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Kant e gli idealisti sono stati dei professori universitari. Sono
i primi filosofi dell'età moderna ad esserlo, ed anzi, nel
caso di Hegel, la sua vicenda si lega in qualche modo alla nascita
stessa di un diverso modello di università, destinato a
notevoli successi nella Prussia e nella Germania dell'Ottocento e
del Novecento. Non tutta la filosofia tedesca del tempo è
universitaria, ed anzi si registra il caso di Schopenhauer che ha
combattuto non solo la filosofia idealista, ma anche la filosofia
universitaria in quanto tale. Se, per i due secoli successivi,
allarghiamo lo sguardo dalla Germania all'Europa, la filosofia
sarà soprattutto universitaria nel Novecento, ma ancora per
tutto l'Ottocento continua la precedente tradizione di
indipendenza dei filosofi, sia in Francia (ad esempio con Comte)
sia in Inghilterra (con i filosofi utilitaristi e Stuart Mill),
sia nella stessa Germania con la sinistra hegeliana e Marx. Ma la
linea di tendenza è di una sempre maggiore espansione della
filosofia universitaria. L'identità del filosofo è a
una svolta, anche se la tradizione di indipendenza si fa sentire
ancora ai nostri giorni. Il filosofo tende a diventare un
professore, e quindi un dipendente pubblico di grado elevato, una
persona che ha un rapporto di lavoro con lo Stato. E' fenomeno su
cui dovremo tornare.
Il caso di Kant e degli idealisti è però particolare
perché deve essere inquadrato nel contesto del mondo
culturale tedesco del tempo, senza retrodatare ciò che
sappiamo della Germania ottocentesca. La Germania di Kant e dei
giovani idealisti è un insieme di piccoli staterelli ancora
arretrati dal punto di vista economico e sociale rispetto alla
Francia e all'Inghilterra, anche se tra essi è la grande
Prussia. Il contesto in cui deve essere inquadrata l'opera degli
idealisti è tipico dell'epoca: il contrasto, tipico di
quell'epoca rivoluzionaria, tra la tradizione teologica da cui i
filosofi provengono (anche per gli studi compiuti e il percorso di
formazione giovanile) e le nuove idee illuministe nella versione
rivoluzionaria, inneggiante alla libertà e all'eguaglianza,
che provengono dalla Francia. Lo stesso "mestiere" di questi
filosofi per un certo tempo è sospeso, per così
dire, tra la nuova identità universitaria (e quindi legata
allo Stato, con tutto quello che questo significa in epoca di
rivoluzioni e restaurazioni) e la tradizionale identità del
teologo, anch’essa del resto tutt’altro che priva di legami con il
potere dei prìncipi.
Il caso di Kant non è però del tutto assimilabile a
quello degli idealisti, perché gran parte della sua vita
appartiene al periodo precedente alla rivoluzione. Kant è
un buon punto di partenza per la nostra analisi in questa lezione
perché la sua posizione lo ha portato a riflettere sul
ruolo "pubblico" e sul ruolo "privato" dell’intellettuale. In Che
cos’è l’illuminismo? ha descritto le due posizioni con
molta fermezza :
"Il pubblico uso della propria ragione deve essere libero in ogni
tempo, ed esso solo può attuare il rischiaramento fra gli
uomini; invece l’uso privato della ragione può assai di
frequente subire strette limitazioni senza che il progresso del
rischiaramento ne venga particolarmente ostacolato. Intendo per
uso pubblico della propria ragione l’uso che uno ne fa come
studioso, davanti all’intero pubblico dei lettori. Chiamo invece
uso privato della ragione quello che ad un uomo è lecito
farne in un certo ufficio o funzione civile di cui egli è
investito."
E’ stato spesso osservato che Kant chiama qui "uso privato"
ciò che noi non chiameremmo affatto privato, perché
si riferisce alla funzione civile di un uomo che opera, per
ciò stesso, investito di una autorità pubblica. Ora,
è particolarmente importante il fatto che Kant distingua in
maniera chiara non tra due diversi tipi di persone, ma – per la
stessa persona – tra due diversi usi della propria ragione. E per
il primo non ammette alcun limite alla sua libertà ed
alcuna autorità che non sia quella del pubblico dei
lettori.
Le conseguenze sulla immagine che Kant aveva del suo lavoro e sui
suoi destinatari non hanno a questo punto bisogno i commenti. Come
vedremo, su questo punto la differenza con Hegel è davvero
notevole.
Quanto ai giovani idealisti, essi hanno operato sin dall’inizio
all’interno di un contesto universitario, direttamente connesso al
potere politico, piuttosto che al potere burocratico o al potere
universitario stesso, perché esisteva allora un rapporto
diretto tra il potere politico e le nomine universitarie. Ed
è quanto meno singolare che un uomo come Hegel che ha, con
Schelling ed Holderlin, condiviso le idee dello scritto sul
cosiddetto Primo programma, e che in Eleusi eleva un inno alla
libertà dello spirito da ogni dogma e dalla
necessità di ogni legittimazione esteriore, abbia iniziato
a pubblicare solo dopo il suo ingresso nel mondo accademico,
benché avesse nel periodo precedente scritto opere di
rilievo tutt’altro che secondario. Sicché tutto l’idealismo
sembra essere filosofia di scuola. Schelling addirittura non
pubblica per tutto il lungo periodo in cui è lontano
dall’università. Si direbbe che la ricerca degli idealisti
intrattenga importanti rapporti con l’educazione, con quel
particolare pubblico che è formato dagli studenti
universitari e dal mondo dei professori.
Che il pubblico sia cambiato, è reso del resto evidente
dallo stile – decisamente per iniziati – delle opere degli
idealisti, stile davvero singolare se si pensa alle opere degli
illuministi. Certo, la figura del filosofo non è più
la stessa. Ma è di grande importanza il fatto che gli
idealisti – l’Hegel del sistema è altra cosa – intendano la
filosofia pienamente come scienza, con carattere sistematico,
capace di tenere il nucleo della realtà e di esprimerlo in
forme tali da rendere possibile una rigenerazione del mondo
sociale. E’ la rivoluzione francese, come Fichte sottolinea con
forza, la matrice ideale che li muove: vivono la speranza di un
mondo di libertà, ed a questo piegano il loro ruolo di
filosofi. Per questo è di particolare importanza che
operino come professori universitari, nella cornice istituzionale
dello Stato, e non con una visione "pubblica", nel senso kantiano
del termine.
La filosofia è per loro la speranza di un futuro di
libertà per l’umanità, sicché anche il
giovane Hegel tenta la costruzione di una scienza storica che
renda ragione del fallimento della vita come unione degli spiriti
e permetta una nuova e concreta e raggiungibile idea di
libertà.
Questa idea romantica della filosofia costituirà uno dei
filoni della storia della filosofia almeno fino agli anni Sessanta
del Novecento. E’ propria della sinistra hegeliana, che della
dialettica prende la realtà del movimento; è in
Marx, che assegna alla filosofia il compito di cambiare il mondo;
è in Nietzsche, che fa filosofia a colpi di martello;
è nella scuola di Francoforte, fino al Marcuse dell’Uomo a
una dimensione.
Ma la filosofia non è speranza, progetto, via di
liberazione dell’uomo, se non sul fondamento di una scienza. Non
è mera aspirazione del cuore. Gli idealisti e le filosofie
che perseguiranno per altre vie l’idea della filosofia come via di
liberazione tentano di fondare una filosofia come scienza,
ritrovandosi per ciò stesso a dovere ri-definire che cosa
è la scienza. Da questo punto di vista, su basi del tutto
diverse, questi filosofi perseguono l’obiettivo degli illuministi
di trasformare l’uomo e la società. Ma mentre questi ultimi
vedono se stessi come ingegneri sociali – secondo una tradizione
che proseguirà nel mondo francese e inglese con le diverse
versioni del positivismo – gli idealisti si vedono come scienziati
di una scienza nuova ed antica allo stesso tempo, la scienza
dell’Assoluto, che li distacca dai compiti operativi che gli
illuministi si erano assegnati. E si oppone all’ormai vincente
concetto di scienza.
La differenza radicale, però, tra gli illuministi e gli
idealisti dal punto di vista che qui ci interessa non è
tanto in questo. Per esempio, i filosofi settecenteschi del
diritto hanno influenzato il loro tempo e il successivo non meno
di quanto abbia fatto, poniamo, Hegel con la sua filosofia del
diritto. La differenza radicale è piuttosto nel modo
davvero diverso di concepire il reale, uomo compreso.
Come si spiega allora la estrema differenza nello stile di
scrittura e nei generi letterari utilizzati? Si spiega
probabilmente con la diversità dei destinatari: gli
idealisti hanno un rapporto con le istituzioni e con lo Stato del
tutto diverso da quello degli illuministi. Il loro mondo non
è più quello del Settecento.
Il mondo filosofico tedesco del tempo in cui nasce la grande
filosofia idealista – insieme con opere importanti di filosofi
romantici non idealisti come Jacobi, Schleiermacher ed altri –
è un mondo che vive nei circoli universitari, nelle corti e
nei salotti, il dramma e le speranze della rivoluzione francese.
Ma, allo stesso tempo, ripensa alla propria tradizione tutta
tedesca, inserendo le nuove idee in un clima – il clima romantico
nascente – che è tipicamente tedesco. Esso ha prodotto
opere poetiche e letterarie di grandissimo livello, alcune delle
quali hanno una dimensione pubblica che prosegue la tradizione
illuminista e si rivolge al mondo dei lettori non specialisti,
mentre in altre – come in Novalis, in Hölderlin e altri – la
dimensione "per iniziati" tipica degli scritti filosofici
idealisti è ben visibile.
Siamo ad un passaggio tra due epoche, da questo punto di vista,
perché da allora ad oggi questa dimensione "per iniziati"
la filosofia non l’ha più perduta (anche se vi sono
tradizioni diverse che proseguono). Vale la pena di seguire questo
passaggio in Hegel, data la sua importanza.
Il fatto che la sua scrittura filosofica sia "per iniziati" non
significa affatto che si sia preoccupato poco dei suoi lettori. Al
contrario, il suo stile è estremamente sorvegliato.
C'è un problema ermeneutico in Hegel, da questo punto di
vista, particolarmente importante per la didattica della filosofia
perché rischia di compromettere per i giovani che a scuola
vi si accostano la comprensibilità della sua filosofia.
Assumono naturalmente una particolare importanza le opere
giovanili, in ragione del fatto che esse non erano destinate alla
pubblicazione. Ma la coscienza di sé che Hegel aveva e la
chiara consapevolezza delle scelte - pur nella ambiguità
della sua situazione personale prima del trasferimento a Jena -
fanno sì che la struttura formale delle opere giovanili sia
in continuità con le prime opere filosofiche pubblicate,
sicché da questo punto di vista si possono stabilire dei
precisi elementi di continuità tra la Fenomenologia dello
Spirito e gli Scritti teologici giovanili (così, ad
esempio, Hyppolite e gli interpreti esistenzialisti, ma anche
Lukacs). Ma anche di frattura.
Fermiamo per il momento la nostra attenzione sul più maturo
degli scritti giovnili, quella serie di quaderni che il Nolte
pubblicò nel 1907 sotto il titolo di Lo Spirito del
Cristianesimo e il suo Destino. Qui Hegel costruisce il suo
discorso, dal punto di vista del metodo di lavoro, con piena
consapevolezza di metodo (di ricerca) e di forma. Come è
noto, dietro questo lavoro c'è l'eco del Trattato
Teologico-Politico di Spinoza e del metodo storico-critico di
interpretazione della Bibbia che aveva avuto in Germania, nei
decenni precedenti, diversi (e nascosti, per ovvie ragioni, fino a
Lessing) sostenitori. Hegel lavora con quel metodo sui testi
sacri, e dunque trattando le Scritture (Genesi, dapprima, poi i
Vangeli, soprattutto Giovanni) come la manifestazione storica
della coscienza che il popolo ha avuto di sé, e più
esattamente come la manifestazione di questa coscienza oggettivata
in immagini, pensieri (concepiti come dotati di forza) e
istituzioni.
Tuttavia Hegel applica questo metodo alla luce di due diversi
"reagenti", come si farebbe in un laboratorio chimico:
la filosofia trascendentale di Kant, tanto sotto il profilo
teoretico quanto etico ed estetico (nel senso della Critica del
Giudizio);
la relazione soggetto\oggetto e la nozione di Spirito come vita
elaborata dalle prime filosofie romantiche.
Ne risulta una costruzione di straordinaria complessità
(che prelude alla ben maggiore complessità della
Fenomenologia) caratterizzata dal fatto che Hegel assume - almeno
in apparenza in modo del tutto cosciente - il ruolo di ricercatore
esterno al suo oggetto di studio, con neutralità
"scientifica". Va alla ricerca proprio di ciò che nella
Fenomenologia sarà dato per trovato, varando così il
proprio sistema, e cioè il rapporto di continuità
storica (e dunque teoretica, perché la vita è una e
si esprime nello Spirito) tra la storia studiata e il proprio
presente, la propria soggettività in ricerca.
L'obiettivo quindi è genealogico: ricostruire la genesi
della coscienza attuale. Il metodo, invece, non coincide affatto
con il proprio oggetto, per la semplice ragione che Hegel non ha
ancora lo strumento per intendere metodo e oggetto come
caratterizzati dallo stesso movimento (cioè la dialettica).
E' bensì vero che gli elementi della dialettica sono tutti
presenti nello Spirito del Cristianesimo, ma si tratta appunto di
elementi. E' il loro nesso a non essere presente.
C'è dunque, dal punto di vista del metodo, una precisa
continuità e allo stesso tempo un preciso punto di frattura
tra lo Spirito del Cristianesimo e la Fenomenologia:
nel primo scritto il metodo prevede l'estraneità del
ricercatore dal proprio oggetto e l'assunzione di un punto di
vista storico-critico alla luce di due posizioni di pensiero del
proprio tempo, sinteticamente quelle di Kant e del primo idealismo
(separazione tra metodo e oggetto storico);
nel secondo scritto il metodo intende l'atto del ricercare come
manifestazione della stessa vita spirituale che si esprime nel
proprio oggetto, essendo la dialettica tanto metodo del pensiero
quanto struttura del reale, in forza di quella che Hegel
chiamerà identità di reale e razionale
(identità formale – nel senso dialettico del termine
"identità" tra metodo e oggetto storico).
Il punto di passaggio dal primo metodo al secondo è dato
dal fatto che la dialettica è stata "compresa" da Hegel
nella sua "vera" natura attraverso la via di ricerca data dagli
scritti giovanili. Il ponte è dato dagli scritti dei primi
anni del nuovo secolo, anche se, sottolineando la
continuità, va altrettanto sottolineato come un preciso
"salto" sia visibile.
Sicché una di-mostrazione espressa con un metodo
indipendente dalla dialettica non c'è. E Hegel direbbe che
non può esserci, perché è l'idea stessa di un
metodo diverso dal proprio oggetto ad essere inadeguata, se il
pensiero vuole cogliere il reale: può farlo solo cogliendo
l'unità tra sé e il reale. Altrimenti si rimane alla
filosofia trascendentale come metodo di Kant, che non perviene,
proprio perché tale, alla metafisica. Va qui ricordato che
cosa sia il vero per Hegel, quale legame intrattenga con la
totalità, l’intero.
Si osservi che nello Spirito del Cristianesimo Hegel non usa il
metodo trascendentale kantiano, né lo presuppone come
elemento del suo proprio metodo, come farà nella
Fenomenologia. Nei quaderni di Francoforte il punto di vista
kantiano, e in particolare la relazione trascendentale
soggetto-oggetto, non è presupposta: è una sorta di
reagente esterno, laddove il metodo è quello
storico-critico di derivazione spinoziana. Hegel ha sempre l'aria
di pensare che i "reagenti" potrebbero essere altri. E non
v'è in effetti ancora ragione teoretica per cui non debbano
esserlo, non essendovi ancora ragione teoretica che unifichi
pensiero e cosa mediante la dialettica.
Nella Fenomenologia, invece, l'identità dialettica è
trovata. Per conseguenza il metodo di ricerca filosofica - la
dialettica - non è separabile né dal soggetto che
compie la ricerca filosofica, né dall'oggetto indagato.
Dunque, con apparente paradosso, in Hegel non si troveranno
più di-mostrazioni, ma solo esposizioni.
Questo rende estremamente difficile da un punto di vista didattico
lo studio della filosofia di Hegel - al di là della
difficoltà di qualunque filosofia complessa - perché
non è mai possibile dire ad uno studente: Hegel ritiene che
… sulla base di questa argomentazione… La filosofia hegeliana non
la si può di-mostrare dall’esterno, ma solo seguire nel suo
movimento interno.
Chi si accosta alla pagina hegeliana deve quindi seguire il
movimento del pensiero, il fluido articolarsi della dialettica.
Non può procedere come si fa con altri filosofi, disponendo
nella propria mente i singoli concetti come articolazioni fisse di
una struttura. Il sistema di Hegel non è descrivibile in
termini di "architettura", a meno che con questo termine non si
intenda l’articolarsi – che si dispone in forme architettoniche –
di forze attive. Sicché in Hegel è sempre importante
quella particolare forma del pensare che consiste nel tenere
insieme, e farle reagire, due forze in opposizione. La forma
letteraria che nel passato è stata utilizzata per
descrivere questa maniera di pensare ci è ben nota da
questa serie di lezioni: è l’aforisma, da Eraclito in poi.
E Hegel ne è profondamente tentato. Negli scritti giovanili
i pensieri più acuti sono espressi con la forma lapidaria
dell’aforisma; negli scritti della maturità, nei luoghi in
cui Hegel intrattiene con i suoi lettori un rapporto più
diretto, in particolare le Prefazioni, si seguono bene catene di
proposizioni fortemente aforistiche: si pensi ai celebri
Lineamenti, in cui si susseguono proposizioni di questo tipo su
Rodi, sul reale e il razionale, sulla nottola di Minerva. E’ come
se Hegel avesse voluto, in luoghi "discorsivi" (qualcosa di simile
accade nelle parti legate all’oralità dell’Enciclopedia)
caratterizzare fortemente la sua filosofia come pensiero in cui,
nella parola e nella frase, avviene uno scontro di pensieri, nella
tradizione che ben conosciamo. Non sorprende, dunque, che Hegel
abbia potuto dar luogo ad interpretazioni esistenzialiste, nel
nostro secolo, e che lo stesso Kierkegaard abbia potuto attaccarlo
sfruttando l’elemento aforistico – pensieri (e dunque forze) in
lotta - che è presente nel suo pensiero.
Tuttavia l’aforisma non può essere la forma propria della
dialettica hegeliana, per ragioni essenzialmente teoretiche. Il
gusto romantico del colpo ad effetto (gusto che tornerà
fortissimo in Marx) deve cedere il posto all’articolarsi del
pensiero in una ordinata – drammatica fin che si vuole, ma
ordinata – successione in cui lo scontro delle forze genera nuovo
movimento e dunque è "superato". Se un metodo esterno al
movimento del pensiero è impossibile da concepire per la
"scienza" (per via della natura dialettica del pensiero e della
realtà) allora la via sarà quella della
"esposizione" del pensiero nel suo stesso movimento. La forma
letteraria degli scritti di Hegel risponde in qualche caso anche a
ragioni di scuola, come è il caso dell’Enciclopedia e dei
Lineamenti, ed è quindi connessa ad una pratica di dialogo
di cui andrebbe approfondita la natura in rapporto alla
dialettica; ma al di là della veste esteriore, che essendo
d’occasione si può (forse) concepire diversa, questa forma
deve rispettare il principio dialettico che innesta gli uni sugli
altri gli elementi del pensiero.
Si giustifica in questo modo la presenza in Hegel, in luoghi di
assoluta centralità teoretica, di celebri metafore, che
ricorrono a forme non teoretiche del pensiero come il pensare per
immagini. La giustificazione va probabilmente cercata nella stessa
natura del pensiero che "oggettiva" in figure il pensato,
cosicché nella Fenomenologia queste assumono una posizione
centrale, a patto però di essere abbandonate dal movimento
stesso del pensiero.
La sequenza aforistica per immagini presente in celebri Prefazioni
(Fenomenologia, Lineamenti) va quindi intesa come la posizione di
tappe del movimento del pensiero. Fermarsi ad esse, e dire: Hegel
sostiene che… equivale a fermasi ad una qualsiasi delle figure
della Fenomenologia e dire che Hegel sostiene…
Il movimento del pensiero non si ferma. Questo rende di estrema
difficoltà la filosofia hegeliana, al di là della
sua scrittura "per specialisti". Come deve essere intesa, ad
esempio, la celebre identità di reale e razionale? E come
deve essere intesa la celebre immagine della nottola di Minerva?
Hegel ha forse abbandonato gli ideali romantici che lo hanno unito
in gioventù a Schellin, a Hölderlin? Forse per lui non
è più vero che la filosofia è una via di
liberazione dell’uomo fondata sulla comprensione scientifica del
reale?
Che Hegel sia rimasto drammaticamente colpito dalla vicenda di
Hölderlin – l’amico di sempre, degli anni decisivi della
giovinezza – non vi è dubbio. Come avrebbe potuto essere
diversamente. Contro la realtà si combatte, ed Hegel lo sa
bene, da ottimo lettore delle tragedie attiche, ma l’eroe è
destinato alla caduta. Questa è l’essenza dell’eroe
tragico, sin dallo Spirito del cristianesimo contrapposto all’eroe
shakespeariano, doppio della vita reale. Senza il tentativo di
comprensione scientifica del reale non si fa filosofia (si fa
edificazione, nel linguaggio hegeliano, o altro). Ma Hegel ha
davvero abbandonato l’idea che finalità della filosofia sia
la liberazione dell’uomo?
Certo, l’uomo deve cedere il posto ad una realtà più
"vera", ma questa è per lui la via della liberazione. E qui
non stiamo affatto esaminando che cosa nella filosofia si debba
intendere per "libertà" e per "uomo" – compito dei manuali
di storia della filosofia – ma solo analizzando i temi propri del
nostro corso di lezioni. Rimandiamo quindi ai manuali su questo
punto.
Un’ultima cosa. La formazione hegeliana deve moltissimo alla
cultura classica, ed in particolare alle figure del mondo antico,
nella loro iconicità. E analoghe figure Hegel – in coerenza
con la propria concezione del pensiero, che produce "oggetti",
oggettivandosi – ha studiato nella tragedia shakespeariana e nella
vita, come mostrano i casi di Macbeth e di Napoleone. Che le
figure possano essere "tappe" sulla via del pensiero che punta
alla conoscenza teoretica, è insegnamento che da Hegel
potrebbe essere accolto a fini didattici.