Mario Trombino

Introduzione alla Storia della Filosofia Occidentale

Lezione IX

La filosofia classica tedesca

 

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Kant e gli idealisti sono stati dei professori universitari. Sono i primi filosofi dell'età moderna ad esserlo, ed anzi, nel caso di Hegel, la sua vicenda si lega in qualche modo alla nascita stessa di un diverso modello di università, destinato a notevoli successi nella Prussia e nella Germania dell'Ottocento e del Novecento. Non tutta la filosofia tedesca del tempo è universitaria, ed anzi si registra il caso di Schopenhauer che ha combattuto non solo la filosofia idealista, ma anche la filosofia universitaria in quanto tale. Se, per i due secoli successivi, allarghiamo lo sguardo dalla Germania all'Europa, la filosofia sarà soprattutto universitaria nel Novecento, ma ancora per tutto l'Ottocento continua la precedente tradizione di indipendenza dei filosofi, sia in Francia (ad esempio con Comte) sia in Inghilterra (con i filosofi utilitaristi e Stuart Mill), sia nella stessa Germania con la sinistra hegeliana e Marx. Ma la linea di tendenza è di una sempre maggiore espansione della filosofia universitaria. L'identità del filosofo è a una svolta, anche se la tradizione di indipendenza si fa sentire ancora ai nostri giorni. Il filosofo tende a diventare un professore, e quindi un dipendente pubblico di grado elevato, una persona che ha un rapporto di lavoro con lo Stato. E' fenomeno su cui dovremo tornare.

Il caso di Kant e degli idealisti è però particolare perché deve essere inquadrato nel contesto del mondo culturale tedesco del tempo, senza retrodatare ciò che sappiamo della Germania ottocentesca. La Germania di Kant e dei giovani idealisti è un insieme di piccoli staterelli ancora arretrati dal punto di vista economico e sociale rispetto alla Francia e all'Inghilterra, anche se tra essi è la grande Prussia. Il contesto in cui deve essere inquadrata l'opera degli idealisti è tipico dell'epoca: il contrasto, tipico di quell'epoca rivoluzionaria, tra la tradizione teologica da cui i filosofi provengono (anche per gli studi compiuti e il percorso di formazione giovanile) e le nuove idee illuministe nella versione rivoluzionaria, inneggiante alla libertà e all'eguaglianza, che provengono dalla Francia. Lo stesso "mestiere" di questi filosofi per un certo tempo è sospeso, per così dire, tra la nuova identità universitaria (e quindi legata allo Stato, con tutto quello che questo significa in epoca di rivoluzioni e restaurazioni) e la tradizionale identità del teologo, anch’essa del resto tutt’altro che priva di legami con il potere dei prìncipi.

Il caso di Kant non è però del tutto assimilabile a quello degli idealisti, perché gran parte della sua vita appartiene al periodo precedente alla rivoluzione. Kant è un buon punto di partenza per la nostra analisi in questa lezione perché la sua posizione lo ha portato a riflettere sul ruolo "pubblico" e sul ruolo "privato" dell’intellettuale. In Che cos’è l’illuminismo? ha descritto le due posizioni con molta fermezza :

"Il pubblico uso della propria ragione deve essere libero in ogni tempo, ed esso solo può attuare il rischiaramento fra gli uomini; invece l’uso privato della ragione può assai di frequente subire strette limitazioni senza che il progresso del rischiaramento ne venga particolarmente ostacolato. Intendo per uso pubblico della propria ragione l’uso che uno ne fa come studioso, davanti all’intero pubblico dei lettori. Chiamo invece uso privato della ragione quello che ad un uomo è lecito farne in un certo ufficio o funzione civile di cui egli è investito."

E’ stato spesso osservato che Kant chiama qui "uso privato" ciò che noi non chiameremmo affatto privato, perché si riferisce alla funzione civile di un uomo che opera, per ciò stesso, investito di una autorità pubblica. Ora, è particolarmente importante il fatto che Kant distingua in maniera chiara non tra due diversi tipi di persone, ma – per la stessa persona – tra due diversi usi della propria ragione. E per il primo non ammette alcun limite alla sua libertà ed alcuna autorità che non sia quella del pubblico dei lettori.

Le conseguenze sulla immagine che Kant aveva del suo lavoro e sui suoi destinatari non hanno a questo punto bisogno i commenti. Come vedremo, su questo punto la differenza con Hegel è davvero notevole.

Quanto ai giovani idealisti, essi hanno operato sin dall’inizio all’interno di un contesto universitario, direttamente connesso al potere politico, piuttosto che al potere burocratico o al potere universitario stesso, perché esisteva allora un rapporto diretto tra il potere politico e le nomine universitarie. Ed è quanto meno singolare che un uomo come Hegel che ha, con Schelling ed Holderlin, condiviso le idee dello scritto sul cosiddetto Primo programma, e che in Eleusi eleva un inno alla libertà dello spirito da ogni dogma e dalla necessità di ogni legittimazione esteriore, abbia iniziato a pubblicare solo dopo il suo ingresso nel mondo accademico, benché avesse nel periodo precedente scritto opere di rilievo tutt’altro che secondario. Sicché tutto l’idealismo sembra essere filosofia di scuola. Schelling addirittura non pubblica per tutto il lungo periodo in cui è lontano dall’università. Si direbbe che la ricerca degli idealisti intrattenga importanti rapporti con l’educazione, con quel particolare pubblico che è formato dagli studenti universitari e dal mondo dei professori.

Che il pubblico sia cambiato, è reso del resto evidente dallo stile – decisamente per iniziati – delle opere degli idealisti, stile davvero singolare se si pensa alle opere degli illuministi. Certo, la figura del filosofo non è più la stessa. Ma è di grande importanza il fatto che gli idealisti – l’Hegel del sistema è altra cosa – intendano la filosofia pienamente come scienza, con carattere sistematico, capace di tenere il nucleo della realtà e di esprimerlo in forme tali da rendere possibile una rigenerazione del mondo sociale. E’ la rivoluzione francese, come Fichte sottolinea con forza, la matrice ideale che li muove: vivono la speranza di un mondo di libertà, ed a questo piegano il loro ruolo di filosofi. Per questo è di particolare importanza che operino come professori universitari, nella cornice istituzionale dello Stato, e non con una visione "pubblica", nel senso kantiano del termine.

La filosofia è per loro la speranza di un futuro di libertà per l’umanità, sicché anche il giovane Hegel tenta la costruzione di una scienza storica che renda ragione del fallimento della vita come unione degli spiriti e permetta una nuova e concreta e raggiungibile idea di libertà.

Questa idea romantica della filosofia costituirà uno dei filoni della storia della filosofia almeno fino agli anni Sessanta del Novecento. E’ propria della sinistra hegeliana, che della dialettica prende la realtà del movimento; è in Marx, che assegna alla filosofia il compito di cambiare il mondo; è in Nietzsche, che fa filosofia a colpi di martello; è nella scuola di Francoforte, fino al Marcuse dell’Uomo a una dimensione.

Ma la filosofia non è speranza, progetto, via di liberazione dell’uomo, se non sul fondamento di una scienza. Non è mera aspirazione del cuore. Gli idealisti e le filosofie che perseguiranno per altre vie l’idea della filosofia come via di liberazione tentano di fondare una filosofia come scienza, ritrovandosi per ciò stesso a dovere ri-definire che cosa è la scienza. Da questo punto di vista, su basi del tutto diverse, questi filosofi perseguono l’obiettivo degli illuministi di trasformare l’uomo e la società. Ma mentre questi ultimi vedono se stessi come ingegneri sociali – secondo una tradizione che proseguirà nel mondo francese e inglese con le diverse versioni del positivismo – gli idealisti si vedono come scienziati di una scienza nuova ed antica allo stesso tempo, la scienza dell’Assoluto, che li distacca dai compiti operativi che gli illuministi si erano assegnati. E si oppone all’ormai vincente concetto di scienza.

La differenza radicale, però, tra gli illuministi e gli idealisti dal punto di vista che qui ci interessa non è tanto in questo. Per esempio, i filosofi settecenteschi del diritto hanno influenzato il loro tempo e il successivo non meno di quanto abbia fatto, poniamo, Hegel con la sua filosofia del diritto. La differenza radicale è piuttosto nel modo davvero diverso di concepire il reale, uomo compreso.

Come si spiega allora la estrema differenza nello stile di scrittura e nei generi letterari utilizzati? Si spiega probabilmente con la diversità dei destinatari: gli idealisti hanno un rapporto con le istituzioni e con lo Stato del tutto diverso da quello degli illuministi. Il loro mondo non è più quello del Settecento.

Il mondo filosofico tedesco del tempo in cui nasce la grande filosofia idealista – insieme con opere importanti di filosofi romantici non idealisti come Jacobi, Schleiermacher ed altri – è un mondo che vive nei circoli universitari, nelle corti e nei salotti, il dramma e le speranze della rivoluzione francese. Ma, allo stesso tempo, ripensa alla propria tradizione tutta tedesca, inserendo le nuove idee in un clima – il clima romantico nascente – che è tipicamente tedesco. Esso ha prodotto opere poetiche e letterarie di grandissimo livello, alcune delle quali hanno una dimensione pubblica che prosegue la tradizione illuminista e si rivolge al mondo dei lettori non specialisti, mentre in altre – come in Novalis, in Hölderlin e altri – la dimensione "per iniziati" tipica degli scritti filosofici idealisti è ben visibile.

Siamo ad un passaggio tra due epoche, da questo punto di vista, perché da allora ad oggi questa dimensione "per iniziati" la filosofia non l’ha più perduta (anche se vi sono tradizioni diverse che proseguono). Vale la pena di seguire questo passaggio in Hegel, data la sua importanza.

Il fatto che la sua scrittura filosofica sia "per iniziati" non significa affatto che si sia preoccupato poco dei suoi lettori. Al contrario, il suo stile è estremamente sorvegliato. C'è un problema ermeneutico in Hegel, da questo punto di vista, particolarmente importante per la didattica della filosofia perché rischia di compromettere per i giovani che a scuola vi si accostano la comprensibilità della sua filosofia.

Assumono naturalmente una particolare importanza le opere giovanili, in ragione del fatto che esse non erano destinate alla pubblicazione. Ma la coscienza di sé che Hegel aveva e la chiara consapevolezza delle scelte - pur nella ambiguità della sua situazione personale prima del trasferimento a Jena - fanno sì che la struttura formale delle opere giovanili sia in continuità con le prime opere filosofiche pubblicate, sicché da questo punto di vista si possono stabilire dei precisi elementi di continuità tra la Fenomenologia dello Spirito e gli Scritti teologici giovanili (così, ad esempio, Hyppolite e gli interpreti esistenzialisti, ma anche Lukacs). Ma anche di frattura.

Fermiamo per il momento la nostra attenzione sul più maturo degli scritti giovnili, quella serie di quaderni che il Nolte pubblicò nel 1907 sotto il titolo di Lo Spirito del Cristianesimo e il suo Destino. Qui Hegel costruisce il suo discorso, dal punto di vista del metodo di lavoro, con piena consapevolezza di metodo (di ricerca) e di forma. Come è noto, dietro questo lavoro c'è l'eco del Trattato Teologico-Politico di Spinoza e del metodo storico-critico di interpretazione della Bibbia che aveva avuto in Germania, nei decenni precedenti, diversi (e nascosti, per ovvie ragioni, fino a Lessing) sostenitori. Hegel lavora con quel metodo sui testi sacri, e dunque trattando le Scritture (Genesi, dapprima, poi i Vangeli, soprattutto Giovanni) come la manifestazione storica della coscienza che il popolo ha avuto di sé, e più esattamente come la manifestazione di questa coscienza oggettivata in immagini, pensieri (concepiti come dotati di forza) e istituzioni.

Tuttavia Hegel applica questo metodo alla luce di due diversi "reagenti", come si farebbe in un laboratorio chimico:

la filosofia trascendentale di Kant, tanto sotto il profilo teoretico quanto etico ed estetico (nel senso della Critica del Giudizio);
la relazione soggetto\oggetto e la nozione di Spirito come vita elaborata dalle prime filosofie romantiche.
Ne risulta una costruzione di straordinaria complessità (che prelude alla ben maggiore complessità della Fenomenologia) caratterizzata dal fatto che Hegel assume - almeno in apparenza in modo del tutto cosciente - il ruolo di ricercatore esterno al suo oggetto di studio, con neutralità "scientifica". Va alla ricerca proprio di ciò che nella Fenomenologia sarà dato per trovato, varando così il proprio sistema, e cioè il rapporto di continuità storica (e dunque teoretica, perché la vita è una e si esprime nello Spirito) tra la storia studiata e il proprio presente, la propria soggettività in ricerca.

L'obiettivo quindi è genealogico: ricostruire la genesi della coscienza attuale. Il metodo, invece, non coincide affatto con il proprio oggetto, per la semplice ragione che Hegel non ha ancora lo strumento per intendere metodo e oggetto come caratterizzati dallo stesso movimento (cioè la dialettica). E' bensì vero che gli elementi della dialettica sono tutti presenti nello Spirito del Cristianesimo, ma si tratta appunto di elementi. E' il loro nesso a non essere presente.

C'è dunque, dal punto di vista del metodo, una precisa continuità e allo stesso tempo un preciso punto di frattura tra lo Spirito del Cristianesimo e la Fenomenologia:

nel primo scritto il metodo prevede l'estraneità del ricercatore dal proprio oggetto e l'assunzione di un punto di vista storico-critico alla luce di due posizioni di pensiero del proprio tempo, sinteticamente quelle di Kant e del primo idealismo (separazione tra metodo e oggetto storico);
nel secondo scritto il metodo intende l'atto del ricercare come manifestazione della stessa vita spirituale che si esprime nel proprio oggetto, essendo la dialettica tanto metodo del pensiero quanto struttura del reale, in forza di quella che Hegel chiamerà identità di reale e razionale (identità formale – nel senso dialettico del termine "identità" tra metodo e oggetto storico).
Il punto di passaggio dal primo metodo al secondo è dato dal fatto che la dialettica è stata "compresa" da Hegel nella sua "vera" natura attraverso la via di ricerca data dagli scritti giovanili. Il ponte è dato dagli scritti dei primi anni del nuovo secolo, anche se, sottolineando la continuità, va altrettanto sottolineato come un preciso "salto" sia visibile.

Sicché una di-mostrazione espressa con un metodo indipendente dalla dialettica non c'è. E Hegel direbbe che non può esserci, perché è l'idea stessa di un metodo diverso dal proprio oggetto ad essere inadeguata, se il pensiero vuole cogliere il reale: può farlo solo cogliendo l'unità tra sé e il reale. Altrimenti si rimane alla filosofia trascendentale come metodo di Kant, che non perviene, proprio perché tale, alla metafisica. Va qui ricordato che cosa sia il vero per Hegel, quale legame intrattenga con la totalità, l’intero.

Si osservi che nello Spirito del Cristianesimo Hegel non usa il metodo trascendentale kantiano, né lo presuppone come elemento del suo proprio metodo, come farà nella Fenomenologia. Nei quaderni di Francoforte il punto di vista kantiano, e in particolare la relazione trascendentale soggetto-oggetto, non è presupposta: è una sorta di reagente esterno, laddove il metodo è quello storico-critico di derivazione spinoziana. Hegel ha sempre l'aria di pensare che i "reagenti" potrebbero essere altri. E non v'è in effetti ancora ragione teoretica per cui non debbano esserlo, non essendovi ancora ragione teoretica che unifichi pensiero e cosa mediante la dialettica.

Nella Fenomenologia, invece, l'identità dialettica è trovata. Per conseguenza il metodo di ricerca filosofica - la dialettica - non è separabile né dal soggetto che compie la ricerca filosofica, né dall'oggetto indagato. Dunque, con apparente paradosso, in Hegel non si troveranno più di-mostrazioni, ma solo esposizioni.

Questo rende estremamente difficile da un punto di vista didattico lo studio della filosofia di Hegel - al di là della difficoltà di qualunque filosofia complessa - perché non è mai possibile dire ad uno studente: Hegel ritiene che … sulla base di questa argomentazione… La filosofia hegeliana non la si può di-mostrare dall’esterno, ma solo seguire nel suo movimento interno.

Chi si accosta alla pagina hegeliana deve quindi seguire il movimento del pensiero, il fluido articolarsi della dialettica. Non può procedere come si fa con altri filosofi, disponendo nella propria mente i singoli concetti come articolazioni fisse di una struttura. Il sistema di Hegel non è descrivibile in termini di "architettura", a meno che con questo termine non si intenda l’articolarsi – che si dispone in forme architettoniche – di forze attive. Sicché in Hegel è sempre importante quella particolare forma del pensare che consiste nel tenere insieme, e farle reagire, due forze in opposizione. La forma letteraria che nel passato è stata utilizzata per descrivere questa maniera di pensare ci è ben nota da questa serie di lezioni: è l’aforisma, da Eraclito in poi. E Hegel ne è profondamente tentato. Negli scritti giovanili i pensieri più acuti sono espressi con la forma lapidaria dell’aforisma; negli scritti della maturità, nei luoghi in cui Hegel intrattiene con i suoi lettori un rapporto più diretto, in particolare le Prefazioni, si seguono bene catene di proposizioni fortemente aforistiche: si pensi ai celebri Lineamenti, in cui si susseguono proposizioni di questo tipo su Rodi, sul reale e il razionale, sulla nottola di Minerva. E’ come se Hegel avesse voluto, in luoghi "discorsivi" (qualcosa di simile accade nelle parti legate all’oralità dell’Enciclopedia) caratterizzare fortemente la sua filosofia come pensiero in cui, nella parola e nella frase, avviene uno scontro di pensieri, nella tradizione che ben conosciamo. Non sorprende, dunque, che Hegel abbia potuto dar luogo ad interpretazioni esistenzialiste, nel nostro secolo, e che lo stesso Kierkegaard abbia potuto attaccarlo sfruttando l’elemento aforistico – pensieri (e dunque forze) in lotta - che è presente nel suo pensiero.

Tuttavia l’aforisma non può essere la forma propria della dialettica hegeliana, per ragioni essenzialmente teoretiche. Il gusto romantico del colpo ad effetto (gusto che tornerà fortissimo in Marx) deve cedere il posto all’articolarsi del pensiero in una ordinata – drammatica fin che si vuole, ma ordinata – successione in cui lo scontro delle forze genera nuovo movimento e dunque è "superato". Se un metodo esterno al movimento del pensiero è impossibile da concepire per la "scienza" (per via della natura dialettica del pensiero e della realtà) allora la via sarà quella della "esposizione" del pensiero nel suo stesso movimento. La forma letteraria degli scritti di Hegel risponde in qualche caso anche a ragioni di scuola, come è il caso dell’Enciclopedia e dei Lineamenti, ed è quindi connessa ad una pratica di dialogo di cui andrebbe approfondita la natura in rapporto alla dialettica; ma al di là della veste esteriore, che essendo d’occasione si può (forse) concepire diversa, questa forma deve rispettare il principio dialettico che innesta gli uni sugli altri gli elementi del pensiero.

Si giustifica in questo modo la presenza in Hegel, in luoghi di assoluta centralità teoretica, di celebri metafore, che ricorrono a forme non teoretiche del pensiero come il pensare per immagini. La giustificazione va probabilmente cercata nella stessa natura del pensiero che "oggettiva" in figure il pensato, cosicché nella Fenomenologia queste assumono una posizione centrale, a patto però di essere abbandonate dal movimento stesso del pensiero.

La sequenza aforistica per immagini presente in celebri Prefazioni (Fenomenologia, Lineamenti) va quindi intesa come la posizione di tappe del movimento del pensiero. Fermarsi ad esse, e dire: Hegel sostiene che… equivale a fermasi ad una qualsiasi delle figure della Fenomenologia e dire che Hegel sostiene…

Il movimento del pensiero non si ferma. Questo rende di estrema difficoltà la filosofia hegeliana, al di là della sua scrittura "per specialisti". Come deve essere intesa, ad esempio, la celebre identità di reale e razionale? E come deve essere intesa la celebre immagine della nottola di Minerva? Hegel ha forse abbandonato gli ideali romantici che lo hanno unito in gioventù a Schellin, a Hölderlin? Forse per lui non è più vero che la filosofia è una via di liberazione dell’uomo fondata sulla comprensione scientifica del reale?

Che Hegel sia rimasto drammaticamente colpito dalla vicenda di Hölderlin – l’amico di sempre, degli anni decisivi della giovinezza – non vi è dubbio. Come avrebbe potuto essere diversamente. Contro la realtà si combatte, ed Hegel lo sa bene, da ottimo lettore delle tragedie attiche, ma l’eroe è destinato alla caduta. Questa è l’essenza dell’eroe tragico, sin dallo Spirito del cristianesimo contrapposto all’eroe shakespeariano, doppio della vita reale. Senza il tentativo di comprensione scientifica del reale non si fa filosofia (si fa edificazione, nel linguaggio hegeliano, o altro). Ma Hegel ha davvero abbandonato l’idea che finalità della filosofia sia la liberazione dell’uomo?

Certo, l’uomo deve cedere il posto ad una realtà più "vera", ma questa è per lui la via della liberazione. E qui non stiamo affatto esaminando che cosa nella filosofia si debba intendere per "libertà" e per "uomo" – compito dei manuali di storia della filosofia – ma solo analizzando i temi propri del nostro corso di lezioni. Rimandiamo quindi ai manuali su questo punto.

Un’ultima cosa. La formazione hegeliana deve moltissimo alla cultura classica, ed in particolare alle figure del mondo antico, nella loro iconicità. E analoghe figure Hegel – in coerenza con la propria concezione del pensiero, che produce "oggetti", oggettivandosi – ha studiato nella tragedia shakespeariana e nella vita, come mostrano i casi di Macbeth e di Napoleone. Che le figure possano essere "tappe" sulla via del pensiero che punta alla conoscenza teoretica, è insegnamento che da Hegel potrebbe essere accolto a fini didattici.