Com'è noto, Antonio Gramsci nei suoi Quaderni del carcere
dedica molte e acute considerazioni al "romanzo popolare". In
particolare al "romanzo d'appendice" - quello che si pubblicava a
dispense in fondo ai giornali - fino ad identificarlo con una sorta
di "moderno umanesimo" (sia pure, marxianamente, nella forma della
parodia o della farsa dopo la tragedia). Con questo tipo di
letteratura si sarebbe potuto raggiungere una prima embrionale
unità tra le élites colte e le masse popolari, tale da
favorire in quest'ultime una incipiente identità nazionale,
dovuta al comune sentire intorno a una serie di miti, di eroi, di
vicende storiche e, soprattutto, intorno ad una stessa lingua:
quella, appunto, veicolata da un genere letterario di così
larga diffusione.
Era il cosiddetto spirito "nazional-popolare" che costituiva per
Gramsci la condizione etica ed educativa perché l'Italia
potesse diventare una nazione unitaria, superando la secolare
separazione tra cultura e lingua, da una parte, e popolo-nazione
dall'altra (cioè la cosiddetta "mancata Riforma intellettuale
e morale", che aveva così tragicamente svantaggiato l'Italia,
rispetto ad altre nazioni come la Francia, l'Inghilterra, la Spagna
e anche la Germania). Per la verità Gramsci conclude che in
Italia il fenomeno non raggiunse mai l'effetto desiderato e si
limitò ad alcune personalità come il Guerrazzi e il
Mastriani e ad altri "pochi scrittori paesani popolari", mentre ebbe
il suo massimo vigore proprio in Francia: "La letteratura popolare
francese, che è la più diffusa in Italia, rappresenta,
invece, in maggiore o minore grado, in un modo che può essere
più o meno simpatico, questo moderno umanesimo". In Italia,
per raggiungere questa unità nazional-popolare si sarebbe
dovuto ancora aspettare l'avvento della tivù, che, come
accade, la sta realizzando al più basso livello con le sue
soap operas a puntate e coi suoi fantasmagorici e onnicomprensivi
varietà, con connesso sogno miliardario dovuto a concomitanti
lotterie nazionali e molto popolari.
Ma tant'é. Come diceva Mario Praz: "un'epoca è
illustrata dai suoi capolavori, ma è illuminata anche dalle
opere che rappresentano il più basso livello sociale del
gusto". Alla nostra unità nazionale è toccato
così di venir "illuminata" dal fluorescente bagliore del tubo
catodico, piuttosto che dalle mirabolanti avventure di Rocambole.
Dimodochè un famigerato e onnipresente presentatore
televisivo, quando fu tacciato di essere nazional-popolare, invece
di prendersela a male - mostrando tra l'altro di ignorare uno dei
sacri testi del nostro pensiero poilitico (il che non sarebbe il
peggiore dei peccati) - avrebbe dovuto ringraziare del più
alto elogio che gli potesse (immeritatamente) capitare. Ma al di
là di queste considerazioni socio-storico-politiche che
possono anche apparire superate, Gramsci dà prova di speciale
acume quando coglie il segreto del funzionamento retorico,
strutturale e linguistico di questo tipo di letteratura, il cui
aspetto saliente consisterebbe nella scomparsa del nome e della
personalità dell'autore e nel sopravvento del personaggio
protagonista, che vive di vita propria: "Gli eroi della letteratura
popolare, quando sono entrati nella sfera della vita intellettuale
popolare, si staccano dalla loro origine 'letteraria' e acquistano
la validità del personaggio storico. Tutta la loro vita
interessa dalla nascita alla morte, e ciò spiega la fortuna
delle 'continuazioni', anche se artefatte: cioè può
avvenire che il primo creatore del tipo, nel suo lavoro, faccia
morire l'eroe, e il "continuatore" lo faccia rivivere, con grande
soddisfazione del pubblico che si appassiona nuovamente e rinnova
l'immagine prolungandola col nuovo materiale che gli è stato
offerto". Ma c'è di più. La fortuna del feuilleton
dipese da un gioco sottilmente perverso, condotto sul filo
dell'ambivalenza tra desiderio e soddisfacimento; ogni dispensa
conteneva un numero di peripezie dell'eroe o dell'eroina sufficiente
a tener desta la curiosità del lettore, ma non bastante ad
appagarlo fino in fondo, evitandogli l'ansiosa attesa della puntata
successiva: un meccanismo che provocò - lo ammisero essi
stessi - non poche difficoltà a George Sand e a Balzac,
abituati a un tipo di narrazione più distesa e meno
sincopata, ma del quale furono maestri Sue e Dumas, con grande
soddisfazione degli editori, che videro in pochi anni passare i
lettori dalle decine alle centinaia di migliaia. Fu una svolta
dell'attività editoriale e tipografica dalla sfera
artigianale a quella imprenditoriale e industriale. E anche in
questo senso, il romanzo d'appendice fa epoca nella storia del libro
e della letteratura.
Fin qui tutto è chiaro ed appartiene a quanto comunemente si
sa e si dice sull'argomento. Ma tra le note di Gramsci ce n'è
una che più sottilmente ci dà da pensare, quando
afferma: "Il romanzo d'appendice sostituisce (e favorisce al tempo
stesso), il fantasticare dell'uomo del popolo, è un vero
sognare ad occhi aperti".
Sognare ad occhi aperti... ed ecco che, dai frammenti delle storie
di Rodolphe, di Fleur-de-Marie, di Edmondo Dantès, del Gobbo
di Parigi, dell'Ebreo errante, delle Memorie del Diavolo, rinasce
davanti ai nostri occhi, come in una sorta di à rebours
proustiano, con i suoi palazzi e strade, passages rutilanti e vicoli
sinistri, giardini e malfamati quartieri medievali - miserabili, ma
intatti ancora dagli sventramenti di Haussmann - la "Parigi capitale
del XIX secolo": scenario grandioso e surreale posto sullo sfondo
delle vicende dei protagonisti di tanti feuilletons, ma
puntigliosamente e genialmente radiografato negli omonimi quaderni
di Walter Benjamin, fino a farne il simbolo dell'essenza della
modernità. Un mito ricostruito attraverso i suoi detriti e i
suoi aspetti apparentemente più marginali: la moda, il gioco,
la prostituzione, il flâneur, dandy girovago e trasognato in
mezzo alla folla anonima... Un mito, un sogno forse, da cui occorre
certo svegliarsi, ma anche - se è vero che rappresentò
l'essenza del Moderno - l'unico luogo in cui possiamo destarci, ad
onta di tutti i facili superamenti da parte degli eclettismi e dei
post-modernismi à la page. E' infatti tra le rovine di questo
mito (il mito del Moderno) che continuiamo ad aggirarci in questa
fine di secolo: i vecchi volumi fortunosamente recuperati dalle
umide casse in cui marcivano da anni ne sono un frammento, una
traccia tutt'altro che secondaria.
L'immagine trasfigurata della capitale francese, assurta a emblema
di un'epoca, è - con le parole de Il mito di Parigi di
Giovanni Macchia - "un simbolo luminoso che affonda le proprie
radici nel buio. Gerusalemme di un mondo laico, appare come un
enorme organismo in movimento, bello perché è vivo,
animato nel suo divenire da una vita sotterranea, piena d'ombre e
profonda".
E' a questa vita sotterranea, a questa perturbante miscela di
"splendori e miserie delle cortigiane" (per usare un famoso titolo
di Balzac), a questo brulichío di peccati e di delitti, di
abiezioni e di orrori che anima il "ventre" di Parigi, a questa
ininterrotta serie di sovrumane cattiverie redente da altrettanto
improbabili interventi salvifici da parte di giustizieri angelici
(Rodolphe, Jean Valjean, Edmondo Dantès), che sembra voler
dare voce il romanzo d'appendice. E questo non soltanto nel suo
archetipo indiscusso - I misteri di Parigi di Sue - ma anche nella
stragande maggioranza degli altri esemplari del genere, non solo
francese ma anche italiano (quante volte la parola diavolo, demonio,
ecc. compare nei titoli elencati in questo catalogo?).
Sempre con le parole di Macchia: "Nella prima metà
dell'Ottocento, dopo la Grande Rivoluzione, proprio quando il mito
di Parigi si affermava in senso assoluto come città-faro del
mondo occidentale, come la Gerusalemme di un mondo laico,
cominciò ad affacciarsi negli animi, nato quasi per un senso
di colpa, uno spaventoso presagio di distruzione. L'immagine di
questa Parigi in rovina assediò, come un incubo, la fantasia
di poeti e di artisti, mito tragico, di catastrofe, che
sembrò rappresentare, dopo l'illusione della luce, il trionfo
delle tenebre".
E' questo il dèmone che nutre inconsapevolmente (al di
là delle ideologie positiviste delle "magnifiche sorti e
progressive") l'immagine che ha di sé la nascente
società borghese moderna e che la insidia fin dalle sue
origini.
Quale altro ascendente si potrebbe attribuire all'archetipo sommo
della Fanciulla Candida Ingenua Innocente, perennemente condannata a
peregrinare tra bettole e bordelli e a subire innominabili stupri e
violenze in attesa della provvidenziale salvazione dell'eroe, se non
le Justine e le Juliette o le protagoniste femminili delle 120
giornate di Sodoma del Divino Marchese de Sade? Da dove altrimenti
può derivare, sia pure in tono minore (per venire al
côté italiano delle Carolina Invernizio o delle
Contessa Lara o dei Francesco Mastriani) il modulo della Sepolta
viva, della Piccina famosa per le sue spropositate sofferenze, per i
suoi grotteschi sballottamenti tra cimiteri e catacombe, tra
cadaveri decomposti e iperbolici amori di "scapigliati" spasimanti,
che ha fatto la fortuna di quel formidabile parodista che è
Paolo Poli?
Come si sa (o come si dovrebbe sempre ricordare) il sadismo non
esisterebbe senza castità, sentimentalismo, purezza,
dolcezza. Pare che la società borghese nascente e trionfante
(quella che poi si sarebbe chiamata società "moderna" tout
court) abbia esaltato e nutrito fin dal Settecento quelle
virtù con la stessa cura con cui si alleva un docile animale,
per togliersi poi il gusto di sgozzarlo. Basti pensare a Richardson
e alla sua celeberrima Clarissa, "la donzella di gran virtù e
bellezza che, insidiata e sedotta dal libertino Lovelace,
perseguitata dagli implacabili parenti, inferma dal dolore, si
spegne lentissimamente tra i funebri apparati di una morte
esemplare". Di qui prese le mosse, per Mario Praz (dal cui volume La
carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica è
tratta questa citazione), l'archetipo della Vergine perseguitata
(col suo pendant della Donna dannata, della Regina dei peccati di
baudelairiana memoria, pallidamente riflesso nella Milady di Dumas),
che scatenò l'immaginazione del Divino Marchese,
condizionando per due secoli le fantasie maschili sull'essenza del
femminismo.
Per un uomo come Sade, assai più "prossimo" a noi - come
avrebbe detto Klossowski - e allo spirito del nostro tempo di quanto
vorremmo riconoscere, "i vizi non vivono senza le virtù che
li alimentano e quasi li creano. La virtù - osserva Giovanni
Macchia - serve come vittima il vizio, il male vive del bene che gli
è necessario. E non meraviglia che gli autori preferiti dal
Marchese non fossero i romanzieri libertini come Crébillon e
Dorat o come il popolare ed ottimista Rétif de La Bretonne,
ma i commoventi e sentimentali Richardson - appunto! -
Prévost, Rousseau, Baculard d'Arnaud". Per non parlare
addirittura di Francesco Petrarca, dalla cui amatissima Laura egli
si vantava di discendere.
E se fosse stato proprio lo spettacolo della Virtù
continuamente insidiata dal Vizio, della Bellezza continuamente
inseguita dall'Orrore, della Morte nascosta sotto gli orpelli della
Moda e dei costumi "d'epoca", a sedurre torbidamente e
inconsciamente le masse dei lettori dei feuilletons, decretandone il
successo mondiale, al di là delle consapevoli intenzioni dei
loro autori e delle professioni di fede progressista, democratica e
populista di Eugène Sue, del "garibaldino" Dumas o di Victor
Hugo? Al di là della loro stessa indiscutibile abilità
nel creare intrecci e personaggi o nello stimolare le corde del
patetismo e della commozione? Del resto, come sappiamo, proprio
Eugène Sue, piuttosto cha apologeta, educatore e demagogo,
avrebbe potuto egregiamente incarnare, con la sua vita, la figura
del dandy così cara a Balzac e a Baudelaire; uno che, secondo
il popolare paradosso di Oscar Wilde, avrebbe ben volentieri
rinunciato al necessario, purché non gli fosse tolto il
superfluo.
Marx, nella Sacra famiglia, sbagliò, se voleva davvero
sottoporre a critica la società "borghese", a sottovalutare
il carattere sintomatico dei Misteri di Parigi e a preferirgli il
più "classico" Balzac. Secondo un vecchio ma non ancora del
tutto scontato paradigma di Lukács, solo le società
veramente "classiche", organicamente coese intorno ai loro miti e ai
loro valori, possono esprimere una vera letteratura epica, una vera
epopea. Per l'Europa borghese moderna (per l'Occidente, per la terra
della sera - Abenland - che reca iscritto sin dall'inizio, persino
nel codice genetico del suo nome, il destino di tramontare), minata
fin dalle radici dalla riduzione di tutta la vita a Merce, di tutti
i valori a Valore, l'unica epica possibile non era che quella - tra
parodistica e patetica - costituita dai feuilletons.
A suggello, l'illuminante passo di Walter Benjamin: "La creazione
fantastica si prepara a diventare pratica come grafica
pubblicitaria. La letteratura si sottomette al montaggio nel
feuilleton. Tutti questi prodotti sono in procinto di trasferirsi
come merci sul mercato. Ma esitano ancora sulla soglia [...]. Sono
gli avanzi di un mondo di sogno". Tra gli avanzi di questo sogno
continuiamo a vivere ancora oggi.