www.treccani.it
Critico letterario italiano (Colle Sannita 1891 - Bologna 1962). La
sua critica, partendo dalle giovanili esperienze del dannunzianesimo
e del futurismo, si basa sui principi dell'estetica del Croce e in
genere dello storicismo idealista, ma la sua ricerca e il suo metodo
si volgono soprattutto a individuare il valore "musicale", il ritmo
e il potere trasfigurativo della parola.
Vita
Fu prof. di letteratura italiana dal 1949 all'università
Bocconi di Milano e dal 1953 in quella di Bologna e socio nazionale
dei Lincei (1946). Già redattore capo, per molti anni, della
Critica di B. Croce, fondò e diresse anche varie riviste, fra
cui La Rassegna d'Italia (1946-49) e Letterature moderne (1950).
Curò inoltre numerose edizioni di classici, fra cui,
particolarmente pregevole, quella di Tutte le opere del Leopardi,
nella collezione dei "Classici Mondadori", da lui stesso diretta.
Opere
Opere principali: Dal romanticismo al futurismo (1921); D'Annunzio
(1926); Croce (1927); I miti della parola (1931); La poesia ermetica
(1936); Storia della letteratura italiana (3 voll., 1940-42; ed.
ampliata, 5 voll., 1947, più volte ristampata); Taverna del
Parnaso (1943); Saggi di poetica moderna (1949); Scrittori italiani
contemporanei (1952); Leonardo (1952); Orfismo della parola (1954);
La poesia di Giovanni Pascoli (1959); Preludio alla poesia (1959);
La poesia della Bibbia (2 voll., 1959); La poesia dell'Egitto e
della Mesopotamia (1960); Poesia e impoesia nell'Ulisse di Joyce
(1962). Scrisse anche romanzi (La città terrena, 1927; Mida
il nuovo satiro, 1930) e poesie (Canti spirituali, 1955).
*
DBI
di Massimo Onofri
FLORA, Francesco. - Nacque il 27 ott. 1891 a Colle Sannita
(Benevento) da Giuseppe e Vincenza Di Lecce. Trovatosi, poco
più che adolescente, a capo di una numerosa famiglia per la
prematura morte del padre, proseguì egualmente gli studi,
prima a Benevento e poi a Roma, dove si laureò in
giurisprudenza, senza mai abbandonare gli interessi musicali e
letterati. Nel 1912, infatti, con l'articolo Di alcuni atteggiamenti
dell'arie nuova, apparso ne La luce del pensiero, dette inizio a
quell'intensa attività pubblicistica che lo impegnò
tutta la vita. Nel 1915 partecipò alla I guerra mondiale come
ufficiale di artiglieria alla Scuola Bombardieri di Susegana. A
conflitto finito, si trasferì a Napoli, ove, per via di una
recensione su L'Azione di Genova alla terza serie delle Pagine
sparse di B. Croce raccolte da G. Castellano, conobbe nel 1920 il
filosofo abruzzese, della cui casa divenne d'allora in poi assiduo
frequentatore.
Qui entra in amicizia con F. Nicolini, A. Omodeo, G. De Ruggiero, F.
Chabod, L. Russo, G. Citanna, A. Parente, M. Vinciguerra, e con i
poeti S. Di Giacomo e F. Russo, fino ad occupare nel gruppo degli
intellettuali napoletani crociani, per la spregiudicata attenzione
alla nuovissima letteratura, quel posto che solo pochi anni prima
era stato di G.A. Borgese, ormai irreparabilmente in rotta con il
maestro.
Nel '21 dette alle stampe Dal romanticismo al futurismo (Piacenza).
Come scrisse nel prologo alla nuova edizione (Bari 1925), non si
trattava soltanto di esaminare una stagione artistica, ma di
"trovare l'orientamento morale di un pensiero di fronte alla
letteratura d'oggi".
Tale orientamento era offerto dall'estetica di Croce, che veniva
opposta alle recenti formulazioni simboliste bergsoniane e
futuriste: una concezione dell'arte come intuizione lirica e
cosmica, nel segno dell'identità di intuizione ed
espressione, di genio e gusto; il rifiuto della teoria dei generi e
della classificazione delle arti (dì mera utilità
pratica), in nome della rigorosa individualità del prodotto
artistico; una nozione di critica come attività che
caratterizza e riproduce nel pensiero un'opera d'arte, e distingue
in essa "ciò che nel campo dello Spirito non è arte,
ma logica o economia o pratica".
Nella sua analisi il F., sulla scorta di Croce, separava nettamente
G. Carducci, ultimo classico, da G. D'Annunzio e G. Pascoli, veri
ispiratori, in sintonia con la coeva letteratura francese (da Ch.
Baudelaire a S. Mallarmé a P. Valéry), della nuova
poesia, viziata dalla "concupiscenza", dal "frammentarismo
impressionistico ed impreciso" e da una certa confusione tra arte e
vita. A paradigma della letteratura recente il F. poneva il
futurismo, inteso, oltre ogni formula marinettiana, come "atmosfera
spirituale di un'età", nei suoi aspetti di viva attenzione
per la vita moderna, di ricerca esasperata del nuovo e di lotta
contro ogni forma di "passatismo".
Il libro, che si chiude con la ribadita adesione all'estetica di
Croce nei confronti dei presunti superatori italiani (il Borgese, E.
Cecchi, E. Serra, G. De Robertis), non poteva che generare, accanto
ai consensi dei seguaci del filosofo (Castellano, Citanna), severe
critiche quali quella d'aver fattoppera acriticamente apologetica
(A. Gargiulo). È pur vero, però, che se il F. aveva
condiviso la crociana svalutazione morale della "decadenza
romantica", espressa in un saggio del 1907 (Di un carattere della
più recente lett. it.), se ne era poi discostato per aver
ravvisato nel futurismo le contraddizioni foriere di un "ordine
nuovo" in poesia, lodandone, inoltre, l'impiego di nuove tecniche
artistiche. Per non dire della distanza dello stile limpido e
rigoroso del filosofo da quello immaginifico del F., ricondotto
dagli interpreti a moduli dannunziani (G. Marzot, E. Mazzali), a
certo secentismo (L. Russo), al neobarocco napoletano di un V.
Imbriani (Russo, Mazzali), e che poteva apparire, in questo
giovanile lavoro, persino "approssimativo e bombardiero" (Cecchi).
Certamente, il libro è un'"autobiografia mentale" (Russo), ma
per la prima volta, benché in forma di intuizione generale,
assume la nuova stagione letteraria come età storicamente
isolabile (R. Scrivano), ad avviare quegli studi sul decadentismo
che tanta fortuna avranno nella futura storia della critica.
Nel 1923 entrò nella redazione de La Critica diretta da
Croce, della quale, l'anno dopo, divenne editore responsabile,
incarico che conservò fino al '44, quando la rivista si
mutò nei Quaderni della Critica. Nel contempo, si iscrisse
all'Associazione della stampa periodica italiana, rimanendovi fino
al '27, allorché ne venne escluso per motivi politici. Sono
questi gli anni in cui collaborò a Le Battaglie del
Mezzogiorno, Il Giornale d'Italia, Il Secolo XX, Il Mattino, Lo
Spettatore italiano, Leonardo, La Fiera letteraria e, dal 1929, a
Pegaso. Nel '26 pubblicò il D'Annunzio (Napoli), ove, ad
integrare il giudizio crociano sul "dilettante di sensazioni", ne
riesaminava l'intera opera, distinguendo la "parola-azione" della
lussuria non riscattata in arte dalla "parola-musica", l'"oratore
della concupiscenza" dal poeta di grande valore. Nel 1927 dette alle
stampe il Croce (Milano), a chiarire e compendiare alcuni temi di
"un pensatore che considera la disciplina del pensiero, come
metodologia della storia". Nello stesso anno pubblicò il
primo romanzo La città terrena (Foligno), la cui stesura lo
aveva impegnato sin dal '19.
Nel libro si narra la storia di Giuliano Solari, estetizzante
verseggiatore, sempre vincitore in amore, nell'alternarsi di eventi
luttuosi che riscatteranno, nell'esperienza del dolore, lo smanioso
superuomo: il tutto in una cornice folta di personaggi e vicende
parallele. Il romanzo, di chiara ispirazione dannunziana (Citanna,
P. Nardi, Mazzali), se non merita l'accusa di "basso
daveronianesimo" (A. Cajumi), non pare nemmeno dominato dalla
"religione della bellezza musicale" (Citanna), ma segnato da una
sovrabbondanza verbale, di schemi e di modelli letterari (Cajumi).
Nel 1928 curò le Poesie di V. Monti (Firenze) e De gl'heroici
furori di G. Bruno (Torino), con introduzione e note, dando inizio
alla sua lunga attività filologica. Nel '30 pubblicò
Mida il nuovo satiro (Milano), favola allegorica che narra la storia
amorosa di un illusionista, Mida, e di una ballerina, i quali,
carpito il segreto dell'eterna giovinezza, percorrono i secoli al
ritmo di prodigiose metamorfosi.
Nel 1931, per motivi economici e familiari, ma soprattutto per
l'aumentata aggressività dello squadrismo fascista, si
trasferì a Milano ed assunse, mantenendola sino alla morte,
la direzione della collana mondadoriana "Classici italiani",
inaugurata con i due volumi delle Opere di M. Bandello (1934-35) da
lui curati. Nel contempo, iniziò la collaborazione a
L'Ambrosiano, L'Illustrazione italiana e Il Lavoro, e
pubblicò I miti della parola (Trani 1931).
Il libro muove dall'assunto che dietro ogni immagine di poesia,
anche la più oggettiva, vi sia un "certo fluido spazio che
ogni lettore riempie a suo modo, soprattutto con ricordi
d'infanzia", nel quale "la visione poetica si fa corporea proprio
per quelle linee personali che la nostra esperienza di vita apporta
alle sillabe e ai segni di uno scrittore". La parola, saggiata
più nelle sue interne risonanze che nella sua portata
storica, è, di continuo, nel gioco delle infinite analogie,
evocatrice di miti e, quindi, perenne metafora. Su tali premesse, di
ispirazione "baudeleriana-dannunziana-proustiana" (Russo), il F.
ribadiva la sua adesione al crocianesimo: non senza aver
identificato la nozione di "liricità" con quella di
musicalità, eletta a canone interpretativo della poesia, e
aver posto il principio dell'unità di tutte le arti a
fondamento di frequenti traslazioni di termini e significati. In tal
senso, pare lecito dire che, in più punti, il F. riviva il
pensiero di Croce, mettendo quasi capo a una concezione
dell'attività estetica, più che metaforica,
"metamorfosica" (A. Bocelli): a rendere con la parola poetica non
solo i ritmi delle umani generazioni, ma dell'intero creato.
Nel 1934 curò le Poesie di T. Tasso (Milano), dando avvio
così alla nuova critica tassiana (L. Caretti), e Il fiore
delle Laudi di D'Annunzio (Milano), chiosate con acute note sulla
lingua del poeta, anche per correggere qualche conclusione troppo
schematica della monografia del'26. Sempre nel 1934 pubblicò
Civiltà del Novecento (Bari, 3 ed. con agg., 1949),
appassionata difesa del "macchinismo", in anni in cui si andava
profilando quella critica alla società tecnologica che, da E.
Husserl a M. Heidegger fino a T.W. Adorno e M. Horkheimer, avrebbe
caratterizzato la storia del pensiero europeo.
Nella prima parte del libro, infatti, il F. compone le varie forme
della vita contemporanea in una sorta di religio hominis e prende le
distanze da tutti gli apocalittici critici del progresso
scientifico, nella piena accettazione dei valori e dei riti della
civiltà tecnologica: la radio, il cinema, la réclame,
e i moderni meetings sportivi di massa.
Nella seconda parte (Difesa e apologia dell'uomo), a sostegno del
suo "umanesimo della macchina", il F. tentava, con passo filosofico
non sempre sicuro, la confutazione di alcune teorie che, a suo dire,
privavano l'uomo di ogni responsabilità morale, asservendolo
o a leggi storiche fatali, come ne Il tramonto dell'Occidente di O.
Spengler, o a "istinti brutali", come in certa letteratura (A. Gide
e D.H. Lawrence) e nella nuova dottrina psicologica freudiana. Di
particolare rilievo le molte pagine dedicate a S. Freud, che
rappresentano, insieme a quelle di De Ruggiero, la testimonianza
più chiara delle incomprensioni della cultura idealistica
italiana nei riguardi del fondatore della psicanalisi, tacciato
d'aver rinnegato "l'humanitas, la responsabilità e la
dignità dell'uomo".
Nel 1936 curò l'edizione de Il codice Baruffaldi della
Gerusalemme e dell'Aminta di T Tasso (Milano), del quale si
provò a sostenere l'autenticità, e dette alle stampe
La poesia ermetica (Bari), a consacrare storicamente, con tale
fortunato aggettivo, una stagione della poesia contemporanea.
Vi sono esaminate le opere di G. Ungaretti e P. Valéry,
massime espressioni di un'arte rarefatta, intensamente allusiva, che
ha sostituito la similitudine con l'analogia. Il F. nega decisamente
che tali alchimie verbali possano coincidere sempre, in quanto
fondate sul metodo analogico, con l'essenziale liricità, e
scorge in esse il compiacimento per l'imprecisione degli
accostamenti e per l'ambiguità delle immagini, e l'indugio su
una certa istintualità non riscattata, rintracciando un
limite psicologico nel sentimento non chiarito.
Nel 1937 apparve il primo volume delle opere di G. Leopardi (Milano,
1937-49), rivedute attentamente sugli autografi e corredate da un
ricchissimo apparato critico-filologico. Nel '40, inoltre, il F.
licenziò il Foscolo (Milano), mentre, dal 1939 al '41,
pubblicò a Parigi per i tipi di Tallone Il Giorno di G.
Parini e la Commedia dantesca. Sono questi gli anni in cui il regime
tentò, sul piano della cultura, un incontro con gli
intellettuali antifascisti che culminerà nell'esperienza di
Primato; ma l'opposizione del F. fu irriducibile, nella rinunzia a
un seggio dell'Accademia d'Italia e alla cattedra di letteratura
italiana presso l'università di Pavia, per non dover prendere
la tessera fascista.
Sempre nel 1940 apparve la Storia della letteratura italiana
(Milano), il cui Novecento (curato da L. Nicastro, conosciuto ai
tempi della grande guerra) sarà scritto dal F. solo per la
VII edizione (Milano 1953). Si tratta di un lavoro monumentale,
dalle vastissime letture di prima mano i cui pregi principali
risiedono nella compiutezza con la quale sono passati in rassegna
gli autori, e nell'abilità con cui si è saputo "far
risuonare ... le estreme note e le minime entità del nostro
universo poetico e letterario" (G. Getto). Ma la Storia, nonostante
la grande quantità di informazioni biografiche e
bibliografiche, di notazioni sul contesto storico e culturale di
un'età, di minuziosi resoconti circa le trame dei racconti,
romanzi, commedie, tragedie e poemi, non segna in alcun modo un
superamento del crociano dissenso per una storia letteraria ed
evolutiva, attenta alle relazioni stilistiche ed ideologiche tra le
opere, piuttosto che alla loro individualità e
irripetibilità.
Il fine dominante, infatti, rimane la ricerca del sentimento guida
che informa ogni opera, della sua essenziale liricità e
"tonalità": a disegnare, più che un quadro di robusta
storicità, una galleria di monografle, sorrette da una messe
di citazioni, che ad alcuni è parsa "quasi una crestomazia
della letteratura italiana" (R. Wellek) o, addirittura, "una storia
senza storia" (Marzot). Il F., dunque, sembra dare una prova
generale della sua estetica, in una prosa lussuosa ma certo
vibratile, condotta per delibazioni progressive, prestando agli
autori "un omogeneo colore di attualità novecentesca"
(Marzot), a causa del quale, si direbbe, la poesia è sempre
poesia contemporanea.
Non sorprende, quindi, che migliori siano le interpretazioni degli
autori congeniali: Petrarca, di cui celebra la "quasi inavvertita
melodia"; Leonardo, "pittore del sorriso"; Tasso, dalla "serena
sensualità", i cui personaggi rappresentano i "simboli
melodici nei quali il poeta compone la storia ideale della sua
anima"; Monti, il poeta della "bellezza tutta sensibile
dell'universo"; Foscolo, le cui Grazie sono il suo risultato
più alto; D'Annunzio, Pascoli e S. Di Giacomo. Degna di nota,
pur nella ricerca dei momenti di poesia, la difesa dell'allegorismo
di Dante, o le pagine dedicate a Leopardi, che ha fatto della parola
una "metafora interamente trascritta", privandola di "ogni sapore e
colore e odore di comunicazione pratica".
Di grande efficacia, per unanime consenso, il capitolo dedicato al
barocco, in cui non ravvisa, sulla scorta di E. D'Ors, una categoria
ricorrente da opporre al classico, ma un preciso momento storico,
nel quale scorge il primo affermarsi di quell'analogismo,
così importante nella poesia contemporanea. Di rilievo le
parti dedicate a G. Galilei, G. Bruno, T. Campanella e G. Vico,
riguadagnati pienamente alla storia letteraria. Meno felici le
analisi di gran parte degli scrittori in prosa (Wellek), in
particolare A. Manzoni e G. Verga, del quale, nonostante la
fondamentale monografia del Russo, disapprova lo stile "apersonale e
come pietrificato", privo del "dono della musica", pur con
apprezzamenti per la "inesta cantilena siciliana".
Nel 1941 uscirono a Parigi, per sua cura, i Triumphi del Petrarca e,
l'anno dopo, le Rime di Dante. Nel '43 avviò a Milano la
nuova serie del Saggiatore, "rivista di varia umanità", che
affidò a C. Cordié, giacché, sopravvenuta
l'occupazione tedesca e instaurata la repubblica di Salò, fu
costretto ad un'avventurosa fuga verso Napoli, che raccontò
poi in Viaggio di fortuna (Milano 1945). Dal 25 luglio all'8 sett.
del '43 fu segretario nazionale del sindacato degli scrittori, in un
crescente impegno civile e politico che culminerà nel
vibrante Appello al re (Napoli 1943), nell'intensa attività
pubblicistica, nelle conversazioni radiofoniche, poi riprodotte in
Ritratto di un ventennio (ibid. 1944), e in scritti come Stampa
dell'era fascista (Roma 1945). Sempre nel 1943 fu edito Taverna del
Parnaso, dal titolo di una sua fortunata rubrica giornalistica ove
raccolse, tra l'altro, due vecchi scritti di riflessione sulle
"istituzioni letterarie" (Getto) - La polemica dell'endecasillabo e
La rima -, saggi su Cecchi, A. Baldini, R. Bacchelli e un bel
Ricordo di un'edizione leopardiana. L'anno seguente fondò a
Napoli Aretusa, la prima rivista letteraria dopo la dittatura
nell'Italia ancora occupata e divisa, cui fa seguire La Rassegna
d'Italia nel '46. Nel contempo fu eletto socio dell'Accademia dei
Lincei e primo direttore generale delle Relazioni culturali con
l'estero, su incarico del Consiglio dei Ministri, impegno presto
cessato per mancanza di fondi.
Nel 1947 dette alle stampe Leopardi e la letteratura francese
(Milano) cui seguì, nel '49, Poetica e poesia di Giacomo
Leopardi (ibid.). Nello stesso anno, dopo un periodo come incaricato
presso l'università Bocconi di Milano, vinse la cattedra di
letteratura italiana con regolare concorso, rifiutando di servirsi
della legge che dava diritto ai perseguitati di far riaprire i
concorsi espletati dopo il 1933. Contemporaneamente pubblicò
Saggi di poetica moderna. Dal Tasso al Surrealismo, dove, accanto
agli scritti su G. Casanova, Leopardi, L. Tolstoj e Freud, sono da
rilevare le note sull'ermetismo, nelle quali si legge, una volta
placata la polemica, un'analisi più equanime, e il Viaggio
nel tempo crociano, lucida disamina del proprio percorso
intellettuale. Di particolare acume le pagine dedicate a A. Onofri,
di cui sottolinea la "metamorfosi universale e la cosmica annonia"
(Mazzali). Nel 1950 fondò la rivista Letterature moderne e
inaugurò una serie di conferenze e lezioni in Argentina,
Brasile, Uruguay, Cile e Perù. Nel '52 giunse a Bologna quale
erede della cattedra che, prima di lui, era stata di Carducci,
Pascoli, A. Galletti e C. Calcaterra. Nello stesso anno
pubblicò Scrittori italiani contemporanei (Pisa), Leonardo
(Milano), e curò, insieme col Mazzali, le edizioni integrali
a raffronto, con corrispondenze e varianti, de La Gerusalemme
Liberata e La Gerusalemme Conquistata di Tasso (ibid.), del quale
curò anche le Poesie (ibid.).
Nel 1953 apparve Offismo della parola (Bologna), vero e proprio inno
al verbum, ricapitolazione e sintesi di tutta la rifflessione
estetica del Flora.
"Logor ergo cogito et sum": la parola è "la perenne
verità in cui l'uomo si istituisce", assolutamente distinta
dalla menzogna o "antiparola", e genitrice della ciceroniana Caritas
generis humani. Il fatto poetico, che il critico ricostruisce nel
suo carattere e svolgimento, infatti, si carica qui, nel segno di
una humanitas pienamente abbracciata, di una forte valenza etica ed
assorbe in sé tutte le dimensioni della civiltà: con
accenti foscoliani, il cui nome, non a caso, campeggia in Ufficio
delle lettere e metodo della critica, primo capitolo di quest'opera.
Ma, nonostante tale ribadita eticità della parola poetica,
l'idealismo del F., nel suo verbalismo orfico, si riconferma "magico
e demiurgico", intriso di quei "lieviti irrazionalistici" (Bocelli),
che sono il suo tratto saliente, così diverso da quello dei
suoi compagni di strada Russo e M. Fubini: lontano dalla influenza
di un F. De Sanctis o di certa scuola storica che subì il
primo, come da quella di L. Spitzer che sentì il secondo.
Nel 1955 il F. ristampò due antiche raccolte di versi,
già apparse come manoscritti (1921 e '44), con il titolo
Canti spirituali. Si tratta di poesie nate nel segno di un certo
dannunzianesimo, progressivamente evolutosi nella direzione di una
più serena classicità (Mazzali), il cui vero valore,
però, sembra quello di testimonianza circa lo sviluppo del
gusto e dello stile del critico. Nel 1959 pubblicò La poesia
di G. Pascoli (Bologna), del quale distingue il mondo poetico da
quello etico, a segnalare l'arcana cosmicità e il motivo
tematico della perplessità, con attenzione alle novità
prosodiche, metriche e ritmiche. Nello stesso anno vide la luce La
poesia e la prosa di G. Carducci, a ricostruire le grandi stagioni
dell'"ultimo poeta del Risorgimento", non senza una storia della sua
fortuna critica. Ancora nel'59 dette alle stampe i primi volumi di
una grande Guida alla poesia (Preludio alla poesia, La poesia della
Bibbia, La poesia dell'Egitto e della Mesopotamia, Milano), con
l'intento di offrire documenti di tutti i tempi e luoghi, fondandosi
sulla convinzione che "la vera poesia oltrepassa tutte le barriere
linguistiche", a segnare l'approdo estremo di una vera e propria
religio litterarum. Nel 1962 vi aggiunse Poesia e impoesia
nell'Uisse di Joyce (Milano), in cui si provava a distinguere i
numerosi momenti lirici dal pesante simbolismo omerico e
psicanalitico, unendo interessanti notazioni sull'umorismo, l'ironia
parodistica e le imitazioni di stile dell'irlandese.
Ma il 17 sett. 1962 la morte vanificava questo ambizioso progetto,
cogliendolo in una clinica di Bologna, dove era stato ricoverato
circa un mese prima per una grave forma di insufficienza epatica.