibile, al più alto livello di cultura e di civiltà, la liberazione dell'eros, l'appagamento del desiderio di piacere e di felicità radicato nel profondo della natura umana. Con un'operazione simile a quella condotta per il recupero di una prospettiva "rivoluzionaria" del pensiero hegeliano, Marcuse sostiene che negli stessi princìpi teorici della psicoanalisi si trovano le premesse che consentono di smentire le conclusioni pessimistiche dello stesso Freud, sicché il primo compito di chi voglia fondare l'"utopia" di un eros liberato sarebbe quello di confutare Freud con Freud.

Innanzitutto è necessario opporsi a quell'uso della psicoanalisi invalso a opera dei cosiddetti "neofreudiani" (il Fromm del periodo americano in testa), i quali hanno ridotto la psicoanalisi a una tecnica terapeutica finalizzata semplicemente a un riadattamento del nevrotico all'ambiente sociale dato, una terapia che lascia intatte, semplicemente occultandole, le contraddizioni da cui la nevrosi nasce. E, questa, un'operazione di segno sociopolitico conservatore, che comporta la rinuncia a discutere dell'origine e della legittimità della società data in cambio di un'illusoria proposta di un «capitalismo senza nevrosi». In questo modo, i neofreudiani si sono sbarazzati della metapsicologia freudiana, accusata di far dipendere i comportamenti umani da fattori di natura biologica, senza rendersi conto che proprio nei concetti elaborati da Freud sono presenti, indifferenziati da quelli propriamente biologici, importanti significati storici e sociali che Freud stesso non ha saputo rilevare e che, invece, occorre recuperare. Il lavoro da fare è, appunto, quello di mettere Freud contro Freud, ossia di distinguere, nell'esame delle vicende istintuali degli uomini, dalla componente biologica quella storico-sociale.

Ma vediamo come Marcuse conduce quest'operazione, cui non è estranea la lezione di Reich. Nel momento in cui Freud afferma che conditio sine qua non dell'esistenza della civiltà è la subordinazione del principio di piacere al principio di realtà, egli ricalca quest'ultimo sul sistema sociale dato e però lo destoricizza asso-lutizzandolo, e di conseguenza la sua affermazione, che pur conterrebbe un fondo di verità, risulta priva di validità. È vero, sì, che una qualunque società, per sussistere e sopravvivere, richiede una qualche repressione dell'istintualità (che Marcuse chiama repressione fondamentale), ma è anche vero che nella società capitalistica il dominio dell'uomo sull'uomo produce una repressione addizionale, relativa all'organizzazione sociale di quello stesso dominio.

Non è una differenza da poco: la repressione fondamentale non mette in discussione il primato del principio di piacere, anzi rimane funzionale al suo appagamento, e pertanto il suo quantum non è più di quello richiesto dalle esigenze della vita comunitaria; la repressione addizionale, al contrario, è funzionale alla perpetuazione del dominio, comporta il sacrificio sistematico del principio di piacere ed è richiesta in dosi massicce. E se la repressione comporta comunque sofferenza, ben diversa è la sofferenza prodotta dalla repressione fondamentale, che ha una fonte puramente biologica, da quella inerente alla repressione addizionale, che ha invece un'origine storico-sociale.

Non è difficile tradurre in linguaggio marxista il discorso marcusiano, che in effetti mira a integrare Freud con Marx: la repressione addizionale, con il suo "surplus" di rimozione della vita istintuale, corrisponde a quello che per Marx è il pluslavoro richiesto al lavoratore dipendente nella società capitalistica. Il lavoro (= fatica, infelicità), necessario per rispondere alla "penuria" dei beni, non viene egualmente di stribuito tra tutti gli uomini ma riservato a una parte di essi dalla violenza dell'organizzazione sociale. Questa sottopone la maggioranza alle pretese di un principio di realtà storicamente ben definito, cui Marcuse dà il nome di principio di prestazione, in forza del quale si chiede agli uomini asserviti al lavoro il massimo di efficienza produttiva, e quindi il massimo dispendio delle energie psicofisiche, nella sostanzia le indifferenza di fronte alla loro richiesta di felicità e di piacere.

Pesanti sono le mortificazioni che il dominio del principio di prestazione infligge all'istanza di felicità. Innanzitutto, esso congiura alla desessualizzazione del corpo, che vuole ridotto da sede e organo del piacere a «macchina da lavoro». Ciò richiede la repressione della natura polimorfa della sessualità (di quelle che Freud chiamava «perversioni»), con il privilegiamento esclusivo di una genitalità funzionale alla procreazione e amministrata all'interno della famiglia monogamica, e la repressione anche dell'eroticità del tatto, del gusto, dell'olfatto, dei sensi che la società repressiva non per caso definisce "inferiori" e "animali".

In secondo luogo, il principio di prestazione richiede una drastica riduzione temporale e spaziale della libido. Ne consegue un'organizzazione del tempo libero che lo subordina e lo rende funzionale al tempo di lavoro. La natura repressiva della società, proprio perché funzionale al mantenimento del dominio, non potrebbe tollerare un tempo libero in cui le pulsioni erotiche avessero modo di esprimersi liberamente. Eppure, l'aspirazione degli uomini al piacere è così originaria che il dominio del principio di prestazione non riesce a soffocarla del tutto: rimossa nell'inconscio, essa riemerge di continuo nella vita cosciente degli uomini. È quel «ritorno del represso» che si manifesta, certo, nei sintomi della nevrosi, documenti del «disagio della civiltà», ma non solo in essi. L'arte, per esempio, ha sempre cantato il desiderio umano di libertà e felicità, anche se essa ha potuto conservare la sua libertà dal principio di prestazione al prezzo della perdita di ogni efficacia sulla realtà, ridotta a mero "passatempo" dalla repressione culturale di ogni contenuto e verità incompatibili con quel principio. Grande merito di Schiller è stato di reagire a questa sublimazione della funzione estetica, indicando la strada di una nuova civiltà, in cui la bellezza non fosse più evasione in una libertà meramente interiore e ideale, bensì veicolo di un effettivo esercizio della libertà nella realtà.

La filosofia, in Occidente, ha sempre privilegiato, da Aristotele a Hegel, il logos quale potenza repressiva della sfera "inferiore" della sensorialità, del piacere e degli impulsi. Al di là delle Lettere sull'educazione estetica di Schiller, è stato Nietzsche colui che, per aver concepito l'essere come gioia e godimento e aver proposto l'eterno ritorno come affermazione totale degli istinti vitali, ha parlato in nome di un principio di realtà antagonista a quello della civiltà occidentale. Ed è su questa linea che si colloca l'essere come eros di Freud, anche se nel padre della psicoanalisi, come già in Platone, eros finisce con il soggiacere agli interessi della civiltà repressiva. Eppure è proprio la psicoanalisi a poter rendere fruttuoso il "ritorno del represso": per aver usato la memoria come funzione cognitiva che ci rende presente un lontano passato, essa può farle assumere un'efficacia progressiva, nella misura in cui l'indagine sul passato produca un orientamento sul futuro. In questa direzione la "ricerca del tempo perduto", cui la psicoanalisi si dedica, può diventare - ed è quella che Marcuse chiama «tendenza nascosta» della psicoanalisi - veicolo di una futura liberazione.

Marcuse, peraltro, non pensa che la possibilità di una civiltà non repressiva, in cui l'aspirazione umana al piacere e alla felicità venga soddisfatta, riposi su un semplice anelito umano; è lo stesso alto sviluppo tecnologico della società a porre le condizioni di una possibile realizzazione di questa civiltà. Esso, infatti, favorisce una sostanziosa diminuzione della quantità di energie libidiche da sacrificare al lavoro, l'aumento del tempo libero e la sua possibile destinazione al libero dispiegarsi di tutte quelle energie.

Ma non basta: la civiltà della prestazione, così come Freud ha saputo studiarla, è insidiata da un'interna, nascosta dialettica, di cui Freud stesso non ha avuto chiara consapevolezza, la quale, quanto più si sviluppa, tanto più è destinata a insidiarla. La logica della repressione favorisce infatti una capillare diffusione del "padre" - simbolo dell'autorità repressiva - nella società: esso s'incarna in una molteplicità di soggetti e ruoli autoritari, con la conseguenza di un aumento di inibizioni e proibizioni che a sua volta produce sempre maggiore aggressività. Ora, da un lato la civiltà, per poter neutralizzare le pulsioni aggressive, avrebbe bisogno di rafforzare gli istinti sessuali, dato che solo un eros più forte può dominare gli istinti distruttivi; dall'altro, proprio questo non può fare, giacché essa ha sottratto libido a favore della penosa fatica del lavoro, con la conseguenza che l'indebolimento dell'eros favorisce la manifestazione disordinata, per l'appunto, degli impulsi distruttivi. In questo modo, la civiltà, minata da un'irrazionalità di fondo, inevitabilmente tende all'autodistruzione.

E vero, d'altronde, che l'istinto di morte, teorizzato dall'ultimo Freud quale originaria pulsione nascosta nella natura umana, sembrerebbe rappresentare un'obiezione assai seria alla prospettiva di un'umanità liberata: una distruttività innata sembrerebbe dover indurre una repressione perpetua, sicché sarebbe una conflittualità interna alla stessa istintualità, tra Eros e Thanatos, a rendere illusoria quella prospettiva. Con un'audace torsione in senso utopico-rivoluzionario del dettato freudiano, Marcuse replica che il rapporto tra Eros e Thanatos si modificherebbe profondamente sotto un diverso principio di realtà, nel senso che la remissione della repressività addizionale, e quindi la liberazione della pulsione di Eros, porterebbe alla riconciliazione della morte con la vita. Se è vero, infatti, che l'istinto di morte, identificato da Freud con il principio del Nirvana, tende alla risoluzione delle tensioni, a uno stato di affrancamento dal bisogno, allora esso potrebbe progressivamente diminuire la propria distruttività regressiva nella misura in cui si venisse realizzando nella vita una crescente soddisfazione. In altre parole, se l'obiettivo è la fine della tensione (= del dolore) e non della vita in quanto tale, il conflitto tra vita e morte si verrebbe riducendo in misura proporzionale all'avvicinamento della vita allo stato di soddisfazione. La morte cesserebbe di essere quello che appariva a Freud, cioè una meta istintuale, e la sua inevitabilità otterrebbe, per la prima volta, una giustificazione razionale, altrimenti impossibile. Naturalmente la morte "naturale" sarebbe allora quella che intervenisse aL termine di una vita "compiuta", dal momento che la morte precoce continuerebbe a rappresentare l'oscura presenza dell'irrazionale: «non coloro che muoiono, ma coloro che muoiono prima di quando debbano e vogliano mo-rire, coloro che muoiono tra sofferenze, costituiscono il grande atto di accusa contro la civiltà».36

Contro Freud, secondo il quale l'abolizione, del tutto improbabile e comunque non auspicabile, della repressione civile innescherebbe un processo di regressione verso fasi precivili, barbare e caotiche della sessualità, Marcuse sostiene che un nuovo principio di realtà che abolisse la repressione addizionale, comporterebbe sì la risessualizzazione del corpo, la riattivazione delle zone erogene, il polimorfismo sessuale (con la messa in crisi della famiglia monogamica e patriarcale), ma nella direzione di una liberazione-trasformazione della sessualità; cosa tutt'affatto diversa dallo sfogo periodico della sessualità (le feste di carnevale) consentito dalla società repressiva. In una nuova civiltà non repressiva, insomma, la sessualità si auto-sublimerebbe in Eros e sarebbe tutta intera la vita umana a erotizzarsi. Eros andrebbe al di là del corpo fino a investire anche la vita spirituale, giacché l'opposizione corpo-spirito è un prodotto anch'essa del principio di prestazione. Dopo duemila anni di tensione, Eros e Agape verrebbero per la prima volta a incontrarsi. Sarebbe, sostiene Marcuse, la rivincita del Cristo che, venuto a liberare gli uomini dal "padre", dalla "Legge", a redimere la "carne", a salvare gli umani qui sulla Terra, era stato tradito dai discepoli, che avevano promosso la transustanziazione del messia e del suo vangelo, la divinizzazione del Figlio a fianco del Padre, a conferma della sottomissione dell'uomo alla sofferenza e alla repressione. E si riconci-lierebbero anche principio di piacere e lavoro: questo, cessando di essere una costrizione (Marcuse evoca Fourier), si fa simile al gioco, quel libero gioco che teorizzavano Kant e Schiller, delle facoltà umane. La liberazione istintuale si coniuga con un lavoro inventivo, socialmente utile, dedicato al miglioramento dell'ambiente, alla vittoria sulle malattie e così via. Un lavoro che, certo, continua a chiedere sublimazione, ma una sublimazione che si attua in un sistema di rapporti di lavoro che sono essi stessi rapporti libidici.

c) L'uomo a una dimensione

Una più attenta considerazione dei poteri di manipolazione sociale delle coscienze che la società del dominio è in grado di mettere in atto, doveva presto moderare di molto, fino a dissolverlo, l'ottimismo con il quale Marcuse aveva guardato, in Eros e civiltà, alla possibilità di una liberazione dell'uomo dalla società repressiva. La fiducia che una società liberata potesse trovare semplicemente nell'alto sviluppo tecnologico la condizione sufficiente al proprio nascere, e che la "rivoluzione" potesse ridursi a un evento di natura "estetica", doveva rapidamente cadere. Nella Prefazione politica all'edizione di Eros e civiltà del 1966, Marcuse riconosce di non essersi reso conto abbastanza della grande potenza esercitata nella società opulenta dagli strumenti del controllo sociale e del consenso, che oggi permettono a chi detiene il potere di «reprimere negli individui il bisogno di liberarsi».37 E, confessando il livello di ingenuità presente nell'opera del 1955, riconosce la necessità, per la liberazione degli uomini, di un'organizzazione politica della lotta: «Oggi la lotta per la vita, la lotta per Eros, è lotta politica».

In assonanza con quanto vanno sostenendo Baran e Sweezy ne II capitale monopolistico, apparso in quello stesso anno, a Marcuse sembra che le condizioni perché la lotta rivoluzionaria possa avanzare maturino nella rivolta dei paesi sottosviluppati, ove si sarebbe spostato il conflitto servo-padrone, piuttosto che a opera del proletariato occidentale, ormai pienamente integrato nell'ordine del sistema capitalistico. Semmai, egli puntualizza, sarebbero le masse giovanili e studentesche dei paesi avanzati a poter accennare una risposta di qualche efficacia a quella rivolta.

Due anni prima, nel 1964, Marcuse aveva pubblicato il suo secondo celebre libro, L'uomo a una dimensione. Studi sull'ideologia nella società industriale avanzata, che, come è stato detto,39 doveva avere, nei movimenti studenteschi europei che di lì a pochi anni avrebbero incendiato le università francesi, tedesche e italiane, la stessa efficacia di un fiammifero in un pagliaio.

Riprendendo una tematica cara ai francofortesi fin dagli inizi del loro esilio americano, Marcuse, davanti all'esempio statunitense, giudica la società tecnologica contemporanea, affermatasi nel "mondo libero", come una società "totalitaria" non meno di quella "comunista" dell'Urss, sia pur nella diversità delle forme organizzative e delle istituzioni politiche. All'Urss egli aveva dedicato nel 1955 uno scritto, Marxismo sovietico, nel quale aveva affermato che la società sovietica, segnata da una centralizzazione burocratica e terroristica del potere, nonostante l'intenzione e l'obiettivo iniziali della rivoluzione bolscevica, non aveva nulla a che fare con il socialismo quale era inteso da Marx e da Engels, e che anzi il marxismo in Urss si era ridotto a pura mistificazione ideologica, volta a giustificare l'ordine esistente.

Che la società industriale avanzata dell'Occidente sia una società totalitaria lo sottolinea il fatto che l'intera vita degli individui, il tempo libero non meno di quello del lavoro, la cultura materiale come quella intellettuale, sono ormai dominati da un'organizzazione economica e tecnica, che pur in assenza di metodi terroristici e, anzi, nel rispetto formale della libertà e dei meccanismi democratici, riesce a manipolare del tutto i bisogni, secondo la logica degli interessi costituiti. I falsi bisogni, sovrimposti all'individuo da parte di questi interessi («il bisogno di rilassarsi, di divertirsi, di comportarsi e di consumare in accordo con gli annunci pubblicitari, di amare e odiare ciò che altri amano e odiano»),40 possono venir introiettati dall'individuo a tal punto da generare piacere a soddisfarli e gli individui possono anche riconoscersi nelle loro merci, trovando «la loro anima nella loro automobile, nel giradischi ad alta fedeltà, nella casa a due livelli, nell'attrezzatura della cucina».41 Ciò conferma che tali bisogni servono a ottundere le capacità critiche degli uomini, impedendo loro «di riconoscere la malattia dell'insieme e di afferrare le possibilità che si offrono per curarla».42 E lo stesso controllo sociale a richiedere

che si sviluppi il bisogno ossessivo di produrre e consumare lo spreco; il bisogno di lavorare fino all'istupidimento, quando ciò non è più una necessità reale; il bisogno di modi di rilassarsi che alleviano e prolungano tale istupidimento; il bisogno di mantenere libertà ingannevoli come la libera concorrenza a prezzi amministrati, una stampa libera che si censura da sola, la scelta libera tra marche e aggeggi vari.

La massificazione di bisogni e consumi produce un apparente eguagliamento degli individui, ridotti all'unidimensionalità di un medesimo modello di comportamento e deprivati di quella seconda dimensione che è la ragione critica, senza che questo rappresenti, in alcun modo, la cancellazione delle differenze di classe.

Se il lavoratore e il suo capo assistono al medesimo programma televisivo e visitano gli stessi luoghi di vacanza, se la dattilografa si trucca e si veste in modo altrettanto attraente della figlia del padrone, se il negro possiede una Cadillac, se tutti leggono lo stesso giornale, ne deriva che questa assimilazione non indica tanto la scomparsa delle classi, quanto la misura in cui i bisogni e le soddisfazioni che servono a conservare gli interessi costituiti sono fatti propri dalla maggioranza della popolazione.

Che nelle società liberal-democratiche occidentali viga il pluralismo dei giornali, dei partiti, di poteri controbilanciantisi, che le rende formalmente diverse dagli Stati totalitari, non significa che esse siano meno unidimensionali. La tolleranza di cui esse vanno orgogliose è, nella sostanza, una «tolleranza repressiva»: essa permette tutto ai cittadini, libertà di opinione, di parola, di organizzazione politica e così via, finché però non si pretenda di mettere in discussione, in modo concreto, il sistema complessivo.

Fondata sull'irrazionalità della volontà di dominio, la società unidimensionale si presenta come razionalizzazione integrale dell'esistenza, essa stessa esaustiva della razionalità, al punto da far apparire deviami, irrazionali e inconsistenti i «pensieri trascendenti» di chi propone altri modi di vita, alternativi all'ordine costituito. La «coscienza infelice» viene così completamente anestetizzata e, al suo posto, trionfa la «coscienza felice» di uomini per i quali reale e razionale sembrano totalmente coincidere. Perfino l'arte, che da sempre aveva rappresentato un modo efficace di tener desta la coscienza infelice, di alimentare la consapevolezza delle «possibilità frustrate», delle «speranze non realizzate», delle «promesse tradite», viene ora integrata, e le sue immagini private della loro «forza sovversiva», del loro «contenuto distruttivo», della loro verità. I personaggi "sovversivi" della letteratura del passato,

l'artista, la prostituta, l'adultera, il gran criminale senza patria, il guerriero, il poeta-ribelle, il diavolo, l'idiota [...] non sono scomparsi dalla letteratura della società industriale avanzata, ma, pur sopravvivendo, appaiono essenzialmente trasformati. La donna fatale, l'eroe nazionale, il beatnik, la casalinga nevrotica, il gangster, la stella del cinema, il capo d'industria carismatico, svolgono una funzione assai differente da quella dei loro predecessori culturali, e anzi contraria. Essi non sono più immagini di un altro modo di vita, ma sono piuttosto ibridi o tipi usciti dalla solita vita, che servono ad affermare piuttosto che a negare l'ordine costituito.

I personaggi, invece, che portano in sé l'immagine non prostituibile della trascendenza, Don Giovanni, Romeo, Amleto, Faust: nessun problema, ci pensa lo psichiatra a curarli, come ha già fatto con Edipo. A chi poi pensasse di indicare nella libertà sessuale, in altri tempi considerata incompatibile con l'ordine costituito e oggi elargita a piene mani, una prova dell'erroneità della sua analisi, Marcuse risponderebbe che, se la società unidimensionale elargisce alla sessualità ampi spazi praticabili, è per farne un valore di mercato tra gli altri. Il sesso consentito è amministrato in modo da privarlo di quell'eroticità che ne farebbe una forza eversiva e liberatrice, sicché, per quanto la gamma delle soddisfazioni socialmente permesse sia stata molto ampliata, «per loro tramite il principio di piacere viene ridotto, privato delle istanze inconciliabili con la società stabilita».46

Con l'emancipazione e la contemporanea commercializzazione del sesso si produce una sorta di «desublimazione istituzionalizzata», finalizzata in realtà a indebolire la rivolta degli istinti contro il principio di realtà dominante. La sessualità altamente sublimata ma dotata di notevole carica erotica delle eroine della grande letteratura classica e romantica, da Fedra di Racine a Emma Bovary di Flaubert, ad Anna Karenina di Tolstoj, era alternativa al principio di realtà stabilito e, pertanto, ribelle e dissacrante dei valori costituiti. Al contrario, conformista e integrata nella società data è la sessualità desublimata che si trova nei romanzi di Faulkner o nei drammi di O'Neill, non dissimile dalle «storie di orgie hollywoodiane e newyorkesi» come dalle «avventure di massaie suburbane». Qui la sessualità

è infinitamente più realistica, audace, priva di inibizioni. Fa parte integrante della società in cui queste cose succedono, ma non è mai la sua negazione. Quel che succede è certo folle e osceno, virile e piccante, affatto immorale - e appunto per questo è perfettamente innocuo.

Per non dire di come la pubblicità suggerisce di "consumare" il sesso: allo stesso modo di come può divertire «far scattare il fuoribordo, spingere sull'aiuola la falciatrice a motore e guidare l'auto ad alta velocità».48

Neppure la filosofia è in grado di resistere all'assedio della società totalizzata: essa, quasi fatalmente, dismette l'abito negativo che contraddistingue il pensiero critico per discendere al compromesso con la realtà. Ne è segno il prevalere di tendenze come quella neopositivistica o della filosofia analitica, contro le quali da sempre Marcuse aveva polemizzato e che anche ora attacca con asprezza, scorgendo in esse la denigrazione dei «modi alternativi di pensare che contraddicono l'universo stabilito di discorso»:

Il modo sprezzante con cui Austin tratta le alternative all'uso comune delle parole e tutto ciò che «ci viene in mente quando al pomeriggio stiamo in poltrona»; l'affermazione di Wittgenstein che la filosofia «lascia tutto come si trova» - tali dichiarazioni tradiscono, secondo me, il sadomasochismo accademico, l'autoumiliazione e l'autodenigrazione dell'intellettuale la cui fatica non dia risultati di tipo scientifico o tecnico apprezzabili.

Molto lontano, come si vede, è l'ottimismo che si percepiva in Eros e civiltà, e sembra davvero che Marcuse, in anni che vedono l'inizio dell'impegno militare massiccio degli Usa in Vietnam, non riesca a intravedere forze concrete in grado di contrastare e preparare un'alternativa alla realtà data. Delle due ipotesi tra le quali è lui stesso a confessare di oscillare, quella che gli sembra la più attendibile induce a pensare che «la società industriale avanzata sia capace di reprimere ogni mutamento qualitativo per il futuro che si può prevedere»; l'altra, che vorrebbe «che esistano oggi forze e tendenze capaci di interrompere tale operazione repressiva e fare esplodere la società»,50 gli appare francamente improbabile. Assai debole, pertanto, risuona la speranza con cui Euomo a una dimensione si chiude. Dopo aver dichiarato che la strada indicata dal marxismo non è più praticabile, poiché la classe operaia sarebbe ormai integrata nel sistema e «il "popolo", un tempo lievito del mutamento sociale, è "salito", sino a diventare il lievito della coesione sociale», Marcuse così conclude:

Tuttavia, al di sotto della base popolare conservatrice vi è il sostrato dei reietti e degli stranieri, degli sfruttati e dei perseguitati di altre razze e di altri colori, dei disoccupati e degli inabili. Essi permangono al di fuori del processo democratico [...] perciò la loro opposizione è rivoluzionaria anche se non lo è la loro coscienza. La loro opposizione colpisce il sistema dal di fuori e quindi non è sviata dal sistema; è una forza elementare che viola le regole del gioco, e così facendo mostra che è un gioco truccato. Quando si riuniscono e scendono nelle strade, senza armi, senza protezione, per chiedere i più elementari diritti civili, essi sanno di affrontare cani, pietre, e bombe, galera, campi di concentramento, persino la morte [...]. Il fatto che essi comincino a rifiutare di prendere parte al gioco può essere il fatto che segna l'inizio della fine di un periodo.

d) La fine dell'utopia. L'ultimo Marcuse

Come abbiamo avuto modo di vedere, nella Prefazione politica del 1966 Marcuse attenuava il suo pessimismo, credendo di vedere riaprirsi una prospettiva di alternativa reale, rappresentata dall'apparire di forze vive in via di mobilitazione, capaci di darsi una qualche organizzazione politica. Gli eventi degli anni successivi - la crescente opposizione alla guerra in Vietnam negli Stati Uniti e nel mondo, la protesta nera del Black Power, la nascita della "nuova sinistra" americana e dei movimenti di contestazione studentesca, la rivoluzione culturale cinese, ma anche il risveglio delle lotte operaie in alcuni paesi occidentali, primo tra tutti l'Italia -avrebbero ulteriormente confermato la sua convinzione che la potenza integratrice e normalizzatrice del sistema non sia invincibile e che dunque sia possibile il superamento dell'utopia del "Grande rifiuto", consumato sul terreno della critica astrattamente teorica, in vista della realizzazione di una strategia concreta di liberazione rivoluzionaria.

La visita nel 1967 agli studenti della Freie Universität di Berlino appare il gesto di un filosofo che, sporgendosi oltre il pensiero negativo e la scelta di un impegno esclusivamente teorico, cari alla Scuola francofortese, si mostra disponibile ai pronunciamenti "positivi" e impegnativi dell'azione politica. In questa prospettiva, pur convinto ormai che la tradizionale concezione marxista della rivoluzione abbia fatto il suo tempo dopo le trasformazioni profonde intervenute nell'organizzazione sociale ed economica capitalistica, Marcuse, parlando agli studenti berlinesi, crede di poter individuare le forze concretamente alternative al sistema capitalistico, nessuna delle quali, peraltro, è in grado da sola di produrre la crisi del sistema: dai gruppi sociali di opposizione all'interno degli Stati Uniti - la popolazione dei ghetti, gli intellettuali, gli studenti - ai movimenti giovanili e studenteschi europei, dai Fronti di liberazione nazionale operanti nel Terzo mondo al proletariato industriale di paesi europei come la Francia e l'Italia, che ora non sembra più a Marcuse destinato inevitabilmente, nonostante la socialdemocratizzazio-ne dei partiti comunisti europei, alla stessa integrazione subita dalla classe operaia statunitense.

A questo proposito egli non nasconde, però, un perdurante pessimismo: l'integrazione della classe operaia metropolitana avviene non solo su una base ideologi ca, ma anche «su un terreno molto materiale, molto reale, sul terreno dei bisogni controllati e soddisfatti, che a loro volta riproducono il capitalismo monopolistico».52 Epperò, questo non gli impedisce di affermare che, nonostante

l'enorme importanza del Terzo mondo e delle sue lotte di liberazione per una radicale trasformazione del sistema capitalistico [...] è nelle metropoli che bisogna spezzare la volontà e la potenza del colonialismo, perchè solo la convergenza e la collaborazione tra le forze di opposizione del mondo sviluppato e del Terzo mondo possono permetterci di tradurre in realtà queste speranze.

Ancora nello scritto del 1972, Controrivoluzione e rivolta, traspare un'apertura alla speranza e all'impegno propositivo nel dibattito politico, anche se in esso si avverte l'eco della crisi incipiente della nuova sinistra americana, un già evidente distacco critico dai movimenti studenteschi europei (ora letti come fenomeno di «ribellione puberale»54 di breve durata) e la convinzione, nonostante l'estendersi all'interno della moderna società industriale di potenziali oppositori, nuovi rispetto al proletariato di fabbrica - ricercatori, tecnici, una vasta massa di lavoratori "intellettuali", tutti dipendenti e sfruttati dal capitale -, che la rivoluzione socialista, pur essendo «la più necessaria», sia anche «la più improbabile» in tempi ravvicinati.55

Sul terreno teorico, Marcuse torna di nuovo a confrontarsi con Marx e, pur confermandosi nell'adesione ai Manoscritti del 1844 - il testo marxiano da lui più amato - là dove si parla della rivoluzione come dell'emancipazione integrale dell'uomo, introduce una nuova tematica, già presente in Dialettica dell'illuminismo di Horkheimer e Adorno e che nei decenni successivi sarebbe stata a fondamento dei movimenti ecologici di sinistra: il rapporto uomo-natura-rivoluzione. La liberazione dei sensi e del corpo dall'oppressione, argomenta Marcuse, non potrebbe avvenire senza una corrispondente liberazione della natura dallo sfruttamento distruttivo cui la sottopone la società dei consumi, giacché una «natura mercificata, inquinata, militarizzata, riduce l'ambiente vitale dell'uomo non solo in senso ecologico, ma anche in senso propriamente esistenziale».56

Non è più accettabile, dunque, la concezione, che Marx e il marxismo hanno condiviso con la cultura capitalistica, della natura come semplice oggetto di sfruttamento da parte dell'attività produttiva dell'uomo. Pur nel rifiuto di ogni nostalgia per le epoche pretecnologiche, occorre modificare radicalmente l'uso degli strumenti offerti dalla scienza e dalla tecnologia, in modo da contrastare gli abusi che le stesse, per i condizionamenti della logica del profitto, hanno consentito a danno dell'ambiente naturale.

In uno dei suoi ultimi scritti, La dimensione estetica (1978), appaiono idee sulla funzione "rivoluzionaria" dell'arte non troppo lontane da quelle già formulate da Adorno. Marcuse mette in guardia dalle semplificazioni dell'estetica marxista ortodossa (individuata nell'elaborazione che ne aveva fatto Lukàcs), responsabile di aver ridotto il materialismo storico, e la formulazione dialettica fattane da Marx ed Engels, a una sorta di materialismo volgare professante un rigido e diretto legame tra arte e base materiale. Di questa, e dunque della classe rivoluzionaria in ascesa, l'arte autentica sarebbe diretta espressione, con la conseguente identificazione di politico ed estetico, contenuto rivoluzionario e qualità artistica da un lato, e dall'altro con il riconoscimento del realismo quale unica forma di arte "corretta", perché la sola adeguatamente corrispondente ai rapporti sociali. In questo modo, però, va smarrito il ruolo politico della soggettività, della coscienza individuale, alla cui ribellione nei confronti della realtà costituita si deve l'affermarsi della dimensione estetica, nella quale soltanto sta il potenziale politico dell'arte, e non già nei contenuti di questa. Scrive Marcuse:

Il rapporto [dell'arte] con la prassi è inesorabilmente indiretto, mediato e sfuggente. Più l'opera d'arte è immediatamente politica, più riduce il potere di straniamen-to e gli scopi radicali e trascendenti del mutamento radicale. In questo senso ci può essere un potenziale politico più sovversivo nella poesia di Baudelaire e Rimbaud che nel teatro didattico di Brecht.

Perché si abbia arte, arte autentica, è necessario che un dato contenuto - un fatto di cronaca allo stesso modo che un fatto storico, personale o sociale - si venga trasformando in pura forma estetica, sottratta, come tale, ai determinismi della realtà costituita, frutto dunque di un trascendimento, di una denuncia del reale in grado di svelarne l'essenza, al di là dell'apparenza. Spiega Marcuse:

Il mondo di un'opera d'arte è "irreale" nel senso comune della parola. È una realtà fittizia. Ma è "irreale" non perché sia meno, ma perché è più reale oltre che qualitativamente "altro" rispetto alla realtà stabilita. Come mondo fittizio, come illusione esso contiene più verità di quanta ne contenga la realtà quotidiana. Perché quest'ultima è mistificata nelle sue istituzioni e nelle sue relazioni, che rendono la necessità una scelta e l'alienazione un'autorealizzazione. Solo nel "mondo illusorio" le cose appaiono come ciò che sono e ciò che possono essere. In virtù di questa verità [...] il mondo è invertito: è la realtà data, il mondo ordinario che ora appare come una realtà bugiarda, falsa, ingannevole.

Due sono le «qualità radicali dell'arte» che ne fanno un'attività rivoluzionaria: da un lato «la denuncia della realtà costituita», dall'altro «l'evocazione della bella immagine della liberazione».

Di qui l'emergere, nella dimensione estetica, della soggettività ribelle e del valore dell'interiorità, che l'estetica marxista ortodossa ha avuto il torto di svilire quali concetti "borghesi". E invece, contro la società del capitalismo monopolistico

che amministra tutte le dimensioni dell'esistenza umana [...] il volo nell'interiorità e l'insistenza sulla sfera privata possono ben servire come baluardo [...] l'interiorità e la soggettività possono ben diventare lo spazio interiore ed esteriore per la sovversione dell'esperienza, per l'emergere di un altro universo.

Il che non vuol dire, naturalmente, che l'arte sia in grado di innescare la prassi politica capace di cambiare il mondo. Tanto più che oggi, in presenza di un proletariato in grande misura integrato nella società esistente, in assenza di una prassi della liberazione,

il soggetto a cui si rivolge l'arte autentica è socialmente anonimo; esso non coincide con il soggetto potenziale della pratica rivoluzionaria. Più le classi sfruttate, il "popolo", soccombono ai poteri costituiti, più l'arte sarà estraniata dal "popolo".

Di qui il carattere elitario dell'arte che aspiri a essere una forza radicale, il suo non poter stare "in mezzo al popolo", che fa addirittura dire a Marcuse che «l'arte rivoluzionaria può ben diventare "il nemico del popolo"». Solo così essa, se non può cambiare il mondo, «può contribuire al cambiamento della coscienza e degli impulsi degli uomini e delle donne che potrebbero cambiare il mondo».62

Nello scrivere queste ultime parole, Marcuse pensava al movimento degli anni sessanta, «teso a una trasformazione radicale della soggettività e della natura, della sensibilità, dell'immaginazione e della ragione».63 C'è invece oggi chi scrive che

riprendere Marcuse oggi, è tutto fuorché un déjà vu stile anni sessanta, è piuttosto ritrovare un'attrezzatura - un'arma - per questo tempo di ora. Un'arma contro l'imperativo di qualunque potere nel conflitto che intercorre fra la stupidità globale e la sopravvivenza. Chi l'ha detto che il mondo è stato tutto già scoperto? Che è destinato a rimanere quello che è? Un altro mondo è possibile, in questo mondo, qui, ora, proprio nel momento in cui il potere sta emanando i suoi decreti ed esercitando le sue disposizioni.

L'ultimo scritto di Marcuse è rappresentato da un breve saggio, L'angoscia di Prometeo, pubblicato in rivista proprio nei giorni della morte dell'autore, avvenuta alla fine di luglio del 1979. Vi si torna a parlare del processo della «distruzione produttiva», «irreversibile nell'ambito della società capitalistica»,65 per il quale all'aumento della produttività sotto la pressione del tasso di profitto e dell'estendersi dell'accumulazione corrisponderebbe un aumento della distruzione delle risorse naturali. Anche qui Marcuse insiste sull'urgenza di una «tecnica dell'emancipazione» alternativa a quella del potere, capace, in base a priorità sociali diverse secondo cui condurre la ricerca, di lavorare a una riconciliazione dell'uomo con la natura.

Di fronte a una storia dell'umanità incamminata sulla strada di un progresso che per i "figli di Prometeo" non potrebbe che significare distruzione, vita alienata, crescente aggressività, Marcuse non mostra di credere ad alternative dettate da prospettive semplicemente politico-economiche, quanto alla necessità di una "rivoluzione culturale" che significhi risveglio della soggettività e diffusione di comportamenti individuali e sociali alternativi, come il rifiuto della competitività, l'emancipazione del corpo dal suo uso come strumento di produzione, una nuova sensualità ecc. «L'emancipazione dalla società dei consumi deve diventare un bisogno vitale degli individui. E questo presuppone anche una trasformazione radicale della coscienza e della struttura pulsionale dell'individuo», se è vero che quella oggi dominante «comporta l'adesione alla distruzione, l'abitudine alla vita alienata, il consenso non sempre silenzioso all'aggressione».66 Sta nascendo quasi spontaneamente un'opposizione di tipo nuovo, «in gran parte fuori e contro i partiti politici e le organizzazioni di classe tradizionali». Si tratta di

una protesta che proviene da tutte le classi sociali, radicata in una profonda incapacità materiale e spirituale a identificarsi, nella volontà di salyare quanto ancora è salvabile dell'umanità, della felicità, dell'autodeterminazione. E la rivolta dell'istinto di vita contro l'istinto di morte socialmente organizzato.

Marcuse individua le componenti di questo avanzamento verso il nuovo

nel movimento delle donne contro il potere patriarcale, che solo nel capitalismo è venuto a maturazione; nella protesta che va al di là della divisione in classi, per esempio contro il nucleare, contro la distruzione della natura come fonte di vita; nel movimento degli studenti, sempre ancora vitale nonostante tutte le dichiarazioni di morte, nella sua lotta contro la degradazione dell'insegnamento e dell'apprendimento funzionale al sistema.

C'è, peraltro, un rischio, avverte Marcuse, che accompagna un fenomeno di portata protestataria come questo, così legato alla preminenza di fattori soggettivi: quello dell'elitarismo, dell'isolamento dalle masse, dell'impoliticità, il rischio, alla fine, di «impantanarsi nell'intimismo», di intraprendere quel «viaggio interiore» che conduce all'«ipertrofia dell'io come centro anche dell'universo politico», come se tutti i problemi dell'io fossero imputabili alla società divisa in classi. Contro questo rischio si può, comunque, approntare una difesa efficace. E a questo sono dedicate le ultime parole marcusiane:

C'è un criterio, al quale riferirsi, per distinguere oggi un'interiorità autentica da una non autentica: ogni introversione, ogni memoria che non tenga a mente Auschwitz, che è mostrata come irrilevante dal ricordo di Auschwitz, è fuga, scappatoia; un concetto di progresso che non contiene un mondo in cui Auschwitz è ancora sempre possibile è (nel senso negativo) solo un'astrazione.

10. Reich: rivoluzione sessuale e rivoluzione politico-sociale

Wilhelm Reich appartiene alla storia "ereticale" della psicoanalisi. Rappresentante della "sinistra freudiana", promuove tra gli anni venti e trenta il primo tentativo di un incontro tra psicoanalisi e marxismo, che avrebbe dato vita al cosiddetto "freu-do-marxismo", di cui anche Marcuse fa a buon diritto parte.

Reich nasce nel 1897 a Dobrzcynica, in Galizia, ai confini nord-orientali dell'impero austro-ungarico, in una famiglia di agricoltori di lingua tedesca. Socio fin dal 1920, ancora studente di medicina, della Società psicoanalitica viennese e operatore, dal 1922 al 1930, presso il Policlinico psicoanalitico di Vienna, Reich ha modo di sperimentare la terapia delle nevrosi non nella separatezza del rapporto privato analista-cliente, quest'ultimo appartenente - di norma - alla classe borghese, bensì nel cuore stesso della società, a contatto con un pubblico ampio e socialmente promiscuo.

Frutto di questa esperienza, e di quella acquisita come militante del Partito comunista a cui si iscrive nel 1927, è una duplice indicazione, decisiva per il successivo sviluppo delle sue idee: in primo luogo, l'improponibilità della psicoterapia individuale, così prolungata nel tempo e accessibile solo a un ristretto numero di pazienti privilegiati, per la cura di disturbi nevrotici largamente diffusi in tutti gli strati sociali; in secondo luogo, lo stretto nesso esistente tra repressione sociale e logica del potere da un lato e repressione della sessualità dall'altro. La militanza comunista, in particolare, gli consente di scoprire, attraverso l'istituzione di centri popolari di igiene sessuale, quella che egli avrebbe chiamato la «miseria sessuale di massa»: nevrosi, perversioni, aborti clandestini, disinformazione sessuale, angosce giovanili, impossibilità di una sana e soddisfacente vita sessuale.

Da questa esperienza, medica, sociale e politica insieme, Reich trae gli elementi per fare i conti con la teoria e la pratica terapeutica freudiana, il che lo conduce in breve tempo verso posizioni di aperta dissidenza, di cui sono testimonianza gli scritti di quegli anni, come La funzione dell'orgasmo (1927) e Materialismo dialettico e psicoanalisi (1929). Nel 1930, per sfuggire alla diffidenza dei freudiani ortodossi, si trasferisce a Berlino, dove milita nelle file del Partito comunista tedesco e pubblica le sue opere più significative: L'irruzione della morale sessuale coercitiva (1932), La lotta sessuale dei giovani (1932), Analisi del carattere (1933), La psicologia di massa del fascismo (1933) e infine La rivoluzione sessuale (1936). In rotta con il partito fin dal 1932 a causa della sua propaganda tra i giovani iscritti e per le posizioni prese nel saggio La psicologia di massa del fascismo, Reich viene escluso nel 1934 anche dalla Società psicoanalitica internazionale, quando già si trova a errare attraverso l'Europa per sfuggire al nazismo trionfante. Nel 1939 si trasferisce negli Stati Uniti, dove inaugura una nuova fase della sua vita e del suo pensiero.

D'accordo con Freud circa l'eziologia sessuale dei disturbi nevrotici, e in particolare con gli orientamenti del primo Freud - quello del saggio su La morale sessuale "civile" e il nervosismo moderno (1908) -, Reich esprime il proprio radicale dissenso nei confronti della svolta, che definisce «idealistica», operata dal Freud di Al di là del principio di piacere e II disagio della civiltà. Partendo da un presupposto di sapore rousseauiano, secondo il quale la natura umana sarebbe all'origine integra e incontaminata negli istinti e genuinamente rivolta alla felicità, in primo luogo a quella sessuale, egli nega che si possa parlare di un impulso distruttivo originario come quello freudiano di Thanatos che, viceversa, sarebbe un derivato della repressione degli istinti, in particolare della repressione sessuale cui gli uomini sono sottoposti dal condizionamento sociale. Quanto poi alle tesi del Disagio della civiltà, Reich obietta che il discorso del maestro è viziato da un concetto destoriciz-zato di civiltà, sicché il sacrificio della pulsione sessuale, che viene considerato inevitabile per garantire gli interessi della civiltà in generale, in realtà è richiesto da un determinato tipo di civiltà, cioè quello segnato dai rapporti sociali e dal sistema economico capitalistico. Il principio di realtà, che Freud assume senza chiedersi di quale realtà si tratti, rappresenta una vera e propria mistificazione. Per non dire del fatto che la sublimazione, proposta come modo di "risolvere" il conflitto libido-civiltà, è in effetti praticabile solo dai privilegiati che frequentano il "salotto" dello psicoanalista, mentre il proletariato ne è irrimediabilmente escluso in partenza. Del testo, anche il primo Freud, condizionato com'era dall'assenza di una preparazione sociologica e da idee politiche piuttosto conservatrici, non avrebbe condotto alle sue ultime necessarie conseguenze la teoria dell'origine sessuale delle nevrosi, contentandosi di ottenere, attraverso il trattamento terapeutico, la liberazione del paziente dalla rimozione inconscia delle pulsioni, e di sostituirla con la rinuncia consapevole alle medesime.

Reich non accetta un tale esito. Si convince che la nevrosi sorga, per l'appunto, dalla rinuncia alla soddisfazione della sessualità genitale, tanto da fare, già ne La funzione dell'orgasmo, delle nevrosi attuali, provocate non dai conflitti rimossi dell'infanzia bensì da un inappagamento sessuale nel presente, l'origine anche delle psiconevrosi approfondite da Freud. Tale origine viene ricercata nell'impotenza or-gastica, ossia nell'incapacità, indotta dalle resistenze antipulsionali, di donarsi interamente nell'amplesso genitale, attraverso un completo abbandono, da parte dell'uomo e della donna alla convulsione involontaria dell'orgasmo, con la conseguente scarica completa dell'eccitazione. L'energia vitale non liberata provocherebbe un ingorgo nell'organismo - la «stasi sessuale» - responsabile di fornire ai sintomi nevrotici una sorgente continua di energie. Pertanto, la guarigione dalla nevrosi -questa la fin troppo lineare consequenzialità del discorso reichiano - richiede una vita sessuale caratterizzata dal recupero della pienezza della potenza orgastica.

Ma all'origine delle difficoltà della sessualità genitale - cui Reich, in questo caso freudiano ortodosso, riconosce un primato assoluto nella vita sessuale umana - si nasconde la repressione sociale della sessualità. La miseria sessuale delle masse, inestricabilmente intrecciata com'è alla miseria sociale, ne è una prova inappellabile. Negli stessi anni in cui prendono avvio, a opera degli esponenti della Scuola di Francoforte, gli studi sull'autorità, la famiglia, i condizionamenti culturali, Reich è tra i primi a sottolineare la funzione repressiva della sessualità cui assolve la famiglia, attraverso l'educazione sessuofobica dei bambini e dei giovani, la proibizione dei rapporti sessuali prima e al di fuori del matrimonio, il forte condizionamento di istituzioni come il matrimonio monogamico.

La lettura del libro di Engels sull'Origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato, la critica condotta da Malinowski della presunta universalità del complesso edipico, aiutano Reich a consolidare questi suoi orientamenti. In linea generale, egli conclude che la funzione repressiva svolta dalla famiglia si inserisce in un ordinamento sociale come quello capitalistico, interessato a imporre alle classi subalterne non solo il dominio materiale ed economico della classe al potere, ma anche la propria ideologia, quale puntello essenziale di quello stesso dominio. L'introiezione di massa dell'ideologia sessuofobica favorisce, infatti, la formazione di individui passivi, acritici, disposti alla sottomissione. Questo è quanto si può ricavare dalla teoria reichiana del carattere, quale viene esposta nello scritto intitolato Analisi del carattere, nel quale Reich sostiene che ogni individuo possiede una sorta di «armatura caratteriale», mediante la quale si difende dagli stimoli provenienti dal mondo esterno o dal suo inconscio. Essa, indotta dalla struttura sociale in cui una persona si trova a vivere, ne limita più o meno gravemente la mobilità psichica; compito non facile della terapia analitica è quello di aprirvi dei varchi, onde liberarne le energie imprigionate dell'uomo.

L'armatura caratteriale è formata da più strati, fungenti da linee di difesa inconsce nei confronti degli impulsi non tollerati dalla società, e che irrigidiscono entro modelli stereotipi la condotta della persona: uno superficiale, che rende disponibile l'individuo nei confronti del ruolo e delle responsabilità che riveste nella vita sociale, un secondo sottostante, corrispondente al rimosso freudiano, costituito dagli impulsi aggressivi e perversi conseguenti all'azione repressiva della società. Nel profondo si nasconde il "nucleo biologico" costitutivo della natura originaria dell'uomo, soffocato dalle strutture sovrastanti.

Con queste premesse teoriche, Reich conduce a Vienna, e soprattutto a Berlino, la sua battaglia per la liberazione sessuale. Nel 1931 promuove Sexpol, l'Associazione per una politica sessuale proletaria che finisce per coinvolgere quasi cinquantamila giovani nella prospettiva di una lotta anticapitalistica, il cui esito vittorioso soltanto può creare i presupposti per un'autentica liberazione sessuale.

Il merito principale di Reich è stato quello di aver atteso per primo al progetto teorico di conciliare tra loro psicoanalisi e marxismo, salvaguardando la prima dalla deriva idealistica iniziata con l'abbandono da parte di Freud del panedonismo originario - ulteriormente accentuatasi in Adler e Jung - e liberando il secondo dai suoi limiti economicistici. Psicoanalisi e marxismo sono considerati di Reich prospettive parziali e insufficienti se approfonditi separatamente e, invece, efficaci a penetrare la dialettica psicosociale dell'uomo, una volta integrati l'una nell'altro. Alla psicoanalisi il marxismo può offrire il contesto sociologico che le manca per esprimere le potenzialità di contestazione radicale dell'assetto sociale che pure essa racchiude in sé, ma che il suo rapporto di connivenza con la cultura e la società borghesi le ha fatto finora sacrificare; la psicoanalisi, per parte sua, è in grado di colmare il deficit di psicologia sociale che impedisce al materialismo storico di liberarsi da interpretazioni puramente economicistiche della realtà sociale.

Non basta, per esempio, che i comunisti spieghino il fenomeno di massa del fascismo con la tesi, pur avente una sua parziale verità, che esso rappresenterebbe la reazione di classe del capitalismo contro l'ascesa del proletariato e sarebbe la conseguenza del fallimento della politica socialdemocratica; fermarsi a questo significa non poter spiegare come sia stato possibile al nazifascismo ottenere il consenso delle masse popolari, in un'epoca in cui, agli occhi di Reich, vi sarebbero tutti i presupposti economici per la crisi del capitalismo e il successo della rivoluzione socialista. Scrive Reich:

Non sarebbe più logico chiedersi che cos'è, nelle masse e dentro le masse, a render loro impossibile di riconoscere la vera funzione del fascismo? Le solite formule: «1 lavoratori debbono rendersi conto...», o le autocritiche del tipo «noi non abbiamo capito che...» non servono a nulla. "Perché" i lavoratori non si rendono conto e "perché" noi non abbiamo capito?

E qui che la psicoanalisi viene in soccorso. Essa è in grado di spiegare, infatti, comportamenti politici delle masse che non sarebbero mai derivabili dagli interessi economici: l'analisi del carattere, lo studio della famiglia patriarcale e piccolo-bor-ghese e della sua funzione repressiva, consentono di comprendere la "struttura caratteriale" di tipo autoritario, indotta dal potere dominante tra le masse, che ha portato queste ultime a interiorizzare il rispetto e l'accettazione del "capo", estremo esito di quella castrazione dell'individuo iniziata in famiglia, nel rapporto del figlio con l'autorità del padre.

Questi orientamenti incontreranno l'aperta ostilità, come si è detto, oltre che naturalmente della Società psicoanalitica, anche del Partito comunista tedesco, fermo all'economicismo della tradizione marxista e non disponibile, per la sua stessa struttura autoritaria, ad accettare la linea politica del Sexpol, in un'epoca in cui anche in Urss erano tornati in auge, con lo stalinismo, il culto dell'autorità e della famiglia, nonché il sospetto nei confronti della sessualità.

Il periodo americano, dal 1939 fino alla morte, segna il distacco di Reich dal marxismo e il prevalere di quella tendenza alla radicale "biologizzazione" della libido, spogliata di ogni segno culturale, i cui inizi erano già avvertibili nella teoria del nucleo biologico del carattere. Egli converte progressivamente il trattamento analitico delle nevrosi in medicina psicosomatica e "vegetoterapia" (una sorta di manipolazione del corpo del paziente, finalizzata alla soluzione delle rigidità muscolari responsabili della corazza caratteriale), e soprattutto va alla ricerca dell'orgone, l'ipotetica energia cosmica bioelettrica primordiale imprigionabile in speciali accumulatori "orgonici", di cui una manifestazione sarebbe anche l'energia sessuale. Aspetti deliranti contrassegneranno sempre più queste fantasiose e suggestive ricerche. Reich muore nel 1957 in carcere, dopo una condanna per ciarlataneria inflittagli da un tribunale statunitense.